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1.1. Con la scuola metrica storica il valore del piede come la piu
piccola unità metrico-ritmica nei versi greci (e latini) è stato via via mi-
sconosciuto, fino ad essere negato del tutto. Da U. von Wilamowitz 1 a P.
Maas 2, a B. G entili3, a B. Snell 4, ad A. D ain5, a D. Korzeniewski6, a M.
I.. W e s t p e r n o n c i t a r e c h e so lo a lc u n i a u t o r i d i m a n u a li o t r a t t a t i d i
m e tr ic a g r e c a tr a i p iu n o t i e f o n d a m e n ta li, g li s t u d i o s i p iu r e c e n ti, p u r c o n
col» unità metrica non è il piede giambico, trocaico e dattilico, ma il metron o dipodia giam
bica, trocaica, dattilica, che rappresentano unità metriche indivisibili »: In., La metrica dei Greci,
Messina-Firenze 1952, p. 2 e al. Sul lavoro di metrica del Gentili, i cui contributi originali
e illuminanti si dimostrano talvolta definitivi, si può leggere, fra l’altro, l’ampia recensione di
S. T im p an a ro j r ., «Questioni di m etrica», in Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa XX (1951), pp. lss.
4 B. S n e ll, Griecbische M etrik, Gottingen 19623 (19551); tr. it. di F. BornmaRn (« Pai-
deia », XX), Firenze 1977, da cui cito; p. 3, nota 3: « Talvolta si legge ancora (nella sgia dei me·
tricisti antichi) la designazione di “ p ie d i” giambici (v_z— ) o trocaici (— w ) o Ihapestici
(v> w — ). Giambi, trochei e anapesti compaiono però solamente come “ metri ’’ e chiamare
questi ultimi “ doppi piedi” (dipodie) non fa che creare confusione»; p. 17; «nei giambi e
nei trochei simili mezzi metri (" piedi ”1 vengono postulati solo in base a un’interpretazione
arbitraria». Lo Snell, si sa, è un maasiano, com’egli stesso dichiara nella ‘ N ota’ finale, p. 81;
« Questo breve schimo in diverse parti essenziali si basa sui principi di Paul Maas, e già per
questo motivo non può essere mia intenzione sostituire la sua metrica... ».
5 A. D ain , Traiti de métrique grecque (« Tradition de l’humanisme », I), Paris 1965, opera
postuma che trova il suo nucleo originario nella Legon sur la métrique grecque, Paris 1944;
p. 47: « le vers ne doit pas s’analyser par pieds, mais par éléments rythmiques». Il Dain, in
verità, dà e accetta la nozione di piede, « qui est comme la cellule initiale de la structure mé
trique... », che « comporte en soi un temps “ levé ” et un temps “ baissé ” (&ρσις et Ματς) »
(pp. 20s.), riconoscendo solo giambo, trochèo, dattilo, anapesto, peóne (= eretico), tribraco,
spondèo e « péon résolu » ( I = — u u v j o I V = u u u —) e rifiutando « formules plus
compleres, n ’ayant de soi aucune entité rythmique » (p. 22), arbitrario assemblage « en pieds
des suites de longues ou de brèves » (ibid.) dei trattatisti antichi, quali pirrlchio, proceleusmà-
tico, anfibraco, palimbacchèo, antispasto, epitrito, òrtio, mesòmacro e hexàbrachys. Ma poi per
converso afferma (p. 24): « Pour nous le “ m étte” sera P uniti de compte », e alterna metron
nel senso maasiano con « élément rythmique » (pp. 23s.; 25ss.; 47 e passim), pur parlando cor
rentemente di « dipodie » e « tripodie iambique, trochaìque, anapestique » e persino di « di-
podie dactylique (hymenaicum) » e « dipodie péonique * (pp. 28s. e passim). Su una certa in
coerenza terminologica di quest’opera importante di Dain ved. l’ampia e dotta recensione di
L. E. R ossi, « La metrica come disciplina filologica », in Riv. f i . istr. ri. XCIV, s. I l i (1966),
pp. 185ss. Densa e limpida sintesi del ‘ pensiero ’ metrico del R ossi è la voce « Verskunst » da
lui firmata in Der Kleine Pauly V (1975), coll. 1210-1218.
* D.' KoRZEtiirwsKl, G fté c h ìs c b e lftitr lk ià Die 'Aftertumswissensch&ft. Einfiihrungen in
Gegenstand, Methoden und Ergebnisse der Forschung»), Darmstadt 1968, p. 12. Acuta, anche
nei dissensi, l’entusiasticamente positiva (« ottimo manuale » p. 314; « un libro eccellente »
p. 323) recensione di L. E. R ossi, in Riv. fil. istr. ri. XCVII, s. I l i (1969), pp. 314ss.; il ma
nuale del Korzeniewski ha ricevuto molte e favorevoli recensioni.
7 M. L. W est, Greek Metre, Oxford 1982. Nessuna nomenclatura e nessun esame a sé
dei piedi, alcuni dei quali (dattilo, anapesto, giambo, trochèo, eretico...) vengono menzionati
solo nella trattazione dei vari versi e cola e nel ’ Glossary-Index ’; metron e foot (piede) sono
considerati entrambi unità di misura: « The foot is an ancient alternative (sal. del metron) unit
of analysis. In some rhythms there is no.difference between the foot and the metron. In others
(iambic, trochaic, anapaestic) there are &o feet to each metron. In these latter cases the metron
is the more satisfactory unit, because all periods contain an even number of feet and there
are features which recur with every second foot. We therefore analyse these rhythms in terms
of metra; but feet remain convenient as a means of specifying a particular place in the verse
where some phenomenon occurs » (p. 6). Una rassegna critica degli studi di metrica greca e
latina si può leggere con profitto in C. D e l Grande, La metrica greca (« Enciclopedia classica »,
sei. II, voi. V, tomo II), Torino 1960, pp. 179-213 (in parte già « Res metrica, I », in La Pa-
Res metrica 35
rota del Passato II [1947], pp. 95-128) e 'A ggiu n te’, pp. 486ss. da aggiornare con G . F. Fa
biano, « G li studi di metrica greca dopo Paul Maas », in Introduzione allo studio della cultura
classica, I I , Milano 1973, pp. 419ss., con la bibliografia ivi citata, pp. 472ss. In questa Intro
duzione ottime sono le sezioni di C. Q u e s ta , « Metrica latina arcaica » (pp. 477ss.) e di F. Cu-
paiu olo, « Metrica latina d’età classica » (pp. 563ss.), con bibliografia generale e specifica sui
singoli argomenti, criticamente ragionata e vagliata. ‘ Acritica ’ ma ricchissima e sistemata per
autori e argomenti la bibliografia segnalata per il latino da G . B. Pighi, La metrica latina
(«Enciclopedia classica», sez. II, voi. V I, tomo II), Torino 1968, pp. 669-703: opera originale
e poderosa, che non ha ricevuto notevoli recensioni.
8 G . F. F abiano, « Terminologia e concetti fondamentali di metrica », in Introduzione cit.,
p. 381: «Attualm ente, essendo ormai acquisito che i “ piedi" della tradizione rispondono a
un’esigenza di schematizzazione puramente scolastica, con giambo e trocheo si indicano la “ di
podia ” giambica x — ^ — e la “ dipodia ” trocaica — w — x, che sono le reali unità di misura
del ritmo giambico e trocaico».
9 W. J. W . K ostek, Traile de m itrique pecque suivi d'un pricis de mtlrique latine, Leyde
19664 (1936*). Il Koster, aderendo alla teoria dei prototipi, considera originar! dieci piedi, fatti
derivare, con gli altri « tout à fait hypothetiques », dai quattro piedi più corti — giambo, tro
chèo, spondèo e pirrichio — , allungandoli « d’une syllabe brève et d’une syllabe longue au
commencement» (p. 24); ma sul pirrichio poi (p. 32) precisa: « le pyrrhique... n’a pas de ca-
ractère rythmique bien défini ». Sul T raiti del Koster si può leggere la recensione di M. Len -
chantin D e G ubernatis , in Riv. f i . istr. cl. n.s. XVI (1938), pp. 312ss.
10 D e l Grande, La metrica greca cit., pp. 270ss. (trattazione e nomenclatura dei piedi);
a p. V i l i della Prefazione un’avvertenza sul metodo da lui seguito: « In regime di ritmica i
sempre lecito considerare un verso, ovvero un inciso, nel suo complesso, fuori del conto degli
elementi di misura che generano il ritmo. In regime di metrica ì invece doveroso mostrare il
ritmo nel suo formarsi, in funzione degli elementi di misura che lo costituiscono »; a p. 234 la
difesa della dottrina dei piedi, presente in tutta la grecità e la latinità, si conclude con la do
manda: « perché dovremmo negarli noi? ». Il D el Grande, poi, si sa, è stato uno degli ultimi
autorevoli symplecontes o unionisti moderni, dei sostenitori cioè della teoria metrico-musicaliz-
zante, per cui c’è unità inscindibile di musica e metrica nella poesia greca e latina. Ma ai
ricordi già P la to n e (leg. II 669d) διασπώ σιν οί ποιηταί όυθμόν μέν καί σχήματα μέλους
χωρίς, λ όγους ψιλούς εις μέτρα τιβ έντες, μέλος δ’ αύ καί όυδμόν ftvtu βημάτων, « i poeti
tengono separati ritmo e figure dal canto, mettendo in versi nude parole, ma d’altra parte (i
musici tengono distinti) canto e ritmo dalle parole». Risoluto il D ain (op. cit., p. 43) contra·.
«Affirmons d ’abord avec force que l ’accompagnement musical, quand il existait, pouvait sou-
ligner le rythme, mais ne le créait pas ». E basti ricordare la nostra viva esperienza che una
poesia o una canzone conserva il suo metro e il suo ritmo, anche senza le note musicali, anche
quando essa sia soltanto letta, non pure cantata o suonata. « Queste constatazioni incontrastabili
[il melos che sovrapponendovisi poteva trasformare il ritmo poetico] avrebbero dovuto con
durre alla conclusione che poesia e musica coesistessero s(, ma senza perdere ciascuna la propria
individualità indistruttibile» (L enchantin D e G u b ern atis, «Problemi» dt. a nota 11, in
Introduzione d t., p. 399). La metrica greca del Del Grande, insieme con la prima parte del
volume contenente la Storia della lingua peca del Pisani, è stata recensita, fra gli altri, con
molte critiche dal G e n tili, in Gnomon XLI (1969), pp. 533ss.
36 V. P almieri
dei versi greci e latini, non rimane appunto che 1'observatio carminis 15:
smontando il verso, però, ne risultano i piedi. E, se i poeti, versum facientes
totum illum decursum (il verso nel suo insieme), non sex vel quinque partes,
ex quibus constat versus, aspiciunt (Id., ibid. 115), pur tuttavia sembra
proprio che, contro Tammonimento di Quintiliano, il discorso dello studioso,
neirignoran 2a peraltro di verità altrimenti indispensabili, « invecchi nel mi
surare i piedi e nel soppesare le sillabe » 16, consolandosi solo al pensiero
che docti rationem componendi intellegunt, etiam indocti voluptatem (Id.,
ibid. 11 6 )”
1.2. Ripugnava18 e ancor ripugna19 alla coscienza di molti pensare
che il poeta in qualsiasi lingua — ma specialmente greca e latina — e di
lo stesso lettore, se è un 1metrico non approverà che la mia “ Metrica ”, cosi ricca di schemi
musicali, sia invece priva di ‘ leggi ’, nuda di formule maasiane, indigente di terminologia neo
metrica. Forse mi concederà qualche attenuante, se terrà presente:... che io sono un * ritmico *
e non sono, né saprei essere, un ' metrico ». È merito grande della scuola storica aver soste
nuto col Wilamowitz la netta separazione tra musica e metrica: ved. A ug ., de mus. I I 1,1-2,2.
15 L’observatio carminis del doctus è — superfluo precisarlo — la metrica; « indagine a
posteriori, scoperta razionale delle leggi insite nel linguaggio dei poeti », nota il Bernardi P e
rini: efr, A. T r a in a -G . Bernardi P erin i, Propedeutica al latino universitario («Testi e ma
nuali per l ’insegnamento universitario del latino. Collana diretta da A. Traina», IX), Bologna
1972, p. 201. Cfr. Q u in t., inst. or. IX 4 ,9 5 poetica observatio.
16 Q u in t., inst. or. IX 4,112: totus vero bic locus non ideo tractatur a nobis, ut oratio,
quae ferri debet ac fluere, d i m e t i e n d i s p e d i b u s ac p e r p e n d e n d i s s y l l a b i s
c o n s e n e s c a t , etc.
17 Ved. anche Cic., orat. 51,173: nec vero multitudo pedes novit nec ullos numeros tenet,
sebbene i n v e r s u quidem theatra tota exclamant, s i f u i t u n a s y l l a b a a u t b r e
v i o r a u t l o n g i o r (con la duplice possibile interpretazione, secondo che si consideri sog
getto versus o, meglio, una syllaba), perché omnium longitudinum et brevitatum in sonis, sicut
acutarum graviumque vocum, iudicium ipsa natura in auribus nostris collocavit·, 53,177 (in fine);
par. stoic. 3,26; de orat. I l l 50,196-198; Q uint ., inst. or. I 5,18: quae (scii, vitia) fiunt
spatio (‘ quantità ’) sive cum syllaba correpta producitur... seu longa corripitur.
18 Ved. Q u in t ., inst. or. IX 4,115 riferito supra, dove però il retore aveva poco prima
ammonito (114): satis igitur in hoc nos componet multa scribendi exercitatio, ut ex tempore
etiam similia fundamus.
19 Ved. nota 12; G entili, La metrica dei Greci d t., p. 1: « £ assurdo credere che un
poeta, nello scrivere un verso, fosse costretto a compitare le brevi e le lunghe o, nel caso delle
letterature moderne, si riduca a contare sulla punta delle dita il numero delle sillabe», con
quel che segue; A. Camilli, Trattato di prosodia e metrica latina («Manuali di filologia e
storia» a cura di G . Devoto e V. Santoli, I I 4), Firenze 1949, p. 34, nota 2: « ...I versi non
si fanno per addizione di piedi! »; C. D el G rande, Φ Ο Ρ Μ Ι Γ 0 . Antologia della lirica greca,
Napoli 19675 (19571), p. 16: « allora [ = V sec. a.C.] si componeva ancora intuitivamente; i suoni
erano materia d’uso, non dominata per sdenza »: ma non c’era scuola? Nessuno insegnava e nes
suno imparava? Si sente aleggiare l’ombra di un certo ‘ vichismo ’! D ain , op. cit., p. 42: « pour
aligner les brèves et les longues de ces éléments rythmiques, le poète n ’a pas besoin de compter
les syllabes: il a ces formules dans l’oreille »; L. N ougaret, Traité de métrique latine dassìque,
Paris 19633 (19481), p. 12. Ma questo sarà stato vero per un’età preletteraria; non è cosi, o al
meno non è sempre cosi, in età di cultura e tecnica più o meno progredita e per dviltà non
del tutto autoctone.
38 V. P almieri
20 « O n aurait aimé savoir comment Aristophane, par exemple, avait appris la métrique et
quelle était sa doctrine. Nous n ’avons là-dessus aucun renseignement et nous ne pouvons mème
pas imaginer le poète dans l’acte d ’écrire ou se livrant à l’eflort de la création. Se laissait-il
aller à quelqu’un de ses tics que provoque souvent la contention de l’esprit? Penait-il sur ses
tablettes, ou travaillait-il dans l’exaltation? Dictait-il au contraire d ’abbondance à un secrétaire?
Nous ne le saurons jamais » (D ain , op. d t., p. 42): sulla prassi della dettatura nell’antichità, si
ricordi il caso di Plinio, di Petronio, ecc.; sui pericoli della dettatura ved. Q uint ., inst. or. X
3 ,6ss. Del D ain si legga il capitolo « Métier et mémoire », op. a t., pp. 217ss. e 223ss. C. P rato,
« L’oralità della versificazione euripidea », in Problemi di metrica classica. Miscellanea filologica
(« Università di Genova. Facoltà di Lettere. Istituto di filologia classica e medievale »), Genova
1978, p. 78, nota 6: «Noi siamo scarsamente informati sui mezzi e sui modi usati dal poeta
greco antico per apprendere o esercitare il suo mestiere e sulla tecnica da lui seguita nella
esecuzione materiale della sua opera... ».
-------21.. Coti B runetto L a tin i i tré sor ILL 1, 10) ammonisce: « qui bien voudra rimer, il li con-
vient conter toutes les sillabes de ses diz en tei manière, que li vers soient acordables en
nombre et que li uns n’ait plus que li autres... Après ce li convient il contrapeser l ’accent et
la voix, si que ses rimes s’accordent à ses accens... ». E F rancesco da Barberino notava che i
novizi « nesciunt suas componere cantiones nisi silabis numeratis », mentre i maestri « non ad
numerum sed ad sonitum rimant » (apud M. Pazzaglia, Teoria e analisi metrica, Bologna 1974,
p. 31, nota 43).
Dei nostri poeti, fra i tanti, anche viventi, di cui si potrebbero addurre confessioni sulla
propria ' tecnica di laboratorio ’ nel far versi, basti ricordare il C arducci dell’esordio del Saluto
italico (Odi Barbare I 20):
Molosso ringhia, o antichi versi italici,
ch’io co Ί batter del dito seguo o richiamo i numeri
vostri dispersi...
Qui, sotto l ’immagine classica e ‘ retorica ’, non è impossibile vedere un’allegoria dell’empirico
metodo seguito dal poeta nelle sue composizioni.
22 Ov., am. I 1, lss.: Arma gravi numero violentaque bella parabam
edere, materia conveniente modis.
Par erat inferior versus; risisse Cupido
I
Res metrica 39
fine della stessa elegia: « Il mio canto si innalzi con sei ritmi e si riabbassi
in cinque. Addio, guerre crudeli, con il vostro metro (l’esametro)! Cingiti
le bionde tempie col mirto che cresce sui lidi, o Musa, che devi essere cantata
con undici piedi (il distico elegiaco) ». A parte il problema della scansione
del pentametro (6.2), questi passi provano che Ovidio nella sua tecnica
poetica doveva, in un modo o nell’altro, contare i piedi dei versi che veniva
componendo.
Cicerone narra di un artifizio malizioso (fecit malitiose) del filosofo
peripatetico Ieronimo di Rodi (290-230 a.C. ca.), il quale individuò nelle
orazioni di Isocrate una trentina di versi, in gran parte senarl giambici,
ma anche versi anapestici; però, invece di isolare dal contesto la frase integra,
vi toglieva la prima sillaba della prima parola e vi aggiungeva all’ultima
parola la prima sillaba della frase successiva, sicché ne risultavano dei tetra
metri anapestici catalettici23: per metter su dei versi si lavorava anche con
le sillabe.
Un esempio di tecnica compositiva si legge in Aristotele (poet. 22,
1458b 18ss.):
« Eschilo ed Euripide fecero lo stesso trimetro giambico;
ma Euripide, con la sostituzione di una sola parola, e cioè met
tendo al posto del vocabolo proprio e di comune uso un voca
bolo raro, fece un bel verso; invece il verso di Eschilo non vale
un gran che... Similmente Arifrade metteva in ridicolo gli attori
tragici perché si servono di espressioni che nessuno adoprerebbe
nella comune conversazione: come, per esempio, dire δωμάτων
Uno, “ dalle case via ”, e non άπο δωμάτων, “ via dalle case ”;
σέδεν [e non σοϋ], " di te ”; έγώ δέ νιν [e non έγώ δέ αύτόν],
“ ed io lui ”; Άχιλλέως περί, “ ad Achille intorno ”, e non
περί Άχιλλέως, “ intorno ad Achille ”, e così via » (trad. M.
Valgimigli)
tutti artifizi dell’elocuzione poetica, certo, che però dovevano essere pur
anche determinati dalle ‘ misure ’ metriche.
Quintiliano (inst. or. IX 4, 115) insegnava: non tam sunt intuendi pedes
(che però vanno « osservati », anche, nella prosa), quam universa compre
hensio (« periodo ») e (X 3, 5): dilectus... rerum verborumque agendus est
et pondera singulorum examinanda. Post subeat ratio conlocandi v e r s e n-
t u r q u e o m n i m o d o n u m e r i , non ut quodque se proferet occupet
locum. Sulla via, poi, della distinzione tra prosa e poesia si arrivò a teorizzare
una maggiore difficoltà tecnica nella prima. Cosi Cic., orat. 58, 198: quo
etiam difficilius est oratione uti quam versibus, quod in illis certa quaedam
et definita lex est, quam sequi sit necesse; in dicendo autem nihil est pro
positum...·, a cui fa eco Quintiliano (inst. or. IX 4, 60): ratio vero pedum
in oratione est multo quam in versu difficilior... neque enim loqui possum nisi
e syllabis brevibus ac longis, ex quobus pedes fiunt·, ma di contro Cicerone
(de or. I l l 48,184): neque vero haec (scii, clausulae) tam acrem curam
diligentiamque desiderant, quam est illa poetarum, quos necessitas cogit et
ipsi numeri ac modi sic verba versu includere, ut nihil sit ne spiritu quidem
minimo brevius aut longius, quam necesse est. Liberior est oratio... Tutti
, passi che, di là dalle particolari valutazioni, provano come scrivendo sia in
versi sia in prosa ci si trovava a fare i conti e ad operare con i pedes·, e
I Cicerone non solo traduceva versi dal greco, ma ne scriveva anche di suoi
in latino. Infine, si può ricordare un passo di Mario Vittorino (de metr. —
GL VI 206,3), il quale definisce il metrum poeticum come versificandi
disciplina certa syllabarum ac temporum ratione in pedibus observata.
In generale, ma in modo molto pertinente, scrive il Prato24: « ...per
la stesura concreta dei versi, per la collocazione delle parole, per la scelta
degli epiteti o degli avverbi, per gli effetti retorici e stilistici ecc., l’artista
— e il discorso ora vale soprattutto per Euripide — si affidava a un’accorta
pianificazione dell’opera, al suo scaltrito mestiere, a un’utilizzazione prati
camente illimitata di un ricco patrimonio lessicale... » .
L’arte, disse Flaubert, non è che una lunga pazienza25; e il poeta è
sempre costretto a fare i conti con la materia, che è sorda a rispondere molte
volte all’intenzione dell’artista (Dante, Par. I 128s.), anche chi è dotato
di facile vena, come Ovidio “ : scrivere versi è per i poeti, sia pure in grado
diverso per ciascuno di essi, una gran fatica 27; e la « ispirazione », se anche
esiste a, non può annullare del tutto il ‘ tormento ’ della composizione, che
la forma è sempre frutto di una vena piu o meno tormentata, il verso è
sempre ‘ costruito ’ con parole, che son fatte di sillabe e di accenti.
Il poeta si vale sempre di una tecnica versificatoria, tradizionale o da
lui innovata, appresa ‘ oralmente ’ o su ‘ manuali ’, semplice o complessa,
entro le cui leggi egli esterna e concreta la sua poesia, come ogni artista
si vale dei particolari mezzi tecnico-espressivi che son propri della sua arte:
il labor limae e il v a r ia n tis m o d i cui abbiamo notizia a diversi livelli,
per i poeti delle varie lingue di tutte le età, sono la prova diretta che il
poeta sempre è obbligato a operare le sue scelte nel codice della lingua (del
genere, della metrica, del lessico, della retorica...), in cui si esprime, lavo
rando non per versi, cioè sulla misura del verso — almeno non sempre — ,
ma su suoi moduli o unità minori. A valersi del segreto del buon senso30,
Cfr. anche Sen. Rhet ., I I 2,8: oratio eius (scii. Ovidii) iam tum nihil aliud poterat videri
quam solutum carmen.
