a cura di
Gianni Vattimo
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Thomas Harrison
FILOSOFIA DELL'ARTE,
FILOSOFIA DELLA MORTE
7
Cìyòrgy Lukàcs, ne è anche l'esito. Ogni grande opera darle,
scrive nello stesso anno in cui vengono pubblicati i Quaderni, «ci
conduce a un grande varco - attraverso il quale non c'è passag-
gio». Ogni opera di letteratura
1
La traduzione italiana è stata leggermente modificata, in questo e alcuni
altri dei brani citati.
8
ra e «finita». Eppure quel suo mondo ideale e autonomo non può
mai essere altro che «immagine». La sua essenza rimane eterna-
mente remota e inaccessibile (Buber 1913b: 67).
La tragedia dell'arte è quindi questa: la possibilità del frain-
tendimento, che la forma estetica avrebbe dovuto superare - il frain-
tendimento che «nella realtà empirica era soltanto una vérité de
fait» - viene elevato dall'opera a «una vérité éternelle» (Lukàcs
1912-14: 63). Questa verità - che nessuna verità può liberarsi dal
fraintendimento e nessun linguaggio saldare vita e anima - «non
viene abolita dall'arte; al contrario, è resa eterna. Si trasforma da
categoria empirica in categoria costitutiva» (Màrkus 1983:13). Tut-
ta la perfezione e la profondità conoscitiva che gli artisti riversano
nelle loro opere è vana. «Rimangono più silenziosi, meno capaci
di esprimersi dei protagonisti della vita quotidiana, che sono com-
pletamente imprigionati in sestessi» (Lukàcs 1912-14; cit. in Màrkus
1983: 13). Questi ultimi almeno possono approfittare dei vincoli
della chiacchiera e del pettegolezzo. L'artista invece punta tutto
sulla possibilità di un'affermazione di portata universale. Ma per
quanto riuscita, tale affermazione lascia il fenomeno contingente
di cui parla senza una voce propria, ancora amorfo e muto.
Questo percorso circolare - dal silenzio del linguaggio co-
mune al silenzio dell'arte, dalla tragedia che dà origine all'arte
alla tragedia in cui l'arte sfocia - diviene consapevole di sé in un
preciso momento storico. È il 1910, l'anno della pubblicazione
dei Quaderni di Rilke e dell'edizione ungherese de L'anima e le
forme di Lukàcs, per non dire della svolta deU'«emancipazione
della dissonanza» nella musica di Arnold Schònberg e delle gran-
di opere espressionistiche di Egon Schiele, Oskar Kokoschka,
Carlo Michelstaedter e Wassily Kandinsky2. La tragedia estetica
diviene consapevole di sé nel momento in cui questa generazione
di idealisti tenta di innalzare l'arte al rango di proposta filosofica;
nel momento in cui musicisti, pittori e poeti del primo Nove-
cento vanno a caccia della forma fisica dell'anima pura, delle
2
Questo breve saggio tratteggia alcuni temi di cui ho trattato in modo più
completo in uno studio sulla cultura europea nell'anno 1910 (Harrison 1996), in
cui figurano anche Scipio Slataper, Giovanni Boine, Dino Campana, Franz
Marc e Ludwig Wittgenstein. La presente versione si avvale dei numerosi sug-
gerimenti linguistici non solo di Marco Codebò e di Elena Coda, studiosi italiani
presso l'Università della California a Los Angeles, ma anche di Massimo Celle-
rino.
9
sembianze dell'identità astratta, di figure palpabili di concetti
che hanno sempre costituito il dominio proprio della metafisica.
