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Notes

Forum Italicum
47(3) 653–673
Note sull’emigrazione: ! The Author(s) 2013
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Emozioni ed sagepub.co.uk/journalsPermissions.nav
DOI: 10.1177/0014585813499892

emigrazione. De Amicis foi.sagepub.com

Vincenzo Pascale
New York, USA

Abstract
La raccolta di racconti brevi Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, elaborata a
seguito di un viaggio fatto dallo scrittore da Genova in Argentina (Rio de la Plata) assieme
a diverse migliaia di emigranti italiani, esplora la genesi di un sentimento (il risentimento)
che, mentre ha trovato ampia trattazione negli studi filosofici e sociologici, è stato poco
esplorato nell’ambito degli studi letterari che si focalizzano sull’emigrazione. La mia
riflessione critica si concentrerà in particolare su tre racconti: ‘‘L’imbarco degli emi-
granti,’’ ‘‘L’Italia a bordo’’ e ‘‘Rancori e amori.’’
L’articolo si apre con un rapido excursus storico sull’emigrazione italiana, diretta sia in
Europa sia oltreoceano per poi passare all’analisi letteraria dei sentimenti che De Amicis
individuò tra i viaggiatori italiani imbarcatisi da Genova e diretti a Buenos Aires. Il risen-
timento viene esplorato attraverso le posizioni teoriche di Max Scheler (1874–1928).
Esso è generato da un’incapacità di elaborare un sentimento, in molti casi, di inferiorità,
causato da sistematiche repressioni emozionali che successivamente determinano una
detrazione di certi valori e incidono sui giudizi di valore. La raccolta di racconti brevi di De
Amicis si propone di far conoscere alla borghesia italiana non solo il dramma dell’emi-
grazione, ma anche la sua funzione salvifica, individuale e sociale in termini di stabilità,
senza trascurare la possibilità di individuare nelle comunità italiane all’estero, le cosid-
dette colonie, una funzione vitale nella definizione identitaria e sociale della nuova nazione
italiana. L’articolo si conclude con un rimando ad autori (Pascoli, Corradini, Oriani) che,
pur occupandosi nei loro romanzi della vicenda storica e umana dell’emigrazione italiana,
la elaborarono in chiave ideologica ponendo le basi per il nazionalismo italiano.

Parole chiave
Edmondo De Amicis, emigrazione, questione sociale, risentimento, speranza

L’emigrazione è uno dei principali fenomeni sociali italiani dell’Ottocento con rile-
vanti appendici sino alla seconda metà del Novecento. La letteratura italiana di tale

Autore corrispondente:
Vincenzo Pascale, 180 Riverside Blvd., Apt. 8 K, New York, NY 10069, USA.
Email: pascalenyc@gmail.com
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periodo non ha posto sufficiente enfasi né sul fenomeno né sui sentimenti degli
emigranti, mancando di cogliere uno stato emotivo e valoriale del paese ripreso
diversi anni dopo da letterati e politici in funzione nazionalista.
L’emigrazione italiana è dettata principalmente da ragioni economiche e perse-
guita dai governi come strumento non solo di controllo e stabilità sociale (‘‘valvola di
sicurezza per la pace sociale,’’ Sidney Sonnino ad Agostino Depretis, 7 maggio
1883). Essa è usata anche per garantire all’Italia un doppio beneficio economico,
sia attraverso accordi economici con altri paesi sia attraverso le rimesse degli
emigrati.
La formazione dello Stato nazionale italiano (1861) contribuisce in maniera con-
siderevole ad accrescere i flussi migratori in uscita dal paese verso aree che offrono
maggiori opportunità lavorative. Il fenomeno migratorio nel periodo postunitario
assume una notevole valenza, tanto che si parla di diaspora italiana.1
Tra il 1860 e il 1880, emigranti provenienti dal Piemonte, dalla Toscana e
dall’Emilia si spargono per l’Europa, soprattutto in Francia. Dopo il 1880, a
partire non saranno solo contadini delle regioni del Nord e del Sud Italia, ma
anche quanti richiamati dalla possibilità di accrescere i propri guadagni in aree
geografiche (il Nord e il Sud America) economicamente più avanzate della penisola
italiana. Le principali destinazioni saranno gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile e
l’Uruguay. Tale flusso migratorio innesca un acceso dibattito parlamentare con
proposte contrapposte: da un lato vi sono deputati e senatori contrari all’emigra-
zione, dall’altro i favorevoli, che presentano anche delle soluzioni miranti a non
abbandonare a sé gli emigranti ma a raccoglierli in colonie migratorie. È il caso del
deputato liberale Attilio Brunialti che nel 1873 cosı̀ si esprime ne Il Giornale delle
Colonie: ‘‘Raccogliere il grosso della nostra emigrazione nella regione platense:
prendere un buon posto in Africa alla prima occasione, tutelare, sviluppare o
preparare nuovi commerci, con stazioni, con fondaci, con case speciali, con esper-
imenti, con studi, con esplorazioni ovunque se ne offriva o potevamo determinare
l’occasione’’ (Brunialti, 1873). La stessa editoria non mancò, attraverso esperti dei
paesi di emigrazione, di avviare pubblicazioni su quei paesi, cosı̀ da facilitarne la
conoscenza in Italia. Tra questi divulgatori ricordiamo Giosuè Bordoni, che nel
1885 pubblicò Montevideo e la Repubblica dell’Uruguay. Nelle pagine di prefazione
cosı̀ scrive:

Circa alla sua utilità potrei domandare se val meglio occuparsi di Assab e di
Massaua, dove il Governo italiano, obbligato a gravitare continuamente e fatal-
mente attorno a qualche pericolo funesto, manda i nostri soldati a perire di
febbre e di stenti, senza gloria né sogno apparente; oppure se torna meglio occuparsi
di un Paese [l’Uruguay] che è fonte di benessere e di ricchezze a molte migliaia di
italiani colà stabiliti, e che sarà ancora per secoli una terra di rifugio per i milioni di
proletari diseredati ond’è popolata l’Italia. Comunque sia, e quale possa essere
l’esito del libro, dichiaro averlo scritto con tutta buona fede e senza pretese, tale
da recare utilità diretta ai numerosi emigrati italiani verso le regioni della Plata.
(Bordoni, 1885)
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Il fenomeno migratorio italiano di fine Ottocento trova attenzione sia nell’ambito


del dibattito politico parlamentare italiano sia nella saggistica, venendo in parte
ecclissato nella narrativa di fin de sie`cle, nonostante l’estetica positivista enunciata
da Hippolyte Taine (1828–1893) vertesse sui concetti di razza, ambiente e situazione
storica (race, milieu e moment), in molti casi fondamentali nel determinare le con-
dizioni per l’emigrazione. In altre parole, il processo migratorio italiano contiene gli
elementi di quel documento umano alla base del concetto d’arte del positivismo, ma
non riesce a trovare sufficiente attenzione e spazio narrativo nella letteratura di fine
Ottocento. In Sull’Oceano (1889), Edmondo De Amicis riporta non solo il travaglio
emozionale degli emigranti, ma disegna anche un quadro sociale e politico dell’Italia
postunitaria ove le aspettative politiche e sociali risorgimentali sono state disattese,
contribuendo ad accrescere l’esodo dalle campagne italiane. Gli umori, i sentimenti e
i risentimenti provati dagli emigranti italiani nelle pagine di Sull’Oceano sfociano in
una sintesi ideologica dell’autore ne Il romanzo di un maestro (1886/1890) e, soprat-
tutto, in Primo maggio (iniziato nel 1891 ma pubblicato solo nel 1980). I due
romanzi, il secondo più del primo, segnano un momento chiave sia nella svolta
estetico-letteraria di De Amicis sia nel delineare una figura di intellettuale militante
ante litteram.
La militanza socialista di De Amicis ruota dapprima intorno al gruppo di intel-
lettuali piemontesi quali Graf, Lombroso, Balsamo Crivelli, anch’essi convertiti al
socialismo, e al leader del socialismo italiano Filippo Turati. Poi, nel 1891, il giornale
il Ventesimo secolo ufficializza l’adesione di De Amicis al socialismo e l’autore inizia
una collaborazione con la rivista Critica Sociale, fondata da Turati, e con altre riviste
socialiste torinesi. Questa presa di posizione ideologica di De Amicis trova compi-
mento estetico nel romanzo Primo maggio (1891) e nelle Memorie pubblicate nel
1900. Le riflessioni di De Amicis giungono a conclusione del suo percorso di avvi-
cinamento al socialismo elaborato anche a causa dei mancati ideali del
Risorgimento. Questione sociale, emigrazione e valori risorgimentali traditi sono i
principali motivi dell’adesione di De Amicis al socialismo, non solo attraverso una
narrazione realista e un ‘‘forte sdegno per l’ingiustizia e per la disuguaglianza’’
(Timpanaro, 1983: 178). La partecipazione emotiva di De Amicis alla questione
sociale non si esaurirà solo nella rappresentazione letteraria, ma troverà compi-
mento nella sua elezione a deputato al Parlamento per il primo Collegio di
Torino, una carica alla quale tuttavia egli rinuncerà quasi subito.
Primo maggio rappresenta una riflessione non solo estetico-letteraria. Nel giudi-
zio di Sebastiano Timpanaro: ‘‘Il romanzo è incentrato sulla lotta per rinnovare la
società e non sull’impassibile constatazione del disfacimento borghese e della di-
sperazione proletaria. De Amicis non si è convertito al naturalismo e al verismo’’
(Timpanaro, 1983: 54). La riflessione estetico-ideologica di De Amicis è tutta interna
al dibattito socialista e lontana dalla poetica dell’impersonalità inseguita dai veristi
italiani. De Amicis comprende che le ingiustizie e la questione sociale generano sia un
profondo risentimento, che andrà ad alimentare lo scontro di classe, sia una lucida
critica al Risorgimento, che tante speranze aveva sollevato nel paese senza tuttavia
esaudirle.
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Lo studio di Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del ‘‘Primo