27 Cfr. R. Carrieri, in « Carrieri: i versi li scrive di notte ». Intervista a cura di D ona
tella B isut ti , in Grazia, Anno XL - Numero 1393, 29 ottobre 1967, pp. 89s. Si vedano le
‘ confessioni ’ di altri poeti in V. M asselli - G. A. Cibottó, Antologia popolare di poeti del
Novecento, I, Firenze 1956, pp. 215s.; II, Firenze 1964, pp. 88. 158s. 199.
28 Nega ripetutamente l’esistenza — almeno per sé — dell’ispirazione Montale: cfr. G.
G rieco, « Incontro con Montale », in Gioia, Anno XXXIX, n. 37, 13 settembre 1976, p. 8; e
si legga M ontale, La poesia (da Satura I), dedicata appunto a « Vangosciante questione / se
sia a freddo o a caldo l'ispirazione ».
29 Esempi famosi di varianti d’autore in G. P asquali, Storia della tradizione e critica del
testo, Milano 1974 (Firenze 1952), pp. 397ss. 416ss. 431ss. Per i poeti moderni basterebbe
consultare le carte manoscritte del Leopardi: ved., per esempio, la Tav. I I in A. P anzini -
A. V icinelli, La parola e la vita, Milano 196823, riproducente il Coro dei morti, col com
mento a tergo degli autori, nonché le belle fotografie in G. Leopardi, Canti. Edizione critica
di E. P eruzzi, con la riproduzione degli autografi, Milano 1981, o in quella successiva (Milano
1984) di D. D e R obertis ; oppure del Pascoli: ved. i facsimili in G. P ascoli, Poesie (« I clas
sici contemporanei italiani »), Milano 197112, sez. I I e in G. P ascoli, Carmina, ivi 1960: ma
del Pascoli si può leggere la bella lezione « Un esercizio di prosodia c di metrica », in G. P a
scoli, Opere a cura di C. F. G offis (« I classici Rizzoli »), II, Milano 1978, pp. 624ss.; op
pure la ricca sezione « Varianti e autocommenti » (pp. 858-1183) dello stesso M ontale, del
quale si conosceva solo qualche autografo tutto lindo (Meriggiare pallido e assorto) e non si
sospettava tanto lavoro di lima, in E. M ontale, L'opera in versi. Edizione critica a cura di
Rosanna Bettarini e G . Contini (« I Millenni »), Torino 1980.
30 « I poeti, e in genere tutti gli artisti, fanno quel che fate voi quando scrivete: prima
trovano il contenuto dell’opera che intendono comporre; subito dopo o magari simultaneamente,
gli dànno la forma che meglio si addice» (C. C u lc a s i, L ’arte della parola, Torino 196512, p. 6);
« A ogni arte risponde una scienza o tecnica che bisogna conoscere, un insieme di procedi
menti da impiegare, di esperienze da fare... Ogni arte comprende un mestiere le cui regole sono
state scoperte con lunga fatica e lungo studio» (P ira n d ello apud C u lc a s i, Op. cit., p. 7);
« La poesia ha si una parte di misterioso o meglio d’imperscrutabile, ma in ciò che è l’ispira
zione fantastica: essa è per il resto lavoro, consapevolezza, magistero di tecnica » (A. D e l
M onte, Retorica, stilistica, versificazione, Torino 1963, p. 5). Sulla 1composizione ’ in due mo-
42 V. P almieri
non sarebbe difficile penetrare nell’officina del poeta anche antico; persino
per l ’età piu remota la poesia orale e lo stile formulare non possono sostan
zialmente contraddire i noti espedienti della tecnica compositiva, sia perché
non tutta la poesia orale è formula, sia perché la formula ha un’estensione
variabile, di cui è misura spesso la sillaba col suo valore in tempi primi,
com’è provato, oltre che da forme verbali con o senza aumento sillabico
(o temporale), che in Omero, per esempio, si alternano spesso proprio in fun
zione della loro diversa misura sillabica e prosodica, ma anche da formule
che differiscono appunto l’una dall’altra solo per una o due sillabe, ritifemendo
immutati gli elementi costitutivi, sul tipo di δάκρυα θερμά χέων (II. XVI 3)
vs δάκρυα θερμά χέοντες (II. V III 426), ώς άρα φωνήσας (II. II 84) vs
ώς άρα φωνήσασα (II. XVIII 65), έμίγη φιλότητι καί εύνΐ) (II. II I 443 èl
al.) vs μίγη φιλότητι καί εύνη (II. VI 25), ecc.; oppure, con lieve muta
mento degli elementi costitutivi, sul tipo di άθανάτοισι θεοΐσι (II. XV 85)
vs έπ’ άθανάτοισι θεοΐσι (II. V 882) vs άθανάτοις τε θεοΐσι (Hes., theog.
373 e 415) vs ... ούδ’ άθανάτοισι θεοΐσιν (ν. 296) vs ... μετ’ άθανάτοισι
θεοΐσιν (ν. 394) vs ...καί άθανάτοισι θεοΐσιν (ν. 407 et al.), ecc.: si tratta
menti ved. Q uint ., inst. or. X 3,17, che la critica, ma ved. X 4, lss. sulla correzione differita
nel tempo con gli esempi della Smirna di Cinna scritta in nove anni e del Panegirico di Iso
crate, portato a termine in non meno di dieci anni. Notissimi i tre ‘ respiri ’ dell’Alfieri e i
due 1momenti ’ del Leopardi. Si ricordi anche la faticata tecnica versificatoria del poeta asti
giano, il quale nel Parere dell'autore su le proprie tragedie cita ben quattro redazioni successive
attraverso le quali elaborò il verso 20 della scena V dell’atto IV del Filippo, certo anche con
tando sillabe e accenti: 1) A quei che uscir den dal tuo fianco figli-, 2) Ài figli che usciranno
dal tuo fianco-, 3) A quei figli che uscir den dal tuo fianco-, 4) A i figli che uscir denno dal tuo
fianco (stesura definitiva). Naturalmente analoghe considerazioni valgono per la musica: il com
positore sente e concepisce l’aria o il motivo nel suo insieme, ma ne sviluppa ed esterna la
linea melodica con note e per battute, spesso provando e riprovando. George Gershwin « strac
ciava spesso dieci pagine di musica per conservarne una sola e impiegava spesso molti giorni
per definire la linea di una melodia. Lavorava sodo, modellando e rimodellando la materia mu
sicale per darle la forma definitiva. Procedeva per tentativi...» (R. Chalupt, Gershwin a cura
di R. Leydi, Milano 1961, p. 158); e ciò per un musicista notissimo per le sue capacità d ’im
provvisare. Fra i tanti autografi di opere musicali basti rinviare alla « Mazurca op. 59 ». 2 » di
F. Chopin, custodita presso la Biblioteca dell’Opera di Parigi, di cui si può vedere una pagina
riprodotta in Storia della musica, V, Milano 1961, p. 66, dove le correzioni riguardano note
isolate o riunite in battute, incisi e intere frasi. Inoltre, per la pratica, ved. I. S vevo, Opere,
a cura di B. Maier, Milano 1954, p. 652: «Per lunghi mesi passai il tempo a compitare bat
tuta per battuta alcune composizioni del Bach». Eppure, c’è chi, prigioniero quasi dell’idea
‘ romantica ’ dell’artista primigenio agli albori d’ogni civiltà, vuole distinguere, anche per la
Grecia, diverse età o periodi, che sono certo storicamente veri, ma non perché all’arte intuitiva
dei primi secoli si contrapponesse la tecnica dei secoli successivi: «Col quarto secolo la mu
sica, sino allora vissuta come arte intuitiva, nella creazione e nell’esecuzione, divenne arte
ubbidiente ad una tecnica scientificamente definita » (D el G rande, ΦΟΡΜΙΓΒ cit., p. 16). C’è
sempre una tecnica, per cui poeti e musicisti misurano e contano sillabe e note, lunghe e
brevi: certam faciendorum versuum disciplinam esse non neges (A ug ., de mus. I l l 1 , 1), « esiste
una precisa disciplina per la composizione dei versi»; I I 7,14. Ved. la recente inchiesta sul
«lavoro dello scrittore» nell’ultimo numero (1986) della rivista II cavallo di Troia.
Res metrica 43
Versgeschichle, Leipzig-Berlin 1908, p. 160 e passim, la cui teoria trovò poi sistemazione nel -t
Grundriss der griechische Versgeschichle, Heidelberg 1930; sarà un Urvers con quattro sillabe
lunghe fisse (Vierstablet), accanto ad altri due Urverse a tre (Dreistàbler) e a cinque sillabe
lunghe stabili (Funfstibler), con terminologia in parte ripresa ora dal Kokzeniewski (op. cit.,
pp. 5s.), per K. Rupprecht, Ahriss der griechischen Verslehre, Munchen 1949, pp. 13ss. e 4
passim·, e sarà la περίοδος δωδεχά,α-ημος, (un periodo ritmico di dodici tempi o dimetto po
lischematico C< Ο O O ) , che si fa risalire ad Aristide Quintiliano, per G en t il i ,
lU il-
Metrica-greca arcaica di:, pp. 51ss. e passim. Contra la teoria dell'Urvers, fra altri, il D el
G rande (La metrica greca cit., pp. 210ss.), il Lenchantin D e G ubernatis («Problem i» cit.,
in Introduzione cit., pp. 404ss. e Manuale di prosodia e metrica greca d t,, pp. 9s.) e il Fabiano
(« Problemi » d t., in Introduzione cit., pp. 426ss.), il quale, però, mette giustamente in rilievo
i meriti del Gentili negli studi sulla metrica greca e la sua originalità e coerenza. 1
34 L en ch antin D e G ub ernatis, «Problem i» dt., in Introduzione d t., pp. 408s. con le 3 "
note 24 e 25, dove si rinvia ad osservazioni analoghe del Kòrte e del'M eillet.
?
35 Ved. D el G rande, La metrica greca d t., pp. 183s.
36 D i G irolamo, Teoria e prassi della versificatone d t., pp. 102 e 104 e ancóra p. 100:
« Il verso si trova cosi al centro di due distinte sfere di attrazione: da un lato, il discorso
verbale piano, con le sue norme e le sue leggi d’uso; dall’altro, il metrema, che risponde anch’esso
a certe precise e irrinunciabili esigenze... È appunto dal conflitto tra queste due sfere d ’attra
zione che si genera, ai vari e distinti livelli, la tensione tra metrica e lingua... La tensione è il
marchio distintivo del linguaggio poetico, sigillo della sua “ artifidalità ” e della sua eccezionalità.
Essa trascende quindi gli svariati costumi stilistici degli scrittori, e va vista come un fatto uni
versale della poesia ». E al critico sembra dar ragione il poeta: « Esse [scil. le forme] sono a
sostanzialmente ostacoli e artifizi. Ma non si dà poesia senza artificio » (E. Montale, Sulla poesia
J..
Res metrica - 45
Iin generale e quindi lirica (Alcm., fr. 27, 2 e, forse, 39,1 Page; Pind., Ol.
3, 8) ed elegiaca (Solon., fr. 1, 2 West; Theogn., I 20 e 22).
In Aristotele έπος, oltre al significato comune di « poema epico » (poet.,
4, 1449 a 5; an. post. 12, 77 b 32 τά έπη κύκλος, de an. 5, 410 b 28 έν τοΐς
Όρφικοΐς καλουμένοις έπεσι) e di « verso epico », esametro [met. V 24,
TOZTa 33 ώσπερ έκ τοϋ ολόυ τά μέρη καί έκ τής Ίλιάδος το έπος, « come le
parti derivano dal tutto, cosi il verso dall’Iliade »; rhet. I l i 16, 1417 a 14
παράδειγμα è Άλκίνου άπόλογος δ προς τήν Πηνελόπην έν έξήκοντα έπεσιν
πεποίηται, poet. 26, 1462 b 3 ει τις τον Οΐδίπουν θείη, θείη <δέ> το Σοφοκλέους
έν έπεσιν οσοις ή Ίλιάς, « in tanti versi quanti ne ha l’Iliade »), si specifica
ancóra piu, indicando l ’esametro nella sua struttura: met. XIV 6, 1093 a
30 (riportato infra 2.9); soph, elench. 24,180 a 21 τό ήμισυ εΐπόντες τοϋ έπους
« δός μοι Ίλιάδα » σημαίνομεν, οΐον το « μήνιν άειδε, θεά », « significhiamo
“ dammi l’Iliade ”, pronunciando la metà di un verso, per esempio: “ l ’ira
canta, o dea ” ».
39 « T h e study of mette began at least as early as the fifth century BC, and the technical
vocabulary which we use today in analysing Greek metre is an amalgam of terms coined at
different times between then and now » (W est , op. cit., p. 27).
™ D ain , op. cit., p. 42, il quale prosegue: « Platon, a-t-on dit, l’ignore ou feint de 1’ignorer.
Λ peine saisissons-nous au passage tel ou tel mot du vocabulaire du metier des poètes. Le voca
bulaire savant n ’était pas constitué, et on n’en avait pas besoin. Pratiquement, tout le voca
bulaire méttique des anciens nous vient des théoriciens de basse époque »; il che non è del
tutto vero.
Res metrica 49
2.6. Incerti e controversi sono i luoghi dei primi autori in cui leg
giamo un vocabolario piu specifico e piu pertinente a termini metrici.
La piu antica testimonianza sull’uso della voce πούς in accezione metrica
sembra essere quella di Aristofane, ran. 1323 (la commedia, si sa, fu rappre
sentata alle Lenee nel 405 a.C.):
Eschilo οίνάνθας γάνος άμπέλου 1320
βότρυος έλικα παυσίπονον
περίβαλλ’, ώ τέκνον, ώλένας. ------ w w ^ — (gheoneo)
όράς τον πόδα τούτον;
Euripide δρω. ^ ------- ^ — w v _, — (gliconeo)
Eschilo τ ί δαί; τούτον όρςίς;
Euripide όρώ. w ------ ^ — (gliconeo) -
Eschilo τοιαυτί μέντοι σύ ποιων 1325
τολμάς τάμα μέλη ψέγειν.
41 Sul gliconeo e su esempi con « base » tribrachica in Euripide ved. G entili, La metrica
dei Greci cit., pp. 41ss. Studi particolari sul gliconeo: H. W eil , Études de littérature et de
rythmique grecque, Paris 1902, pp. 165ss.; K. I t su m i , « The Choriambic Dimeter of Euripides »,
in Classical Quarterly XXXII (1982), pp. 59-74 e «T he Glyconie in Tragedy», ibid. XXXIV
(1984), pp. 66-82, nonché V. P. Sm y sl ’ajeva, « Le glyconique dans la métrique éolienne (évo-
lution du metre lyrique) », in Philologia classica I I (1982), pp. 37ss. [in russo]. Varie scansioni
in D el G rande, La metrica greca cit., pp. 325ss.
42 « Di tono parodico anche la base anapestica del gliconeo... Per Euripide, in verità, sem
brano mancare gli esempi... » (C. P rato, I canti di Aristofane. Analisi. Commenti. Scoli me
trici, Roma 1962, p. 333, con schema metrico, discussione e bibliografia).
43 I nessi τ ί δ α ί/τ ί δ έ /τί δή sono spesso (cfr. anche A r., Ach. 912, av. 136, vesp.
1212, equ. 151,321, ecc.) variae lectiones nei codici euripidei, come El. 244 e 1116, Iph. Aul.
1443 e 1447, Hel. 1246; la particella colloquiale δαί è certo delle tre la meno frequente (poche
volte) in Euripide, ma ha ragione la D ale (E uripides , Helen..., Oxford 1967, p. 146) a soste
nerla dove è piu garantita dalla tradizione manoscritta, contro la tendenza di molti editori a
correggerla. Il δαί in ran. 1324 potrebbe essere parodia stilistica vs Si comune nella lingua
50 V. P almieri
tragica, qui difeso, per esempio, da R. Cantarella, Le " R a n e " di Aristofane (Introduzione,
traduzione e commento), Como 1943, p. 253, nota ad l.·, il Cantarella difende anche il
v. 1324, espunto da alcuni editori (van Leeuwen, B ergk) come un inutile doppione del verso
precedente. In Eschilo ricorre τ£ δέ e ri, δή, non mai r i δαί, e Sai (M) solo in Choeph. 900,
conservato dal Page, corretto in δή da Auratus, seguito da altri editori; x l Sai di M con l’otta
tivo in Prom. 933, da alcuni (KOnnecke, U ntersteiner) conservato, è insostenibile e va accet
tata la vulgata r i δ' Étv col Page e altri. In Aristofane Sai ricorre moltissime volte, 45 secondo
O . J . Todd, Index Aristophaneus, Cambridge (Massach.) 1932 (fotorist. 1962), p. 47; in nub.
656 τ£ δαί; è in clausula di trimetro giambico; in Ach. 764 τ ί δαί φέρεις è incipit di verso.
.... « I n Peri. 1576 fa facile congettura δι’ &νοιαν del Rogers, che darebbe una base pirrichica
in quel gliconeo, è già per questo inaccettabile: « The middle patt [vv. 673-680] of this epod
is badly corrupt» (Broadhead: cfr. The Persae of Aeschylus edited... by H . D. B roadhead,
London 1960, p. 172, nota ad l.) e lasciata tra croci dall’ultimo editore oxoniense di Eschilo,
il Page, come già dal Wilamowitz e da altri.
45 Sul gliconeo pirrichiocefalo ved. G entili, La metrica dei Greci cit., pp. 50 e 70; esempi
in E ur ., Andr. 1043, Suppl. 778, ecc.; P rato, op. cit., p. 323 con rinvio allo S chrOder.
46 « Il piede è sia l’anapesto con cui impropriamente ha inizio il gliconeo del v. 1322, sia
quello di Eschilo, pronto per una pedata — con buona pace dei critici che rifuggono dall’attri-
buire atto si sconveniente all’austero poeta » (D. D el Corno: A ristofane, Le Rane a cura di
D. D . C. [«Scrittori greci e latini», Fondazione Lorenzo Valla], Milano 1985, p. 236, nota
ad l.). Ved. anche l’articolato commento, impreciso, però, per molte notizie, del Cantarella
(op. cit., p. 253), dove sono riferiti gli scolti già divergenti nell’interpretazione. Concordano,
oltre al P rato già ricordato, il M erry (A ristophanes, The Frogs with Introduction and Notes
by W. W. Merry, Oxford 1884 [fotorist. 1963], p. 68, nota al v. 1323); il van Leeuwen
(A ristophanis Ranae... edidit J. van Leeuwen J. F., Lugduni Batavorum 1896, p. 195), il quale
richiama come esempi euripidei di gliconei con base anapestica Hel. 526 e Iph. T. 1132;
Res metrica 31
52 V. Palmieri
Altra prova dell’uso e del valore metrico di πούς in età cosi alta si ha
indirettamente dai passi di Erodoto in cui ricorre il termine έξάμετρος, come
( aggettivo in I 47, 2 ή Πυθίη έν έξαμέτρφ τόνφ (« in un ritmo di sei misure »)
λέγει τάδε, cfr. I 62, 4 e V '6D; V II 220, 3 έν έπεσι έξαμέτροισΐ; e come /
sostantivo in V 61,1 λέγει έν έξαμέτρφ. Da sottolineare è l’uso di τόνος ,
nel senso di « metro, verso » (Themist., or. 2 = I 33, 7 Downey προοίμιον
πεποιημένον έν τόνφ έξαμέτρφ), ma anche di « ritmo », al quale è traslato
dal senso proprio musicale di « tono, altezza » della voce (Plat., resp. X
617b) e di uno strumento (Plutarch., de trib. rei pubi. gen. 4, 827b = V'
130, 7 Hub.-Pohl.): le variazioni ritmiche dell’esametro, cioè, erano sentite e
denominate come diverse « altezze, modulazioni » della voce (e delle note
dello strumento cheTaccompagnava?). Il ‘ to n o ’ è definito da Plutarco {de
an. procr. in Tim. 1 7 ,1020e = V I1 178, 18 Hub.-Drex.) « l’eccesso della
quinta sulla quarta » e da Aristòsseno (el. barm. I 21 Meib. = p. 27,15
Da Rios) « la differenza di grandezza fra i primi due intervalli consonanti
(scil. la quarta e la quinta) »: έστι δή τόνος ή των πρώτων συμφώνων κατά
μέγεθος διαφορά. Detto della voce leggiamo τόνος in Plat., resp. X 617b:
φωνήν μίαν ίεϊσαν, ένα τόνον, « (una Sirena) emettendo una voce di un
unico tono », in Arist., pkysiogn. 2, 807 a 17 τόν τε τόνον άνίησι καί βαρύ
φθέγγεται e τόνοι, qualità diverse di τόνος, sono non solo οξύ e βαρύ, ma
anche μικρόν e μέγα in Xenophon, cyn. 6, 20 τούς τόνους τής φωνής ποιού- β »
μενον, όξύ, βαρύ, μικρόν, μέγα. Certo in Erodoto le sei misure dell’esametro *
sono i sei (piedi) dattili e, quindi, il piede, in quanto è misura del ritmo,
è qui un μέτρον e col ripetersi sei volte del suo τόνος genera il τόνος έξά
μετρος, il ritmo esametro: generalizzando, il πούς è la cellula elementare del
τόνος ο ίυθμός, del verso o del ritmo, essendo esso stesso unità ritmica con \\
un suo τόνος (cfr. Mart. Cap., I l l 273 = p. 74,13 Willis accentus... voca- \\
mus... tonos vel sonos, Graeci prosodias per la sinonimia).
Parallelo e simile al primo passo riferito supra (I 47, 2) è I 174,5
ή Si Πυθίη σφι, ώς αυτοί Κνίδιοι λέγουσιν, χρξ. (« rispose ») έν τριμέτρφ
τόνφ (« in un ritmo di tre misure »), a cui seguono due trimetri giambici,
dove è chiaro che il τόνος è il μέτρον, che qui è il metro o dipodia giambica,
come lo storico dice a l 12, 2 Γύγης, τοΰ καί ’Αρχίλοχος ό Πάριος... έν ίάμβφ
derivato anche dall’attività del piede come arto, dal suo procedere, onde la metafora in giunture
quali χρόνου προύβαινε πούς (E ur., fr. 42 N .2), δαρόν χρόνου πόδα (Id., Bacch. 889):
cfr. Anonym., de pedibus 3 = p. 3 5 6 ,7 Consbr. τό μέν όνομα τοΰ ποδός έστι όυδμιχόν =
Scbol. Β Hepbaest. 5 ,3 = ρ. 2 9 8 ,9 Consbr.: ...ώσπερ γάρ οί τ ω ν ξφω ν πόδες ά λλ ή λ ο ις
άντικείμενοι τ ή ν πορείαν Α περγάζονται, οίίτω καί οί μετρικοί πόδες ά λλ ή λ οις ά ντιταττά -
μενοι τή ν όδόν τοΰ λόγου σχηματίζουσι κα ί τ ή ν αΰτοΰ κίνησιν εΰρυδμόν τ ε καί έναρμόνιον
άποτελοΰσι, Serg., de pedibus — GL 4 8 0 ,5 pes dictus est, quo quasi metrorum gressus incedat.
Ved. W. B echer, s . v . * Pes », in RE XIX (1938), coll. 1085s.
54 V. P almieri
2.9. Non piu di tanto si ricava per il valore tecnico del termine μέτρον
e dei suoi composti, έξάμετρος (-ον), τρίμετρος (-ον) e τετράμετρος (-ον), che
leggiamo in Aristofane [nub. 638ss., dove si distingue fra « metri », « versi
epici » e « ritmi »: περί μέτρων ή περί έπών ί) Ρυθμών) e in Platone (resp.