Non è naturalmente la prima volta che l'arte e la filosofia ol-
trepassano i propri limiti. Sin dal tempo dei Greci la filosofia si è
presentata come la disciplina che inizia là dove si infrange la pa-
rola poetica. Socrate e Platone si opponevano a sofisti, retori e
poeti proprio in quanto credevano che la dialettica potesse me-
glio afferrare quella verità che le arti della parola non potevano
che offuscare. Ma anche la poesia inizia là dove si esaurisce la fi-
losofia. Poeta è chi crede che l'uso creativo e immaginario del lin-
guaggio sveli la complessità dell'esperienza umana meglio di qual-
siasi ragionamento concettuale. In ogni caso, sia la metodologia
filosofica che quella poetica pretendono di poter forgiare un lin-
guaggio adeguato alla verità. Entrambe tendono a fondarsi su
un'epistemologia rappresentativa - l'idea che una certa X (un lat-
to, un'esperienza o un sentimento) venga trasmessa più efficace-
mente da una retorica Y: un determinato uso del linguaggio, non
importa se poetico o filosofico, potrà rivelare più efficacemente
l'oggetto del discorso.
Laddove questa epistemologia classica fallisce - ovvero,
quando compare Heidegger - compare anche l'avanguardia. La
verità intesa come evento (anziché come oggetto) dello svela-
mento non rappresenta qualcosa che precederebbe l'evento stes-
so. La verità post-rappresentativa, o meta-rappresentativa, non si
avvale di un metodo universalmente valido. Insiste semmai nel
violare le procedure e le convenzioni entro le quali filosofia e
arte erano state costrette. È a questo punto che il linguaggio del-
la filosofia e dell'arte diviene intransitivo - «esprime» una verità
invece di rappresentarla.
Sebbene gli artisti del 1910 compiano questa svolta in dire-
zione dell'avanguardia, non è questa la loro intenzione. Sono an-
cora «poeti»: riprendono il progetto della filosofia là dove la fi-
losofia viene meno, cercano di precisare o di rafforzare le sue
proposte. Personaggi come Kandinsky, Schònberg e Michelstaed-
ter sono gli ultimi artisti a ideare un repertorio di mezzi espres-
sivi atti ad affrontare le supreme questioni della filosofia: l'intima
natura del reale, la logica dello spirito, la formalizzazione di ve-
rità inconfutabili e universali. Di più: per essi non soltanto l'arte
è al servizio della filosoiia, ma la filosofia risulta a sua volta pro-
pedeutica all'arte. I loro scritti teorici presentano l'arte come lo
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sbocco naturale delle esigenze idealistiche e vitalistiche espresse
da gran parte dei filosofi loro contemporanei: l'esigenza di su-
perare le forme sterili e illusorie dell'esperienza quotidiana, di
cogliere quei principi più intimi della realtà oggettiva che si chia-
mano vita, soggettività, volontà.
Ciò che maggiormente sorprende in questi espressionisti, tut-
tavia, non è la straordinaria simbiosi di filosofia e arte realizzata
nelle loro opere; è la conseguenza, ancora più straordinaria, di tale
simbiosi: la morte della filosofia e la perdita della portata filo-
sofica dell'arte. L'espressionismo del 1910 conduce allo speri-
mentalismo dell'avanguardia: a estetiche aleatorie o inconsce, a
espressioni non chiaramente riconducibili a intenzioni, a inven-
zioni affidate all'unicità e all'originalità anziché a significati uni-
versali o collettivi. A questo punto dalla forma (che tende a es-
sere non-rappresentativa) non si può più distillare il «contenuto».
In modo analogo, sulla scia di Nietzsche, la filosofia vitalistica, in-
tuizionistica e «irrazionalistica» del primo Novecento annuncia la
fine di una concezione della verità che risaliva a Platone e Aristo-
tele. Dopo il 1910 la filosofia e l'arte non offriranno più una «for-
mulazione» della verità: rifletteranno invece sui propri mezzi di
formulazione.