Maggio,’’ verte intorno all’elaborazione ideologica del cosiddetto socialismo scien-
tifico di De Amicis, il quale partendo da un socialismo umanitario venato di quei
valori – la patria, l’esercito, la disciplina – che lo avevano formato da giovane,
perviene a una razionale elaborazione di tali ‘‘bugie ereditate.’’ Primo maggio,
scrive Timpanaro ‘‘vuole essere un ripudio di codeste bugie ereditate, non sotto
forma di legnoso (mea culpa) dello scrittore, ma di contributo all’abbattimento
degli ideali che servono a perpetuare l’oppressione e l’ingiustizia’’ (Timpanaro,
1983: 175). Primo maggio è un romanzo operaio, non a caso ambientato in una
Torino di fine secolo che stava attraversando momenti di forti tensioni ideologiche
e sociali oltreché culturali, tra una emergente classe operaia che rivendicava, attra-
verso la pubblicistica e alcuni attivisti politici, sacrosanti diritti lavorativi e andava
maturando una coscienza di classe avversata dalla borghesia cittadina, chiusa a ogni
rivendicazione lavorativa e sindacale. Questione sociale e ingiustizia sono i temi
portanti del romanzo non senza un tentativo, in parte riuscito, di un’elaborazione
estetico-letteraria delle teorie di Marx. Dal romanzo rimane esclusa la questione
contadina – centrale nella riflessione sull’emigrazione italiana – a causa della
minore attenzione tributatale dal marxismo. Non manca un’amara valutazione sul
Risorgimento disatteso, importante soprattutto nella sua fase postunitaria per i
risvolti che esso ha sull’emigrazione. Nel romanzo prevale la delusione dello scrittore
per gli ideali risorgimentali traditi:

E tu, eroe di Sapri, repubblicano Nicotera, minaccerai, ministro del re, cariche e
sciabolate di cavalleria al ‘‘povero popolo’’ che chiederà ‘‘otto ore di lavoro’’; e tu,
Francesco Crispi, mangiaministri furibondo, volterai, dittatore d’Italia, tutte le tue
furie contro i rivoluzionari di cui ora [cioè nel tempo ormai passato che De Amicis
rievoca come presente] sventoli la bandiera. (De Amicis, 1980: 82)

Questo passaggio evidenzia lo svilimento degli ideali del Risorgimento da parte di


coloro che avevano prospettato una risoluzione politica e valoriale differente. Pur
rimanendo incompleto e pubblicato dopo un secolo dalla sua stesura, Primo maggio
rimane un lavoro importante non solo per capire il clima sociale urbano italiano di
fine Ottocento, le pertubazioni personali e relazionali acuite dall’ideologia socialista,
ma anche per avviare una riflessione più ampia sull’emigrazione italiana alla luce del
rapporto tra ideali risorgimentali traditi e questione sociale, che non poco peso ebbe
nell’incrementare l’emigrazione italiana. La questione contadina rimane fuori del-
l’agenda politica dei governi della nuova Italia, che ben si guarderanno dal mutare
l’assetto latifondistico dell’agricoltura, soprattutto nel Meridione. Saranno i conta-
dini settentrionali prima e meridionali poi a costituire la grande maggioranza della
schiera di emigranti italiani. Su questo crinale si apre il discorso migratorio tra la
città e la campagna. Gli operai, al pari dei contadini, pur vivendo una condizione di
profonda ingiustizia sociale e di sfruttamento, troveranno nell’ideologia socialista e
anarchica, tematizzate nel romanzo Primo maggio, una fonte di energia ideologica
che genererà la speranza del cambiamento; tale forza ideologica li legherà
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rispettivamente alla permanenza nella città e in campagna. Dall’altro lato vi è la


