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Università degli Studi di Udine

Corso di laurea in

Lettere

TESI DI LAUREA

Mente, cervello e libertà: linee fondamentali di un problema aperto

Relatore Laureanda
Prof. Andrea Tabarroni Maria Elisabetta Gracia Ortuño

Anno Accademico 2018/19

1
Mente, cervello e libertà: linee fondamentali di un problema
aperto

INDICE GENERALE

Introduzione 3

I. Libero arbitrio e responsabilità 12

1. Il libero arbitrio e il piano concettuale 12


2. L’opinione comune e l’attribuzione di responsabilità 25

II. La scienza e l’esplorazione della mente 37

1. La fine della libertà umana? 37


2. Obiezioni alla lettura di Libet 42
3. Le macchine per “leggere la mente” 46
4. La capacità di prevedere la scelta 47

Conclusioni 54

Bibliografia 65

2
INTRODUZIONE

Il “venerando problema del libero arbitrio”1 ha radici profonde che risalgono a quando
l’uomo ha iniziato a domandarsi secondo quali dettami la propria libertà di azione potesse
avere luogo e conciliarsi con l’esistenza di un mondo governato da leggi naturali
predeterminate ed estranee alla sua volontà.

Il problema, sul piano filosofico, era di giustificare l’esistenza della libertà umana all’interno
di un quadro naturalistico, in cui il succedersi degli eventi è spiegato da leggi causali fisiche
che appaiono necessarie, e dunque non libere, e comprendere in quale livello classificatorio
fosse possibile inserire la volontà umana, che istintivamente risulta essere piena e libera da
costrizioni esterne.2

In altre parole, come giustificare il funzionamento del libero arbitrio all’interno di una
visione unitaria dell’universo regolato da leggi naturali sempre uguali a sé stesse e
determinate da fattori causali apparentemente diversi da quelli psicologici, che generalmente
vengono considerati la base di un comportamento libero e consapevole.

Si tratta di un dibattito tra i più importanti nell’intero panorama filosofico. Di conseguenza


proverò ad affrontarlo con la maggior chiarezza e la maggior completezza possibile,
cercando di riportare le principali riflessioni al riguardo, ma, per dovere di sintesi, non potrò

1
De Caro, M., Mori, M. e Spinelli, E., [2014]
2
Su questo punto, la riflessione filosofica occidentale è stata fortemente influenzata da Cartesio che istituisce
in maniera chiara una corrispondenza tra la piena e libera volontà umana e l’Io cosciente e razionale, inteso
come la prima ed inattaccabile certezza in un mondo che potrebbe essere completamente illusorio. Cfr.
Descartes [2018]

3
approfondire tutte le questioni, limitandomi a presentare le posizioni e le obiezioni
maggiormente riconosciute.

Per abbracciare la portata del problema, è utile presentare alcuni degli aspetti chiave in cui
esso si articola.

Una prima questione verte su quali siano i criteri, e se essi possano realizzarsi nel nostro
mondo, per cui un’azione umana possa essere definita libera.

Altra domanda è se la libertà umana sia la condizione necessaria al darsi della responsabilità
morale o della razionalità o, ancora, della dignità umana.

Infine, poi, rimane da discutere come la libertà del singolo possa convivere con la più ampia
libertà sociale.

Ma, il problema fondamentale resta tuttora aperto, nonostante i fiumi di inchiostro versato e
le numerose e notevoli osservazioni fatte al riguardo, dato che sembra essere uno di quegli
hard problems della riflessione umana, filosofica e scientifica, che potrebbe non trovare mai
una risposta univoca che soddisfi tutti.

Si tratta appunto della difficoltà a conciliare la libertà dell’agire umano con un mondo
determinato causalmente dalle leggi della fisica, che sfuggono al controllo dell’agente, e, se
una tale forma di libertà esistesse, della modalità in cui essa potrebbe essere causalmente
efficace in un universo di questo genere.