X 607d; leg. II 669d e V II 810e; Lys. 205a): μέτρον è « metro » o
« verso » 53.
In Aristotele ricorrono i termini το έξάμετρον (poet. 4,1449 a 27; 6,
1449 b 21 e, varia lectio, 24, 1459 a 17; rhet. I l i 1,1404 a 34), το τετρά-
μετρον~(ρο£/. 4,1449 a 21 e 22; 2 4 ,1459 b 37; rhet. I l l 1,1404 a 31 e
8, 1409 a 1) e το τρίμετρον (poet. 1,1447 b 11): se ne indicano caratteri
particolari, ma non se ne dà alcuna definizione tecnica. Interessante è sul
l’esametro (το έπος) met. XIV 6, 1093 a 30 το έπος δεκαεπτά... βαίνεται δ’
54 II confronto fra i due passi aristotelici rende sicura l’interpretazione dàta sopra, che è
quella seguita dalla maggior parte degli interpreti (cfr. R iccobono, I I I 721 « rhythmus, cuius
etiam metta segmenta sunt »), mentre poco probabile è quella proposta di recente dal P ittau
(A ristotele, La poetica a cura di M. P ittau [«H erm es». Collana di testi antichi diretta da
G. Monaco, V II], Palermo 1972 [Brescia 1962’], p. 71): « è infatti evidente che i versi sono
varietà dei ritmi », spiegata e difesa nelle “ Annotazioni ” a p. 182. Il riferimento del D ain
(op. cit., p. 23) è errato, essendo stati scambiati i due luoghi aristotelici.
55 La somiglianza di questo passo della Poetica aristotelica con P lat., resp. I l i 398d, rife
rito supra (2.4), prova che « lo Stagirita aveva presente, in questo punto della Poetica la
tesi del M aestro» (P ittau , op. cit., p. 190) e fa respingere la correzione del Tyrwhitt di μέλος
in μέτρον, che compare in poet. 1,1 4 4 7 b 25, in un passo analogo ma con variazioni: είσΐ δέ
τινες (scii, arti), α ί πά σι χρώ νται το ϊς είρημένοις, λέγω δέ olov όυδμφ καί μέλει και μέτρφ.
56 V . P almieri
Si noti come sia nel passo dei Problemi che in quello della Retorica
il rapporto non è determinato in base ai tempi primi di cui si compone
ciascun piede, che per il dattilo non si dà il rapporto di 2:2 ma di 1:1,
cioè in base all’unità; mentre per altri piedi, giambo e trochèo, si ha coinci
denza casuale nel rapporto tra i due valori dell’unità e del tempo primo, e
per il peóne è considerata come unità la lunga o, comunque, l’unità tout
court, come per il dattilo: — = 1; 116 — — 16— , cioè w w w , perché — =
w w . Sarà lecito vedere in questo una prova che ad Aristotele fosse scono
sciuto il χρόνος -πρώτος, che sarà scoperta del suo discepolo Aristòsseno?
Il termine ήμιόλιος, per misura in senso generico presente già in Ero
doto (V 88), ci è attestato in Platone con accezione musicale: Plat., Tim.
36a ήμιολίων δε διαστάσεων καί έπιτρίτων, «intervalli emiòlii (116) ed
58 L’italiano non ha un termine col quale si esprima il rapporto che i Greci indicavano
con ήμιόλιος e i Latini con sesquialter (Cic., Tim. 20) o con sesqui (aw .) e sesquiplex (Cic.,
orai. 56,188 e 57,193) o anche con bemiolius, tardo calco del greco (G e ll., XVIII 14, 14;
V itr ., I l i 1,4): ‘ emiòlio’ e ‘ sequiàltero’, come ‘ epitrito’, sono voci dòtte, brutte ma inso
stituibili, calchi dei rispettivi termini greci e latini. È noto che a questo passo, citando Aristotele,
si rifanno C icerone (de or. IH 4 7 ,182s.; orat. 56,188; 64,215ss. e 5 7 ,192s.) e Q u in tilia n o
(inst. or. IX 4 ,46s. [sescuplum] e 135s.); cfr. anche Ter. M aur., 1350s s . = GL VI 366.
S. Agostino chiama sesquialter il rapporto 2 :3 (o 3:2) e sesquitertius quello 3:4 (o 4:3), l’uno
e l’altro sesquati (de mus. I 10,17; II 5 ,8; I I 6,10 e 18s.).
58 V. P almieri
epitriti ( l '/ i ) »· Nei Problemi musicali (23, 919 b 11; 35, 920 a 32 e 41,
921 b 2) si parla, accanto al rapporto emiòlio, anche di quello epitrito, ma
per gli intervalli musicali, non per i piedi; da ciò si può forse dedurre che
Aristotele non ammetteva piedi superiori a quattro sillabe ( = cinque tempi
primi). Nella tradizione posteriore, poi, è noto, il numero massimo delle
sillabe dei piedi fu ristretto a tre; Cic., orai. 64,218 iam paean, quod
pluris habeat syllabas quam tris, numerus (‘ ritmo ’) a quibusdam, non pes
habetur·, Dion. Hal., de comp. verb. 17, 111 = VI2 73,7 Us.-Ract. Ρυθμός
δε απλούς ή πούς, οϋτ’ έλάττων ferrea δύο (v i. έστι δυείυ) συλλαβήν οΰτε
μείζων τριών, cfr. anche Quint., inst. or. IX 4, 79 e Mar, Victor., gramm.
1 1 1 = GL VI 44,10; o a quattro: Aug., de mus. I l l 5,11-6,14.
1) άνάπαιστος : Ar., Ach. 627, equ. 504, pax 735, αν. 684
Arisi., poet. 1 2 ,1452 b 23
2) δάκτυλος : Ar., nub. 651s.
Plat., resp. I l l 400b; ήρφος, ibid.
Arist., rhet. I l l 8, 1408 b 32 (ήρφος ρυθμός)
poet. 24, 1460 a 3 (ήρφου μετρον)
3) ίαμβος Ar., ran. 661 (il plur. già in Archil., fr. 215 West)
Plat., resp. I l l 400b; leg. XI 935e; Ion 534c [al.)
Arist., poet. 4 , 1448 b 34ss.; rhet. I l l 8,1408 b 33;
1 7 ,1418 b 29
ίαμβεΐος A r, ran. 1133 e 1204
P lat, resp. II 380a; IX 602b; Euthyd. 291d (al.)
A rist, poet. 4,1448 b 31s.
ΐαμβίζω A rist, poet. 22,1458 b 20; poi. V II 17,1336 b 20 (al.)
ίαμβοποίεω A rist, poet. 22,1458 b 9
4) παιάν/-ιών A rist, rhet. I l i 8,1409 a 2 (A r, Thesm. 1035;
P lat, Ion 534d et al.; Pherecr, fr. 131, 5 Kock)
5) τροχαίος P lat, resp. I l i 400b
A rist, poet. 1 2 ,1452 b 24; rhet. I l i 8,1408 b 36
Res metrica 59
3.1. Se, come abbiamo visto, il piede è diviso dal rapporto interno
delle sue due parti, noi non sappiamo ancóra il nome di queste parti: lo
troviamo per la prima volta in un passo della Repubblica di Platone, tanto
noto quanto discusso, e indubbiamente poco perspicuo per noi e fonte di
molti problem i60: qui interessa, però, solo perché è il piu antico esempio
dell’uso metrico-musicale di άνω e κάτω, che, per me, sono le due parti
59 L en ch antin D e G u b ern atis, Manuale di prosodia e metrica greca cit., p. 48. Cfr. schol.
metr. in Pind., 01. 4,1 = II 107 B oeckh e Mar. P lo t. Sac., gramm. — G L V I 515,21;
H ephaest., 15,23 = p. 55,9 Consbr. 8 Φερεκράτης ένώσας σύμπτυκτον άνάπαιατον καλεϊ
(aliter schol. A ad I. = p. 161,9).
60 Ved. D el G rande, Filologia minore cit., pp. 201ss.; G entili, Metrica greca arcaica cit.,
pp. 55s.; I d ., « La metrica greca oggi » d t., in Problemi d t., pp. 26s.; L enchantin D e G uber
natis , « Problemi » cit., in Introduzione cit., pp. 402s. Il punto è fatto dal D over: A risto
phanes, Clouds edited... by K. J. D over , London 1970, p. 131, nota a v. 651. La storia del
l’interpretazione in E. Cocchia, L'armonia fondamentale del verso latino, II, Napoli 1920,
pp. 439ss.; ma cfr. anche R. P retagostini, « Le prime due sezioni liriche delle Nuvole di
Aristofane e i ritmi κ α τ’ ένόπλιον e κ α τ ά δάκτυλον (Nub. 649-651) », in Quad. Urb. cult,
class, n.s. I I (1979), pp. 119-129 (con bibliografia). Sulla questione ritornerò in altra sede.
60 V. P almieri
uguali del dattilo. Parlando della teoria di Damóne sullWAor dei ritmi, So
crate continua (Plat., resp. I l i 400b):
οΐμαι Sé με άκηκοέναι ού σαφώς ένόπλιάν τέ τινα όνομά-
ζοντος αύτοΰ ξύνδετον καί δάκτυλον καί ήρψόν γ», ούκ οΐδα
δπως διακοσμοϋντος καί ίσον άνω καί κάτω τιθέντος, εις βρα
χύ τε καί μακράν γιγνόμενον, καί, ώς έγώ οίμαι, ’ίαμβον καί
τιν’ άλλον τροχαίον ώνόμαζε, μήκη δε καί βραχύτητας προσ
ήπτε
« credo, anzi, di averlo ( = Damóne) sentito, non chiara
mente, chiamare un (ritmo) enòplio composto e un altro dattilo
e precisamente eròo, distribuendone non so come e stabilendone
uguale 1’ άνω ( 'il su ’) e il κάτω (‘ il giu ’), terminante sia in
breve che in lunga, e, com’io credo, chiamava un altro giambo
e trochèo, e attribuiva ad essi durate lunghe e brevi » 61.
3.2. Per saperne di più, bisogna leggere Aristòsseno (IV see. a.C.).
Prima di esaminare alcuni passi specifici della sua opera, è opportuno ricor
dare taluni principi della sua teoria, a) Egli definisce il ritmo « una succes
sione ordinata di tempi » (χρόνων τάξις, el. rhythm., fr. 1 Pighi ~ Plat., leg.
II 664e ed Arist., probi. V 16, 882 b 1), che si può realizzare mediante
gli elementi di ciascuno dei tre ritmabili: lingua (in poesia e in prosa, λέξις),
melodia (musica e canto, μέλος) e danza (κίνησις σωματική), ognuno con una
unità di misura propria, che si identifica col tempo primo, χρόνος πρώτος (el.
rhythm. 278 Morelli = p. 19, 15 Pighi). b ) II χρόνος πρώτος, che è l’unità di
misura del ritmo, è indivisibile: πρώτος μέν τών χρόνων ό ύπό μηδενος τών ^υθ-
μιζομένων δυνατός ών διαιρεδήναι (el. rhythm. 280 Μ. = ρ. 19, 21 Ρ. ~
Psell., prolamb. 7) e, piu elementarmente, Arist. Quint., I 14 = p.
32,11 W .-I. πρώτος μέν cuv έστι χρόνος άτομος καί έλάχιστος, δς καί
σημείον καλείται. Aristòsseno tom a spesso a precisare il χρόνος πρώτος, sotto
diversi punti di vista, fra cui uno dei piu importanti è el. rhythm. 282 M =
p. 20, 10 Ρ. έν ζ> δή χρόνφ μήτε δύο φδόγγοι δύνανται τεδήναι κατά μηδένα
τρόπον, μήτε δύο ξυλλαβαί, μήτε δύο σημεία, τούτον πρώτον έροΰμεν χρόνον, « la
durata in cui né due suoni (note del μέλος) possano porsi in nessun modo, né
due sillabe (della λέξις), né due segni (figure della κίνησις σωματική o passi
di danza), questo diremo tempo primo », cfr. ibid. 5ss. P.; 284 M. = p.
20, 25ss. P.; 286s. M. = p. 21,7ss. P., ecc. c) Il χρόνος πρώτος, eviden-
61 II R ossi (Metrica e critica stilistica cit., p. 84) scrive: « l’ultima frase, per non costituire
una ripetizione di eie, βραχύ τε καί μακρόν γιγνόμενον di poco prima, significherà: “ diede
ad essi certe lunghe e certe brevi ”, stabili cioè per i ritmi nominati un certo tempo... ». Sbaglia
certo il R aderm acher, seguito da altri, ad intendere qui ήρψον nel senso di spondèo; contra
giustamente il G e n tili con W ila m o w itz e con K oster (G e n t ili, op. cit., I.I.).
Res metrica 61
62 Ma, forse più verosimilmente, « σημεΐον significò più solitamente il nucleo elementare e
composito che assomma tempo primo musicale e sillaba breve insieme col moto di danza che
poteva accompagnarli » (D el G rande, La metrica greca cit., p. 268); e ancóra: i σημεία o
‘ segni ’ « in unità indissolubile costringono sillaba, figurazione e nota del canto » (Id., ibid.,
ρ. 225). Si ricordi P lat., leg. I I 654b χορεία... βρχησίς τε καί ψ δή σύνολόν έστιν e 672e
8λη μέν που χορεία 8λη παίδευσις ήυ ήμΐν κ τλ . Aristide Quintiliano (I 14 = ρ. 32,13
W el.) scrive σημεΐον δέ καλείται διά τδ άμερές είναι, come in geometria il punto e in arit
metica l’unità, ma poi continuando concorda nel riconoscerlo nella λέξις, nel μέλος e nella
κίνησις σω ματική ( ~ M art. Cap ., IX 971 = ρ. 374,1 W i l u s ). È noto, poi, che σημεΐον/
σήμα era la ‘ lettera-nota’ nella semeiografia musicale: ved. G. B. P ighi, «Ricerche sulla nota
zione ritmica greca », in Studi cit., pp. 207ss.
63 Concorda fragm. Par. 5 = p. 21 F ighi λεκτέον καί περί ποδός, τ ί ποτέ έστι. καβόλου
μέν νοητέον πόδα φ σημαινόμεβα τόν όυβμόν καί γνώριμον ποιοϋμεν τ ή αίσβήσει. Riprende
la definizione Mario Vittorino in un passo in cui segue Aristòsseno, poco prima espressamente
nominato (gramm. I 11 = GL VI 43,9): pes est certus modus syllabarum, quo cognoscimus
totius metri speciem, compositus ex sublatione et positione.
M Trascrive del pari P sell ., prolamb. 14 = p. 21 P ighi έξ ένός δέ χρόνου πούς οΰκ &ν είη,
έπειδήπερ έν σημεΐον ού ποιεί διαίρεσιν χρόνου. άνευ γάρ διαιρέσεως χρόνου πούς ού δοκεϊ
γίνεσβαι. A rist . Q uint ., I 13 = ρ. 45,23 W.-I.: « il ritmo (è) nato da almeno due tempi
diversi» (έκ δυεϊν άνομοίων τούλάχιστον), cioè da un tempo breve e uno lungo ( w — ) o
viceversa (— 1_/); ved. T er. Maur ., 1340ss. = G L VI 365 ... una longa non valebit edere
ex sete pedem, / ictibus quia fit duobus, non gemello tempore; / brevis utrimque sit licebit, bis
ferire convenit, dove ictus indica le due parti del piede, l’arsi e la tesi, come spiega D iomede,
gramm. I l i = GL I 475,3, ripetendo Terenziano Mauro. Per curiosità, si ricorda che in
età moderna c’è stato chi (G. Caramuel, « Prodromus metametricus », in Primus calamus...
Metametricam et Rbythmicam, Roma, Falconius, 1663) nella teoria dei piedi distinti dal numero
delle sillabe ha stabilito « come piedi monosillabici quelli di valore w ovvero —, “ senza
nome ” » (D el G rande, La metrica greca cit., p. 158), perché ovviamente non li trovò nella
62 V. P almieri
tradizione metrica greca e latina. Cfr. Aug., de mus. V 2 ,2 nihil individuum per tempus tendi
queat e I I 3 ,3 num igitur potest sibi una syllaba comparari?
65 « Non si deve dimenticare che Aristòsseno qui [el. harm. 34 Meib. = p. 43,15 D a
R io s] parla in astratto e che per lui “ piede ” non significa questo o quel piede, e tanto meno
elemento concreto di un concreto verso, bensì piede in astratto, sottoponibile ad un qualunque
processo di misurazione astratta» (Rossi, Metrica e critica stilistica cit., p. 57, nota 133). Ved.
M oreno, « Sistema y realización en la mètrica » cit., pp. 44s. per la distinzione tra 1 forma ’
astratta e ‘ schema ’.
66 II passo è di difficile interpretazione sia per il significato di παντελώς (« generalmente »,
Pighi; « tro p p o » , S e tti), sia per il valore di σημασία («segnalazione», Pighi e S e t t i) : «una
serie ritmica isocronica, tutta di brevi congiunte due a due,... che... se viene battuta dà, per la
frequenza delle battute, un’impressione urtante» (S e tti, « Ictu s e verso antico» cit., p. 156).
Ved. anche schol. B in Hephaest. 20,4 = p. 299,9 C onsbr. Si può forse accostare l ’osser
vazione che C icerone [de or. I I I 47,182) fa sull’uso del giambo e del trochèo nelle clausole
ritmiche, seguendo Aristotele: sed sunt insignes percussiones eorum numerorum et m inuti pedes,
« ma le loro battute sono troppo accentuate e i piedi troppo piccoli »; cfr. anche M a r t. Cap .,
IX 981 = p. 378,10 W illis ex (?) A r is t . Q uint, σημασία = percussio, «battuta di tem po»
conforme al ‘ ritmo del piede ’. Ma riguardo alla ‘ legittimità ’ del piede di due tempi
primi si constata qualche incertezza nei frammenti a noi noti di Aristòsseno, come risulta da
el. rhythm. 290 M. = p. 21,26 P . τοϋ δέ λαμβώνειν τον πάδα πλείω τώ ν δύο σημεία τά
μεγέθη τώ ν ποδών αίτιατέον. οί γάρ έλάττους τώ ν ποδών, εύπερίληπτον τ ή αίσθήσει τ4
μέγεθος έχοντες, εύσύνοπτοί είσι κ α ί διά τώ ν δύο σημείων, « del fatto che il piede prenda
piu di due segni ( = tempi primi) sono da incolpare le grandezze dei piedi. Infatti i piedi piu
piccoli, avendo la grandezza ben percepibile per la nostra percezione, sono ben comprensibili
anche per mezzo di due segni (tempi primi) ». Una spiegazione di questa incertezza si può forse
vedere nel fatto che il ‘ pirrfchio ’ non trovava impiego nella poesia, almeno, ma forse neppure
nella musica, in serie continue e per componimenti interi, come anche nel fatto che esso, in
assenza di ‘ battute ’ divisionali fisse in senso moderno, veniva facilmente inserito in unità
maggiori (proceleusmàtici, peóni e ionici): ved. infra (5.10) e fragm. Par. 11 = p. 28,19 P.
Res metrica 63
71 Cfr. Sach s , op. cit., pp. 268s.; M oreno, « Systema y realización en la mètrica » cit., p . 41.
Res metrica 65
'άνω κάτω
2 1 /
ww : w > w w : w { f i . J 1 o JJ1) trochèo
n sintesi: w w w (J'J'J1) ovvero
άνω κάτω
1 2
, w : ww > & : w w (J'J'J') tribraco
κάτω άνω
2 1
w w : w > w w : & (J'J'J') tribraco
e viceversa ovvero
κάτω άνω
1 2 /
w · w w > v_, : > w, : -£- ( J1JJ. ° J'J) giambo
L ’ovvero (ή) di Aristòsseno non distingue piedi diversi, che non dice
ό/οί μέν... ό/οί δέ..., ma distribuisce (e icta) diversamente lo stesso piede di
tre tempi primi o brevi, il tribraco, di cui trochèo e giambo non sono che
le due ‘ specificazioni ’ possibili, le due forme concrete e reali che il trisèmo
ammette accanto al tribraco.
c) I piedi di quattro tempi primi hanno due tempi άνω e due κάτω;
la figura è quella del proceleusmàtico w w : ww (J1J 'J 'J 1). Il Del Grande
ancóra una volta parla tout court solo di dattilo e anapesto; ma bisogna
aggiungerci anche lo spondèo. La interpretazione del Del Grande è anche
qui erronea e per di più non coerente con la sua tesi. Infatti egli afferma
a piu riprese che l’anapesto ha ritmo ascendente, dunque άνω/κάτω (ο,
qualora se ne inverta il valore, κάτω/άνω); ma col suo ragionamento l’ana
pesto qui non troverebbe legittimamente luogo, perché, se i due tempi άνω
in prima sede sono congruenti nel dattilo, non lo sono nell’anapesto; e Ari
stòsseno non ha distinto qui (— w w / w w —) come in b) per giambo e
trochèo (w — / — w) con la disgiuntiva ή, ovvero. Pertanto anche nel terzo
gruppo dei piedi considerati, scendendo dalla pura figurazione teorica alla
realizzazione pratica, dobbiamo vedere w w ; ww (JJ. J J . ) = —■— o — :u-
(JJ) = u- : w w (JJJ. ) o w w ; j_ (j3 .J), cioè dal proceleusmàtico
all’anapesto άνω/κάτω e viceversa. Si può invocare ancóra Aristide Quin
tiliano (I 15 = p. 35, 7 W.-I.) προκελευσματικός διπλούς (per distinguerlo
dall’ απλούς, come egli chiama anche, si è visto, il pirrichio) έκ δύο βραχειών
έπί ϋέσιν καί δύο βραχειών έπ’ άρσιν καί άνάπαλιν (qualunque sia il preciso
valore di άρσις e di θέσις); I 24 = p. 4 8 ,4 W.-I. τό δ’ άντίστροφον τούτιρ
(scii, δακτυλικψ) τό άναπαιστικόν δέχεται πόδας δάκτυλον... καί τον ισόχρο
νον σπονδείον και τόν προκελευσματικόν e Mart. Cap., IX 981 = p. 378, 5
Willis; cfr. Aug., de mus. II 14, 26 plausu etiam sibi congruunt (i 4 piedi).