Un aspetto essenziale di quella concezione della verità - ucci-
sa nel momento stesso in cui l'arte la corteggiava - è la propen-
sione a pensare l'esistenza in termini bipolari, per mezzo di sotto-
specie quali soggetto-oggetto, spirito-materia, vita-morte, salute-
malattia. Nel 1910 artisti e pensatori caricano il primo polo di
ciascuna opposizione di una speranza senza precedenti; ma così
facendo rivelano quanto tale speranza, ancorché degna e antica,
fosse illusoria. Un primo esempio si trova nella teoria estetica. Lo
spirituale nell'arte, il manifesto dell'arte astratta di Kandinsky,
composto principalmente nel 1910 e pubblicato alla fine del
1911, annuncia una guerra civile a cui ogni nuovo artista dovrà
prendere parte. All'inizio del secolo due forze competono per il
controllo dell'Europa: il materialismo e la spiritualità. Per secoli,
scrive Kandinsky, il materialismo ha avuto il sopravvento: la sua
arma conoscitiva è la scienza, la sua etica è il consumismo, la sua
economia legittima l'ingordigia e la sua politica si basa sull'intimi-
dazione dei vicini. Finalmente però il regno del materialismo sta
giungendo al termine. Nel primo decennio del nuovo secolo, os-
serva Kandinsky, una scintilla di luce spirituale è riuscita a pene-
11
prattutto fra gli studenti"4. Non possediamo le cognizioni scien-
tifiche sufficienti per chiederci se l'epidemia suicida sia imputa-
bile a una «prescienza» dell'imminente catastrofe del 1914, quasi
a suggerire che il gran numero di persone che impazzirono o si
tolsero la vita prima della guerra volessero preventivamente
escludere la propria partecipazione ad essa. E, tuttavia, la sin-
drome ricorre prima di altri grandi conflitti, in particolare la se-
conda guerra mondiale.
Senza presupporre alcuna prescienza, possiamo però affer-
mare che il pensiero e l'arte del 1910 furono anche altrettante
risposte a questa disposizione negativa e suicida - tentativi, per
così dire, di trovare una soluzione. Per rendere la vita degna di
essere vissuta occorreva rendere possibile ciò che la filosofia ave-
va sempre ricercato: le strutture universali del senso, l'autenticità
dei valori, la verità spirituale e morale. Lo storico dell'arte
Wilhelm Worringer giustifica questa logica in modo analogo in
Ahstraktion und Einfiihlung (1908). Quando l'umanità non si
trova a proprio agio nel mondo, o non si identifica «empatica-
mente» con i princìpi ontologici che la governano (come si pre-
sume sia accaduto nella Grecia classica), allora coltiva le arti
astratte. L'astrazione intende neutralizzare gli orrori del reali-
smo. Si sforza di «strappare l'oggetto del mondo esterno dal suo
contesto naturale, dal flusso interminabile dell'essere, di purifi-
carlo di tutta la sua dipendenza dalla vita, cioè di tutto ciò che in
esso è arbitrario, di renderlo necessario e incontrovertibile, di
approssimarlo al proprio valore assoluto» (Worringer 1908: 22).
Un'epoca di simili orrori è quella a cui appartiene lo stesso Wor-
ringer, quella che ci regala il manifesto di Kandinsky, la distru-
zione della musica tonale ad opera di Schònberg, la filosofia del-
la persuasione di Michelstaedter, e le varie apologie della misti-
ca, della teosofia e dell'antroposofia (annunciata, quest'ultima,
da Rudolf Steiner nel 1913). È appunto l'epoca in cui l'arte viene
4
Per gli atti del convegno si vedano D.E. Oppenheim, Suicide in Chil-
dhood, in H. Numberg e E. Federn (a cura di), Minutes of the Vienna Psycho-
analytical Society. Voi. II (1908- 1910), International UP, New York 1967; e P.
Friedman (a cura di), On Suicide, with Particular Reference to Suicide Among
Young Students, 1910: With Contributions by Alfred Adler and Others, Interna-
tional UP, New York 1967. Il dibattito sul suicidio fu ripreso successivamente
in tredici articoli pubblicati nella «Zeitschrift fiir psychoanalytische Padagogik»,
3 (1928-29), pp. 333-442.
