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IL CRITICO COME CURATORE

testo di Maurizio Bortolotti


foto di Attilio Maranzano

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INDICE

nota di Massimo Minini

introduzione

capitolo 1
Il dibattito attraverso le mostre. 1968-1999
note

capitolo 2
La critica dei curatori e l’esperienza dell’opera d’arte
contemporanea
note

capitolo 3
testimonianze

Jean-Cristophe Ammann
scheda introduttiva
conversazione

Jan Hoet
scheda introduttiva
conversazione

Pierre Restany
scheda introduttiva
conversazione

Harald Szeemann
scheda introduttiva
conversazione

Pier Luigi Tazzi


scheda introduttiva
conversazione

Denys Zacharopoulos
scheda introduttiva
conversazione

elenco delle principali mostre del periodo 1967-1999

indice dei nomi e delle mostre a cura di Gherardo


Bortolotti

foto di Attilio Maranzano


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Per il trentesimo compleanno della galleria vorremmo


dare spazio ad iniziative non immediatamente
celebrative della nostra attività.
Tra i progetti che promuoveremo a tale scopo ci piace
riservare un’attenzione particolare ad una pubblicazione
che racchiude dialoghi avuti da Maurizio Bortolotti con
alcuni importanti personaggi del mondo delle arti e della
cultura contemporanea. Le interviste nelle parole dei
loro protagonisti ripercorrono un periodo fervido di
movimenti, linguaggi, correnti ideologiche, scuole di
pensiero, grandi artisti.
I testi apparsi in questi anni su “Juliet” sono stati
completati con due saggi e vedono ora la luce con il
contributo della galleria.

Attilio Maranzano ha fissato con il suo sapiente mestiere


le immagini più belle delle nostre mostre di questi anni.

Molti degli artisti in questione sono anche protagonisti


delle interviste.
Ci è sembrata una coincidenza interessante per un
anniversario importante.

Massimo Minini
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INTRODUZIONE

L’insieme dei testi qui raccolti è costituito da una serie di


testimonianze di alcuni protagonisti - o testimoni
privilegiati - del dibattito artistico degli ultimi decenni. Si
tratta di sei resoconti critici di quegli avvenimenti, sotto
forma di discorso, e di due saggi, che cercano di
mettere a fuoco l’idea di opera d’arte che si è modellata
e ridefinita all’interno di quel dibattito, privilegiando
l’esperienza compiuta dagli artisti che ha consentito di
riformulare anche l’esperienza della critica d’arte.
La raccolta di questi testi costituisce, nell’insieme,
un’indagine all’interno del mondo delle mostre, che ha
pesato in modo preponderante sul dibattito artistico
recente. Non si ha qui la pretesa di essere esaustivi. Si
tratta, in effetti, di alcuni critici e curatori, le persone di
cui si è raccolto la testimonianza, ma quello che si è
provato a ricostruire con questo libro, non è
semplicemente una collezione di opinioni, ma qualcosa
di più ambizioso, il costituirsi di un particolare sguardo
critico; si potrebbe meglio dire di una determinata
prospettiva critica sull’opera contemporanea. Il libro è
perciò una raccolta di materiali che prova ad indagare
un’idea di opera d’arte che si è venuta costituendo nel
dibattito formatosi attraverso la produzione di mostre.
L’indagine lascia dietro di sé zone di luce e zone di
ombra. La speranza dell’autore, in presenza di
un’apparente mancanza di discorso critico e scartando
le prospettive teoriche poco legate alla effettiva realtà
dell’opera, è quella di essere riuscito a costruire un
punto di vista sull’opera contemporanea che nasce dalla
panoramica offerta da sei sguardi, che insieme danno
un punto di vista più generale. È chiaro che tale sguardo
critico presenta delle zone incompiute, celate o appena
svelate. Perciò, si potrebbero passare in rassegna le sei
differenti posizioni che emergono dai racconti, con i loro
aspetti positivi e quelli irrisolti, per cercare di definire non
solo i tratti dell’opera d’arte contemporanea che da essi
emergono, ma anche quelli di un pensiero critico non
ancora completamente raffreddato di cui si riescono a
cogliere le dinamiche interne.
Il percorso che ha portato l’autore, nel corso degli ultimi
anni, a viaggiare attraverso l’Europa per incontrare le
personalità critiche, ha costituito un viaggio nel tempo e
nello spazio alla ricerca di una dimensione, quella della
critica d’arte contemporanea. I viaggi e gli incontri avuti
con questi critici e curatori, a più riprese e con una
discussione aperta e continua, tra Parigi, la tenuta di
Kerguéhennec in Bretagna, la Valle Maggia in Canton
Ticino, la località di Capalle alle porte di Firenze,
Francoforte, Gent, Milano, Eindhoven, Basilea, Krefeld,
Stoccolma, Roma, hanno costituito un filo rosso di una
forma di apprendistato e uno stimolo a una riflessione
continua sulla condizione dell’opera d’arte
contemporanea e sul dibattito intorno ad essa.
Se la mostra è diventata così importante negli ultimi anni
ciò è dovuto al fatto che, come ha ben anticipato Yves
Klein, l’opera d’arte si è spostata sempre più verso una
dimensione di evento e la critica ha dovuto adattarsi a
questa struttura dell’opera, assumendo la capacità di
realizzare eventi espositivi che offrissero un taglio critico
e, nello stesso tempo, fossero in grado di dare una
lettura dell’opera predisponendo un modo di guardarla
che tenesse conto dell’esperienza da essa suscitata.

Brescia, settembre 2002

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Per la stesura e la pubblicazione di questo libro sono in


debito con moltissime persone. Oltre agli interpellati con
cui ho avuto le conversazioni qui pubblicate, da me
incontrati più volte e in più circostanze, che mi hanno
offerto consigli e punti di vista - a volte anche in modo
del tutto inconsapevole - ho contratto un debito di
riconoscenza con altre persone che qui vorrei
ringraziare. Mi riferisco in particolare a: Elio Grazioli, per
i molteplici consigli di organizzazione del materiale;
Giulio Ciavoliello, per il progetto editoriale, senza il quale
non sarebbe stata possibile la pubblicazione del libro;
Claudia Zanfi, per le relazioni determinate in questo
caso tra noi; Gherardo Bortolotti per aver redatto l’indice
analitico.
Un debito di riconoscenza l’ho contratto anche con
Roberto Vidali, il direttore della rivista Juliet, sulla quale
sono comparsi sette degli otto testi in volume. A mia
moglie Miranda e a mio figlio Alberto devo il loro
costante sostegno e incoraggiamento. Infine, un
ringraziamento va a colui che ha avuto l’idea di questo
libro e che ha voluto sostenerla fino in fondo, anche
quando sembrava che non sarebbe stato più possibile
portarla a compimento, il gallerista Massimo Minini.

NOTA AI TESTI

I testi di cui si compone il libro, tranne il primo capitolo,


che è inedito, sono stati tutti pubblicati sulla rivista Juliet.
Si offre qui di seguito una nota bibliografica sulla loro
pubblicazione:
“Pier Luigi Tazzi” (n. 75, Dicembre 1995-Gennaio 1996,
pp. 32-33); “Colloquio con Denys Zacharopoulos” (n. 79,
Ottobre-Novembre 1996, pp. 24-25); “Colloquio con
Pierre Restany” (n. 81, Febbraio-Marzo 1997, pp.
32-33); “Colloquio con Harald Szeemann” (n. 83, Giugno
1997, pp. 28-31); “Colloquio con Jan Hoet” (n. 84,
Ottobre-Novembre 1997, pp. 40-41); “La critica d’arte in
Europa” (qui ripubblicato come capitolo II con il titolo:
“La critica dei curatori e l’esperienza dell’opera d’arte
contemporanea”; n. 89, Ottobre-Novembre 1998, pp.
46-47); “Colloquio con Jean-Christophe Ammann” (n.
91, Febbraio-Marzo 1999, pp. 36-37).
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CAPITOLO 1

IL DIBATTITO ATTRAVERSO LE MOSTRE


1968-1999

IL DIBATTITO ATTRAVERSO LE MOSTRE. 1968-1999

In un'intervista del 1968, Daniel Buren affermava: “Sono


d'accordo con il testo di Rosenberg che dice che tutto
può essere arte non appena viene posto in un museo.
(...) Duchamp ha compreso che vi era qualcosa di falso
nell'arte, ma il suo limite è stato che, anziché
demistificare tutto ciò, lo ha ampliato. Prendendo un
oggetto manufatto e ponendolo fuori del suo contesto
egli ha semplicemente simbolizzato l'arte. La sua azione
ha teso, cioè, a 'rappresentare' e non a 'presentare
l'oggetto'. Infatti, come tutti gli artisti, Duchamp non
potrebbe presentare nulla senza 'ri-presentarlo'. E se ha
simbolizzato l'arte, è stato proprio perché non appena
esponeva uno scolabottiglie, una pala da neve o un
orinatoio, egli ha realmente stabilito che ogni cosa fosse
arte nel momento in cui tu la indicavi. (...) Duchamp non
è l'anti-arte. Egli appartiene all'arte. (...) Mettere una
pala da neve in una galleria o in un museo voleva
significare: 'Questa pala è diventata arte'".1
Le affermazioni di Buren pongono una serie di questioni
che si intrecciano tra loro e che vedono al centro della
produzione delle opere il momento espositivo. Infatti,
uno degli elementi che viene fortemente messo in
discussione in questi anni è il modello museale, che
sembra porre l’opera in uno spazio espositivo fuori del
tempo presente. L’immagine formalistica dell’opera
d’arte, cui il museo contribuiva a delineare con
chiarezza l’identità, perde di evidenza e si crea uno
scollamento tra questa concezione e quella che si viene
affermando nelle mostre d’arte contemporanea a partire
dalla fine degli anni Sessanta.
Lo storico dell'arte Donald Preziosi, che ha studiato a
fondo i meccanismi che presiedono all'organizzazione
dell'arte all'interno della nostra cultura a partire dalla
disciplina della storia dell'arte, fornisce una descrizione
particolarmente efficace del funzionamento del museo
come modello di rappresentazione culturale: "I musei
sono comunemente costruiti e organizzati in termini
linguistici come ricettacoli o 'collezioni' di oggetti la cui
disposizione in spazi istituzionali simula spesso le
relazioni geografiche, la situazione cronologica o lo
sviluppo evolutivo di una forma, di un tema, di una
tecnica, oppure di una persona o di un popolo. (...)
Malgrado la spesso frammentata o separata condizione
di questi esemplari, il loro collegamento all'interno dei
musei costituisce un sistema di rappresentazione che a
sua volta assegna a ogni pezzo una direzione evolutiva
e un peso. Il passaggio attraverso lo spazio
museologico (...) è comunemente formattato come
simulazione di un viaggio attraverso il tempo storico."2
In questo modo, il museo si pone come
rappresentazione dell'opera d'arte, tentando di fornire di
questa un'immagine che acquista senso solo all'interno
di un'organizzazione simulata della dimensione spazio-
temporale prodotta dallo spazio espositivo. Essa esiste
non in quanto spazio di vita quotidiana, ma come spazio
della rappresentazione. Mentre il tipo di opera d'arte che
si andava affermando alla fine degli anni Sessanta, del
quale il testo di Buren costituisce un’indicazione
importante, sfuggiva alla rappresentazione che ne dava
il museo e poneva al centro dell'attenzione il problema
dell'esporre l’opera, della sua “presentazione”.
In quello stesso periodo l'opera d'arte ha, infatti, assunto
particolari caratteri che la sottraevano alla condizione
della sua "ri-presentazione" museale; assumendo, così,
i tratti dell'opera-evento.3 Qui si coglie lo scollamento tra
la rappresentazione che di essa dava lo spazio museale
e il suo rinnovato rapporto con la sfera vitale, il tentativo
di definire l’opera a partire dallo spazio reale della vita
sociale. Perciò, il grande spostamento avvenuto a
partire dalla fine degli anni Sessanta è stato proprio il
porre l'opera nel contesto della vita di relazione e di
scambio sociale, in modo tale che questo fosse in grado
di conferire ad essa un senso pregnante. Così, l'opera
tende a configurarsi come evento che accade sotto lo
sguardo dello spettatore, si costituisce a partire dal suo
rapporto con il contesto vitale e tale rapporto diviene il
centro attorno a cui si organizza. Il momento del suo
accadere in un luogo determinato al di fuori
dell’organizzazione museale stabilisce un contatto con
lo spettatore che fa assumere ad essa una condizione di
nuovo inizio, o di nuova relazione, caratterizzando il suo
statuto di evento.
Nello stesso periodo, il luogo privilegiato dell'accadere
dell'opera diviene la galleria, in quanto questa è la
struttura in cui l'opera si collega al mondo grazie al
meccanismo economico. Lo spazio sociale ed
economico della galleria costituisce, infatti, una soglia
che pone l'opera nella condizione di riconnettersi, senza
mediazioni, alla sfera dei rapporti sociali. Ad essa si
affiancano tuttavia anche altri spazi non museali, come
le vecchie strutture industriali poste al di fuori del ciclo
produttivo, o i luoghi storici che mantengono un’impronta
derivata dalla loro destinazione originaria. Tutti questi
luoghi creano le condizioni migliori per l’esposizione
delle opere che assumono il carattere di evento.
Seguendo tale sviluppo l'opera d'arte si manifesta come
incidente che si produce nella sfera vitale e in continuità
con essa. Questo fa venire meno anche una serie di
segni codificati e riconoscibili, che costituivano il
linguaggio artistico all'interno della tradizione della
modernità ed erano finalizzati alla produzione artistica,
nonché criticati in relazione a tale esito. Inoltre, viene
meno anche il tradizionale rapporto contemplativo con
l'opera che si situava nell'isolamento spaziale del
museo, o della galleria intesa semplicemente come
surrogato di questo tipo di spazio. Tale perdita di
"distanza" dall'opera, ha avuto come conseguenza
anche la messa in crisi del testo del critico quale
momento di formulazione del giudizio estetico che
seguiva al momento contemplativo.
Il curatore di mostre ha reagito a questa situazione
cercando di cogliere la dimensione che l'opera d'arte
veniva assumendo, sforzandosi di mantenere attivo il
legame di questa con la sfera vitale. L'opera-evento si
determina, infatti, in relazione al contesto, assumendo
caratteristiche peculiari che il curatore cerca ogni volta
di definire nelle mostre. Ma la dimensione instabile
dell'opera d’arte contemporanea, il fatto che essa tenda
continuamente a sottrarsi alla rappresentazione unitaria
che ne dà il museo, rendono il tentativo dei curatori di
determinare un modello in grado di riassumerne le
caratteristiche in senso sincronico, sottoposto ogni volta
al rischio di fallimento.4 Tuttavia, la mostra realizzata dai
curatori diviene anche il luogo concreto in cui il loro
pensiero e la pratica artistica trovano un punto di
incontro. In questo modo, la mostra diviene uno
strumento di grande efficacia, in essa la teoria e la
pratica artistica tendono a fondersi nella progettazione
ed esecuzione dell'esporre le opere, costituendo un
terreno di discussione permanente con gli artisti, in
grado di definire le tracce di un pensiero visivo sull'arte
contemporanea.5
Nella conversazione raccolta in questo volume, Harald
Szeemann, parlando del dibattito artistico alla fine degli
anni Sessanta, afferma: "Credo che la verità sia che
l'opera allora poteva prendere la forma che voleva."6
Perciò, se il momento di intensa produzione creativa di
quegli anni poneva in modo radicale la questione del
modificarsi dello statuto dell'opera d'arte, al punto che
l'opera “poteva prendere la forma che voleva”, il
problema che nasceva di conseguenza era quello di
capire quale forma in particolare dovesse assumere. Il
dibattito che si è sviluppato attraverso le mostre, che qui
abbiamo provato a ricostruire nei suoi tratti essenziali,
ha cercato, di volta in volta, di rispondere a questa
domanda cruciale. Le varie fasi di esso sono state
caratterizzate dal tentativo dei curatori di indicare quale
forma venisse assumendo l'opera, il suo stabilizzarsi
temporaneamente in una molteplicità di aspetti che
condividevano uno stesso centro, registrandone la
dimensione mutevole, mostra dopo mostra.
Prima di ricostruire tale percorso, è tuttavia necessario
ricordare il lavoro di un artista che rappresenta un
inevitabile riferimento per questo dibattito: il francese
Yves Klein (1928-1962). Su di esso, Pierre Restany ci
offre un ritratto preciso nella testimonianza qui raccolta
nel III capitolo. 7
In un saggio pubblicato nel 1981 e intitolato "The Gallery
as a Gesture", Brian O'Doherty scrive: "Il gesto compiuto
da Klein utilizzando una galleria ha avuto il suo banco di
prova (trial run) alla galleria Colette Allendy a Parigi nel
1957. L'artista ha lasciato spoglia una piccola stanza per
- come egli stesso ha detto – ‘testimoniare la presenza
della sensibilità pittorica al suo stato primario’. Quella
'presenza di sensibilità pittorica' - il contenuto della
galleria vuota - è stata, credo, una delle intuizioni più
decisive dell'arte del dopoguerra."8
Tuttavia, ci avverte Restany, non è possibile vedere
Klein semplicemente come un anticipatore del dibattito
sull'arte che si è sviluppato alla fine degli anni Sessanta;
come sembra considerarlo invece O'Doherty nel suo
testo, stabilendo una sorta di rapporto genealogico con
l’arte di quel periodo. Così, anche se l’opera di Klein
costituisce un riferimento fondamentale per questo
dibattito, essa appare come una cometa nella
costellazione dell’arte degli ultimi decenni, la quale pur
non generando nulla da se stessa lascia una traccia
luminosa visibile e permanente.
Il lavoro di questo artista non solo ha messo in evidenza
che lo spazio vuoto della galleria può avere un valore
espressivo. Mostrando il vuoto, egli ha anche fatto
comprendere l’importanza del momento del mostrare
come soglia a partire dalla quale l’opera produce un
proprio spazio creativo.
In altre parole, il lavoro di Klein rappresenta un modello
forte nel tentativo di far sì che lo spazio del mondo - o
del Cosmo, come egli avrebbe preferito - si identifichi
con quello dell’opera, la quale diviene, a sua volta, luogo
di apertura verso il mondo. Così, il momento del
mostrare costruisce un rapporto diretto, senza
mediazioni, con la sfera vitale. Infatti, se l'immagine del
vuoto è divenuta un'immagine ricorrente della creatività
degli artisti degli ultimi decenni, il momento espositivo
costituisce un momento cardine che consente di
collegare l'opera alla sfera vitale, che per Klein era
l’intero universo. Ed è questo il modo, in definitiva,
mediante il quale egli riesce a costituire un importante
riferimento per il dibattito realizzato nelle mostre; il
quale, a sua volta, rappresenta un momento centrale nel
discorso sull’arte contemporanea.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, infatti, si è