66 V. P almieri
72 Fra altri, D e l Grande, La metrica greca cit., pp. 217. 219: « Γ άνω corrisponde sempre
alla prima parte del piede, ed il κ ά τω alla seconda». 221ss. 228 e passim; I d., Filologia
68 V. P almieri
άνω κάτω
giambo
trochèo
v_/ dattilo
'w 'V - ' W<w> anapesto
é con Γ άνω che costituisce sempre la prima parte e κάτω sempre la seconda
I parte di ogni piede, come se άνω e κάτω fossero l ’uno e l’altro .sinonimi
' di λόγος, esprimenti solo il rapporto interno fra le due parti di ciascun
piede, senza un preciso valore proprio, senza una specifica autonomia seman
tica 73. E dove finisce, cosi, la teoria del ritmo ascendente opposto a un ritmo
minore cit., p. 247; I d., ΦΟΡΜΙΓΒ cit., pp. 13 e 21. Il Del Grande distingue il ritmo (άγω γή)
del piede e del verso in ascendente (che muove dalla breve alla lunga) e discendente (che muove
dalla lunga alla breve), distinzione che egli fa risalire a Damóne: cfr. D e l G rande, La metrica
greca cit., pp. 216ss.; 223ss. I d., Filologia minore cit., pp. 233ss.; ma contra G entili, ree. cit.,
p. 541 e Fabiano, « Problemi » cit., in Introduzione cit., II, p. 397, nota 8. Ma, poi, con la
tesi dell’ άνω sempre prima del κ ά τω per Aristòsseno, posteriore a Damóne, il D el G rande
sembra accedere alla tesi assurda e tutta da dimostrare (cfr. Setti , « Ictus e verso antico » cit.,
p. 157, nota 4 e p. 159), che i piedi metrici avessero natura sempre discendente e i metri greci
fossero originariamente tutti discendenti (influsso del nostro ritmo tetico!?), vedendo un pas
saggio e un divario tra Damóne e Aristòsseno, mentre altrove (per esempio, ΦΟΡΜ ΙΓΞ cit.,
p. 17) scrive che Aristòsseno « mantenne la guida dell’ ά γω γή , cioè dell’avvio ritmico ascen
dente o discendente, a discernere il tempo, ma includendovi anche l’idea d’agilità e lentezza del
ritm o» (ved. anche pp. 18 e 21; I d ., La metrica greca cit., pp. 219ss. e 256s. e Filologia minore
cit., pp. 247 . 252ss. e 445s.). La metrica greca del D el G rande è un libro ambizioso, ricco di
dottrina, ma anche di incongruenze e di errori, non solo di stampa, per cui l’A. disse (per
lettera 4.XI.1965): «non è un libro felice». Egli riconobbe la validità e il merito della mia
interpretazione fondata « su piedi costituiti soltanto di e da essi risalire ai piu soliti », giun
gendo a dire: « Ella potrebbe aver ragione », ma senza accettarla, perché non vedeva chiaro il
valore di άνω e κάτω. Valga questo ricordo a testimoniare la probità dello studioso.
73 « Mentre Damone, con i termini άνω e κάτω indicava sia la relazione delle parti nelle
quali veniva diviso il piede, quanto quella dei due piedi uniti a formare la base dipodica (ed
άνω "era" pertinente sempre all’inizio, κ ά τω sempre alla chiusa), Aristòsseno si avvaleva dei
medesimi termini ad indicare le parti che formavano il piede o il metro, nel senso di relazione
di quantità; a significare il flusso del moto agogico introdusse i termini άρσις e βάσις nell’acce
zione definitiva che fu poi di άρσις e Οέσις. L’innovazione ebbe un certo suo perché, come
vedremo in seguito» (D el G rande, La metrica greca cit., p. 221); e poi, completando, a
p. 245: in Aristòsseno troviamo la « particolare mensuralità di piedi e metri, con la notizia
specifica dei tempi primi, e la divisione di ciascuno secondo άνω e κάτω e la misura delle rit-
mopee per άρσις e βάσις... ». Ma questo non è esatto, perché il testo di Aristòsseno pone
l’equivalenza di άνω con άρσις e di κ ά τω con βάσις e con 9έσις, come già altri hanno Visto,
pur se identificando άνω « tempo debole » e κάτω « tempo forte »: R. W estphal, A ristoxenus
von T arent, M elik und Rhythmik des classischen Hellenthums. Obersetzt und erlautert durch
R. W., Leipzig 1883 (fotorist. 1965), p. 24: « άνω χρόνος Aufschlag κάτω χρόνος Niederschlag...
άρσις Hebung βάσις N iedertritt», mentre «bei der spateren (Aristides, Lateinern): άρσις
sublatio ίέσ ις depositio»; p. 82 e passim·, F. Lasserre, P lutarque, De la musique. Texte, tra
duction, commentane... par F. L. (« Bibliotheca Helvetica Romana », I), Olten-Lausanne 1954,
pp. 65s. Scrive il Rossi («Sul problema de.\[’ictus » cit., p. 128): « S i tratta di una contrappo
sizione, sempre beninteso quantitativa, che si può esprimere con ‘ quantità «/quantità b) ’ »:
Res metrica 69
discendente, se, andando tutti i piedi dall’ άνω al κάτω, sarebbero solo e
tutti di ritmo discendente (o, inversamente, ascendente)? E sembra strano
che il Del Grande, musicologo qual era, che combatte giustamente a più
riprese contro l’hermanniana anacrusi74, non si sia avveduto che la sua
erronea interpretazione del passo aristossenico lo imprigionava nella stessa
άνω κάτω κάτω άνω
rete: — è ^ —, solo se si ha — : u w jì —
άρσις βάσις/θέσις βάσις/θέσις άρσις
si, ma perché άνω e κάτω? e perché άρσις e δέσις? Del Rossi ved. anche Metrica e critica
stilistica cit., p. 65, nota 153.
7< Ved., per esempio, D el G rande, La metrica greca cit., pp. 283s.: «Nessuna “ novità”
di metridsta moderno ebbe piu sèguito, eppure nessuna contrasta piu palesemente alla conce
zione del ritmo, quale fu propria in antico. Per i Greci, come si è dimostrato, v’erano due
άγω γα ί ritmiche fondamentali, ascendente e discendente. L’anacrusi, portata in genere sui ritmi
giambico-anapestici, ha per suo fine di annullare il ritmo ascendente a favore del discendente,
considerato unico e assoluto. D ’altra parte, ed è qui il suo punto debole, l’anacrusi nasce dal
desiderio di assimilare il ritmo antico a quello della musica moderna, non in sé, ma nell’appa
rente disposizione, visivamente creata dai tagli delle battute»; ved. anche R ossi, Metrica e
critica stilistica d t., p. 17 e pp. 24s. con nota 64.
70 V. P almieri
75 II R ossi ha fatto giustizia dell’erronea estensione, operata soprattutto dal B oeckh, del
concetto di irrazionalità dei piedi: ved. Rossi, Metrica e critica stilistica cit., praesertim pp.
13ss. 25ss. 40ss. e 49ss. Ma a me pare che non si è evitato l’eccesso opposto: a parte i
termini « irrazionale/-lità », anche da me conservati in omaggio alla tradizione, ma che andreb
bero abbandonati, perché ‘ matematicamente ’ imprecisi, il testo di Aristòsseno va interpretato
più estensivamente, altrimenti le acute osservazioni del R ossi (op. cit., p. 51 e nota 116) do
vrebbero indurre a limitare 1’ ά λ ο γία al solo elemento breve del corèo (trochèo?): il che è
contraddetto da molti passi dello stesso Aristòsseno. Cfr. infra (5.10); ved. anche il mio Dizio
nario di metrica greca e latina (in corso), s.v. Ritornerò sul problema altrove.
76 Ved. Setti, « Ictus e verso antico » cit., p. 152, nota 2 . I l D el G rande, invece, afferma
(La metrica greca cit., p. 251): « il trasferimento delle dizioni τό άνω e τό κάτω ad “ arsi ”
e “ tesi ” , con richiamo specifico, è in Aristide Quintiliano (I 13, p. 21 J.), ed è ovvio che
debba essere riportato molto piu su nel tempo ».
Res metrica 71
α. β. κάτω άνω
—, mentre il testo aristossenico vuole —
1 2 2 1
Nell’indicare le sette differenze con cui si distinguono i piedi (μεγέθει,
γένει, λόγ(ρ/άλογί$ [ρητοί/άλογοι], άσύνδετοι/σύνθετοι, διαιρέσει, σχήματι,
άντιθέσει), Aristòsseno scrive che la « settima differenza è quella secondo la
quale i piedi differiscono per contraria posizione delle loro parti » (el. rhythm.
298 M. = p. 23,27 P. έβδομη δέ, καθ’ ήν άντιθέσει da integrare con 300 M.
= p. 24,10 P. άντιθέσει Si διαφέρουσιν άλλήλων οΐ τον άνω χρόνον προς τον
κάτω άντικείμενον έχοντες, « che hanno il tempo άνω invertito rispetto al
κάτω »): dunque 1’ άνω non era né poteva essere sempre la prima parte del
piede né il κάτω sempre la seconda parte; non era cosi per Aristòsseno né
doveva presumibilmente essere cosi per Damóne. Fu, invece, cosi solo per
qualcuno dei tardi grammatici, non per tutti, anche quando la loro termi
nologia mostra una apparente confusione e contraddizione. Per esempio,
Isidoro, etym. I l i 20, 9 Lindsay arsis est vocis elevatio, hoc est initium.
Thesis vocis positio, hoc est finis vs I 17,21 (ved. 5.3); ma questa defi
nizione isidoriana si legge nella sezione De musica (III 15-24), men
tre l’altra si trova nella sezione De grammatica del capitolo De pedibus
(I 17): qui, nell’uso dei termini per arti diverse — musica e poesia — ,
risiede e qui si deve cercare la spiegazione di presunte contraddizioni (4.7) π .
Invece non si comprende, se non pensando ad una vera abusio, Serg., de
77 Esula dal mio compito in questa sede ripercorrere la storia semantica dei termini arsis
e thesis in latino, che pure sono venuto inevitabilmente toccando e toccherò piu da vicino
infra: si può vedere J. Caesar, De verborum arsis et thesis apud scriptores artis metricae La
tinos significatione, Marburg 1885 (Ind. Lect.). Per parte mia, mi riesce difficile credere che
tanti autori antichi, non privi d ’ingegno, abbiano equivocato e confuso il valore dei due termini
tanto frequentemente da contraddirsi spesso in luoghi molto vicini. Unica possibile e ragio
nevole spiegazione della * teoria ’ che nella musica l’arsi sia l’inizio e la tesi la fine del movi
mento della voce (e del piede nella danza), è pensare all’ipotesi, condivisa dai moderni tratta
tisti musicali, che non vi possa essere riposo (tesi), se prima non vi sia stato movimento (arsi)
della voce, come non c’è posa del piede nella marcia/danza, se già non c’è stato innalzamento;
perciò la tesi (posa) sarebbe sempre preceduta dall’arsi (slancio), ma si tratta di due ‘ momenti ’
reciprocamente connessi. Ved., per esempio, A urelii A ugustini De musica a cura di G. M arzi
(«Collana di classici della filosofia cristiana», I), Firenze 1969, p. 33: « la prima parte di ogni
piede appartiene sempre alla ‘ levatio ’, si da avere
L P L P
2 -1 —
4 P P. r Γ .PP
Se cosi non fosse non sarebbe ammissibile il dattilo in serie anapestica e viceversa, poiché,
determinandosi la “ positio ” sempre sulla lunga, si verrebbero a trovare accanto " positio ”
dell’anapesto e “ positio ” del dattilo; ciò che è contrario alla legge naturale (per la quale non
vi può essere “ positio ” se prima non c’è stata “ levatio ”) e alla essenza stessa del ritmo... ai
momenti fondamentali del ritmo stesso (slancio e posa) S | P ». Nel discorso del M arzi i termini
sono ‘ invertiti ’ e si ravvisano altri problemi, ma la teoria in sé è diffusa: ved. Id., ibid.,
72 V. P almieri
pedibus = GL IV 480, 12 jczVe etiam debemus, quod uni cuique pedi accidit
arsis et thesis, hoc est elevatio et positio; sei)prsis in prima parte, thesis in
secunda ponenda est (da confrontare con TSerg.], explan, in Don. I =
ibid. 523,1).
Identica conclusione si deduce considerando anche la sesta differenza
(298 M. = p. 24,8 P. ~ PselL, prolamb. 16, ibid.): σχήματι δέ διαφέρουσιν
άλλήλων, όταν τά αύτά μέρη τοΰ αύτοΰ μεγέδους μή ωσαύτως η <διηρημένα>
(τεταγμένα Psell.), « per figura differiscono (i piedi) l’uno dall’altro, quando
le stesse parti (s’intende &νω/κάτω) della stessa grandezza non siaflo distri
buite (ordinate) allo stesso modo ».
pp. 40; 649ss. c note 17 e 22; del resto, però, nello stesso S. Agostino almeno una volta
(de mus. I I 10,18) la positio è indicata prima della levatio: tantundem temporis in bis [spon
dèo, dattilo,' anapesto, proceleusmatico, coriambo, digiambo, ditrochèo, antispasto, dispondèo]
ponit plausus [ = habet positio], quantum levat [ = levatio]; dunque i due termini, qui inver
titi, indicano ciascuno sia la prima che la seconda parte del piede. Comunque sia, cotesta
‘ inversione ’ dell’uso (e del significato) di arsi e tesi si riscontra quasi sempre in passi relativi
alla musica e al ritmo rispetto alla poesia o alla prosa e al metro; ma, per esempio, D io m .,
gramm. I l i = G L I 474,31, nel capitolo De pedibus afferma: pes est poeticae dictionis
duarum ampliusve syllabarum cum certa temporum observatione modus recipiens arsin et thesin,
id est qui incipit a sublatione, finitur positione.
78 Ved. A ristoxeni, Rbythmica. Elem. rhythm., Psell., Exc. Neap. (R. W estphal 1867),
POxy 9 (G renfell, H unt , B lass 1898), con traduzione di G. B. P ighi, Bologna 1959, pp. lss.
77 Ved. Setti, « Ictus e verso antico » cit., pp. 153s., la recensione del Rossi (« Sul pro
blema dell’ictus » dt.), p. 128: « un passo disperatamente corrotto » e ancóra Setti, « Repli
cando sull’ictus » d t., p. 388.
80 Π P ig h i (G. B. Pighi, « ‘ Im pressio’ e ‘ percussio’ in Cic., de orai. 3,185-186», in
Vantiquité classique XXVIII [1959] = Studi d t., pp. 72s.) segue l’opportuna integrazione del
Jan (Exc. Neap. 12, p. 414) dopo πούς (ftpffei καί θέσει, έστ 1 γώ ρ), ma è supplemento invero
non strettamente necessario.
Res metrica 73
84 « Se la mia interpretazione del passo degli Excerpta è giusta, Aristòsseno doveva avere
dimostrato che il rapporto da maggiore a minore sussisteva anche quando il rapporto di durata
era di 1 a 1, perché la διάνοια sceglieva, a suo arbitrio, uno dei due termini, attribuendogli
un valore di “ in giu ”, col che automaticamente l’altro termine prendeva il valore di “ in su
e ciò si traduceva esteriormente col segno della σημασία eseguita dalla mano o dal piede. Noi
diremmo che si tratta d’un fatto d ’attenzione: quello stesso per cui, in una serie di note uguali
e uniformi, possiamo “ immaginare ” qualsivoglia figura ritmica, fissandoci ora su una nota si
e una no, ora su una si e due no, e cosi via cambiando a nostro gusto» (P ighi, art. cit., p. 73).
85 S e tt i, « Ictus e verso antico » d t., pp. 153s. e Id., « Replicando sull’iciar » cit., pp. 388s.
86 Va precisato che il Setti ignorava, come mostra anche nella nota 1 di p. 152, la nuova
e piu completa lettura del passo data dal Pighi.
87 Sarebbe possibile, ma è meno tecnico e meno usato, anche ήττω ν: ved. A r is t ., probi.
XI 48,904 b 12 εικότως ούν τό τε μάλλον άκούομεν, δτα ν ή ττω ν ό ψόφος ή ' ή τ τ ω ν γάρ ό
ψόφος, δταν κατέχωμεν τό πνεύμα, « quando tratteniamo il respiro » XXXII 9,961 a 17 ό
μείζων ψόφος τόν έλάττω έκκρούεται (« scacda »).
Res metrica 75
cano suono: l’uno, άνω, l’alto o l’acuto, l’altro, κάτω, il basso o il grave; «τ
ι quali significati derivano facilmente ai due avverbi, anche quando sono
usati da soli, per traslato dal loro senso locale originario rispettivamente
di “ s u ” e “ g iu ” 8889. Ved. Arist., probi. XIX 37, 920 b 19 καί έργον τα
άνω άδειν’ g£ βαρ| α κάτω, « è difficile cantare le note alte, mentre le
gravi sono basse » (il testo non è però del tutto sicuro); 4, 917 b 37 έλαφρόν
το άνω βάλλειν, « sono facili i salti verso l ’alto » (Marenghi) della scala
diatonica; Plutarch., Cic. 3, 3 φωνή ... άεί διά των άνω τόνων έλαυνομένη,
« spinta sempre ai toni alti »; anche in uso assoluto, Arist., probi. XIX
3, 317 a 31 ούχ ήττον ή τήν νήτην καί τα άνω, «non meno che (into
nando) la nete e le altre note del registro alto »; Aristox., el. harm. I
19, 26 Meib. ■=■ p. 25, 2 Da Rios τρίτον δέ καί άνώτατον το έναρμόνιον,
« il terzo (genere) e il piu elevato è l’armonico ». Anche il suono era (ed è)
misurato come grandezza: Herodot., I l i 62 ούκ έστι... οκως τι νεϊκός τοι
έσται ή μέγα ή σμικρόν; Arist., probi. XIX 12, 918 b 1 το βαρύ μέγα έστίν;
13, 918 b 6 ~ 8, 918 a 20 μεϊζον το βαρύ; Soph., Phil. 514 άν λέγης δέ μή
φώνει μέγα; Arist., probi. XI 37, 903 b 16 ή φωνή... μείζων ούσα άκούεται
μάλλον e 59, 905 b 24 γίνεται έλάττων μέν ή φωνή...; Xenophon, cyn. 6, 20
già citato (2.8); Arist., probi. XIX 37,920 b 16 διά τί τοϋ έν φωνή
οξέος οντος κατά το ολίγον, τοΰ δέ βαρέος κατά το πολύ — το μέν γάρ βαρύ
διά το πλήθος βραδύ, το δέ όξύ δι* όλιγότητα —, έργον μάλλον άδειν τα
οξέα ή τά βαρέα, καί ολίγοι τα άνω δύνανται άδειν...; « perché, l’acuto nella
voce seguendo la legge del meno e il grave quella del piu — e infatti il
grave è in ragione della sua maggiore quantità lento e l’acuto veloce per la
sua quantità minore — , è piu difficile cantare all’acuto che al grave e sono
pochi coloro che hanno la capacità di cantare le note alte...? » w. In questo
88 « Translatum ad seriem quamlibet τ ά άνω id significat quod ordine prius est, veluti in
serie sonorum τ ά άνω i(dem) q(uod) τ ά οξέα, soni acutiores » (H. B onitz, Index Arislotelicus,
Berolini 1870 [fotolisi. 1961], p. 68 b 43, s.v. άνω. 2, con rinvio ai passi riferiti dei Proble
mata). « C’est done par une pure coincidence que le haut et Vaigu sont synonymes dans la
langue d ’Aristote et dans le Iangage moderne » (Ch .-Εμ . R uelle , « Problèmes musicaux d ’Ari-
stote », in Revue des études grecques IV [1891], p. 237, nota 3).
89 Non importa qui rilevare come la scienza moderna dimostri erronea cotesta teoria antica
che identifica όξύτης/βαρύτης con τα χυτή ς/βραδυτής. Essa è formulata molte volte e in vario
modo dagli antichi, come in A r ist ., probi. XI 3,899 a 12 ή δέ μεγάλη φωνή γ ίν ε τα ι έν
τω πολύν άέρα κινεΐν, καί όξεϊα έν τ φ ταχέως, βαρεία δ’ ή έν τ φ βραδέως, e ibid. 6,899 a
26 όξύ μέν έν ψόφιρ το τα χύ , βαρύ δέ τό βραδύ, « l’acuto nel suono è il rapido, il grave è il
lento», il che porterebbe all’equazione w : — = ’ : ', come si legge in [S erg.], explan. in
Von. I = GL IV 531,23 acuta exilior et brevior... est quam gravis, mentre è evidente
che sia l’acuto sia il grave possono essere piu e meno rapidi o lenti: cfr. A rist ., de an. II
8,420 a 31; egli inoltre (gener, an. V 7,787 a 30) considera tra le cause del fenomeno anche la
resistenza dell’aria. Evita la questione A ristòsseno , il quale, accennandovi (el. harm. I 12 —
p. 17,2 D a Rios ) e spiegando il grado (τάσις) della voce, afferma piu precisamente che la voce
76 V. P almieri
capitolo dei Problemi τα άνω #δειν è usato come sinonimo alternantesi con
το άξύ ο τά όξέα #δειν. Si può citare anche Arist., probi. XI 45, 904 a 23ss.,
dove è tutto un giuoco fra άνω e κάτω.
Ma veniamo ad alcuni passi ‘ tecnici ’ di Aristòsseno: el. harm. I 3, 33
Meib. = p. 8, 5 Da Rios περί τής του βαρέος τε καί δξέος διατάσεως λεκτέου
πάτερου εις άπειρου αϋξησίν τε καί έλάττωσιυ έχει..., « bisogna dire della
estensione del grave e dell’acuto, se può crescere o diminuire alFinfinito »;
I 20, 38 = p. 26, 8 ό των παρθενίων αύλών όξύτατος φθόγγος... μεϊζον άν
ποιήσειε τοϋ είρημένου τρις διά πασών, « il suono più acuto degli diiloi par
thenii forma un intervallo maggiore di quello già ricordato di tre ottave »
e alibi saepissime·, I 23,1 = p. 29, 2 το μεϊζον οί μεν συγχωροϋσιν, οί δ’ οίί,
«quello piu grande [scii, intervallo) alcuni lo riconoscono, aliti no »; I
25, 15 = p. 32, 9 ή χρωματική δίεσις τής έναρμονίου διέσεως δωδεκατημόριά
τόνου μείζων έστί, « il dièsis cromatico è piu grande del dièsis enarmonico
di 1/12 di tono»; II 5 2 ,1 0 = p. 65,3 ή ίσον μελωδείται ή έλαττον,
μεϊζον δ’ ούδέποτε « (l’intervallo) ο è uguale ο è piu piccolo, ma non mai
piu grande »; I 20, 20 = p. 25, 20; II 45, 26 = p. 56,14, ecc. In Aristide
Quintiliano la coppia dei due comparativi si trova a indicare talvolta le
diverse quantità del piede, come I 14 = p. 3 3 ,2 7 W.-I. όταν δύο πο-
δών λαμβανομένων ό μέν έχη τον μείζονα χρόνον καθηγούμενου, έπόμενον
δε τον έλάττονα, è δέ έναντίως, ma è notevole l’uso di essi a esprimere inter
valli diversi o diverse altezze di tono, come in 1 7 = p. 11,2 & μέν
έστιν έλάττω, & δε μείζω, καί & μέν σύμφωνα, & δέ διάφωνα... I 9 = ρ. 18, 8
καί μεϊζον έξατόνου σύστημα, πολλάκις δέ καί έλαττον e saepius.
La parola πούς tràdita nel discusso passo dell’anonimo fa qualche diffi
coltà, perché a stento si può intendere « la parte del piede che è... » Si può
pensare a τόπος (scil. τής φωνής), mal trascritto perché già corrotto o non
ben inteso, oppure, con lo stesso significato, a τόνος, indicante la regione
dell’altezza sonora della voce (φωνή), distinta in alta, media e bassa. « La
parola τόΐόος è usata qui nel significato di grado di acutezza o di gravità o
di intonazione (Ruelle, op. cit., p. 15, nota 3). Le opposte direzioni sono
l’acuto ed il g rav e» 90; Aristòsseno definisce il tono cosi: τόνος δ’έστίν
τό διά πέντε τού διά τεσσάρων μεϊζον (el. rhythm. II 46, 1 Meib. = p. 57, 1
si muove verso l ’acuto o verso il grave, ma la nostra sensazione ci fa sentire anche che essa si
arresta ad una determinata tensione o altezza: φαίνεται Si τοΰτο ποιεϊν èv τ φ μελφιδεϊν ή
φωνή' κινείτα ι μέν γάρ έν τ φ διάστημά τ ι ποιεϊν, ϊσ τα τα ι δ ’ έν τ φ φδόγγιρ, « evidente
mente la voce fa questo nel cantare: si muove infatti nel fare un intervallo, ma si ferma sulla
nota ».