20
in soccorso della filosofia cercando di dare voce e parola e im-
magine a quella Vita, a quel Valore e a quell'Identità che do-
vrebbero superare le contingenze del mondo naturale. Infatti è
proprio per la paura che gli antichi interrogativi della filosofia
stiano giungendo alla loro fine che l'arte se ne prende tanta cura,
rappresentandoli con intensità molto appassionata. È la debolez-
za degli argomenti filosofici a ispirare la forza artistica (e questa,
lo si è detto, sarà l'ultima volta che si realizza una simile solu-
zione). L'arte tenta di dare forma a ciò che non possiede la pa-
rola: l'essenza evocabile e non descrivibile delle cose; lo spirito,
non la lettera, della vita.
Eppure la vera tragedia oltre la tragedia lamentata dagli ar-
tisti è che, proprio mentre costruiscono quegli ideali, li deco-
struiscono. Nel tentativo di dare una forma visiva, sonora o let-
teraria ad astrazioni filosofiche, l'arte scopre che quelle forme
non hanno alcuna essenza propria, nessuna forza o potere auto-
nomi. Cercando la vera misura della Vita, le somministrano
l'estrema unzione. Senza volerlo, l'arte espressionista rafforza le
rivendicazioni del mondo «retorico», creando il sospetto che
ogni ideale non sia mai più di un'illusione, un effetto inganne-
vole dell'apparenza.
Il paradosso è più palese nell'opera di Michelstaedter. La
persuasione che vuole promuovere viene descritta nella Persua-
sione e la rettorica con tale intransigente astrattezza (come desi-
derio di avere tutta la Vita in un momento, come rifiuto di fare
qualunque cosa che non sia voluta dall'io, ecc.) che essa perde
ogni possibile rapporto con l'arena della prassi in cui si ritiene
debba produrre i suoi effetti. Il linguaggio è del tutto incapace di
significare la persuasione5, così che il testo di Michelstaedter di-
venta un'involontaria apologia della retorica (a cui tra l'altro so-
no dedicate tre quarti delle sue pagine). L'eternità, la conoscen-
za, l'uno, il permanere, l'individualità, e le altre qualità che il
giovane italiano associa alla nozione di persuasione assumono
l'aspetto di fantasmi generati da un mondo che non conosce al-
tro che i loro contrari: il flusso, l'impressione, la differenza e il
molteplice. La persuasione stessa si presenta come un prodotto
della retorica.
5
«La via alla persuasione non è corsa da 'omnibus', non ha segni, indica-
zioni che si possano comunicare, studiare, ripetere» (Michelstaedter 1910: 104).
21
Questo sospetto è rafforzato dallo stile discorsivo elei tratta
to: contorto, isterico e auto-parodistico, La persuasione e la ret-
torica corre spesso il rischio di prendersi gioco persino delle sue
argomentazioni più serie. Nelle mani di Michelstaedter la ragio-
ne logica si incammina sulla strada della reductio ad absurdum.
Per il lettore diventa impossibile distinguere quella che il gori-
ziano intendeva forse come un'affermazione metafisica da quella
che è invece una fantasia allucinatoria (o un'«improvvisazione»,
nel senso di Kandinsky, come nella descrizione dei bambini nella
stretta della noia)6. Questa critica «immanente» della filosofia,
ad opera della propria retorica, sovrasta con la sua voce la filo-
sofia stessa.
Lo stesso si può dire dell'opera grafica. Per quanto Mi-
chelstaedter tenti di scavare nell'essenza profonda delle persone,
nella maggior parte dei suoi ritratti ci dà invece caricature, pa-
rodie, satire - istanze del conflitto tra l'essenza e la forma, tra lo
spirito e il corpo. La retorica esistenziale si rivela impossibile da
spezzare.
Anche Schiele e Kokoschka dicono di voler esprimere quelle
dimensioni dell'umano che la scienza e il naturalismo sono inca-
paci di rappresentare. Essi tuttavia finiscono per comunicare sol-
tanto la vittimizzazione dell'interiorità ad opera del mondo della
forma oggettiva - ad opera dell'alienazione spirituale, dell'oscu-
rità, del corpo, della libido, della non-conoscenza, del dolore,
della passione, della tensione nervosa, e delle necessità materiali.