diffusa la consapevolezza che il consistere dell'opera
d'arte, il nucleo della sua realtà percettiva, fosse sempre
più legato al momento espositivo.
Perciò, la mostra è divenuta un contenitore dove l'opera
si fluidifica o, addirittura, può svuotarsi di ogni
consistenza fisica quale oggetto da mostrare. In molti
casi essa diviene il luogo dove l’opera è prodotta per la
prima volta, ma anche quello della sua affermazione, in
un momento in cui ne viene intensificata la spinta
propositiva e si cerca di riconnettersi alle condizioni
poste dalle avanguardie artistiche di inizio secolo. La
proposta di una neo-avanguardia, che era stata
presente sin dalla fine degli anni Cinquanta, si trasforma
così, nel breve lasso di tempo che va dal 1968 al 1975,9
in un momento di forte accelerazione, durante il quale la
tendenza alla costituzione di gruppi artistici con varie
denominazioni acquista tratti esasperati.
In questo periodo, almeno due mostre, che sono in
seguito divenute dei riferimenti nel dibattito
internazionale, sembrano mettere in luce i tratti estremi
dell’azione espositiva. La prima, Carl Andre, Robert
Barry, Douglas Huebler, Joseph Kosuth, Sol LeWitt,
Robert Morris, Lawrence Weiner ("The Xerox Book") è
curata da Seth Siegelaub a New York nel 1968, la
seconda, When Attitudes Become Form, è curata da
Harald Szeemann l'anno seguente a Berna. Nella
mostra di Siegelaub, l'attenzione è spostata dal
manufatto artistico alle idee prodotte dall'artista,
presentate attraverso un libro riprodotto in 1000
esemplari. Il volume diviene così uno spazio espositivo
puramente ideale, in quanto strumento di
comunicazione che appartiene al mondo dei mass-
media.10 In questo modo, la mostra come luogo fisico di
esposizione delle opere, non esiste più, perde la sua
funzione di principale mezzo di divulgazione e
presentazione dell'opera. Nella mostra di Szeemann, cui
parteciparono sessantanove artisti, compresi quelli della
mostra di Siegelaub, la situazione espositiva,
determinata dalle scelte degli stessi artisti, appare molto
fluida e si afferma la dimensione dell'opera d'arte come
evento che sembra accadere in quel momento sotto gli
occhi del visitatore. In quest’ultimo caso, la mostra
mantiene i suoi tratti ma li radicalizza, ponendosi in una
condizione di immediatezza nella quale si stabilisce un
forte legame tra contenitore, luogo dell'esposizione e
opera, o le tracce di questa. Si crearono, cioè, le
condizioni affinché questa potesse andare al di là
dell'isolamento espositivo in cui si ponevano ancora la
pittura e la scultura come forme tradizionali.
Nello stesso periodo altre mostre diffondono questa
situazione, come Prospect 69, curata da Konrad Fisher
e Hans Strelow a Düsseldorf, Konzeption/Conception,
curata da Fisher e Rolf Wedewer, a Leverkusen,
entrambe del 1969, e Processi di pensiero visualizzato.
Junge italianische Avantgarde, di Jean-Christophe
Ammann a Lucerna nel 1970. L'idea della costruzione di
una nuova avanguardia sembrava essere allora il filo
conduttore del dibattito artistico e il segnale di questa
situazione era dato dal tentativo di creare sempre nuove
definizioni che attestassero l'esistenza di altrettanti
movimenti: Minimal Art, Systemic Art, Land Art, Earth
Art, Non Art, Process Art, Anti-form Art, Conceptual Art,
Arte Povera, Body Art, Iperrrealism, etc.11 All'interno di
tale necessità che attraversava il mondo dell'arte, la
mostra quale mezzo di esposizione delle opere ha
subìto una forte trasformazione, sino a divenire uno
strumento di primo piano nel dibattito artistico. Essa si è
imposta come strumento principale nell’affermazione di
artisti e movimenti, sopravanzando il testo scritto
pubblicato dalla rivista. Così, la mostra è divenuta un
luogo di accadimento dell’opera e di attivazione del
processo creativo in essa implicito.
Tra le molte istanze che si muovevano al di sotto del
recupero dell'idea di avanguardia, per ribadire la
presenza della nuova arte in chiave anti-formalistica alla
fine degli anni Sessanta, due, in particolare, ci appaiono
oggi come le più radicali nel produrre conseguenze
profonde nel dibattito artistico: la linea sostenuta
dall'Arte Concettuale della negazione della dimensione
visiva dell'arte, per la quale l'impiego del libro come
mezzo di divulgazione costituisce una palese
dichiarazione di inutilità del vedere la mostra;12 la linea
che attuava una riformulazione dell'idea del visivo
passando attraverso l'opera d'arte intesa come evento,
che era già presente nella mostra di Szeemann,
nonostante alcuni degli artisti che vi esponevano
appartenessero alla linea concettuale. Tutto ciò
sottendeva una sorta di tensione interna al tentativo di
generale affermazione dell’arte di quegli anni, attraverso
la chiave di lettura delle avanguardie.
Il momento culminante del dibattito di questo periodo è
costituito dalla Documenta 5 del 1972, diretta da
Szeemann con la collaborazione, tra gli altri, di Jean-
Christophe Ammann, Bazon Brock, Jhoannes Cladders,
Konrad Fisher. Infatti, Szeemann si era reso conto che il
meccanismo avanguardistico, con il quale si cercava di
rappresentare la realtà dell'opera, aveva generato una
situazione di complessità e che i molti termini inventati
per definire i vari gruppi avevano creato una situazione
di continua scissione all'interno del mondo dell'arte.
Perciò, in questa mostra egli offre, da un lato, una
rappresentazione della situazione di complessità;
dall'altro, introduce un punto di vista che consente di
interpretarla facendo leva sull'individualità creativa
dell'artista: la nozione di "Mitologie individuali". In un
testo di commento alla mostra, Szeemann afferma: "Il
nome di 'Mitologie individuali' ha il vantaggio di essere
assolutamente aperto. Si tratta di provare a rovesciare
la situazione e cercare un singolo mitologo fra gli artisti
concettuali, gli strutturalisti, i realisti: ogni vero artista è
unico. Ossia, a partire dalle mitologie individuali, provate
con acume e intensità, accettandone la diversità
formale, a interrogare la differenziazione dei livelli della
realtà secondo l'ipotesi del divenire dell'opera pittorica, e
vedrete che è l'enunciato soggettivo, il messaggio, a
gettare più ponti."13
In questo modo, la "Documenta 5" accoglie in sé la
situazione di complessità che appartiene al mondo
esterno, in cui l'ambito di interazione dell'arte viene
ampliato sino a comprendere, nelle diverse sezioni, il
"Realismo triviale", il "Realismo", le "Immagini
devozionali", le immagini della "Propaganda politica",
quelle della "Fantascienza", delle "Utopie", dei "Malati
mentali", oltre ai "Musei di artisti", alle "Mitologie
individuali-Raffigurazioni del Sé-Processi" e l'arte delle
"Idee". La mostra diviene, in questo modo, un momento
di elaborazione teorica, ed in essa Szeemann cerca di
dare una rappresentazione del mondo delle immagini di
quel momento. Anche se le sezioni non sono disposte
secondo un criterio gerarchico e i materiali sono posti
tutti sullo stesso piano, a rappresentare la complessità
del presente, il curatore prova a fornire un modello di
opera d'arte che gli sembra adeguato per quel
momento. Egli non voleva certamente sostenere che
tutto quanto esposto fosse arte, quanto semmai che si
era in presenza di una situazione di complessità, per
andare all'origine della quale era necessario assumere,
di volta in volta, il punto di vista di ciascun artista,
entrare all'interno del suo mondo. Questo spostamento
di attenzione dal prodotto finito, connotato
stilisticamente, cui la stessa nozione di forma
dell’avanguardia si richiamava, al processo creativo di
ogni artista, già implicito nella posizione di When
Attitudes Become Form, costituisce l'elemento di novità
che si collega all'uso della mostra come momento in cui
tale processo trovava la sua attuazione. Inoltre, con la
Documenta 5, Szeemann crea uno sganciamento
dall’idea di un punto di vista fisso, che concepisse le
vicende dell'arte moderna come uno sviluppo
cronologico-lineare di stili artistici, e sancisce la
creazione di un punto di vista interno all’opera, in un
contesto storico dove prevale una dimensione di forte
relativismo, determinato da una serie di cambiamenti e
crisi nei comportanti sociali. Il più evidente di questi è la
contestazione studentesca, che innesta una situazione
di reazioni a catena.14
Altre mostre del periodo che documentano l’affermarsi di
questa situazione artistica sono Sonsbeek 71, curata da
Wim Beeren ad Arnhem nel 1971 e Carl Andre, Marcel
Broodthaers, Daniel Buren, Victor Burgin, Gilbert &
George, On Kawara, Richard Long, Gerhard Richter,
curata da Yves Gevaert a Bruxelles nel 1974. In questo
periodo, si assiste a un processo di totale apertura nella
concezione dell'opera o di "smaterializzazione", per
utilizzare un termine introdotto nel dibattito da Lucy
Lippard, che coglieva, tuttavia, soltanto un aspetto di
tale processo. Ed è grazie a questa condizione di
apertura che l'opera d'arte improvvisamente appariva
offrire molte possibilità, dandosi come mondo nuovo da
esplorare. Per riprendere il punto di vista offerto da
Szeemann con la Documenta 5, essa appariva carica di
promesse e di valenze, che parevano richiamare
l'equivalenza di un mondo utopico. Tuttavia, al di là di
ogni diretto e fin troppo evidente intreccio con la
dimensione politica, l'opera d'arte ha ottenuto in questo
modo uno statuto allargato, fino a riuscire ad inglobare il
mondo all’interno della sua sfera d’azione sensibile e
ideale. Ed è su questa condizione di allargamento
dell'opera che lavoravano artisti e curatori, cercando di
renderla evidente nelle loro mostre. Così, l'opera
appariva possedere un orizzonte più ampio, non più
coincidente con la sola condizione oggettuale e formale
del manufatto artistico, ma capace di costruire una
dimensione più vasta di interazione con la sfera sociale.
Essa sembrava inglobare in sè le istanze immaginarie
prodotte da un momento di frattura sociale. In questo
modo, l'opera d'arte usciva dalle categorie formali sino
ad allora adottate e per mezzo di questo travaso
produceva un allargamento della propria ricezione, sino
a mettere in evidenza un piano ancora inesplorato. Il
compito dei curatori consisteva, perciò, nel mettere in
luce questo piano scoperto dagli artisti, realizzando
mostre dove tale orizzonte fosse delineato nel modo più
evidente possibile. Perciò, l'esperienza dell'opera esce
dalle categorie artistiche tradizionali per collocarsi
all'interno di un contesto sociale carico di fermenti,
rispetto al quale essa si ridefinisce. La possibilità di
essere riletta a partire da un contesto rinnovato, le
conferisce questa dimensione di apertura. Così, l'opera
d'arte acquista un valore specifico, in definitiva artistico,
grazie ad una situazione sociale che sostiene
l'allargamento d'orizzonte dell'opera stessa, realizzato
dagli artisti, e contribuisce a darle senso.
Verso la metà degli anni Settanta, la spinta che
sosteneva questa concezione dell'opera, che si tentava
ancora di legare all’idea della creazione di una nuova
avanguardia, va in crisi e i segnali di tale situazione
sono presenti in alcune mostre che in questo periodo
sviluppano il dibattito in molte direzioni, producendo
una situazione di dispersione.15 Una di esse,
Transformer, curata da Jean-Christophe Ammann nel
1974-75 a Lucerna, mette in evidenza il rapporto con la
cultura di massa, affrontando il tema del travestitismo.
Sono qui esposte non solo le immagini realizzate da
artisti come Urs Lüthi e Katharina Sieverding, ma anche
icone di cantanti rock quali Mick Jagger e David Bowie.
La condizione del superamento dei confini tra la
dimensione maschile e quella femminile, che appariva
trasversale in quel momento all'ambito sociale, diviene
un punto unificante che consente di collegare il lavoro
della Body Art e dell’arte della Performance alla
spettacolarità di massa prodotta dai cantanti rock con
l’impiego del proprio corpo. Tuttavia, l'opera d'arte
sembrava a questo punto dissolversi in un contesto che,
allargato a un'idea di creatività popolare, rendeva più
indeterminato l'orizzonte del suo rapporto con la sfera
vitale su cui si era fondata negli anni precedenti.
Un analogo segnale di crisi e di ripensamento della
condizione dell'opera d’arte collocata entro la
concezione dell’avanguardia, è presente anche nella
mostra dedicata da Szeemann alle Machines
Célibataires, nel 1975-77, che prende spunto dalla
rappresentazione contenuta nella parte inferiore del
Grand Verre di Duchamp. Infatti, ripensare a quest'opera
significava andare al nucleo stesso del lavoro di un
artista che nei due decenni precedenti era stato
utilizzato come una delle figure di riferimento per
riattualizzare il discorso dell’avanguardia. La mostra
mette a fuoco una lettura della macchina in quanto
immagine della condizione di celibato. In essa,
qualunque idea di avanguardia sembra esaurirsi
nell'esposizione di dispositivi di auto-sollecitazione
erotica o di tortura, che appaiono come immagini sterili
in quanto rappresentazioni di una condizione
sessualmente improduttiva. La dimensione carica di
promesse dell'opera contemporanea e l'orizzonte ampio
che le opere degli artisti avevano suggerito qualche
anno prima sembrano qui esaurirsi in un cerebralismo
senza esito, spingendo il lavoro degli artisti verso una
condizione senza sbocco.16
A fronte di questa situazione di dispersione e di perdita
di centralità dell’opera, vi sono tentativi di affermare
questa in modo perentorio, che tuttavia sembrano
segnare un suo distacco dal contesto, dal luogo in cui
esse si collocano. All’interno di tale linea si possono
porre la sezione della scultura all'aperto "Plastik/
Environment" della Documenta 6, curata da Manfred
Schneckenburger, Edward Fry, Jan Van der Mark, e
Skulptur Austellung in Münster, curata da Kasper König,
entrambe del 1977; Ambiente/Arte: dal Futurismo alla
Body Art, sezione della Biennale di Venezia del 1976,
curata da Germano Celant.
Nella prima, dove erano esposte opere di Richard Serra,
Joel Shapiro, Wolf Wostell, il punto di vista adottato era
quello di uno sguardo antropologico entro il quale le
opere dovevano situarsi, in una condizione a cavallo tra
la dimensione della scultura e quella dell’ambiente. Si
trattava di individuare un punto di cambiamento nello
statuto dell’opera, cercando di identificare questa se non
all’interno di una categoria formale precisa, almeno nel
passaggio tra l’una e l’altra. Nella seconda, invece,
artisti quali Carl Andre, Michael Asher, Joseph Beuys,
Donald Judd, Claes Oldemburg, Ulrick Rückriem erano
invitati a realizzare delle opere all’interno di uno spazio
pubblico, la città di Münster e i suoi dintorni. Tuttavia,
essi, sottraendosi alla questione posta, hanno preferito
affermare il valore universale della loro opera al di là del
luogo o del contesto in cui questa si collocava. Senza
mezzi termini, Donald Judd, scrive in catalogo: “Le
categorie di pubblico e privato non significano nulla per
me. La qualità di un’opera non può essere modificata
dalle condizioni del suo essere mostrata o dal numero
delle persone che la vedono”. E aggiunge: “Il pezzo
circolare in Münster potrebbe andare altrettanto bene in
un ranch. I suoi requisiti sono semplici e generali: un
largo spazio aperto e una pendenza moderata.”17
La terza mostra affronta, invece, la questione
proponendo un ripensamento della dimensione
dell'ambiente nell’opera degli artisti che vanno dalle
avanguardie di inizio secolo a quelle della metà degli
anni Settanta. Attraverso tale approccio, si è cercato di
presentare le diverse situazioni puntando sulla
riconoscibilità dei segni che caratterizzano le opere
ambientali di alcuni, dai futuristi agli astrattisti, agli artisti
dada, fino ai contemporanei, quali Vito Acconci, Dan
Graham e Michael Asher. L'idea di apertura dell'opera e
di allargamento del suo orizzonte, che si era imposta in
precedenza, sembra qui svuotata e ricondotta alla
riconoscibilità esteriore dei suoi segni, allineati in una
prospettiva storica che cercava di definire la categoria di
arte-ambiente.
Questo momento di crisi trova sbocco in una serie di
alternative che si prospettano tra la fine degli anni
Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il panorama è
variegato. Szeemann cura, dal 1978 al 1980, la mostra
itinerante su Monte verità. Si tratta dell’affermazione del
carattere elitario e di salvazione dell’arte praticata da
una comunità ristretta di individui che viveva agli inizi del
Novecento in un luogo appartato sul versante svizzero
del Lago Maggiore. Jan Hoet propone a Gent la mostra,
Kunst in Europa na ’68, che è un ripensamento dell’arte
del periodo compreso tra il 1968 e il 1980. Ad essa
partecipano, tra gli altri, Art & Language, Joseph Beuys,
Christian Boltanski, Daniel Buren, Marcel Broodthaers,
Hans Haacke, Gilbert & George, Richard Long, Luciano
Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz. Con Paris-New
York, nel 1977, Pontus Hulten inizia al Centre Georges
Pompidou di Parigi la serie delle mostre con le quali
esplora l’arte del Novecento nella prospettiva delle
avanguardie storiche. Questo tentativo di storicizzazione
è un ulteriore segnale della fine dell’esperienze
dell’avanguardia. Inoltre, in questo momento veniva
recuperata l’esperienza della pittura, che richiamava la
dimensione del museo e creava una nuova condizione
di separazione tra l’esperienza dell’arte e quella della
sfera vitale. Un suo primo consistente manifestarsi
trova spazio nella Biennale di Venezia del 1980, curata,
tra gli altri, da Harald Szeemann e da Achille Bonito
Oliva.18 Nella sezione Aperto, ideata da Szeemann,
partecipano artisti come Jonathan Borofsky, Francesco
Clemente, Nicola De Maria, Martin Disler, Julian
Schnabel. Questa linea è ulteriormente ripresa e
ampliata dalla mostra A New Spirit in Painting, tenuta a
Londra nel 1981, curata da Christos Joachimides,
Norman Rosenthal e Nicholas Serota, e da Zeitgeist a
Berlino, nel 1982-83, curata da Joachimides e
Rosenthal.
Nello stesso periodo, Kasper König realizzava a Colonia
nel 1981, con la collaborazione del curatore del catalogo
Laslo Glozer, Westkunst. Zeitgenössiche Kunst nach
1939 e a Düsseldorf nel 1984 Von hier aus, due mostre
che costituiscono un significativo cambiamento di
prospettiva. Nella prima, viene attuata un’accurata
ricostruzione dell’arte e del dibattito artistico a partire
dalla Seconda guerra mondiale. Si trattava di un
percorso storico-geografico nella situazione artistica dei
precedenti quarant’anni, che sembrava utile per ritrovare
una direzione al dibattito artistico, caduta la prospettiva
di riattivare un rapporto diretto con le avanguardie
storiche. Si va perciò dalle opere dei componenti di
queste, come Marc Chagall, Wassily Kandinsky, Paul
Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, alle situazioni nei
singoli centri artistici di Parigi, Londra, Zurigo, New York;
alla individuazione di una serie di temi quali “Le
tentazione di S. Antonio”, “Per Sade I”, “Gli ostaggi”, “La
bellezza come fede”, “Concetti spaziali”, “Monumento al
Prigioniero politico”, “Spagna”, “Natura”, “La scena
americana”, “Il monocromo”, “L’arte funzionale”. Gli
artisti coprono un’ampia selezione, che va da Jean
Dubuffet e Jean Fautrier a Antonin Artaud, René
Magritte, da Costant e Asger Jorn a Jackson Pollock,
Willem de Kooning, Barnett Newman, da Josef Albers a
Nicolas de Staël, da Max Bill a Piero Manzoni, da
Francis Bacon a Edoardo Paolozzi e Richard Hamilton,
da Edward Hopper a Jasper Johns e Robert
Rauschenberg, a Yves Klein, Christo, Raymond Hains,
da Marcel Duchamp a Diter Rot. Infine, la mostra
delinea un panorama dell’attualità, rappresentata da
Jonathan Borofsky, Francesco Clemente, René Daniels,
David Salle, Anselm Kiefer, Julian Schnabel, Michael
Asher, Jeff Wall, Jenny Holzer, Urs Lüthi, Franz West,
Thomas Schütte.
Nella seconda mostra, Von hier aus, il cui titolo è tratto
da un testo di Joseph Beuys, König sposta l’asse
dell’attenzione da una prospettiva internazionale a una
dimensione territoriale. Il cambiamento introduce un
nuovo punto di vista. Infatti la mostra, realizzata
all’interno di un padiglione della fiera di Düsseldorf con
strutture architettoniche di vario tipo all’interno e
all’esterno delle quali sono esposte le opere, ospita solo
artisti tedeschi. Questo era reso possibile dalla vitalità
dell’arte tedesca, che in quel momento si esprimeva in
tutte le direzioni: dalla pittura all’installazione, al video,
alla scultura.
Così, a differenza di Westkunst, che faceva il punto sulla
scena internazionale, questa mostra sposta l’attenzione
su un territorio specifico. Il salto indicato era molto forte,
poiché gli artisti selezionati erano tra loro molto diversi
per sensibilità e tipo di linguaggio, ma tutti provenivano,
per nascita o per elezione, dal territorio tedesco. Così,
Lothar Baumgarten e Georg Baselitz, Bern e Hilla
Becker, Markus Lüperz, Hans Haacke e A.R. Penck,
Dieter Roth e Thomas Schütte, Nam June Paik e
Reinhard Mucha venivano accostati con l’unico scopo di
riflettere su uno spazio geografico che costituiva un
ambito culturale preciso, uno spazio vitale del quale le
opere portavano i segni caratteristici. Il discorso sull’arte
era in questo modo spostato da una dimensione
universalistica, nella quale l’opera, pur pensata per un
luogo definito, si dava come sempre uguale a se stessa,
verso una condizione che la metteva in rapporto con un
particolare territorio. Ed è proprio grazie al fatto che
essa si radicava all’interno di un territorio connotato
culturalmente che poteva acquisire un senso specifico.
In questo periodo, l’attenzione è perciò rivolta alle radici
dell’opera, al legittimarsi di questa al di là del discorso
dell’avanguardia, che aveva sostenuto fin qui l’arte
contemporanea. Il recupero dell’ambito territoriale dove
si colloca l’opera, è un modo per affrontare la
dimensione storica di questo territorio mantenendo
attivo il legame vitale con il presente, senza ricadere
nella dimensione formalistica del museo. In questo
modo, le tracce del passato vengono percepite come
vitali in quanto riassorbite e vissute comunque all’interno
di una dimensione temporale del presente. La capacità
dell’opera d’arte in questi anni diviene quella di attivare
tale relazione con ciò che appartiene e si mantiene
ancora attivo all’interno della sfera vitale.
In questo periodo, dopo Der Hang zum
Gesamkunstwerk, una riflessione sull’idea di opera
d’arte totale, realizzata tra il 1983 e il 1984, Szeemann
propone a Zurigo nel 1985, Spuren, Skulpturen und
Monumente ihrer präzisen Reise. Dopo essere stato uno
dei sostenitori dell’esperienza di apertura dell’opera, egli
entrava all’interno del dibattito in corso cercando di
ridisegnare i confini della categoria tradizionale della
scultura sulla base dell’esperienza acquisita. Tra gli
artisti vi erano Costantin Brancusi, James Lee Byars,
Alberto Giacometti, Marisa Merz, Medardo Rosso, Ulrich
Rückriem, Richard Tuttle, Cy Twombly, Franz West. La
dimensione del “silenzio” che appartiene alle sculture
qui esposte, sottolineava la capacità dell’opera di crearsi
un mondo, una dimensione che si poneva come
alternativa alla “pittura selvaggia”.19
In quegli anni, si cercava di mettere a punto una
dimensione dell’opera che, pur tenendo conto della
situazione di esaurimento verso cui era confluita l’arte
intorno alla prima metà degli anni Settanta, cercasse di
mantenere quei tratti di apertura che erano state le
caratteristiche salienti delle opere di quel periodo.
Alcune mostre provano a sviluppare il discorso in questa
direzione, quali: Promenade; Sonsbeek 86; L’epoque, la
mode, la morale, la passion. Aspect de l’art d’aujourd’hui
1977-87; Skulpturprojekte in Münster. 1987. Tuttavia,
quella che offre più possibilità di sviluppo è Chambres
d’amis.
In Promenade, curata da Adelina Von Fürstenberg nel
1985 all’interno del parco Lullin vicino Ginevra, il luogo
nel quale sono collocati i lavori diviene lo spazio reale
dell’esperienza fisica dell’opera; dell’incontro con essa e
del suo radicamento in un luogo preciso. La dimensione
in cui essa si presenta non è utopica, o astratta, ma
concreta. La presenza degli artisti degli anni Settanta,
come Vito Acconci, Joseph Kosuth, Mario Merz,
Rebecca Horn, Maria Nordman, accanto alla nuova
generazione degli anni Ottanta, come Ettore Spalletti,
Marco Bagnoli, Matt Mullican, trova come elemento
comune il tentativo di radicare l’opera d’arte nel luogo
specifico del parco, pur mantenendo la dimensione di
apertura delle opere degli anni Settanta.
Nel 1986, Jan Hoet, direttore del Museum Van
Hedendaagse Kunst di Gand, organizza la mostra
Chambres d’amis e insiste anch’egli sul rapporto con il
luogo. In particolare, questa mostra costruisce un
rapporto ambiguo tra lo spazio istituzionale del museo,
dove sembra collocarsi l’arte come valore, e lo spazio
della vita quotidiana, dove l’opera si realizza con
pienezza. Scrive il curatore: “(…) per tre mesi una
cinquantina di abitanti di Gand tengono tutta o parte
della loro casa a disposizione di altrettanti artisti.
Costoro si propongono come compito quello di
trasformare tali ambienti in qualcosa di riconoscibile
come ‘arte’, entro i limiti loro posti dai proprietari o dagli
inquilini.”20 Il portare l’opera nuovamente all’interno
dello spazio della vita, ma questa volta nella dimensione
più intima e concreta di un’abitazione, costruisce un
nuovo percorso creativo. Si tratta non solo di radicare
l’opera nel luogo, ma anche di ritrovare un rapporto
fondamentale con lo spazio della quotidianità. Nel
confronto, al limite del travaso, tra la dimensione del
museo e quella della quotidianità, si instaura un rapporto
di scambio che lascia affiorare l’opera in termini più
concreti e fisici, nella relazione che essa instaura con lo
spazio circostante. La mostra, alla quale partecipano, tra
gli altri, Dan Graham, Sol LeWitt, Bruce Nauman,
Joseph Kosuth, Lawrence Weiner, Daniel Buren, Mario
Merz, Jannis Kounellis, Günther Förg, Juan Muñoz,
Ettore Spalletti, Jan Vercruysse, Jean-Luc Vilmouth,
pone come nuovamente vitale la relazione sottile tra
l’opera e lo spazio dove avviene la vita. Se il modello di
riferimento per una parte dell’arte di quegli anni era
ritornato ad essere il museo, con la sua implicita
dimensione storica, Hoet ritrova nella dimensione intima
dell’abitazione uno spazio per l’arte, che nella tradizione
borghese si pone come altrettanto efficace di quello
museale, riconducendo l’opera verso lo spazio della vita.
In questo modo, la mostra diviene un riferimento
fondamentale nel dibattito di quegli anni.
Nello stesso anno, Saskia Bos cura Sonsbeek 86, nel
parco della città di Arnhem in Olanda. Scrive in catalogo:
“Sonsbeek 86 riunisce un numero di artisti assai
divergenti sotto un ampio denominatore, nel tentativo di
mostrare quali sono i nuovi sviluppi così come i loro
riferimenti nel passato.”21 Infatti, gli artisti presentati
sono sia quelli emersi alla fine degli anni Sessanta e
all’inizio degli anni Settanta che una nuova generazione
in via di definizione in quegli anni. Così, accanto ad
artisti come Michael Asher, Joseph Beuys, Marcel
Broodthaers, Dan Graham, Bruce Nauman, Mario e
Marisa Merz, Claes Oldenburg, vengono presentati
artisti più giovani come Marco Bagnoli, Richard Deacon,
Fischli/Weiss, Katharina Fritsch, Jenny Holzer, Anish
Kapoor, Reinhard Mucha, Thomas Schütte, Franz West,
Heimo Zobernig. La presenza di una nuova generazione
veniva così chiaramente indicata, producendo
conseguenze per il dibattito successivo.
La situazione viene ripresa e ribadita l’anno seguente,
nella seconda edizione dello Skulpturprojekte in
Münster, curata ancora da Kasper König. Il luogo che
ospita l’esposizione è sempre la città di Münster e i suoi
dintorni, così come in Sonsbeek 86 è il parco della città
olandese e in Promenade, il parco della città svizzera. In
tutti questi tentativi, viene messa a fuoco l’importanza
dei luoghi dove si articola il rapporto tra l’opera d’arte e
lo spazio delle città, così come in Chambres d’amis il
rapporto si realizza con lo spazio interno dell’abitazione.
Si afferma, dunque, la necessità di spingere l’opera al di
fuori della dimensione museale e mantenerla in luoghi o
spazi aperti di vita sociale, i quali si connotano per il loro
carattere culturale e per il loro darsi quali strutture che
manifestano i tratti della civiltà che le ha prodotte.
La forma stessa del parco mostra le sue radici di
tipologia storica, offrendo la possibilità all’opera di
inscriversi all’interno di questo discorso. Questa
mantiene, così, il suo carattere di apertura verso lo
spazio vitale pur legandosi e approfondendo la
dimensione verticale della civiltà nel cuore della quale si
insedia.
All’inizio degli anni Ottanta, la mostra Zeitgeist si era
proposta come l’affermazione di un crollo dei valori
dell’arte contemporanea che poteva condurre a una
riflessione sulla temporalità e, di conseguenza, a un
recupero della dimensione del museo. Nel 1988, ancora
a Berlino, Szeemann propone Zeitlos. Con essa egli
indica, invece, l’esperienza “senza tempo” dell’opera
d’arte contemporanea. Non vi è qui l’intenzione di
recuperare un’idea di universalità dell’arte nel senso
tradizionale, ma di affermare ancora una volta
un’esperienza di apertura totale dell’opera, che non può
essere circoscritta dentro una dimensione storico-
linguistica, fondata su uno scontro tra differenti linguaggi
e collocata all’interno di una condizione di presunto
mutamento storico. Quest’ultima appare piuttosto come
una lettura di superficie degli avvenimenti.
Di questo stesso periodo, è anche il tentativo
retrospettivo di circoscrivere il decennio compreso tra la
fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta
compiuto con L’epoque. La mode, la morale, la passion.
Aspect de l’art d’aujourd’hui 1977-87, organizzata nel
1987 dal Centre Pompidou di Parigi e curata da Bernard
Blistène, Catherine David, Alfred Paquement. La mostra
prende atto di un allargamento di campo del dibattito
artistico, che avveniva in quel particolare momento,
mostrando la convivenza di varie prospettive e vari
linguaggi che si affiancavano gli uni accanto agli altri.
Perciò, ad artisti come Georg Baselitz, Francesco
Clemente, Robert Combas, Willem de Kooning, si
ponevano come contemporanei Daniel Buren, Joseph
Beuys, Walter De Maria, Bruce Nauman, Jannis
Kounellis, Richard Serra, Donald Judd; a Keith Haring,
Jenny Holzer, Barbara Kruger, Cindy Sherman,
venivano accostati altri come Bazile Bustamante,
Reinhard Mucha, Matt Mullican, Thomas Schütte. Per
sottolineare, inoltre, la complessità della scena artistica
del momento, sono stati invitati video-artisti, scenografi,
cineasti come Bill Viola, Robert Wilson, Francis Ford
Coppola, Jean-Luc Godard, Rainer Werner Fassbinder,
Andrei Tarkovski, Wim Wenders.
Afferma Bernard Blistène in catalogo: “Questi dieci anni
non sono gli anni della pittura e ancora meno del suo
ritorno, (…) ma forse di un dubbio generale a proposito
di queste compartimentazioni (…) sono le forme stesse
del giudicare, i modelli, le classificazioni che sono colte
in difetto, (…) Mi spingerei fino a dire che ciò che
traduce per me questo decennio è proprio il fatto che
tutto è possibile, ma a quale scopo”.22
Verso la fine degli anni Ottanta, due mostre allargano
ulteriormente il campo del dibattito: Magiciens de la
terre, realizzata ancora a Parigi da Jean-Hubert Martin
nel 1989, e High & Low. Modern Art and Popular
Culture, curata da Kirk Varnedoe al Museum of Modern
Art di New York, nel 1990-91.
La prima è il più importante tentativo di questi anni di
aprire verso la cultura extra-occidentale. Questo
tentativo ha valore in quanto richiama l’attenzione su
una questione importante, ma il suo esito è incerto,
perché la scelta degli artisti, come Marina Abramovic,
Alighiero e Boetti, Christian Boltanski, Louise Bourgeois,
James Lee Byars, Rebecca Horn, Eric Bulatov, Ilia
Kabakov, Krzysztof Wodiczko, Shirazeh Houshiary,
Rasheed Araeen, Frédéric Bruly Bouabré, Chéri Samba,
segue un’impostazione tradizionale del problema, che
porta il curatore ad affermare: “L’idea comunemente
accettata che non ci sia creazione nelle arti plastiche se
non all’interno del mondo occidentale o fortemente
occidentalizzato è da mettere in conto alle
sopravvivenze dell’arronganza della nostra cultura.”23
Tuttavia, la mostra riesce, pur con la debolezza del suo
impianto teorico e una selezione di artisti che si situano
ancora in buona parte all’interno della cultura
occidentale, a segnare un’apertura verso la cultura
extra-occidentale, costituendo un punto di riferimento
per il dibattito successivo.
La seconda mostra, organizzata dal Museum of Modern
Art di New York, costituisce una storica apertura di
questo alla cultura di massa, che mette in discussione
l’idea di purezza e di isolamento formale dell’arte
moderna in generale e americana in particolare. Tra gli
artisti contemporanei invitati, vi sono Jeff Koons, Cindy
Sherman, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Kenny
Sharf, Barbara Kruger, Sherry Levine, Peter Halley,
Jenny Holzer. Al contrario della precedente, qui il forte
impianto teorico della mostra contrasta con la sua
effettiva capacità di offrire una dimensione forte
dell’opera d’arte. Infatti, non è la presenza dell’opera a
prevalere ma il discorso intorno ad essa. Viene
affermata e ribadita l’importanza dei giovani artisti
americani e la critica radicale che alcuni di essi
compiono all’idea di originalità nella produzione
dell’opera d’arte.
Delle ultime tre mostre soltanto Magiciens de la terre
riesce ad avere reali conseguenze sul dibattito artistico,
proponendo un confronto con le culture extra-
occidentali.
Nel 1992, la Documenta IX, curata da Bart de Baare,
Jan Hoet, Pier Luigi Tazzi e Denys Zacharopoulos,
prova a riproporre la centralità dell’opera e il mondo
dell’artista, riprendendo, così, l’idea delle “mitologie
individuali” di Szeemann, della Documenta di vent’anni
prima, ma sviluppandola nel senso di un radicamento
delle opere nel luogo della loro esposizione. Afferma Jan
Hoet, uno dei direttori di quell’edizione: “Così, ho voluto
fare la Documenta senza un sistema di riferimento. In
essa vi era rappresentato il ‘caos’ vitale dell’arte, ma con
una topografia. Non vi erano punti fermi determinati e
essa non aveva un centro, ma ogni artista doveva
realizzare un’opera in un luogo preciso e sceglierlo
appositamente. (…) vi era un luogo drammatico, uno di
meditazione, uno della società e, infine, una promenade
dell’arte. Vi erano, cioè, diverse situazioni e la topografia
era importante (…) ogni opera era pensata come un
corpo autonomo che si distaccava dal resto; (…)”.24 Tra
gli artisti invitati, vi erano Marina Abramovic, Richard
Artschwager, Matthew Barney, Guillaume Bijl, Louise
Bourgeois, Jean Marc Bustamante, Stan Douglas,
Marlene Dumas, Jimmy Durham, Anish Kapoor, Mario
Merz, Marisa Merz, Reinhard Mucha, Matt Mullican,
Ulrich Rückriem, Thomas Schütte, Ettore Spalletti, Haim
Steimbach, Franz West, Bill Viola, Rachel Whiteread,
Heimo Zobernig. Il tentativo è quello di rendere l’opera
protagonista al di là di ogni possibile griglia di lettura
teorica, di rendere il più evidente possibile la presenza
di questa, sottolineata dal suo radicarsi in un luogo
preciso. Il rapporto diretto con essa e la relazione con il
luogo divengono il punto di partenza mediante il quale si
entra nel mondo dell’artista.
Questo rappresenta anche il tentativo di compiere una
sintesi di una parte delle spinte degli anni Ottanta, cui
non era estraneo lo stesso Jan Hoet con le mostre da lui
curate. Il radicamento dell’opera nel luogo diviene un
modo per ridare una dimensione a questa, un tentativo
di rifondarla a partire dal mondo dell’artista e dalla sua
capacità di reagire a un sito o a un territorio, attivando il
processo creativo.
Tuttavia, l’anno seguente, l’americana Valerie Smith,
curando Sonsbeek ’93 ad Arnhem, propone un
approccio che sposta l’attenzione verso le tensioni
etiche che attraversavano la sfera sociale, legate ai
problemi delle differenze di sesso, razza e
all’emarginazione. Scrive la curatrice: “Propongo che il
Sonsbeek 93 sfidi la nozione di cultura pura come viene
rappresentata nelle solite e omogenee selezioni
espositive. Questo può essere fatto indirizzandosi verso
la questione dello spostamento della situazione globale
e inserendo un approccio multiculturale nel dibattito
estetico.”25
Alla rassegna vengono invitati alcuni degli artisti
emergenti di quel momento come Paul McCarthy, Mike
Kelly, Damien Hirst. Essa rappresenta il segnale di un
cambiamento di prospettiva.
Infatti, in questi anni il lavoro degli artisti più giovani si
apre alle immagini della società determinate e filtrate dal
mondo dei mass-media; anche se essi cercano di
individuare una dimensione più fluida rispetto a quella
strutturata dei media, lasciando affiorare spesso
immagini neglette dal mondo della comunicazione. A
differenza dei precedenti tentativi di radicamento nel
territorio, nel lavoro dei giovani artisti l’opera d’arte
sembra sganciarsi da ogni profondo legame con
l’identità di un territorio per acquisire una dimensione di
superficie. Questo le consente una maggiore mobilità e
la possibilità di incontrare lo spazio delle relazioni
umane nella sfera sociale, nel quale è forte la presenza
dei mass media. Tra il 1993 e il 1995, una grande
mostra retrospettiva di Bruce Nauman viaggia tra
l’Europa e gli Stati Uniti, offrendo un modello di grande
pregnanza al ridefinirsi della sensibilità di quegli anni. La
dimensione che costituisce il lavoro di Nauman, infatti, si
riconduce ad un’idea di flusso; la sua immediatezza e la
capacità di conferire presenza all’opera attraverso segni
minimi, offre, in questo modo, un forte stimolo alle
giovani generazioni, accordandosi alla loro particolare
attenzione per gli eventi quotidiani e di carattere
autobiografico.
In questo momento, in cui la situazione artistica sembra
nuovamente aprirsi alla sfera sociale, Catherine David
ripropone, nella Documenta X del 1997, una linea critica
implicita nel dibattito artistico degli ultimi decenni; di
fatto, cercando di recupare un’idea teorica dell’opera
d’arte. La presenza e l’esposizione delle opere viene
così subordinata alla corposa raccolta dei testi teorici
presenti in catalogo. La forte linea teorica avanzata, nel
tentativo di ritrovare uno spazio politico all’opera,
sembra sacrificare la capacità di questa nell’affermare
autonomamente la propria presenza. Le opere d’arte
poste in un tale contesto risultano indebolite e il tentativo
rimane vincolato allo sforzo troppo determinato di
ricostruire una linea critica dell’arte. La mostra cerca di
ridefinire le relazioni tra l’opera e il mondo utilizzando
come una delle possibili cornici il rapporto politico-
estetico che si crea all’interno delle città, quali luoghi in
cui nascono e si rendono evidenti contraddizioni e
conflitti di vario genere. Nell’esposizione viene
riproposto il lavoro degli artisti, di Art & Language,
Marcel Broodthaers, Öyvind Fahlström, Hans Haacke,
Gordon Matta-Clark, Hélio Oiticica, JeffWall, accanto a
giovani artisti come Steve McQueen, Carsten Höller,
Rosmarie Trockel e Andrea Zittel.
Un tentativo completamente diverso di proporre
l’affermarsi di una nuova sensibilità è rappresentato
dalla mostra Moment Ginza, curata nello stesso anno a
Ginevra e a Stoccolma da una giovane artista francese,
Dominique Gonzalez-Foerster. Essa scrive: “La
domenica pomeriggio a Ginza – celebre strada di Tokio
– la strada è lasciata alla persone e chiusa alle auto,
l’ambiente si trasforma (…) ciò che si potrebbe chiamare
il ‘Momento Ginza’.
Una situazione ben più che una mostra, uno spazio
potenziale tra reale e virtuale piuttosto piacevole da
attraversare, eccitante da esplorare (…) una città di
incontri – un’architettura relazionale – un ambiente
atmosferico e leggero – quasi minimale – al di fuori della
monumentalità (…)”.26
La mostra offre la possibilità di collocare entro un’unica
cornice l’opera di artisti come Maurizio Cattelan, Liam
Gillick, Felix Gonzalez-Torres, Pierre Huyghe, Philippe
Parreno e Allen Ruppersberg, mettendo a fuoco una
condizione di sospensione e leggerezza nel lavoro degli
artisti che costituisce un rinnovato approccio artistico
alla sfera sociale. La mostra, curata da un artista e non
da un curatore in senso stretto, rappresenta una
situazione molto diversa dalla linea critica evocata nella
Documenta X. Le opere sembrano inglobare nuovi stili
di vita e comportamenti che il quartiere di Ginza
rispecchia come l’immagine esemplare di una nuova
sensibilità planetaria.
Anche se la presenza di giovani artisti sulla scena in
quel momento appare più sfaccettata e complessa di
quella presentata dalla mostra, questa riesce a cogliere,
tuttavia, una condizione che attraversa in modo
coerente il lavoro di una parte delle giovani generazioni.
Su questa strada, tra le varie mostre che in questi anni
si occupano del fenomeno, un altro esempio dello
spostamento di attenzione verso l’Oriente è dato da
Cities on the Move, curata nel 1997-98, a Vienna e a
Bordeaux, da Hou Hanru e Hans Ulrich Obrist. Si tratta
di una mostra molto più articolata e complessa della
precedente, che propone un quadro delle nuove realtà
estetico-sociali che si stavano definendo in Asia,
mostrando la dimensione dinamica dell’Oriente quale si
rispecchia all’interno del rapporto arte-architettura,
costituitosi con il caotico sviluppo delle città in quell’area
geografica. Affermano i due curatori: “Una specie di
miscela di economia di mercato liberal-capitalista e un
controllo sociale asiatico post-totalitario sta per essere
stabilito quale nuovo ordine sociale. La cultura, in tale
contesto, è per natura ibrida, impura, contradditoria
(…)”.27 Le condizioni dell’arte e dell’architettura che
nascono nelle città asiatiche, sono così stabilite
all’interno di una nuova forma di modernità, più precaria,
i cui “temi ricorrenti sono Densità, Crescita,
Complessità, (…) Velocità, Traffico, Dislocazione,
Migrazione (…)”.28
Tra il 1998 e il 1999 due mostre, in particolare, Wounds.
Between Democracy and Redemption in Contemporary
Art e la 48° Biennale di Venezia, provano a ridefinire
l’esperienza contemporanea dell’opera arte.
In Wounds, curata da David Elliott e Pier Luigi Tazzi a
Stoccolma nel 1998, vi è il tentativo esplicito di
ricollegarsi al contesto e alla dimensione storica nella
quale si è costituita l’arte contemporanea degli ultimi
decenni. mettendo in luce il suo rapporto con la
democrazia e la dimensione politica della società. Il
modello espositivo proposto prende come spunto
l’immagine metaforica di “ferita”, la quale può essere
spinta sino alla rappresentazione di una condizione di
trauma, rivelando, in ogni caso, che la lettura parte da
una condizione sensuale ed affettiva dell’opera. È una
lettura che lascia emergere un tipo di sensibilità affiorata
nel lavoro degli artisti durante gli anni Ottanta; che
tuttavia viene estesa, al di fuori degli schematismi
dell’avanguardia, anche ad alcuni artisti dei decenni
precedenti e a quelli più giovani. La mostra copre, infatti,
un’ampia selezione, che va da Francis Bacon, Richard
Hamilton, Edward Kienholz, Joseph Beuys, Bruce
Nauman, Eva Hesse, Jannis Kounellis, Marina
Abramovic, Christian Boltanski, fino a Reinhard Mucha,
Thomas Schütte, Jan Vercruysse, Franz West, e,
attraverso Matthew Barney, Felix Gonzalez-Torres,
Robert Gober, Damien Hirst, arriva a Richard
Billingham, Douglas Gordon, Sharon Lockhart, Rirkrit
Tiravanija, Cai Guo Qiang.
Nell’edizione della Biennale di Venezia del 1999,
intitolata dAPERTutto, il direttore Harald Szeemann
propone un modello espositivo di totale apertura nei
confronti del mondo. In questo modo, l’opera d’arte
diventa lo specchio delle spinte che provengono da
questo, assumendo una forma fluida e adattandosi agli
stimoli che riceve da esso. Ne è un’evidente
dimostrazione il ruolo svolto dal nutrito gruppo di cinesi,
tra i quali vi sono Chen Zhen, Cai Guo Qiang, Sara Sze.
L’interesse per i quali è presente anche in altre mostre,
valga per tutti l’esempio della già citata Cities on the
Move. Ma anche la partecipazione di giovani provenienti
da altre aree geografiche, quali Doug Aitken, Jason
Rhoades, Rirkrit Tiravanija, Olafur Eliasson, Ann-Sofi
Sidén, costituisce un’ulteriore conferma di questo
orientamento. Inoltre, lo sguardo planetario del curatore
e la sua apertura oltre gli stretti confini generazionali lo
spingono a proporre, a fianco degli artisti precedenti,
alcuni appartenenti alla generazione degli anni
Sessanta, come James Lee Byars, Bruce Nauman,
Dieter Roth.29
Così, queste due mostre provano a ridefinire
l’esperienza artistica degli ultimi anni, offrendo un punto
di vista che, pur basato sull’esperienza dei curatori,
tenga conto del dibattito degli ultimi decenni. In
particolare, esse mostrano la capacità dell’opera di
mantenere aperto uno scambio con la sfera vitale, in
modo che si perda ogni idea di rapporto fisso nella sua
contemplazione. L’idea di opera d’arte che esce dalle
due mostre non è quella di una condizione teoricamente
ben definita, tuttavia, essa ci lascia intravedere la sua
capacità di riconnettersi continuamente alla sfera vitale.
Dunque, come mostra in particolare il dibattito degli anni
Settanta e Ottanta, il tentativo di progettare una nuova
ipotesi di opera d’arte, ridefinendo il suo statuto, non ha
portato a esiti teorici certi. Tuttavia, la pratica di
contemplazione concreta delle opere, che ha trovato
nelle mostre uno sbocco fondamentale, è riuscita a
definire un’idea di opera d’arte la cui descrizione può
essere affidata alle modalità in cui essa viene esposta.
Infatti, il modo in cui l’opera viene offerta allo sguardo
dello spettatore definisce le caratteristiche dell’opera
d’arte contemporanea, e la capacità costante di questa
di attivare e mantenere una relazione attiva con la sfera
vitale, ritrovando in essa le capacità di modellarsi a
partire dalla dimensione etica della società, che
attraversa e, di volta in volta, costituisce quella artistica.
Il grande patrimonio, che si ritrova nel dibattito passato
attraverso le mostre fino ad oggi, è dato proprio dal fatto
che queste hanno costituito il banco di prova del
ridefinirsi dell’opera d’arte contemporanea. Il coagularsi
concreto nel meccanismo espositivo della “messa in
vista” dell’opera d’arte, che ha sopperito alla condizione
di crisi di ogni discorso teorico, nel momento in cui la
teoria ha perso ogni fondamento sicuro su cui basarsi.
L’opera d’arte contemporanea, che esce dalla
ricostruzione di questo dibattito, è il frutto di
un’esperienza complessa che non può essere
facilmente ricondotta alla dimensione espositiva del
museo, con il suo meccanismo di immediata
estetizzazione. Allo stesso modo, l’opera
contemporanea non può essere ricondotta alla
dimensione del testo verbale, così come a quella della
comunicazione che impronta i mass-media e che,
sempre più, caratterizza, non solo la struttura della
nostra esperienza della vita di relazione, ma anche il
modello verso cui si stanno orientando i grandi musei
contemporanei nella costruzione del rapporto tra l’opera
d’arte e lo spettatore.

NOTE

1 Georges Boudaille, "Interview with Daniel Buren: Art is


no longer Justifiable or Setting the Record Straight", in
Conceptual Art: A Critical Anthology, edited by Alexander
Alberro, Blake Stimpson, Cambridge Mass., MIT Press,
1999, pp. 66-67; prima ed.: "Entretien avec Daniel
Buren: L'art n'est plus justifiable ou les points sur le 'i'",
in Les Lettres Françaises, Paris, 13 Marzo 1968.
2 Donald Preziosi, "Collecting/Museums" in Critical
Terms for Art History, edited by Robert Nelson, Richard
Shiff, Chicago, The University of Chicago Press, 1996,
pp. 281-82.
3 Per cercare di cogliere l'opera d'arte da questo punto
di vista si veda, per esempio: Harold Rosenberg, "The
De-Aestheticization of Work of Art" in The De-definition
of Art, Chicago, University of Chicago Press, 1972; Allan
Kaprow, "Happenings in the New York Scene (1961)" in
Essays on The Blurring of Art and Life, ed. by Jeff
Kelley, Berkeley-Los Angeles, Univ.of California Press,
1993; Michael Kirby, Happenings, New York, Dutton &
Co., 1965; Happening & Fluxus, a cura di H. Sohm, H.
Szeemann, Köln, Koelnischer Kunstverein, 1970.
4 Un esempio del tentativo di definire l'opera d'arte
come evento è costituito dall'esposizione When Attitudes
Become Form, curata da Harald Szeemann alla
Kunsthalle di Berna nel 1969.
5 Colloquio con Denys Zacharopoulos, in Juliet, n. 79,
oct.-nov. 1996, pp. 24-25, qui ripubblicato nel terzo
capitolo, pp. 84-88. Vedi anche il secondo capitolo: "La
critica dei curatori e l’esperienza dell’opera d’arte
contemporanea".
6 Colloquio con Harald Szeemann, in Juliet n. 81, feb.-
mar. 1997, p. 29, qui ripubblicato nel terzo capitolo, pp.
62-72.
7 Colloquio con Pierre Restany, in Juliet, n. 81, feb-mar
1997, pp. 32-33, qui ripubblicato a pp. 54-58.
8 Brian O'Doherty, "The Gallery as a Gesture" in
Thinking about Exhibitions, ed. by Reesa Greenberg,
Bruce W.Ferguson, Sandy Nairne, London-New York,
Routledge, 1996, p. 323. Originariamente pubblicato in
Art Forum, December 1981, pp. 26-34. Per una
descrizione della mostra vedi anche "Yves Klein's Le
Vide, Galerie Iris Clert, Paris, 1960" in Bruce Altshuler,
The Avant-Garde in Exhibition. New Art in the 20th
Century, New York, Abrams, 1994, Cap. 11, pp. 192-97 e
Pierre Restany, Yves Klein. Le feu au coeur du vide,
Paris, Ed. La Différence, 1990, cap. II.
9 La ricostruzione del dibattito contenuta in questo testo
segue uno schema generale costituito da 67 mostre,
individuate come le più importanti del periodo che va dal
1967 sino al 1999, che è stato possibile ricostruire
grazie alla collaborazione di quattro dei curatori le cui
testimonianze sono state raccolte nel III capitolo del
volume. Essi sono: Jan Hoet, Harald Szeemann, Pier
Luigi Tazzi e Denys Zacharopoulos. L'elenco preciso,
con i differenti contributi, è pubblicato a pp. 90-91.
10 Per questa come per molte altre mostre, libri, eventi
del periodo si veda Lucy Lippard, Six Years: The
Dematerialization of the Art Object from 1966 to
1972:..., Berkeley, Los Angeles, London, University of
California Press, 1997 (prima ed.: Praeger, New York,
1973), p. 64.
11 Non è un caso, infatti, che il libro di Bruce Altshuler
sulle principali mostre che hanno segnato il percorso
dell'avanguardia nel Novecento: The Avant-Garde in
Exhibition..., op. cit., termini proprio con When Attitudes
Become Form, di Szeemann, e January 5-31, 1969, la
mostra successiva allo "Xerox Book", curata sempre da
Siegelaub, segnando in qualche modo un punto di arrivo
e di conclusione dell'esperienza dell'avanguardia. Si
veda l'introduzione al libro, p. 9.
12 A proposito della negazione della visualità nell'Arte
Concettuale si veda, per esempio, Benjamin Buchloh,
"Conceptual Art 1962-1969: From the Aesthetic of
Administration to the Critique of Institutions" in
Conceptual Art: A Critical Anthology, ed. by Alexander
Alberro and Blake Stimson, Cambridge (MA), London,
MIT Press, 1999, p. 520 e passim; originariamente
pubblicato in L'art conceptuel: une perspective, catalogo
della mostra, Paris, Musée d'Art Moderne de la Ville de
Paris, 1989.
13 "Mytologies individuelles" in Harald Szeemann, Ècrire
les expositions, Bruxelles, La Lettre volée, 1996, p.31;
originariamente pubblicato in Kunstnachrichten, IX/3,
Luzern, Freudenstadt, Wien, novembre 1972.
14 Sul fatto che il carattere rivoluzionario dell’arte della
“generazione di artisti del 1968” fosse “legato alla
contemporanea trasformazione degli stili di vita” di quel
periodo, si veda Colloquio con Harald Szeemann, p. 66.
15 Un testo che riflette su questa situazione di crisi è
quello di Joseph Kosuth, “1975”, in Art after Philosophy
and After.Collected Writings, 1966-1990, a cura di
Gabriele Guercio, Cambridge (MA)-London, The MIT
Press, 1991, pp. 129-143, pubblicato per la prima volta
in The Fox, n. 1, 1975, pp. 87-96. Nonostante esso
riguardi soprattutto il dibattito intorno all’Arte
Concettuale, può, tuttavia, essere considerato come
l’indice di una situazione più generale. Si veda anche
quanto afferma Jean-Christophe Ammann nella
conversazione contenuta in questo libro: “Questo
significava che una certa storia, quella dell’avanguardia
artistica che ha fortemente dominato il secolo, era giunta
alla fine”, nel colloquio con Jean-Christophe Ammann,
Juliet, n. 91, feb.-mar. 1999, qui ripubblicato, pp. 38-43.
16 Scrivono Gilles Deleuze e Felix Guattari, citati in
catalogo: “‘(…) che cosa produce la macchina celibe?
(…) delle quantità intensive. (…) In poche parole,
l’opposizione tra le forze d’attrazione e di repulsione
produce una serie aperta di elementi intensivi, tutti
positivi, che non esprimono mai l’equilibrio definitivo di
un sistema, ma invece una serie illimitata di stati
stazionari metastabili attraverso i quali il soggetto
passa’.” In Le macchine celibi, catalogo a cura di Harald
Szeemann, Milano, Electa, 1989, ( I° ed. Venezia,
Edizioni d’arte Alfieri, 1975 ), p.16.
17 Skupltur Austellung in Münster, a cura di Kasper
König, Münster, 1977, p. 264.
18 Sulla diversa posizione tra i due si veda la
conversazione con Harald Szeemann, pp. 62-72. Per un
discorso più generale favorevole alla pittura in quegli
anni, si veda la conversazione con Jean-Christophe
Ammann, pp. 38-43.
19 Vedi la conversazione con Szeemann, pp. 62-72.
20 Jan Hoet, "Chambres d’amis: un’evasione ", in
Chambres d’amis, cat. della mostra a cura di J. Hoet ,
Gent, 21/6-21/9 1986, p. 351.
21 Saskia Bos in Sonsbeek 86. International Sculpture
Exhibition, 18/06-14/09 1986, Arnhem, The Netherlands,
Utrech, Veen Reflex, 1986 (2 vol.), vol II, p. 32.
22 L’époque, la mode, la morale, la passion. Aspect de
l’art d’aujourd’hui 1977-87, a cura di Bernard Blistène,
Catherine David, Alfred Paquement, Paris, ed. de
Centre Georges Pompidou, 1987, p. 21.
23 Jean-Hubert Martin, " Préface " in Magiciens de la
terre, Paris, Edition Centre G. Pompidou, 1989, p. 8.
24 Colloquio con Jan Hoet, Juliet, ott.-nov. 1997, p. 41,
qui ripubblicato a pp. 46-50.
25 Sonsbeek ’93, catalogo a cura di Jan Brand,
Catelijne de Miynck, Valerie Smith, Arnhem, 1993.
26 Domenique Gonzalez-Foerster, “Moment Ginza –
Presentation” in Moment Ginza, cat. a cura di D.
Gonzalez-Foerster, Grenoble e Stoccolma, 1997, s.n.p.
27 Cities on the Move, catalogo della mostra a cura di
Hou Hanru e Hans Ulrich Obrist, Ostfildern-Ruit, Verlag
Gerd Hatje, 1997, § 1, s.n.p.
28 Ibid. § 11, s.n.p.
29 Per una lettura più approfondita di queste due mostre
si veda la parte iniziale del mio testo intitolato
“Dopopaesaggio”, in Juliet n. 103, June 2001, pp. 26-29.