90 R o s e tta Da Rios: A r isto x e n i Elementa harmonica recensuit R. D. R. (« Scriptores
Graeci et Latini consilio Academiae Lynceorum editi»), Romae 1954, p. 20, nota 2.
Res metrica 77
3.7. Qual era questa differenza di ‘ tono ’ fra l ’arsi e la tesi? Impos
sibile precisarlo per lo stesso Anonimo (δλως); né forse la ritmopea ne espri
meva una fissa e precisa: variava la quantità delle sillabe in una concreta
performance, doveva variare anche la differenza di altezza degli ‘ ictus ’ delle
diverse arsi rispetto alle tesi dei vari piedi.
Spesso si afferma91 che in greco la sillaba tonica di una parola veniva
pronunziata con un intervallo di quinta (διά πέντε) sulla sillaba atona, ba
sandosi sull’interpretazione erronea di un passo di Dionigi di Alicarnasso
(de comp. verb. 11,58 = V I2 40,17 Us.-Rad.); ma è stato giustamente
osservato che « un salto di quinta fra sillaba tonica e sillaba atona è cosa
inammissibile in una rapida successione di sillabe » 92. D ’altra parte noi com
prendiamo e traslitteriamo in notazione moderna i due differenti sistemi di
notazione (strumentale, piu antica, e vocale, piu tarda) usati dai Greci, ma
ci sono sconosciute le loro vere altezze sonore93. Di certo si può solo rite
nere che, essendo l’accento greco di natura musicale, la differenza" distintiva
fra sillabe sottoposte ad accento e sillabe atone era di elevazione tonale: l’in
tensità poteva o doveva coesistere, ma non era il tratto prosodico ‘ perti
nente ’ in greco. Analoga, se non uguale elevazione tonale (e rafforzamento
intensivo) doveva comportare l’arsi di ogni piede rispetto alla tesi.
bistorique du mycénien et du free ancien (« Tradition de l ’humanisme », IX), Paris 1972, § 338,
p. 294.
52 G. Scarpat, «Una testimonianza di Dionigi di Alicarnasso», in Paideia V (1950),
p. 103.
93 S a ch s, op. cit., p. 203; D e l Grande, La metrica greca cit., p. 419. « ‘ A lto ’ e ‘ basso’...
debbono aver significato... probabilmente qualche cosa che i Greci stessi trovavano difficoltà
ad afferrare e descrivere — altrimenti sarebbero stati più espliciti» (Sachs, op. cit., p. 255).
Per i Greci &νω/&ρσις significava sempre e in ogni caso « alto, la parte ascendente » come
κάτω/Οέσις «basso, la parte discendente»: su questo non erano possibili dubbi né equivoci,
si che la ‘ competenza linguistica ’ e la ‘ competenza metrica ’ consentivano all’autore di tra
smettere e alPuditore/lettóre di ricevere il messaggio.
94 Contra, giustamente, Setti, « Ictus e verso antico » cit., pp. 146s. 157 e passim.
95 D e l Grande, La metrica greca dt., p. 252: « quando una parte del piede si elevava,
accrescendosi per pronuncia espiratoria intensiva, non si poteva dire di essa che fosse in tesi, o in
abbassamento». Ma « l’ertore grossolano», come lo ha chiamato G. S ch u ltz, «Bcitrage zur
Res metrica 79
pratica didattica non far coincidere con la battuta del piede o della mano
{ictus'.) il tempo in battere o forte e quindi la sillaba accentata, e, per con
verso, il sollevamento del piede o (del dito) della mano con il tempo in
levare o debole e quindi con la parte del piede metrico non sottoposta ad
ictus intensivo; di conseguenza tesi assunse il senso di arsi e viceversa:
δέσις > lat. arsis e άρσις > lat. thesis%.
Orbene, che una sovrapposizione e persino confusione del significato
dei due termini ‘ arsi-tesi ’ sia riscontrabile nelle definizioni e nella termi
nologia dei teorici greci e latini, è certo innegabile; ma, come accennavo,
io non credo che la storia del valore semantico delle due coppie di parole
άρσις/δέσις in greco e arsisi thesis in latino sia quella che ormai comune
mente si accetta.
Theorie der antiken M etrik», in Hermes XXXV (1900), p. 316, si appalesa, in realtà, come un
fraintendimento suo e di quanti lo seguono in una presunta ricostruzione storica del significato
dei due termini ' arsi ’ e ‘ tesi
% Si veda la sintesi precisa in N ougaret, Traité de métrique latine classique d t., pp. 6ss.
e pp. 122ss.; cfr. anche D el G rande, La metrica greca cit., pp. 251ss. (con errori di interpre
tazione di alcuni testi antichi) e 216ss. Ma è una visione * idealistica ’ troppo lineare, per essere
vera, costruita a tavolino, lontano e contro le fonti, che vi si oppongono sempre, dall’età piu
antica a quella piu tarda del Medioevo, nelle quali, già si è visto qualche caso, si trovano
&ρσις o arsis a indicare la parte del piede non accentata, e θέσις o thesis la parte accentata,
oppure entrambi i termini con valore, per dir cosi, ‘ neutro ’ per la prima o seconda parte del
piede tout court, per interferenza col senso che avevano in musica, in un’età in cui veramente
la lingua viva doveva impedire una tale abusio, particolarmente in testi scolastid molto diffusi.
80 V. P almieri
άνω e θέσις -* (έπί τό) κάτω e si ricorderà che φοραί erano i vari movimenti
del corpo (piedi, braccia, mani, dita, testa...) che, nella dama, tendevano
a divenire, nel loro complesso, σχήματα («figure») ο δείξεις («espressioni
mimiche »). Aristide Quintiliano, dunque, in questa sua definizione di « arsi »
e « tesi », pensa ai due movimenti della danza: ciò, poi, credo, determinerà
in lui l’uso dei due termini ad indicare generalmente nei ‘ piedi ’ col primo
la parte, diciamo cosi, non ‘ marcata ’ (da intensità e /o altezza), col secondo,
[ invece, l ’altra parte ‘ marcata ’. La medesima terminologia usa in genere
concordemente Marziano Capella, che scrive probabilmente nel V sècolo d.C.
e che da Aristide dipende, di regola senza ‘ attualizzarlo ’97; basti un esempio:
Mart. Cap., IX 982 = p. 379, 5 Willis anapaestus, qui apelassonos nomi
natur, ex duabus brevibus, quae in elatione sint, ed una (scii, longa), quae in
positione sit, copulatur ~ Arist. Quint., I 15 = p. 35, 10 W.-I. άνάπαιστος
άπ’ έλάσσονος έκ δύο βραχειών άρσεων καί μακράς Οέσεως (ved. 3.3.β). Con
cordano Bacchio, isag. 98 = p. 314,10 Jan άρσιν ποιαν λέγομεν είναι; δταν
μετέωρος ή ό πούς, ήνίκα άν μέλλωμεν έμβαίνειν. θέσιν δέ ποιαν; δταν κείμενος,
« quale diciamo che è l’arsi? ogni volta che il piede sia alzato, quando
siamo sul punto di incamminarci. E quale la tesi? ogni volta che il piede
sia posato »; Pianude, schol. in Herm. = V 454, 13 Walz τήν γάρ έν
χοροϊς βάσιν ορίζονται ούτως οί μουσικοί' βάσις έστίν άρσεως καί θέσεως
ποδών σημείωσις' το γάρ αϊρειν τον πόδα, είτα τιθέναι, άρσιν καί θέσιν ώνό-
μασαν' άρσις ούν καί ϋέσις ή έν τφ άρχεσδαι καί λήγειν των χορευτών ορμή
λέγεται: la denominazione è ascritta ai musici, che, quindi, la usarono anche
per la musica; e Io. Sic., schol. in Herm. — VI 130, 13 Walz.
Unico e univoco è il significato che si ricava da questi passi: άρσις
nella marcia e nella danza era l ’innalzamento del piede, θέσις invece l’abbas
samento. Questo rimane costante in tutta la Grecità; né poteva essere diver-
------- samente, essendo tali significati coerenti col campo semantico dei verbi αίρω
e τίθημι, di cui sono deverbativi άρσις e δέσις. E la danza è certo la prima
e piu antica (dal 3° millennio a.C.) manifestazione del ritmo fra le tre cosid
dette ‘ arti del movimento ’ — danza, musica e poesia — , che riunisce però
un’unica base ritmica: il *piede ’, che indica il movimento e marca il passo
nella danza, che struttura e scandisce il verso e che, come gruppo di note
[modernamente battuta), è il nucleo ritmico-melodico fondamentale della
musica.
97 Erra certo il D el G rande quando scrive che Marziano Capella spesso presenta la tradu
zione letterale di Aristide Quintiliano (il che è vero) « naturalmente attualizzandola nel quadro
del suo tempo » (D el G rande, La metrica greca cit., p. 151; cfr. anche pp. 251 e 253).
Res metrica 81
Si discute sui rapporti della dama con la metrica Ateneo (XIV 629)
ricorda danze chiamate δάκτυλοι, ιαμβική, μολοσσική; alcuni nomi di piedi,
pirrichio, dattilo, corèo o trochèo... vengono talvolta spiegati come ritmi di
rispettive danze (la pirrica, la danza dei Dàttili o Curèti...); l’anapesto era
il ritmo della marcia solenne (ή πορεία): ma sono pochi indizi, e vorremmo
saperne di piu. Il G rassiw ha ipotizzato che i termini άρσις e θέσις possano
essere stati trasferiti dalla marcia o danza ai piedi metrici, applicandoli per
prima all’anapesto.
Graece, Latine vero gravis... (p. 304,107) omnem acutam vocem sursum esse
et gravem deorsum.
Qui sursum e deorsum, se anche non sono proprio i corrispondenti
latini di άνω e κάτω, gli sono molto vicini nel significato anche tecnico. La
stessa dottrina, usando i termini arsi e tesi, leggiamo in Prisciano (de accent.
2,13 = G L III 521,29 sed ipsa vox, quae per dictiones formatur, donec
accentus perficiatur, in arsin deputatur; quae autem post accentum sequitur,
in thesin).
Le note musicali in origine seguivano, sottolineandola, la line* proso
dica della frase. In greco, però, l’accento è regolato dalla quantità, ma non
coincide con essa, onde si ha, per esempio, πόλεμος/σώματος, λύπη/ψυχή, ,
άλή&εια/παιδεία... Gli esempi musicali greci a noi noti ci provano che:
a) l ’accento acuto era reso spesso con una nota piu alta, com’è nell’ « Inno
al Sole » 101; del resto anche il musicista moderno è tentato di contrassegnare i
l ’accento acuto col colpo in battere, ma spesso il nostro accento cade sul
colpo in levare o sulla nota breve I02; b) la musica poteva violare, special- |
mente quando essa cessò di essere sillabica o logogenica per trasformarsi
in melismatica o melogenica, la quantità prosodica delle sillabe: ώς βούλεται j
ελκει τούς χρόνους (Longin., proleg. in Hephaest. 4 = p. 83, 10 Consbr.;
cfr. anche Dion. Hal., de comp. verb. 11,64 = VI2 42,15 Us.-Rad. e
Fragm. Par. § 3 = p. 27,1 1 P.); ut volet, protrahit tempora, ita ut breve
tempus plerumque longum efficiat, longum contrahat (Mar. Victor., gramm.
1 9 = G L VI 42,3), come avviene, per esempio, nell’ « epitafio di Si
edo » 103; c) la στιγμή, il punto segnato sulla o a destra della nota musicale
e/o di quantità, indica il tempo in battere oppure il tempo in levare, cosa
101 I d ., ibid., pp. 267s. Ma la cosiddetta norma di Monro, secondo la quale la sillaba accen
tata dovrebbe essere intonata su un suono piu alto delle sillabe atone della medesima parola,
è spesso contraddetta dai documenti musicali: cfr. G. C o m o tti, « Parola, verso e musica nel-
ΓIfigenia in Aulide di Euripide (P. Leid. inv. 510) », in Problemi di metrica classica cit., pp. 161s.
(con bibliografia).
102 I d ., ibid., pp. 268; G. B. P ighi, « L’inno cristiano del POxy 1786 », in Studi cit.,
pp. 232ss.; V. P isani, «Marginalia metrica», in La Parola del Passato I II (1948), p. 204:
« nel canto, come da noi, ictus e accento possono spesso e volentieri ignorarsi a vicenda »;
O. Seel , « Quantitat und Wortakzent im horazischen Sapphiker », in Philologus C H I (1959),
p. 247. Ragionevole la posizione del Setti : « Ci sono deviazioni, sia pure frequenti, ma sono
sentite come tali e fondamentalmente evitate. I,a norma è che i due accenti coincidano » (S etti,
« Ictus e verso antico » cit., p. 176, nota 1). Ved. anche F r. L ippmann , Versificazione italiana
e ritmo musicale, Napoli 1986, pp. 39. 66. 93ss. e passim.
103 G entili , Metrica greca arcaica cit., pp. 33ss.; Sachs , op. cit., p. 272; G. B. P ighi, « Le
composizioni vocali e strumentali del PBerol 6870», in Studi cit., pp. 235ss., praesertim pp.
286ss.; D el G rande, La metrica greca cit., p. 451 e I d ., DEUMM, II, (Torino 1983), p. 413, s.v.
« Grecia »; L enchantin D e G ubernatis , « Problemi » cit., in Introduzione cit., pp. 398s.;
P ighi, op. cit., pp. 227ss. Per gli antichi ved. anche A ug ., de mus. II 1,1.
i
Res metrica 83
che perciò va di volta in volta accertata 104. Del resto, abbiamo visto (3.3.A)
che per Aristòsseno 1’ άνω, il tempo forte su una nota più alta, può essere
una breve, come nel piede disèmo άνω / κάτω e viceversa) e che
P άνω può essere anche metà del κάτω, il tempo debole su una nota più
bassa (3.5); e oltre al ‘ tempo semplice ’, occupato da una sola sillaba
o nota o figura, c’è il ‘ tempo composto ’, occupato da piu sillabe o note o
figure, e il ‘ tempo misto ’, occupato da una sola nota ma da piu sillabe
oppure, viceversa, da una sola sillaba ma da più note (el. rhythm. 284-288
Mor. = pp. 20, 25-21,17 Pighi). Ora tutto questo è possibile e normale
in musica; ma in poesia?
4.3. È nella natura del ritmo che il tempo forte sia sempre ‘ maggiore ’
del tempo debole « per ciò che riguarda l’attenzione » 10!. È esperienza viva,
come prova la fonetica sperimentale con i suoi strumenti, che le arsi o ictus
nella metrica italiana si sposano ad una maggiore durata sillabica. Privata
delle note musicali, la poesia greca resta con i suoi accenti melodici e con
le quantità lunghe o brevi delle sue sillabe. Alla musica questi tratti non
bastavano, e non bastano, per tessere una linea melodica, quando non siano
in contrasto con essa: sono di per sé sufficienti a creare il ritmo di una
poesia in greco antico? Che valore ebbero άνω/άρσις e κάτω/θέσις per la
poesia? Un primo punto, generalmente riconosciuto, si può fissare prelimi
narmente: nella metrica quantitativa, come quella greca, l’elemento-guida
(Rossi) è costituito dal longum (Maas), di solito realizzato nel verso da
sillaba lunga. Di conseguenza a questa e solo a questa doveva convenire
uno e uno solo dei due termini « arsi » o « tesi »: quale?
C’è un passo di Aristide Quintiliano, che, se non fosse esente da pro
blemi interpretativi, forse risolverebbe ogni nostro dubbio: καί των τούτων
(sai. χρόνων) πάθη καλούμεν άρσιν καί θέσιν, ψόφον καί ηρεμίαν (Arisi.
ItM F igh i, op. cit., pp. 219 e 225. Opinioni non del tutto concordi fra gli studiosi: G e n tili,
Metrica greca arcaica cit., pp. 34s. e nota 3; D e l Grande, La metrica greca cit., pp. 253. 439.
446. 450 e 472; L enchantin D e G u b er n a tis, Manuale di prosodia e metrica greca d t., p. 28,
nota 2; C o m o tti, « Parola, verso e musica » d t., in Problemi di metrica classica d t., p. 159.
£ noto l ’insegnamento dell’ANONYM. B e lle r m ., I l i 85 = p. 2 8 ,1 2 Najock: ή μέν ούν δέσις ση-
μαίνεται, δτα ν άπλώ ς τό σημεΐον ίίστικτον fi, ή δέ άρσις, δταν έστιγμένον, ma i documenti
musicali non sono, pare, sempre concordi.
105 P igh i, La metrica latina cit., p. 289, nota 1; cfr. anche p. 222; Sachs, op. cit., 269.
Cosi in una melodia a due note « se una delle due predomina è sempre la più alta, mentre la
piu bassa sembra rimanere estranea come una nota accessoria » (Sachs, ibid., p. 19). L ’arsi, con
la sua percussione o ictus « genera il tempo debole, cioè la tesi. Ne consegue adunque che,
non potendo l ’effetto essere maggiore della causa, la tesi non possa essere maggiore dell’arsi,
né una breve generare una lunga » (Fr. Zambaldi, Metrica greca e latina, Torino 1882, p. 43):
limpido e predso Anonym., de pedibus 3 = p. 356,9 Consbr. έν άρσει καί δέσει, τουτέστι
έν μακρά [ = arsi] καί βραχείς [ = tesi] συλλαβή, πούς γίνεται.
84 V. P almieri
106 Fighi, « Inter scandere et legere », in Studi cit., pp. 398s. Non esattamente il D e l
Grande (La metrica greca dt., p. 249): «continuità di suono e pausa». Altre ipotesi (chiasmo,
inversione, atetesi) in S e tti, « Ictus e verso antico » d t., pp. 156s., nota 4; una specie di
‘ chiasmo ’ si riscontra, ma in riferimento ai diversi fenomeni o atti, pur permanendo unico e
identico il significato: ved. infra.
Res metrica 85
107 A. Setti, « Replicando sull'ictus », in Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa, s. I I, XXXIV (1965),
p. 301, nota 10. Se si tiene presente la ben nota teoria antica dell’etbos dei diversi ritmi, che
tanta parte ha nell’opera di A kistìde Q uintiliano (libro II), e se si ricorda che A ristotele
definisce (probi. XIX 49,922 b 32 — gen. an. V 7,787 a 4) « la nota bassa (grave) dolce e
Ì
calma, e la alta (acuta) eccitante » ( δ μ έ ν βαρύς. φδόγγος. μαλακός. καί. ήρεμαϊίς_Αΐτιν,_ό_ δέ
όξύς κινητικός) dopo aver detto che « il melos è per sua natura dolce e calmo, ma diventa
aspro ed eccitante per l’unione col ritmo »; sarà forse lecito stabilire una correlazione ‘ arsi-alto-
lungo (-ictus) ’ e ‘ tesi-basso-breve ’: si noti che nel Problema aristotelico il ‘ grave ’ è chiamato
‘ calmo, tranquillo ’ (ήρεμαϊος ~ ήρεμία). Per l ’influenza di Aristotele su Aristide ved. L. Za-
n o n c e lli, « La filosofia musicale di Aristide Quintiliano », in Quad. Urb. cult, class. XXIV
(1977), pp. 76s. I l L a sserre (op. cit., p. 71) pensa all’equivalenza tesi/tempo forte/inizio/
« rythme irénique »/dattìlo e arsi/tempo debole/inizio/« rythme belliqueux »/anapesto.
86 V. P almieri
108 Cfr. anche Arist., acust. 803 b 34 a i δε π λ η γ ώ γ ίνο ντα ι μεν του άέρος υπό τώ ν
χορδών π ο λ λα ί καί κεχωριομέναι. Il verbo è già in H om ., Od. V ili 263 π έπ ληγον Si
χορόν δεΐον ποσίν, « e battevano con i piedi il riuno della danza divino » (lat. terram pedibus
pulsare)·, Schol. Pini., Pytb. 1,4b = I I 8,25 Drachm , τοΐς κρούουσι τήν γ η ν τοΐς ποσίν.
Si ricordi anche lat. plausus, plaudere (Aug., de mus. I 13,27 e saepius).
Res metrica 87
digerenti altezze tonali, bensì solo per differenti gradi di intensità. Ma,
almeno in questo filone della tradizione, non si è verificata nessuna inver
sione di termini. Il movimento della voce era (ed è) sempre lo stesso;
solo che nell’accentazione melodica la voce sale e scende di tono, nell’accen
tazione intensiva ‘ sale ’ (tollitur) e ‘ scende ’ (ponitur) in forza espiratoria.
Insomma, (το) ανω e άρσις sono sempre il ‘ su ’ (sursum, Varrone) tanto del
piede nella danza (e nella marcia), quanto della voce nella διάλεκτος (lingua
parlata), nella λέξις (lingua versificata) e nel μέλος (‘ lingua cantata ’), come
sono l’acuto delle note musicali e, poi [ma qui è l’inversione?], l ’innalza
mento della mano (o del dito) o della bacchetta nella guida chironomica; e
(το) κάτω e (βάσις ο) θέσις sono sempre il ‘ giu ’ (deorsum, Varrone). L ’er
rore, se errore è, degli antichi, non evitato dai moderni, consiste nel voler
unificare ad ogni costo i termini e il loro valore; ai moderni soprattutto,
che si lasciano guidare dal senso e dalla pratica della battuta musicale e dalla
comune chironomia, ripugna 109 pensare che θέσις indichi il tempo forte o in
battere nella danza e, invece, la ‘ posa ’ (ή ηρεμία), cioè l ’abbassamento della
voce nelle sue diverse manifestazioni concrete: discorso, recitazione, poesia,
canto. Ma è invece del tutto legittimo — e ‘ storicamente ’ fu sempre cosi
per i Greci e per i Latini — chiamare ίίρσίζ/arsis il momento ‘ in su ’ del
piede metrico e θέσι^th e sis il momento ‘ in g iu ’, il primo (l’arsi) marcato
da elevazione tonale (e/o rafforzamento intensivo) e il secondo (la tesi)
distinto da abbassamento tonale (e/o indebolimento intensivo).
Quando Quintiliano scrive (inst. or. IX 4, 55 ~ 50 e 60) rhythmi...
qua coeperunt sublatione ac positione, usque decurrunt, « i ritmi scorrono
ininterrottamente con lo stesso ‘ su ’ e ‘ giu ’ con cui sono cominciati », si
riferisce senz’alcun dubbio, checché se ne pensi in contrario, a elevazione e
109 F. G reif , «Études sur la musique antique», in Reo. ét. grec. XVII (1913), pp. 173ss.,
intende δέσις = ‘ tempo debole contra il Setti (« Ictus e verso antico » cit., pp. 156s.,
nota 4) osserva che, cosi, « l ’accento della voce e il battito del dito avevano luogo in sedi
diverse». No: lo ‘ schiocco’ del pollice (S achs, op. cit., p. 272; anche Setti, ibid., p. 149
e nota 1, citando la retta interpretazione dello Schultz, piuttosto che ‘ battito ’) e il battito
del piede (pedum et digitorum ictu e ad crepitum digitorum [Q u in t ., inst. or. IX 4,51 e 55];
pollicis sonore [«schiocco»] vel plausu pedis [T er. M aur ., 2253 s. = GL VI 393]), con
cui si poteva e si soleva scandire il ritmo, erano paralleli, concomitanti e congruenti con i
tempi forti in arsi (canto e poesia) o in tesi (marcia e danza). D ’altra parte, nel ritmo indiano
antico « lo schiocco rumoroso non denotava il principio, ma la fine di un membro... l ’antico
Indiano faceva l’opposto di quello che faremmo noi: ...lo schiocco di ambedue le mani,... il
colpo percettibile non si può paragonare al gesto in battere (tetico) dei nostri direttori d ’or
chestra» (S achs , op. cit., p. 185).Il Sachs , poi, mette in rilievo [op. cit., pp. 61 e 226) come
per una strana inversione in Grecia, come nell’Oriente semitico, le note della scala, contraria
mente alla terminologia adottata in Occidente, erano dette ‘ alta ’/hypate e ‘ bassa ’/nete, con
un significato invertito rispetto alla loro reale ‘ altezza sonora ’, « cosi come sono le canne più
alte dell’organo a produrre i suoni più bassi »; D a Rios , A ristoxeni Elementa harmonica cit.,
pp. 103ss.