Il risultato è l'afasia. Dalle ceneri dell'arte espressionista non sca-
turisce alcun «uomo nuovo», solo il funerale dell'uomo che co-
nosciamo da sempre.
Kandinsky naturalmente sposa un'arte di {uno spirito. Eppu-
re la sua arte migliore non è mai puro spirito. È invece la testi-
monianza di un'interminabile battaglia combattuta in nome del-
l'espressione spirituale. Qual è il vero «contenuto» di quell'arte
astratta - quello che impedisce che essa degeneri nel formalismo
e nell'ornamento? Sono le «anime sofferenti, desiderose, tormen-
tate, con una lacerazione profonda, prodotta dallo scontro dello
6
Mentre le «impressioni» artistiche rappresentano una «natura esteriore»,
scrive Kandinsky, le «improvvisazioni» sono «espressioni (...) di eventi mentali,
e quindi impressioni della 'natura interiore'» (Kandinsky 1910-11: 92-93); rifan-
no il mondo liberamente, anche a costo di distorsioni violente e sconvolgenti.
22
spirituale col materiale» (Kandinsky 1910: 257). Al crocevia pri-
monovecentesco di due mondi immaginativi, l'armonia del tem-
po può consistere soltanto di «contrasti e contraddizioni» (Kan-
dinsky 1910-11: 74).
Di più: Kandinsky afferma esplicitamente che questo scontro
è sempre sia l'origine che il fine dell'espressione artistica. Nel-
\'Almanacco del cavaliere azzurro che Kandinsky e Franz Marc
pubblicarono nel 1912, il loro collega August Macke lo esprime
in modo più semplice: «La forma dell'arte, il suo stile, è il risul-
tato di una tensione» (Macke 1912: 85). Avendo ammesso che in
alcune epoche storiche la «spiritualità» che dà origine all'arte
può anche partorire forme realistiche e materialistiche, Kandin-
sky non può fare di tale «origine» il contenuto effettivo dell'arte.
La spiritualità non può diventare l'oggetto dell'arte, non più di
quanto l'io o la volontà possano diventare l'oggetto della filoso-
fia, sebbene sia proprio questa la pretesa dell'idealismo. «Del vo-
lere quale portatore dell'etico», dice Wittgenstein, «non può par-
larsi» (1922: 6.423).
È in questo senso che dovremmo comprendere anche quella
che Schònberg chiama (nel 1926 e nel 1941) l'«emancipazione
della dissonanza» prodotta dalle sue composizioni atonali del pe-
riodo 1908-1913. Nella storia della musica l'emancipazione della
dissonanza congeda la struttura tonale della composizione; entro
l'inizio degli anni Venti questa mossa avrà aperto la strada al
metodo dodecafonico. Tuttavia, questa ulteriore mossa post-
espressionista si limita a trasformare la dissonanza in un nuovo
ordine di consonanza, una nuova «retorica» dell'organizzazione
musicale. L'autentica emancipazione della dissonanza non si rea-
lizza in un nuovo metodo per esprimere la propria «necessità
innata, istintiva», ma nella pura e semplice volontà di esprimerla.
Ecco come Schònberg descrive il processo artistico istintivo: «Il
contenuto espressivo vuol essere compreso; il suo scoppio pro-
duce una forma. Un vulcano erutta (...) una caldaia esplode»
(Schònberg 191 lb: 166). L'arte che ne risulta non presenta una
forma appropriata e sufficiente per questo «contenuto». Essa re-
gistra un'esplosione di quel contenuto nello sforzo di essere com-
preso.
Così, se c'è un contenuto vero dell'arte espressionista, esso
consiste nella battaglia in nome di un contenuto a cui nessun
linguaggio è adeguato. Il pittore coglie un pianto perché non sa
23
che cosa sia. La forma per l'esplosione espressiva non può essere
che turbolenta, dinamica, e irrisolta, incapace di imporre il pro-
prio scopo sin dall'inizio. Come scrive Schònberg nella Harmo-
nielehre, l'artista mira soltanto a «chiarire le cose a se stesso»
(Schònberg 191 la: 498). La natura chimerica dell'esperienza
estetica è tale che l'artista, scrive Dino Campana nella sua poesia
più celebre, ricerca la chiarezza nella pura confusione.