piccola borghesia, rappresentata da Bianchini, il padre dell’Alberto protagonista del
romanzo, impaurita dal socialismo: ‘‘vendere tutto, andare all’estero (. . .) tutto il
mondo ne era infetto [dal socialismo]’’ (De Amicis, 1980). Seppure Bianchini e altri
borghesi del romanzo non emigreranno, il socialismo rappresenta per una parte della
borghesia una pericolosa ideologia che fa balenare nelle loro menti l’idea dell’espa-
trio. Sarà sicuramente un espatrio diverso da quello dei contadini che porteranno
con sé solo qualche risparmio e poche altre cose. Nel clima sociale e ideologico
descritto dal romanzo Primo maggio prende corpo la cultura dell’emigrazione ita-
liana. Strada per vivere la speranza di un domani migliore, negato in patria.
Allontanamento, fuga in certi casi, per i borghesi, da un paese che sembrava pre-
cipitare nel socialismo. L’emigrazione trova a suo fondamento la matrice econo-
mica, ma con essa vanno considerate e studiate anche la componente ideologica,
culturale e soprattutto le emozioni e i sentimenti che essa genera, sia al momento
della partenza sia durante il viaggio, via mare. Nel corso della traversata e, alla fine
del viaggio, nel Nuovo Mondo, gli emigranti trovano modo di esternare e rivelare
sentimenti autocensurati in patria.
La partenza dell’emigrante contiene elementi di speranza e di audacia nell’af-
frontare una realtà sconosciuta. Gli emigranti sono mossi dalla determinazione di
mutare il proprio stato sociale ma anche da un’(in)espressa impossibilità di
mutarlo in loco. Il massiccio esodo migratorio italiano è interpretato da molti
studiosi come una silente rivoluzione. Una rivolta contro una società pietrificata,
socialmente bloccata, che restringeva qualsiasi possibilità di avanzamento sociale.
In altre parole l’emigrazione assurge a strategia esistenziale verso la libertà, intesa
sia come affrancamento da una condizione lavorativa di sfruttamento, sia come
ambizione a conseguire uno stato sociale ed economico non raggiungibile nel
proprio paese. In Sull’Oceano De Amicis esamina i momenti salienti dell’avven-
tura migratoria: dall’imbarco, alla vita a bordo, alla socializzazione, all’arrivo.
Ognuna di queste fasi genera sentimenti ambivalenti che segnano non solo la vita
emotiva del partente, ma sono trattati dall’autore come riflessioni sulla questione
sociale italiana.
La partenza dell’emigrante descritta da De Amicis è segnata da un’ambiva-
lenza sentimentale fatta di speranza e rancore. La speranza è il nucleo del pro-
cesso migratorio e feconda il desiderio di riscatto di chi decide di partire. È su di
essa che ci si sofferma anche per esorcizzare le paure dell’ignoto legate al processo
migratorio. La speranza permette l’apertura al nuovo mitigandone le difficoltà
che si incontrano lungo il cammino. Del rancore di lasciare il paese e la patria
poco si è detto e scritto, sovente l’emigrante rimane silente. Una scena del film
Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore permette di focalizzarci su
questo sentimento. Siamo in un paese dell’entroterra siciliano (nel film denomi-
nato ‘‘Giancaldo’’) nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’inse-
gnante della classe frequentata da Totò (il protagonista) invita i ragazzini a
salutare un loro amichetto che sta per recarsi in Germania con la sua famiglia.
Uno degli scolaretti si rifiuta di salutarlo perché suo padre gli ha riferito che la
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famiglia del bambino è comunista. Nello stesso momento, il genitore in attesa del
figlio fuori dalla scuola maledice con uno sputo quella terra, la Sicilia, che lo
costringe a emigrare. Un gruppo di persone sedute davanti al circolo comunale
con ironia gli dicono: ‘‘Il lavoro fattelo dare da baffone’’ – un’allusione a Stalin e
alla militanza comunista dell’emigrante. L’esempio permette di valutare non solo
la valenza emotiva, ma anche quella ideologica connessa all’espatrio. Una duplice
riflessione sul sentimento del rancore che accompagna il migrante. Il rancore
scaturisce da una diversità ideologica pagata con l’espulsione dalla comunità
cittadina che non gli riconosce il diritto al lavoro. In questo caso, l’emigrazione
si presenta come una pratica sociale discriminante, attuata attraverso la non
accessibilità al lavoro e, allo stesso momento, come sistema per costruire un’o-
mogeneità ideologica il cui intento è quello di mantenere un controllo sociale
attraverso l’esclusione di possibili sovvertitori (negli anni 1950 l’ideologia comu-
nista si opponeva totalmente allo status quo sociale desiderato dagli agrari me-
ridionali e dalla stessa politica democristiana). L’emigrazione forzata o indotta è
da sempre stata una pratica sociale alla quale hanno fatto ricorso i gruppi domi-
nanti e i governi sia per stabilizzare l’assetto sociale di un paese, sia per creare
una pacifica penetrazione economica e sociale in un’altra nazione. Dall’altro lato
vi è l’audacia dell’uomo che, costretto a partire, non rinuncia alle sue idee poli-
tiche, che eventualmente troveranno terreno fertile nel paese di emigrazione.
Questa riflessione condotta a partire da un episodio, se vogliamo marginale, di
un film sulla vita di un emigrante di successo (Totò, riesce a realizzare il suo
sogno e diventare regista), all’interno del contesto sociale e politico di quel peri-
odo evidenzia un darwinismo ideologico, valoriale ed economico che spinge ai
margini chi non aderisce a un determinato sistema di valori. Per essi non rimane
che la fuoriuscita da tale sistema, vale a dire l’emigrazione, che in molti casi
contribuisce a strutturare il desiderio di rivalsa sociale.
Tra gli scrittori italiani, Edmondo De Amicis è stato uno dei pochi che abbia
saputo cogliere l’aspetto umano e traumatico dell’esperienza migratoria.2 Il 16
marzo del 1884 si imbarca da Genova sul piroscafo ‘‘Nord America’’ con desti-
nazione il Rio de la Plata, Buenos Aires.3 La decisione di De Amicis di scrivere
su questo considerevole fenomeno sociale è motivata anche dalla lauta ricom-
pensa ricevuta dal giornale Nacional di Buenos Aires con il quale, dal 1883,
De Amicis aveva incominciato a collaborare e da una serie di conferenze da
tenere in Argentina su Garibaldi, Mazzini, Cavour e altri illustri italiani del
Risorgimento. Il libro, resoconto di viaggio o travelogue, esce nel 1889 presso
l’editore Treves con il titolo Sull’Oceano.4 Una formula e descrizione narrativa
nuove, tra il diario di bordo e la registrazione di stati d’animo e umori di coloro
che lasciano luoghi familiari per aprirsi all’ignoto della speranza. Lo stile narra-
tivo è giornalistico, cronaca di viaggio da rendere ai lettori italiani per informarli
su ciò che sta accadendo nel paese. Uno spaccato sociale di un’Italia che si mette
in moto. Non a caso uno dei capitoli ha per titolo ‘‘L’Italia a bordo,’’ rappre-
sentazione di una moltitudine di italiani in viaggio su un piroscafo diretto in
Argentina. Una realtà sociale completa nella sua divisione in classi che il
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De Amicis antropologo osserva nel suo svolgersi quotidiano, sezionando i motivi


reconditi o palesi che spingono tanti italiani verso il Nuovo Mondo:

La compagnia, dunque, era svariatissima, e prometteva bene. E non era soltanto un


grosso villaggio. Come m’osservava il Commissario; ma un piccolo Stato. Nella terza
classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia; il coman-
dante e gli ufficiali superiori rappresentavano il Governo; il Commissario la magistra-
tura; e della stampa poteva fare ufficio il registro dei reclami e dei complimenti aperto
nella sala da pranzo; oltre che i passeggeri stessi, qualche volta, non sapendo che far
altro per ammazzare la noia, fondavano un giornale quotidiano. (De Amicis, 2004: 22)

Un paese in movimento con i suoi mestieri, le varie provenienze regionali, persone


laboriose, alcune spinte all’emigrazione dalla necessità di maggiori guadagni, altre
invece da spirito di avventura, altre ancora da oscuri motivi che l’autore lascia
trapelare con una sopita curiosità. Tra i viaggiatori, De Amicis si imbatte nel perso-
naggio del garibaldino. Costui, in misura maggiore degli altri viaggiatori ed emi-
granti, esprime la propria amarezza mista a un profondo disincanto per gli esiti
sociali e politici dell’Unità d’Italia: ‘‘Essa era riuscita troppo al di sotto dell’ideale
per cui s’era battuto’’ (De Amicis, 2004) e per tale ragione decide di prendere la via
dell’esilio, non senza esternare a De Amicis i propri sentimenti, resi, per la maggior
parte, attraverso la voce del narratore/autore. De Amicis registra la delusione e il
conseguente rancore del giovane garibaldino e riporta una riflessione ideologica sulla
nazione che permette di aprire un’ulteriore pagina sull’emigrazione attraverso una
critica sociale non solo di natura economica ma valoriale, utopica, perseguita da chi
si sente investito – il garibaldino appunto – di alti valori spirituali:

E nessuna fede, nemmeno monarchica. Dei milioni di monarchici, incapaci di difendere


prodemente, a un bisogno, la loro bandiera, pronti a mettersi a pancia a terra davanti al
berretto frigio, appena lo vedessero in alto. Una passione furiosa in tutti d’arrivare, non
alla gloria, ma alla fortuna; l’educazione della gioventù non rivolta ad altro; ciascuna
famiglia mutata in una ditta senza scrupoli, che batterebbe moneta falsa per far strada
ai figliuoli . . . E mentre l’istruzione popolare, una pura apparenza, non faceva che
seminare orgoglio e invidia, cresceva la miseria e fioriva il delitto (. . .). (De Amicis,
2004: 47)

Per poi replicare egli stesso all’amarezza del garibaldino:

‘‘Questa non è la verità,’’ gli dissi. ‘‘Dei disinganni che ci furon per tutti, siamo stati
causa noi stessi, immaginandoci che la liberazione e l’unificazione d’Italia avrebbe
prodotto una immediata e completa rigenerazione morale, ed estirpato miracolosa-
mente la miseria ed il delitto. Non confrontiamo lo stato presente con l’ideale, da cui
tutti i popoli sono presso a poco egualmente lontani: confrontiamolo col passato.
Questo era obbrobrioso e orrendo, che il solo fatto d’esserne usciti, in qualunque
modo, ci deve confortare di tutto. Non mi rispose. (De Amicis, 2004: 47)
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In questo scambio di opinioni tra l’autore e il garibaldino sono posti a confronto il


risentimento di quest’ultimo verso gli ideali risorgimentali traditi e il realismo di
De Amicis, costruito su una situazione storica mutata e, si ritiene qui, non senza un
rimando al suo avvicinamento al credo socialista.
L’esperienza di viaggio di De Amicis a bordo del piroscafo ‘‘Nord America’’
(ribattezzato ‘‘Galileo’’ dall’autore) tra emigranti mossi da ragioni economiche,
politiche, sentimentali o recondite, contribuisce a far maturare in De Amicis il suo
avvicinamento al socialismo, non soltanto alla luce della necessità di far fronte alla
questione sociale presentatasi con il nuovo Stato italiano, ma anche di dargli un
collante ideologico e valoriale allo scopo di integrare l’individuo nella società, impe-
dendo che essa venga lacerata da conflitti o vaste aree di marginalità, che in quel
periodo fornivano grandi risorse umane all’emigrazione. De Amicis capisce che il
paese deve ritrovarsi in una serie di valori che ne rinsaldino l’unità (da poco rag-
giunta) e creino una religione laica, fondata su codici di credenze e valori civici
condivisi, pena la sua disgregazione. In quest’ottica il socialismo riformista di
De Amicis diviene un collante per arginare da un lato la questione sociale e dall’altro
per creare un credo laico capace di cementare una nazione – come indicato da
Durkheim e dal suo maestro, il positivista Augusto Comte. La risoluzione ideologica
della questione sociale, considerata attraverso l’adesione al socialismo da parte di
De Amicis, è oggetto di una doppia critica in Sull’Oceano, la prima espressa da parte
del garibaldino:

Ridomandai [narratore]: ‘‘Ha visto quei poveri contadini?’’ – ‘‘I contadini’’ rispose
lentamente, guardando il mare, ‘‘sono embrioni di borghesi.’’ (. . .) ‘‘Hanno solo il
merito,’’ continuò, senza guardarmi, ‘‘di non mascherarsi con la rettorica patriottica
e umanitaria. Del resto . . . lo stesso egoismo di belve addomesticate. Il ventre, la borsa.
Nemmeno l’ideale della redenzione della loro classe. Ciascuno vorrebbe veder più
miserabili tutti, pur di campar lui meglio di prima’’ (. . .) E soggiunse dopo
una pausa: ‘‘Facciano buon viaggio.’’ ‘‘Eppure’’ osservai ‘‘quando sono in America,
ricordano e amano la patria.’’ Egli s’appoggiò al parapetto, rivolto al mare. Poi
rispose: ‘‘La terra, non la patria.’’ ‘‘Non credo,’’ risposi. Egli scrollò le spalle.
(De Amicis, 2004: 46)

La seconda, successivamente, da parte del meridionalista e politico Giustino


Fortunato (1848–1932), che nel 1901 rileva che la questione demaniale rappresenta

‘‘un immenso strascico di risentimento e di odio’’ (. . .) ‘‘lievito che fermenta’’ (. . .)


‘‘fuoco che cova sotto l’incendio.’’ E, nel fuoco bruciano, a egual titolo, la legittimità
delle classi dirigenti locali e la credibilità dello Stato centrale. (Macry, 2012: 31)

A causa di quella che è avvertita come la grande ingiustizia, dirà ancora Fortunato,
nel Mezzogiorno ‘‘non esiste più la domestica tranquillità,’’ e i suoi abitanti, come
Tacito chiama gli ebrei, sono ormai degli uomini insocievoli. Non stupisce perciò che
quei territori ‘‘insocievoli’’ siano cronicamente attraversati da un fenomeno che,
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nelle dimensioni e caratteristiche, appare atipico rispetto all’Europa occidentale e al


resto della penisola: la violenza privata e politica (Macry, 2012: 31).
Quella descritta da Giustino Fortunato è una situazione sociale in prevalenza
meridionale che genererà una migrazione di massa verso il Nord e Sud America,
non senza lasciare profonde violenze nel corpo sociale meridionale. Differente è la
situazione nelle regioni centro-settentrionali: ‘‘le tensioni comunitarie provocate
dall’occupazione abusiva dei beni demaniali o dall’aggravio delle esazioni signorili
e fiscali hanno assunto, durante i primi deenni del XIX secolo, tutt’altre forme:
legalitarie, giudiziarie, raramente di attacco a cose e persone’’ (Macry, 2012: 34).
Il cosiddetto blocco agrario, che a lungo aveva ostruito questa massa di contadini,
braccianti, affittuari e mezzadri, paradossalmente fornirà una considerevole risorsa
all’economia italiana e alla nascente flotta transatlantica italiana. Questo era il
grand’affare in quei lunghi viaggi transatlantici.5 Era sorta persino una pubblicistica
specialistica per informare i futuri emigranti. Un tal cavalier Casimiro Marro aveva
pubblicato nel 1889 a sue spese un Manuale pratico dell’emigrante all’Argentina,
Uruguay e Brasile.
Il piroscafo ‘‘Nord America,’’ come già ricordato ribattezzato da De Amicis
‘‘Galileo,’’ trasporta 1600 persone solo in terza classe, comprese donne e bambini,
e 200 uomini d’equipaggio. L’esperienza narrativa e umana di De Amicis è un’aper-
tura su una realtà sociale dell’Italia umbertina6 che vide l’incremento dell’emigra-
zione di massa. Il capitolo ‘‘L’Italia a bordo’’ offre delle puntualizzazioni per
comprendere le politiche sociali ed economiche che muovono all’emigrazione, ma
soprattutto gli stati d’animo e le emozioni dei partenti:

La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su
dieci dalla campagna. Molti Valsusini, Friuliani, agricoltori della bassa Lombardia e
dell’alta Valtellina (. . .) Molti della Val di Sesia, molti pure di quei bei paesi che fanno
corona ai nostri laghi, cosı̀ belli che pare che non possa venire in mente a nessuno di
abbandonarli:[7] tessitori di Como, famigli di Intra, segantini del Veronese. Dalla
Liguria il contingente solito, dato in massima parte dai circondari d’Albenga, di
Savona e di Chiavari, diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le
accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un
tempo convenuto (. . .) C’erano dei suonatori d’arpa e di violino dalla Basilicata e
dell’Abruzzo, e di quei famosi calderai, che vanno a far sonare la loro incudine in
tutte le parti del mondo. Delle province meridionali i più erano pecorari e caprari del
litorale dell’Adriatico, particolarmente dalla terra di Barletta, e molti cafoni di quella di
Catanzaro e di Cosenza. Poi dei merciaiuoli girovaghi napoletani; degli speculatori che,
per cansare il dazio d’importazione, portavano in America della paglia greggia, che
avrebbero lavorata là; calzolai e sarti della Garfagnana, sterratori del Biellese, campa-
gnuoli dell’isola d’Ustica. Insomma, fame e coraggio di tutte le province e di tutte le
professioni (. . .). (De Amicis, 2004: 21–22)

In questa folla anonima di emigranti i sentimenti provati alla partenza sono artico-
lati e spesso contrastanti: vanno dalla gioia all’esaltazione, dalla disperazione
662 Forum Italicum 47(3)

al rancore. Essi finiranno per incidere sia sui valori sia sulla visione della realtà e, non
da ultimo, sul livello di politicizzazione che gli emigranti acquisiranno nella nuova
patria, a seguito dell’emigrazione.
Il racconto ‘‘L’imbarco degli emigranti’’ cosı̀ descrive la folla di emigranti che sta
per imbarcarsi sul piroscafo ‘‘Galileo’’:

Il Galileo, congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar


miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirim-
petto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte,
avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di
Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla
mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’a-
silo infantile passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio,
sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e
il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra (. . .). Di tratto in tratto
passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore
con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera,
o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Levy (. . .). Due ore
dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un
cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano. (De Amicis,
2004: 5)

Le analogie usate da De Amicis rendono il senso biblico dell’esodo italiano verso le


Americhe. L’autore ha ben presente le conseguenze dell’emigrazione. Esse privano il
paese di energie costruttive, vive, del ‘‘sangue italiano.’’ De Amicis intuisce la portata
umana e storica di questo esodo di massa e cerca di riportare impressioni e umori
degli emigranti, consapevole che l’esodo di questi italiani non sempre è volontario.
Egli si sforza di registrare lo stato d’animo di questi partenti, come quando recandosi
a prua, mentre il piroscafo sta per lasciare il porto di Genova, osserva:

Vedevo qua e là, tra’l buio, delle donne sedute, coi bambini stretti al petto, con la testa
abbandonata fra le mani. Vicino al castello di prua una voce rauca e solitaria gridò in
tuono di sarcasmo: ‘‘Viva l’Italia!’’ e alzando gli occhi, vidi un vecchio lungo che
mostrava il pugno alla patria. (De Amicis, 2004: 7)

Il risentimento verso la patria nell’esperienza di vita dell’emigrante è sia alla base del
suo immaginario costruito su sradicamento, espatrio e trauma, sia sulla costruzione
immaginaria (a volte reale) di un agente che ha causato la rimozione dal suo
ambiente naturale, come riportato dal politologo Diego A. Von Vacano:

The fact that the immigrant body has been removed from its natural habitat of the
native soil creates a sense of displacement that seeks to find a culpable agent responsable
for its fate. This agent does not exist in a concrete form, but it is nonethless part of the
immigrant identity’s imaginary. (Von Vacano, 2010: 7)8
Pascale 663

Riflessioni teoretiche che concordano con quanto osservato e registrato da De


Amicis a bordo del ‘‘Galileo’’:

Io non avevo pensato lo stato d’animo in cui era naturale che si trovasse molta di quella
gente, mentre erano ancora tumultuanti in essa le memorie della vita intollerabile, per
troncar la quale avevan deciso di lasciar la patria, e acceso tuttavia il risentimento
contro quella svariata falange di proprietari, esattori, fattori, avvocati agenti autorità,
designati da loro col nome generico di signori, e creduti congiurati tutti insieme ai loro
danni, e autori primi della loro miseria. Per essi io era un rappresentante di questa
classe. E neppure avevo pensato che dovesse riuscire loro particolarmente odioso, in
quello stato d’animo, un abitante di quel piccolo mondo privilegiato di poppa, imma-
gine dell’altro a cui s’eran sottratti; il quale li accompagnava anche sul mare, come un
vampiro che li volesse andare a dissanguare fino in America. (De Amicis, 2004: 60)

Il brano proposto prepara il lettore e il narratore a scoprire il sentimento con il quale


gli emigranti lasciano l’Italia. Esso si reitera anche nelle storie che gli emigranti, per
la maggior parte contadini, si raccontano a bordo:

E non mi fu difficile di cogliere l’argomento predominante delle conversazioni: il triste


stato della classe agricola in Italia; – troppa concorrenza di lavoratori, tutta a vantaggio
dei proprietari e dei fittavoli; – salari scarsi, – viveri cari, – tasse eccessive, – stagioni
senza lavoro, – cattive annate, – padroni ingordi, nessuna speranza di migliorare il
proprio stato. I discorsi, per lo più, avevano forma di racconti: racconti di miserie, di
birbonate e d’ingiustizie. In un crocchio, in cui pareva che dominasse come una nota
d’allegria amara, ridevan dalla rabbia che avrebbero divorato i signori quando si fos-
sero trovati senza braccia, costretti a raddoppiare i salari, o a dar loro terre per un
boccone di pane. ‘‘Quando saremo andati via tutti,’’ diceva uno, ‘‘creperanno di fame
anche loro.’’ E un altro: ‘‘Non passa dieci anni, da’ fuori la rivoluzione.’’ (De Amicis,
2004: 61)

L’autore raccoglie le affermazioni dei partenti, frutto di conflitti di classe percepiti


ma mai elaborati in una differente condizione economica e sociale. In questo ampio
spettro di situazioni sociali immutabili, di difficoltà economiche, aggravate da
infauste condizioni climatiche, prendono corpo emozioni e sentimenti che forme-
ranno il sentire emotivo verso l’Italia, i proprietari terrieri e, in ultima analisi, anche
verso gli emigranti stessi, finendo per agire sulla propria autostima. Questa subita
condizione sociale e umana dà vita a risentimento e a rancore. L’acrimonia provata
dagli emigranti, almeno nella fase iniziale dell’emigrazione, è uno stato d’animo
comune che, attraverso un’elaborazione individuale, può successivamente evolversi
in differenti modi: dall’etica del lavoro, alla pratica religiosa, all’impegno politico e
persino in una devianza sociale.
Risentimento e rancore sono sinonimi. Il termine ‘‘rancore’’ viene dal latino,
rancor, ‘‘lamento, desiderio, richiesta,’’ ha la medesima radice di rancidus, ‘‘astioso,’’
ma anche ‘‘stantio,’’ ‘‘zoppo.’’ Un torto subito genera dolore, l’afflizione che ne
664 Forum Italicum 47(3)

scaturisce può arrecare uno stato depressivo. Se il torto riguarda la sfera morale e
implica un oltraggio o un’insolenza, scattano reazioni come la rabbia o l’ira. Sono
queste due emozioni che, nell’elaborazione successiva, nel ruminare continuo della
mente, si trasformano in rancore. La struttura emotiva del risentimento occupa uno
spazio rilevante nell’universo emotivo dell’emigrante. Esso nasce sempre a seguito di
un’esclusione sociale e di un senso di inferiorità creatosi a seguito di essa. Edmondo
De Amicis mette a fuoco questo sentimento degli emigranti che stanno per lasciare
l’Italia per affrontare un viaggio che in molti casi si risolverà nel raggiungimento di
una condizione umana e sociale inferiore alle aspettative nutrite alla partenza.
L’autore, implicitamente, riconosce un valore (quasi) salvifico nella massiccia
emigrazione italiana verso le Americhe, alla luce di una duplice ragione: l’affranca-
mento da una condizione di profonda subalternità economica e sociale e l’elabo-
razione di quei sentimenti di odio e rancore maturati in patria che avrebbero potuto
condurre questi uomini a un profondo malessere psichico oppure a un’instabilità
sociale. Attraverso questa presa di posizione, seppur evitando ogni dichiarazione di
parte, De Amicis si schiera con Francesco Saverio Nitti, che sottolineò gli aspetti
positivi del fenomeno: ‘‘possibilità di migliori condizioni di vita per gli indigenti,
valvola di sfogo di emarginati, ma anche circolazione di capitali privi di mobilità in
patria, unica chance per l’Italia, priva di beni coloniali di certo rilievo, di costruire
una testa di ponte per i propri commerci’’ (Bezzi, 2007: 77). La posizione di
De Amicis in merito all’emigrazione italiana nelle Americhe non si limita a una
constatazione del fenomeno emigratorio dal punto di vista socio-economico ed
emotivo. Essa va oltre. L’autore intuisce che la patria ricreata dagli emigranti lon-
tano dall’Italia nasce con sentimenti ambivalenti, se non opposti, nei confronti del
clima sociale e politico del paese che hanno lasciato. Una patria altra. Una colonia,
come vengono definite in quegli anni le larghe comunità italiane presenti nelle mag-
giori aree urbane delle Americhe, delle quali si doveva prendere atto in Italia sia per
strutturare una politica estera che tenesse conto per il paese di questa nuova realtà
sociale, sia per comprendere gli umori e le evoluzioni politiche di una comunità che
nutriva un risentimento verso l’Italia, che in molti casi si trasformò in una militanza
politica radicale.
Questa folla anonima che si spostava non solo per ragioni economiche potremmo
chiamarla – parafrasando Giorgio Agamben – una comunità senza nome, un aggre-
gato di individui qualunque che non possono essere societas ‘‘perché non dispon-
gono di alcuna identità da far valere, di alcun legame di appartenenza da far
riconoscere’’ e che, proprio per questo, appaiono incompatibili con lo Stato, per il
quale ‘‘rilevante non è mai la singolarità come tale, ma solo la sua inclusione in una
identità’’ (Agamben, 2001: 63). Questo inciso ci porta a considerare il fenomeno
migratorio italiano all’interno della complessa dinamica della formazione degli Stati
nazionali e analogamente al loro disfacimento. La formazione di uno Stato e il suo
assetto coesivo veicolano l’espulsione di una massa di individui, appartenenti alle
fasce sociali più deboli, oppure ideologicamente avverse al nuovo progetto politico.
Esse potrebbero provocarne l’instabilità. L’espulsione, indotta, a volte perseguita
anche attraverso la propaganda sui giornali, lascia in coloro che la subiscono
Pascale 665

profondi strascichi di rancore verso un paese che subdolamente ha deciso di disfarsi