88 V. P almieri
DANZA
e
MUSICA BATTUTA
e
POESIA
I e viceversa
di TEM PO
(col piede o
icon la mano)
ψόφος (π λ η γή ,
ήρεμία κροϋσις, π λ ή ξ ις /
tono grave/debole (breve) ictus, percussio)
- BASSO
sec. a.C.) assimilò all’arsi e alla tesi la diastole e la sistole cardiache: i due
termini metrici suggerivano il battito ritmico (movimento e suono) del cuore
e del polso. Dei due tempi del moto, distinti anche da diversi gradi di celerità
e di rallentamento, come le due parti del piede metrico, alla fase ‘ άνω,
αίρειν, sublatio ’ si associa il colpo (pulsus, ictus), cioè il battito del polso,
non alla fase ‘ κάτω, καθεύδειν, positio ’, come risulta da Arist., probi. XI
41,903 b 36 πότερον 8τι τό αισθητικόν άνω έρχεται αιρόμενων («gonfian
dosi ») των φλεβών; καθευδόντων γάρ κάτω da confrontare con Galeno (loc.
cit.) ούτως (come i musici) καί Ήρόφιλος άνάλογον μέν άρσει τήν διαστολήν
ύποθέμενος, άνάλογον δέ θέσει τήν συστολήν τής άρτηρίας..., dove ricorrono
anche i noti termini ηρεμία/quies e πληγή/tó a r con πλήττω/ percutio. La
‘ dottrina ’ di Eròfilo era nota anche nel mondo latino, come risulta da Plin.,
nat. hist. XXIX 1 (5), 6 omnes eas {scii, scholas) damnavit Herophilus in
musicos pedes venarum pulsu descripto·, perciò mal si comprenderebbe una
inversione dei termini e del loro significato dal greco al latino e da un’età
all’altra. Ved. anche Arist. Quint., I I 15 = p. 82, 25 W.-I. e Aug., de mus.
VI 3, 4. Non sono, invece, specificate le due fasi ‘ analoghe ’ del ritmo del
respiro in Arist., probi. V 16, 882 b lss., le quali trovano un preciso paral
lelismo, ovviamente però ‘ chiastico ’ (invertito o a ics), in Gal., de diffic.
respir. 1 5 = V II 766 Kiihn (respiratio).
L’equivalenza fra i termini è posta, poi, esplicitamente da Atilio Fortu-
naziano (IV see. d.C.): de sublatione constat (scii, motus) et positione, quae
et thesis dicitur, ut est ‘ arma vi- ’: ‘ ar- ’ sublatio est, temporum duum,
‘ -ma v i-’ positio, temporum duum (ars = GL V I 281,5): sono sempre
(τό) &νω e (τό) κάτω assimilati ad άρσις e θέσις, qui peraltro identificati
rispettivamente con la parte tonica o accentata del piede (sillaba lunga con
accento di parola) e con la parte atona (due sillabe disaccentate). Se il lin
guaggio si è fatto ora tanto tecnico e preciso, non è già perché, come si
afferma di solito, erano intervenuti mutamenti fonetici, che pure sono pro
vati, bensì perché leggiamo 4a ‘ lezioni)/ di un maestro di scuola. Ma la
‘ dinamica ’ della voce rimane identica: nell’ άρσις, elevandosi, ‘ si tende ’,
nella θέσις, abbassandosi, ‘ si allenta ’: è il fenomeno tecnicamente spiegato
da Aristòsseno (ved. 3.6), ond’è che « l’acutezza è il risultato della ‘ ten
sione ’, la gravità il risultato dell’ ‘ allentamento ’ » (δξύτης δέ τό γενόμενον
διά τής έπιτάσεως, βαρύτης δέ τό γενόμενον διά τής άνέσεως, loc. cit.). Cosi
anche Cicerone {de or. I 61,261): ut una continuatione verborum, id quod
eius (scii. Demosthenis) scripta declarant, binae ei contentiones vocis et remis
siones continerentur, « tanto che in un solo periodo, come dimostrano le
sue orazioni, erano racchiuse due elevazioni e abbassamenti della voce »,
dove si ha contentio « elevazione », parte ascendente, άρσις, e remissio
90 V. P almieri
4.5. Nell’età piu tarda, ovviamente, per i bisogni didattici della scuola,
i testi si fanno piu espliciti, ma talvolta anche non parlano in maniera uni
voca o risultano persino contraddittori, se non si annidino errori nella loro
tradizione manoscritta o se non sia l’interprete moderno a intenderli male.
Ai passi via via già esaminati è opportuno aggiungerne altri piu o meno
noti. Marziano Capella ci dà suo Marte, sembra, una definizione del ritmo,
IX 967 = p. 372, 17 Willis numerus est diversorum modorum ordinata co
nexio, tempori pro ratione modulationis inserviens, per id quod aut efferenda
vox fuerit aut premenda, et qui nos a licentia modulationis ad artem discipli
namque constringat: « il ritmo è l’ordinata connessione di diverse misure,
sottoposta al tempo in rapporto alla melodia, in quel punto in cui la voce
dovrà alzarsi ( = arsi) o abbassarsi ( — tesi), e che dalla libertà della melodia
ci vincoli ai principi teorici e alle regole della scienza (ritmica o metrica) »,
dove la identificazione dell’arsi e della tesi risulta da un altro luogo (IX 969
= p, 373, 15): in modulatione per arsin et thesin, che è traduzione di
un passo di Aristide Quintiliano (I 13 = p. 32, 5 W.-I.) έν δέ μέλει τοϊς
λόγοις των άρσεων προς τάς θέσεις e, poiché in un altro passo (IX 932 =
p. 358, 11) al posto di ‘ arsi ’ e ‘ tesi ’ leggiamo ‘ acutezza ’ e ‘ gravità ’:
constat autem omnis modulatio ex gravitate soni vel acumine, se ne deduce
ancóra una volta l’equivalenza ‘ arsi-acuto-forte ’ : ‘ tesi-grave-debole
Prisciano (V-VI see. d.C.) insegna elementarmente [de accent. 2, 13 =
GL I I I 521,25 in una quaque parte orationis arsis et thesis sunt, non
in ordine syllabarum, sed in pronuntiatione; velut in hac parte, ‘ n a t u r a ’
[« /] quando dico ‘ n a t u - ’, elevatur vox, et est arsis in ‘ - t u - ’ [v.I. tutus'];
Res metrica 91
110 D e l G r a n d e , La metrica greca cit., p. 255, il quale pensa che Vittorino qui riprenda
la « dottrina damonea, per cui arsis = t ò ίν ω e thesis = τό χά τω , però reinterpretata alla
luce della teoria aristidea dei dodecasèmi, ove appunto trochei si sostituiscono ai giambi, ser
bando arsi e tesi come nei giambi stessi » (!). Ved. anche L e n c h a n t i n D e G u b e r n a t is , Ma
nuale di prosodia e metrica latina cit., p. 22, nota 2 e Id., « Problemi » cit., in Introduzione
cit., p. 441.
111 G entili , Metrica greca arcaica cit., p. 28; I d ., La metrica dei Greci cit., p. 8.
r.
!"
t
92 V. P a l m ie r i
l’arsi come elatio temporis ( = quantità della sillaba in arsi, lunga o allun
gata [dall’ictus?]), prima che soni (nella musica) e vocis (nel canto e nella
recitazione), e la tesi come quaedam c o n t r a c t i o syllabarum. Insomma
si deve partire, ancóra una volta, dalla piu antica χορεία ‘ trinitaria ’, intesa
come unità lirica di danza, musica e poesia. Ha notato magistralmente il
W eilI12: « Les mouvements du corps, la marche et la danse, ont d ’abord
mesuré le chant et la parole; là est l’origine de la métrique; les vers marchés
et dansés ont précedé les vers simplement chantés; enfin soni venus les vers
récités, qui conservent plus qu’une ombre de la mesure primitive, mais dont
les elements s’appellent encore des pas (βάσεις) ».
E, poiché nella marcia e nella danza il ritmo era marcato dalla battuta
del piede all’inizio di ogni misura, questo momento o tempo fu detto θέστς
(da τιδέναι τον πόδα), che perciò indicava il tenipg.,fprie o in battere, mentre
l’altro momento o tempo fu detto άρσις (da αίρειν τον πόδα), che indicava
il tempo debole o in levare. Nella musica, però, come nel canto e nella
poesia recitata, i due termini espressero, ab initio, άρσις la nota o il tono
piu alto e θέσις la nota o il tono piu basso: nei secoli mutò solo la qualità
del tono o accento, che da melodico divenne intensivo. L’opposto fenomeno
fisico che la coppia dei termini esprimeva (ed esprime) nella danza di contro
alla musica col canto e con la poesia ha favorito ab antiquo il loro uso
alternativo, che talvolta è giunto a sembrare e persino ad essere contraddit
torio. E stato notato dal S e ttilu che 1’ « abusio [ seti. dei due termini άνω
e κάτω con il significato variamente attribuito ad arsi e tesi] fu favorita
certamente dall’uso promiscuo che delle espressioni antiche e nuove si era
fatto, anche da Aristosseno ». In realtà è la forzata reductio ad unum, ripeto,
degli antichi e piu dei moderni che caccia lo studioso nell’abisso della con
traddizione: ma non è facile convincersi che non pur Aristosseno, bensì
neanche-Aristide Quintiliano abbiano fatto e ingenerato confusione. I termini
esprimevano sempre lo stesso concetto — né poteva essere diversamente,
pena la confusione piu assoluta — riferito ad azioni o atti diversi, rispetto
112 W e i l , Etudes de littérature et de rytbmique grecques cit., p. 217; J. L u q u e M o r e n o ,
«Niveles de anélisis en el lenguaje versificado», in Athlon... Adrados, I, Madrid 1984, p. 291:
« en la mayoria de las culturas hay un desarrollo del verso a partir de la danza y de la mùsica:
qué duda cabe de la posibilidad de que en ese caso las formas métricas hayan estado m is ο
menos, positiva o negativamente, condicionadas por formas extralingiilsticas (musicales, de danza,
etc.). Este al menos parece habet sido el caso de las lenguas clasicas, en donde verso, mùsica y
danza, parecen haber estado en un principio intimamente unidos », con rinvio in nota 12 a
V. Z i r m u n s k i j , Introduction to Metrics. Trad. C. F. B r o w n , Le Hague 1966, p. 24 e A. G a r
c ia C a l v o , Del lenguaje, Madrid 1979, p. 131.
na S e t t i , « Ictus e verso antico » cit., p. 158, nota 2; un « garbuglio... incredibile » nella
fi terminologia della musica greca rileva il S a c h s , op. cit., pp. 219ss.; « I greci iniziarono essi
stessi questa confusione: perché capirono male i loro termini e li usarono quasi promiscua
r mente... » (ibid., p. 219; ved. anche pp. 199 e 242).
Res metrica 93
ai quali essi erano sempre e di volta in volta precisi e univoci per parlanti
greco, che non potevano fraintendere come noi né avevano, come noi, bi
sogno di spiegazione per quei termini dal chiaro valore semantico, deter
minato univocamente dall’uso in senso locale: ‘ su ’ e ‘ giu ’, 1’ ‘ alto ’ e il
‘ basso
corrotto (Keil), continua a suscitare 114 possono essere, forse, superate, inten
dendo le parole da siquidem a sumat col valore che i due termini arsis e
thesis avevano in musica, dove, come si è visto in Aristòsseno ( 3 .3 .A ; 3 .5
e 4.2), la breve può essere άνω/αροτ-ς: si noti il cong. con siquidem =
« se pure, se m ai», qualora non sia esplicativo di variatur {ved.’infra Ter.
Maur.). Si può osservare che nel capitolo De rhythmo, cioè De musica (I 11
= pp. 41-42) è esposta la teoria del λόγος dei piedi con terminologia
‘ musicale ’ greca: monosemos... arsis ad disemon thesin comparatur (nel
giambo), ecc. Certo, se Mario Vittorino, doveva uniformare, qui. £ome al
trove, la sua terminologia alla sua coscienza linguistica, essendo ormai ai
suoi tempi (IV see. d.C.) nella lingua latina prevalso l’accento intensivo su
quello melodico, avrebbe usato i termini arsis e thesis con significato oppo
sto, in relazione alla poesia, in cui la lunga del giambo e del trocheo è in
arsi, non la breve (4.6). Non si trattò, come già ho osservato, di un
uso erroneo o consapevole dei termini άνω e κάτω prima ed άρσις e δέσις
poi con significato invertito, bensì d’un impiego delle due coppie di termini
ab initio col significato che essi realmente avevano: Vabusio rilevata è fonte
di difficoltà e confusione per il lettore moderno, se non anche talora per
gli antichi, ma non è l’unico caso nella terminologia musicale e metrica;
essa, però, non è dovuta né ad errori o fraintendimenti marchiani, che sareb
bero peraltro molteplici e cosi comuni, tranne in qualche caso isolato, né
a ‘ coscienza storica ’ del mutamento dell’accento da musicale a espiratorio "5.
La possibilità che anche una breve sia άνω era propria della musica,
mentre la poesia priva di melos aveva 1’ άνω solitamente nella lunga ( = tempo
forte) e il κάτω nella breve o nelle brevi ( = tempo debole): l ’uso dei ter
mini arsi e tesi da parte dei metricisti greci e latini non solo è conseguente
a questa diversa possibilità della musica rispetto alla poesia, ma è anche
dipendente,.dal senso .con cui venivano usati per la danza. Accertando di
volta in volta se il metricista li usa col valore che essi esprimevano in musica
o in metrica o nella danza, è possibile chiarire forse una serie di contraddi
zioni piu o meno reali, che si riscontrano nei testi.
114 Ved. Cocchia, L ’armonia fondamentale del verso latino cit., pp. 220s.; Set ti , « Ictus
e verso antico» cit., p. 159 e nota 1; Koster, Traiti cit., p. 31 e nota 3. Ved. contra Mar .
V ictor., gramm. 1 9 = GL V I 40,26 in duplo autem iambus, trochaeus, tribrachys, molossus:
horum enim duplex sublatio, simplex positio est, v e l c o n t r a · , Aug., de mus. I I 14,26 e
I I I 4 ,9 . Si osservi inoltre che l’esempio parens (da parto) è equivoco, potendo essere misurato
w
anche pirens (da pareo)·, παρέντης si oppone a παρέντης in Io. Lyd., 141 (cfr. E. A. Sophocles,
Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods, Cambridge [U.S.AJ/Leipzig 1914, p. 48).
115 G entili, Metrica greca arcaica cit., p. 28: « L ’errore non fu casuale, ma volontario: lo
spegnersi del senso quantitativo della lingua latina e il prevalere dell’accento sulla quantità
determinarono, nella prassi grammaticale e metrica, la nuova accezione e il diverso uso dei due
termini »; è limpidamente esposta quella che è una tesi comune, ma, credo, infondata.
Res metrica 95
J-
due passi in questione, come nei capitoli I 15-18 dove è esposta la teoria
dei piedi, di solito si intendono i due termini άρσις e δέσις come ‘ innalza
mento ’ e ‘ abbassamento ’ del piede che batte il ritmo; ma, se si tien conto
della definizione generale di άρσις e δέσις aristidea data in I 13 = p. 3 1 ,1 5
W.-I. (3.5), c’è ragione di credere che il musicologo abbia applicato ai ?
piedi ritmici il loro valore di parti di una misura di danza: la nota abusio.
Per Bacchio un analogo trasferimento di significato risulta favorito dagli
esempi di parole addotte per i diversi piedi: λόγος per il pirrichio w )(
., a ù
δεών per il giambo v_,_L, πώλος per il trochèo .r.w , βασιλεύς per l ’ana
pesto lv w _l, σπένδω per lo spondèo -z. — , εύπλόκαμε per il peóne I
-t- w w che, come dice al § 101, è considerato piede σύνδετος, com
posto da trochèo e pirrichio (— w I w παιάν σύνδετος έκ χορείου καί ì:
ήγεμόνος) "7. Quindi Bacchio rispetta sostanzialmente nella esemplificazione
la congruenza fra l’accento, intensivo ormai, delle parole e l’accento ritmico-
metrico; eppure egli chiama tre volte δέσις la sillaba colpita da accento e i
πγγτηγ π
άρσις la sillaba o le sillabe non accentate, con un senso cioè invertito rispetto
a quanto sarebbe legittimo attendersi, se, come i più sostengono, la nomen
clatura avesse seguito la trasformazione della natura dell’accento, che era
giunta a compimento nell’età di Bacchio, la cui opera peraltro è una Guida
alla musica.
Particolarmente istruttivo è, fra altri, l’uso che dei termini fa Michele
Psello (1018-1078 d.C.). Questi, si sa, rispecchia generalmente la teoria e
la terminologia di Aristòsseno, dal quale attinge in larga misura. C’è però
un passo nei suoi excerpta musicali (§ 12 = p. 26, 4 Pighi ~ Fragm. Par.
§ 12 = p. 28, 29), in cui si legge: οί δέ τρισίν άρσει καί διπλή βάσει,
«altri (piedi consistono di) tre tempi primi (σημεία, w w w ), un’ άρσις (i.e.
jf t {(tfei μ
uno in arsi, w ) e una doppia βάσις (i.e. due in tesi, w w ) », come precisa il
luogo parallelo del Fragmentum Parisinum (§ 12 = p. 28,29): οΐον ό
τρίσημος ιαμβικός (w ^ w ), ό σημείου συνεχών <£ν> έν άρσει καί διπλάσιου
έν δέσει. L’uso del termine βάσις per δέσις in Psello è aristossenico, ma in
Aristòsseno il passo perfettamente parallelo ci manca: Aristox., el. rhythm.
117 L’esempio εύπλόκαμε per il peóne I sembra scelto bene, perché, essendo parola com
posta, richiama e tollera bene l’accento ritmico su εύ·; d’altra parte in greco nessuna parola
è j_ c-/ o : contra D e l Grande, La metrica greca cit., pp. 254s. Inoltre bisogna tener presente
che la ‘ scansione ’ del peóne è stata sempre incerta, dall’età di Cicerone (2.10), discutendosi
se fosse da considerare piede semplice o composto, forse proprio per l’ictazione. Lo Schol. in
Hermog. id. I 18 = rhet. Gr. V II2 891,20 W alz, nota 64, dà come esempio di dattilo ήλιος
( χ v w L tpa per l’anapesto Ε λ έ ν η ( w \L>— ). Negli esempi dati da S. Agostino (de mas.
II 8,15) l’accento prosodico di parola non corrisponde con l’accento ritmico-metrico in 6 casi
(fra cui giambo e anapesto) su 28 piedi considerati; ma S. Agostino era un convinto χωρίζων
della musica dalla poesia (de mus. I I 1,1-2,2 e al.).
Res metrica 97
288 M. = p. 21, 19 P., che è il luogo piu vicino, trova riscontro in Psell.,
prolamb. 14 = p. 21 appar. P., dove la distinzione è fatta per άνω e κάτω.
La sostituzione di θέσει a βάσει nel Fragmentum Farisinum, che dà anche un
testo piu succinto e in parte diverso, ci fa avvertiti che ci troviamo dinanzi
ad una rielaborazione personale di Psello, il quale sostanzialmente ripete
nella seconda metà del § 12, relativo alla estensione dei ritmi giambici,
dattilici e peonici, ciò che Aristòsseno aveva già detto ed egli dirà nel § 14.
È notevole che nel passo in questione la distinzione fra le due fasi dei piedi
è fatta tre volte consecutive, sempre indicando la prima parte con άρσις e
la seconda con βάσις, cioè col termine che, presente talvolta in Aristòsseno
al posto di κάτω (3.5), era in origine deputato a designare, come risulta
da Aristotele (2.10), l’unità di misura del ritmo in generale e della danza
in particolare: in questo può risiedere la ragione dell’uso di άρσις per la
breve (tempo debole) e di βάσις al posto di δέσις per la lunga (tempo forte)
nei piedi trisèmi, giambo e trochèo, ma anche tribraco, che il ragionamento
di Psello procede per misure o figure astratte. Altrimenti, perché Psello, se
doveva rispecchiare la realtà linguistica e fonetica del suo tempo, non ha
usato ‘ arsi ’ ad indicare il tempo forte, la sillaba accentata? Per i piedi del
genere pari, essendo reciproci, la difficoltà terminologica non sussiste.
La terminologia pselliana concorda col filone della tradizione gramma
ticale riferita, che va da (Aristotele, Aristòsseno e) Aristide Quintiliano a
Bacchio (e a Massimo Pianude), da Terenziano Mauro a Mario Vittorino e
a Marziano Capella, greci e latini, senza distinzione di lingua né di età, i
quali dicono che il giambo comincia con l’arsi (momento in levare, breve)
e termina con la tesi (momento in battere, lunga), e viceversa il trochèo.
Nulla, quindi, di più antistorico della comune spiegazione che si presume
basata sull’evoluzione ‘ storica ’ della natura dell’accento in greco e in latino:
gli esempi di Bacchio e la nomenclatura comune a trattatisti greci e latini,
vissuti in età diverse e alcuni quando l’accento doveva essere divenuto cer
tamente intensivo, secondo la teoria ‘ storicistica ’ dei moderni, non legit
timano cotesta teoria, ché l’accento espiratorio e la lingua viva avrebbero
dovuto imporre in ogni caso a tutti la equivalenza ‘ arsi/sillaba lunga e /o
accentata’, da una parte, e ‘ tesi/sillaba breve e/o ato n a’, dall’altra parte,
a significare costantemente, a partire da una certa epoca, i due ‘ movimenti ’
del piede ritmico-metrico.
4.8. Riguardo alle dipodie e sizigie ci è testimoniato che avevano un
intero piede in arsi e uno in tesi: per esempio, Arist. Quint., I 17 =
p. 38,5 W.-I. δάκτυλος κατ’ ιαμβον, ος σύγκειται έξ ιάμβου δέσεως καί
ιάμβου άρσεως [ ^ δάκτυλος κατά βακχείου τον άπό τροχαίου, ος
γίνεται έκ τροχαίου δέσεως καί ιάμβου άρσεως [— Da qui il Len-
98 V. P almieri
1,8 L en ch antin D e G u b ern a tis, Manuale di prosodia e metrica latina cit., p. 28 e nota 1,
con rinvio a W e il, Études cit., pp. 149 e 209; In., Manuale di prosodia e metrica greca d t.,
pp. 51 e 59; D e l Grande, La metrica greca d t., pp. 252. 306 e passim·, Id., Elementi d i me
trica latina e cenni di ritmica e metrica greca, Napoli I9602, p. 23, dove la distinzione fra ictus
piu forte [_ //] su un piede e ictus pili leggero [_/_] sull’altro sembra condizionata dalla nostra
battuta musicale; G e n tili, La metrica dei Greci d t., pp. 19, 22 e 191 (ictus su ogni piede);
Pighi, La metrica latina d t., pp. 302ss., il quale afferma: « I l ‘ senario’ è un ‘ trim etro ’ » e
« una misura giambica contiene due giambi, uno in arsi e uno in tesi »; ma il Pighi non crede
all’ictus intensivo; C a m illi, Trattalo di prosodia e metrica latina d t., pp. 35. 56 e 131.