Nel sostenere ideali quali lo spirito, la padronanza di sé e
l'espressione intuitiva, le arti del 1910 mostrano come quegli
ideali siano interamente pervasi dalla negatività cui intendono
opporsi. In ciascun caso il fondamento dell'avventura estetica è
la povertà spirituale e linguistica - una povertà che milita contro
la riuscita filosofica. È questa la battaglia che si combatte nel-
l'emancipazione della dissonanza, che tematizza il problema della
consonanza; nella spinta verso la pittura soggettivista, che ha
senso soltanto nella lotta contro i vincoli della convenzione og-
gettiva; nello sforzo di raggiungere la persuasione al di là della
retorica, che può essere concluso solo a spese della vita.
Nel 1910 il martirio degli ideali puri e astratti della filosofia
è provocato non soltanto dal mondo esterno «nichilista» contro
cui lotta il filosofo, ma anche dal nichilismo alimentato dall'w-
sistenza su tali ideali. Gli eroi della persuasione, della soggettività
e della verità - siano essi Gesù, Socrate, o gli espressionisti del
ventesimo secolo - non fanno altro che esacerbare il nichilismo
che li circonda correndo appresso a fantasmi per i quali non esi-
stono forme o parole. È questa la confessione definitiva dell'arte
espressionista: dal cuore del poeta «sgorga il sangue che lui ha
versato» (Trakl 1969: 98). Tanto il lamento quanto la speranza
espressionisti sono condizioni autoindotte. Gli aspetti oppressivi
e «inanimati» del divenire puramente obiettivo sono scaturiti
dal bisogno, proprio dell'anima, di significati che non si trovano
alla superficie dell'esistenza, ma solo nell'essenza, nella teoria e
nella verità, nella coscienza più intima e alogica di un io morto.
Quando diviene evidente che quest'arte dell'assoluto non
sfocia che nel relativo, l'espressionismo muore, portando con sé
la filosofia. Questa corrente del pensiero occidentale persisteva
nel ricercare un oggetto autentico e non-retorico, una bontà che
trascendesse tutte le regole, una direzione spirituale in grado di
sfidare qualunque orientamento pratico. Quest'impresa tanto
grandiosa e iperbolica tuttavia riuscì a esprimere soltanto l'iper-
24
bole in cui rimase intrappolata. «Si sforzò di abbracciare Dio e i
cieli»; tentò di strappare «la forma alla deformazione» (Hausen-
stein 1919-20: 479). Ma il suo messaggio definitivo e persuasivo
fu che nessuna arte avrebbe potuto continuare se non portando
con sé la scissione che la separa dalle sue intenzioni. È questa la
«tragedia» che Lukàcs attribuisce all'arte. È l'origine dell'arte
espressionista (se non di tutta l'arte, ma divenuta esplicita nel-
l'espressionismo), che cerca di superare la cesura epistemologica
tra universale e particolare, assoluto e relativo, necessità interiore
e contingenza esteriore; ma è anche la fine dell'arte, nella misura
in cui il suo stesso progetto approfondisce la scissione.
L'espressionismo affretta la morte teoretica che intendeva
contrastare. Dopo gli anni tra il 1905 e il 1915 tanto la filosofia
quanto l'arte abbandonano la ricerca della conoscenza sintetica
universale. Ritornano al mondo delle cose finite, storiche, oppu-
re perseguono un tipo di rivelazione trascendente, fantastica, o
anarchica. Nel primo caso rientrano la Nuova Oggettività degli
anni Venti, l'etica dell'impegno politico del primo dopoguerra e
la filosofia fenomenologico-esistenziale, in cui la storicità dell'uo-
mo è pensata come la dimensione che precede tutte le distinzioni
filosofiche tra io e mondo, pensiero e azione, verità e apparenza.