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CAPITOLO 2
LA CRITICA DEI CURATORI E L’ESPERIENZA
DELL’OPERA D’ARTE CONTEMPORANEA

LA CRITICA DEI CURATORI E L’ESPERIENZA


DELL’OPERA D’ARTE CONTEMPORANEA

In un saggio scritto all'inizio degli anni Ottanta, lo storico


dell'arte Hans Belting ha messo in evidenza una
condizione basilare per comprendere il rapporto tra l'arte
contemporanea e il discorso critico che nasce a contatto
con essa. Formulando la questione all’interno di una
prospettiva storica, l’autore segnala il prodursi di una
frattura, a partire dagli inizi dell’Ottocento, tra la
nascente disciplina della storia dell'arte e la produzione
degli artisti contemporanei, che ha originato un doppio
approccio. Introducendo una distinzione chiave nel suo
discorso, egli afferma: "Gli storici dell'arte si
richiamavano sia ai modelli della conoscenza storica sia
ai filosofi estetici, che avevano cominciato a definire
l'arte al di fuori di un contesto empirico e storico. Ora la
'contemplazione storica e la contemplazione estetica',
per riprendere i termini di Hans Robert Jauss,
divorziano."1
Riproponendo la questione in termini più ampi, egli
scrive: "Le difficoltà della storia dell'arte con l'arte
moderna risalgono all'inizio del XIX secolo, allorché
l'arte perse le sue funzioni pubbliche tradizionali. (...) La
storia dell'arte lottava per restaurare i valori di una
tradizione perduta mentre l'arte vivente sfuggiva alle
regole tradizionali attraverso un modernismo deliberato
o che faceva di queste regole l'oggetto delle sue
riflessioni, dei suoi commenti, dei suoi dubbi e delle sue
affermazioni disperate. I due progetti non condividevano
che una cosa, la loro fede nel genio dell'artista."2 Tutto
questo, sostiene ancora l'autore, ha condotto a una
frattura e di fatto alla nascita di due storie dell'arte
distinte. Così, il rapporto diretto con l'arte
contemporanea ha generato uno sguardo più ravvicinato
sull'opera d'arte, mancando una distanza temporale da
cui si origina, invece, la "contemplazione storica". In
altre parole, la "contemplazione estetica", che può
essere definita come quella propria della critica d'arte,
nasce dal contatto diretto con il processo creativo
attivato dagli artisti.
Si potrebbe dire che un tale tipo di approccio ha
influenzato anche l'esperienza artistica degli ultimi
decenni, in cui è avvenuta, di fatto, una separazione
interna tra il discorso critico-teorico della critica che
realizza il proprio lavoro soprattutto con la scrittura e
l'attività curatoriale dei critici organizzatori di mostre.
Un manifesto di questo approccio, scritto negli anni
Sessanta, può essere considerato il saggio di Susan
Sontag intitolato Against Interpretation. L'autrice
concludeva il suo testo con un appello che assumeva la
forma di un invito a compiere un'esperienza più diretta
dell'opera d'arte. Essa affermava: "Al posto di
un'ermeneutica abbiamo bisogno di un'erotica
dell'arte."3 A partire da questo appello, si potrebbe dire
che si è costituita, in anni recenti, un tipo di critica d’arte
basata su un approccio empirico alle opere. Essa nasce
dalla diretta partecipazione dei critici a manifestazioni,
mostre personali e collettive, da colloqui con gli artisti e
dalla lettura e discussione dei loro testi. Questo lavoro
ha portato alla produzione di uno stato di
"contemplazione estetica", che si raccoglie in uno
sguardo che si può definire collettivo in quanto
trasmissibile all'interno di una comunità di gusto. Inoltre,
la "contemplazione estetica" compiuta dai critici, che
hanno saputo seguire lo svilupparsi di questa situazione,
appare precisarsi come l'altra faccia del processo
creativo innescato dagli artisti. Così, questo rapporto tra
il processo creativo e il piano della "contemplazione
estetica", diviene particolarmente importante per
ricostruire la funzione svolta negli ultimi decenni dalla
critica curatrice di mostre.
Tale rapporto si rende necessario anche in
concomitanza di un cambiamento di clima nel mondo
artistico internazionale, che ha condotto al costituirsi di
una stretta relazione tra l'opera d'arte e la sfera vitale, la
quale ha prodotto, a sua volta, una relazione più stretta,
quasi di commistione, con la dimensione contemplativa
che i critici dispiegano nelle mostre. Il processo creativo
nasce, infatti, in connessione con le intenzioni
dell'artista, creando non poche difficoltà alla nascita di
un piano contemplativo nel critico che sia distanziato
dalla realtà interna dell'opera. Perciò, nonostante
nell'atto contemplativo esista una presa di distanze dal
fatto contemplato, talvolta il primo aderisce agli
avvenimenti artistici producendo un’identificazione con
essi. Solo un costante esercizio, e il tentativo di costruire
uno sguardo che si ponga al di sopra della realtà delle
singole opere, consentono di preservarlo.
Dunque, la critica d'arte è innanzi tutto testimone del
processo creativo. Ed è soprattutto a partire dagli anni
Sessanta, che gli artisti hanno cercato di realizzare uno
spazio intermedio nel quale produrre opere ed eventi
artistici, che fossero sempre più in grado di inglobare
l'esperienza vitale; come nel caso di Fluxus, che è il
sintomo di una situazione più generale. La critica d'arte
si è costruita il proprio spazio testimoniale ponendosi in
relazione a quest'area intermedia fra arte e vita, in cui
sono prodotte le opere d'arte contemporanea. Essere
testimoni dell'accadere dell'opera d'arte significa, infatti,
riformulare mediante la produzione di scritti o la
realizzazione di mostre la propria esperienza dell'opera,
cercando di restituire di questa la sua condizione
estetica.
Un teorico di questa funzione è il filosofo Richard
Wollheim, il quale sostiene che il compito della critica
non è soltanto l'attività valutativa esercitata sull'opera,
ma è anche la "ricostruzione del processo creativo"4
che non può essere colto in una descrizione esteriore
dell'opera d'arte. Egli scrive: "La comprensione è
raggiunta attraverso la descrizione, ma una descrizione
profonda, o più profonda di quanto l'esame dettagliato
possa fornire, e tale descrizione ci si può aspettare che
includa questioni quali: quanto del carattere dell'opera è
dovuto all'intenzione, quanto è accaduto attraverso
cambiamenti di intenzione, quali erano le ambizioni che
hanno contribuito alla sua fattura ma che non sono state
realizzate nel prodotto finale."5
La ricostruzione del processo creativo appare dunque
come qualcosa di più complesso della semplice
descrizione esteriore delle opere, poiché la sua finalità è
diversa e più sostanziale: "La ricostruzione del processo
creativo è legittimata perché, ma solo in quanto,
mediante le sue scoperte essa contribuisce alla
percezione [dell’opera d’arte]."6 Questo è in sintesi il
compito della critica d'arte. Va tuttavia precisato che, in
seguito all'importanza che la mostra ha assunto negli
ultimi decenni come luogo di accadimento del processo
creativo, tale compito è stato spesso assolto nel modo
più acuto dai curatori delle esposizioni. Anche se la
situazione contemporanea non si presenta in modo
omogeneo, testo critico ed esposizione continuano,
infatti, a convivere nelle modalità della critica d'arte in
modo non del tutto definito.7
Una figura esemplare di critico d'arte che ha lavorato in
questa direzione è rappresentata dallo svizzero Harald
Szeemann. Le sue mostre, tra la fine degli anni
Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, hanno costituito
dei punti di riferimento importanti nel dibattito artistico
internazionale. Infatti, il percorso di Szeemann, in qualità
di curatore di mostre dedicate a nuovi artisti, si è svolto
a stretto contatto con essi. Tale rapporto di
collaborazione ha consentito al critico di essere
testimone della produzione delle opere e, attraverso la
realizzazione delle mostre, di ricostruirne il processo
creativo ripristinando le condizioni della loro "visibilità
attiva"; del loro darsi, cioè, in una dimensione di
intensità estetica. Nel suo percorso Szeemann ha
sempre concepito le mostre che ha realizzato come dei
viaggi dentro le opere d'arte, e ha saputo restituire di
queste il processo creativo innescato dagli artisti.8
Nella testimonianza pubblicata nel terzo capitolo, egli
spiega il percorso espositivo della mostra che realizzò
alla Documenta 5 del 1972. Secondo le sue intenzioni,
le opere erano disposte seguendo un percorso che
andava verso l'immaterialità. Il culmine era
rappresentato dall’opera che si trovava nel sottotetto del
"Museum Fridericianum", di LaMonte Young, che
"consisteva semplicemente nella produzione di un unico
suono ripetuto ossessivamente all'interno di un grande
spazio vuoto."9
Questa condizione di immaterialità è un modo di darsi
delle opere e di rapportarsi allo spettatore del critico. Lo
schema attraverso il quale il critico ha ricostruito il
movimento del processo creativo interno ad ogni opera
e alla globalità di queste appare intersecarsi con la sua
"contemplazione estetica". In presenza del processo
creativo innescato dall'artista, il critico elabora un piano
di contemplazione delle opere che viene attuato nella
realizzazione delle mostre. Egli rende visibili, con il
percorso espositivo, le intenzioni dell'artista; che pone
però entro la dimensione contemplativa della propria
esperienza, trasferendo dunque tali intenzioni su uno
sfondo più ampio e posto al vaglio di uno sguardo che
prende le distanze da ciascuna singola opera.
Il percorso espositivo della mostra rappresenta, perciò,
la definizione visiva di alcuni punti, le opere, che sono
fisicamente percepibili nello spazio espositivo nel quale
si organizza e fissa la "contemplazione estetica".
Tuttavia, senza di essa le componenti materiali
dell'opera, talvolta veramente esigue, non
significherebbero nulla e non produrrebbero una
condizione di intensità estetica se non fossero rese
attive da uno sguardo di contemplazione delle opere che
nasce da una condivisione dell'esperienza estetica degli
artisti. Da lì nasce l'interpretazione del critico mediante
la mostra, che in questo caso funziona esattamente
come uno scritto. Perciò, il delicato rapporto con l'opera
appare costituirsi proprio nel momento in cui questa
viene esposta in una mostra.
L'attenzione di Szeemann per il meccanismo del
processo creativo sembra meglio precisarsi nella mostra
successiva, Grand-père, dedicata al nonno famoso
coiffeur, che il critico ha organizzato nel proprio
appartamento a Berna nel 1974. Il caso appare
interessante, perché è possibile osservare la
contemplazione del critico come puro sguardo, senza la
presenza delle opere. Così, la posizione di questa
mostra appare ambigua, poiché invece di mostrarci delle
opere realizzate da artisti ci offre uno squarcio sulla
formazione del processo creativo e sullo sguardo critico
ad esso connesso. Per realizzarla, egli espone molti
oggetti che erano appartenuti all'avo, senza avere la
pretesa che essi siano opere d'arte. Secondo le sue
stesse parole, l'obiettivo era quello di "evocare la
presenza. (...) L'idea era di impregnare il visitatore di
questa atmosfera come se egli attendesse il nonno."10
Con essa il critico focalizza l'attenzione sul momento
precedente la possibile formazione dell'opera d'arte.
Quello che gli interessa qui è il processo aperto
attraverso cui l'opera potrebbe divenire; la condizione
primaria della creazione artistica colta nel momento
dell’aprirsi della sua processualità. Afferma ancora
Szeemann: "Ho molto imparato, durante questo periodo
di riflessione, sul modo di montare una tale esposizione:
come presentare delle forbici affinché esse potessero
significare ben più che la loro solo propria definizione
d'oggetto. Se io le pongo in linea retta allora le dichiaro
oggetto di grande valore nell'ambiente del nonno."11
Lo sguardo del critico sviluppa, così, un rapporto
contemplativo a partire dal modo in cui l'oggetto si dà,
significando più del suo semplice aspetto materiale.
Perciò Grand-père realizza un modello forte
nell'individuazione di una zona di confine tra oggetto
artistico e non, concentrandosi sulla dimensione
instabile del processo creativo. Inoltre, Szeemann, come
nelle altre mostre, recupera qui ampiamente la
dimensione dell'intenzionalità su cui si regge il mondo
interiore del personaggio del nonno; ponendolo
all'interno di una condizione artistica. In questo modo,
conferendo nuova importanza all'intenzionalità, la critica
curatoriale, di cui Szeemann è uno dei principali
esponenti, propone l'uscita dall'approccio formalista e la
nascita di un piano di "contemplazione estetica" che
affonda le proprie radici nel rapporto diretto con l'artista
e le sue opere.
Altre due figure della critica d'arte, che possiedono un
approccio simile a quello di Szeemann, sono il belga
Jan Hoet e l'italiano Pier Luigi Tazzi, che lavorano
insieme alla Documenta IX, del 1992.12 Il primo spiega
così lo schema allestitivo della Documenta IX: "Ho
voluto fare la Documenta senza un sistema di
riferimento. In essa vi era rappresentato il 'caos' vitale
dell'arte, ma con una topografia. Non vi erano punti
fermi determinati e essa non aveva un centro, ma ogni
artista doveva realizzare un'opera in un luogo preciso e
sceglierlo appositamente per questo. Tuttavia, il punto
focale della mia idea non era quello di far volgere lo
sguardo all'interno del percorso della Documenta, bensì
di rivolgerlo sul mondo; che è l'immagine del 'caos'.”13
Così, le opere d'arte, lette attraverso il piano
contemplativo realizzato dal critico attraverso lo schema
della mostra, mediante la quale egli indica una
condizione precisa della situazione contemporanea,
subiscono "un forte fenomeno di condensazione"; in
quanto, durante gli anni Ottanta, è venuta meno la
spinta utopica che aveva sorretto le opere del decennio
precedente.14 All’interno di questa prospettiva, la
relazione fondamentale su cui si fonda lo sguardo del
critico-curatore diventa quella del rapporto tra l'opera
d'arte e il territorio. È questo legame, infatti, a generare
la densità dell'opera, costituita da pochi segni materiali,
che rimandano a un luogo preciso inteso come spazio di
vita; concordando così, in ultima analisi, con la lettura
data da Szeemann del processo creativo come soglia
interna alle opere contemporanee.
Pier Luigi Tazzi, riecheggiando l'approccio suggerito da
Susan Sontag, descrive invece in questi termini il tipo di
opera d'arte affermatasi negli anni Ottanta: "L'opera non
è altro che questo diaframma erotico fra il soggetto e
l'essere. Non offre alcun tipo di praticabilità e l'unica
forma di moto che attiva è quella del desiderio."15
Regolando, dunque, la percezione dell’opera secondo
ritmi di desiderio, è possibile costruire un approccio ad
essa basato su un’esperienza diretta. Ampliando il
proprio discorso, Tazzi fornisce una lettura del processo
creativo inteso come movimento complessivo dell'arte
dal quale si generano le singole opere: "È lungo un asse
verticale Nord-Sud che si realizzano le forme come
punto d'incontro tra un universo di discorso (nordico) e
un oggetto di desiderio (collocato a sud). Si costituisce
una dinamica vitale (...) Quest'asse verticale entra in
aperta contraddizione con un vettore orizzontale, che è
quello della grande espansione economica. Questo
vettore orizzontale - schematizzando - parte da una
sostanza densa, che è l'Oriente, e si muove con sempre
maggiore leggerezza verso Occidente, attraverso un
processo di distinzione linguistica sempre più specifica e
attraverso una sempre più netta contrapposizione fra
sostanza e funzione, fra il magma indistinto che tutto
comprende e l'estrema separazione e strutturazione dei
segni."16 Questo duplice asse, sul quale si è sviluppata
la produzione artistica degli anni Ottanta, determina il
piano di "contemplazione estetica" del critico, mediante
cui egli realizza la sua interpretazione. Questo esempio
dimostra in quali termini nasca e si costituisca lo
sguardo critico a partire dalle opere, mostrando anche il
punto di nascita comune tra opera e interpretazione
critica.
Tuttavia, l'esperienza di questi critici-curatori, che in certi
casi sanno però utilizzare abilmente i testi, e il loro
rapporto con l'opera si strutturano nella dimensione
pragmatica costituita dallo spazio espositivo della
mostra, il quale è diventato negli ultimi decenni il luogo
fondamentale di accadimento del processo creativo e di
costruzione del discorso critico.

È venuto, perciò, il momento di mettere a fuoco da


vicino lo strumento della mostra e la funzione che essa
ha acquisito nel dibattito artistico recente attraverso
l’uso che ne hanno fatto i curatori.
"La novità dell'arte degli anni Settanta è quella di un
ribaltamento nei rapporti tra la teoria e la pratica
artistica, nel senso che la mostra diviene il luogo in cui si
realizza la teoria come praxis."17 Con questa frase il
critico-curatore Denys Zacharopoulos spiega molto bene
l'importanza assunta dalla mostra negli ultimi decenni.
È, infatti, soprattutto a partire dalla metà degli anni
Sessanta, che la mostra è divenuta il luogo dove l'opera
d'arte si è ridefinita assumendo nuove caratteristiche, in
modo tale che la dimensione teorica e normativa
dell’arte fosse attuata insieme a quella empirica.
Affinché questo potesse accadere la mostra, come
strumento critico e percorso organizzato di percezione
delle opere, è divenuta sempre più coincidente con lo
spazio fisico del luogo in cui veniva realizzata, perdendo
i suoi connotati simbolici di ambiente neutro adibito
all'esposizione di quadri o sculture, per assumere quelli
di luogo di vita in cui l'opera poteva realizzarsi come
evento. In altre parole, la mostra è divenuta dunque lo
spazio all'interno del quale l'opera-evento può accadere
in tutta la sua flagranza; non è più il luogo in cui l'artista
espone il prodotto finale del suo lavoro, ma il contesto
nel quale l'opera assume i propri connotati definitivi.
Tutto ciò per poter serbare in tutta la sua rilevanza il
carattere di evento, sottolineando la dimensione del
processo creativo per giungere a essa, piuttosto che la
sua condizione di manufatto finale. In questo modo, la
mostra assume sempre più la funzione di luogo di
accadimento del processo creativo. Proprio perché,
negli ultimi decenni, l'opera d'arte ha perso il suo
carattere di oggetto semplicemente collocato in uno
spazio neutro, per prendere origine, invece, dalle
relazioni complesse che essa stabilisce con il luogo;
come risulta anche dalle testimonianze di Szeemann e
Jan Hoet. Ed è questo rapporto complesso tra l'opera e
il luogo, inteso non solo come spazio della galleria ma
del museo, della città, del territorio, che lascia
intravedere il processo creativo che si manifesta nella
presenza attiva dell'opera, nella sua capacità di
comprendere, di nutrirsi e lasciare percepire le relazioni
complesse con il contesto concreto nel quale è situata.
In questo modo, la mostra diviene il luogo nel quale
l'opera si dà in una dimensione complessa, stratificata,
nella quale affiora una condizione di visualità
onnipotente a cui lo spettatore è come assoggettato. Le
opere appaiono come destrutturate nella loro
consistenza materiale, ridotte a semplici segni, o gesti
dello stesso artista interagenti con il luogo. Esse
possono essere una semplice frase scritta, l’esposizione
di un essere vivente, uomo o animale, o di un semplice
oggetto. Tutti si danno, però, come accadimenti alla
presenza dello spettatore, conferendo alla loro
dimensione visiva il carattere di processualità in atto.
Di fronte a questa situazione, la critica d'arte ha reagito
cercando di articolare la propria azione puntando
sull'integrità estetica dell'opera d'arte, ricostruendo il
processo creativo in atto nell'opera al momento della
sua realizzazione attraverso l’esposizione di questa
all’interno della mostra. A questo punto, si comprende
perché la mostra curata dal critico è diventata così
importante. Se, come sostiene Wollheim, la finalità del
ricostruire il processo creativo è la "percezione", appare
qui evidente come l'organizzazione della mostra divenga
il tentativo di offrire una interpretazione dell'opera-
evento. Tale tentativo consiste, in sostanza,
nell'attualizzare o riattualizzare il processo creativo di
questa. Questo spiega la necessità, da parte del critico,
di agire direttamente all'interno del modello della mostra,
cercando di ridare all'opera quella stessa dimensione
che l'artista aveva creato per essa agendo sulla sua
dimensione visiva, e inserendo la singola opera
all’interno della struttura espositiva generale con la
quale vengono rese evidenti le intensità visive delle
opere e il pronunciarsi del senso che queste assumono
in quel particolare contesto o condizione.
Disporre le opere secondo un percorso, che diviene
facilmente uno schema empirico che regge la
disposizione e i rapporti interni delle opere in una
mostra, vuol dire anche rendere le opere significative
secondo il modo della "contemplazione estetica" che il
critico si è formato, conferendo a esse valore artistico.
La mostra curata dal critico-organizzatore diviene perciò
l'apparato che egli dispiega per dare senso all'opera. In
questo modo, il critico produce mostre che sono
"modelli" attraverso i quali è dispiegata la dimensione
visiva dell'opera d'arte.18
In questo modo, le relazioni interne tra le singole opere
dentro la mostra costituiscono il modello dispiegato dal
critico, la "macchina visiva" che egli realizza per
ricostruire il senso di flagranza del processo creativo
innescato dalle opere e riconducibile alla dimensione
della "contemplazione" di fatti artistici accaduti nella
contemporaneità. Il suo compito principale diviene allora
quello di mantenere attiva questa flagranza visiva
dell'opera, evitando di spegnerla riconducendola a una
condizione di cristallizzazione, fissata entro la
dimensione puramente documentaria del catalogo o
dell'allestimento museale.
Così, il critico attraverso l'allestimento mette in mostra
l'intensità dell'opera, la sua condizione di accadimento
visivamente rilevante, articolando direttamente la
dimensione visiva di questa in relazione a quella di altre
opere.
Viene però spontaneo chiedersi quale sia la differenza
tra la mostra realizzata dall'artista con la propria opera e
quella organizzata dal critico con le opere degli artisti.
Appare chiaro, a questo punto, che il critico, a differenza
dell’artista, costruisce la propria mostra attraverso un
processo di confronto e selezione mediante il quale
produce, anche quando si tratta di mostre monografiche,
modelli visivi di percezione che divengono meccanismi
di lettura delle opere. Ed è attraverso queste mostre
quali "modelli di percezione" che le opere degli artisti
vengono condotte all'interpretazione, anche se essa non
si dà semplicemente come una piana descrizione
verbale, ma è posta all'interno di una dimensione
pragmatica di forte pregnanza visiva qual è quella della
mostra. Occorre dunque esaminare con attenzione tali
mostre, perché esse offrono la struttura storica delle
opere d'arte del nostro tempo, riconducendola allo
specifico della loro dimensione visiva.
Perciò, se il critico d'arte curatore di mostre elabora dei
modelli percettivi che divengono direttamente operativi,
egli riesce a fare in modo che lo spazio visivo della
mostra, interagendo e a volte sostituendo il testo critico,
divenga uno spazio di definizione del significato delle
opere, anche se esso assume confini ampi e labili.
Infatti, l'ampia base pragmatica su cui poggia la mostra
consente di elaborare un tipo di approccio che
contribuisce a sviluppare una nuova dimensione
percettiva, la quale non è in grado di creare significati
definiti ma momenti di pronunciamento di questi, che
costituiscono un punto di partenza fondamentale per
l’interpretazione delle opere. Appare, perciò, evidente
che la mostra si è imposta negli ultimi decenni per la sua
capacità di forzare quadri concettuali dati, che si erano
sedimentati nella costruzione di un vecchio modo di
concepire l'opera d'arte. Ecco perché essa, come
strumento della critica d'arte, appare come il territorio
ambivalente e aperto in cui nascono insieme sia il
processo creativo, innescato dagli artisti all’interno
dell’opera d'arte, sia la "contemplazione estetica" che
costituisce l'attività di testimonianza fondamentale del
critico.

NOTE

1 Hans Belting, L’histoire de l’arte est-t-elle finie?,


Nîmes, Éditions Jacqueline Chambon, 1989 (ed. ing.
The End of Art History?, Chicago, Chicago University
Press, 1987), p.50.
2 Hans Belting, op. cit., p. 56.
3 Susan Sontag, “Against Interpretation” in Against
Interpretation, London, Vintage, 1994 (1° ed.: New York,
Farrar Strauss & Giroux, 1966), p. 14.
4 Richard Wollheim, “Criticism as Retrieval” in Art and its
Objects, Second Edition, Cambridge, Cambridge
University Press, 1980, p. 185.
5 Op. cit. p. 192.
6 Op. cit. p. 196.
7 Personalmente, non credo che l’attività curatoriale
abbia soppiantato completamente la formulazione del
lavoro critico attraverso la scrittura dei testi. Il fatto che
questi, negli ultimi decenni, abbiamo perso di
importanza se non accompagnati alle mostre nei
cataloghi, lascia soltanto comprendere la complessità
del rapporto che si è stabilito tra il testo scritto e la
mostra. Secondo questa nuova prospettiva, infatti,
sembra che il testo acquisti il suo pieno significato solo
in relazione all’“evento” della mostra, come accade per il
testo teatrale nel suo rapporto con l’azione scenica.
Tuttavia, la dispersione dei testi dei curatori nei
cataloghi, impedisce di intendere puntualmente la loro
capacità critica nel produrre letture di ampio respiro del
panorama dell’arte contemporanea. Un utile lavoro
sarebbe perciò quello di realizzare raccolte antologiche
di tali testi.
8 Per una bibliografia essenziale sul lavoro di
Szeemann, si vedano le seguenti pubblicazioni: “Mind
over Matter. Hans-Ulrich-Obrist Talks with Harald
Szeemann”, a cura di H-U Obrist, in Art Forum XXXV, 3,
November 1996, pp. 74-79 e segg.; colloquio con Harald
Szeemann, pp. 62-72; Harald Szeemann, Écrire les
expositions, a cura di Michel Baudson, Bruxelles, La
lettre Volée ed., 1996.
9 Vedi capitolo 3, p. 78.
10 Écrire les espositions, op. cit. p. 44.
11 Op. cit. p. 48.
12 Gli esempi sono scelti tra le personalità critiche con
le quali sono venuto in contatto negli ultimi anni,
realizzando con essi una serie di colloqui pubblicati
dalla rivista Juliet, che sono ora raccolti nel capitolo 3 di
questo volume.
13 Colloquio con Jan Hoet, p. 48.
14 Op. cit. p. 40.
15 Colloquio con Pier Luigi Tazzi, pp. 74-80.
16 Ibidem.
17 Colloquio con Denys Zacharopoulos, pp. 84-88.
18 Si veda in proposito la riflessione sull’organizzazione
espositiva dei musei come mezzo per la creazione di
modelli percettivo-conoscitivi capaci di influenzare la
ricezione e l’interpretazione della storia dell’arte,
compiuta da Donald Preziosi nel suo interessante
lavoro: Rethinking Art History. Meditations on a Coy
Science, New Haven-London, Yale Univ. Press, 1989.

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CAPITOLO 3

TESTIMONIANZE
SCHEDA INTRODUTTIVA A JEAN-CRISTOPHE
AMMANN

Nel testo che segue, Jean-Christophe Ammann descrive


il suo prendere coscienza, poco alla volta, dell’affermarsi
di una nuova sensibilità artistica a partire dalla seconda
metà degli anni Settanta, con il ritrovato interesse per la
pittura, soprattutto negli artisti italiani e tedeschi.
Egli sostiene che, all’inizio degli anni Ottanta, risultò
chiaro come la prospettiva inaugurata dalle avanguardie
storiche agli inizi del secolo scorso fosse finita. Questo
ha significato anche la fine, dal punto di vista culturale,
dell’influenza americana sull’arte mondiale. L’incontro
dell’opera di Francesco Clemente, alla metà degli anni
Settanta, è stata, per il critico, la conferma del
cambiamento di sensibilità in atto. A dimostrazione di ciò
vi è anche il fatto che oggi l’arte non si fa più nelle
grandi città, come Parigi o New York, perché la maggior
parte degli artisti non vivono più in esse.
Per chiarire meglio il suo pensiero, egli fa riferimento al
libro scritto dall’economista russo Leo Nefiodow, negli
anni Trenta, e intitolato Der Sechste Kondriateff, nel
quale l’autore ipotizza il succedersi di varie epoche
legate ciascuna a una rivoluzione. La prossima - quella
del 2000 - sarà caratterizzata dalla fine delle ideologie.
Infatti, sostiene ancora Ammann, il cambiamento di
sensibilità ha coinciso con una liberazione del Sé che si
collega alla penetrazione della creatività nelle strutture
politiche ed economiche della società. Ma la creatività è
legata alla differente sessualità dei maschi e delle
femmine, che entra in gioco nella definizione del Sé. E
questo è l’altro fatto importante, poiché le donne hanno
oggi assunto una posizione di grande importanza nella
nostra società e la loro sessualità è più complicata di
quella dei maschi, in quanto è più complicata la loro
percezione del tempo. Così, esattamente come la
scienza sta provando a risalire all’origine dell’universo,
anche la pittura contemporanea sta provando a risalire
all’origine del Sé in quanto ha tempi lenti. Oggi, infatti, si
ha la sensazione di non avere più radici nella storia, ma
che esse vadano ricercate in noi stessi.
Tutto ciò è cominciato con la generazione di Clemente,
Nicola de Maria, Enzo Cucchi e di altri artisti tedeschi e
svizzeri, che ha segnato l’affermarsi di una nuova
sensibilità. Il primo passo per mettersi su tale strada è
stato l’allontanamento dall’Arte Concettuale. Da allora si
è instaurato un movimento spazio-temporale circolare
che non puntava più all’esclusione, come faceva
l’avanguardia. Per questo, gli artisti che oggi appaiono
più significativi tra i giovani sono Cecilia Edefalk, Miriam
Cahn, Elisabeth Peyton, Johannes Hüppi. E il compito
che si è assunto Ammann con la direzione del Museum
für Moderne Kunst di Francoforte è quello di costruire
una collezione che cerchi di tracciare un profilo del Bello
nell’arte contemporanea.
Perciò, anche se si può pensare che la pittura sia finita,
alcuni artisti hanno oggi una comprensione
completamente diversa della realtà. Questa diversa
comprensione ha spinto Ammann, nel 1985-6, a riunire
Joseph Beuys, Enzo Cucchi, Anselm Kiefer, Jannis
Kounellis alla Kunsthalle di Basilea, per iniziare Una
discussione, diventata poi un volume, che ci dice
qualcosa sulla fine di un’epoca. In particolare, Cucchi
riesce ad intuire qualcosa di importante con la sua opera
che si ritrova anche nel lavoro delle donne artiste, che
sono i veri artisti radicali di oggi.
Bisogna dunque diffidare del trend nell’arte, che ha
prodotto una situazione effimera legata alla vita delle
gallerie. Per questo è necessario oggi compiere una
distinzione tra competenza ed esperienza e questo
riguarda anche il lavoro del critico. Sarebbe importante,
infatti, poter leggere più cose su ciò che sente
veramente un critico quando scrive di un’opera, poiché
l’esperienza ha più valore della teoria. E questo vale per
il lavoro di critici come Jan Hoet, Harald Szeemann o
Pier Luigi Tazzi; ma non è così per quasi tutta la critica
che scrive sulle riviste, la quale sembra porsi fuori del
mondo dell’artista.

COLLOQUIO CON JEAN-CHRISTOPHE AMMANN

Sono diventato direttore del Kunstmuseum di Lucerna


nel 1968, ma solo all'inizio degli anni Ottanta ho
compreso che verso la metà del decennio precedente
un certo modo di fare la storia dell'arte, della musica e
del teatro era giunto alla fine. Questo significava che
una certa storia, quella dell'avanguardia artistica che ha
fortemente dominato il secolo, era giunta alla fine. E con
essa, era finita anche l'influenza americana.
Dal punto di vista teorico, potrei rifarmi alle idee di Leo
Nefiodow, uno studioso di economia che fu ucciso da
Stalin nel 1938, autore del libro Der Sechste Kondriateff,
in cui egli teorizza l'esistenza di sei cicli economici o
Kondriateff. Vorrei rifarmi in particolare al quinto, che ha
inizio nel 1975. L'autore ha sviluppato questo tipo di cicli
a lungo termine a partire dal 1800, ognuno dei quali
della durata di 45-50 anni e collegato ad una rivoluzione.
Per esempio, a quella della macchina a vapore, all'inizio
dell'Ottocento, o a quella del petrolio, e, a partire dalla
metà degli anni Settanta, alla rivoluzione della
tecnologia delle comunicazioni. In ogni caso, la cosa
importante è che quando un ciclo di Kondriateff comincia
vuol dire che i suoi effetti si diffondono ovunque.
Quando nel 1976 ho visitato a Roma Francesco
Clemente, di cui mi aveva parlato Alighiero Boetti, sono
rimasto colpito da ciò che stava facendo e ho sentito
che qualcosa era cambiato. Avevo capito che questo
rappresentava la fine delle avanguardie storiche. E
questo fatto è divenuto poi un fenomeno crescente,
poiché le grandi città hanno perso il loro carattere di
luoghi di produzione dell’arte. Infatti, se si va oggi a New
York o a Parigi non c'è più grande produzione; sono
belle città con musei importanti, ma gli artisti non vivono
più là. Tutto quel tipo di situazione che caratterizzava
l’avanguardia è venuto a mano a mano scomparendo e
oggi si possono trovare buoni artisti dovunque.
Nel prossimo ciclo di Kondriateff, il sesto, quello del
2000 - ancora secondo Nefiodow - gli esseri umani per
la prima volta non saranno più controllati dalle ideologie;
mentre prima vi erano la politica e la Chiesa. Si
potrebbe forse dire che oggi una funzione analoga è
svolta dall'economia, tuttavia essa non ha veramente la
stessa struttura del nazismo, del fascismo o dello
stalinismo. Così, abbiamo per la prima volta un essere
umano che, nel migliore dei modi, è veramente
responsabile di se stesso.
Va inoltre ricordato il fenomeno crescente
dell’esplosione della creatività. Questo fatto incredibile
non significa che oggi abbiamo milioni di artisti, quanto
piuttosto che la creatività è penetrata nella struttura
stessa della società, dell'economia e della cultura. Per
questa ragione, penso che la cultura sarà uno dei
fenomeni più importanti del prossimo secolo. Un altro
fenomeno ancora, riguarda le donne. Per la prima volta,
esse hanno avuto una posizione che non avevano prima
nella nostra società, dato che fino ad oggi abbiamo
avuto una storia e una cultura esclusivamente maschili.
Mentre ora assistiamo a un fenomeno di rivalutazione
della dimensione femminile. E questo fatto non è contro
l'uomo. Il femminismo è ormai finito, rimangono interessi
in questo senso, per Freud, Lacan, etc., solo nelle
università americane. Perciò sono molto ottimista e
credo che la società cambierà in qualcosa di veramente
interessante.
Si può dire, infatti, che la creatività è collegata alla
struttura psichica del maschio e della femmina. Tuttavia,
la sessualità del maschio è diversa da quella della
femmina, i maschi infatti possiedono una struttura molto
più semplice di quella femminile. Voglio dire, che è più
complicata la dimensione del tempo che le donne
percepiscono. Anche questo fa parte di una rivoluzione.
E il momento splendido dell'arte è simile a quello cui sta
puntando oggi la scienza, che sta provando a
raggiungere il punto zero dell'universo, ciò che è
accaduto nel momento del Big Bang. Le scienze stanno,
cioè, provando a ritornare al punto zero dell'Universo.
Esse vanno avanti, ma di fatto stanno risalendo
all'origine. Penso che in arte vi sarà un fenomeno
analogo, poiché non sappiamo realmente che cosa sia il
Sé. In passato, molte persone meravigliose come Lao-
tzu, autore del Tao Teh Ching, ed altri importanti
pensatori hanno cercato di fare scoperte sul Sé. Ed è
seguendo questa direzione che abbiamo costruito un
nuovo periodo della pittura.
La pittura, infatti, ha tempi lenti e credo che, per
esempio, un artista come Bill Viola sia fortemente
connesso con la ricerca del sé, proprio perché non sta
escludendo qualcosa come la pittura nel suo lavoro.
Chiunque fa pittura oggi ha infatti delle ragioni
specifiche. E questo avviene perché siamo in una
situazione di grande tensione e di completo
cambiamento della società. Qualcosa sembra essersi
rotto. Tuttavia, prendendo in considerazione la costante
antropologica rappresentata dall'essere umano, è
sempre accaduto che quando qualcosa sembrava
essersi rotto, di fatto, stava solo cambiando. Così,
all’interno della nostra concezione occidentale del tempo
e dello spazio abbiamo una fine: l'Apocalisse. La
concezione giapponese del tempo e dello spazio,
invece, non ha né origine né fine. Noi siamo solo ora:
nel presente. Non siamo nel passato, poiché il passato è
importante per la tradizione. Credo, infatti, che oggi si
abbia il sentimento che la tradizione si sia spezzata e
non ci siano più radici. Le radici, invece, sono in noi
stessi. Questa costituisce la più grande e meravigliosa
sfida del futuro: il fatto che ognuno debba trovare
qualcosa delle proprie radici e del proprio Sé.
Credo, perciò, che la frase di Beuys "ogni uomo è un
artista" sia molto vera. Per questo, penso che il pensiero
di Beuys sarà riscoperto; forse non altrettanto l'opera
che egli ha realizzatato dopo gli anni Sessanta, perché
essa è difficile. Penso piuttosto ai migliaia e migliaia di
disegni che l'artista ha fatto dopo la guerra fino al 1960.
Bisogna, però, fare attenzione. La pittura è qualcosa di
lento perché il pittore ricerca lo spazio su cui sta
lavorando e non si può essere veloci nella ricerca del
Sé; questo è impossibile. Perciò, credo che un video
artista come Bill Viola sia, in un certo senso, un pittore.
Così, l'artista, oggi, sta compiendo una ricerca sul Sé,
più che su se stesso o se stessa come persona. Infatti,
fuori dalla situazione del presente la coscienza e il
pensiero del presente sono perduti, oppure diventano
sentimentali. Pensare il presente includendo se stessi,
diventa la cosa più difficile. Oggi noi parliamo dell'arte
contemporanea facendone un uso pessimistico. Se si
leggono pensatori come Paul Virilio, per esempio, essi
sono ancora legati a un certo tipo di passato, perciò non
sono in grado di pensare al presente. Mentre, se si
pensa al presente, si è in grado di pensare anche ai
prossimi passi da compiere: questo è importante.
Perciò, i futurologi sbagliano. I cicli di Kondriateff non
sono futurologia perché non costituiscono delle
estrapolazioni lineari.
Vorrei fare un altro esempio. Il direttore di un'importante
banca di questa città - Francoforte - mi ha detto che
l'80% del nostro prodotto finanziario non esisteva dieci
anni fa. Si può immaginare tutto questo? Vivo in una
città che è molto importante per le banche e in queste il
presente sta continuamente cambiando. Queste stanno,
infatti, lavorando oggi l'80% di un prodotto che non
esisteva dieci anni fa.
Per questo ho ricordato prima l’incontro con Francesco
Clemente, che è avvenuto poco prima di conoscere il
lavoro di Nicola De Maria ed Enzo Cucchi. Ma una
situazione analoga si poteva osservare anche in
Germania e in Svizzera. Si poteva vedere, cioè,
qualcosa di simile ad una nuova avanguardia: ovunque
una nuova situazione emotiva ed intima cominciava a
diffondersi. Il primo passo per comprendere tutto questo
è stato l'allontanamento dall'Arte Concettuale; un passo
che è servito a rivitalizzare qualcosa di fortemente
connesso all'arte. E credo che si possa mostrare come
gli artisti protagonisti di quel passo hanno trovato la
strada della loro vita soltanto attraverso la pittura. Essi
hanno proceduto in modo diverso dalle avanguardie,
che erano sempre in qualche modo collegate agli stili, i
quali escludevano più di quanto non includessero.
Infatti, le avanguardie procedono sempre in modo
diretto; ogni dieci anni arriva qualcuno e inventa un
nuovo stile. Perciò, la loro energia era indirizzata in
senso vettoriale. Mentre dopo il 1975, quando è giunta
alla fine questo tipo di spinta vettoriale, l'energia è
cambiata disponendosi in modo circolare. Non secondo
una configurazione spiraliforme, poiché la spirale
costituisce un movimento di allontanamento dal centro.
Invece, essa ha assunto un andamento circolare nello
spazio e nel tempo. Questo credo sia il modo corretto
per comprendere il lavoro di Bruce Nauman. Ed è anche
la ragione per la quale Nauman è oggi così importante;
proprio perché il suo lavoro non è vettoriale ma
circolare. La natura del cerchio è infatti omeopatica,
include più di quanto non escluda.
Mi vengono in mente, per esempio, le donne pesanti
dipinte da Lucien Freud, che sono sensazionali proprio
per come egli le ha dipinte, poiché questo tipo di donna
non esiste. È come l'uomo della Cabala, cioè le 72
lettere di dio con le quali è stato creato il Golem. Non è
un caso che l’artista sia ebreo. Anche questo è un modo
per creare qualcosa che non esisteva prima. In effetti,
ho visto questi dipinti diverse volte e penso sempre che
siano incredibili.
Ma possiamo riferirci anche a dipinti di artisti più giovani,
come Cecilia Edefalk o Miriam Cahn, che sono esposti
qui al Museum für Moderne Kunst di Francoforte. C'è
stata, per esempio, una mostra di Miriam Cahn
all'Accademia di Berlino nell'autunno 1998; negli stessi
giorni in cui si è inaugurata la Biennale. Io non ho visto
la mostra di questa artista, ma un mio collaboratore mi
ha detto che era la cosa più interessante da vedere. Altri
artisti sono Elizabeth Peyton o Johannes Hüppi, che
vive tra Düsseldorf e New York. È interessante, per
esempio, vedere il modo in cui Elizabeth Peyton realizza
una pittura collegata alle immagini esistenti dei mass
media. Tra le altre cose, ha prodotto una serie di opere
su "A Bigger Splash" di David Hockney.
Ora, sto costruendo una collezione qui al museo e sto
cercando di scoprire in quale modo posso tracciare un
profilo, come il bello dell'arte possa trovare una sua
ragione. Poiché la bellezza è qualcosa di meraviglioso.
Essa è qualcosa di simile a quanto accade per i
matematici; i quali prima scoprono la formula e poi il
modo di provarla in relazione all'universo, agli atomi o
alle particelle subatomiche. Ma l'intuizione viene prima
dell'esperimento: questa è la bellezza. Per esempio,
nell'ambito dell'arte una formula della bellezza è
costituita dalla "Date Painting" di On Kawara, poiché
ogni giorno è un buon giorno. La "data" diviene così la
formula dell'armonia, l'armonizzazione delle
contraddizioni di ordine e disordine. Allo stesso modo di
un neonato che, come l'animale, piange e cerca il seno
della madre, così si può trovare la formula della
bellezza. Credo che già Hegel abbia parlato di questo,
collegando insieme forma e contenuto. È, dunque,
necessario portare le cose alla coscienza mediante il
fare.
Negli anni Sessanta c'era ancora un'importante
influenza dell'America sull'Europa. Anche se, all'inizio di
quegli stessi anni, per la prima volta dal tempo della
guerra alcuni artisti, come Yves Klein e Piero Manzoni,
hanno dato risposte europee diverse dalla Pop Art e
dalla Minimal Art. Penso che, allora, l'avanguardia abbia
prodotto un artista in tre fasi. Nella prima tutto si è
rivelato, come è avvenuto nell'opera di Jasper Johns.
Nella seconda fase, durata circa vent'anni, si è provato a
comprendere ciò che era accaduto nella prima. Perciò,
alla fine degli anni Sessanta, vi era un unico sguardo
concentrato sui più giovani. Questo accade anche nella
vita di un artista. Henri Matisse, per esempio, era già
vecchio quando incontrò una donna russa di soli 23 anni
che fu per lui molto importante. Infatti, l'opera di rilievo di
Matisse si può datare all’inizio della Prima guerra
mondiale, fino al 1916. Dopo la guerra egli è diventato
un artista normale. Ma alla fine della sua vita ha saputo
reinventare, ancora una volta, se stesso grazie
all'incontro con la giovane russa.
Mentre oggi credo che l'artista abbia più chances
nell'economia della creazione e possa muoversi in
diversi ambiti, non più spinto dalla linearità della
cronologia. Si può pensare che la pittura sia finita e non
abbia più alcuna ragione di essere. Vi sono alcuni critici
e filosofi che lo sostengono. Tuttavia, essi non lo
chiedono agli artisti.
Vi sono anche artisti che dicono che la pittura non è del
tutto vera, ma ce ne sono altri che ne hanno una
comprensione completamente diversa. Questa è la
ragione per la quale nel 1985-86 ho iniziato Una
discussione, divenuta in seguito un libro, a cui
parteciparono Enzo Cucchi, Anselm Kiefer, Jannis
Kounellis e Joseph Beuys. Volevo scoprire che cosa
fosse realmente accaduto, poiché non ero più in grado
di pensare chiaramente, ed ho chiesto agli artisti di
aiutarmi a capire. La questione si poneva allora nei
termini “di che cosa può fare un artista oggi”. Cucchi era
allora il più giovane. Mentre Kounellis si poneva ancora
su posizioni ideologiche e vedeva che, quando Beuys
fosse morto, avrebbe potuto diventare il dopo-Beuys. Di
Kiefer posso ricordare che ho visto la sua mostra al
Palacio de Velazquez a Madrid, dove egli ha reinventato
se stesso un'altra volta in modo molto forte. Questo
incontro è stato centrato perciò sulle tensioni tra gli
artisti e su ciò che è importante oggi per loro. Credo che
il libro che ne è uscito ci dica qualcosa sulla fine di
un'epoca. Kounellis, infatti, non ha mai avuto la
possibilità di essere il dopo-Beuys; poiché tutto correva
troppo velocemente. Mentre su Kiefer si potrebbe dire
che, nonostante sia nato intorno al 1945, avrebbe potuto
anche nascere nel 1955 o nel 1965. Lo stesso si può
dire per Cucchi, i cui disegni sono ancora
incredibilmente densi e di grande intensità. In effetti, del
suo lavoro precedente ho visto solo alcune fotografie,
ma esse forse non hanno la stessa intensità dei disegni.
Egli riesce a vedere qualcosa che secondo me è
importante e che forse si trova anche nelle donne artiste
di oggi, le quali sono i veri artisti radicali, poiché
rappresentano il punto di contatto più vicino all'intimità
attraverso la natura. Esse hanno, cioè, una relazione
forte con il nostro corpo.
Penso, dunque, che mostre come Manifesta 2, in
Lussemburgo, o la Biennale del 1998, a Berlino, siano
tutte un po' di tendenza e i loro curatori stiano facendo
veramente come faceva l'avanguardia: escludere
anziché includere. Ma l'arte, oggi, è più potente di
quanto non si rilevi nel panorama attuale. I curatori,
invece, hanno prodotto una situazione di tendenza che
appare troppo effimera. Se dovessi oggi fare una mostra
sulle nuove situazioni nel mondo dell'arte, credo che
metterei insieme artisti completamente diversi da quelli
che sono normalmente presentati. Forse, al primo
sguardo, apparirebbe una situazione più conservatrice,
ma lo sarebbe solo al primo sguardo.
Poiché l'impiego del trend nell'arte è ormai diventato una
necessità economica, mentre nell'avanguardia era
semmai una necessità mentale. Oggi, abbiamo bisogno
di un trend perché dobbiamo creare un sistema
economico, ma questo non coincide con la reale
situazione dell'arte. Penso, per esempio, che un artista
come Udo Koch, che ha solo 35 anni, abbia un lavoro
fantastico. Ma il suo pensiero è legato a un'idea di
cosmologia; vale a dire, non è concettuale. Questo la
gente non lo capisce, così come non lo capiscono i
curatori. Tuttavia, ci sono anche artisti come Pipilotti
Rist, che è una grande e meravigliosa donna, la cui
opera mi piace molto. In generale, non sono però
interessato al trend attuale, il mio interesse è indirizzato
piuttosto verso altri luoghi.
Così, le gallerie sono importanti solo in quanto danno la
possibilità all'artista di vivere. Anche se i galleristi attuali
non hanno più il potere di cui disponevano Leo Castelli,
Konrad Fisher o Alfred Schmela negli anni Sessanta o
Settanta. In definitiva, credo che la cosa importante sia
avere oggi dei galleristi competenti. Penso infatti che la
competenza sia una cosa veramente importante, ma si
tratta di un fenomeno nuovo. Poiché la conoscenza si
può ottenere ovunque, ma l'esperienza è qualcosa che
riguarda solo il singolo individuo. Si può ottenere la
conoscenza attraverso l’uso del computer o di internet,
ma poi che cosa ne facciamo di essa? In campo sociale
o politico, nell'economia, è certamente molto utile.
Penso, infatti, che internet sia un'invenzione fantastica.
Per questo dico che la conoscenza va bene, ma
l'esperienza è qualcosa che bisogna farsi da sé. Poiché,
mentre la conoscenza va e viene, l'esperienza che si
compie in se stessi è qualcosa di sostanziale.
Così, se qualcuno ha un figlio, significa che investe per i
prossimi dieci, vent'anni. Ma se ci sta veramente a
pensare forse non si deciderebbe mai a farlo. Questo è
il fatto: il mondo cambia in continuazione, ma noi stiamo
facendo qualcosa che in termini di spazio e tempo è
normale.
Nello stesso modo l'esperienza tocca anche il critico.
Sarebbe bello, infatti, leggere più scritti su ciò che si
sente quando si scrive dell'opera di un artista, su quale
sia la relazione che s’instaura con essa. Questa è la
cosa più importante. Tuttavia, bisogna scrivere con la
competenza di sapere quello che sta avvenendo
nell'arte, solo allora posso ben dire ciò che mi accade.
Leggere una critica d'arte significa, infatti, leggere
qualcosa sull'opera dell'uomo. E per fare questo
l'esperienza conta molto più della teoria. Perché ogni
artista è un caso a sé. Così, si può fare una teoria su
una situazione di tendenza, ma non sull'arte. Quel che
conta è alla fine l'esperienza diretta. Questo è normale
per Jan Hoet, Harald Szeemann, o anche per Pierluigi
Tazzi; infatti, essi lavorano sempre con l'artista. Io
stesso ho fatto una mostra di Bruce Nauman perché ho
conosciuto lui personalmente quando ho installato una
sua opera in una mostra alla Kunsthalle di Basilea.
Tuttavia, ci sono anche critici d'arte che non conoscono
gli artisti e che cosa possono scrivere? Almeno noi
sappiamo qualcosa più di loro. Accade infatti che se un
periodico d'arte incarica qualcuno di scrivere un articolo
su una mostra, costui va a vederla. Ma se egli sente poi
l’esigenza di fare una conversazione con l'artista, forse
non ne ha l'opportunità perché ciò gli occuperebbe un
intero pomeriggio e il compenso che la rivista gli può
offrire non è molto alto. È chiaro che questo è un
problema legato al funzionamento del sistema
economico. In fondo, noi siamo fortunati perché non
siamo critici d'arte costretti a lavorare in quel modo e
non dobbiamo scrivere per tempo. Dobbiamo, invece,
realizzare una collezione o una mostra. Dobbiamo, cioè,
lavorare per sviluppare il concetto dell'artista e scrivere
su ciò che egli ha in mente. Mentre un critico d'arte di
quel tipo, nella maggior parte dei casi, si pone fuori dal
mondo dell'artista.