di loro. Con prepotenza si pone a costoro il problema dell’identità, di una capacità,
se vogliamo, di autoriflessione sia sulla loro collocazione sociale sia sulla loro storia
personale, considerate all’interno della costruzione di un’identità italiana d’oltreo-
ceano. Questo compito fu in parte assolto dalla numerosa pubblicistica che sorse sia
in Nord America (Il Progesso Italo-Americano, 1880) sia in Sud America
(La Nazione Italiana, 1863), raggiungendo considerevoli tirature. La nazione italiana
stava vivendo il suo momento di colonialismo soft: una penetrazione massiccia in
terre lontane ove gli emigranti avrebbero ricreato delle colonie (enclaves) italiane
acquisendo un sentimento patrio mancante all’inizio della loro avventura migra-
toria. Eppure questa massa di uomini e donne stava scrivendo una pagina della
storia italiana che l’Italia ufficiale e intellettuale relegava nella cronaca giornalistica.9
Fame e coraggio di questa folla che si possono tradurre in sopravvivenza e audacia,
voglia di rivalsa e di riscatto.
Il resoconto narrativo di De Amicis si focalizza in particolare sull’emigrazione dal
Nord Italia. L’autore si imbarca a Genova, mentre la folla meridionale si imbarcava,
per lo più, dai porti di Napoli e Palermo. L’enfasi su fame e coraggio che spingono
queste persone a emigrare, individui attivi, audaci, con una vitalità superiore alla
media, qualità che Sombart ravvisa nella struttura della personalità di coloro –
stranieri, eretici ed ebrei – che hanno dato un maggiore impulso allo sviluppo del
capitalismo. L’affermazione di certo trova validi riscontri statistici per l’Argentina
(ma anche il Brasile e l’Uruguay) e il Nord America (estesamente gli Stati Uniti). La
spinta a uscire dalla povertà che muove tanti emigranti italiani a lasciare i loro paesi,
oltre a rivestire un interesse per il considerevole contributo che essi danno alla
crescita economica delle nazioni ove si recano, non solo produce un aumento delle
entrate che spesso vengono versate in forma di rimesse ai parenti e familiari rimasti in
Italia, ma finisce anche per suscitare attenzione da parte di giornalisti e studiosi della
vita culturale delle comunità italiane all’estero, le cosiddette colonie italiane.
Giustino Fortunato cosı̀ si esprime sull’emigrazione italiana:

Il singolare fenomeno di un mutamento cosı̀ rapido delle nostre condizioni economiche


e finanziarie sarebbe tuttavia inesplicabile, se prescindessimo da un fatto veramente
grandioso, di cui a ragione va superbo il nuovo popolo d’Italia: parlo dell’emigrazione,
specialmente di quella per le terre di là dell’oceano, che io ho sempre creduta, com’è, un
elemento incalcolabile di civiltà e di benessere per il nostro paese (. . .) Inviamo di là da’
mari la sola merce, di cui abbiamo dovizia: l’uomo; e lungo i mari c’è venuta in cambio,
e ci viene, una larga striscia d’oro – le rimesse – che non ignoriamo, no, di che lacrime e
di che sangue sian fatte. (Fortunato, 2011: 76)

La vita nei paesi di emigrazione non è condotta soltanto in funzione del lavoro ma
anche attraverso forme associative e coinvolgimento religioso che hanno a lungo
costituito una sorta di schermo psicologico per fronteggiare il trauma dell’emigra-
zione, dello shock culturale, e per elaborare un universo simbolico e di credenze che
permettesse agli emigranti, da una parte, di creare un continuum nella loro vita e,
666 Forum Italicum 47(3)

dall’altra, di sviluppare una sfera valoriale di significati che fosse emanazione di


quella dalla quale erano usciti. Dunque continuità valoriale e di significati pur
nella cesura spaziale generata dall’emigrazione, senza tuttavia deporre il sentimento
del risentimento verso il nuovo Stato italiano.
Nel racconto breve ‘‘Rancori e amori’’ l’autore si sofferma su una coppia di
sentimenti che rappresentano i due poli entro i quali l’emigrante cerca di venire a
patti con la frattura provocata nella sua esistenza dalla decisione di emigrare. Lo
fa cercando di intrattenersi a parlare con gli emigranti della terza classe con i
quali condivide l’esperienza della traversata oceanica. Il suo tentativo è però
destinato a fallire a causa della loro riottosità e diffidenza ad aprirsi a uno
sconosciuto:

difilato a prua, col proposito di mescolarmi con gli emigranti, e di entrare in discorso
con loro. Era l’ora della pulizia, la prua affollata, il cielo chiaro: tutto pareva propizio.
Ma non tardai ad accorgermi che l’impresa era meno facile di quella che credevo.
Mentre passavo in mezzo alla gente seduta, badando a non pestare i piedi a nessuno,
m’intesi dire alle spalle:’’Largo ai signori!’’ e voltandomi, incontrai lo sguardo di un
contadino, il quale mi fissò sogghignando con un’aria che confermava arditamente il
senso sarcastico dell’esclamazione. Un poco più in là, avendo teso la mano per acca-
rezzare un bambino, la madre lo tirò a sé con un cattivo garbo, senza guardarmi. Non
posso dire la pena che provai. Io non avevo pensato lo stato d’animo in cui era naturale
che si trovasse molta di quella gente, mentre erano ancora tumultuanti in essa le mem-
orie della vita intollerabile, per troncar la quale avevano deciso di lasciare la patria, e
acceso tuttavia il risentimento contro quella svariata falange di proprietari, esattori,
fattori, avvocati, agenti, autorità, designati da loro col nome generico di signori, e
creduti congiurati tutti insieme ai loro danni, e autori primi della loro miseria.
(De Amicis, 2004: 59)

Il risentimento è il sentimento prevalente in questo passaggio, seppur celato


all’autore. L’abbandono dei luoghi natii non è solo festa e voglia di riscatto
ma anche frustrazione, rancore per la sentita ingiustizia subita. La domanda da
porsi è: come si evolverà questo sentimento nel corso degli anni nella struttura
della personalità degli emigranti e all’interno stesso della comunità italiana emi-
grata? Tenderà a farli precipitare nella nostalgia o si tramuterà in un iperatti-
vismo professionale e lavorativo foriero della costruzione di grandi ricchezze?
L’esistenza di un emigrante non la si può semplicemente racchiudere all’interno
di una classificazione binaria (nostalgia e/o successo), essa è molto più complessa
nella sua evoluzione. Rimane al fondo della sua esistenza quel grumo valoriale
(risentimento o altro) che De Amicis individua e tenta invano di scandagliare.
D’altronde l’autore era pur sempre un reporter (un giornalista) che si accinge a
registrare umori e a rappresentare, laddove possibile, vicende umane con l’intento
di informare i suoi lettori borghesi italiani sul fenomeno dell’emigrazione di
massa che tanto preoccupava gli agrari meridionali e padani. Il risentimento è
un oscuro sentimento personale, raramente rivelato agli altri, anche se lo
Pascale 667

riconosciamo a noi stessi. Esso non certo scompare con l’arrivo nella terra di
emigrazione, semmai viene elaborato attraverso complesse dinamiche psicologiche
e sociali. Nel suo studio Ressentiment il filosofo Max Scheler (2007) individua due
fattori alla sua origine: il fattore ereditario e quello della struttura sociale. Dove
quest’ultimo è causato dal carattere ereditario dell’individuo all’interno di una
società. Il ressentiment è generato sempre da una particolare forma di impotenza,
per dirla altrimenti da una condizione di inferiorità, realmente esperienziata o
percepita come tale. I dialoghi registrati da De Amicis a bordo della nave
‘‘Galileo’’ esprimono chiaramente questi sentimenti sia nella fase generativa,
della condizione di inferiorità dovuta a fattori economici, sia nella fase di con-
sapevolezza che subentra quando tale condizione va affrontata e risolta, cosı̀
l’emigrazione diviene la ‘‘soluzione’’ da perseguire per la sopravvivenza.
Ricominciare una nuova vita in un contesto culturale diverso e a volte avverso
comporta una revisione, una riscrittura della propria percezione di sé all’interno
di un nuovo ambito di valori e di relazioni umane. In altre parole, se l’emigra-
zione è una delle vie verso la sopravvivenza e dunque verso la salvezza, essa
genera all’interno della struttura della personalità del soggetto migrante
(almeno nella prima generazione) una duplice categoria di valori, un’ambiva-
lenza; un’apertura verso la speranza propria di chi si reca in una nuova terra e
una verso il risentimento per avere subito una condizione non sempre desiderata
o accettata. All’interno di questa divaricazione entra successivamente il senti-
mento della nostalgia, influente generatore di creatività ma anche, in particolar
modo, di forte sofferenza psicologica nella storia dell’emigrazione. Nella struttura
formale del ressentiment, un oggetto A è affermato, valutato e apprezzato non
per il suo valore intrinseco bensı̀ con l’intenzione, non verbalizzata, di negare,
svalutare e denigrare B. La causa o l’oggetto A è usata contro B. Nel racconto
di De Amicis questa struttura formale è realizzata a metà: vi è la denigrazione
dell’Italia e di coloro che hanno costretto contadini e artigiani a emigrare:
avvocati, professonisti, esattori, fattori. Manca la costruzione dell’elemento o
dei valori che si ergeranno a compensare i fattori che hanno generato il res-
sentiment, vale a dire la sua elaborazione in una struttura di valori. Manca la
parte costruens, quella che dovrebbe ergersi a struttura caratteriale per bilanciare
il risentimento. De Amicis registra la prima parte di questo sentimento: gli stati
d’animo degli emigranti nel momento della partenza. La nuova destinazione
non è ancora stata raggiunta e qui, spesso, le condizioni di vita non saranno
affatto più facili di quelle esperienziate a bordo della nave che li ha portati nel
Nuovo Mondo. L’autore oltre al resoconto cronachistico sembra voler destare nel
lettore l’attenzione verso quei sentimenti maturati a seguito dell’esperienza migra-
toria che non scompaiono con l’arrivo nel Nuovo Mondo, ma peseranno nella
relazione emozionale che gli emigranti costruiranno con l’Italia. Due sono gli
impedimenti narrativi che De Amicis si trova ad affrontare: da un lato la sua
scrittura rientra per lo più all’interno di una pratica giornalistica, quella di un
resoconto di viaggio da presentare ai suoi lettori; dall’altro lato vi è il limite
formale, temporale. Siamo in un periodo che inizia a scoprire la psicologia e la
668 Forum Italicum 47(3)