A questa grande questione si aggiunge un’appendice di non trascurabile portata: se il libero


arbitrio esiste ed è in grado di agire causalmente sulla materia, come sembra istintivamente
che sia, di che tipo di sostanza si tratta, se si tratta di una sostanza, e che caratteristiche ha
per poter avere effetti sul mondo deterministico che ci circonda e sulla stessa materia
biologica di cui siamo fatti, senza esserne a sua volta determinato.

Negli ultimi quaranta anni la questione è stata ampliata grazie a risultati sorprendenti ottenuti
mediante l’uso di tecnologie biomediche nuove che hanno permesso di indagare l’attività
cerebrale in soggetti con deficit funzionali e in soggetti sani, durante lo svolgimento di
determinati compiti cognitivi.

4
Le recenti scoperte delle neuroscienze,3 l’ambito apertosi all’interesse scientifico e filosofico
da qualche decennio, hanno permesso di studiare più da vicino l’attività cerebrale e
neuronale che, secondo alcuni, fornisce una base anatomica al funzionamento della mente.

Mettendo in campo ulteriori elementi di discussione, questi esperimenti sembrano indicare


che le scelte e le volizioni coscienti abbiano un’origine determinata dall’attività neuronale
che, in alcuni casi, precede la consapevolezza del soggetto riguardo la scelta che prenderà,
anche di una decina di secondi.

Il mio interesse per l’argomento deriva dall’esperienza professionale avuta come infermiera
nel Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale di Udine.

I comportamenti delle persone affette da malattia mentale risultano spesso incomprensibili


ed imprevedibili, e questo fattore porta a pensare che esse possano essere pericolose.4

Ho assistito personalmente a situazioni in cui la persona affetta da malattia mentale, in


episodi acuti, non era in grado di controllare consapevolmente le proprie azioni e non poteva
dunque essere ritenuta responsabile delle stesse.

Sono azioni che normalmente, in condizioni di benessere, il soggetto non compirebbe e che,
spesso, in un momento successivo alla crisi, avverte come estranee, non compiute
volontariamente.

Si pensi ai comportamenti disinibiti o avventati che si osservano nelle persone in corso di


crisi maniacale, o alle tremende paure dei soggetti in crisi psicotica, paure sostenute da
delirio e allucinazioni e che spesso sfociano nel terrore e in conseguenti comportamenti
aggressivi, giustificati dal tentativo di proteggersi da quella che viene vissuta come
un’imminente minaccia.

3
In realtà, per quanto la discussione al riguardo sia attualmente molto fervida e ricca di spunti di vario genere,
come fanno notare Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà [2009] e [2014], le basi metodologiche delle attuali ricerche
vanno cercate in intuizioni che fanno capo alla seconda metà del XX secolo.
Lo stesso dicasi per le principali posizioni filosofiche riguardo il rapporto mente-corpo, che hanno origini ben
più antiche.
Ciò che è cambiato e che ci permette di parlare di “nuove” scoperte è la raffinatezza e la precisione offerta
dagli attuali strumenti di indagine tecnologici.
4
I dati smentiscono questa convinzione: non solo le persone affette da disagio mentale non compiono più reati
degli altri, ma subiscono molti più episodi di violenza, in un rapporto di 4:1 rispetto alla popolazione in
condizioni di salute. Per approfondimenti, Piccione, R. e Di Cesare, G. [2018].

5
Mi sono chiesta come potessero essere valutate, non solo tali azioni, ma anche le loro
conseguenze, che hanno spesso esiti tragici per le persone affette dalla malattia e per i loro
familiari.

Sono venuta a contatto con persone che hanno perso la casa a causa di investimenti azzardati
fatti in momenti di totale inconsapevolezza, o addirittura hanno aggredito o ucciso familiari
e amici durante una crisi psicotica in cui, a causa di quello che stavano effettivamente
vedendo e sentendo, (pur trattandosi di allucinazioni, infatti, esse non sono meno reali di
questo foglio di carta per chi le vive), credevano di essere sottoposti ad una grave minaccia
incombente ed hanno reagito violentemente, non consapevoli del reale stato di cose e di chi
avessero di fronte.

In casi come questi, come valutare la responsabilità e la stessa libertà di persone che sono
costrette a vivere realtà alterate a causa di una malattia?