Note biografiche

Jean-Christophe Ammann è nato a Berlino nel 1939 e


nel 1966 ha conseguito un dottorato di ricerca
all’Università di Friburgo in Storia dell’Arte, Archeologia
e Letteratura tedesca. Nel 1967-68 ha lavorato come
critico d’arte ed è stato assistente alla Kunsthalle di
Berna, scrivendo insieme ad Harald Szeemann il libro
50 Jahre Kunsthalle Bern.
Dal 1968 al 1977 ha diretto il Kunstmuseum di Lucerna.
Nello stesso periodo, ha ricoperto anche i seguenti
incarichi: commissario svizzero per la Biennale di Parigi
nel 1971; co-organizzatore della Documenta 5 a Kassel
nel 1972; membro della Commissione internazionale
della Biennale di Parigi dal 1973 al 1974; professore
incaricato alla Kunsthalle di Basilea.
Dal 1978 al 1988 è stato direttore della Kunsthalle di
Basilea. Nello stesso periodo è stato co-organizzatore
della mostra Arte-Natura al padiglione internazionale
della Biennale di Venezia, nel 1978; dal 1978 al 1980 è
stato co-organizzatore dei convegni internazionali di
critica d’arte a Montecatini Critica 0 e Critica 1; a partire
dal 1981 è membro della Fondazione “Emmanuel
Hoffmann” di Basilea.
Nel 1987 è stato nominato direttore del Museum für
Moderne Kunst di Francoforte, che ha cominciato a
dirigere nel 1989. Nel 1988 è stato co-organizzatore del
“Carnegie International Prize”. La sua attività di
insegnamento è continuata, a partire dal 1992, nelle
Università di Francoforte e Giessen, fino alla nomina a
professore all’Università Wolfgang Goethe di
Francoforte. Nel 1995 è stato commissario del
padiglione tedesco alla Biennale di Venezia. Alla fine del
2001 ha lasciato il suo incarico di direttore al Museo di
Francoforte.
È autore di varie pubblicazioni, tra le quali ricordiamo:
Bewegung im Kopf (1993); Rémy Zaugg (1994);
Kulturfinanzierung (1995); Annäherung. Über die
Notwendigkeit der Kunst (1996); Das Glück zu sehen.
Kunst beginnt dort, wo der Geschmack aufhört (1998).

SCHEDA INTRODUTTIVA A JAN HOET

Il critico belga descrive la situazione all’inizio degli anni


Ottanta come caratterizzata da un’esplosione creativa
simile a quella che si ebbe negli anni Sessanta. La
differenza sta nel fatto che alla fine degli anni Settanta
l’Europa riacquistò importanza e si creò un intenso
dibattito con gli Stati Uniti. E questo fu possibile grazie
ad alcuni artisti, tra i quali il più importante fu certamente
Joseph Beuys.
Inoltre, con la Documenta di Kassel del 1982, diretta da
Rudi Fuchs, anche l’Arte Povera iniziò ad avere i primi
riconoscimenti. Tuttavia, la situazione in quel momento
appariva ancora dispersa, solo durante gli anni Ottanta
essa trovò sempre più il suo centro in Germania. Il fatto
più importante di quegli anni fu l’aver accolto
nuovamente la pittura tra i linguaggi artistici e il crearsi
di una maggiore attenzione per la fisicità dell’opera
d’arte. Il contesto divenne molto importante e gli artisti
cominciarono a riarticolare il loro rapporto con lo spazio
in modo diverso da come aveva fatto la Land Art, per la
quale lo spazio dell’opera è ancora improntato da un
forte carattere ideale. Da tali premesse nasce la mostra
Chambres d’amis, curata dallo stesso Hoet nel 1986 a
Gent.
In questi stessi anni, l’artista si pone al centro della
propria opera; cade ogni forma di distanza da questa,
che invece si avvertiva ancora nel lavoro degli artisti
concettuali. In Chambres d’amis si percepisce un
fenomeno di condensazione delle opere, che stabilisce
una netta differenza con gli artisti che lavorano ancora
all’interno di una dimensione idealizzata.
Nello stesso periodo si assiste tuttavia ad una
predominanza negativa del mercato dell’arte, che
favorisce l’inserimento di molti speculatori nel mondo
dell’arte. Questa situazione ha condotto ad una
condizione di collasso alla fine degli anni Ottanta, che si
è definitivamente affermata con la crisi seguita alla
“Guerra del Golfo”, all’inizio degli anni Novanta.
Vi fu un atteggiamento strategico da parte di alcuni
artisti, come per esempio Jannis Kounellis, che si sono
legati ai critici, anche se questi - come i teorici - non
parlavano della fisicità dell’opera. E vi fu un
atteggiamento di rivolta nei confronti della televisione, la
quale aveva iniziato a condizionare in modo pesante la
realtà sociale. Essa faceva perdere concretezza al
rapporto con la realtà, questo è stato uno dei motivi per
cui molti artisti hanno recuperato la dimensione fisica
dell’opera e il suo rapporto con il luogo. Tutto questo ha
influenzato anche i curatori, come lo stesso Hoet, Rudi
Fuchs e Harald Szeemann. Ed è questa un’altra
differenza con gli Stati Uniti, dove gli artisti hanno,
invece, recuperato un rapporto con la cultura di massa.
Con la Documenta IX, del 1992, da lui diretta con altri,
Jan Hoet ha inteso realizzare una mostra senza un
sistema di riferimento, ma che rappresentasse
l’immagine del “caos” del mondo con una topografia.
All’interno vi erano un luogo drammatico, uno di
meditazione, uno della società e una promenade. La
fisicità dell’opera era presente anche nel lavoro di alcuni
artisti americani come David Hammons e Louise
Bourgeois, che si differenziano dal lavoro di Jeff Koons,
che appare più cinico.
Rispetto alla generazione dell’Arte Povera, Concettuale
e dalla Land Art, negli anni Ottanta il linguaggio degli
artisti è divenuto più dialettale e l’opera si è radicata nel
territorio di provenienza. Questi anni hanno segnato
anche il passaggio da un linguaggio internazionale al
formarsi di “Mitologie individuali” – secondo la formula
introdotta da Szeemann. Così, la differenza con
l’avanguardia, legata alla ideologia modernista, risiede
nel fatto che ora l’arte è dominata dall’egocentrismo.
In questo periodo, conclude Hoet, anche la critica è
cambiata, come lo sono i galleristi. E alcuni teorici
hanno cominciato addirittura a dichiarare che Gerhard
Richter rappresenta la memoria dell’arte, ritraendolo
come un professore della globalità postmoderna.
Questo problema nasce soprattutto dal fatto che la
critica tende a scrivere soprattutto su opere la cui
struttura visiva corrisponde meglio a quella verbale e a
rendersi autonoma dai processi di produzione artistica.

COLLOQUIO CON JAN HOET

Non saprei da dove cominciare perché gli anni Ottanta


sono stati un periodo abbastanza sconvolgente. Tutto
sembrava di nuovo possibile. In quegli anni si sono
create nuove apertura e si avvertiva un grande bisogno
di esprimersi secondo modalità più fisiche (rispetto ai
linguaggi astratti dell'arte concettuale); questa esigenza
era avvertita dagli artisti, ma anche dai direttori di museo
e dai critici. Vi fu una specie di esplosione nei processi
creativi, un po' simile a quella che ha caratterizzato l'arte
degli anni Sessanta, ma, evidentemente, in un modo
diverso.
Infatti, mentre negli anni Sessanta vi era una dominanza
dell'America del Nord in tutti i dibattiti artistici, alla fine
del decennio seguente si riuscì a riaffermare
l'importanza dell'arte europea. In altre parole, si creò
improvvisamente un dialogo tra l'Europa e l'America. A
ciò va aggiunto il fatto che, all'inizio degli anni Ottanta,
molti artisti europei hanno ricevuto una posizione
importante nel mondo delle gallerie statunitensi, poiché
queste iniziarono a esporre opere provenienti
dall'Europa. Mentre in Europa si tenevano esposizioni
come quella che organizzai io qui a Gand, intitolata:
L'arte in Europa dopo il 1968. Così, per un insieme di
ragioni diverse, alla fine degli anni Settanta l'arte
europea ha acquisito un posto di importanza equivalente
a quello che aveva occupato fino ad allora l'America.
Per ottenere questo è stato molto importante il lavoro
svolto dagli artisti dell'Arte Povera, da Richard Long,
Hans Haacke, Marcel Broodthaers e da Joseph Beuys.
Ma in sintesi si potrebbe dire che tutto allora sembrava
incarnarsi soprattutto nella figura di Beuys, a causa della
sua posizione europea legata alla storia. Poiché, e
questo è un fatto importante, il suo lavoro artistico resta
legato alla storia. Si può perciò dire che i giovani artisti
europei abbiano iniziato a lavorare dentro la sua ombra
artistica. Altri artisti che allora ebbero riconoscimenti
sono Mario Merz e Jannis Kounellis. Infatti, con
l'esposizione di Documenta del 1982, curata da Rudi
Fuchs, l'Arte Povera iniziò ad avere i suoi primi
riconoscimenti, anche se non raggiungeva ancora i livelli
dell'arte americana. Tuttavia, quella Documenta fu il
risultato di tutta questa situazione. Il suo centro era
costituito dalle opere di Kounellis, James Lee Byars e
della Minimal Art. Ma erano stati invitati anche Luciano
Fabro, Mario Merz, Arnulf Rainer, Georg Baselitz,
Markus Lüperz, Sigmar Polke e Gerhard Richter. È
all'incirca a partire da quel momento che si è avuta
l'improvvisa apertura degli Stati Uniti nei confronti di
Italia e Germania, anche se la situazione appariva
ancora dispersa e non vi era un centro definito della
nuova situazione. Esso, però, nel corso degli anni
Ottanta, coincise sempre più con l'area geografica della
Germania. All'interno di questa nuova apertura si ebbe
anche un allargamento sul piano dei linguaggi; il fatto
importante fu che si accettò nuovamente la pittura e
contemporaneamente si diffuse un atteggiamento di
maggiore attenzione alla creazione, decisamente anti-
intellettuale. Si affacciò, così, questa dimensione di
maggiore fisicità nel lavoro degli artisti. Dunque, la
fisicità assunse una rinnovata priorità. In realtà essa era
già comparsa, alla fine degli anni Settanta, nelle opere
post-minimaliste di artisti come Ulrich Rückriem, Richard
Tuttle, Royden Rabinowitch e Ettore Spalletti.
Perciò, a questo punto, il contesto divenne
estremamente importante e gli artisti iniziarono ad
articolare le loro opere rispetto allo spazio. Da tali
premesse è nata, nel 1986, la mostra Chambres d'amis.
Credo che quella mostra abbia rappresentato in modo
chiaro l'articolazione del rapporto tra l'artista e lo spazio;
fu come una sorta di "ping pong" tra l’uno e l’altro.
Naturalmente, lo spazio qui dev'essere inteso come
luogo fisico, materiale, concreto e non come luogo
astratto, ideale. Si è perciò creato un dialogo tra lo
spazio e l'opera d'arte. Poiché, differenza fondamentale
tra questo spazio e quello utilizzato dagli artisti della
"Land Art" per le loro opere, consiste soprattutto nel fatto
che quello di quest’ultimi è uno spazio "utopico", mentre
negli anni Ottanta la dimensione utopica delle opere
d'arte viene meno.
Si potrebbe dunque dire che la differenza tra i due tipi di
spazio è data dal fatto che il primo è universale-
cosmico, ad esempio, le opere di Michael Heizer e di
Richard Long rappresentano una forza della natura, vi è
in esse la simbiosi tra natura e cultura. Questo carattere
è molto evidente in Richard Long. Certo, anche nell'Arte
Povera vi era agli inizi la ricerca di una simbiosi analoga
o, si potrebbe dire meglio, di un'armonia. La differenza
tra questi due modi artistici è un po' simile a quella che
vi è tra l'opera di Camille Corot e quella di Piero della
Francesca.
Negli anni Ottanta, invece, la situazione divenne
completamente diversa: era la creazione che in quel
momento dominava la natura. L'opera d'arte venne
pensata dagli artisti come il ritratto dell'artista stesso che
si situa nel mondo. Ciò che conta è dunque la sua
posizione, la presenza dell'artista che diviene più forte.
Nello stesso tempo si instaura la lotta tra l'artista e lo
spazio: l'artista rivolge una sfida allo spazio per
dominarlo.
Si afferma, perciò, una nuova dimensione dell'opera
d'arte, che appare essere più forte dello spazio che la
circonda. Così, ad esempio, Mario Merz negli anni
Ottanta vuole attaccare lo spazio e lo attacca. Lo stesso
avviene nelle opere di Beuys, come in quella realizzata
a Napoli: "Terrae motus". In quel caso, egli sostituì lo
spazio fisico del luogo con il proprio spazio vitale; lo
stesso fece nell'opera creata con pietre e alberi a
Dessau. In questo senso, egli ha veramente dominato lo
spazio della vita tanto per la quantità che per il luogo.
Contemporaneamente, vi è questa dimensione di
grande fisicità e una vicinanza dell'opera a colui che
guarda.
Si è attuato, perciò, un cambiamento di sguardo che ha
prodotto effetti notevoli all'interno dell'opera d'arte,
venendo meno la distanza da e con essa; mentre una
tale distanza si avvertiva ancora nel lavoro di artisti
come Long, Heizer e nei concettuali. Vi è infatti una
grande differenza tra questi artisti e quelli che hanno
esposto in "Chambres d'amis"; in questi ultimi vi è molta
più densità, si assiste a un fenomeno di forte
condensazione delle opere.
Tuttavia, in quegli anni vi è stata anche una forte
presenza del mercato. Questo credo sia stato l'aspetto
negativo di quel periodo. Nel momento in cui l'arte ha
assunto grande forza, si è creato necessariamente un
interesse generale. Tutti volevano partecipare alla
complessità della creazione. E questo ha favorito anche
l'inserimento di molti speculatori e ha condotto poi a una
situazione di crack. La cosa incredibile è che molti artisti
e galleristi hanno partecipato a questa situazione,
vendendo agli speculatori; si è avuto persino un
momento in cui questi hanno avuto più soldi di coloro
che amavano l'arte. Perciò, il mondo dell'arte è rimasto
vittima dell'azione di queste persone. Si può dire, infatti,
che il problema del mercato dell'arte è stato molto più
specifico negli anni Ottanta che nei decenni precedenti.
Esso ha stimolato la produzione di opere d'arte in
funzione della vendita, creando di conseguenza una
produzione eccessiva che ha portato a una caduta
generalizzata. Allo stesso tempo, si è avuto un collasso
nell'attività creativa. È venuta meno la fede nella
creazione e diversi galleristi, improvvisamente, hanno
escluso molti artisti per privilegiarne soltanto qualcuno.
Si può anche individuare una data dove collocare con
precisione tale momento di collasso: intorno al 1988-89,
con la sua chiara e completa affermazione nel momento
in cui scoppiò la "Guerra del Golfo" nel 1991. Allora molti
speculatori cercarono di vendere le opere accumulate.
Tuttavia, per avere un quadro più completo bisogna fare
anche un'altra considerazione di ordine più generale.
All'inizio degli anni Ottanta molta più gente ha
incominciato a interessarsi seriamente all'arte, poiché
molte più persone in Europa avevano la possibilità di
studiare la storia dell'arte e frequentare i musei. Così, in
quel momento molti artisti si sono legati a critici d'arte e
hanno assunto un atteggiamento strategico. Un artista
molto strategico in questo periodo è stato, per esempio,
Jannis Kounellis. Tuttavia, nonostante si fosse creato un
legame forte tra artisti e critici, questi ultimi non
parlavano della fisicità delle opere, come del resto non
lo facevano neppure i teorici.
In quel momento, un gruppo di intellettuali si è
allontanato dai legami di tipo sociale e psicologico che
collegavano l'arte al resto della società. Non solo, essi si
sono mossi contro la televisione e il mondo dei mass
media poiché la televisione andava assumendo in quegli
anni un ruolo diverso, dandosi come super-sguardo
sulla vita sociale. Mentre la vita di relazione sembrava
ridursi sempre più e andava perso ogni senso concreto
della realtà, in quanto di questa ci veniva offerta una
rappresentazione dalla televisione. Perciò, alcuni
intellettuali sono stati contro tutto questo e anche molti
artisti, che hanno riscoperto la fisicità dell'opera e hanno
privilegiato la presenza di questa e il suo rapporto con il
luogo. Questo ha fatto sì che, in quegli anni, alcuni
direttori di museo come Rudi Fuchs, Harald Szeemann
e il sottoscritto siano rimasti molto implicati nella
complessità della creazione artistica.
Questa è un'altra differenza importante con gli Stati
Uniti, i cui artisti hanno saputo invece recuperare
intellettualmente il rapporto con la cultura di massa,
come è avvenuto per esempio nell'opera di Andy Warhol
e di Roy Lichtenstein. Mentre in Europa l'arte ha deviato
dalla preoccupazione di avere un legame con la società.
Inoltre, quegli anni furono momenti terribili e per nulla
solidali. Si crearono diverse tensioni. L'Italia fu contro
Beuys, Beuys contro l'America, l'America a sua volta
contro l'artista tedesco, i teorici e i critici contro i direttori
di museo. Fu incredibile. Tutto venne sconvolto
all'interno del mondo dell'arte. Anche se forse non fu
una cosa così negativa, certamente era difficile
mantenere una posizione autonoma. Pochi sono riusciti
a farlo e a guardare con sufficiente distacco al lavoro dei
giovani. Infatti, si cominciarono a costruire dei sistemi-
ghetto, crollati poi alla fine degli anni Ottanta, quando
questo sistema è entrato in crisi. Per questo, nella
Documenta IX del 1992 ho cercato di fare esattamente il
contrario; adottando un modo diverso rispetto a quello
che pretendeva di selezionare un numero ristretto di
artisti. Inoltre, ho voluto fare la Documenta senza un
sistema di riferimento. In essa vi era rappresentato il
"caos" vitale dell'arte, ma con una topografia. Non vi
erano punti fermi determinati e essa non aveva un
centro, ma ogni artista doveva realizzare un'opera in un
luogo preciso e sceglierlo appositamente per questo.
Tuttavia, il punto focale della mia idea non era quello di
far volgere lo sguardo all'interno del percorso della
Documenta, bensì di rivolgerlo sul mondo, che è
l'immagine del "caos". A partire da questa
considerazione basilare ne consegue che non vi sono
differenze tra generazioni, ma gli unici dati sono l'arte e
le opere. Vi è stata anche una sfida ai visitatori a cercare
il loro proprio centro. Poiché all'interno della Documenta
IX vi erano un luogo drammatico, uno di meditazione,
uno della società e, infine, una promenade dell'arte. Vi
erano cioè diverse situazioni e la topografia era
importante, ma ogni opera era pensata come un corpo
autonomo che si distaccava dal resto, come un'entità
individualista.
E la fisicità dell’opera era presente anche nel lavoro di
alcuni artisti americani che si avvicinano all'idea
europea, come David Hammons e Louise Bourgeois.
Quest'ultima, per esempio, ha fatto propri i meccanismi
dell'arte europea legandoli profondamente alla sua
storia sessuale di donna. Così, essa appartiene agli
Stati Uniti ed è un'artista americana ma è anche donna,
e questa identità personale è quella su cui si fonda il suo
lavoro. In David Hammons c'è la sua storia personale
legata a quella della razza nera nordamericana. Infatti, i
nordamericani di colore sono molto legati alla loro storia
poiché sono alla ricerca della loro identità e allo stesso
tempo appartengono all'America e in essa hanno le loro
radici. Questi artisti producono perciò il loro lavoro a
partire dalla propria vita. Anche le opere di altri artisti
americani vanno in questa direzione, per esempio quella
di Bruce Nauman. Infatti, il suo lavoro non possiede
alcun cinismo ed egli dimostra una sensibilità che gli
consente di avvertire il mondo, di confrontarsi con esso
e lasciarne affiorare l'angoscia.
Un artista che possiede un atteggiamento cinico è
invece Jeff Koons. Anche se non voglio dire di essere
contro questo artista, il quale non si può negare che sia
un artista, tuttavia egli introduce nella sua opera una
condizione di cinismo. In ciò egli è vicino alla Pop Art.
Anche se non credo vi sia una componente di cinismo
nel lavoro di un artista come Andy Warhol, nel quale vi è
piuttosto una forma di tragicità.
Mentre in Koons tutto è superficie e vi è una distanza
dall'opera. Per questo ho voluto escludere questo
cinismo non in quanto tale, ma perché credo che l'opera
d'arte debba essere un mezzo per esprimere ancora la
fede. Per costruire la fede nel gesto creativo, malgrado
la vulnerabilità dell'artista.
Tuttavia, per tornare al rapporto con la storia, si
potrebbe dire che mentre in precedenza vi erano stati
molti movimenti artistici come l'Arte Povera, la Minimal
Art, l'Arte Concettuale e la Land Art, negli anni Ottanta si
sono avuti soltanto singoli artisti che hanno realizzato la
loro opera legandola alla dimensione della fisicità e della
loro esperienza. Il loro linguaggio è divenuto più
dialettale e l'opera si è legata alla storia del territorio di
provenienza. La fondamentale differenza tra queste due
situazioni consiste nel fatto che, prima, il lavoro artistico
si inscriveva all'interno di una situazione internazionale e
l'arte era internazionale sia nelle idee che nella
produzione. Ciò appare molto evidente per l'arte degli
anni Sessanta. In seguito, si è avuta invece una
sovrapposizione della prospettiva internazionale all'idea
di "territorio", di luogo dove si produceva l'opera d'arte.
Ora credo che a contare sia soprattutto quest’idea.
Così, da un linguaggio internazionale si è passati al
costituirsi di una "mitologia individuale", grazie alla quale
l'artista ha prodotto l'opera sostituendosi al linguaggio
internazionale che le era precedente. Ed è in questo
modo che la distanza tra l'opera e l'artista è venuta
meno negli anni Ottanta: questa è un'altra importante
differenza.
Se ora vogliamo allargare il confronto, istituendolo con
l'avanguardia storica, che ha caratterizzato il nostro
secolo, potremmo definire quest'ultima dicendo che
aveva idee romantiche e rivoluzionarie. All'inizio, l'idea
stessa di avanguardia è stata legata all'ideologia
modernista dell'arte, la quale era a sua volta collegata
alle idee, derivate dalla rivoluzione francese, di
Fratellanza, Uguaglianza, Libertà. Ciò lo si ritrova per
esempio nella libertà tipica della vita dell'artista. Ma essa
è legata anche all'ideologia del XIX secolo, traducibile
nei grandi ideali della scienza, della giustizia,
dell'istruzione pubblica, della società democratica.
Credo che durante gli anni Ottanta del nostro secolo tale
ideologia, presa nel suo insieme, abbia perso di
significato: tutto il mondo è ormai al di fuori di ogni
prospettiva ideologica. Questo è ben testimoniato, per
esempio, dagli scritti del filosofo Jean-François Lyotard.
Oggi, è diventato impossibile parlare dell'ideologia.
Mentre dominano, invece, l'egoismo e l'egocentrismo.
Questa, per dirla in modo sintetico, è la dimensione
vissuta dagli artisti negli anni Ottanta. Essi hanno
provato perciò a dare il massimo di se stessi, a costituire
un incontro con l'idea creatrice, utilizzando soltanto la
fiducia in se stessi e slegandosi totalmente dalle
esigenze della società, pur nella speranza che essa li
accettasse.
L'artista è così divenuto asociale, come lo era stato
Théodore Géricault, il quale giunse ad esporre la sua
celebre opera La Zattera della Medusa sotto la tenda di
un circo. Tuttavia, la società del suo tempo partecipò in
qualche modo alla produzione di Géricault ed egli, a sua
volta, fu partecipe del credo e delle convinzioni di quella
società. L’artista francese ha rappresentato in
quell'opera la fede della società cui apparteneva.
Qualcosa di più forte dell'arte che si esprime in termini
puramente formali, formalizzandosi nelle opere come
credenza stessa della società. In questo senso, perciò,
La Zattera della Medusa è divenuta un simbolo della
società del suo tempo.
Oggi, invece, l'artista è asociale; mentre negli anni
Sessanta vi è stata un'anonimia diffusa nel lavoro degli
artisti. Per esempio, Andy Warhol come artista è
scomparso dietro il proprio lavoro; lo stesso si può dire
per Sol LeWitt, che scompare a sua volta dietro l'idea e
la struttura che realizza. Un tale approccio è
naturalmente molto diverso rispetto ai modi precedenti
dell'Espressionismo Astratto, nelle cui opere vi è traccia
della psicologia dell'artista.
Dunque, negli anni Sessanta l'artista sparisce dietro la
società, dietro l'immagine di questa. Ma, a partire dagli
anni Settanta, esso non si nasconde più. Beuys ne è
l'esempio paradigmatico. È nato nuovamente un
bisogno di un impegno dell'artista nella società e lui lo
ha incarnato perfettamente.
Negli anni Ottanta, invece, non sono più solo le radici
dell'avanguardia a contare, ma in particolare il rapporto
con il territorio culturale, dato che l'avanguardia è finita.
Così, nello stesso lasso di tempo che va dagli anni
Sessanta agli Ottanta, anche la figura del critico è
radicalmente cambiata, come sono cambiati i galleristi.
Questi assumono un atteggiamento di attesa e sono
contrari ai musei, perché trovano che questi li
contrastano nella ricerca dei nuovi artisti. Questo
accade perché i musei sanno assumersi i rischi delle
scelte, mentre i galleristi aspettano che siano il signor
Hoet o il signor Fuchs a scegliere. Ciò è terribile, perché
in questo modo le gallerie sono sempre più orientate
verso un discorso puramente economico.
Tuttavia, anche la critica d'arte ha le proprie
responsabilità. Per esempio, consacra il proprio tempo e
la propria intelligenza a un artista come Gerhard Richter,
del quale comincio paradossalmente a dubitare perché
alcuni teorici hanno iniziato a dire che il suo lavoro
rappresenta la memoria dell'arte. A questo punto, mi
sono posto la questione se sia ancora un artista in
senso classico-romantico, o soltanto un professore
educato alla globalità nel senso della cultura
postmoderna? Capisco che mentre Mario Merz può
essere difficilmente considerato un docente, di
qualunque università o scuola, Richter rischia di essere
scambiato invece per tale e, in un certo senso, sia più
facile scrivere sulla sua opera che non su quella di
Merz.
Infatti, è chiaro che la critica d'arte, che agisce come
uno specchio nei confronti dell'opera dell'artista, scrive
soltanto sulle opere di artisti il cui lavoro corrisponde alla
struttura del linguaggio verbale. Quegli stessi artisti che
oggi lavorano soltanto in funzione del linguaggio
verbale, pur partendo dal linguaggio visivo che è il
linguaggio dell'apparenza.
Inoltre, i critici d'arte vogliono essere autonomi dalla
produzione artistica. In questo modo, non si avverte più
la presenza di situazioni aperte e molti di loro vanno alle
mostre solo dopo l'inaugurazione. Si è perciò creata una
cesura. Mentre la generazione di critici alla quale
appartengo è stata molto più legata alla storia, perché la
storia passa attraverso l'arte e tutte le nostre
conoscenze storiche passano attraverso ciò che si
guarda.

Note biografiche

Jan Hoet è nato a Leuven nel 1936. Si è laureato in


Storia dell’arte e archeologia ed è divenuto direttore
dello Stedelijk Museum voor Actuele Kunst di Gent nel
1975. A partire dal 1976 ha curato numerose mostre nel
museo, tra cui ricordiamo le seguenti, dedicate a singoli
artisti: Panamarenko, Marcel Broodthaers (1976),
Joseph Beuys (1977), Luciano Fabro (1981), Jan
Vercruysse (1982), Ettore Spalletti (1983), Bruce
Nauman (1991), Ilya Kabakov (1993), Marina Abramovic
(1996), Anselm Kiefer (2000), Richard Serra (2000),
Jonge Mexicaanse kunstenaars “Erogéna” (2000), Jean-
Pierre Raynau “Drapeau” (2000-2001), Raoul De Keyser
- Luc Tuymans (2001), Royden Rabinowitch (2001).
Mentre tra quelle collettive, sempre realizzate al museo,
ricordiamo: Kunst in Europa na ’68 (1980), Chambres
d’amis (1986), Open Mind (1989), Rendez-Vous (1993),
De Rode Poort - The Red Gate (1996-1997), S.M.A.K. in
Watou “Voor het verdwijnt en daarna” (1998), S.M.A.K.
“de Opening” (1999), Over The Edges (2000).
Ha curato anche numerose esposizioni all’estero, tra
cui: Arte Povera and Individual Mythology (Montreal,
1983), Dialogue (Lisbona, 1985), Irony by Vision (Tokyo,
1991), Documenta IX (Kassel, 1992), Art in Belgium
(Hong Kong, 1993), Ceci n’est pas une pomme. Arte
Contemporanes en Bellica, (Madrid, 1994), Chambres
d’amis II (Tsurugi, Giappone, 1995), Art of the 20th
Century. Flemish and Dutch Painting from Van Gogh,
Ensor, Magritte, Mondrian to Contemporary Artists
(Venezia, 1997), Biennale di Melbourne (Melbourne,
1999), Trattenendosi (Venezia, 1999), Artline 5 (Borken,
2001), Sonsbeek 2001 - Locus Focus (Arnhem 2001).
Oltre ad aver pubblicato numerosi articoli su periodici e
quotidiani e tenuto conferenze per numerose
organizzazioni, ha ricoperto vari incarichi tra cui
ricordiamo i seguenti: Commissario per gli acquisti del
F.R.A.C. Nord/Pas de Calais; Commissario di “Aperto”
alla Biennale di Venezia del 1986; membro della giuria
“L’age d’Or” (1987); Commissario del padiglione belga
della Biennale di Venezia (1988); direttore artistico della
Documenta IX (1989-1992); direttore artistico del
Sonsbeek 9 (2001); presidente del Association
International des Art Critiques; Officier dans l’ordre des
Artes et des Lettres de la République Française (1997).
SCHEDA INTRODUTTIVA A PIERRE RESTANY

Pierre Restany sostiene che Yves Klein non può essere


propriamente considerato l’anticipatore dell’avanguardia
internazionale degli anni 1960-80; anche se forse
questo è avvenuto nei fatti. In realtà, Klein non era tanto
preoccupato dell’impatto della sua opera sugli altri,
quanto di conseguire l’obiettivo di cogliere una piccola
porzione di una verità più grande, riuscendo a
trasmetterla attraverso la sua opera e la dimensione
utopica del suo progetto. Per questo motivo, l’artista può
essere considerato un grande intuitivo che, attraverso
una serie progressiva di intuizioni, ha cercato di
realizzare un’opera di grande rigore.
Il suo punto di partenza è stato l’impiego del colore puro
concepito come momento di fissazione dell’energia
cosmica che si trova libera nello spazio. Tale energia,
per l’artista, rappresenta la sostanza di ogni linguaggio.
Lo stesso Restany ha subito un’influenza profonda,
esercitata dall’opera e dalla personalità di Klein, che
hanno determinato una trasformazione radicale del suo
modo di pensare.
Nel 1957 Klein utilizzò per la prima volta come colore
unico il blu oltremare. Esso fu mantenuto fino al 1958,
quando realizzò la dimostrazione sul vuoto, esponendo
le pareti nude di una galleria. Fu questo il suo atto più
radicale. Ciò lo pose di fronte alla questione successiva
di che cosa fare in seguito. La risposta che egli si diede
fu di esplorare il significato simbolico del vuoto, inteso
come rappresentazione del Cosmo. Per farlo, realizzò
una serie di opere basate sulla trilogia dei colori
fondamentali: blu, oro, rosa. Da quel momento, Klein
iniziò a seguire un percorso alchemico, e lavorò, in
seguito, con i due elementi fondamentali dell’Aria e del
Fuoco. Progettò, così, le sue architetture utopiche da
prodursi con l’uso di aria compressa, ipotizzando anche
la realizzazione di grandi spazi fisici - come canyon e
valli - completamente climatizzati. L’altro importante
elemento da lui utilizzato, il fuoco, fu impiegato come
forza positiva.
Va però ricordato che lo sviluppo del suo lavoro è stato
condizionato anche dal breve periodo in cui si è svolto.
Egli è morto, infatti, a soli 34 anni. Tuttavia, i pochi anni
che ha lavorato, gli sono bastati per costruire un’opera
di grande coerenza e rigore classico.
Si può dire, perciò, che Klein sia stato un grande
alchimista visionario e che la sua idea complessiva è
stata recuperata solo in modo frammentario da coloro
che gli sono succeduti, senza quella coerenza
complessiva. Ed è stato il sostenitore della rivoluzione
blu che dovevano attuare i Nouveaux Réalistes.
Nel rapporto con gli altri artisti, invece, la sua influenza è
stata abbastanza marginale, anche se ha influenzato
Lucio Fontana, Piero Manzoni, Jean Tinguely e il
Gruppo Zero tedesco. A New York il suo lavoro fu
recepito da Barnett Newman, Mark Rothko e Ad
Reinhardt in modo ambiguo. Egli compì, inoltre, l’errore
di cercare di giustificarsi a posteriori con il “Manifesto del
Chelsey Hotel”. Così, dopo la morte, ci sono voluti alcuni
anni perché si cominciasse a rivalutarlo con la mostra al
Jewish Museum di New York, nel 1967. La definitiva
affermazione venne nel 1983 con alcune mostre tra
l’Europa e gli Stati Uniti.
Tuttavia, è necessario distinguere tra l’opera, che si è
sviluppata in modo quasi isolato, e la leggenda, nata
dopo la sua morte. Perciò, conclude Restany, non esiste
una risposta chiara alla posizione rivestita da Klein nella
cultura figurativa degli ultimi decenni. Il carattere
ambivalente del suo lavoro ha fatto sì che egli fosse sia
un protagonista della rivoluzione dell’oggetto, sia un
anticipatore della sua smaterializzazione. Si possono,
perciò, stabilire rapporti con il Neo-Dada, il Nouveau
Réalisme e la Pop Art, ma anche con l’Arte Povera, la
Minimal Art, la Land Art e la Conceptual Art. Questo è il
motivo per cui il critico tiene separata la lettura
dell’opera di Klein dal rapporto con i contemporanei,
anche se ne vede le possibili connessioni.
Inoltre, il fatto che questo artista sia morto in giovane età
gli ha risparmiata compromessi di qualunque tipo,
conferendo alla sua opera una forza che è determinata
dalla purezza e dall’alto grado di coerenza del suo
percorso interno.