R es m e tric a 99
119 Notissima è l’opera di E. F raenkel, Iktus und A kzeni itti lateinischen Sprechvers, Ber
lin 1928. Il D rexler si è appassionato tutta la vita a difendere tenacemente l’esistenza dell’ictus
con la nota tesi che l’accento latino era accento di gruppi di parole o di cola, non di singole
parole: Ved. H . D rexler, Plautinische Akzentstudien, I-II, Breslau 1923-1933; « Neue plauti-
nische Akzentstudien », in Maia XI (1959), pp. 260ss.; « Quantitat und Wortakzent », ibid. XII
(1960), pp. 167ss.; « Concetti fondamentali di metrica », in Riv. fil. istr. class. XCIII (1965),
pp. 5ss.; un articolo magistralmente tradotto da L. E. Rossi, tanto più che lo stile del
D rexler è concettoso e in un tedesco non facile; Einfiihrung in die romische M etrik,
Darmstadt 1967. Rassegne bibliografiche, con indicazione dei sostenitori e negatori dell’ictus, in
C. Q uesta , « Metrica latina arcaica », in Introduzione cit., p. 515, il quale scrive: « la proble
matica ictus ~ accento non ha, oggi, nessun interesse scientifico », « una questione tanto com
plicata quanto inutile»; F. Cupaiuolo , «Metrica latina d’età classica», ibid., pp. 573ss., il
quale scrive: « Quello àeWictus è fra i problemi piu complessi, piu difficili e piu importanti
della metrica antica; né onestamente possiamo dire, nonostante gli ampi e numerosi e seri
studi ad esso dedicati, si sia giunti ad una visione chiara e accettabile. Permangono ancora molti
punti oscuri e molte difficoltà, si da mettere tutto nuovamente in discussione » e M aas , op. cit.,
pp. 5s. Del Setti e del Rossi sono già stati citati varie volte gli importanti articoli.
120 « La ripetizione può essere iterazione, variazione parziale o totale, semplice o alternata
o variamente incrociata » (Fighi, La metrica latina d t., p. 225); « Il metro (successione di sil
labe pesanti e leggere) dà il ritmo, l’accento dà la melodia » (C. O. P avese, « Tipologia metrica
greca », in Problemi di metrica classica d t., p. 66); ma il Pavese sostiene l’ictus: « Conviene
perciò supporre che il greco fosse pronundato con una sorta di ictus sul tempo forte o thesis »
(ibid., p. 65).
100 V. Palmieri
121 Cfr. Da R ios , A ristoxeni Elementa harmonica cit., pp. 17, nota 3. 21, nota 1 e
pp. 119s.; R ossi, Metrica e critica stilistica cit., pp. 78s.
Res metrica 101
un passaggio non difficile, se Quintiliano {itisi, or. I 8, 2) nel dare dei pre
cetti al discepolo sulla lectio della poesia, dopo l’unica prescrizione di « com
prendere quanto legge» (unum... praecipiam...·, intellegat), vuole che la
lettura sia virilis et cum suavitate quadam gravis, et non quidem prosae
similis, quia et carmen (« canto ») est et se poetae canere teslantur, non
tamen in canticum (« cantilena ») dissoluta nec plasmate (« modulazione »),
ut nunc a plerisque fit, effeminata, ricordando a tal proposito la pungente
stroncatura dell’ancor giovane Cesare contro un cattivo lettore: « si cantas,
male cantas; si legis, cantas ». Son parole generiche, si dirà, ma coptengono
tutti gli aspetti principali della problematica che ancóra attanaglia dopo due
mila anni il lettore moderno di poesia greca e latina. Per Sant’Agostino {de
mus. V 11, 24) in fabulis (« nella dizione teatrale ») poemata solutae orationi
simillima.
5.3. Di piu non ci è dato, pare, purtroppo, di sapere. Perciò il pro
blema della performance o recitazione dei versi greci (e latini) rimane diffi
cilissimo da risolvere. Quattro soluzioni, possibili e realmente sperimentate,
sono state lucidamente illustrate con i pro e i contro dal Lenchantin De Gu
bernatis. a) Lettura dei versi greci e latini come la prosa, letti con gli accenti
normali dei vocaboli, ‘ sacrificando’ gli ictus metrici, b) Lettura eseguita
pronunciando gli ictus come accenti intensivi e sacrificando gli accenti propri
delle parole, c) Lettura con cui si marcano gli ictus metrici intensivi e in
sieme gli accenti musicali delle parole, col risultato che un vocabolo viene
ad avere due e anche tre accenti coesistenti, nel presupposto che l’uno è
melodico, onde la sillaba accentata si pronuncia su una nota piu alta, l ’altro
o gli altri sono dinamici, onde le sillabe colpite da ictus si pronunciano con
una maggiore intensità espiratoria: ma, come non esiste un accento melodico
o musicale senza intensità né un accento intensivo o dinamico senza modi
ficazioni di tono, cosi non è verosimile pensare che coesistessero piu accenti
su un’unica parola, né sarebbe possibile per noi pronunciarli in modo da
rendere distinti i diversi accenti incidenti sulla stessa parola, « u t simul
utriusque numeri ictus audiatur, tàmén, scòpulós » (G. Hermann); ma si
veda Mart. Cap., I l l 273 = p. 74,13 W .: sciendum etiam uni vocabulo
accidere omnes tres accentus posse, ut est Argiletum e si consideri per il greco
l ’accento d’enclisi: άνθρωπός χε, αΐνός τις, ecc. e, per contro, νέα πόλις >
Νεάπολις. d) Lettura senza ictus, di cui viene negata l’esistenza, nella con
vinzione che il ritmo sia generato pronunciando le sillabe lunghe e brevi con
la loro durata quantitativa e rilevando gli accenti musicali propri delle
parole ia.123
123 Lenchantim De G u b er n a tis, « Problemi » cit., in Introduzione cit., pp. 444ss.; ved.
Res metrica 103
anche P. F abbri, « Le due forme di lettura nei versi classici », in Athenaeum V (1927), pp.
288ss.; D el G rande, Elementi di metrica latina cit., pp. 123s.; Setti , « Ictus e verso antico »
cit., pp. 187ss.; Rossi, Metrica e attica stilistica cit., pp. 77ss.; G. Zuntz , Orci Kapitel xur
griecbischen M etrik (« Osterreichische Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Kl. Sitzungbe·
richte », 443), Wien 1984, pp. 3ss. « L ’accento, a ogni modo, non è tanto battuta, quanto
indugio e modulazione» (P azzaglia, Teoria cit., p. 19).
124 Ved. P ig h i , « Inter legere et scandere plurimum interesse », in Studi rit., pp. 395ss.; Rossi,
« Sul problema ddì'ictus » cit., p. 122, nota 6, dove si ricorda anche il problema non risolto
della doppia accentazione, al principio e alla fine del dattilo, -rópatér, presente nel passo citato
di Mario Plozio Sacerdote. Sui vari tipi di ‘ dizione ’ ved. R ossi, Metrica e critica stilistica cit.,
pp. 58ss. e 66, nota 156: per A r is tid e Q u in tilia n o (I 19 = p. 39,29 W.-I.) « la migliore
forma di dizione è un certo intervallo fra le arsi e le tesi ».
104 V. P almieri
5.4. Ripugna certo una lettura dei versi greci e latini a Hebungen mar-
tellanti, con ictus intensivi cioè fortemente scanditi, senza tener conto della
conseguenza che lo spostamento degli accenti metrici in sedi diverse dagli
accenti prosodici non solo genererebbe agglutinamenti fonetici privi di senso,
ma confonderebbe le parole distinte solo dall’accento, quali βίος/βιός, έταί-
ρων/έταιρών, βασίλευσαι/βασιλεΰσαι, ecc. Un esempio può essere Ar.,125
125 L ejeune, Phonétique historique du mycénien et du gree ancien dt., S 223, p. 218;
S.-T. T eodorsson, The Phonology of A ttic in the Hellenistic Period (« Studia Graeca et Latina
Gothomburgensia », XL), Goteborg 1978, p. 82; A lle n , V ox Graeca d t., p. 119 (sull’accento).
124 Cfr. praesertim H. W. C handler, A Practical Guide to Greek Accentuation, Oxford 1862,
il quale elenca circa 900 parole che cambiano significato cambiando accento, senza indudere tutte
le forme verbali. Si può ricordare anche la figura della rima al mezzo in versi come Ov., ars am.
Res metrica 105
Β οιμοι δείλαιος'
Il passo può essere invocato anche a favore dell’ ‘ ictazione ’ a piedi alterni
nei metri giambici con ictus sulla lunga del secondo piede: ad ‘ ictare ’
*δήμον nel v. 40 si distruggerebbe il doppio senso; esso prova inoltre che,
se simili giuochi erano possibili, la ‘ marca ’ dell’accento era distintiva si,
ma non incommutabile e che quindi la differenza tonale acuto/circonflesso
e tonico/atono non doveva essere molto forte. Altro esempio è Men., fr.
381 Edmonds ( = 323 Κ.-Th.2) con εταίρων vs έταιρων e γαλήν, àpio (Eur.,
Or. 279) vs γαλήν όρώ (Ar., ran. 303) nella fante dell’attore Egeloco. Dan
neggiate sono anche dagli ictus di una lettura ‘ metrica ’ le pause di senso
spesso distintive: ved. it. ‘ lo studente studioso è stato promosso ’ vs ‘ lo
studente, studioso [ = sebbene studioso], è stato bocciato’ e in greco:
έγώ σ’ ϊθηκα, δοϋλον δντ’, έλεύθερον
vs
έγώ σ’ έδηκα δοϋλον, δντ’ έλεύθερον.
5.5. Occorre tener presenti alcuni dati comunemente accettati.
1°). L’altezza tonale si accompagna nelle lingue note ad un accento
di intensità e viceversa, anche se in ogni lingua ha funzione distintiva o
pertinente solo uno dei due tratti prosodici, mentre l’altro è ridondante.
Ricerche fonetiche sperimentali recenti con oscillografi, spettografi, ecc.
l ’hanno evidenziato e provato in modo inequivocabile 127. L’accento acuto,
grave o circonflesso aveva funzione distintiva, come si apprende da vari
passi di Aristotele (poet. 25, 1461 a 22; soph. el. 4, 166 b 1 e 21, 177 b 35)
per l’opposizione ού vs ού, l’uno essendo accentato, l’altro no, sebbene Apol-
I 59: quot caelum s t e l l a s , tot habet tua Roma p u e l l a s · , ictando stellis, la rima non
sarebbe perfetta, perché verrebbe meno l’identità della posizione dell’ictus con puéllas, ma re
sterebbe la rima articolativa (ripetizione delle stesse vocali e delle stesse consonanti) e quella
quantitativa (ripetizione delle stesse lunghe e delle stesse brevi): per i termini ved. A. Cam illi,
Trattato di prosodia e metrica latina cit., pp. 109s.; Stanford, op. cit., pp. 144ss.
m Ved. L. Cànepari, Introduzione alla fonetica («PB E », 369), Torino 1979, pp. 92ss.;
E lisabetta Fava - E manuela Magno Caldognetto, « Studio sperimentale delle caratteristiche
elettroacustiche delle vocali toniche ed atone in bisillabi italiani », in Studi di Fonetica e Fo
nologia (A tti del Convegno Internazionale di studi, Padova, 1 e 2 ottobre 1973, a cura di
R. Simone -U . V ignuzzi - G iulianella Ruggiero), Roma 1976, pp. 35ss. Non si deve con
fondere, ovviamente, come talvolta si è fatto, l’accento di parola con l’accento o meglio into
nazione di frase: questo è sempre melodico ed è un tratto distintivo, di solito con marca grafica
propria (? ! zero; inversione del soggetto, ecc.): si?/sitisi·, cfr. Canepari, op. cit., pp. 104ss.
106 V . P a l m ie r i
trebbe invocare l ’analogia con la musica: come le note musicali vanno spesso
contro gli accenti delle parole, cosi pure gli ictus metrici in una poesia
* melodica cioè variamente cantata; ma le note possono ben coesistere con
gli accenti prosodici, gli ictus invece li sostituiscono e li annullano. Il vero
problema, dunque, per la recitazione dei versi greci e latini non è nella na
tura dell’accento: non bisogna ‘ idolatrare ’ la natura musicale dell’accento
greco (e latino). Rendendolo dinamicamente, se ne perderebbe solo un tratto;
ma quanti tratti fonetici noi non rendiamo o tradiamo nel leggere il greco
e il latino? E gli italiani leggono diversamente dai francesi, e questi diver
samente dai tedeschi e dagli inglesi! Anche la recitazione dei versi dovrebbe,
come la pronuncia, essere storicizzata e quindi diversa a seconda delle varie
età. La vera difficoltà risiede nel fatto che la lettura ad ictus annulla gli
accenti naturali delle parole per sostituirli con altri su altre sillabe. Di fronte
a questa difficoltà poco o nulla valgono le osservazioni per giustificare gli
spostamenti d ’accento nella lettura con ictus: enclisi, proclisi, cambiamento
dell’acuto in grave in posizione interna alla frase, atonia di alcune parole;
accento per gruppi di parole unite in nessi sintattici; cesura, ecc.129130. Ipotesi
e tentativi vari per provare coincidenze di ictus metrici e accenti di parola
nei versi greci e latini fino al 90-95% sono basati su spogli parziali e non
sono suffragati dai testi I3°: il poeta greco e latino normalmente non cercava
la congruenza degli ictus con gli accenti, salvo casi particolari. E poi una
sola sillaba per parola era pronunciata di norma su una nota piu alta: Var
rone (apud [Serg.], explan, in Όοη. I = GL IV 532, 9 = GRF 303, 27)
ci riferisce in loquentium legentiumque voce... acuta tenuior est quam gra
vis et brevis adeo, ut non longius quam per unam syllabam, quin immo per
unum tempus protrahatur; cum gravis, quo uberior et tardior est, diutius in
verbo moretur et iunctim quamvis in multis syllabis residat (cfr. anche Cic.,
orat. 18, 58 ipsa enim natura, quasi modularetur hominum orationem, in
omni verbo posuit acutam vocem [ « accento » ], nec una plus nec a postrema
syllaba citra tertiam·. Quint., inst. or. I 5, 31 est enim in omni voce utique
acuta, sed numquam plus una nec unquam ultima, ideoque in disyllabis prior·,
Pomp., comm. art. Don. = G L V 126, 31 illa syllaba plus sonat in toto
verbo, quae accentum habet). Con un solo accento tonale per parola, anche
se lunga, e in sedi sempre diverse, non si può creare nessun ritmo: gli accenti
di parola potevano dar la melodia in prosa e in poesia, ma erano ininfluenti
per il ritmo; questo gli antichi lo sapevano benissimo e ce l’hanno trasmesso
129 L en ch an tin De G u b ern a tis, « Problemi » cit., in Introduzione cit., pp. 446s., con bi
bliografia.
130 Cfr. A llen , op. cit., pp. 121s. 137s,; Id., Accent and Rhythm, Cambridge 1973,
pp. 122ss. e passim.
108 V. P almieri
chiaramente, tutte le volte che, distinguendo il ritmo della prosa da quello MH&.
del verso, affermano che quest’ultimo ha bisogno di una serie di piedi fissi:
versus semper similis sibi est et una ratione decurrit (Quint., inst. or. IX
4,60); (poesis) alligata ad certam pedum necessitatem (Id., ibid. X 1,29);
me pedibus delectat claudere verba (Hor., sat. II 1,28); nisi quod p e d e
c e r t o / differt sermoni, sermo merus (Id., sat. I 4, 47); orda pedum facit,
ut id, quod pronuntiatur, aut orationis (« prosa ») aut poematis (« poesia »)
simile videatur (Cic., orat. 68, 227); numeris astrictam orationent esse de
bere, carere versibus (Id., ibid. 56,187); ut versum fugimus irroratione,
sic hi sunt evitandi continuati pedes (Id., ibid. 57, 194); neque enim loqui
possum nisi e syllabis brevibus ac longis, ex quibus pedes fiunt (Quint., inst.
or. IX 4 ,6 1 ); (metrum) certis pedibus currit (Aug., dc mus. I 1, 2 ~
II 7, 14).
L’accento prevalentemente melodico non è del tutto sconosciuto all’ita
liano, all’inglese, al francese... moderno e ci sono lingue vive, come il cinese,
il giapponese, il serbo-croato, lo svedese..., che se ne servono come proso-
dèma distintivo; perciò, se conoscessimo l’altezza dell’accento greco (e la
tino), niente ci impedirebbe di esprimerlo. Se la voce nel parlare comune
compie un movimento continuo (κίνησις συνεχής), cioè con frequenti ma
bassi intervalli tonali, e nel cantare si muove in modo discontinuo (κίνησις
οιαστηματική), cioè con piu rari ma forti intervalli, nella recitazione poetica
la voce avrà compiuto cambi graduali di tono di media altezza, se è lecito
intendere cosi la μέση κίνησις, di cui si è fatto cenno (5.2): difficile dire
se questo ‘ movimento medio ’ sia la stessa cosa del non altrimenti precisato
μέσος τόνος, di cui parlano alcuni grammaticim. Difficile anche sarà credere
(3.7) che il linguaggio parlato greco (e latino) fosse una melopea o una
cantilena132: una melopea, cioè un canto dolce e uniforme, sarà stata la
poesia. Forse l’altezza tonale del ‘ recitativo ’ in poesia era, come nel discorso
comune, variabile in rapporto a diversi fattori obbiettivi e soggettivi: perciò
forse non potè mai essere precisata dagli antichi.
131 Id., ibid., pp. 112s.; Stanford, op. cit., pp. 158 e 160 (con bibliografia); P. G arde,
L'accent, Paris 1968, pp. 51s. sminuisce al massimo la distinzione fra stress o accento dinamico
e pitch o accento melodico: «cette distinction ne semble pas m ériter l’importance qu’on lui ac-
corde d’habitude»; contra Lupa?, op. cit., p. 172.
133 « Il linguaggio greco antico e, con determinate differenze, il linguaggio latino, era quasi
una cantilena, un canto rudimentale che rendeva meno netti i confini tra le parole e la melopea,
legate entrambe, almeno in origine, ad un vincolo comune, quello del disegno ritmico » (L en -
chantin D e G ubernatis , « Problemi » cit., in Introduzione cit., pp. 400s., con rinvio in nota
a Th. R einach , La musique grecque, Paris 1926, p. 66). Ma è lecito avanzare molte riserve,
come si è visto, non solo relativamente al linguaggio comune, per il quale ri sono le precise
testimonianze di C icerone (orai. 18, 57) e di Q uintiliano (inst. or. I 8,2), che parlano di un
cantus obscurior, ma riprovano la « cantilena da teatro », bensì anche riguardo alla dizione
poetica, che si distingueva sf dalla prosa ma anche dal canto, ed oratoria.
Res metrica 109
133 « On sait que les voyelks longues comportent plus de tension des cordes vocales que
les brèves. Ces longues particulièrement longues devaient ètte aussi particulièrement tendues,
ayant une importance pour le métte; tension et insistence qui ne pouvaient aller sans s’aecom-
pagner d’une relative intensità. Mais leur relief ressortissait à la quantité » (R. Lucot, « Sur
l’accent de mot dans l’hexamètre latin», in Pailas XVI [1969], p. 85); ma il Lucot esclude
« et l’idée et le mot d ’ictus vocal ». Ved. anche Setti, « Ictus e verso antico » cit., pp. 138s.
e passim-, R ossi, «S ul problema dell’icfar» d t., p. 121: «Che poi alla quantità si sposasse
una più o meno marcata espirazione, è assai ragionevole ipotesi da varie parti avanzata»; ma
11 Rossi, è noto, crede solo all’ictus esterno, non a quello interno al piede metrico. Per le
lingue moderne ved. nota 127.
no V . P a l m ie r i
134 D e l G rande , La metrica greca c it., p . 269 e passim-, Id., DEUMM, I I , p . 4 0 4 , s.v.
« G re c ia » A / I I ; Sachs, op. cit., p . 2 6 8 , p e r la lu n g a p a r i a u n a sem im inim a (— = J ) .
135 A . R o m e , « Le v itesse d e la p aro le des o ra te u rs a ttiq u e s », in Bulletin de la Classe de
Lettres de l’Académie Royale de Belgique X X X V III (1 9 5 2 ), p p . 596ss., su cu i v e d . le riserv e
d i St a n f o r d , op. cit., p . 37. P e r le lin g u e m o d ern e: « I l sem b le, d 'ap rès les m e su re s faites,
q u e les “ longues ” so ien t e n g é n é ra l p lu s “ longues q u e le s b rè v e s ” d ’en v iro n 5 0 % o u m oins,
d an les cas o ù il s ’agit de v é rita b le s diflerences q u a n tita tiv e s » (B. M alm berg , La phonétique,
P a ris 19 7 3 10, p . 87: bette/bète, p . 88); in tam il le vo cali lu n g h e d u ran o u n a v o lta e m ezza le
b re v i; in finlandese e in siam ese d u ra n o il d o p p io ; in ita lia n o le vocali acc e n ta te in sillabe
a p e rte n o n finali sono p iu lu n g h e d e l norm ale d a 1,5 a 2 ,5 v o lte : c£r. W . H . C h a p m a n , Intro
duzione alla fonetica pratica, R o m a 1972, p. 44; ved. a n ch e P . M . B e r t in e t t o , Strutture pro
sodiche dell'italiano, F iren ze 1981, passim e “ T avole ” a p p . 253ss.
136 M aas, op. cit., pp. 48s.; Stanford, op. cit., p p . 37 e 4 7 , n o ta 55.
137 Ved. le riserve di S tan ford , op. cit., l.l.
Res metrica 111
nanti a cui si unisce, come per il primo omicron delle parole οδός, 'Ροδός,
τρόπος, στρόφος, con una durata via via piu lunga (Dion, Hai., de comp.
verb., 15, 58 — VI2 166, 20 Us.-Rad.)139. Se le osservazioni di Dionigi non
riguardano specificamente la metrica, a questa si riferisce ciò che scrive
Quintiliano (inst. or. IX 4, 84): et longis longiores et brevibus sunt breviores
syllabae: ut, quamvis neque plus duobus temporibus neque uno minus ha
bere v i d e a n t u r ideoque in metris omnes breves omnesque longae inter
se ipsae sint pares, lateat tamen nescio quid, quod supersit aut desit..., conti
nuando poi a parlare delle sillabe communes su cui agisce la pojitio·, cfr.
Aug., de mus. VI 10, 28, per il quale la quantità è basata su hominum prisco
placito et consuetudine... nam profecto si natura vel disciplina id fixum esset
ac stabile, non recentioris temporis docti homines nonnullas produxissent quas
corripuerunt antiqui vel corripuissent quas produxerunt e Ov., ep. ex Pont.
IV 12, 14 [ut] producatur quae n u n c correptius exit et sit porrecta longa
secunda [syllaba, del nome Tuticàni] mora).
3°). Se i longa vengono considerati comunque ‘ elementi-guida ’ nei
versi, bisogna spiegare quale ritmo possono creare lunghe serie di brevi
(e di lunghe).