sociologia quali strumenti scientifici per arrivare a spiegare determinati compor-


tamenti umani, di certo delle classi borghesi, non del sottoproletariato, che,
come ben intuı̀ Verga, andava subendo una profonda trasformazione sociale
ed economica senza poterla comprendere appieno. Dunque, se l’emigrazione di
massa dall’Italia alla fine del diciannovesimo secolo trova ampie motivazioni
nella forte crisi economica post-unitaria, i sentimenti di tale fenomeno sociale
sono stati solo descritti ma non scandagliati a fondo nella loro risoluzione
sociale nella terra di arrivo. A livello teorico l’esito conseguente è la rivalsa.
Ma su cosa e verso chi? Proviamo a tracciare una sua genesi a partire dai
sentimenti generati dall’emigrazione. Il lavoro, nel caso degli emigranti, diviene
un valore costitutivo della loro autorealizzazione economica e individuale, pro-
prio alla luce della negazione esperita in patria. E ovviamente il lavoro attra-
verso la pratica remunerativa mitiga sino a volte ad annullare il risentimento. In
altre parole, il recupero di una condizione negata altrove (in patria) è compen-
sativo a un sentimento di risentimento protratto. Ciò implica che l’acquisizione,
riconosciuta, di uno status sociale differente permette la fuoriuscita da uno stato
emotivo di debolezza psicologica nel quale era relegato l’individuo costretto a
emigrare. Ovviamente il ressentiment non può essere uno stato d’animo perma-
nente (porterebbe all’autodistruzione) ma si trasforma quando l’autopercezione
del soggetto muta. Detto altrimenti, se l’attitudine al ressentiment gioca un ruolo
nella formazione delle percezioni, aspettative e memorie del soggetto migrante,
anche la sua eventuale risoluzione artistica, professionale o di impegno sociale
sarà informata a questi aspetti generati dal trauma dell’emigrazione. Nel caso
dell’ondata migratoria degli italiani nel continente americano, in molti casi, il
risentimento ha favorito una militanza radicale, in modo prevalente, nella prima
parte del ventesimo secolo e in particolare negli Stati Uniti. A seguito dell’ac-
quisizione di una consapevolezza sociale, la folla anonima diventa corpus pol-
itico, capace di una sua progettualità sociale e politica. A bordo della nave
‘‘Galileo’’ accanto al risentimento ritroviamo, quasi a completamento dell’esper-
ienza emotiva migratoria, il sentimento dell’amore sia nella sua componente
erotica – adombrata da De Amicis attraverso la descrizione di furtivi incontri
notturni consumati dai passeggeri ‘‘all’ombra della cambusa, dietro i gabbioni’’
(De Amicis, 2004) – sia come amore negato – rappresentato attraverso la per-
turbante figura della signorina di Mestre in viaggio con sua zia. L’autore ne
coglie l’anomalia:

Osservai questa bene per la prima volta: era un esempio, non raro a vedersi, d’uno
sbaglio della natura, la quale aveva imprigionato un’anima femminile in un corpo di
maschio, dal viso largo ed ossuto, dalle mani grosse, dalla voce rude. Tutta la femmi-
nilità di quella povera ragazza pareva ridotta nei suoi piccoli occhi grigi, che eran pieni
di bontà e di gentilezza, e da cui traspariva chiaramente ch’ella aveva coscienza di quella
discordia sgradevole tra la sua persona e il suo spirito, e che da un pezzo era rassegnata a
non piacere, e a starsene in disparte, quasi fuori dei due sessi, cercando in ogni modo di
passare inosservata. (De Amicis, 2004: 74)
Pascale 669

Questo personaggio stringe amicizia con il garibaldino, quasi a stabilire una com-
plicità cementata dalla loro inadeguatezza a un sistema valoriale e umano che li
aveva spinti a lasciare l’Italia:

A un tratto, con molta maraviglia, vidi il garibaldino avvicinarsi e sedere accanto alla
nipote, salutando rispettosamente, ma con un atto che rivelava una conoscenza di vari
giorni. Era la prima volta che lo vedevo in colloquio con un’anima nata. In che maniera
potevano aver fatto relazione? (De Amicis, 2004: 74)

Esiste tra i due personaggi un sentire comune generato da una evidente inadegua-
tezza morale e fisica che li spinge a stringere un contatto comunicativo teso a mitigare
i reciproci risentimenti. Mentre il garibaldino esplicita all’autore parte del suo risen-
timento verso l’assetto politico italiano fuoriuscito dall’Unità, la signorina di Mestre
vive in silenzio la sua tristezza. Essa è una figura perturbante al pari della Fosca dello
scrittore scapigliato Igino Trachetti. In De Amicis non rappresenta l’alter ego di
Tarchetti, alle prese con un primo tenue svelamento dell’Io, piuttosto una conces-
sione narrativa a un’estetica del brutto in funzione di una sua componente umani-
taria. De Amicis percepisce compiutamente che l’emigrazione diventa anche una
strategia esistenziale per uscire da un sistema valoriale estetico nel quale un essere
umano finisce per ritrovarsi non accettato o in palese disconforto. Il socialismo
umanitario di De Amicis non è solo rivolto a svelare la questione sociale ma anche
ad avviare una riflessione sulla relazione fra emigrazione e inadeguatezza valoriale
generata da una difformità di natura. Le riflessioni presentate da De Amicis sono da
collocarsi nel grande affresco dell’esperienza migratoria studiata a bordo del piro-
scafo sul quale è imbarcato. L’emigrazione è avventura. Essa non porta alla luce solo
tristezze e malinconie ma anche momenti di divertimento e di fisiologica attività
umana. Gli amori spontanei che sorgono tra i naviganti, non senza una traccia di
complicità dell’equipaggio, sono descritti da De Amicis con un tono meno intenso e
preoccupato del risentimento, quasi fosse un evento da mettere in conto nel corso di
una traversata oceanica cosı̀ avventurosa e irta di solitudine:

E quella sera, per la prima volta, tra la folla, assistetti alla separazione dei due sessi, che
si faceva sotto la sorveglianza del piccolo marinaio gobbo, incaricato di mandar le
donne a dormire. Erano corsi, dalla partenza, nove giorni di vita claustrale all’aria
aperta: gli affetti matrimoniali si erano rattizzati un poco, e oltre alle legittime, s’eran
formate delle coppie nuove, in cui quella maniera di vita produceva lo stesso effetto che
nelle altre (. . .). Era una scena delle più comiche. Le coppie resistevano; separate qui,
s’andavano a riattaccare più in là, tra il macello ed il lavatoio, all’ombra della cambusa,
dietro ai gabbioni, nei passaggi coperti, in tutti i luoghi ove non battesse il lume d’un
fanale. (De Amicis, 2004: 74)