COLLOQUIO CON PIERRE RESTANY

Il considerare l'opera di Yves Klein come anticipatrice


dell'avanguardia internazionale degli anni che vanno
all'incirca dal 1960 al 1980 è fondamentalmente un'idea
sbagliata. Si potrebbe forse dire che ciò sia avvenuto nei
fatti attraverso il potere irradiante del suo progetto
utopico, delle sue teorie e di certi suoi atteggiamenti,
però questo non è il modo giusto, veramente realista, di
considerare l'opera di Klein. D'altro canto, egli era
convinto di essere tributario di una verità assoluta, priva
di mediazioni, che si rivelava a lui in modo progressivo
secondo un percorso scandito da tappe successive. Per
questo motivo il personaggio Klein non era preoccupato
dell'impatto teorico della sua ricerca e neppure da una
prospettiva di continuità logica che potesse rivelarsi in
una storia successiva al suo lavoro. La cosa veramente
importante per lui era quella di poter trasmettere un
messaggio puntuale, corrispondente a un frammento di
verità globale che egli aveva raggiunto nella sua
coscienza e nella sua capacità espressiva. Anche per
questo si può dire che non abbia mai voluto essere un
caposcuola o qualcosa di simile a un Pigmalione
mentale. Tra le altre cose, ha lasciato a me il lavoro
teorico sul Nouveau Réalisme e ha impresso tutta la
forza virtuale della sua capacità espressiva nella
"rivoluzione blu".
Tuttavia, questi fatti sono secondari, poiché in estrema
sintesi egli ha incarnato la presenza di un tutto organico
basato sull'intuizione. Si potrebbe anzi dire che egli sia
stato una miniera inesauribile di intuizioni e che, a una
grande intuizione complessiva di fondo, egli sia stato in
grado di ricollegare per frammenti tutte le altre, le quali
insieme hanno costituito la dinamica interna del suo
pensiero o, più complessivamente, della sua avventura.
Per comprendere l'opera di Klein questo è un fatto
fondamentale: come tutti i grandi intuitivi egli possedeva
il senso di una logica progressiva. Perciò, quando nel
1954 tornò dal suo viaggio in Giappone, aveva già
acquisito quell'idea fondamentale per cui il colore puro
sarebbe stato il veicolo principale del suo lavoro
successivo. Il colore rappresentava per lui, infatti, come
per tutti i grandi pensatori spirituali o mistici
dell'Occidente e dell'Oriente, la fissazione dell'energia
cosmica in libera circolazione nello spazio. Secondo
questo punto di vista tale energia diviene alimentazione,
supporto e sostanza di ogni linguaggio e chi è in grado
di fissare tale energia e di gestirne l'uso diviene un
maestro del linguaggio. Questa è la ragione per cui
quando ha fatto la sua prima importante mostra alla
galleria Colette Allendy di Parigi il titolo della mia
presentazione fu: "Il minuto di verità". Con esso
intendevo proprio postulare la forza del suo istinto.
Se mi è consentita una parentesi personale sul nostro
rapporto, devo ricordare innanzitutto che esso è iniziato
molto presto. Lo incontrai nel 1955, all'epoca in cui mi
ero appena laureato e mi sentivo ancora un po' un
prodotto della cultura accademica. Il contatto con lui fu
per me decisivo, poiché il suo fascino intellettuale era
veramente forte, e davanti alla manifestazione del suo
istinto utopico compresi che la vera realtà è,
paradossalmente, il sogno. Infatti, esso conferisce
elasticità a progetti forti quali quello che lo stesso Klein
ha incarnato con la sua intera opera. Perciò, decisi che,
se volevo continuare nel mestiere che avevo scelto,
dovevo cercare di vedere un po' più lontano e di sentire
in un modo più profondo. Quando si arriva a delle
conclusioni del genere a venticinque anni, viene
spontaneo rinunciare a ogni ambizione di tipo
universitario, politico-amministrativo o musegrafico.
Compiere una scelta tanto drastica a quell'età ti fa
diventare come una bomba innescata. Perciò alla base
del mio rapporto con Klein è esistito questo tipo di
metamorfosi del mio essere, e devo a lui di avermi dato
una tale dimensione che in seguito ha cambiato la mia
vita e aiutato la mia cultura e la mia sensibilità.
Questa breve precisazione era necessaria perché i miei
rapporti con l'artista sono stati parte integrante della
riflessione critica sul suo lavoro, il quale ha peraltro
subito dei fraintendimenti nel corso degli anni. Infatti, già
nella mostra del 1955, Klein esponendo una serie di
pitture monocrome di diverso colore fece nascere nel
pubblico la prima grande confusione. Quei dipinti furono
visti come una specie di neoplasticismo frammentato ed
esploso sulle pareti. Ciò non è tanto strano se si
considera che all'epoca l'influenza di Mondrian era molto
forte, basti pensare al fatto che negli anni Cinquanta
ogni cucina dei nuovi orrendi palazzi costruiti in quegli
anni ricordava le opere dell'artista astratto. Per reagire a
questo fraintendimento Yves Klein scelse allora il blu
oltremare scuro, che possiede una tonalità profonda,
facendolo divenire il suo IKB - "International Klein Blue".
La prima mostra dedicata a questo tema venne da lui
fatta alla galleria Apollinaire di Milano, nel 1957. Ciò
costituisce già il secondo passo compiuto da Klein in
direzione di quella verità auto-espressiva che egli
andava mano a mano mettendo a fuoco. La mostra era
veramente suggestiva. Il colore blu fu scelto per ragioni
sentimentali, l'idea risaliva al 1948, quando egli aveva
avuto l'intuizione del colore blu puro sulla spiaggia di
Nizza guardando il cielo senza nuvole. Inoltre, il blu può
essere considerato legato a tutte le nostalgie dell'infinito
a partire da elementi naturali quali il cielo o il mare.
Questo divenne dunque il colore unico e fondamentale
nell'opera dell'artista fino al 1958 quando, esponendo
alla galleria Iris Clert di Parigi l'artista compì la famosa
dimostrazione sul vuoto che si può dire costituisca il suo
atto più radicale. Il risultato fu ottenuto con la
presentazione dei semplici muri della galleria
sensibilizzati dalla presenza dell'artista, che diventava in
quel modo l'accentratore di una sensibilità cosmica. E il
passaggio a questo estremismo energetico ha costituito
un importante punto di arrivo della sua riflessione
operativa.
Fu in quel momento che si pose la questione: che fare
dopo il vuoto? La risposta fu di proiettare il significato
simbolico o emblematico del vuoto nella sua
destinazione finale, costituita dal Cosmos. Per fare
questo Klein inventò la trilogia dei colori fondamentali,
formata dal blu, dall'oro e dal rosa, da lui ribattezzati
come IKB, "Monogold" e "Monopink". Tale scelta
rappresenta anche la proiezione alchemica dei colori
principali che sono appunto: blu, giallo e rosso.
La metamorfosi che avvenne allora nel suo lavoro è
importante, poiché a partire da quel momento Klein
cominciò a preoccuparsi del destino del mondo.
Secondo lui, tale destino corrispondeva al manifesto
cromatico dell'alchimia fondamentale. Poiché, secondo
la definizione datane da Carl Gustav Jung, l'alchimista
moderno di cultura cristiana è alla ricerca della pietra
filosofale non tanto come definizione di un potere
magico o fantastico ma come progetto di salvezza
dell'umanità. Infatti, il Cristo ha salvato l'uomo ma non il
mondo, che deve essere salvato dall'alchimista. Con un
termine specifico, si dice che tale alchimista cerca
l'Apocatastasi, che è la salvezza generale e universale
del mondo.
Perciò, come ho sostenuto nel mio libro, Yves Klein ha
imboccato questa via dell'alchimia seguendo la grande
metafora attiva dei due elementi fondamentali del Fuoco
e dell'Aria. L'aria divenne la principale ispiratrice delle
sue architetture in quanto essa non solo gli offrì la
possibilità di pensare a un modo di vita totalmente
trasparente, poiché i muri e i tetti da lui progettati
dovevano essere realizzati con aria compressa, ma una
tale idea di costruzione cancella i due motivi
fondamentali dell'architettura occidentale: l'angolo retto,
che esercita la forza portante, e l’interno, come luogo
della "privacy". Nella sua concezione, questo tipo di
architettura avrebbe implicato un benessere e una
felicità di tipo fisico, mentale e spirituale. Inoltre, l'aria
compressa dava la possibilità di pensare alla
climatizzazione di grandi spazi geografici, come canyon
e valli, dove l'uomo avrebbe potuto vivere allo stato di
natura in una sorta di eden tecnologico, in libera
circolazione nello spazio. Questo è uno degli aspetti
dell'operazione alchemica di Klein; l'altro è costituito
dalla via del Fuoco. Nelle sue pitture e sculture fatte con
il fuoco, Yves Klein cercò di stabilire delle differenze in
seno al vuoto, che divenne lo spazio naturale della sua
ricerca rivoluzionaria, e di porre una distinzione tra il
fuoco alchemico che brilla e quello che brucia,
scegliendo perciò la luce del paradiso contro le ceneri
dell'apocalisse.
In un riassunto molto ellittico, questa può essere
considerata la progressione della sua opera e del suo
pensiero. Non va dimenticato, infatti, che la sua carriera
è stata brevissima e si è svolta nell'arco di soli sette
anni, che vanno dal 1955 al 1962. Egli morì all'età di 34
anni. Tuttavia, fu così forte l'impulso di verità che
incarnava il suo lavoro, che questi pochi anni gli sono
bastati per edificare un'opera che potremmo definire di
rigore classico per la coerenza interna. Perciò
l'architettura del suo percorso si presenta in modo quasi
perfetto: da una monocromia differenziata in diversi
colori a una monocromia unica centrata sul blu, di lì
all'idea di universo blu realizzata a partire dall'impronta
umana lasciata dai corpi delle modelle bagnati nel
colore. In seguito, esaurita la funzione linguistico-
semantica del blu vi è stato il passaggio all'idea di vuoto,
che divenne la metafora centrale dell'energia cosmica,
illustrata con la trilogia dei colori blu, oro, rosa, con tutta
una serie di pitture e sculture di fuoco, vero elemento di
sintesi nella sua ricerca alchemica. Mentre l'elemento
dell'aria venne impiegato nei progetti architettonici e
nell'idea di una natura climatizzata e sublimata in una
specie di beatificazione esistenziale.
Questo è il senso del percorso interno dell'opera di Yves
Klein. Non intendo con ciò fare un’analisi puntigliosa di
ogni suo momento particolare, poiché questo non è mai
stato il mio compito. Ma ho voluto dare innanzi tutto la
percezione dell'ampiezza del respiro visionario di questo
artista. È importante, infatti, vedere Klein al di là della
sua dimensione di pittore del blu o di precursore della
Body-Art, con le impronte corporee di donne da lui
definite "Antropometrie", o nella messa in atto del
processo di concettualizzazione delle pitture di fuoco o
dei progetti di architetture dell'aria. Se volessi esprimere
un giudizio sintetico direi che Klein è stato un grande
alchimista visionario e che il suo progetto è stato
recuperato a livello semantico dai successori solo per
frammenti, senza esprimere il fondamento del suo
pensiero complessivo. Egli voleva soprattutto il
benessere, la felicità fisica e spirituale dell'umanità e
pensava che tutta la tecnologia e il progresso tecnico
dovessero servire a questo scopo. La sua ambizione era
quella di creare un specie di confraternita, i cui membri
sarebbero stati i Nouveaux Réalistes, che avrebbero
dovuto prefigurare la rivoluzione blu. Il blu divenne,
dunque, la grande metafora dell'energia e lo strumento
della catarsi che si sviluppava da uno stato di pienezza
e sublimazione.
Un discorso a parte andrebbe fatto per ciò che riguarda i
suoi rapporti con i contemporanei.
Non va dimenticato, infatti, che Klein ha vissuto in un
mondo che era allora ristretto e ha sviluppato la propria
opera a Parigi in un momento in cui la città stava
lottando con New York per conservare la supremazia nel
mondo dell'arte. Lo scontro era allora tra la cosiddetta
Scuola di Parigi, che praticava una specie di post-
cubismo neofigurativo o neoastratto, e l'emergere
irresistibile dell'espressionismo astratto newyorchese. In
quella situazione Klein è stato dapprima considerato un
semplice ribelle, in seguito come un traditore della
causa. In ogni caso, il suo effetto è stato marginale
anche se ha influenzato artisti importanti come Jean
Tinguely in Francia, Lucio Fontana e Piero Manzoni in
Italia, il Gruppo Zero in Germania.
Dopo la mostra alla galleria Apollinaire di Milano nel
gennaio 1957, l'influenza maggiore è stata sicuramente
quella esercitata su Manzoni, che era solo di due anni
più giovane di lui. Basti ricordare che i primi "Achrome"
dell'artista italiano risalgono al dicembre di quell’anno. Si
può dire veramente che il giovane Manzoni ha avuto
una vita e un destino plagiati da una personalità molto
più forte della sua e che la sua opera, malgrado alcune
diverse apparenze formali, è stata fortemente
condizionata dalla progressione delle rivelazioni e
dall'istinto cosmico di Klein.
Nonostante questo, Yves Klein ha continuato a essere
una figura marginale per tutta la vita e quando, nel 1961,
ha esposto alla galleria Leo Castelli di New York, la sua
mostra è arrivata forse troppo presto o - al contrario -
troppo tardi. In quell'occasione egli presentò i grandi
monocromi esposti nel 1957, ma il suo lavoro era già
molto più avanti. Quattro anni, all'interno del suo
percorso, rappresentavano un abisso nello sviluppo
della sua visione. Le opere furono recepite in modo
ambiguo da Mark Rothko, Barnett Newman e Ad
Reinhardt; cioè dagli artisti "spaziali" di New York.
Inoltre, Klein commise l'errore di cercare di giustificarsi a
posteriori, con il famoso manifesto del "Chelsey Hotel",
che prese la denominazione dall'albergo nel quale
alloggiava durante il suo soggiorno nella città
americana. Egli cercò di prendere posizione nei
confronti di quegli artisti e fu uno sbaglio poiché, al di là
di una certa somiglianza e di un'analogia soltanto
formale dei lavori, le cose erano ben diverse. Tre mesi
dopo espose alla Dwane Gallery di Los Angeles
ottenendo una risposta migliore, ma complessivamente
si può dire che il suo viaggio americano si svolse
all'insegna di una grande ambiguità e fu di esito incerto.
In seguito, l'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti
di Klein è molto cambiato, a cominciare dall’intelligente
mostra curata dal Jewish Museum di New York nel
1967. Vi è stata poi la grande retrospettiva del 1983,
esposta nei musei di Houston, Chicago e al "Solomon
Guggenheim" di New York, giunta anche al "Centre
Georges Pompidou" di Parigi.
Dunque, il problema centrale che si pone
nell'interpretazione dell'opera di Yves Klein è proprio
quello di capire come si collochino il personaggio e la
sua avventura nella cultura artistica del nostro tempo. E
questo appare di difficile impostazione poiché, come ho
ricordato all'inizio, Yves Klein non è stato il prodotto di
un'area geografica o di un momento storico preciso della
cultura europea o francese. La sua opera si è sviluppata
in modo totalmente autonomo e all’interno di un
ambiente che è stato, nei suoi confronti, indifferente per
non dire ostile. Solo un ristretto numero di artisti e
uomini di cultura hanno avvertito l'importanza della sua
opera quando egli era ancora in vita. Perciò, si potrebbe
dire che oggi ci troviamo in presenza di un doppio piano
su cui si pongono, da un lato, l'opera e, dall'altro, la
leggenda del percorso di Yves Klein.
Non credo che esista una risposta chiara in proposito
sulla posizione dell'artista nella cultura figurativa degli
ultimi decenni. Poiché da una parte la sua forza
visionaria e alchemica ne fa un eterno marginale, sia in
conseguenza della mancanza di rapporti organici con
l'ambiente di origine sia per la solitudine nella quale si è
trovato il suo lavoro; che costituisce la caratteristica
principale dei grandi istintivi e dei grandi credenti laici tra
i quali egli può essere posto. Da un altro punto di vista, il
riconoscimento della sua importanza può essere
determinato sia dal valore semantico di cui sembra
sempre più impregnarsi la sua opera con il passare del
tempo, sia dal fenomeno diretto o indiretto dell’influenza
che il suo messaggio ha avuto su vari altri creatori. Tale
influenza non era comunque da lui voluta, ma è risultata
essere il prodotto del peso specifico della sua idea, delle
sue azioni e delle sue opere. In questo senso, egli è
diventato un personaggio leggendario, aiutato anche dal
fatto di essere morto prematuramente e perciò
risparmiato dai compromessi sempre possibili con la vita
e con il mercato dell'arte.
Infatti, sarebbe stato molto difficile riuscire a realizzare
un prototipo dell'architettura dell'aria o della
climatizzazione degli spazi naturali, oppure realizzare gli
esperimenti di levitazione che egli esemplificò con la
celebre fotografia del "Teatro del vuoto".
L'ambivalenza e la complessità della sua opera l'hanno
fatto diventare in qualche modo un protagonista della
rivoluzione dell'oggetto e nello stesso tempo un
anticipatore della grande corrente della
smaterializzazione dell'opera d'arte come oggetto. Si
possono perciò stabilire rapporti con le posizioni di
trionfalismo auto-espressivo che riguardano l'oggetto,
quali si hanno nel Neo-Dada, nel Nouveau Réalisme e
nella Pop Art, oppure metterlo in rapporto con il
pauperismo dell'Arte Povera o il minimalismo della
Minimal Art o il naturalismo integrale della Land Art o,
ancora, con il passaggio verso l'idea e il concetto propri
dell'Arte Concettuale. Questo è reso possibile dalla
duplice natura dell'opera di Yves Klein, che gli proviene
dalla sua tradizione alchemica, la quale si manifesta
attraverso la coesistenza del materiale con l'immateriale
nella metamorfosi della materia in un vuoto pieno di
energia sublimata. Dunque, se ho voluto staccare la
lettura dell'opera di Klein dal rapporto con i suoi
contemporanei non è perché non vi veda delle possibili
connessioni.
Si potrebbe inoltre aggiungere che l’artista ha
conseguito un'intuizione sintetica della propria epoca,
anche per quanto riguarda i problemi dello spazio,
intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta. Infatti,
non va dimenticato che nel 1955 si concluse il periodo di
ricostruzione ed iniziò il primo stadio della civiltà dei
consumi per l'Europa, la quale dopo essere stata molto
povera divenne nuovamente ricca. Allora la tecnologia
galoppante incarnò un mito totalmente vissuto e
illustrato in modo quasi mitologico dall'avventura
spaziale. E quando Gagarin, il primo uomo ad andare
nello spazio, nel 1960 ritornò dicendo che la terra vista
da 200.000 km di distanza è blu, per Klein fu una cosa
meravigliosa, quasi una verifica assoluta della sua
intuizione sul blu. Dunque egli fu, in un certo senso,
anche il prodotto di quell'epoca e del clima di ottimismo
che vi si respirava. Eravamo ancora lontani dal 1973,
quando la crisi petrolifera e quella del dollaro fecero
terminare tale ottimismo.
Va comunque precisato che l'opera di Klein non è
esclusivamente contenuta nel rapporto con quel
periodo. L'epoca stessa non si presta a quel tipo di
sintesi formalista che compì, per esempio, Kazimir
Malevic nel 1913, quando ebbe un'intuizione globale
analoga a quella di Yves Klein. Tuttavia, Malevic non ha
avuto il destino di morire quando la logica e la dinamica
del suo pensiero teorico erano all'apice della loro attività,
ma è vissuto più a lungo ed è tornato alla figurazione
pittorica e all'esilio interno nel suo paese. Mentre Klein
non ha avuto questi problemi. Ecco perché il suo
messaggio rimane ancora oggi di una purezza e di una
forza dinamica inimitabile e ineguagliabile,
trasformandolo in un serbatoio di forza creativa per il
futuro. Perciò, per concludere, possiamo dire che Klein
si presenta ancora come il produttore di una perfetta e
classica logica artistica realizzata nella gestione di
un'intuizione universale.

Note biografiche

Pierre Restany è nato a Amélie-les-Bains nel 1930.


Dopo aver trascorso l’infanzia e la giovinezza in
Marocco, ha compiuto i propri studi universitari in Italia,
Francia e Irlanda. Il suo incontro con Yves Klein nel
1955 è stato fondamentale consentendogli di rimettere
in discussione molte delle basi del linguaggio artistico
convenzionalmente accettate in quegli anni. Presagendo
le aperture e i limiti dell’espressionismo astratto
americano e dell’astrazione lirica europea, di cui ha fatto
un bilancio nel libro Lyrisme et Abstraction, è giunto
presto a teorizzare il movimento del “Nouveau
Réalisme” come scoperta di un senso moderno della
natura e un ritorno a un umanesimo dell’oggetto
industriale. Ha fondato quindi il movimento nel 1960 a
Parigi, con il quale ha voluto rappresentare la nascita di
un nuovo sguardo sul mondo contemporaneo della città,
della fabbrica e dei mass media. Ha dedicato ad esso
alcune pubblicazioni, tra le quali ricordiamo: Les
noveaux réalistes, Parigi 1968; Le Nouveau Réalisme,
Parigi, 1978; 1960-1990 Trente ans de Nouveau
Réalisme, Parigi, 1990.
Dal 1963 inizia la sua collaborazione alla rivista
internazionale d’arte e architettura Domus. Nel 1968 egli
compie una riflessione critica sulle strutture sociologiche
dell’arte contemporanea, da cui nascono i libri Le petit
livre rouge de la révolution picturale; Le livre blanc de
l’art totale. Nel 1974 pubblica ancora in francese la
prima monografia dedicata a Yves Klein; seguita nel
1982 da un secondo libro Yves Klein, tradotto in inglese
e tedesco.
Nel 1979 pubblica L’autre face de l’art, una raccolta di
testi apparsi su Domus quell’anno, a cui viene aggiunto
il “Manifesto del Rio Negro”, che costituisce una
riflessione sul senso moderno della natura redatto
durante un viaggio sul Rio delle Amazzoni. Nel 1985
diventa direttore della rivista d’arte italiana D’Ars.
Durante gli anni Novanta, Restany si è interrogato sul
destino della sensibilità e della cultura contemporanee in
relazione al nuovo rapporto che si è instaurato tra
l’uomo e la macchina. La personalità di Klein torna al
centro del suo interesse con una nuova opera,
ripubblicata poi nel 2000, dal titolo Le feu au coeur du
vide, in cui offre un’interpretazione alchemica del
percorso dell’artista. Nel 1998 Henry Périer gli ha
dedicato una biografia dal titolo L’alchimiste de l’art. Nel
1999-2000 ha presieduto le giurie UNESCO delle
Biennali di Venezia, di Shanghai e dell’Avana. È
presidente dell’associazione del Palais de Tokyo a Parigi
e nel 2000 è stata pubblicata l’antologia dei suoi testi
teorici: Avec le Nouveau Réalisme sur l’autre face de
l’art.

SCHEDA INTRODUTTIVA A HARALD SZEEMANN

Il problema, per Szeemann, è sempre stato quello di


aprire la forma dell’opera. Tutto il suo percorso è stato
dedicato a questo scopo, sin dai suoi esordi alla
Kunsthalle di Berna nel 1961, con le mostre degli artisti
della scuola di Parigi, dell’Art Brut, degli Environments,
spostando sempre più la propria attenzione verso i
giovani artisti. Un’altra mostra fu dedicata a temi allora
d’attualità, come quelli della “Luce” e del “Movimento”.
L’intenzione di fondo di queste mostre era quella di
allontanarsi dall’idea tradizionale di quadro.
Nonostante non fosse facile a quel tempo organizzare
mostre di artisti americani - per poter portare opere di
Jasper Johns e Robert Rauschenberg alla Kunsthalle,
Szeemann si era già dovuto appoggiare allo Stedelijk di
Amsterdam - dopo un viaggio negli U.S.A. egli riuscì ad
ottenere un finanziamento dalla Philips Morris europea
per organizzare la mostra When Attitudes Become
Form, a Berna nel 1969. Inoltre, a quel tempo si andava
diffondendo un nuovo modo di lavorare fondato sul
contatto diretto con gli artisti, senza la mediazione di
musei e gallerie; erano essi stessi a dare notizia di altri.
Il problema, così, non fu più quello di fondare una nuova
scuola o un nuovo stile, ma di trovare affinità tra vari
artisti, scrittori e musicisti.
Philip Glass, per esempio, è stato il primo assistente di
Richard Serra ed era amico di Michael Snow. Ed è
attraverso questi legami che il curatore poté presentare
il loro lavoro a Berna. Ad essa partecipò anche Joseph
Beuys, che non era ancora molto conosciuto in quegli
anni.
Nel 1970, per indicare le fonti di questi nuovi artisti,
Szeemann organizzò la mostra Happening & Fluxus,
portando nel museo le azioni che normalmente venivano
realizzate nelle università. In quel periodo si assistette,
come nel 1911, a una vera e propria rivoluzione ed una
cosa molto intressante era seguire le discussioni tra gli
artisti, come quelle che avvenivano tra Richard Serra e
Carl André. Si diffusero così nuove idee; l’opera non fu
più concepita a partire da un materiale che diveniva un
prodotto artistico, ma a partire da un’“attitudine”o
un’energia che produceva l’idea che poi doveva
assumere il materiale. Perciò, l’opera si orientò verso un
certo idealismo che produsse un cambiamento radicale
nella sua concezione. In questo senso, l’opera poteva
allora prendere la forma che voleva.
Per la Documenta 5 fu invece necessario inventare una
nuova impostazione per creare un evento che potesse
durare cento giorni. Per fare queste, Szeemann non
mise sculture nel parco ma pose l’accento sul
contenitore interno, grazie al quale era possibile rendere
i diversi livelli di stratificazione dell’opera. A causa dei
tagli in bilancio non furono date spiegazioni, questo
produsse un grande sconcerto nel pubblico. Non tutti,
infatti, compresero l’operazione; neppure tra i direttori di
museo.
In seguito, Szeemann fece una serie di conferenze negli
Stati Uniti dove spiegò lo schema della mostra. Essa
iniziava con le immagini pubblicitarie, seguiva con quelle
della fantascienza, delle nuove banconote, della
propaganda politica, del Kitsch e del Realismo. Mentre
nella “Neue Galerie” vi aveva posto gli artisti delle
“Mitologie individuali”, che rappresentavano la nuova
arte. Infine, nel “Fridericianum” vi erano gli artisti che
avevano creato gli avvenimenti. Tutto questo
rappresentava un cammino verso l’immaterialità. Molti di
coloro che visitarono l’esposizione pensarono, però, che
si trattasse di un attacco all’autonomia dell’opera d’arte.
Chi comprese che la situazione di apparente caos
offerta da questo tipo di arte aveva un senso, fu invece
l’astrattista svizzero Richard Paul Lhose. Quello che
creò le maggiori difficoltà di lettura nel pubblico, fu che
esso era abituato a vedere le opere in modo separato.
Tuttavia, dopo un primo momento di scalpore, la mostra
si risolse in modo favorevole a Szeemann, anche se egli
rifiutò, o fu impossibilitato, a curarne le edizioni
successive.
Nel 1980, il curatore inventò la formula “Aperto” per la
mostra dei giovani alla Biennale di Venezia. Ed è
singolare come egli all’inizio avesse amato la pittura,
anche se questa non possedeva la forte spinta etica che
caratterizzava il lavoro degli artisti della generazione del
1968. Inoltre, ebbe un esagerato successo
commerciale. Tuttavia, la situazione era ancora molto
diversa quando egli visitò la prima mostra di Sandro
Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De
Maria ad Acireale in Sicilia. Szeemann aveva avvertito
un cambio generazionale, ma questo poteva essere
indicato diversamente; anche con artisti non più giovani
dal punto di vista anagrafico come Richard Artschwager.
Mentre l’altro curatore di “Aperto”, Achille Bonito Oliva,
era preoccupato di invitare soprattutto gli artisti che lui
sosteneva.
Nel 1981, con la nomina a “curatore permanente
indipendente” alla Kunsthaus di Zurigo, cominciò la
stagione delle mostre retrospettive dedicate a Mario
Merz, Sigmar Polke, Beuys, Serra, Walter De Maria e
Bruce Nauman. In quegli anni, organizzò inoltre una
mostra che per lui aveva lo stesso significato della
mostra sulle “Attitudini”: Tracce, sculture, monumenti nel
loro viaggio preciso. Era dedicata al “silenzio”, per
cercare di ritrovare una distanza dalla pittura
“selvaggia”.
Tuttavia, nella generazione di artisti seguita a quella del
1968 ha prevalso un atteggiamento di cinismo, come nel
caso evidente di Jeff Koons. Così, mentre gli artisti
precedenti, si sono inventati un nuovo tipo di
monumentalità, in questi ha prevalso la tendenza ad
illustrarla.
Un’opera come The True Artist Helps the World by
Revealing Mystic Truths, di Nauman, per esempio, è
un’immagine della spinta etica che ha mosso gli artisti di
quella generazione. Perciò, dopo che nel 1993 il Centro
de Arte Reina Sofia ospitò una tappa europea di una
mostra dedicata all’artista, Szeemann ha fatto venire
questa a Zurigo, pur apportandole delle significative
modifiche.
La mostra precedente su Beuys, era stata realizzata con
criteri diversi. Il curatore lasciò lo spazio completamente
aperto dove questo era possibile, realizzando delle
architetture solo dove esso era troppo frammentato.
Infatti, lo spazio era molto importante per l’artista
tedesco, che possedeva un pensiero utopico sulla
società.
Il contrasto con la generazione degli artisti degli anni
Ottanta si vide molto bene nella mostra Zeitlos, curata
da Szeemann a Berlino. In essa, fu la diversa
concezione dello spazio a distinguere artisti come
Reinhard Mucha, Jan Vercruysse e Franz West da
Beuys e Serra. I primi, rifiutarono infatti di confrontarsi
con quest’ultimi, non volendo mettere le loro opere nel
grande spazio centrale della vecchia stazione
abbandonata, dove si trovavano le opere degli altri. E
questo è accaduto, conclude Szeemann, perché
mentalmente sono tornati nel “cubo bianco”.