In passato, le persone affette da malattia mentale che compivano atti criminali erano valutate
responsabili delle proprie azioni, seppur all’interno di un contesto che necessitava di cure.
Infatti, venivano rinchiuse negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), strutture che
avrebbero dovuto sanare la “devianza”, ma che di fatto finivano per diventare un surrogato
dei vecchi istituti manicomiali, senza alcun risvolto sanitario.

A seguito della legge n. 81 del 2014 e di un mutato panorama riguardo la malattia mentale,
sono state istituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) e sono
stati smantellati poco alla volta gli OPG presenti sul territorio.

Si tratta di strutture sanitarie e non più giudiziarie, deputate ad accogliere la persona affetta
da malattia mentale che ha commesso reati, ritenuta non imputabile di una forma di giustizia
punitiva, ed inserita in un percorso di cura nell’ottica della riabilitazione e di un
reinserimento sociale e lavorativo.5

Ho avuto la fortuna di essere tra i primi a lavorare nella REMS di Udine e di confrontarmi
così con situazioni di grave riduzione dell’autonomia del soggetto nel guidare
consapevolmente le proprie azioni, ed ho potuto studiare in prima persona le valutazioni

5
La legislazione che regolamenta la cura e la tutela delle persone affette da patologia mentale, in particolar
modo la legge 180/78 e la legge 81/2014, e la stretta connessione ideale tra queste e la Costituzione della
Repubblica Italiana, sono argomenti approfonditi da Daniele Piccione, Consigliere parlamentare del Senato
della Repubblica, ne Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la costituzione [2014]; mentre per un
approfondimento sull’organizzazione e le criticità sorte nella realizzazione delle Rems, vedasi Pellegrini, P.
[2017]

6
peritali fatte riguardo la capacità di intendere e di volere dell’autore del reato e la sua
pericolosità sociale, confrontandole, poi, con l’apparenza tutt’altro che violenta di molte di
queste persone.

Mi ha impressionato la discrepanza che si registra tra l’impatto emotivo che tali azioni
suscitano, e quindi la valutazione morale di biasimo che istintivamente ne deriva, e le
considerazioni posteriori cui l’attenta lettura di tali perizie portano.

Infatti, conoscendo i fattori in gioco al momento del compimento del reato, comprendendo
la reale riduzione della capacità di agency di questi soggetti, (ovvero la capacità di guidare
consapevolmente le proprie azioni e di comprenderne gli effetti), si è infine portati a ritenere
che, effettivamente, queste persone, in quelle determinate condizioni, non avrebbero potuto
agire diversamente da come hanno agito.

Ma, nell’opinione comune, generalmente poco informata riguardo questo tipo di


considerazioni specialistiche, crea sgomento la condizione di non imputabilità di soggetti
che hanno compiuto azioni violente, ma ritenuti dal giudice non in grado di intendere e di
volere in relazione al fatto.

La condizione delle persone non imputabili, e dunque non punite dal sistema giuridico, viene
vissuta come ingiusta, come minaccia ad un ordine naturale delle cose che vede nella
punizione di chi compie atti lesivi dei diritti altrui, la giusta retribuzione per il danno causato
e la futura salvaguardia del sistema, tramite l’esempio fornito dalla punizione del reo, che
ha la funzione di scoraggiare eventuali emulatori.6

Infatti, fa parte degli istinti umani più radicati quello di cercare la giustizia attribuendo ai
nostri simili la responsabilità delle proprie azioni.

Ma le scoperte delle neuroscienze e le riflessioni fatte rispetto alle persone affette da malattia
mentale sembrano mettere in luce un rapporto problematico tra comportamento umano
apparentemente libero e considerazioni riguardo la dotazione organica e genetica che varia
da individuo a individuo e, in alcuni casi, può favorire una possibile limitazione della
capacità di controllo sulle proprie azioni.