Questa descrizione, posta a conclusione del racconto, mitiga la drammaticità della


vicenda. Quasi a bilanciare il resoconto giornalistico che ha toccato il proprio apice
nella resa del triste sentimento che accompagnava gli emigranti italiani verso le terre
670 Forum Italicum 47(3)

del Nuovo Mondo. La via della speranza non è solo dolore e risentimento ma
contiene anche un momento di amore, seppur furtivo. Da un punto di vista narra-
tologico, lo stile del racconto oscilla tra la cronaca giornalistica e il racconto da
feuilleton di fine diciannovesimo secolo, con un narratore omodiegetico (collocato
all’interno della storia stessa), quasi una prosa generata sul campo, attraverso
l’osservazione diretta. De Amicis registra gli umori, i sentimenti e i discorsi di
questi italiani che hanno lasciato il paese. Non offre un suo punto di vista. Fa parlare
i protagonisti. Essi, se non fossero emigrati, difficilmente avrebbero trovato spazio
nella letteratura italiana di fine Ottocento. Paradossalmente, lo spazio geografico a
costoro negato in patria viene recuperato attraverso lo spazio narrativo, come se per
esistere queste persone dovettero farsi da parte per poi essere recuperate dalla lette-
ratura. Non è dal Nuovo Mondo che si parla di loro, sono ritratti in uno spazio ‘‘non
spazio,’’ la nave, nel mezzo della traversata. Quasi una chiara volontà metaforica
dell’autore ancora non pronto a individuare e narrare l’evoluzione sociale e politica
di quella nazione in movimento, al momento ancora a bordo. Saranno poi altri autori
(da Enrico Corradini, a Giovanni Pascoli, ad Alfredo Oriani) a elaborare in chiave
ideologica, soprattutto nazionalistica, il resoconto giornalistico di De Amicis. La
narrazione di un sentimento degli emigranti narrato da De Amicis, il risentimento,
non solo arrivò, prima attraverso la stampa poi con la pubblicazione dei suoi scritti,
alla borghesia italiana ma favorı̀ tra gli intellettuali italiani un dibattito dal quale
scaturirono elementi ideologici e sentimentali che plasmarono il nazionalismo ita-
liano (ricordiamo Giovanni Pascoli, ‘‘La grande proletaria si è mossa’’).
De Amicis, pur collocandosi in quella scia letteraria di fine Ottocento che inten-
deva rendere partecipe la borghesia dei fermenti sociali italiani, comprende che quei
sentimenti che maturano e si accrescono a seguito dell’esperienza migratoria costi-
tuiranno la base dei rapporti emotivi attraverso i quali gli emigranti si relazione-
ranno con l’Italia. Da questa avventura umana resa al pubblico dei lettori italiani da
De Amicis prenderà corpo, di lı̀ a qualche anno, quella del colonialismo e del nazio-
nalismo italiani che maturarono non soltanto quale sbocco commerciale attraverso
la conquista di spazi da annettere politicamente e amministrativamente all’Italia, ma
anche attraverso l’elaborazione del sentimento del risentimento presente nell’uni-
verso cognitivo della grande massa degli italiani costretti a lasciare il paese.

Funding
This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial or
not-for-profit sectors.

Note
1. Sull’argomento la bibliografia è molto vasta. Segnaliamo Sanfilippo e Corti (2009) e
Gabaccia (2000).
2. Negli anni postunitari il tema dell’emigrazione sarà sfiorato, ma non pienamente affron-
tato, da due dei più prolifici autori dell’Italia postunitaria: Paolo Mantegazza, che già nel
1857 aveva visitato l’America del Sud – traendone poi il libro Rio de la Plata e La Tenerife.
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Viaggi e studi (1867) e il romanzo Il Dio Ignoto (1876) – e il giornalista scrittore garibaldino
Anton Giulio Barrili con il romanzo La sirena (1883). In questi romanzi l’emigrazione
appariva sollecitata da individuali esigenze di avventura più che da collettive necessità
economiche e il problema, nella sua crescente e complessa drammaticità, risultava
ancora pressoché estraneo agli scrittori italiani.
3. Prima di De Amicis altri scrittori europei si erano imbarcati su navi o mercantili diretti nel
Nuovo Mondo. Ricordiamo il viaggio del giugno del 1879 di Robert Louis Stevenson,
dall’Inghilterra agli Stati Uniti, da cui l’autore trasse il volume The Amateur Emigrant
(tradotto in italiano con il titolo Emigrante per diletto) pubblicato postumo nel 1895; lo
stesso fece Jules Verne. che nel 1871 si imbarcò sul piroscafo ‘‘Great Eastern’’ da Liverpool
a New York raccontando la sua traversata nel volume Una città galleggiante.
4. Nato da un viaggio in SudAmerica, originariamente avrebbe dovuto chiamarsi I nostri
contadini in America. A questo proposito si potrebbe aprire un contenzioso sul genere al
quale attribuire l’opera, se a quello del resoconto di viaggio, assieme a Spagna o a
Costantinopoli, o piuttosto a quello del romanzo, data la sua grande ambiguità. Sarebbe
in questo caso uno dei romanzi di De Amicis a struttura chiusa, come Cuore e come sarà La
carrozza di tutti, del quale anzi si potrebbe intenderlo come prova generale. O piuttosto la
testimoniale relazione su un esteso fenomeno come l’emigrazione? Un’anticipazione era già
in Cuore, sullo stesso itinerario anche il racconto mensile Dagli Appennini alle Ande, o certi
progetti argentini della cugina di Ratti nel Romanzo d’un maestro, le altre due opere con-
temporanee. Ma sotto questo aspetto, dell’attenzione al progetto, De Amicis è da collo-
carsi tra i pochi che ne hanno colto l’importanza. Eppure essa era sotto gli occhi di tutti,
anche se con diverse motivazioni. Si trattava di un fenomeno di tal consistente portata da
modificare l’assetto delle popolazioni del mondo. Basti pensare che tra il 1876, l’anno in cui
partirono le rilevazioni statistiche ufficiali, e la fine del secolo, dall’Italia emigrarono
cinque milioni e mezzo di persone, in vent’anni. Un sesto della popolazione nazionale.
Non fa perciò meraviglia che il socialista De Amicis se ne sia interessato e non per teoria e
per immaginazione, ma provando l’esperienza, compiendo il lungo viaggio assieme agli
emigrant verso l’Argentina, leggendo le storie di quel coro. D’altronde la stessa struttura
organizzativa della nave, divisa in classi (che corrispondono proprio a classi sociali), gli
facilitano il compito di un’interpretazione socio-economica, e perciò politica, di quell’uni-
verso cosı̀ chiuso; facilmente allegorizzabile: in quel microcosmo in navigazione sull’o-
ceano si riproduce, condensata e concentrata, e quindi meglio visibile, la medesima
situazione del paese, con gli stessi traumatici problemi e gli stessi traumatizzati personaggi.
Cfr. Portinari e Baldisone, 1996: LVIII –LIX (Introduzione).
5. Nel 1908, Francesco Saverio Nitti domandava: ‘‘Se si tolgono, quei cinquanta piroscafi
all’incirca, che fanno o facevano fino a poco tempo fa il servizio di emigrazione, che cosa è
la nostra marina mercantile?’’ (Nitti, 1908: 6).
6. Umberto di Savoia regnò dal 1878 al 1900.
7. Troviamo un’interessante assonanza tematica tra questo brano e il celebre ‘‘Addio ai
monti’’ dei Promessi Sposi: ‘‘Addio, monti, sorgenti dall’acque, ed elevate al cielo; cime
inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia
l’aspetto dei suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle
voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti,
addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di
quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna,
si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi
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potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà
dovizioso’’ (Manzoni, 1949: 141).
8. ‘‘Il fatto che l’emigrante sia stato rimosso dal suo habitat naturale del suolo natio gli crea
un senso di sradicamento che lo porta a cercare di trovare un agente colpevole responsabile
del suo destino. Tale agente non esiste in una forma concreta ma è, non di meno, parte
dell’immaginario dell’identità dell’emigrante’’ (traduzione dell’autore).
9. Con Sull’Oceano De Amicis aggiunge un altro tassello d’appoggio alla campagna emigra-
zionista italiana di quegli anni, sostenendo le posizioni nittiane, ma senza riununciare a
esprimere le istanze degli antiemigrazionisti, per contrastarli sul loro stesso terreno.
Le resistenze degli agrari, soprattutto della Padania orientale, spaventati da una sottra-
zione di braccia al lavoro dei campi, dai rischi di un aumento della manodopera e dello
spopolamento dei campi; gli interventi ministeriali con la circolare Lanza del 18 luglio 1873
e la legge Crispi del 30 dicembre 1888, che intendevano combattere o quantomeno rallen-
tare un esodo ritenuto anomalo e dannoso (cfr. Le notti oceaniche nella città-piroscafo. In:
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