COLLOQUIO CON HARALD SZEEMANN

Aprire la "forma" dell'opera, è quello che ho sempre


cercato di fare con il mio lavoro sin da quando ho avuto
la direzione della Kunsthalle di Berna nel 1961.
Dapprima ho invitato artisti come Auguste Herbin e
Charles Lapique, che trovavo il più audace della scuola
di Parigi del dopoguerra, ma dopo circa un anno ho
capito che si doveva rompere con questo tipo di
tradizione. Anche perché non era più possibile avere
opere di artisti della generazione di Henri Matisse,
poiché troppo costose. Così mi sono specializzato nella
scoperta di artisti giovani. È questa un'attività del tutto
particolare, perché se per gli artisti il produrre arte
diventa una specie di avventura, lo stesso vale per il
curatore delle loro mostre. Già allora, infatti, mi era
abbastanza chiaro che quando si lavorava con artisti
come Piotr Kowalski, a cui feci la prima mostra in un
museo, o Etienne Martin, di cui esposi le "Dimore", la
suddivisione tradizionale dell'arte in pittura, scultura,
disegno era messa in discussione, anche dal punto di
vista dei contenuti. Inoltre, per cercare di spiegare la
questione "che cos'è arte?", nel 1963 ho realizzato, per
la prima volta in un museo, una mostra di "Art Brut".
In quel periodo vi era infatti la lotta tra Parigi e New York
per la conquista del primato nel mondo dell'arte e questo
mi appariva noioso, perché ho sempre pensato che la
creatività poteva essere ovunque. Di conseguenza, si
poteva benissimo andare nella direzione di una
completa "decentralizzazione", sia del lavoro artistico sia
della sua promozione rispetto a quei due poli. Per
questo motivo, con lo spazio della Kunsthalle di Berna,
ho cercato di fare il possibile per rendere una
testimonianza dell'arte contemporanea di quel momento,
mostrando anche film d'avanguardia e facendo ascoltare
musica. Allora tutto questo era molto facile perché gli
artisti si accontentavano di un pasto e di una notte in
albergo. In questo modo ho potuto avere "Free Jazz
Bands", film di Taylor Mead, Andy Warhol, Markopoulos
e il "Living Theatre".
In quello stesso periodo, un’intera generazione di artisti
stava cercando una nuova dimensione nell'arte, mentre
erano già evidenti altre questioni artistiche, come quella
della "luce" nell'opera di Laszlo Moholy-Nagy o del
"movimento", cui avevano lavorato gli artisti del
"Bauhaus". Perciò, in quegli anni organizzai mostre
dedicate a "Luce e movimento" che cominciavano con
Man Ray, Marcel Duchamp e finivano con Jean
Tinguely, già considerato alla metà degli anni Sessanta
un artista importante. A questo tipo di sensibilità
appartenevano anche le opere di Takis, Alexander
Calder, i giovanissimi di "Nouvelles Recherches
Visuelles" di Parigi o i latino-americani come Jesus
Raphael Soto, Cruz Diez.
Già con queste mostre volevo allontanarmi dall'idea di
quadro e trasformare lo spazio della Kunsthalle, anziché
in un luogo di consacrazione degli artisti, in un
laboratorio. Allora si cominciava anche ad avvertire quel
ritmo di temporalità accelerata che era proprio degli anni
Sessanta. Non avendo molto denaro per organizzare
mostre di artisti americani, che erano allora molto
influenti, dovevo contare sulla buona amicizia che
esisteva tra la Kunsthalle di Berna e lo Stedelijk di
Amsterdam. Grazie ad essa avevo già mostrato nel
1962 le opere di Robert Rauschenberg, Jasper Johns e
di Francis Picabia, che per quel tempo era un artista
abbastanza audace. Finalmente, nel 1967 riuscii a
organizzare una mostra dedicata alla "fantascienza", a
cui molti artisti, anche a Berna, erano in quegli anni
interessati. Tuttavia, c'erano delle differenze tra il mio
modo di organizzare le mostre e quello dei miei
precursori, che hanno sempre cercato di realizzare dei
paralleli storici come quello tra Picasso e la scultura
africana o tra il Surrealismo e l'arte indiana e
dell'Indonesia. Il mio percorso è stato diverso.
Attraverso l'opera di Jean Dubuffet sono arrivato all'"Art
Brut" e di lì alla fantascienza. In seguito, per celebrare i
cinquant'anni della Kunsthalle, organizzai una serie di
"Environments" dove Christo "impacchettò" per la prima
volta un edificio pubblico, Klaus Rinke mise un grande
sacco di gomma all'ingresso impedendo un facile
accesso al museo, per entrare nel quale era veramente
necessario trovare un proprio equilibrio. Invitai anche
Soto, che espose un grande sipario cinetico, e vennero
proiettati film su due schermi a cui erano stati praticati
dei fori; mentre su un altro si potevano vedere
contemporaneamente due film diversi. Quell'anno andai
a New York, grazie a un viaggio gratuito che avevo
ottenuto lavorando per il giornale della "Swissair", e
sentii che si stava preparando qualcosa. Ma a quel
tempo, dovendo organizzare da solo dieci mostre
all'anno e per guadagnare fare anche un altro lavoro,
non era facile.
Finalmente l'anno seguente, grazie al fatto che la
Kunsthalle nonostante fosse in una piccola città godeva
di una discreta fama internazionale, riuscii ad avere un
finanziamento dalla Philip Morris europea per
organizzare la mostra "When Attitudes Become Form",
che fu inaugurata nel 1969.
Nello stesso tempo si era stabilito un nuovo modo di
lavorare, per cui non si passava più attraverso i musei e
le gallerie, ma si interpellavano direttamente gli artisti.
Perciò, poteva accadere di trovarsi con loro in un bar e,
una volta creata una certa armonia, li si invitava a
esporre dicendo: "Se vuoi venire da me a fare una
mostra è sufficiente che tu mi dia un disegno, ma se hai
bisogno del falegname devi dirmelo perché ho una
persona che mette a disposizione i suoi operai
gratuitamente per tre o quattro ore al giorno". Questo
era un nuovo modo di procedere, nel quale gli artisti
diventavano direttamente una fonte di informazione da
cui avere notizie del lavoro di altri. Infatti, spesso gli
artisti amano cose contrarie alle loro, nelle quali, però,
avvertono uno stesso tipo di energia. Così il problema
non fu più quello di costituire una stessa scuola artistica
o stilistica, nella quale tutti lavorassero facendo, per
esempio, sculture in ferro, ma si trattava di trovare delle
affinità con altri artisti, scrittori e musicisti.
Ad esempio, Philip Glass è stato il primo assistente di
Richard Serra e venne con lui a Berna per aiutarlo a
montare le opere della mostra sulle "Attitudini". Così,
abbiamo fatto contemporaneamente una serata al
museo con le sue musiche. Inoltre, siccome Glass
amava i film di Michael Snow, che non era ancora
conosciuto, li proiettammo in quell'occasione. Tuttavia,
dato che l’artista non poteva venire, alcuni suoi amici
portarono i film dal Canada. E questo è solo un esempio
per comprendere come nascevano le mostre a quel
tempo e come si organizzavano gli incontri con gli artisti.
Vi era inoltre una scena sociale molto intensa. Gli anni
Sessanta furono caratterizzati da grandi rivolgimenti; in
politica furono assassinati i Kennedy e ovunque si
respirava, allo stesso tempo, una cultura della violenza
e della creatività. Nel 1967 ero stato invitato a Cuba da
Fidel Castro, con altri centosessanta intellettuali, e
rimasi molto colpito dal suo stile amministrativo.
Quando, per esempio, egli andava a fare le riunioni di
governo con i suoi ministri a casa di un semplice
contadino. Tutto questo era di un'elasticità e mobilità
enormi per quegli anni e pensai che dovevo adottare la
stessa flessibilità nel gestire le cose alla Kunsthalle.
Anche le vicende dell'arte si svolgevano all'insegna di
una grande intensità. Questa è la ragione che mi spinse
a introdurre nel dibattito artistico il termine di "mitologia
individuale" dell'artista, quando organizzai nel 1972 la
"Documenta 5". In questo modo, a differenza delle
precedenti edizioni, evitai di ricadere nell'opposizione tra
due poli o due tendenze artistiche, come potevano
essere Surrealismo e Costruttivismo, Pop e Minimal Art,
o altro ancora. Con la formula della "mitologie
individuali", che non era più fondata su un'idea di stile,
mi è stato possibile mettere insieme costruttivisti e artisti
che lavoravano con il corpo; oppure presentare i grandi
"Environments" di Paul Thek con le sculture di Etienne
Martin, scoprendo in Francia artisti che lavoravano con
la dimensione della memoria e delle testimonianze
esistenziali, come Christian Boltanski e Jean Le Gac. Mi
è stato inoltre possibile avvicinare questi agli artisti
dell'"Aktionismus" viennese, che furono allora mostrati
per la prima volta in un museo. Tutto partiva comunque
da un punto del quale, in qualche modo, io sono stato il
sismografo. Da quel momento iniziò anche la
discussione se non fosse il curatore il vero grande
artista, che sceglie ogni opera come un punto di colore
all'interno di un grande quadro fatto da lui. Per questo
motivo sono stato anche attaccato.
Oggi, a distanza di anni, si può forse dire che la mostra
"When Attitudes Become Form" costituiva una sorta di
campo energetico esteso presente nelle opere degli
artisti che creava una dimensione veramente nuova,
corrispondente alle rivoluzioni parallele che gli studenti
universitari compivano negli atenei di tutta Europa nel
1968.
Da questo punto di vista, a Berna vi era una situazione
favorevole perché la città era guidata da un partito
giovane, attento alla salvaguardia del centro storico e
del verde; quindi più preparato a quell'esplosione
nell'arte. Ed esisteva anche un pubblico attento a questo
tipo di manifestazioni, nonostante la politica ufficiale non
le vedesse di buon occhio. Così, la Kunsthalle di Berna
divenne un punto di incontro dove si ebbe una
discussione tra gli organizzatori ufficiali dell'allora
nascente "Centre Georges Pompidou" di Parigi e gli
artisti francesi espulsi per aver partecipato agli scioperi
alla "Renault" e a altre manifestazioni, come Julio Le
Parc, per trovare il modo di far rientrare questi in
Francia.
È chiaro, infatti, che i rapporti con la politica allora
incidevano in qualche modo. Quando, per esempio,
preparai la prima mostra dedicata al "Living Theatre",
ebbi delle difficoltà con l'ambasciata americana perché i
componenti del gruppo erano all'indice negli Stati Uniti.
L'addetto culturale dell'ambasciata non volle più darmi i
modellini delle astronavi lunari per la mostra dedicata
alla fantascienza. Solo dopo che i componenti del
gruppo teatrale vennero completamente scagionati negli
Stati Uniti ebbi i modellini; un mese prima
dell'inaugurazione. Vi era, dunque, una situazione ricca
di tensioni sotto il profilo sociale, a cui bisognava
cercare di far corrispondere un tipo di arte.
Dunque, quando ebbi i soldi dalla Philip Morris per
organizzare una mostra pagandomi direttamente i
trasporti dall'America, mi misi d'accordo con il direttore
dello Stedelijk di Amsterdam perché, prima di quella, si
potesse organizzare una mostra di giovani artisti svizzeri
da riprendere alla Kunsthalle di Berna. Feci in modo che
questa mostra venisse dall'estero poiché ciò le avrebbe
conferito maggiore importanza. Nel 1968, vi era stata
all'Aia una mostra dedicata alla "Minimal Art", dove
questo termine, che è poi rimasto, fu impiegato a
sostituzione del precedente "Primary Structures".
Tuttavia, con "Attitudes", che risale a un anno dopo, era
già possibile fare una mostra completamente diversa,
nella quale spiccava un forte contributo di artisti italiani.
Ad essa partecipò anche Joseph Beuys, che in quegli
anni non era ancora molto conosciuto e che io avevo
incontrato per la prima volta nel 1965, quando era
ancora legato in modo del tutto personale a "Fluxus".
Questa fu una delle ragioni per cui nacque la necessità
di organizzare, nel 1970, la mostra "Happening and
Fluxus" alla Kunsthalle di Colonia. Volevo indicare la
sorgente di questa nuova arte. Molti elementi di essa
erano già presenti nelle azioni di Fluxus e negli
Happenings. Tuttavia, sia Fluxus sia gli Happenings
rimanevano ancora all'interno della dimensione
appartata delle università, dove vi erano gli studenti che,
per esempio, procuravano le gomme d'automobile per le
azioni di Allan Kaprow. Tuttavia, essi non erano mai
diventati un tema per fare una mostra a un livello
diverso. Tutto si svolgeva mediante manifestazioni,
concerti, auto-rappresentazioni e documentazione di
tutto quanto veniva fatto, con bigliettini che circolavano
durante le azioni. Anche se questo è un discorso che
vale in generale per quel tempo. Per esempio, Claes
Oldenburg è diventato uno scultore solo in seguito,
all'inizio tutto il suo lavoro era più immediato e sua
moglie cuciva personalmente le cose che egli esponeva.
Perciò, queste erano tutte realizzate a mano. E secondo
me sono le sue cose più belle. Insomma, si trattò di una
rivoluzione nell'arte. Prima di quel periodo, si aveva la
sensazione di potere vedere la successione degli
avvenimenti artistici scandita in modo quasi regolare
lungo un asse cronologico. Da quel momento tutto
accadde come nel 1911 quando la carica emozionale e
la voglia di fare qualcosa di nuovo fu così forte da
rovesciare le regole. Nel 1969, Beuys uscì dalla cultura
romantica, di cui si era nutrito, e scoprì l'Antroposofia, la
quale estende il suo sapere sino a coprire la medicina e
il corpo. Allo stesso tempo si rivoltò contro Duchamp per
essere diverso. Si può, infatti, affermare oggi che egli è
stato veramente importante nell’attuare un profondo
cambiamento nella concezione della nozione di
plasticità dell'opera d'arte. Come lo è stato Richard
Serra, che non faceva più lo studio tradizionale della
scultura, ma creava le opere osservando i battelli, il
peso, l'ingegneria e il modo in cui erano stati costruiti
quei ponti fantastici negli Stati Uniti. È chiaro, infatti, che
quando avviene una rivoluzione nell'arte vi è sempre
anche una rottura nella tradizione del vedere e del
sentire.
In questa direzione furono fatti molti tentativi anche
prima della Seconda Guerra Mondiale. Un esempio
straordinario è costituito da Antonin Artaud, teorizzatore
dell'estensione e del desiderio di un nuovo corpo
mettendo gli organi in un modo diverso, così da far
apparire diverso lo stesso grido poetico. Questo era
ancora il tema dell'"Opera d'arte
totale" (Gesamtkunstwerke), nel quale si avvertiva
un'aspirazione per qualcosa che non si realizzava mai e
che implicava la richiesta di una società nuova. Cosa
che, del resto, chiedeva anche Beuys. Perciò, un
filosofo molto letto alla fine degli anni Sessanta era
Ernst Bloch, in particolare il suo libro dedicato allo
Spirito dell'utopia nella prima versione del 1918, quando
l'autore non era ancora diventato marxista. Per uno
strano caso, negli anni della stesura del libro egli si
trovava in esilio vicino a Locarno e frequentava
assiduamente la gente del "Monte Verità". Si pretende
anzi che molti dei contenuti del suo libro siano nati
proprio dalle discussioni che egli ebbe con la gente che
risiedeva in questa regione. Negli stessi anni, nasceva
infatti una nuova geografia culturale che, passando per
Ascona, scendeva in Italia giungendo a Positano e
Capri. Ed era tutto un "melting pot" incredibile, qualcosa
di molto diverso dalla grande città dove prima accadeva
la cultura.
Un altro fatto importante è che gli artisti di questa
generazione avevano molte discussioni tra loro. Carl
Andre, per esempio, che usava il pavimento, ma che ha
fatto anche dei "gesti" con la carta per verificare il modo
in cui questa cadeva, si sentiva dire da Serra: "Tu lavori
ancora con la dimensione dell'incidente, invece di
realizzare una costruzione nuova". E questo
naturalmente era molto interessante, perché mentre
Andre è arrivato alla scultura attraverso Brancusi, Serra
ha avuto un percorso completamente al di fuori dell'arte,
e si vede. Un'altra invenzione molto importante è stato
l'"Igloo" di Mario Merz, che rappresenta, allo stesso
tempo, il richiamo alle prime abitazioni e un supporto per
comunicare una dimensione nuova.
Vi fu, perciò, un'effusione di nuove idee in quel periodo.
Anche se è chiaro che questo accadeva già prima. I
primi tagli di Lucio Fontana, per esempio, erano già
orientati in questa direzione e infatti avevo pensato di
mettere le sue opere nella mostra di Attitudes. Ma i
"Teatrini", cui stava lavorando in quel periodo, non
avevano più la stessa energia di rottura
All'interno del modo di concepire l'opera si verificò
inoltre un fenomeno molto interessante. Infatti, prima gli
artisti avevano lavoravano partendo da un materiale che
diveniva poi un prodotto artistico, ad esempio il chiodo
usato da Guenther Uecker in Germania. Nei nuovi artisti
si trattava invece dell'"attitudine" e dell'"energia" che
dovevano produrre l'idea che il materiale doveva
assumere. Perciò, non era più il materialismo che
fondava l'opera, ma vi era all'inizio una sorta di
idealismo che dettava all'opera il materiale che doveva
essere usato. E ciò rappresentava un totale
cambiamento di concezione. Per questo si può
considerare quel momento come una rivoluzione,
l'ultima che vi è stata nell'arte.
Il carattere rivoluzionario di quest’arte è certamente
legato alla contemporanea trasformazione degli stili di
vita. Questo è stato vero fino all'inizio degli anni Ottanta,
quando il diffondersi dell'Aids e della droga ha fatto
arrendere molti, che erano stati idealisti, di fronte a una
situazione sociale che si era trasformata in una specie di
ospedale. Quello che l'arte non è riuscita a fare allora è
stato proprio il legare insieme tutte le energie che in
quegli anni erano attive. Da lì è nato anche il mio
progetto del "Museo delle ossessioni". Dato che la
Chiesa ha sempre condannato l'ossessione come fonte
di peccato e di male, e lo stesso C.G. Jung pensava
fosse una cosa negativa, con quel mio progetto volevo
invece sostenere che senza ossessione non c'è arte e
che questa possiede dunque una sua valenza positiva.
Tuttavia, ritornando a When Attitudes Become Form, per
cercare di essere più incisivi, dobbiamo chiederci qual
era, in sostanza, l'idea nuova di forma che usciva da
quella mostra. Dei sessantanove artisti invitati uno
esponeva l'edificio del museo ai raggi, un altro invece
non esponeva proprio niente. Mentre Lawrence Weiner,
lavorando duramente con il martello per togliere un
metro quadrato di muro, accusava paradossalmente gli
altri di essere degli espressionisti e non dei concettuali
come lui. Credo che la verità sia che l'opera allora
poteva prendere la forma che voleva. Ed è stato per me
un grande piacere constatare vent'anni dopo che quegli
artisti si sono confermati, tranne qualche eccezione, dei
grandi artisti.
A quel tempo molti di loro non erano affatto conosciuti.
Alcuni degli americani avevano già avuto qualche
piccola mostra a Colonia o erano stati in Italia, come
Serra che era venuto a Roma. Ma non vi era ancora una
visione d'insieme della nuova sensibilità. Avevo
conosciuto Eva Hesse a Berna, nel 1963, perché un
collezionista la fece venire dagli Stati Uniti con il marito,
in occasione della mostra da me curata: I tre gesti:
Duchamp, Kandinsky, Malevic. Vi fu poi una mostra a
Düsseldorf dedicata ai temi della "luce" e del
"movimento", che ospitava una piccola sala della Hesse.
Altri artisti li conobbi, invece, a New York, grazie a Sol
LeWitt, un personaggio che in quel momento era molto
importante. Quando andai a trovarlo mi suggerì di
vedere alcuni di loro, mentre Bruce Nauman me ne
indicò altri. Così, presi l'aereo per San Francisco e Los
Angeles e andai a trovarli.
Ho scoperto in questo modo un nuovo spirito artistico
che anch'io volevo e al quale ho aderito pienamente. Ma
vidi anche molti artisti che non trovai interessanti perché
legati ancora all'idea tradizionale di oggetto. Mentre la
dimensione di specificità del luogo, che sostituisce
l'andare attorno a un oggetto per vederne tutti i lati, di
origine cubista, costituisce il lavoro più proprio degli
artisti che ho scelto. Infatti, essi creano delle situazioni,
anziché degli oggetti e lavorano direttamente con il
luogo. A posteriori si può dire che la mostra delle
"Attitudini" è diventata un punto di riferimento ed è
rimasta famosa anche perché contemporaneamente Lo
Stedelijk di Amsterdam, con la cura di Wim Beeren, ha
esposto il lavoro di alcuni di quegli artisti.
Allora pensai che anche se loro iniziavano una
settimana prima questo non avrebbe avuto grande
importanza, poiché, utilizzando le sale del pianterreno
del museo olandese, la mostra sembrava nuovamente
orientarsi verso il mondo dell'oggetto; mentre io volevo
rompere totalmente con quell'idea e usufruendo
dell'intero spazio della Kunsthalle potevo farlo
tranquillamente. In questo modo, la presentazione
"caotica" divenne una nuova forma di mostra.
In seguito, quando organizzai la mostra Happening and
Fluxus a Colonia, la considerai una specie di banco di
prova per la Documenta 5, di cui nel frattempo mi era
stata assegnata la direzione. La mia idea era di
trasformare la "Documenta" da museo della durata di
cento giorni in un "avvenimento" di uguale durata. Per
farlo bisognava conoscere bene la città, ma allo stesso
tempo mi accorsi che il modello elaborato per la mostra
di Colonia non avrebbe tenuto. Dovevo infatti pensare a
una mostra che durasse per tutto quel tempo, ma che gli
interventi degli artisti, come l’ufficio di Beuys per 100
giorni o alcuni altri di grande fisicità come quelli di Vito
Acconci e Howard Fried, da soli non avrebbero potuto
sostenere. Inoltre, decisi di rinunciare a mettere sculture
nel parco perché questo avrebbe nuovamente conferito
alla struttura un'eccessiva stabilità museale. Mentre io
volevo porre l'accento sulla scatola-recipiente, in cui era
più facile rendere tutte le stratificazioni dell'opera.
L'intenzione era quella di ridurre per approfondire, ma a
quel tempo questo non fu chiaro per tutti.
Nel 1972 lo spirito del 1968 aveva influenzato anche la
categoria dei docenti, ma la sinistra non ha mai
effettivamente capito queste cose e ha odiato l'arte. Essi
credevano semplicemente che si trattasse di "spiegare" i
nuovi contenuti artistici. Così fui assediato da coloro che
volevano costituire "centri di comunicazione" per
documentare le condizioni di vita di questo o quel
quartiere, ma quello non era arte. A questo proposito ho
sempre sostenuto che o si sceglie l'arte o si diventa
operatori sociali e in quel momento la lotta per l'arte era
una lotta diversa.
Perciò, con queste idee, ho affrontato l'impegno della
"Documenta". Allora non c'erano molte riviste e molti
degli artisti erano conosciuti solo in una cerchia ristretta,
così ho potuto contare su un certo effetto di sorpresa.
Avendo poi il budget tagliato di un milione di marchi ho
tralasciato tutto ciò che poteva fare da introduzione
all'esposizione, come una serie di spiegazioni per il
pubblico. La reazione iniziale in Germania fu tremenda.
Infatti, avendo concepito l'esposizione con una parte
statica, anche se non lo era tanto dal punto di vista
percettivo, e un'altra costituita di "avvenimenti", le
aspettative del pubblico sono state completamente
sconfessate. Un regista cinematografico raccolse delle
interviste a colleghi direttori di museo, che si espressero
in molti casi in modo negativo, chiedendosi che fine
avrebbe fatto l'estetica del bell'oggetto e del quadro.
Vi erano poi i rapporti con l'America. Il contributo
americano all'esposizione naturalmente era importante e
in quel momento l'influenza degli Stati Uniti consisteva
nel fatto che il numero degli artisti era più elevato,
poiché si trattava di un paese più grande dell'Europa. A
quel tempo essi erano un po' chiusi nei confronti degli
artisti europei e quando diedi lo spazio dell'ingresso a
Richard Serra ci furono lamentele da parte di altri artisti,
ma poi risultò chiaro che lui aveva effettivamente
bisogno di maggiore spazio per la sua opera. Tuttavia, in
seguito gli Stati Uniti si aprirono grazie alla galleria Leo
Castelli e ai giovani curatori. Per esempio Mario Merz
ebbe una prima grande mostra al Walker Art Center di
Minneapolis durante lo stesso 1972. È chiaro che in quel
momento gli americani ne avevano fin sopra i capelli dei
discorsi sull'influenza europea sui loro artisti e
considerarono la Documenta 5, nonostante i molti artisti
americani invitati, come una mostra sostanzialmente
europea. Tuttavia, dopo l'esposizione, grazie anche ad
alcuni amici, fui invitato a tenere una serie di conferenze
sulla “Documenta” a Houston, Sacramento, Seattle e in
altre città americane, finanziate dal Museum of Modern
Art di New York. In quella di San Francisco presentai
chiaramente lo schema che aveva dato forma
all'esposizione. Mostrai che il percorso iniziava con le
immagini della pubblicità, cioè le immagini che mentono,
seguiva con la fantascienza, con le immagini delle
nuove banconote, con la propaganda politica, il kitsch e
il realismo in arte. Al secondo piano della "Neue Galerie"
avevo posto invece le immagini prodotte dalle "mitologie
individuali" degli artisti, che era la formula con cui
intendevo indicare il lavoro della nuova generazione. Nel
palazzo del "Fridericianum" avevo messo la "struttura
degli avvenimenti", con Beuys, Ben Vautier, Richard
Serra, Panamarenko, Gilbert and George, mentre nel
sottotetto c'era un'installazione di La Monte Young che
consisteva nella produzione di un unico suono ripetuto
ossessivamente all'interno di un grande spazio vuoto.
Per me si trattava di un cammino d'iniziazione verso
l'immaterialità. Molti invece guardarono alla mostra
come a un attacco all'autonomia dell'opera d'arte. Anche
se ho personalmente avuto cura che ogni artista, cui
fosse necessario un allestimento, scegliesse lo spazio
che intendeva utilizzare prima della realizzazione
dell'opera. Perciò, il fatto che il curatore diventasse una
sorta di regista dell'esposizione doveva convivere con il
rispetto per l'autonomia delle opere stesse. L'altro
elemento nuovo era che ogni artista doveva essere
presentato in modo chiaro per far comprendere bene la
sua opera, e allo stesso tempo veniva inserito all'interno
del percorso della mostra, quello della progressione dal
materiale alla smaterializzazione. In quegli anni, molte
persone del pubblico non capirono questo passaggio da
una condizione all'altra dell'opera. Anche se un visitatore
d'eccezione della mostra precedente sulle “Attitudini”,
l'astrattista svizzero Richard Paul Lohse, capì che quella
situazione di caos apparente era in realtà un caos
"intelligente", poiché nella mostra di Berna vi erano
opere disseminate ovunque e sotto l'aspetto più diverso,
come per esempio dei buchi in un marciapiede. Questo
poneva così un problema importante perché apparve
chiaro che ciò che si faceva in quel momento in uno
spazio pubblico e con intenti culturali diventava opera.
Allo stesso tempo, se qualcuno avesse fatto un buco in
un marciapiede e questo non fosse stato documentato
non si sarebbe trattato di un'opera d'arte.
La differenza era che in precedenza questo tipo di
esposizioni erano organizzate in modo che ognuno
avesse il proprio spazio riconoscibile, con il relativo
nome indicato. Anche per la Documenta 5 il problema fu
di mettere insieme molti mondi di immagini che gli artisti
indicavano come immagini artistiche e l'insieme
diventava perciò più complicato, perché il pubblico era
abituato a vedere il lavoro in modo separato, ma cercare
di mantenere questa separazione rendeva il lavoro
stesso incomprensibile.
In questo consisteva soprattutto l'atteggiamento di
incomprensione diffuso tra i galleristi e negli Stati Uniti.
Risultava incomprensibile la ragione per cui avevo fatto
iniziare una mostra internazionale come la "Documenta"
con le immagini pubblicitarie, le quali non erano
considerate immagini artistiche poiché quotidiane. Non è
come oggi che i manifesti di Oliviero Toscani sono
considerati arte.
Prima della "Documenta" del 1972, i grandi nomi
dell'arte erano Frank Stella, Robert Morris, Roy
Lichtenstein e la dimensione americana dominava su
tutto. All'esposizione di Kassel, i pittori furono invece
Georg Baselitz, che rovesciava le immagini, Sigmar
Polke, Arthur Penck e quel personaggio complesso ma
formidabile che è Robert Filliou. Tutto appariva
completamente diverso: una scultura di Serra poteva
essere posta accanto a un piccolo "zeppelin" di
Panamarenko e non vi era più la sala dedicata agli
americani come nelle edizioni precedenti.
Per me l'esperienza della "Documenta" fu qualcosa di
molto forte dal punto di vista psicologico, poiché dopo di
essa non mi fu possibile riprendere subito a lavorare in
un spazio più piccolo. Avevo inoltre deciso che se volevo
continuare a fare il curatore rimanendo fedele alla
vocazione, non potevo più mantenere l'incarico di
direttore di museo, perché la parte amministrativa mi
occupava troppo tempo. Ho dovuto perciò inventarmi
delle mostre diverse e negli anni seguenti, anziché
dedicarmi a mostre personali degli artisti che avevo
individuato, ho preferito fare mostre tematiche.
Lo scalpore iniziale suscitato dalla "Documenta" del
1972 si risolse alla fine a mio favore e l'esposizione
apparve sempre più come un fatto positivo. Perciò mi fu
chiesto di organizzare anche la successiva, ma io
rifiutai. Lo stesso feci per l'edizione del 1982, diretta poi
da Rudi Fuchs. Mentre avrei voluto fare quella dopo, ma
non fu possibile.
Nel frattempo vi era stata la Biennale di Venezia del
1980, con "Aperto". Devo dire che è strano, perché da
un lato ho molto amato la dimensione che prendeva
allora la pittura. È chiaro, infatti, che se si riesce a porre
un intero universo all'interno delle due dimensioni della
tela si rimane proprio dentro la grande tradizione
dell'arte. Però, dall'altro, quello che ho appreso dalla
generazione del 1968, che non potevo dimenticare, è
che vi era in quegli artisti una sorta di controllo sull'opera
che si traduceva immediatamente in una forte
dimensione etica. Mentre con il quadro si era creata in
quegli anni una nuovo disponibilità. Quando nel 1982
visitai la Documenta 7, il fatto che fosse nuovamente
possibile mettere un quadro di Francesco Clemente e
un'opera di Wolfgang Laib composta da semi vegetali
nella stessa sala, dava l'idea di una mostra domenicale
di artisti locali. Per me il cambiamento consisteva in
questo: non vi era più il controllo nelle opere degli artisti.
Vi fu anche un esagerato successo commerciale che
fece sì che non fosse quasi possibile vedere un'opera
che questa era già venduta.
Tutto era ancora molto diverso quando andai a vedere la
prima mostra di Enzo Cucchi, Francesco Clemente,
Nicola De Maria e Sandro Chia a Acireale in Sicilia. Fu
bello discutere con loro su ciò che avevano "visto"
all'interno di una grotta. Qualcuno vi aveva visto il
volume positivo, qualcun altro quello negativo, e questa
immagine è entrata anche in un quadro di Chia: Il salto
nella grotta azzurra. Tutto ciò è finito quando è arrivato il
successo commerciale. Lo stesso discorso si può fare
per la mostra Zeitgeist, anch’essa del 1982, per la quale
fu chiesto a ogni artista di realizzare un quadro di due
metri. Mi è sembrato che ogni possibilità creativa si
esaurisse in quella richiesta assurda.
Certo, era anche un problema di intensità che non
ritrovavo in quegli artisti, come invece era nella
generazione del 1968. Non che non avessi avvertito un
passaggio generazionale. Quando organizzai Aperto '80,
alla Biennale di Venezia, proposi di lasciare perdere gli
artisti degli anni Settanta, anche se non mi sembrava
possibile mettere la nuova generazione immediatamente
dopo senza segnare il passaggio. Perciò, sostenni che
era necessario inventare qualcosa di diverso. Quando
finalmente mi fu assegnato per i giovani lo spazio alle
"Zattere", proposi il titolo "Aperto" e qualcuno obiettò che
sarebbe stato più corretto dal punto di vista linguistico
dire "Apertura". Successivamente, mi fu assegnato
come co-organizzatore Achille Bonito Oliva, il quale era
soprattutto preoccupato di invitare i suoi artisti. Mentre io
insistevo sul fatto che il problema non era solo quello di
invitare artisti anagraficamente giovani, ma anche di
riscoprire artisti che in quel momento erano importanti,
ma troppo poco conosciuti, come Richard Artschwager.
L'anno seguente venni nominato "curatore permanente
indipendente" alla Kunsthaus di Zurigo e questo mi offrì
la possibilità di organizzare le retrospettive di Mario
Merz, Sigmar Polke, Joseph Beuys, Richard Serra,
Walter De Maria e Bruce Nauman. Le mostre erano
talvolta basate su una sola scultura, come nel caso di
Serra. In altri casi, ho utilizzato invece lo spazio senza
alcuna divisione, riempiendolo per esempio con gli
"Igloo" di Merz per realizzare una sorta di "città". Potevo
in questo modo mettere a frutto quel sapere tematico
che mi veniva da "Monte Verità", collegandolo alle
discussioni con gli artisti su come allestire lo spazio. Ho
curato, inoltre, piccole mostre tematiche dedicate a Jean
Fautrier, James Ensor e alle opere grafiche di Victor
Hugo, che non sono mai state molto apprezzate.
Nello stesso periodo ho anche curato una mostra che
per me ha avuto lo stesso significato di Attitudes, anche
se con un carattere introspettivo. Dato che a un certo
punto si cominciava ad averne fin sopra i capelli di tutta
quella pittura, ho proposto: Tracce, sculture, monumenti
nel loro viaggio preciso. All'inizio del percorso ho
disposto La muse endormie di Brancusi, La pointe à
l'oeil di Alberto Giacometti e Bambino malato di Medardo
Rosso, continuando poi con le sculture di Cy Twombly,
Tony Cragg, Richard Tuttle. Il tema della mostra era il
"Silenzio", una dimensione che doveva servire per
ritrovare una distanza dalla "pittura selvaggia". Gli altri
artisti erano James Lee Byars, Wolfgang Laib, Royden
Rabinowitch, Marisa Merz, che in quel momento aveva
realizzato le sue piccole teste e Louise Bourgeois. È
stata veramente l'ultima volta che ho cercato di
cambiare le cose.
Se ripenso ora a quel periodo, si può dire che dopo il
momento rivoluzionario del 1968-69 per qualcuno le
"Attitudini" sembravano diventate come un design. Vi fu
un momento in cui non riuscivo più a sopportare mostre
in cui venivano esposti una piuma o un biglietto
appoggiato per terra; questi erano di un completo
accademismo. Per questo inizialmente il ritorno alla
pittura mi ha fatto piacere. Vedo bene che oggi, però, vi
è uno spirito nuovo e l'arte si è trasformata in un gioco
strategico in cui prevale la tendenza a usarla per
esprimersi, non è più essa che si arricchisce di una
nuova forma. Ha prevalso un certo cinismo, come nel
lavoro di Jeff Koons, al quale preferisco Robert Gober
che è un vero scultore. Allo stesso modo, alla Biennale
di Venezia solo Georg Baselitz, Beuys, Ulrich
Rueckriem, Laib sono stati veramente in grado di
riempire lo spazio del padiglione tedesco. Già per
Reinhard Mucha e Katharina Fritsch è stato difficile. La
differenza consiste nel fatto che gli artisti del 1968 non
volevano fare con l'opera un monumento, e seguendo
questa strada si sono inventati una nuova e diversa
monumentalità. Mentre oggi mi sembra che si voglia
fare invece un'illustrazione della monumentalità, anche
se ci sono artisti giovani molto bravi, come per esempio
Pipilotti Rist.
Se penso, però, a un'opera come "The True Artist Helps
the World by Revealing Mystic Truths" fatta da Nauman
nel 1967, essa costituisce una testimonianza forte della
spinta etica che mosse gli artisti in quegli anni. Come
Nauman mi spiegò, l'opera nacque perché il suo studio
era allora situato in una strada dove vi erano molti locali
pubblici, con insegne luminose che reclamizzavano birra
e altri prodotti, questo gli suggerì di fare anche per il suo
studio un'insegna luminosa. La frase gli venne come
semplice risposta alla questione fondamentale che si
era posto: "Chi è l'artista?". Così una volta realizzata
l'opera, che è fatta di una grande spirale di filo di neon
colorato che dà forma alla scritta, la mise nella finestra
del suo studio. Mi spiegò che quell'appello gli appariva a
volte così pesante da sembrargli ridicolo; il fatto di
arrogarsi il diritto di dare all'umanità delle "verità
mistiche". D'altra parte, però, egli era veramente
convinto di ciò che aveva scritto.
Questo atteggiamento è diverso da quello di Beuys, il
cui lavoro è sempre così diretto e appellativo. Anche la
frase di Nauman può sembrare appellativa, ma in realtà
per leggerla bisogna torcere la testa seguendo la spirale
con gli occhi. Allo stesso tempo, essa corrisponde al suo
pensiero sul ruolo dell'artista e sul ridicolo di questo
ruolo. Perciò, questo è un esempio molto significativo
per dire che si è trattato di una nuova generazione, in
tutti i sensi. Non è un caso, infatti, che Nauman abbia
influenzato molti artisti venuti dopo lui, che hanno però
usato l'arte solo come un mezzo. Per fare ciò è stato
necessario un breve ma fondamentale passo. È
avvenuto una sorta di scollamento. Mentre nel lavoro
degli artisti del 1968 tutto era tenuto ancora insieme.
Perciò, negli anni Ottanta uno dei miei compiti è stato
quello di organizzare mostre retrospettive dedicate agli
artisti di quella generazione, come appunto la mostra di
Nauman, che volevo fare a Zurigo già nel 1991. Alla fine
del 1993, in occasione di quella che organizzò il "Museo
Nacional Centro de Arte Reina Sofia", sono andato a
Madrid. Avevo allora in corso la mostra dedicata
all’opera di Beuys, mi sembrava perciò una buona idea
farne seguire una dedicata all'artista americano. Così, in
accordo con i musei di Minneapolis e Washington, ho
chiesto a Nauman di aggiungere la tappa di Zurigo al
percorso dell'esposizione che avrebbe toccato anche
alcune città americane. Normalmente non riprendo mai
una mostra nata altrove. In questo caso, a causa dei
costi molto alti dovuti al fatto che molti dei pezzi di
Nauman sono troppo fragili per viaggiare e devono
essere sostituiti da copie, se non l'avessi fatto non avrei
più potuto in seguito. Quando però la mostra è arrivata a
Zurigo, ho fatto delle significative modifiche all'insieme.
Per esempio ho messo la "Gabbia" che si trova a
Rotterdam vicino al pezzo del "Clown" e alle "Teste
sospese", in modo che il tutto ottenesse una maggior
forza.
La mostra su Beuys è stata invece un'esperienza molto
diversa. Dopo la morte, avvenuta nel 1986, vi fu infatti
l'esposizione di Berlino, risultata però fredda perché
usarono troppi pezzi e ne misero alcuni di quelli fatti
dopo la sua scomparsa. La differenza la si vedeva bene
nel "Fulmine", un pezzo che egli ha controllato ancora di
persona e che sembrava fatto di lava; mentre i bronzi
successivi apparivano lisci e senza vita. Volevo perciò
fare una mostra che tenesse conto del suo concetto di
energia. Un po' come accade con gli "Igloo" di Merz, che
non si possono disporre in una piccola sala. Ho dovuto
però aspettare il momento in cui potevo avere tutti i
pezzi più importanti da Parigi, Gent, Eindhoven,
Rotterdam, Vienna e dai collezionisti privati. Dei disegni
ho chiesto solo il suo "testamento" disegnato, il
cosiddetto Secret Block, che va considerato un'opera
unica. Dunque, ho ripreso la sua scelta per non cadere
nella trappola del giudizio estetico.
Nella primavera del 1992 ho saputo che potevo contare
sui pezzi della collezione Marx. In quel momento, sono
stato sicuro di poter fare una grande mostra. Infatti,
siccome avevo conosciuto molto bene Beuys, non ero
d'accordo sul fatto che si dicesse che, dopo la sua
morte, non era più possibile fare mostre con le sue
opere. Questo non ha senso, egli voleva certamente
essere ricordato anche come scultore e non solo per le
sue teorie sociali, le quali si possono ancora leggere. Ho
così cercato di fare come avrebbe fatto lui e solo dove lo
spazio era troppo frammentato ho costruito delle
architetture, per il resto ho lasciato tutto lo spazio
aperto. Devo dire con soddisfazione che quando sono
venuti all'inaugurazione i suoi vecchi amici Speck e
Marx, uno di loro ha commentato che lui sarebbe potuto
uscire improvvisamente da dietro qualche opera.
Quando la mostra fu spostata a Madrid, appariva ancora
più sensazionale in quello spazio perché le opere vi si
trovavano più isolate. Anche se qualcuno preferiva
Zurigo perché nella Kunsthalle lo spazio era più aperto
che nel museo di Madrid, dove risultava meno evidente
il valore scultoreo delle opere. È chiaro, infatti, che il
problema dello spazio è di grande importanza per un
artista che ha come utopia la "società ideale". Per
questo ho cercato di rispettare ciascuna opera ed esse
sembravano possedere dei raggi che si irradiavano
tutt'attorno. Allo stesso tempo, l'insieme doveva essere
unitario come un concerto. In fondo una mostra è come
un'opera che consiste di più opere; dunque, il problema
dell'allestimento è di grande importanza.
Così, quando a Berlino ho curato la mostra Zeitlos
all'interno di una vecchia stazione ferroviaria diventata in
seguito un museo, essa consentiva molto bene di
valutare la psicologia interna all'installazione delle
opere. Ricordo, per esempio, che Rabinowitch voleva
mettere il suo lavoro tra due opere di Serra e lo spostò
per un intero pomeriggio finché, alla fine, disse che era
meglio fare come avevo deciso io. In quell'occasione fui
anche criticato perché secondo qualcuno non misi
abbastanza giovani nella grande sala, ma in realtà
furono loro a non volere. Né Mucha, né Jan Vercruysse
e neppure Franz West hanno voluto. Solo Didier
Vermeiren ha provato per vedere se il suo lavoro
avrebbe tenuto vicino a quello di Beuys e Serra. Infatti,
per me le mostre nascono come risultato dalle
discussioni avute con gli artisti e non da scelte
personalistiche. Se allora i giovani non hanno voluto
essere messi accanto agli esponenti della generazione
di Serra, è perché mentalmente sono tornati nel "cubo
bianco". In effetti, coloro che hanno scoperto i vecchi e
grandi spazi abbandonati, da usare senza alcuna
divisione architettonica, come quella stazione ferroviaria,
sono stati proprio gli artisti della generazione del 1968.

Note biografiche

Harald Szeemann è nato a Berna nel 1933. Ha studiato


Storia dell’arte, Archeologia e Giornalismo nelle
università di Berna e Parigi, completando i propri studi
nel 1960. Nel 1956 ha lavorato come attore, scenografo,
pittore, iniziando l’anno seguente la sua attività di
curatore di mostre. Nel 1961 è divenuto direttore della
Kunsthalle di Berna, che ha diretto fino al 1969, anno in
cui è diventato curatore indipendente ed ha fondato
l’Agenzia per il lavoro intellettuale in affitto. Nel 1972 ha
diretto la Documenta 5 in Kassel e, a partire dal 1973,
ha cominciato a lavorare a una possibile visualizzazione
di un Museo delle Ossessioni. È stato curatore
indipendente alla Kunsthaus di Zurigo dal 1981 al 2000
e organizzatore con altri della Biennale di Venezia del
1980, per la quale ha creato la sezione Aperto dedicata
ai giovani. Dal 1998 al 2002 è direttore delle sezione Arti
Visive della stessa Biennale.
Ha curato un numero vastissimo di mostre tematiche,
collettive, individuali, delle quali ricordiamo, oltre a
quelle già citate, le seguenti: Art Brut-Insania Pingens-
Psychotic Art (1963), Science Fiction (1967), !2
Environments (1968), When Attitudes Become Form
(1969), Happenings & Fluxus (1970), Machines
Célibataires (1975), Monte Verità (1978), Der Hang zum
Gesamtkunstwerk (1983), Spuren, Skulpturen und
Monumente ihrer präzisen Reise (1985), Mario Merz
(1985, 1987, 1990), Zeitlos (1988), Richard Serra
(1990), Visionary Switzerland (1991), Joseph Beuys
(1993-94), Bruce Nauman (1995, 2000), SPEED/Water
Biennale Gwangju (1997), Biennale de Lyon (1997).
È autore di numerosi libri, tra cui Von Hodler zur Anti-
Form (50 Jahre Kunsthalle Bern), Bachelor Machines,
Museum der Obsessionen, Der Hang zum
Gesamtkunstwerk, Individuelle Mythologien, Ecrire les
expositions, Beuysnobiscum, di traduzioni in tedesco e
di raccolte degli scritti di Mario Merz e Richard Serra.
È stato membro del Board of the Stanley Johnson
Foundation dal 1979 al 1999, è membro del “College de
Pataphysique” dal 1961, dell’Accademia di Berlino e
dell’Accademia europea di scienze e arti di Salisburgo
dal 1997, “Officier de l’ordre des arts et lettres de la
Republique Française” dal 1997; insegna storia dell’arte
all’Accademia d’architettura di Mendrisio.
SCHEDA INTRODUTTIVA A PIER LUIGI TAZZI

Insistere su una continuità in Italia tra il lavoro dell’Arte


Povera e quello degli artisti più giovani come Marco
Bagnoli, Remo Salvatori e Ettore Spalletti è sbagliato,
afferma Tazzi. Perché la prima è caratterizzata da un
atteggiamento negativo ed è il prodotto di istanze
rivoluzionarie nate alla fine degli anni Cinquanta,
affermatesi negli anni Sessanta ed esauritesi nel
decennio successivo. Mentre, gli artisti che iniziarono
negli anni Settanta si sono mossi in molteplici direzioni,
guardando anche alle nuove discipline della semiologia,
della psicoanalisi, dell’antropologia culturale e
dell’ermeneutica. Questo atteggiamento di apertura è
stato caratterizzato dalla tolleranza. E quando questi
artisti iniziarono a lavorare, il distacco dalla negatività
dell’Arte Povera era già avvenuto, consentendo loro di
muoversi con un atteggiamento affermativo nella
produzione delle opere.
Si può ricondurre la situazione italiana a quanto
avveniva nel resto dell’Europa, con il lavoro di Franz
West in Austria, di Reinhard Mucha e Thomas Ruff in
Germania, di Jan Vercruysse, Lilli Dujourie in Belgio, di
Fortuyn-O’Brien e Niek Kemps in Olanda, di Richard
Deacon, Anish Kapoor e Shirazeh Houshiary in
Inghilterra, di Juan Muñoz e Cristina Iglesias in Spagna.
A cui va aggiunto quello di Rodney Graham nella
Columbia Britannica.
La nuova situazione ha come centro l’Europa centrale e
gli artisti citati devono far fronte a un ritorno
generalizzato alla pittura, muovendosi in una diversa
direzione. Perché gli artisti che utilizzano la pittura,
come Georg Baselitz, Sandro Chia e Markus Lüpertz, si
collocano in una dimensione fuori dal tempo – infatti
furono definiti inattuali. In questi vi è invece una duplice
tensione tra la dimensione locale, con le proprie radici e
tradizioni, e la dimensione internazionale.
Perciò, l’opera di Bagnoli, Salvadori, Spalletti non
possiede un carattere italiano semplicemente esteriore,
come avviene nell’opera di Chia, Francesco Clemente e
Mimmo Paladino, da cui si differenzia, ma assume la
storia locale con profondità. Così facevano, nello stesso
momento, Günther Förg, Mucha e Thomas Schütte, i
quali hanno assunto nella loro opera la storia tedesca
recente con i suoi traumi. Questo è l’aspetto
fondamentale che li distingue dalla generazione
precedente, la quale agiva esclusivamente nell’ambito
dell’internazionalismo.
Le mostre importanti del periodo, che si protrae per tutti
gli anni Ottanta, sono Promenades a Ginevra, la
Biennale di Parigi, European Iceberg a Toronto,
Sonsbeek 86 ad Arnhem, Chambres d’amis a Gent, Von
Hier Aus a Düsseldorf, Skulptur Projekte in Münster
1987, Zeitloss a Berlino. Von Hier Aus, per esempio,
mostra le energie del territorio tedesco, il Sonsbeek 86,
invece, rivela chiaramente tutta questa nuova
generazione.
La mostra Chambre d’amis ristabilisce un rapporto tra la
dimensione artistica e la sfera vitale. Jan Hoet, il
curatore di quella mostra - come ha fatto anche nella
Documenta IX - si è preoccupato soprattutto di radicare
l’opera all’interno di un luogo preciso, anziché definirne
alcuni tratti fondamentali. Però, questo discorso espone
l’opera al rischio dell’inadeguatezza al luogo in cui è
esposta, poiché non si tratta più dello spazio astratto del
museo o della galleria.
Inoltre, per questi artisti il recupero di un rapporto con il
passato riguarda anche l’arte più recente degli anni
Settanta, ma tutto viene vissuto da essi in modo
individualistico.
Perciò, Tazzi prova un senso di completa identificazione
con gli artisti di questa generazione. Il fatto che essi si
assumano la piena responsabilità del loro agire li
caratterizza come l’affermazione artistica più positiva del
Novecento, anche se ciò rende il loro lavoro più difficile.
Infatti, è un modello culturale diverso rispetto a quello
statunitense. Per esempio, un’opera di Jeff Koons
esposta nelle isole Marchesi o nel palazzo di un principe
mantiene lo stesso valore, in essa domina ancora
un’idea di universalismo, anche se degradata.
La differenza con il lavoro degli artisti degli anni
Novanta, consiste invece nel fatto che nelle opere della
generazione degli anni Ottanta si aveva la sensazione di
essere in presenza di un diaframma oltre il quale si
percepiva un vuoto. In quelle degli artisti più giovani,
come Matthew Barney, Eva Marisaldi o Rachel
Whiteread, il vuoto è dentro e intorno all’opera. Tuttavia,
nonostante le apparenze, conclude il critico, nel
momento attuale esistono le condizioni per un lavoro
proficuo.
COLLOQUIO CON PIER LUIGI TAZZI