Il greco nella fase pili antica del suo sviluppo, si sa, evitava in prosa e
in poesia parole con piu di tre sillabe brevi consecutive, allungandone una;
w
σοφός/σοφώτερος, άΜνατος [ad > ad], ecc. La difficoltà costituita da « una
mitraglia di brevi » (Rossi) per i negatori dell’ictus ritmico-metrico è evi
dente, non perché esse siano ambigue: è stato giustamente osservato che
l’ambiguità è solo astratta, in quanto serie di brevi oppure di lunghe ven
gono ritmicamente disambiguate nel e dal contesto; bensì perché veramente
non si riesce a comprendere come potesse distinguersi, anche in un passo
lirico accompagnato da note musicali, il ritmo di versi quali questi di Pratina
(fr. 708, 1 e 3 Page):
τις ó dάpυβoς οδε; τ ί τάδε τα χορεύματα;
W W WW W WW w w w w W ---- UVJ
έμός έμός ό βρόμιος έμέ δει κελαδεϊν, έμέ δει καταγεϊν
w w ww w ww w w w — w w — w w — ww —
o di Eur., Iph. Taur. 197 φόνος έπί cpóvcp, άχεά τ ’ άχεσιν 140
w w WW W---WWW WWW
e Hei. 364 o di Ar., αν. 227. 243. 260ss., o di Pind., Pyth. 2, 1, ecc. An-
139 Ved. R ossi, M etrica e critica stilistica cit., p. 52, nota 118; D e l G r a n d e , La m etrica
greca cit., p. 269. Inoltre si poteva recitare versus q u ilib e t m o d o correptius, m odo p ro d u c tiu s,
...q u a m v is ea d em p e d u m ratione serv a ta (Aug., de m us. V I 2 ,3 ; 7,17-18).
140 Analoghe osservazioni in S e t t i , « Ictus e verso antico » cit., pp. 156 e 161; D a i n , op.
cit., pp. 21 e 27.
Res metrica 113
tiche sono le misure del ritmo (6.1): versus saepe in oratione per impru
dentiam dicimus (Cic., orat. 56,189); est igitur (dimensio) in pedibus et
metricis quidem pedibus, <qui> adeo reperiuntur in oratione, ut in ea fre
quenter non sentientibus nobis omnium generum excidant versus, et contra
nihil quod est prosa scriptum, non redigi possit in quaedam versiculorum
genera vel in membra (Quint., inst. or. IX 4, 52); at comicorum senarii prop
ter similitudinem sermonis sic saepe sunt abiecti, ut non numquam vix in eis
numerus et versus intellegi possit (Cic., orat. 55, 184). Dunque-'ritmo e
verso vanno ‘ riconosciuti ’ non solo nella prosa, dove potrebbe .sembrare
ovvio, ma anche nella poesia: è una verità di inestimabile valore e portata:
senarios vero et Hipponacteos effugere vix possumus nella prosa ... sed tamen
eos versus facile agnoscit auditor (Cic., orat. 56, 189); primum enim numerus
agnoscitur, deinde satiat, postea cognita facilitate contemnitur (Id., ibid.
63,215).
5.7. Non c’è ritmo senza l’attenzione e la memoria, che notino e raf
frontino le misure: osservazione e coscienza 143 sono necessarie per scoprire
ritmi e versi; perciò ne possono sfuggire tanti a chi parla o scrive in prosa,
in tutte le lingue, anche in italiano 144 che ha ritmi cosi fortemente scanditi
— piu del francese, per esempio — ; quindi, come ha acutamente notato
il Setti, non può essere invocato contro l’esistenza dell’ictus ritmico nei
versi greci e latini il vecchio argomento che era facile il passo dalla prosa
al verso (e viceversa). L ’intelligenza e la memoria possono fare scoprire le
brevi clausole ritmiche dei periodi prosastici, come possono far riconoscere
la linea ritmica di un verso. È la ‘ competenza metrica ’ di cui si è fatto già
cenno (1.2), la quale presiede all’opera creatrice del poeta che trasmette il suo
messaggio codificato in versi come all’attività decodificatrice del lettore:
questi riconoscendo un verso o una clausola, leggendo, ri-costruisce sia quel
verso sia tjnella clausola. Ne erano consapevoli gli antichi e ne abbiamo
lucidi esempi da quel grande maestro che fu Quintiliano, si tratta di passi
che meritano una compiuta citazione, anche se noti:
plus exigunt subtilitatis quae accidunt in dicendo vitia,
quia exempla eorum tradi scripto non possunt, nisi cum in ver
sus inciderunt, ut divisio ‘ Europai ’ ‘ Asiai ’, et ei contrarium
143 H a fornito acute considerazioni a questo proposito il S e t t i negli articoli citati, passim-,
per l ’ictus nella prosa ved. Id., « Ictus e verso antico » cit., pp. 180s.; ibid., pp. 172s. e 181
sull’ictus come effetto della quantità; cfr. Pighi, La metrica latina cit., p. 222. Lucida consa
pevolezza ne aveva S. Agostino, il quale afferma che un verso è nel suono che si ode, nel
senso dell’udito di chi ascolta, nell’atto di chi lo pronuncia ed è insito anche nella nostra
‘ memoria ’ ('de mtts. V I 2 ,2ss.). Ved. anche G. M a s t r o m a r c o , « Pubblico e memoria letteraria
nell’Atene del V secolo», in Quad. A1CC Foggia IV (1984), pp. 65-86.
144 D i G irolam o, Teoria e prassi cit., pp. 120ss. con moltissimi esempi.
ifctakatti*»
e simili in metrica,neppure il comune fa'clré è ‘ latino ’, perché da Jt Jt > Jt ' h h > X' XX
rectius u u (tale suona per noi /icere, a parte il cl), proprio come lìtorà, fàbula ...
J J' J /
JiJ i > J i > J 'J t J t > X' XX e hòmìnès ... da J 'J > J iJ >
X' X X: cfr. P i g h i , La metrica latina cit., pp. 545ss. La pronunzia corrente livella w w /
— / w w — in w
118 V. P a lm ie ri
come unità ritmiche definite nel rapporto delle misure temporali dei loro
due movimenti, il su e il giù, di immediata intuizione e oggetto della viva
esperienza dei Greci e dei Latini, per i quali non c’era forse bisogno di
precisar altro, i piedi metrici si configurano come battute, prive del carattere
divisionale e isocronico tutto moderno. L’ictus è interno al piede, parlare
di piede è parlare anche di ictus: Bacch., isag. 100 = p. 314,20 Jan πόσοι
ούν είσι όνθμοί; — δέκα... ίαμβος χορείος ανάπαιστος... i dieci piedi sono i
dieci ritmi; perciò definiti i piedi, definiti gli ictus: pes sine rhythmo esse
non potest (Mar. Victor., gramm. I 11 = G L VI 44,6); pedent... non
appellare, nisi eum quo rhythmus efficiatur (Aug., de mus. I l l 5, 12): se
non è ritmo non è piede e viceversa.
5.9. Nello stesso Aristòsseno c’è un passo {el. rhythm. 290 Mor. =
p. 22, 5 Pighi) διά τί δέ ού γίνεται πλείω σημεία των τεττάρων, οΐς è πούς
χρήται κατά τήν αύτοΰ δύναμιν, ύστερον δειχθήσεται, « si dimostrerà in sé
guito perché non ci siano piu di quattro σημεία (‘ tempi primi ’), che il piede
usa secondo il proprio valore ritmico »: δύναμις non è qui né λόγος (‘ rap
porto fra le due fasi del piede ’) né γένος né μέγεθος né τάξις (‘ disposizione
delle due parti del piede ’), benché dagli uni e dagli altri questa ‘ forza ’
sia determinata, come ne determinano Γεϊδος e lo σχήμα. Il termine ricorre
anche altre volte in Aristòsseno (el. rhythm. 292 Mor. = p. 22, 12 Pighi,
el. harm. II 34,15 Meib. = p. 43,17 Da Rios), dove viene interpretato
variamente («andamento del ritm o» [Da Rios], «dinamica agogica»
[Rossi], « valore » [Pighi e Gentili]); ma bisogna tener presente che δύναμις
è un ‘ elemento fisso’ del piede (το μένον, ibid.). Qual è questa δύναμις,
che è propria di ciascun piede, interna ad esso? Certamente il ritmo (e in
musica anche la melodia), di cui esso reca e segna le due prime fasi o movi
menti: cfr. Atil. Fortun., ars 4 ,6 = GL VI 282,5 {metra) diversae
p o t e s t a t i s pedibus constant e Aug., de mus. VI 14,47 ordinationis
p o t e n t i a m (‘ rapporto e ritmo ’).
Quintiliano scrive (inst. or. I 6 ,2 ) che i poeti talvolta usano della
libertà che loro concede il verso, commettendo senza ragione metrica veri
erro ri146: nihil impediente in utroque m o d u l a t i o n e p e d u m alterum
malunt, qualia sunt ‘ imo de stirpe recisum’ [Verg., Aen. XII 208: imo
pro ima] et ‘ aeriae quo congessere palumbes ’ [Id., bue. 3,69: aeriae pro
146 « I poeti alterano e livellano gli accenti logici necessari al raggiungimento della compren
sione che consenta il dialogo fra uomo e uomo; sostituiscono il libero ritmo espressivo della
frase parlata con modelli fissi di lu n g a e breve o di fo r te e debole-, in luogo del naturale fluire
del discorso pongono artificiali combinazioni di parole che spesso vengono meno alle regole della
grammatica e della sintassi; sostituiscono le parole consuete con altre insolite che non usereb
bero nel parlare abituale. L’arte altera l’ordine naturale delle cose per porle su un piano piu
elevato o comunque diverso » ( S a c h s , op. cit., p. 18). Ved. Cic., orai. 6 0 , 202.
Res metrica 119
aeri!] et ‘ silice in nuda ’ [Id ., ibid. 1, 15 pro nudo]..., « senza che ci sia
nessun impedimento imposto dalla misura dei piedi »; ma modulatio non
varrà anche ‘ ritmo ’ (metrico e melodico)? Il termine significa « musica »
in IX 4, 89 siculi (tonÌ> modulatione e Mart. Cap., IX 939 = p. 361, 8
Willis dice modulatione, quam melopeiam vocamus. Nel senso specifico di
‘ misura ’ Quintiliano stesso altrove usa dimensio: in dimensione pedum syl
laba quae est brevis... (IX 4, 85). Riferito alla voce, indica il movimento
ch’essa compie, passando dal grave all’acuto e viceversa: Mar. Victor., gramm.
I l i 6 r G L VI 113,5 lyrica poemata sublata modulatione vocis non
ultra solutam orationem procurrunt. Il verbo modulor, oltre al significato
piu comune di « cantare, suonare », ha talvolta quello di « misurare » vocem
(Cic., de or. IH 48,185) e di « segnare il ritmo »: cfr. Tit. Liv., XXVII 37,14
sonum vocis pulsu pedum modulantes incesserunt, « ritmando il loro canto
col battere dei piedi »; Pìin., nat. hist. I I 209 sunt et in Nymphaeo parvae
l scii, insulae], Saliares dictae, quoniam in symphoniae cantu modulantium
pedum moventur. Può essere simile Plutarch., Dem. 20, 3 dove si dice che
Filippo canta (ΐδε) un tetrametro (giambico catalettico) προς πόδα διοαρών
καί ύποκρούων, « dividendolo e ritmandolo col piede »: προς πόδα come
προς αυλόν, Lucian., Prom. 6 et al. (Omero ha ποσίν), ma potrebbe essere
anche « secondo i piedi, di piede in piede ». Notevole Mar. Victor., gramm.
I 14 = G L VI 55,11 versus est ut Varroni placet (fr. 288, p. 308,1
Funaioli) verborum iunctura, quae per articulos et commata ac rhythmos
m o d u l a t u r i n p e d e s (« si misura e si ritma per piedi »). Un’ultima
testimonianza, non citata comunemente, non è di scarsa importanza: Quint.,
inst. or. IX 4 136 aspera contra iambis maxime concitantur, non solum quod
sunt e duabus syllabis eoque f r e q u e n t i o r e m quasi p u l s u m h a
b e n t , quae res lenitati contraria est, sed etiam quod omnibus pedibus insur
gunt et a brevibus in longas nituntur et crescunt, ideoque meliores choreis,
qui ab longis in breves cadunt. II passo, che si trova in un capitolo interes
sante per piu aspetti, qui merita menzione per la parte spaziata: i giambi
(ma prima si dice che anche i trochèi sono ‘ celeri ’) hanno per dir cosi un
‘ polso ’ piu rapido e sono tutti di ritmo ascéndente, crescendo da sillabe
brevi a lunghe, su cui si posano con forza. Qual è questo ‘ battito piu ce
lere ’, quasi come il ritmo del polso, che hanno i piedi composti di una
lunga e una breve e viceversa, i giambi cioè e i trochèi? si vorrà dire che
anche qui si tratta del piede umano? e come si appoggiano sulle lunghe se
non insistendo con la voce per durata e intensità? I piedi hanno e creano
un proprio ritmo: Aug., de mus. I l i 1, 1 copulati sibi pedes, quos copulari
oportet, perpetuum quendam numerum (« ritmo ») c r e a r e ~ I I 11,20,
sebbene nella teoria metrico-musicale, relativamente alla ‘ scansione ’, di
120 V . P a l m ie r i
sillaba breve finale di ‘ metro nam eodem modo ibi brevis ultima, ut bic
longa percutitur, perché sive ibi (alla fine del metro) brevis syllaba sive
longa sit, eam sibi aures pro longa vindicent. Ved. anche IV 7, 8 caetera
[ = esempi di ‘ metri ’ di tribrachi] enim potes v e l v o c e v e l a l i q u o
p l a u s u per te ipse contexere, si tamen adhuc aurium sensu explorandos
huiuscemodi numeros arbitraris·, II 13,24 eosdem pedes... p e r s o n a n d o s
(« declamare, ritmare ») p l a u d e n d o s permitte·, I I I 3, 5 non v e r b i s
[perché ne ignora la quantità], red a l i q u o p l a u s u · , VI 10,27; IV
16, 31 e VI 2, 3. Come si distinguerebbe in una poesia senza musica solt-dà
vs só-Udà secondo la duplice divisione del tribraco? (IV 7, 8). Il problema,
come si comprende, è molto complesso e già tanto dibattuto per la metrica
latina arcaica l<1: qui non può essere nemmeno sfiorato.
A puro titolo di ipotesi avanzerei una proposta, che ha bisogno di es
sere verificata con molti parametri nei testi: un lavoro che ho in corso.
Aristòsseno considera ‘ irrazionale ’ il piede che egli chiama corèo:
perché non trochèo o giambo? Anche il Rossi, che ha ridimensionato giusta
mente il concetto di piede irrazionale, nel corèo comprende oltre al trochèo
almeno anche il giambo (3.5). Aristòsseno, discepolo di Aristotele, doveva
certo conoscere i nomi di giambo e trochèo testimoniatici da Aristotele e
prima da Platone (2.11): quindi poteva usarli, se voleva indicare con
corèo uno di quei due piedi o tu tt’e due. Una parte della tradizione, in cui
c’è l’autorità di Cicerone — che in questo viene facilmente accusato di
essere caduto in errore seguendo Aristotele (2.10), ma intendendo il tri
braco col piede che egli con lo Stagirita chiama trochèo, da lui chiamato
di solito corèo (orai. 57, 191 e 193; 63,212; 64,217; de or. I l i 50, 193
contra III 47,182) — , usa promiscuamente i termini ‘ trochèo ’ o ‘ corèo ’
anche a significare il tribraco; Hephaest., 3 ,2 = p. 11,4 Consbr. τρίχρο
νος εϊς, έκ τριών βραχειών, τρίβραχυς δ καί χορείος, Arist. Quint., I 22 =
p. 44, 17 W.-I. τάς τρεις βραχείας Εχει καί ποιεί χορεΐον, Cic., orat. 64, 217
par choreo <trochaeus^ [Meyer, om. codd.J, qui habet tres breves, sed spatio
par non syllabis·. Quint., inst. or. IX 4, 82 tres breves trochaeum, quem tri-
brachyn dici volunt, qui choreo trochaei nomen imponunt, sebbene il retore
affermi (IX 4, 79) che nella nomenclatura dei piedi, quorum nomina quia
1,7 Ottimo in proposito Q u esta , « Metrica latina arcaica » d t., in Introduzione cit., pp.
477ss., con approfondimento critico dei problemi e della bibliografia relativa. Sarcastico C a m ilu ,
Trattato d t., pp. 130s. L’esempio dicére ricorre in una clausola trispondiaca di Cic., orai. 63,213
(Tu dicere solebas = —, ώ ο υ , _ι_— ), dove c’è chi, ritenendo impossibile che Cicerone
pronunziasse dicére, vorrebbe esdudere tu dalla dausola per ridurla a eretico-trocaica
f w : Cicerone, Orator. Commento di E. D e M a rc h i -E . Stam pini, Torino 1960 (1886),
p. 121, ad l.\ altri inverte Tu solebas dicere = _/_— , _ L — , _z_ w C/ : M. T u l l i C ice
ronis Orator a cura di S. C ecchi, Firenze 1962, p. 143. Ved. note 128 e 145.
122 V . P a l m ie r i
148 Non posso condividere l'opinione del Rossi (.Metrica e critica stilistica cit., pp. 29s.),
secondo il quale la lunga ‘ irrazionale ' come « " quantità intermedia fra lunga e breve " era
Res metrica 123
solo uno strumento concettuale, un’astrazione numerica (che non trovava poi neanche un’espres
sione numerica determinata) »: dove è tutto ben detto, ma ridurre il fenomeno delTirraziona-
lità a una « impressione » di chi legga o ascolti ritmi giambici é trocaici, è un mandare gambe
all’aria il valore stesso della quantità, sia pure per sedi particolari di quei versi; salvo che non
si voglia convenire nel senso che tu tti i tratti linguistici e fonetici, quantità lunghe e brevi
comprese, sono un fatto di ‘ percezione ’ (αίσδησις). Ritornerò sulla questione.
124 V . P a l m ie r i
6.1. Se la dizione della prosa era diversa da quella della poesia (5.2),
unica e identica è la natura del ritmo non solo della poesia e della prosa,
ma in generale di ogni discorso e di tutti i suoni che si possono misurare
con gli orecchi: non quin idem sint numeri non modo oratorum et poetarum,
verum omnino loquentium, denique etiam sonantium omnium quae metiri
auribus possumus... (Cic., orat. 68,227). Ma il ritmo della prosa non è
sottoposto alle rigorose leggi della poesia, anzi le evita ed è del tutto diverso
dal ritmo poetico: non modo non poetice vinctus, verum etiam fugiens illum
eique omnium dissimillimus (ibid.); una diversità che è determinata dall’ordo
Res metrica 125
pedum {ibid.), dai continuati pedes [ibid. 51,194), perché il ritmo della
poesia nimis est vinctum {ibid. 51, 195): in versibus... modum notat ars
{ibid. 60, 203). Il parlare in prosa non... totum constat e numeris (Id., ibid.
58,198), ma, quando in primis partibus atque in extremis {ibid. 5 9 ,199)
del periodo, specialmente, ci sono i pedes, poiché la struttura della prosa
est ...in pedibus et metricis quidem pedibus (Quint., inst. or. IX 4, 52),
allora, per quelle parti, la prosa non è diversa dalla poesia: est enim in utro
que et materia et tractatio: materia in verbis, tractatio in collocatione ver
borum (Cic., orat. 60, 201), « la materia è costituita dalle parole, la forma
dalla loro collocazione »; la materia è la stessa, la forma solo è diversa.
6.2. Contro l’ictus non può essere invocato il fatto che esso era estra
neo alla prosa. Personalmente non riesco a spiegarmi una testimonianza an
tica, che non ho trovata addotta contro l’ictus dai negatori di esso, cioè la
scansione pentametrica del secondo verso del distico elegiaco, il pentametro
appunto. C ’è un accordo quasi generale nel credere ad Efestione (p. 51,20
Consbr.), dal quale apprendiamo che il pentametro è composto da due he-
miepe maschili, πεντάμετρος ricorre già in Eraclide Pontico {apud Athen.,
XIII 78, 602c = fr. 65 p. 25, 15 Wehrli), in Ermesianatte, contemporaneo
di Aristòsseno, {fr. 2, 36 Diehl2 μαλακού πνεΰμ’ άπό πεντάμετρου) e in Cal
limaco {fr. 9-10 Pfeiffer). Si è già visto (1.1) che Ovidio considerava
il distico elegiaco come una sequenza di undici piedi (6 + 5); Stazio indica
il pentametro servendosi due volte della medesima formula: qui nobile
gressu/extremo fraudatis opus (silv. I 2,250), «voi che private dell’ultimo
piede il nobile verso » e heroos gressu truncare tenores {silv. V 3, 99), « ac
corciare di un piede la lunghezza del verso eroico ».
Impastoiato dal concetto di pirrichio e in considerazione della ‘ indif
ferenza ’ dell’ultima sillaba nel verso e nella clausola, Marziano Capella con
sidera appunto un pirrichio la fine del ‘ pentametro elegiaco ’: et trochaeus
et iambus vel pro iambo post trochaeum pyrrhichius malam clausulam faciunt;
hoc enim finem elegiaci pentametri turpiter reddit (V 521 = p. 181,13
Willis); consapevole della scansione ‘ esametrica ’ sembra invece, quando
scrive (V 517 — p. 179,10 W.): nec finem vitavit (scii. Cicero) elegi, sicut
ait ‘ oderat ille bonos ’. La scansione pentametrica del verso (-t- ,
-ί- I — , accanto a quella esametrica ( 2 . u u , J-
II ζ υ υ ι i i ) è ricordata da Diomede {gramm. = GL I 520, 32) e
dallo scolio B a Efestione (p. 283 Consbr.). Si dilungano in spiegazioni sulle
due scansioni, con qualche artificio di piu, Terenziano Mauro (w . 1721-
1800 = GL V I 376ss.) e Mario Vittorino {gramm. I l i 4 = GL VI 109,29).
S. Agostino {de mus. IV 14,19) sostiene la doppia pausa, mediana e finale.
126 V. P a lm ie ri
149 La tesi di molti studiosi moderni, per cui il nome di pentametro derivò al verso da una
sua meccanica scansione in cinque piedi, ha riscontro in qualche passo di grammatici antichi,
come [ S e r g . ] , explan. in Don. I = GL IV 524,12 pentameter [Ον., am. I 2 ,4 0 ] ‘ plau
det et adpositas spargit in ore rosas ’ scanditur sic, plaudetet adposi tas spargitin orerò ras.
syllaba quae est in medio et quae est in fine pro uno pede accipiuntur: ita quinque pedes
faciunt pentametrum, sed catalectica, quae est in medio, semper longa esse debet, ma si cono
scono eccezioni di brevis in longo e casi di sinafia: ved. da ultimo G. M o r e l l i , « Inni e iscri
zioni metriche in pentametri elegiaci », in Rii: fil. istr. class. CXIII (1985), pp. 55ss.; anche
P i g h i , La metrica latina cit., pp. 405ss.
150 Sulla questione ved. C u p a i u o l o , « Metrica latina d ’età classica » cit., in Introduzione cit.,
pp. 576s. e in particolare L e n c h a n t i n D e G u b e r n a t i s , Manuale di prosodia e metrica latina
cit., pp. 48ss., il quale è indotto a supporre « che la scansione per cinque piedi del pentametro
fosse quella che risultava dal disegno musicale del distico. Esso svolgendosi con ritmo dattilico
per un verso e mezzo (esametro e primo emistichio del pentametro), prendeva poi, negli ultimi
due piedi, un movimento anapestico in contrattempo, secondo una tendenza che s’osserva con
frequenza nella melica ». Ma, staccate dalle note, le parole nel pentametro suggerivano ai gram
matici « la scansione per esapodia a doppia catalessi, suggerita dall’osservazione diretta dei fe
nomeni e dal loro senso ritmico » . Cfr. G e n t i l i , Metrica greca arcaica dt., p. 25; I d . , La me
trica dei Greci d t., p. 231: il G e n t i l i respinge il nome di pentametro. Ved. S c h u l t z , « Beitrage
zur Theorie der antiken Metrik » cit., pp. 309ss.
Res metrica 127
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