Il secondo caso comprende la maggior parte dei movimenti di
avanguardia che gli stessi protagonisti del 1910 hanno contribui-
to a liberare: dadaismo, surrealismo, espressionismo astratto, e
una lunga lista di formalismi il cui «materiale» non può più es-
sere collocato al di fuori dei mezzi di organizzazione.
Questo nuovo tipo di estetica non può più farsi guidare dalla
filosofia, che a sua volta ha perduto i propri oggetti metafisici
tradizionali. Nel 1910, nell'ultima fase della sua colossale ambi-
zione teorica, l'arte preannuncia la logica di quelle arti non-filo-
sofiche successive - la «filosofia», per così dire, che non permette
loro di essere filosofiche. Parla di una pressante nuova esigenza
di analizzare i mezzi dell'espressione artistica e filosofica. Anzi-
ché trasmettere la «verità», le nuove arti ora dovranno riflettere
su ciò che rende possibile tale trasmissione.
Lo stesso vale, ovviamente, per buona parte del pensiero del
Novecento, almeno per la filosofia del linguaggio ordinario, il
positivismo logico, la fenomenologia, l'ermeneutica e la deco-
struzione. Gli sforzi intransigenti di fare dell'espressione la meta
assoluta dell'arte misero in luce l'esigenza di comprendere i mec-
2^
canismi pratici dell'espressione. Quando l'espressione non si
considerò più in grado di trasmettere una data causa o contenuto
o idea in modo appropriato (sebbene fosse questa la sua ambi-
zione mimetica originaria), si aprì immediatamente la strada al-
l'indagine della portata «primordiale», dell'espressione stessa -
del suo potere originario, del suo statuto teoretico. La prima rea-
zione a questo mutamento fu un'elegia dedicata alla scomparsa
della verità che si era sempre pensato essere a monte dell'espres-
sione. Questa è la disperazione che percepiamo nelle lamenta-
zioni dell'epoca prebellica, il «silenzio» delle opere d'arte di quel
periodo. Eppure da quel silenzio scaturì anche un altro tipo di
verità, forse ancor più profonda: il «pianto» che il pittore poteva
cogliere proprio perché non ne comprendeva la ragione. La ve-
rità, che non era già data, poteva essere costruita solo in maniera
retorica.
Il contributo positivo di un'arte che fa i conti con la negati-
vità dei suoi più intimi propositi consiste nell'inaugurazione della
sua attività «struttiva». Prima della guerra, annota Musil nell'Uo-
mo senza qualità, nessuno poteva dire esattamente che cosa fosse
l'espressionismo,
26
coscienza della visione. Questo Beivusstsein non è l'«idea», nella
mente dell'artista, del modello, che poi affiderebbe alla tela. Né
si tratta della coscienza suscitata nell'osservatore che contempla
un ritratto. È piuttosto un processo formativo attivato nell'even-
to stesso della visione - la visione del volto nell'artista, dell'arti-
sta nel modello, e del ritratto nell'osservatore. È simile a ciò che
i fenomenologi dell'epoca chiamavano la «costituzione» del-
l'esperienza umana, il processo in virtù del quale vengono co-
struite le forme della comprensione. Il ritratto è solo uno dei
possibili siti di tale formazione cognitiva, il suo tramite e il luogo
in cui essa accade.
La nuova verità enunciata dalla coscienza della visione «non
è uno stato in cui si percepisce o si comprende un oggetto», scri-
ve Kokoschka, «ma piuttosto una situazione in cui la coscienza
esperisce se stessa» (an dem es sich selbst erlebt) (Kokoschka
1912: 9). Quando tutti gli oggetti del pensiero perdono la loro
credibilità, e non significano nulla nell'autonomia della loro for-
ma, la coscienza della visione diviene il nuovo oggetto del pen-
siero e dell'arte. A quel punto inizia la preoccupazione «intran-
sitiva» della filosofia e dell'estetica.
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