Spesso si insiste su questa linea di evoluzione dell'arte


italiana che sembra muovere dall'Arte Povera e confluire
in artisti come Remo Salvadori, Marco Bagnoli e Ettore
Spalletti, ma secondo me questo è vero solo fino a un
certo punto. Vi è stato durante gli anni Settanta un
periodo di mezzo caratterizzato da un atteggiamento di
"disseminazione", nel quale le istanze neo-rivoluzionarie
che si erano create alla fine degli anni Cinquanta e si
erano sviluppate nel decennio successivo si sono in
qualche modo andate esaurendo. Il principio che aveva
animato quelle esperienze era un senso fortemente
"negativo", in quanto esse si disponevano sulla stessa
linea d'onda delle avanguardie storiche: qualcosa
doveva essere negato prima di affermare qualcosa
d’altro. Si trattava di un atteggiamento che qualche volta
ho definito dell'eroe: l’eroe compie un viaggio per
recuperare qualcosa di perduto e acquisire qualcosa di
necessario e rientra poi nel luogo di origine dopo aver
affermato la sua vittoria nella lotta con un nemico.
Tutto questo si esaurisce, come atteggiamento
generale, nel corso dei primi anni Settanta quando gli
artisti cominciano a muoversi in molteplici direzioni,
spinti da curiosità e da una sempre più larga
disponibilità all'esperienza. Prima tra le altre, una
direzione che portava oltre i limiti delle discipline
tradizionali, limiti che erano comunque stati infranti
sull'onda rivoluzionaria degli artisti della generazione
precedente. Un’altra direzione spingeva ad assumere e
utilizzare strumenti messi a disposizione dall'evoluzione
tecnologica e da alcune discipline d'analisi come le
scienze umane, la psicoanalisi, la semiologia,
l'antropologia culturale, fino alla filosofia ermeneutica. Si
trattava sia di strumenti tecnici, sia di metodologie e
modalità d'indagine mediante le quali relazionarsi al
mondo, poter accedere a una sua lettura e mettere in
atto il proprio progetto. Questa dispersione, o "diaspora"
totale, avviene all'insegna della tolleranza e
dell'abbandono di ogni volontà negativa. Durante gli anni
Settanta, gli artisti utilizzano con assoluta
determinazione e coscienza le possibilità che il mondo e
la civiltà all'interno della quale vivono offrono. E quando
si impongono artisti come appunto Salvadori e Bagnoli,
ma lo stesso vale anche per altri, il distacco dalla
negatività dell'Arte Povera, di Joseph Beuys e di Marcel
Broodthaers è già avvenuto. Non sono loro a rigettare
l'atteggiamento assunto dalle generazioni precedenti. La
diaspora dell’Arte Concettuale, della Body Art, dell’Arte
della Performance, dell’attraversamento e
dell’esperienza di vecchi e nuovi media quali la
fotografia, il cinema e il video, la pagina e il libro, hanno
già compiuto questo distacco, seppur in maniera fluida e
leggera, senza porre antagonismi, con una carica
erotica inedita, aperta nella propria immediatezza. In
conseguenza del distacco già consumato, Salvadori,
Bagnoli e Spalletti, tanto per citare i pionieri italiani degli
Anni Ottanta, possono muoversi più agevolmente, spinti
da una volontà positiva, affermativa, nell'elaborazione
dell'opera.
E questo non riguarda solo la situazione italiana,
qualcosa di simile stava accadendo anche in altre parti
d'Europa. In Austria, per esempio, Franz West non si
pone più su una linea di continuità con l'Aktionismus
viennese o le ricerche linguistico-filosofiche del Wiener
Gruppe, ma vive il senso del proprio tempo in piena
autonomia. La stessa positività di lì a poco si avrà anche
in Germania, con i giovani usciti dall'Accademia di
Düsseldorf nella prima metà degli Anni Ottanta, da
Reinhard Mucha a Thomas Ruff. In Belgio abbiamo Jan
Vercruysse e Lili Dujourie; in Olanda, i Fortuyn/O'Brien e
Niek Kemps; in Inghilterra Richard Deacon, Anish
Kapoor e Shirazeh Houshiary; ancora in Austria Heimo
Zobernig e Herbert Brandl; in Spagna Juan Munoz e
Cristina Iglesias; nella lontana Columbia Britannica
Rodney Graham. E' una situazione che interessa
soprattutto la cultura centro-europea, di cui l'Italia
rappresenta una sorta di appendice necessaria a
compiere il quadro. Quello che questi artisti devono
immediatamente fronteggiare è semmai un ritorno
generalizzato alla pittura, all'uso di tecniche tradizionali
e alla divisione dei vari campi di applicazione in base a
queste e non in base al senso dell'atto artistico. Il
condizionamento del Mondo Reale, “the Real World”
come una volta lo definì l’americano Harry Geldzaler, si
fa sentire appunto nelle pratiche artistiche dei vari pittori
neo-espressionisti. Gli artisti sopracitati si muovono in
un'altra direzione e tuttavia non vi è opposizione ma
"differenza".
In fondo, ancora una volta, nella Transavanguardia e
nella pittura neo-espressionista vi è un atteggiamento
negativo. Si nega, per esempio, il puritanesimo dell'arte
concettuale, la freddezza espressiva dell'Avanguardia,
l'aridità delle proposizioni che erano divenute dominanti
negli ultimi dieci anni. Il trend neo-espressionista
stabilisce, ancora una volta, una contrapposizione, a
mio avviso di tipo retrogrado. I Neo-espressionisti
internazionali, che ottengono una popolarità assai vasta,
grazie al favore loro accordato dai media e da un
mercato rampante, si rifanno a una tradizione del
Novecento più antica inscrivendo le opere in un regime
che le tiene fuori dal tempo. Per loro si parlerà infatti di
inattualità. E questo porsi fuori dal tempo dà loro
comunque una collocazione in un tempo antecedente: le
loro opere appartengono già al passato nel momento
stesso in cui nascono, o contengono in sé degli elementi
di obsolescenza che le fa regredire rispetto al tempo in
cui sono nate. Un'opera di Georg Baselitz, di Sandro
Chia o di Markus Luepertz è già antica nel momento in
cui si pone.
Tuttavia, per gli artisti come Salvadori, Bagnoli, West,
Spalletti, Mucha, Thomas Schuette, Fortuyn-O'Brien,
Deacon, Kapoor, Houshiary, Zobernig, Munoz,
Vercruysse, Guenther Foerg, R. Graham, Jean Marc
Bustamante, fino a Miroslaw Balka e Thierry de Cordier,
quello che è strano è che, nonostante appartengano a
varie parti d'Europa, vi è da parte loro una sorta di
abbandono dell'internazionalismo. Mentre, ancora da
parte dell'Arte Povera vi era la volontà di collocarsi in un
contesto internazionale; ancora oggi Mario Merz, Giulio
Paolini, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, partono dal
territorio italiano per andare nel mondo a realizzare i loro
progetti tenendo conto di questo distacco dal luogo di
origine, portandosi appresso gli strumenti che nel luogo
di origine sono stati forgiati, le materie, la sensibilità e
attraverso di essi creano una tensione, o dialettica, tra il
locale e l'internazionale, fra le proprie radici, la propria
tradizione, e il mondo. Tanto che la generazione
successiva, quella cioè sorta nei primi Anni Settanta,
addirittura formalizza questo aspetto. Si parlerà allora di
un "international network", di una maglia internazionale
in cui gli artisti entrano in azione, si scambiano
informazioni, partecipano a mostre, festival, incontri,
pubblicazioni, riviste, che spesso vengono creati
appositamente allo scopo esplicito di costituire
l’impalcatura necessaria a sostenere la rete. È allora
che tutto ciò che è locale viene a un certo punto
declassato, sentito come minore e marginale.
L'internazionalismo è tuttavia una caratteristica non solo
dell'arte ma anche della politica e della ideologia di
quegli anni. Invece negli artisti del tipo che va da
Salvadori a de Cordier non c'è l'abbandono del territorio,
ma al contrario una sorta di radicamento. Spalletti,
Salvadori e Bagnoli sono artisti italiani non nel senso
che possiedono la tipicità esteriore di un Francesco
Clemente o di un Chia, ma in quanto si fanno carico di
una storia non per l'esportazione del prodotto, ma per la
costruzione di una forma e di una figura. Allo stesso
modo questo avviene per artisti come Mucha, Schuette
o Foerg, che si fanno carico della storia tedesca con tutti
i traumi che la connotano. Lo stesso Vercruysse riflette
nella propria opera la storia e la tradizione di un paese
che è da sempre crocevia di molteplici culture. Secondo
me questo è un aspetto estremamente interessante, che
distingue gli artisti di questa generazione da quelle
precedenti: il farsi carico, cioè, del loro essere, della loro
storia e tradizione rivissute attraverso la singolarità delle
loro esperienze e non attraverso l’utilizzazione di segni
intesi come lessico, gamma di riferimento, lingua o
dizionario. Questo crea una difficoltà soprattutto per gli
artisti italiani, perché, mentre gli altri artisti che ho citato
avranno un tipo di circolazione relativamente più agile,
Salvadori, Bagnoli, Spalletti avranno più difficoltà a
causa della posizione di priorità della centralità europea
rispetto alla quale l'Italia, pur essendo necessaria,
occupa una posizione laterale. Infatti, questa lingua
comune che abbraccia tutta l'area centro-europea è mal
appresa e dunque non è immediatamente la lingua dei
nostri artisti. Con questo non voglio dire che gli italiani
siano meno europei degli altri, tuttavia essi hanno più
difficile accesso alla lingua comune e questo ha creato
loro qualche difficoltà.
(Le mostre che segnano in maniera inequivocabile il
periodo sono Von hier aus a Düsseldorf nel 1984,
Sonsbeek ‘86 a Arnhem e Chambres d’amis a Gand,
ambedue nel 1986 e Skulptur Projekte in Muenster
1987. Von hier aus è una rassegna sull’arte tedesca
presente, che parte da Beuys e si estende ad artisti più
giovani come Mucha, Foerg, Schuette e Katharina
Fritsch. Non è una mostra nazionalista, ma riflette le
energie che scaturiscono da un determinato territorio in
un determinato momento. Comprende infatti anche
artisti non tedeschi che hanno operato in Germania,
come Nam June Paik e Per Kirkeby, Broodthaers e
George Brecht. Sonsbeek ‘86 raccoglie per la prima
volta in maniera estremamente chiara gli artisti della
generazione di cui ho parlato sopra - ne mancano
alcuni, come sempre accade, ma non per questo
l’evento perde la sua pregnanza nel tentativo di fissare
un clima - e tenta di stabilire dei precedenti cercando di
definire una sorta di filiazione o di passaggio
generazionale. Chambres d'amis riconferma il legame
fra la vita e l'arte: all'interno della "casa" si scontrano
due narcisismi, quello dell'artista e quello privato;
rispetto alle due precedenti il panorama appare più
sfrangiato. All'affermazione perentoria di Von hier aus e
alla sistemazione quasi programmatica di Sonsbeek ’86,
la mostra di Gand azzarda una sorta di entrata in un
campo di fruizione non separata e la proposta attiva di
una permeabilità e di una diffusione dell'arte nei diversi
strati dell’ambito sociale, contaminando individuale e
collettivo. Infatti l'atteggiamento di Jan Hoet, l’ideatore di
Chambres d’amis, è sostanzialmente quello di fondare
l'opera d'arte in una situazione, piuttosto che enuclearne
alcune caratteristiche che poi divengono messaggi e
vengono diffusi. Così come è avvenuto per
DOCUMENTA IX, di cui lo stesso Hoet è direttore
unitamente a me, Denys Zacharopoulos e Bart De
Baere: realizzare là, concretamente, i progetti degli
artisti, nell'ambito di quella specie di grande impresa
effimera e temporanea, ma ottenendo l'effetto di uno
straripamento oltre gli argini della struttura istituzionale.
L'intenzione era tuttavia quella di agganciare la realtà
concreta del momento, non solo in senso sociale, ma di
circostanza e di ambiente, di storia e di vita. Vi è sempre
il rischio che l'opera non vi si adatti, perché non si può
mai sapere che tipo di situazione si possa creare a
confronto con le condizioni completamente altre rispetto
al terreno sul quale ci si vuole radicare. E questo perché
non si tratta di uno spazio astratto come quello di un
museo o dello spazio funzionale di una galleria, ma di
uno spazio reale, e come tale percorso da altre istanze,
da altri desideri, con caratteri che sono distanti da quelli
dell'arte. Se con Skulptur Projekte in Münster 1987
cinque anni prima si era posto il problema
dell’inserimento dell’opera d’arte contemporanea entro il
contesto urbano mantenendo i due termini distinti nei
loro specifici ambiti e facendoli interagire nello spazio, in
DOCUMENTA IX la struttura della mostra non rispetta
più un modello dialettico e si dilata infrangendo ogni
limite canonico e ogni distinta e rigorosa specificità e di
conseguenza l’unità monolitica del progetto testuale
della mostra.)
Vi è comunque per tutti un rapporto con il passato che
non è solo quello della storia dell’Arte Occidentale in
tutta la sua ampiezza, ma anche quello più recente e più
direttamente vissuto dell'Arte Povera e della Minimal Art,
dei loro a volte stessi maestri e modelli esemplari quali
ad esempio per i tedeschi lo erano stati Beuys, Gerhard
Richter, Bernd e Hilla Becher. Il passato per loro non è
solo una zona del tempo posta in distanza, nei confronti
della quale non esiste azione e che viene recuperata
solamente attraverso gli strumenti della storia e della
filologia o quelli poetico-sentimentali della
rammemorazione. Il passato è in qualche modo tutto ciò
che ha determinato qualcosa e che ha lasciato tracce.
Ma è anche quello che è scomparso o che rapidamente
va scomparendo. La sovrana singolarità dell’artista lo fa
proprio. Esso si presenta certamente in forme
linguistiche in cui si possono riconoscere i tratti di
quanto è stato come senso e sostanza, anche
attraverso le eventuali e personali deformazioni. Questa
assunzione è determinante per la formalizzazione del
lavoro. Penso, per esempio, che un'artista come
Spalletti, che è secondo me uno dei pochi artisti del sud
dell’Europa - come lo è Kounellis e come, pur
appartenendo ad altro clima, lo è Antoni Tapies - si porti
addosso un bagaglio di tradizione e di storia che non fa
rivivere in forme stilistiche, ma di cui dona il senso. Le
sue forme azzurre sono dense, terrose più che aeree, di
una densità che è propria della terra, ed io le vedo
piuttosto come i profili delle montagne che costituiscono
l’orizzonte del suo studio di Cappelle sul Tavo che come
un cielo "materializzato" nella scultura. Trovo infatti che
una delle caratteristiche della generazione di Spalletti, di
Vercruysse, di Munoz, di Bustamante, di Kapoor - lo
dico in modo schematico - sia che l'artista, insieme a noi
che siamo gli osservatori, stia "al di qua" dell'opera, e
questa si offra come una sorta di diaframma verticale
che si erge di fronte al suo e nostro sguardo desiderante
e oltre il quale vi è l'indicibile che a volte può assumere
la denominazione di "vuoto" o di "essere". L'opera non è
altro che questo diaframma erotico fra il soggetto e
l'essere. Non offre alcun tipo di praticabilità e l'unica
forma di moto che attiva è quella del desiderio. Non
consente, ad esempio, quella praticabilità di tipo politico
o ideologico che le opere dell'Arte Povera in qualche
modo favoriscono e che la formalizzazione del lavoro
esplicita. Si hanno invece posizioni nettamente e
positivamente affermate di frontalità e di distacco fra la
soggettività dell'artista come individuo, il diaframma
dell'opera e ciò che sta oltre.
Concepisco la mia pratica sostanzialmente come
un'esperienza dell'arte, in contrasto con quanto mi
hanno insegnato all'università, dove ho imparato, sì, a
maneggiare filologia e storia dell'arte, ma dove anche la
pratica di queste discipline negava la mia esperienza e
mi imponeva di riprodurre astrattamente l’esperienza
d’altri e a trasmetterla mediante gli strumenti di una
cultura rigidamente codificata. Perciò l'arte non aveva
luogo: era un'immagine della mente a cui io potevo
accedere soltanto attraverso quegli strumenti di
conoscenza. Quando poi mi sono trovato a contatto con
gli artisti della Minimal Art e dell'Arte Povera li ho visti
sempre come degli eroi lontani di cui avvertivo il fascino,
che ho ammirato - e continuo ad ammirare - ma verso i
quali sentivo una certa distanza. Con gli artisti degli Anni
Settanta, che erano i miei coetanei anagrafici, era come
stare con dei cugini; ci si diceva: "Ora ti faccio vedere
una cosa. Vieni con me fino a quell'angolo e ti mostro un
pozzo, una pianta o un'animale, della terra, un corpo";
oppure: "Apri questo libro e leggiti quella frase, un
concetto, una narrazione"; o ancora si guardava insieme
la diapositiva che avevano portato dal loro ultimo viaggio
o mi invitavano a vedere uno spettacolo.
Diversamente, con gli artisti degli anni Ottanta, di cui ho
parlato, ho trovato una identificazione amorosa: con loro
condivido oggetto di desiderio e universo di discorso.
Direi che il fatto di fondarsi su questa essenza che è
fatta di passato e di "presente e vivo" li pone in una
posizione di totale responsabilità. E questa
responsabilità si manifesta anche nel fatto di essersi
nutriti della modernità, che non appare ai loro occhi
come qualcosa di relegato a un momento epocale, o a
una strutturata serie di segni stilistici, ma è qualcosa che
essi, invece, hanno inglobato nei loro modi di essere, di
sentire e di esprimersi. È questo un grande passo in
avanti perché non ci si contrappone più a quello che è
stato, ma lo si vive e accetta pienamente. Perciò, credo
che gli artisti della generazione di Salvadori, Bagnoli,
Spalletti, West, Mucha, Schuette, Fortuyn/O’Brien,
Deacon, Kapoor, Zobernig, Munoz, Vercruysse, Foerg,
R. Graham, Bustamante, Balka, de Cordier - ma penso
anche a certi americani come Robert Gober, Robert
Therrien, Joseph Scanlan - rappresentino veramente
l'affermazione più positiva del nostro secolo.
Naturalmente, il farsi carico di questa responsabilità
rende il cammino più disagevole che non partire da una
mitologia o dal riferimento a un sistema di segni. Una
volta scrissi un testo, che ho poi ripreso più volte, su
Schuette, nel quale partivo dall'angelologia di Walter
Benjamin riletta da Massimo Cacciari e insistevo proprio
sull'"istante caduco” e sull’infantia, trovavo che questo
tema calzasse molto bene con il lavoro di Schuette.
D'altra parte, il semplice fatto che Benjamin sia
espressione fra le più alte di un clima culturale
tipicamente mitteleuropeo e lo abbia vissuto, con le crisi
che lo attraversavano, rende questo significativo. Credo
che il discorso di Benjamin possa essere un riferimento
anche per la lettura degli altri artisti di questa
generazione. Ed è strano vedere come il rapporto con il
passato e la tradizione, che essi assumono, si differenzi
da territorio a territorio e questo implichi appunto un
superamento dell'internazionalismo. Il che corrisponde
un po' a quanto si diceva allora, a livello di propaganda
politica, quando si parlava di un’"Europa dei popoli". Vi è
dunque un'apparente contraddizione nel fatto che nel
momento in cui il modello culturale dell'Occidente si
espande e diviene dominante in tutto il pianeta,
specialmente a livello economico, si ha come
contropartita un approfondimento del senso e della
sostanza dell'Europa. È lungo un asse verticale Nord-
Sud che si realizzano le forme come punto d'incontro tra
un universo di discorso (nordico) e un oggetto di
desiderio (collocato a sud). Si stabilisce una dinamica
vitale in cui l’Italia costituisce uno dei termini
fondamentali. Non è un caso che Mucha realizzi gli
ultimi suoi lavori maggiori in Italia, a Napoli e a Venezia,
e che Foerg abbia come riferimento fondamentale per il
suo lavoro fotografico l'architettura italiana razionalista
degli Anni Trenta da Adalberto Libera a Giuseppe
Terragni. Quest'asse verticale entra in aperta
contraddizione con un vettore orizzontale, che è quello
della grande espansione economica. Questo vettore
orizzontale - schematizzando - parte da una sostanza
densa, che è l'Oriente, e si muove con sempre maggiore
leggerezza verso Occidente, attraverso un processo di
distinzione linguistica sempre più specifica e attraverso
una sempre più netta contrapposizione fra sostanza e
funzione, fra il magma indistinto che tutto comprende e
l'estrema separazione e strutturazione dei segni. Si ha
uno spostamento verso quell'utopica libertà incarnata
dall'America e l'abbandono delle strettoie del Vecchio
Mondo verso i grandi spazi. Si arriva così ancora una
volta a un limite, quello dell'Oceano (Pacifico), il cui
fronte, la faglia di S. Andrea, minaccia di staccarsi e di
far sprofondare l'ultima spiaggia. E quello che c'è oltre
non è altro che l'origine che si è lasciata alle spalle.
Avviene così un ritorno all'Oriente per la via
dell'Occidente che provoca un blocco nel movimento,
un'impasse nella storia e quindi diventa terreno di
mutazioni.
In fondo negli Stati Uniti vi è ancora un modello
fondamentale che è l'"American Way of Life" e vi è
questo senso di coprire il tutto attraverso l'azione. Come
avviene per esempio nel lavoro di Jeff Koons dove è
presente l'idea, straordinaria per certi aspetti, di produrre
un'opera che mantenga la propria qualità e la propria
integrità in qualunque posto sia collocata. E un'opera di
Koons non cambia se si trova in una capanna delle isole
Marchesi o nel palazzo del principe, in un luogo pubblico
o nel salotto del nuovo ricco. C'è dunque questa lettura
dell'universale, ma anche un degrado del suo concetto.
Mentre in Sol LeWitt vi è in qualche modo una volontà di
coprire tutti gli spazi che ha ancora a che fare con l'idea
di universale, in quanto si supera ogni specificità
linguistica dato che le sue opere sono astratte, nel
lavoro di Koons vi è l'intenzione di coprire il pianeta con i
prodotti, che hanno invece una specificità linguistica che
ricalca quella della produzione generale. Quello che mi
lascia perplesso nel lavoro di Koons è che di nuovo si
stabilisce questo taglio schizofrenico all'interno della
persona fra produttore e consumatore, che ti dice
sempre che c'è qualcuno che l'ha prodotta e qualcun
altro che la consuma. Anche quando ha usato la
pornostar Cicciolina come materiale l'ha ridotta a un
segno. Quando invece su questi stessi temi del corpo e
dell'erotismo, negli stessi Stati Uniti personaggi
straordinari, come il fotografo Larry Clark, entrano
dentro questa finzione rischiosa e tutt'altro che indolore
del rapporto con l'altro e con le pulsioni del desiderio.
Direi comunque che l'America si avvantaggia del fatto di
possedere una breve storia e quindi di godere di una
mobilità maggiore. Ma è un vantaggio che interviene più
attivamente quando il quadro generale muta, e quindi si
dimostra ancora una volta funzionale all’economia del
sistema, che è ancora perlopiù sistema di potere e di
dominio, conforme al modello dominante che ha
caratterizzato la Cultura Occidentale dal Rinascimento
in avanti.
Negli Anni Novanta cambia l'atteggiamento dei giovani
artisti. Il tipo di rapporto che gli artisti di cui ho parlato
avevano con l'opera implicava la costruzione di una
sorta di diaframma verso l’inesprimibile, verso quello
che non poteva essere raggiunto mediante i linguaggi
elaborati dalla Cultura Occidentale, e che si manifestava
come vuoto. Nel lavoro degli artisti che cominciano ad
emergere nei primi Anni Novanta sento invece che il
vuoto non è oltre l'opera, ma dentro e intorno. C'è la
presa di coscienza che non vi è più distinzione fra il qui
quale luogo del soggetto e l’altrove quale luogo del
desiderio, perché il soggetto possiede già in sé stesso
questo vuoto insondabile. Un altro carattere è la perdita
o il cambiamento di centralità dell'oggetto. Mentre per la
generazione precedente l'opera doveva avere una
propria concretezza materiale e formale al fine di attutire
il confronto diretto fra il soggetto e il vuoto - l'opera/
diaframma-erotico faceva da argine allo scontro di
queste due forze contrapposte - oggi l'oggetto non è più
così fondamentale anche se non scompare del tutto. A
questo proposito, mi vengono in mente due casi estremi
e diversissimi per qualità e consistenza: Matthew
Barney e Eva Marisaldi. In Barney l’esperienza del
soggetto agente è all'interno dell'opera: le sue
performance, i suoi rituali mitico-narrativi privati ci
vengono restituiti esclusivamente attraverso il video
muto, mentre la sua oggettistica è costituita dai residui e
dai materiali scenici che ha utilizzato nella sua
avventura. In questo caso l'oggetto acquista valore
soltanto in virtù della sua attiva presenza nell'immagine
video. Nel caso della Marisaldi le tracce minime, eppure
viventi in quanto segnate dall'esperienza, non hanno
alcuna importanza in quanto oggetti in sé. Il centro di
queste opere è quindi il vuoto, ma non il vuoto mistico o
il nulla, semmai il vuoto come risultato di un processo di
svuotamento. Il limite precario costituito da tali tracce
non ha lo scopo di arginare il vuoto, ma di rivelarlo, di
farlo sentire. In questo senso un lavoro significativo è
quello di Rachel Whiteread quando solidifica gli spazi
vuoti che si trovano intorno e dentro gli oggetti. Se
dunque l'oggetto non scompare del tutto, il senso della
sua consistenza cambia.
Vedo difficile la possibilità non dico di una coabitazione,
che comunque di fatto avviene, ma di una relazione che
potrebbe finire con il ridurre queste due posizioni.
Perché mentre nell'alternarsi delle generazioni nelle
epoche precedenti in fondo c'è sempre stata una
posizione che si affermava e diveniva dominante,
seguita poi dalla generazione successiva che a sua
volta muoveva i suoi passi per riprendere un altro
processo di dominio, gli artisti di cui mi sono occupato
negli Anni Ottanta erano privi di una volontà di potenza.
Affermando il proprio Sé, affermavano in qualche modo
anche la possibilità di esistenza dell'Altro e in questo
modo non si sono fondati, cioè non sono diventati
dominanti. Da lì può nascere il contrasto. Tuttavia, in
questo momento vedo la possibilità di mutare alcuni
termini del discorso e sostituirli con altri, per esempio,
con un termine come quello di serenità. Credo
fermamente sia possibile preparare il terreno per una
fioritura di felicità, come fanno i bravi contadini che
lavorano serenamente in condizioni climatiche avverse.
L’aspirazione alla felicità diventa meno utopica,
intendendo per utopia la tensione verso qualcosa che si
trova più lontano e che si può raggiungere attraverso un
processo lento - veloce e traumatico è il parallelo e
complementare processo rivoluzionario. Mi sembra che i
fini che erano stati dell'utopia abbiano oggi possibilità
effettive di realizzazione, nonostante tutte le condizioni
avverse che segnano il momento attuale e in questo ho
una profondissima e assoluta fiducia.

Note biografiche

Pier Luigi Tazzi è nato a Colonnata, vicino Firenze, nel


1941. Si è laureato in Storia dell’arte all’Università di
Firenze nel 1965. A partire dal 1964 ha cominciato a
scrivere su cataloghi d’arte contemporanea e ha
tradotto, nel 1965, Silence, una raccolta degli scritti di
John Cage. Nel 1968 ha iniziato la collaborazione con
diversi quotidiani, tra i quali Il Lavoro, Avanti!, Lotta
Continua, e riviste d’arte, tra cui NAC (Milano), Visual
(Firenze), D’Ars (Milano), Color (Torino), Flash Art
(Milano), Magazzini Criminali (Firenze), Vanity (Milano),
Casabella (Milano), Ottagono (Milano), Artefactum
(Antwerpen), Galerie Magazine (Parigi), Halle Sud
(Geneve), Impulse (Toronto). Dal 1968 al 1972 è stato
consulente per varie gallerie d’arte e direttore della
galleria del Centro Tèchne di Firenze.
Dal 1976 al 1986 è stato assistente, prima alla cattedra
di “Decorazione” poi a quella di “Strumenti e tecniche
della comunicazione visiva”, della Facoltà di architettura
dell’Università di Firenze. Nel quadro dell’attività
universitaria, ha progettato e organizzato a Montecatini
Terme una serie di convegni internazionali dedicati alla
critica d’arte: Critica 0 (1978), Critica 1 (1980), Critica 2
(1982), Critica 1984 (1984). Inoltre, dal 1977 al 1984 ha
fatto parte del gruppo teatrale “Il Carrozzone / Magazzini
Criminali”.
Nel 1981 ha curato la sezione dedicata ai libri d’artista
della mostra Identitée italienne. L’art en Italie depuis
1959, svoltasi al Centre Georges Pompidou MNAM di
Parigi. Dal 1983 al 1989 è stato redattore per l’Italia di
Neue Kunst in Europa (Monaco); consulente per la
redazione di Wolkenkratzer (Francoforte sul Meno);
collaboratore di Museumjournaal (Amsterdam); dal 1984
al 1992 è stato collaboratore della rivista Art Forum
(New York); segretario scientifico del CID Arti Visive di
Prato e organizzatore dei convegni “Progetti d’archivio”
e “Due incontri. Il museo d’arte contemporanea oggi. La
rivista d’arte contemporanea oggi”. Ha inoltre progettato
e organizzato il convegno “Cultura/Tecnologia/
Metropoli” a Firenze.
Nello stesso periodo ha curato numerose esposizioni
personali e collettive, tra le quali ricordiamo nel 1988
una sezione della XLII Biennale di Venezia. Dal 1989 al
1992 è stato co-direttore della Documenta IX di Kassel.
Nel 1997-1998 ha curato la mostra inaugurale della
nuova sede del Moderna Museet di Stoccolma: Wounds.
Between Demcracy and Redemption in Contemporary
Art, ed è stato capo curatore dal 1998 al 1999 del
Centro per l’arte contemporanea Marino alla Scala di
Milano. Nel 2001 ha curato il progetto Refreshing alla
49° Biennale di Venezia.
Dal 1998 è presidente della Fondazione Lanfranco Baldi
con sede a Pelago (Firenze).
Ha partecipato a numerosi convegni e tenuto lezioni e
conferenze in molte città italiane e straniere. È autore di
varie pubblicazioni sull’arte contemporanea.

SCHEDA INTRODUTTIVA A DENYS


ZACHAROPOULOS

Nella società degli anni 1960-70 - esordisce


Zacharopoulos - i tradimenti nelle avanguardie non
erano ancora conosciuti, se si esclude quelli del mercato
internazionale. Da un lato vi era l’ufficialità del mercato,
che condizionava musei, collezioni e discorsi della
critica, dall’altro il tentativo ingenuo degli artisti di far
rinascere una forma di neo-Dadaismo o neo-Futurismo.
Si era determinata, infatti, la necessità di uscire
dall’ufficialità imperante per creare un nuovo territorio
dell’arte. In conseguenza di questo, le città più
importanti sono diventate Düsseldorf, in Germania, al
posto di Colonia e Monaco; Torino, Genova e Bologna,
in Italia, al posto di Roma. Il nuovo territorio dell’arte che
si andava costituendo non portava più alla produzione
dell’opera come oggetto, ma diventava un luogo di
raccolta di testi, riflessioni e dibattiti. Accanto a questo
ambito di dibattito, la mostra diviene il luogo più
importante dove si situa l’opera e dove si ridefinisce il
rapporto con il sito dell’esposizione. La novità di questi
anni, infatti, è il ribaltamento del rapporto tra la teoria e
la pratica e la mostra diviene il luogo nel quale si può
realizzare la teoria come pratica. Un po’ come è stato
per il teatro del V secolo a.C. che divenne un luogo
reale dove la teoria si manifestava concretamente. Così,
la mostra cambia molti rapporti tradizionali, spingendo
l’arte fuori dall’appartamento borghese direttamente
all’interno della città, con l’occupazione degli spazi
abbandonati. Inoltre, gli artisti rifiutano ogni idea di
totalità e di falsa generalizzazione universalistica e l’idea
di creatività fornita loro dalla società. Coloro che si
accontenteranno di questo tipo di creatività saranno gli
artisti della Transavanguardia e quelli che adotteranno
l’atteggiamento post-beuysiano che tende a creare l’idea
dell’artista come “guru”.
Per gli artisti che esplorano l’idea di un territorio
dell’arte, è invece importante distinguere tra il “tempo
diretto” e quello “indiretto” che appartiene all’opera. Da
questo punto di vista, la Transavanguardia rappresenta
un compromesso senza risultati; mentre artisti come
Marco Bagnoli, Reinhard Mucha, Matt Mullican, Thomas
Schütte, durante gli anni Ottanta hanno continuato a
costituire una contraddizione sotterranea senza
compromessi.
È proprio a partire dagli anni Sessanta, infatti, che l’arte
si trasforma in uno spazio dell’esperienza, anche
negativa. Come avviene nei processi di formazione di
una nuova soggettività, anche nell’arte si costituisce uno
spazio differente, nel quale il concetto di infinito non si
può più esprimere con una metafora, ma diviene una
metonimia. Si collega, cioè, al concreto e non è
un’immagine astratta. Per questo motivo, cercare di
classificare gli artisti contemporanei secondo categorie
stilistiche diviene difficile. Ognuno di questi artisti
quando lavora tocca concretamente un problema e
perciò il loro lavoro non può essere posto all’interno di
categorie astratte. Anche la tenuta di Kerguéhennec in
Bretagna, centro d’arte contemporanea diretto da
Zacharopoulos dal 1993 al 2000, non sarebbe pensabile
senza queste premesse. L’arte è infatti un momento di
perdita di se stessi e di discontinuità. Questo è il filo
comune che collega gli artisti tra loro e non il fatto che
essi vengono raccolti in categorie stilistiche o per
generazioni.
Così, una cosa oggi molto importante è una “politica
della forma” in cui la parola “politica” sia intesa come
atteggiamento di riforma nei confronti di leggi stabilite. E
questa questione si ricollega a quello di un “tempo
indiretto” dell’opera. Tale tipo di temporalità è
un’esperienza che si può compiere, ad esempio, al
Louvre di fronte a un’opera di El Greco. Essa permette,
infatti, allo spettatore di sentirsi improvvisamente a
Toledo, un luogo che esprime una densità spirituale e
che costituisce una dimensione soggettiva autonoma
rispetto a quella del potere oggettivo che esprimeva in
quel tempo la corte spagnola dell’Escorial.
Zacharopoulos ricorda anche un altro esempio di “tempo
indiretto”, costituito dalla riflessione di Courbet intorno a
un dipinto da lui eseguito. L’artista sosteneva, infatti, di
non aver rappresentato un cervo in un quadro di
paesaggio perché troppo veloce per riuscire a “fissarlo”
sulla tela.
Ma anche oggi, continua il critico, esistono artisti che
lavorano su questa condizione di “tempo indiretto”, che
non è la semplice dimensione spazio-temporale in cui
viene incasellato ogni dato concreto. Allo stesso modo, il
concepire Kerguéhennec come luogo reale di incontro
tra varie arti non è riconducibile a una strutturazione del
sapere secondo categorie ben definite. Il tentativo è
infatti quello di creare un dibattito utilizzando la tenuta di
Kerguéhennec per ripensare le opere e le modalità della
loro produzione al di fuori delle istituzioni tradizionali,
quali fiere, musei e gallerie. Queste ultime sembrano
invece collocarsi in una dimensione di “tempo diretto”.

COLLOQUIO CON DENYS ZACHAROPOULOS

A uno sguardo retrospettivo i fatti ci mostrano che la vita


delle avanguardie è stata gestita anche da tradimenti,
nonostante che, all’interno della società degli anni
‘60-’70, basata sull’idea di internazionalità e di quasi
universalità dell’opera e del lavoro artistico, questi non
fossero ancora conosciuti. O, per essere più precisi, si
conosceva il tradimento del mercato internazionale, che
aveva privilegiato solo una parte delle opere d’arte della
Modernità del XX secolo, ormai divenute classiche. Vi è
stato perciò negli anni Sessanta un atteggiamento di
ingenuità da parte degli artisti, quando essi hanno
creduto per esempio di fare il New Dada o il Neo-
Futurismo spinti dall’ammirazione e per cercare di
rivalutare alcuni atteggiamenti artistici che non
rappresentavano l’ufficialità del mercato. In un momento
in cui questo, invece, condizionava la creazione dei
musei, delle collezioni, la produzione dei libri e dei
discorsi della critica. A questo lavoro di storicizzazione
formalista del XX secolo, compiuto soprattutto dagli
americani, si oppone una reazione di attitudini
principalmente europee, cui si aggiungono alcuni artisti
americani concettuali. Vi sono anche artisti che lavorano
con la pittura, con lo scopo di aggirare questo tipo di
storia “storicizzata” e realizzare uno spazio, un territorio
dell’arte, dell’artista e dell’opera che è la parte viva del
lavoro di quegli anni. Ed essa non privilegia l’oggetto.
Si crea, perciò, la necessità di uscire fuori dai territori già
occupati e questo produce un vero e proprio
cambiamento della geografia dell’arte nel passaggio
dagli anni Sessanta agli anni Settanta. Tale
cambiamento non è legato tanto al bisogno dei
collezionisti o delle istituzioni ma a quello degli artisti,
che cercano luoghi dove poter realizzare lavori che
altrove sarebbero impossibili. Questa è la ragione per
cui Düsseldorf diventa più importante di Colonia o di
Monaco, mentre in Italia Torino è più importante di
Roma, e anche Genova e Bologna lo sono. In questa
prima fase si viene a creare, poco alla volta, un territorio
che è quello in cui si realizza un’opera d’arte non intesa
come oggetto ma come raccolta di processi mentali, che
si traducono successivamente in testi, riflessioni e
dibattiti. Si tratta, in un certo senso, di un “territorio” fatto
di numeri, gesti, argomenti, che costituisce uno spazio di
dibattito. Inoltre, accanto a questo di territorio esiste
quello costituito dall’esposizione. La mostra diviene,
così, sia il punto di localizzazione dell’opera sia quello
della lotta tra il luogo nella sua piatta disponibilità e il
tentativo di ridefinirne i limiti, di ricreare la capacità e la
possibilità di mettere tale luogo in rapporto con altri. La
novità dell’arte degli anni Settanta è infatti quella di un
ribaltamento nei rapporti tra la teoria e la pratica
artistica. Nel senso che la mostra diviene il luogo in cui
si realizza la teoria come praxis. Questo, eccetto casi
rarissimi, come le mostre surrealiste, non era avvenuto
nella prima metà del secolo, quando la mostra
apparteneva ancora all’universo archeo-capitalista o
mercantile, ed era perciò dominata dall’idea
dell’esposizione di oggetti per la vendita. A partire dalla
fine degli anni Sessanta la mostra diventa invece un
“luogo” teorico, nel senso in cui lo è stato il teatro greco
del V secolo a.C.; il quale era diventato un oggetto
teorico in quanto costituiva la messa in mostra dell’unità
di tempo e di luogo. Lo stesso si potrebbe dire per le arti
visive, a proposito della creazione della pittura murale o
per quanto è avvenuto nelle chiese rinascimentali, dove
pittura e architettura si trovavano unite nella costruzione
di uno spazio dell’umanesimo. Anche negli anni
Sessanta la mostra diviene il territorio dove si realizza
concretamente la teoria dell’opera. Un tale territorio ha
messo in moto la creazione di nuove istituzioni,
cambiando il rapporto con l’architettura e il luogo
sociale. Si esce, perciò, dall’appartamento borghese per
toccare la struttura stessa della città, occupando spazi
abbandonati al fine di ricreare altre dimensioni
dell’esperienza.
Sul piano della poetica, un’altra cosa rifiutata dagli artisti
di questa generazione è la tendenza alla totalizzazione.
Essi conoscono, infatti, il peso dell’ideologia e la
rifiutano. Evitano, in questo modo, la trappola del
discorso generico e della proposta non tanto universale
quanto universalistica. Ed è per questo che la mostra
riesce a diventare un’assemblea fantastica: perché non
si totalizza. Al contrario, essa è trasformata in un
momento di crollo o di colmo di tale totalizzazione.
Questo accade particolarmente in alcuni tipi di
operazione artistica, come nella moltiplicazione e
divisione che si produce nel lavoro di Mario Merz; il
quale sostituisce all’idea di totalità quella di infinito,
realizzata con il processo innescato nelle sue opere
dalla serie di Fibonacci. In questo modo, non si arriva
mai a un sistema che si chiude in se stesso. Tutto ciò è
presente anche nel lavoro di altri artisti e Jean-
Christophe Ammann lo ha definito con la formula:
“Processi di pensiero visualizzato”.
Ciò che gli artisti rifiutano è un’idea di creatività che
appartiene già alla società. E i tradimenti successivi
verranno proprio da lì. Da coloro che invece si sono
accontentati di questo tipo di creatività e che saranno gli
epigoni e i traduttori di una situazione rimessa a
disposizione del mercato, della televisione e
dell’informazione. Questo sarà il lavoro che condurrà
alla Transavanguardia e all’atteggiamento post-
beuysiano di sostegno a una nuova mitologia, dove
l’umano non viene inteso per le sue contraddizioni ma
nel senso classico di personalità. Si creano così dei
nuovi Goethe in Italia e l’idea dell’artista “guru”,
dell’artista papa o filosofo. Un tipo di artista che, se non
serve direttamente il mercato, difende comunque
un’idea di potere.
Per gli artisti che esplorano la concezione di un territorio
dell’arte, invece, un aspetto importante è la distinzione
tra un tempo “diretto”, che appartiene alla società, e uno
“indiretto”, che si forma con l’opera. Proprio come
quando ci si innamora, il tempo è indiretto perché non
puoi dire l’ora esatta o il giorno in cui questo accade.
Dunque, fai l’esperienza di un tempo diverso da quello
che potremmo definire come tempo diretto, sociale,
perché condiviso da tutti nella sua suddivisione in unità
consecutive. Secondo me, il tempo dell’arte è un tempo
indiretto perché si pone al di fuori della cronaca. Per
esempio, quando alla fine degli anni Settanta Khomeni
conquistò il potere in Iran, un quotidiano francese
interpellò lo storico Fernand Braudel per chiedergli che
cosa sarebbe accaduto per la storia contemporanea a
partire da quel momento. Egli replicò che questo
avvenimento era stato previsto e che il fatto in sé non
avrebbe cambiato di molto le cose, perché si trattava
semplicemente dell’effetto di una situazione già in atto;
dunque di un fenomeno, o di una sua fase, ma non di un
evento o di un inizio. Il vero fatto di quei giorni, aggiunse
Braudel, era rappresentato invece da una legge europea
che consentiva agli allievi delle scuole primarie l’uso
della calcolatrice. Questo avrebbe cambiato la storia
futura, perché da quel giorno i giovani avrebbero perso
progressivamente la capacità di fare dei calcoli in modo
autonomo.
Sulla base di questo esempio potremmo dire che le
persone che nel 1978 pensavano che la
Transavanguardia avrebbe cambiato qualcosa, hanno
assunto la stessa posizione del quotidiano francese nei
riguardi della presa del potere di Khomeni. Infatti, quegli
avvenimenti in campo artistico hanno rappresentato il
risultato di un compromesso, ma senza portare a nulla
perché hanno smarrito la ragione profonda dei
cambiamenti avvenuti nella storia dell’arte più recente.
Invece, tali cambiamenti hanno continuato a esistere
come contraddizione sotterranea e a fare in modo che il
malinteso continuasse a essere una forza rivoluzionaria
e non di compromesso in artisti che erano già attivi negli
anni Ottanta. Penso, per esempio, a Reinhard Mucha,
Marco Bagnoli, Thomas Schütte e Matt Mullican. Alcuni
di questi erano presenti nella “Documenta” del 1982,
diretta da Rudi Fuchs, accanto a Enzo Cucchi,
Francesco Clemente e Sandro Chia. Nonostante il
mercato si avvicini a loro solo oggi, poiché per
mantenersi ha bisogno di estendere il proprio dominio in
ambiti nuovi.
Perciò, potremmo dire che esiste uno spazio non
abbastanza osservato che costituisce lo spazio reale in
cui avviene l’arte e lo potremmo definire come parte di
un silenzio vivo, attivo e poetico.
Così, per riprendere i termini del discorso precedente,
esiste sempre il colmo di una situazione e il momento
del suo crollo. Il fatto che si creda che non vi sia una via
di ritorno è un idea un po’ hegeliana, in cui vi è un
superamento massimo e uno minimo. Tuttavia, oggi
questa idea è divenuta problematica. Più giusta appare
quella di silenzio, che ingloba la lingua in un modo
opposto a quanto fa la parola che appartiene
all’ideologia. Non si tratta di un silenzio noioso, che cela
sussurri e rumori; ma di un silenzio di altro tipo, che
l’arte del nostro tempo è riuscita a toccare nei rari
momenti in cui ha saputo esprimersi in senso forte. Un
silenzio che diventa sostanza e si realizza come luogo
dell’esperienza.
Così, le arti visive sono importanti perché a partire dagli
anni Sessanta realizzano un proprio spazio, in cui
questo silenzio si manifesta. Dove persino le parole
sono trasformate in oggetti, come una sedia o un tavolo.
Il senso artistico diventa perciò uno spazio
dell’esperienza, anche negativa, della vita e della
società. Allo stesso modo di come aveva capito Michel
Foucault, quando parlava di processi di soggettivazione
e di come creare nuovi soggetti che non fossero quello
classico, inteso come individuo chiuso in se stesso e
definito dalla razionalità o dalla coscienza. Anche
nell’arte viene costruito uno spazio differente, dove per
esempio il concetto di infinito non lo si può più scrivere
nei quattordici versi di un sonetto. Quanto viene fuori
dall’Infinito di Leopardi in forma di metafora, nell’arte
contemporanea diviene metonimia. Cioè essa tocca
qualcosa di concreto e non proietta soltanto
un’immagine astratta. Si comprende allora che gli artisti
che sono stati di volta in volta classificati in quanto
appartenenti all’Arte Povera, alla Land Art o all’Arte
Concettuale, si trovino stretti all’interno di una
classificazione che ha piuttosto un valore museografico
o ideologico. Poiché ognuno di questi artisti, mentre
realizza un’opera, tocca concretamente un problema,
che può essere il concetto di arte, l’idea di territorio o la
povertà dei materiali. Si è trattato, dunque, di creare
un’altra logica e un altro modo di organizzare le cose
per produrre un territorio specificamente artistico. Anche
la tenuta di Kerguéhennec, il luogo che dirigo, non
sarebbe pensabile senza questi riferimenti. Lo stesso
discorso vale per la radicalità con cui è stata affrontata
la Documenta del 1992, che è stata pensata come luogo
e non come grande mostra, fiera o festival. Oppure
come non-museo, proprio come l’aveva intesa Harald
Szeemann nel 1972.
In un certo senso, possiamo dire che abbiamo imparato
a vivere con esperienze che l’arte del nostro tempo ha
reso esemplari. Esse esistono ormai in quanto parte di
una mentalità e di una sensibilità che, anche mentre si
modificano, le mantiene come riferimento. Per questo,
l’arte continua a essere un momento di perdita di se
stessi e non si propone come luogo di continuità, ma
come spazio di discontinuità, riunendo insieme artisti
che non si possono collocare in categorie stilistiche o
raggruppare per generazioni. Esistono, infatti, artisti
come Mario Merz o Gerhard Richter che hanno
cominciato molto tardi, avendo avuto quasi una prima
carriera artistica che hanno messo tra parentesi per
ricominciare. Questo dimostra che l’idea che l’arte
accada per generazioni è falsa. Anche tra gli artisti che
in passato si sono presentati come appartenenti a
un’unica generazione, in realtà, a ben guardare, ve ne
erano alcuni che avevano vent’anni più degli altri. Lo
stesso si potrebbe dire sul piano delle differenze
stilistiche, poiché oggi molti giovani artisti sembrano fare
lavori che stilisticamente continuano a concepire l’arte a
partire dal crollo della concezione formalista.
È chiaro che il rapporto tra la Transavanguardia e certi
giovani artisti che fanno del “reportage sociale” è
semplicemente quello che va da un ritratto mondano a
uno di gruppo. Rimangono entrambi una forma di
naturalismo da salotto. Mentre è importante la creazione
di nuove forme. Ciò che una volta Mario Diacono, in un
testo che accompagnava una mostra di Jannis
Kounellis, Mario Merz e Pierpaolo Calzolari, ha
chiamato “la politica della forma”. Ed è questo un punto
importante. Esiste, infatti, una “politica della forma” che
non riguarda la semplice strategia, ma la politica nel
senso classico. Quella, cioè, che assume un
atteggiamento di riforma radicale nei confronti delle leggi
e che si separa dalle forme del potere come alienazione
ideologica. È questo un problema che si riconnette a
quello di un tempo “indiretto” dell’arte. L’artista che oggi
non riesce a capire che esiste un “tempo indiretto” che
riguarda l’arte ha già firmato la propria condanna. In
quanto, vuol dire che ha accettato che ogni nuova
invenzione tecnologica possa averla vinta sulla “ragion
d’essere”; divenendo, così, uno spettatore della morte
generalizzata.
Anche se non sono molto religioso, quando entro in una
bellissima chiesa, dove un organo suona e vi è in corso
una cerimonia con molte persone che cantano mentre
altre sono raccolte a sentire questa musica, posso
provare un’emozione di alto livello. Lo stesso può
accadere al Louvre. Se si passa del tempo davanti a un
quadro di Giorgione o El Greco si può compiere
un’esperienza di altissimo livello culturale che agisce
ancora oggi, producendo questa sensazione di tempo
“indiretto”. Essa ti permette, infatti, mentre sei nel
museo, di non essere lì ma, per esempio in presenza di
un’opera di El Greco. Quindi, di essere a Toledo, un
luogo che esprime la propria presenza spirituale e che si
soggettivizza di fronte all’oggettività della corte spagnola
di Madrid e dei codici di rappresentazione del potere
dell’Escorial.
A questo proposito esiste un significativo aneddoto che
riguarda la vita di Gustave Courbet. Egli mandò a un
collezionista che glielo aveva chiesto un paesaggio che
questi voleva contenesse anche un cervo.
Probabilmente l’artista aveva bisogno urgente di denaro
e gli inviò un semplice paesaggio. Il collezionista, non
contento, volle sapere dov’era il cervo e l’artista rispose
che l’animale era stato così rapido nell’attraversare il
paesaggio che il dipingerlo andava al di là delle
possibilità dell’immagine tradizionale, inaugurando un
territorio nel quale il soggetto individuato si apriva a una
dimensione del paesaggio del tutto nuova.
Nonostante questo sia solo un aneddoto, esso esprime
molto bene la condizione dell’arte. Fa pensare al grado
di radicalità cui era giunto, intorno al 1860, il lavoro di
Courbet, al quale un cervo, nell’istantaneità
dell’accadere di un’immagine, appare più veloce del
tempo di realizzazione del quadro; anche se è
paradossalmente presente in esso. È questo anche un
notevole esempio di “tempo indiretto” contenuto nelle
opere degli artisti.
Allo stesso modo, dire che un “Igloo” di Mario Merz
assomiglia a una scultura è sbagliato. Evidentemente,
chi vede le opere di Merz in una mostra non può dire
che queste siano delle sculture. Infatti, non esiste
qualcosa come la pittura e la scultura, ma esiste la
memoria dei vari codici e dei vari mezzi che l’artista
possiede. Ed è altrettanto evidente che un’opera di
questo tipo non può essere messa in rapporto con
l’architettura secondo una modalità di tipo classico,
poiché sposta i codici della scultura. Questo non è un
problema stilistico perché non è un problema formale,
ma tratta di altri contenuti. Anzi, la stessa differenza
tradizionale tra contenuto e forma non esiste più. Esiste
solo per la filologia. In questo senso, chi tratta della
forma senza contenuto o solo del contenuto, è ancora
fermo a posizioni che risalgono agli anni Cinquanta.
Mentre, esiste oggi un certo numero di artisti che lavora
su una configurazione delle cose in cui è presente la
condizione di tempo “indiretto”, che è qualcosa di molto
più complesso della condizione di spazio-tempo
preliminare a ogni opera come semplice dato. Ecco
perché luoghi come Kerguéhennec possono essere
interessanti al fine di sviluppare quel carattere di
discontinuità che appartiene alle opere d’arte. Non si
tratta della complessità programmatica teorizzata dal
Post-moderno, che è stato solo una forma di eclettismo
stilistico. In luoghi come questo è invece possibile far
affiorare quella discontinuità che nessun architetto post-
moderno è in grado di pensare. Poiché si tratta di una
discontinuità che va oltre ogni calcolo, attraverso la
quale si possono realizzare opere d’arte mettendo
insieme cose che normalmente non convivono,
producendo momenti che sfuggono alla continuità del
senso, del gusto, dei riferimenti stilistici e delle
categorie. Questo è il punto. Tale discontinuità consente,
per esempio, che una candela e un altro oggetto
possano stare insieme, producendo un corto circuito
della significazione poetico-politica all’interno del
quotidiano banalizzato.
Il progetto di Kerguéhennec si muove proprio in questa
direzione, promuovendo un luogo di lavoro dove persino
l’idea della cultura non è riconducibile a delle categorie.
Così, quando si ritrovano qui ballerine e danzatori con
degli audiovisivi, o degli ambienti di teatro, non si
produce una situazione analoga a quella del Centro
“Georges Pompidou”, dove esistono sezioni
compartimentali per il teatro, la musica, la danza e le arti
visive. Non è neppure l’idea utopica dell’opera d’arte
totale. Si vuole invece creare un piccolo villaggio
sinergico, nel quale si possono ritrovare artisti e progetti.
Si produce un contesto di lavoro che permette alle
persone che hanno la volontà di lavorare a questo
progetto di definire le proprie regole. Per cercare di
formulare il discorso in termini teorici potremmo dire,
utilizzando le categorie classiche della filosofia, che
esiste anche nella fenomenologia dell’opera d’arte una
parte “intensa” e una parte “estesa”. Nel momento in cui
le due parti si incontrano si creano degli eventi sul piano
estetico. Si creano, cioè, dei momenti in cui l’intensità
assume l’estensione, oppure la parte estesa assorbe
l’intensa. Tutto questo può essere esemplificato
dall’opera di Mario Merz che utilizza la celebre frase del
generale Giap: “Se il nemico si concentra perde terreno
se si disperde perde forza”.
Kerguéhennec è dunque un’istituzione creata con la
vocazione di sviluppare un dibattito pubblico
sull’avvenire dell’arte. Essa raccoglie la necessità di
ripensare le opere, il modo della loro produzione, il
luogo del loro accadere e il contesto dentro il quale il
lavoro artistico possa continuare ad avere legittimità e
produrre senso. Per fare ciò è necessario lavorare su
tempi lunghi, che non sono quelli delle fiere, delle
gallerie e dei musei, istituzioni che hanno ormai uno o
due secoli di vita e che sono entrate all’interno di un
sistema di “tempo diretto”.

Nota biografica

Denys Zacharopoulos è nato a Atene nel 1952. Si è


formato in Francia, a partire dall’inizio degli anni
Settanta, dapprima all’università di Aix en Provence e
successivamente all’École des Hautes Etudes en
Sciences Sociales presso Jean Cassou, Gaetan Picon,
Louis Marin e Roland Barthes, dei quali è stato allievo e
amico. Autore di saggi sull’arte contemporanea, di
monografie sull’Arte Povera e di studi su singoli artisti
quali Mario Merz, Marisa Merz, Pierpaolo Calzolari,
Gilberto Zorio, MichelangeloPistoletto, Jannis Kounellis,
Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Gerhard Richter,
Reinhard Mucha, Matt Mullican, Thomas Schütte, Harald
Klingelhöller, Eran Schaerf, Jimmy Durham, Jean Marc
Bustamante, Jan Vercruysse, Franz West, Per Kirkeby,
Eugène Leroy. Ha scritto, inoltre, sui rapporti della
scultura con il luogo e su vari aspetti della storia dell’arte
con saggi su Luigi Piranesi, El Greco, Claude Monet,
Gustave Courbet, Lucio Fontana. Ha collaborato a varie
riviste tra le quali Art Forum e Artistes, ha partecipato a
molti convegni curando quello intitolato L’arte nel mondo
contemporaneo in collaborazione con l’università di
Ginevra. Ha insegnato a Grenoble, Ginevra, Vienna,
Amsterdam e Berna.
La sua attività di critico d’arte si è sviluppata a contatto
con gli avvenimenti artistici internazionali ed è
culminata, dopo avere organizzato numerose mostre tra
cui Le Diaphane nel 1991, con la nomina a co-direttore
della Documenta IX di Kassel del 1992. Nel 1986 è stato
nominato consigliere per l’arte contemporanea del
centro di arte e di ricerche pluridisciplinari “Domaine de
Kerguéhennec”, in Bretagna, di cui è divenuto direttore
nel 1993. In questa sede ha organizzato le mostre: De la
main à la tête, l'objet théorique, Praxis, Ensomnie, Le
lieu du combat, Densité ou le musèe inimaginable,
Cronique, Icones. Nel 1999 è stato commmisario del
padiglione francese alla Biennale di Venezia. Dopo
essere stato consigliere per varie collezioni regionali
francesi, per la collezione nazionale d’arte
contemporanea e consigliere del Ministero degli esteri
per le arti visive, è stato nominato ispettore generale
della creazione artistica al Ministero della cultura a
Parigi. A seguito delle dimissioni da questo incarico, nel
2000 ha ripreso l’attività critica, teorica e
l’insegnamento. Attualmente sta lavorando a un libro
che riassume i suoi impegni di fronte agli artisti,
continuando ad elaborare l’esperienza di “tempo
indiretto” presente all’interno delle loro opere.

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ELENCO MOSTRE DETERMINANTI IL DIBATTITO
ARTISTICO

Non esiste allo stato attuale un elenco definitivo delle


mostre che hanno segnato il dibattito sull’arte
contemporanea negli ultimi tre decenni. Una ricerca
esauriente, in questo senso, deve ancora essere
compiuta. L’elenco qui stilato è stato ottenuto grazie alla
collaborazione di quattro delle persone di cui è raccolta
testimonianza nel libro. Ciascuno ha segnalato le mostre
che - secondo il suo parere - hanno determinato il
dibattito nel periodo ( 1967-1999 ) preso in esame.
Perciò, l’elenco complessivo è stato ottenuto riunendo le
diverse segnalazioni. Ognuna di esse riporta a lato la
sigla del critico che ha indicato la mostra; come risulta
dalla legenda. In questo modo, è anche possibile
ricostruire gli elenchi particolari forniti da ciascuno.

LEGENDA
Hoet: Ho
Szeemann: Sz
Tazzi: Taz
Zacharopoulos: Zac

(Titolo/ Località/Data/Curatore)

- Joseph Beuys, Mönchengladbach, 1967, Jhoannes


Cladders: Sz
- 12 Environments. 50 Jahre Kunsthalle Bern, Bern,
1968, Harald Szeemann: Sz
- Carl Andre, Robert Barry, Douglas Huebler, Joseph
Kosuth, Sol LeWitt, Robert Morris, Lawrence Weiner
("The Xerox Book"), New York, 1968, Seth Siegelaub,
John Wendler: Sz
- Op Losse Schroeven: Situaties en Cryptostructuren,
Amsterdam, 1969, Wim Beeren: Zac
- When Attitudes Become Form, Bern, Krefeld, London,
1969, Szeemann: Ho, Sz, Zac
- Prospect 69, Düsseldorf, 1969, Konrad Fisher, Hans
Strelow:Sz
- Konzeption/Conception, Leverkusen, 1969, Fisher, Rolf
Wedewer: Sz
- Processi di pensiero visualizzato: junge italienische
Avantgarde, Luzern, 1970, Jean-Christophe Ammann:
Zac
- Amore mio, Montepulciano, 1970, Achille Bonito Oliva:
Taz
- Happening & Fluxus & Wiener Actionismus, Köln,
Stuttgart, 1970-71, Szeemann: Sz
- Sonsbeek 71: Sonsbeek buiten de perken, Arnhem,
1971, Beeren: Ho, Sz, Zac
- Documenta 5, Kassel, 1972, Szeemann: Ho, Sz, Taz,
Zac
- Bruce Nauman: Work from 1965 to 1972, Los Angeles,
New York, Bern, Düsseldorf, Eindhoven, Milano, San
Francisco, 1972-74: Ho
- Contemporanea, Villa Borghese, Roma, 1973-74,
Bonito Oliva: Ho
- Carl Andre, Marcel Broodthaers, Daniel Buren, Victor
Burgin, Gilbert & George, On Kawara, Richard Long,
Gerhard Richter, Bruxelles, 1974, Yves Gevaert: Ho
- Transformer. Aspekte der travestie, Luzern, Graz,
Bochum, 1974-75, Ammann: Sz
- Machines Célibataires, Bern, Venezia, Bruxelles,
Düsseldorf, Paris, Malmö, Amsterdam, Wien, 1975-77,
Szeemann: Sz, Zac
- Ambiente/Arte. Dal Futurismo alla Body Art (Biennale
di Venezia), Venezia, 1976, Germano Celant: Sz, Zac
- Plastik/Environment (Documenta 6), Kassel, 1977,
Manfred Schneckenburger, Edward Fry, Jan Van der
Marck: Taz
- Skulptur Austellung in Münster 1977, Münster, 1977,
Kasper König: Sz, Zac
- Marcel Duchamp, Paris, 1977, Pontus Hulten, Jean
Clair: Sz
- Paris-New York, Paris, 1977, Hulten: Ho
- Tendenzen der Zwanziger Jahre, Berlin, 1977,
Eberhard Roters: Sz
- Monte Verità, Ascona, Zürich, Berlin, Wien, München,
1978-80, Szeemann: Sz, Taz
- Joseph Beuys, Guggenheim Museum, New York,
1979: Ho
- Kunst in Europa na '68, Gent, 1980, Jan Hoet: Zac
- Biennale di Venezia e Aperto 80, Venezia, 1980, Bonito
Oliva, Michael Compton, Martin Kunz, Szeemann: Sz
- A New Spirit in Painting, London, 1981, Christos
Joachimides, Norman Rosenthal, Nicholas Serota: Sz,
Zac
- Art en Alemagne aujourd'hui, Paris, 1981, René Blok:
Sz
-Westkust. Zeitgenössische kunst nach 1939, Köln
1981, Laszlo Glozer, Kasper König: Sz, Zac
- Zeitgeist, Berlin 1982-83, Joachimides, Rosenthal: Sz
- Der Hang zum Gesamtkunstwerk, Zürich, Berlin,
Düsseldorf, Wien 1983-84, Szeemann: Sz
- Skulptur im 20. Jahrhundert, Basel 1984, Ernst
Beyeler, Reinhold Hohl, Martin Schwander: Taz
- Von hier aus, Düsseldorf, 1984, König: Taz, Zac
- Promenades, Gèneve, 1985, Adelina von Fürstenberg:
Zac
- Spuren, Skulpturen und Monumente ihrer präzisen
Reise, Zürich, 1985, Szeemann: Sz, Taz
- Sonsbeek 1986, Arnhem, 1986, Saskia Bos: Taz, Zac
- Chambres d'amis, Gent, 1986, Hoet: Ho, Sz, Taz, Zac
- L'époque, la mode, la morale, la passion. Aspects de
l'art d'aujourd'hui 1977-87, Paris, 1987, Bernard
Blistène, Catherine David, Alfred Pacquement: Zac
- Zeitlos, Berlin, 1988, Szeemann: Sz, Taz, Zac
- Magiciens de la terre, Paris, 1989, Jean-Hubert Martin:
Sz, Zac
- Wunderblock, Wien, 1989, Cathrin Pichler, Clair,
Wolfgang Pircher: Sz
- Open Mind, Gent, 1989, Hoet, Pier Luigi Tazzi: Zac
- Diaphane, Tourcoing, 1990, Zacharopoulos: Zac
- High & Low. Modern Art and Popular Culture, New
York, Chicago, Los Angeles, 1990-91, Kirk Varnedoe: Sz
- Un tranquilo fluir, Madrid, 1991, Pepe Espaliu: Taz
- Metropolis, Berlin, 1991, Joachimides, Rosenthal: Zac
- Documenta IX, Kassel, 1992, Bart De Baere, Hoet,
Tazzi, Zacharopoulos: Taz, Zac
- Sonsbeek 1993, Arnhem, 1993, Valerie Smith: Zac
- 45° Biennale di Venezia, Venezia, 1993, Bonito Oliva:
Sz
- The Sublime Void. On the Memory of Imagination,
Antewerp, 1993, Bart Cassiman: Sz, Zac
- Project unité, Firminy, 1993, Yves Aupetitallot: Taz
- Rendez-vous, Gent, 1993, De Baere: Zac
- De la main à la tête, l'objet théorique, Kerguéhennec,
1993, Zacharopoulos: Zac
- Der Zerbrochene Spiegel, Wien, Hamburg 1993-94,
König, Hans Ulrich Obrist: Zac
- Spiegelsprung, Wien, 1993, Zacharopoulos: Zac
- Bruce Nauman, Madrid, Minneapolis, Los Angeles,
Washington, New York, Zürich, 1993-95, Neal Benezra,
Kathy Halbreich: Sz
- Drawing the Line. Reappraising Past and Present,
Southampton, U.K., 1995, Michael Craig-Martin: Taz
- 100 Jahre Kino, Zürich, Wien, 1995-96, Szeemann: Sz
- Ettore Spalletti, Hôpital Raymond Poincaré, Garches
(Paris), 1996: Ho
- Documenta X, Kassel 1997, David: Zac
- Unmapping the Earth. Biennale Gwangju, Gwangju
1997, Erica Clark, Richard Kashalek, Sung Wan-Kyung,
Bernard Marcadé, Kyong Pank, Szeemann: Sz
- Moment Ginza, Grenoble, Stockholm, 1997,
Dominique Gonzalez-Foerster: Taz
- L'Autre. Biennale de Lyon, Lyon, 1997, Szeemann: Sz,
Taz
- Densité ou le musée inimaginable, Kerguéhennec,
1997-98, Zacharopoulos: Zac
- Wounds. Between Democracy and Redemption in
Contemporary Art, David Elliott, Tazzi: Taz, Zac
- Cities on the Move, Wien, Bordeaux, Hou Hanru,
Obrist: Sz
- 48° Biennale di Venezia, Venezia, 1999, Szeemann:
Sz, Zac; sez. dAPERTutto (Corderie e Arsenale): Taz
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INDICE DEI NOMI E DELLE MOSTRE


a cura di Gherardo Bortolotti

Abramovic, Marina, 21, 22, 24


Acconci, Vito, 18, 20, 77
Aitken, Doug, 24
Albers, Josef, 19
Alighiero e Boetti, 21
Allendy, Colette, 54
Ambiente/Arte. Dal Futurismo alla Body Art. Vedi
Biennale di Venezia, Biennale 1976
Ammann, Jean-Christophe, 15-17, 37, 38, 85
Andre, Carl, 15, 17, 18, 71, 76
A New Spirit in Painting, 18
Anselm Kiefer, 42
Aperto. Vedi Biennale di Venezia, Biennale 1980
Araeen, Rasheed, 21
Art & Language, 18, 23
Artaud, Antonin, 19, 75
Artschwager, Richard, 22, 72, 80
Asher, Michael, 18-20
Bacon, Francis, 19, 23
Bagnoli, Marco, 20, 61-64, 66, 83, 86
Balka, Miroslaw, 63, 66
Barney, Matthew, 22, 24, 61, 68
Barry, Robert, 15
Baselitz, Georg, 19, 21, 46, 61, 63, 78, 80
Basquiat, Jean-Michel, 21
Bauhaus, 73
Baumgarten, Lothar, 19
Bazile Bustamante, 21
Becher, Bernd, 19, 65
Becher, Hilla, 19, 65
Beeren, Wim, 16, 77
Belting, Hans, 29
Benjamin, Walter, 66
Beuys, Joseph, 18-21, 23, 37, 39, 42, 45-48, 50, 62, 64,
65, 71, 72, 74-78, 80, 81
Biennale di Berlino 1998, 40, 42
Biennale di Parigi, 61
Biennale di Venezia :
Biennale 1976, 18
Biennale 1980, 18, 71, 79, 80
Biennale 1999, 23, 24
Bijl, Guillaume, 22
Bill, Max, 19
Billingham, Richard, 24
Blistène, Bernard, 21
Bloch, Ernst, 76
Boetti, Alighiero, 38
Boltanski, Christian, 18, 21, 24, 74
Bonito Oliva, Achille, 18, 72, 80
Borofsky, Jonathan, 18, 19
Bos, Saskia, 20
Bourgeois, Louise, 21, 22, 45, 49, 80
Bowie, David, 17
Brancusi, Costantin, 19, 76, 80
Brandl, Herbert, 62
Braudel, Fernand, 86
Brecht, George, 64
Brock, Bazon, 16
Broodthaers, Marcel, 17, 18, 20, 23, 46, 62, 64
Bruce Nauman, 22, 72, 80, 81
Bruly Bouabré, Frédéric, 21
Bulatov, Eric, 21
Buren, Daniel, 13, 17, 18, 20, 21
Burgin, Victor, 17
Bustamante, Jean Marc, 22, 63, 65, 66
Byars, James Lee, 19, 21, 24, 46, 80
Cacciari, Massimo, 66
Cahn, Miriam, 37, 40
Calder, Alexander, 73
Calzolari, Pierpaolo, 87
Carl Andre et al. , 17
Castelli, Leo, 42, 57, 77
Castro, Fidel, 73
Cattelan, Maurizio, 23
Celant, Germano, 18
Chagall, Marc, 19
Chambres d’amis, 20, 45-47, 61
Chia, Sandro, 61, 63, 64, 71, 79, 80, 86
Christo, 19, 73
Cicciolina, 68
City on the Move, 23, 24
Cladders, Joannes, 16
Clark, Larry, 68
Clemente, Francesco, 18, 19, 21, 37, 38, 40, 61, 64, 72,
79, 86
Combas, Robert, 21
Coppola, Francis Ford, 21
Cordier, Thierry de, 63, 64, 66
Corot, Camille, 46
Costant, 19
Courbet, Jean, 83, 87
Cragg, Tony, 80
Cucchi, Enzo, 37, 40, 42, 72, 79, 86
Daniels, René, 19
dAPERTutto. Vedi Biennale di Venezia, Biennale 1999
David, Catherine, 21, 22
Deacon, Richard, 20, 61-63, 66
De Baere, Bart, 22, 64
Deleuze, Gilles, 25
De Maria, Nicola, 18, 37, 40, 72, 79
De Maria, Walter, 21, 72, 80
Der Hang zum Gesamkunstwerk, 19
Diacono, Mario, 87
Diez, Cruz, 73
Disler, Martin, 18
Documenta :
Documenta 5, 16, 17, 30, 71, 74, 77-79
Documenta 6, 18
Documenta 7, 45, 46, 79, 86
Documenta IX, 22, 31, 45, 48, 49, 61, 64, 87
Documenta X, 22, 23
12 Environments. 50 Jahre Kunsthalle Bern, 73
Douglas, Stan, 22
Dubuffet, Jean, 19, 73
Duchamp, Marcel, 13, 17, 19, 73, 75, 76
Dujourie, Lilli, 61, 62
Dumas, Marlene, 22
Durham, Jimmy, 22
Edefalk, Cecilia, 37, 40
El Greco, 83, 87
Eliasson, Olafur, 24
Elliott, David, 23
Ensor, James, 80
European Iceberg, 61
Fabro, Luciano, 18, 46, 63
Fahlström, Öyvind, 23
Fassbinder, Rainer Werner, 21
Fautrier, Jean, 19, 80
Fibonacci, Leonardo, 85
Filliou, Robert, 78
Fischli/Weiss, 20
Fisher, Konrad, 15, 16, 42
Fontana, Lucio, 53, 57, 76
Förg, Günther, 20, 61, 63, 64, 66
Fortuyn/O’Brien, 61-63, 66
Foucault, Michel, 86
Francesca, Piero della, 46
Freud, Lucien, 40
Freud, Sigmund, 38
Fried, Howard, 77
Fritsch, Katharina, 20, 64, 80
Fry, Edward, 18
Fuchs, Rudi, 45, 46, 48, 50, 79, 86
Gagarin, Jurij, 58
Geldzaler, Harry, 62
Géricault, Théodore, 49, 50
Gevaert, Yves, 17
Giacometti, Alberto, 19, 80
Giap, 88
Gilbert & George, 17, 18, 78
Gillick, Liam, 23
Giorgione, 87
Glass, Philip, 71, 73
Glozer, Laslo, 18
Gober, Robert, 24, 66, 80
Godard, Jean-luc, 21
Goethe, Johann Wolfgang, 85
Gonzales-Foerster, Dominique, 23
Gonzales-Torres, Felix, 23, 24
Gordon, Douglas, 24
Graham, Dan, 18, 20
Graham, Rodney, 62, 63, 66
Grand-père, 31
Gruppo Zero, 53, 57
Guattari, Felix, 25
Haacke, Hans, 18, 19, 23, 46
Hains, Raymond, 19
Halley, Peter, 22
Hamilton, Richard, 19, 23
Hammons, David, 45, 49
Hanru, Hou, 23
Happening & Fluxus, 71, 74, 77
Haring, Keith, 21
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 41
Heizer, Michael, 46, 47
Herbin, Auguste, 72
Hesse, Eva, 23, 76
High & Low. Modern Art and Popular Culture, 21
Hirst, Damien, 22, 24
Hockney, David, 40
Hoet, Jan, 18, 20, 22, 31, 32, 37, 43, 45, 46, 50, 64
Höller, Carsten, 23
Holzer, Jenny, 19-22
Hopper, Edward, 19
Horn, Rebecca, 20, 21
Houshiary, Shirazeh, 21, 61-63
Huebler, Douglas, 15
Hugo, Vicotr, 80
Hulten, Pontus, 18
Hüppi, Johannes, 37, 40
Huyghe, Pierre, 23
Iglesias, Cristina, 61, 62
I tre gesti: Duchamp, Kandinsky, Malevic, 76
Jagger, Miki, 17
Jauss, Hans Robert, 29
Joachimides, Christos, 18
Johns, Jasper, 19, 41, 71, 73
Jorn, Asger, 19
Joseph Beuys, 72, 80, 81
Judd, Donald, 18, 21
Jung, Carl Gustav, 56, 76
Kandinsky, Wassily, 19, 76
Kabakov, Ilia, 21
Kapoor, Anish, 20, 22, 61-63, 65, 66
Kaprow, Allan, 74
Kawara, On, 17, 40
Kelly, Mike, 22
Kemps, Niek, 61, 62
Kennedy, John Fitzgerald, 73
Kennedy, Robert, 73
Khomeni, 86
Kiefer, Anselm, 19, 37, 42
Kienholz, Edward, 23
Kirkeby, Per, 64
Klee, Paul 19
Klein, Yves, 9, 14, 15, 19, 41, 53-58
Koch, Udo, 42
Köenig, Kasper, 18 , 20
Konzeption/Conception, 15
Kooning, Willem de, 19, 21
Koons, Jeff, 21, 45, 49, 61, 67, 68, 72, 80
Kosuth, Joseph, 15, 20
Kounellis, Jannis, 18, 20, 21, 24, 37, 42, 45, 46, 48, 63,
65, 87
Kowalski, Piotr, 72
Kruger, Barbara, 21, 22
Kunst in Europa na ’68, 18, 46
L’époque, la mode, la morale, la passion. Aspects de
l’art d’aujourd’hui 1977-87, 20, 21
Lacan, Jacques, 38
Laib, Wolfgang, 79, 80
Lapique, Charles, 72
Lao-tzu, 38
Le Gac, Jean, 74
Leopardi, Giacomo, 86
Le Parc, Julio, 74
Levine, Sherry, 22
LeWitt, Sol, 15, 20, 50, 67, 77
Libera, Adalberto, 66
Lichtenstein, Roy, 48 78
Lippard, Lucy, 17
Living Theatre, 72
Lockhart, Sharon, 24
Lohse, Richard Paul, 71, 78
Long, Richard, 17, 18, 46, 47
Lüperz, Markus, 19, 46, 61, 63
Lüthi, Urs, 17, 19
Lyotard, Jean-François, 49
Machines Célibataires, 17
Magiciens de la terre, 21, 22
Magritte, René, 19
Malevic, Kazimir, 58, 76
Manifesta 2, 42
Manzoni, Piero, 19, 41, 53, 57
Mario Merz :
retrospettiva Zürich Kunsthaus, 72, 80
Walker Art Center, 77
Marisaldi, Eva, 61, 68
Markopoulos Gregory, 72
Martin, Etienne, 72, 74
Martin, Jean-Hubert, 21
Marx, Erich, 81
Matisse, Henri, 41, 72
Matta-Clark, Gordon, 23
McCarthy, Paul, 22
Mead, Taylor, 72
Merz, Mario, 18, 20, 22, 46, 47, 50, 63, 72, 76, 77, 80,
81, 85, 87, 88
Merz, Marisa, 19, 20, 22, 80
Miriam Cahn, 40
Moholy-Nagy, Laszlo, 72
Moment Ginza, 23
Mondrian, Piet, 19, 54
Monte Verità, 18
Morris, Robert, 15, 78
Mucha, Reinhard, 19-22, 24, 61-64, 66, 72, 80, 82, 83,
86
Mullican, Matt, 20-22, 83, 86
Muñoz, Juan, 20, 61-63, 65, 66
Nauman, Bruce, 20-24, 40, 43, 49, 72, 77, 80, 81
Nefiodow, Leo, 37, 38
Newman, Barnett, 19, 53, 57
Nordman, Maria, 20
Nouvelles Recherches Visuelles, 73
Obrist, Hans Ulrich, 23
O’Doherty, Brian, 14
Oiticica, Hélio, 23
Oldenburg, Claes, 18, 20, 75
Paik, Nam June, 19, 64
Paladino, Mimmo, 61
Panamarenko, 78
Paolini, Giulio, 63
Paolozzi, Edoardo, 19
Paquement, Alfred, 21
Paris-New York, 18
Parreno, Philippe, 23
Penck, A.R., 19, 78
Peyton, Elisabeth, 37, 40
Picabia, Francis, 73
Picasso, Pablo, 19
Plastik/Environment. Vedi Documenta, Documenta 6
Polke, Sigmar, 46, 72, 78, 80
Pollock, Jackson, 19
Preziosi, Donald, 13
Processi di pensiero visualizzato. Junge italianische
Avantgarde, 15
Promenades, 20, 61
Prospect 69, 15
Qiang, Cai Guo, 24
Rabinowitch, Royden, 46, 80, 82
Rainer, Arnulf, 46
Rauschenberg, Robert, 19, 71, 73
Ray, Man, 73
Reinhardt, Ad, 53, 57
Restany, Pierre, 14, 53
Rhoades, Jason, 24
Richard Serra, 72, 80
Richter, Gerhard, 17, 45, 46, 50, 65, 87
Rinke, Klaus, 73
Rist, Pipilotti, 42, 80
Rosenberg, Harold, 13
Rosenthal, Norman, 18
Rosso, Medardo, 19, 80
Roth, Dieter, 19, 24
Rothko, Mark, 53, 57
Rückriem, Ulrich, 18,19, 22, 46, 80
Ruff, Thomas, 61, 62
Ruppersberg, 23
Salle, David, 19
Salvadori, Remo, 61-64, 66
Samba, Chéri, 21
Sandro Chia et al., 71, 79
Scanlan, Joseph, 66
Schmela, Alfred, 42
Schnabel, Julian, 18, 19
Schneckenburger, Manfred, 18
Schütte, Thomas, 19-22, 24, 61, 63, 64, 66, 83, 86
Serota, Nicholas, 18
Serra, Richard, 18, 21, 71-73, 75-78, 80, 82
Shapiro, Joel, 18
Sharf, Kenny, 21
Sherman, Cindy, 21
Sidén, Ann-Sofi, 24
Siegelaub, Seth, 15
Sieverding, Katharina, 17
Sigmar Polke, 72, 80
Skulptur Austellung in Münster, 18
Skulpturprojekte in Münster, 20, 61, 64
Smith, Valerie, 22
Snow, Michael, 71, 73
Sonsbeek :
Sonsbeek 71: Sonsbeek buiten de perken, 16
Sonsbeek 1986, 20, 61, 64
Sonsbeek 1993, 22
Sontag, Susan, 29, 31
Soto, Jesus Raphael, 73
Spalletti, Ettore, 20, 22, 46, 61-66
Speck, Reiner, 81
Spuren, Skulpturen und Monumente ihrer präzisen
Reise, 19, 72, 80
Staël, Nicolas de, 19
Stalin, Josip, 38
Steimbach, Haim, 22
Stella, Frank, 78
Strelow, Hans, 15
Sze, Sara, 24
Szeemann, Harald, 14-19, 21, 22, 24, 30, 31, 32, 37, 43,
45, 48, 71, 72, 87
Takis, 73
Tapies, Antoni, 65
Tarkovski, Andrei, 21
Tazzi, Pier Luigi, 22, 23, 31, 32, 37, 43, 61, 62
Terragni, Giuseppe, 66
Thek, Paul, 74
Therrien, Robert, 66
“The Xerox Book”, 15
Tinguely, Jean, 53, 57, 73
Tiravanija, Rirkrit, 24
Toscani, Oliviero, 78
Transformer. Aspekte der travestie, 17
Trockel, Rosmarie, 23
Tuttle, Richard, 19, 46, 80
Twombly, Cy, 19, 80
Ücker, Günther
Van der Mark, Jan, 18
Varnedoe, Kirk, 21
Vautier, Ben, 78
Vercruysse, Jan, 20, 24, 61-66, 72, 82
Vermeiren, Didier, 82
Vilmouth, Jean-Luc, 20
Viola, Bill, 21, 22, 38, 40
Virilio, Paul, 40
Von Fürstenberg, Adelina, 20
Von hier aus, 18, 19, 61, 64
Wall, Jeff, 19, 23
Walter De Maria, 72, 80
Warhol, Andy, 48-50, 72
Wedewer, Rolf, 15
Weiner, Lawrence, 15, 20, 76
Wenders, Wim, 21
West, Franz, 19, 20, 22, 24, 61-63, 66, 72, 82
Westkunst. Zeitgenössiche Kunst nach 1939, 18, 19
When Attitudes Becomes Form, 15, 16, 71-74, 76-78, 80
Whiteread, Rachel, 22, 61, 68
Wiener Gruppe, 62
Wilson, Robert, 21
Wodiczko, Krzysztof, 21
Wolheim, Richard, 30, 33
Wostell, Wolf, 18
Wounds. Between Democracy and Redemption in
Contemporary Art, 23
Young, LaMonte, 30, 78
Yves Klein :
galleria Apollinaire 1957, 55, 57
galleria Colette Allendy 1957, 14, 54
galleria Iris Clert 1958, 55
galleria Leo Castelli 1961, 57
Jewish Musem 1967, 53, 57
retrospettiva 1983, 57
Zacharopoulos, Denys, 22, 32, 64, 83
Zeitgeist, 18, 21, 80
Zeitlos, 21, 61, 72, 82
Zhen, Chen, 24
Zittel, Andrea, 23
Zobernig, Heimo, 20, 22, 62, 63, 66

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FOTO DI ATTILIO MARANZANO

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