6
Si fa qui riferimento alle due teorie rispettivamente della giustizia retributiva, che ritiene che la punizione
serva a ristabilire un equilibrio infranto dall’atto criminale e che quindi il reo sia da punire per il solo fatto di
aver compiuto il reato, indipendentemente da valutazioni ulteriori riguardo le conseguenze sociali della
punizione; e la teoria utilitaria della giustizia, secondo cui la punizione ha lo scopo di massimizzare l’utilità
generale della società, fornendo “punizioni esemplari” che hanno funzione di deterrente per future azioni
criminose dello stesso soggetto e di altri. Cfr. De Caro, Maraffa [2016].

7
In ambito psichiatrico la valutazione degli eventuali nessi tra comportamento e danno
neurologico risulta complicata dal fatto che, la maggior parte delle volte, non sono visibili
danni a livello cerebrale, ma piuttosto, storicamente, questi sintomi sono stati considerati
funzionali, ovvero privi di un correlato neurologico.

Scoperte più recenti, invece, mostrano come vi siano quadri neurologici caratteristici per
alcuni disturbi psichiatrici.7

Altro ambito in cui storicamente sono classificate le azioni disfunzionali per la società è
quello criminale, e anche in questo campo gli avanzamenti delle neuroscienze apportano
contributi significativi.

Vi sono infatti molteplici studi che dimostrano la possibilità di una limitata capacità di
controllo sulle proprie azioni in persone il cui patrimonio genetico o determinate zone del
cervello presentino caratteristiche “sfavorevoli”, o meglio, danni neuronali o mutazioni
genetiche, che li portano ad una maggiore tendenza all’aggressività o all’impossibilità, in
determinate situazioni, di contenere i propri impulsi violenti. Bisogna precisare, però, che
con questo non si intende istituire un’equivalenza tra presenza di determinati danni cerebrali
o fattori genetici predisponenti ed il presentarsi del comportamento criminale.

Si tratta piuttosto di aggiungere altri strumenti alla valutazione dello psichiatra che si occupa
di indagare la reale capacità di intendere e di volere del soggetto, che, congiuntamente alla
sua esperienza e alla storia anamnestica della persona e ai più classici strumenti della
psicologia clinica, possa dare un quadro d’insieme unitario della vita e della personalità del
soggetto, tale da far comprendere tutti i fattori in gioco al momento del compimento del
crimine.

Di fatto, in molti casi,8 le recenti scoperte delle neuroscienze sono state messe a disposizione
dei periti che hanno valutato la libertà d’azione dell’individuo, ovvero la virtuale capacità di
controllare le proprie azioni, tale da dare la possibilità al soggetto di agire in modo diverso
al momento del compimento del crimine e, alcune volte esse hanno portato ad una rianalisi
dei casi e alla valutazione di una significativa diminuzione della libertà dell’individuo, con
una riduzione della pena o la completa assoluzione.

7
Si veda il capitolo di Sartori e Scarpazza in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].
8
Per una rassegna dei casi esemplari e maggiori approfondimenti, si veda Sartori, G. e Scarpazza, C. nel Cap.
4, in De Caro, M., Lavazza, A. e Sartori, G. [2013].

8
Ripropongo l’esempio fatto da Lavazza [2013] del professore che uccise a colpi di pistola il
titolare di una panetteria e, dopo essere stato condannato inizialmente a 15 anni di carcere,
fu ritenuto non imputabile poiché non in grado di intendere e di volere al momento del fatto
a causa di un tumore alle aree frontali del cervello, e assolto del tutto.

In altri casi, invece, le scoperte delle neuroscienze, che pur mostravano possibili fattori
predisponenti il soggetto verso attività violente eteroaggressive, che ne avrebbero potuto
spiegare le tendenze, non supportate dall’anamnesi e dalle valutazioni connesse, non sono
state in grado di determinare, in ambito giuridico, una totale incapacità di agire diversamente
per l’imputato. Mi riferisco qui al caso di un noto killer veneziano che strangolò sei donne
durante atti di sesso estremo. Questi, anni prima, aveva subito un grave danno bilaterale ai
lobi frontali, deputati al controllo degli impulsi, ma, ciononostante, fu ritenuto in grado di
intendere le conseguenze delle proprie azioni e di controllarle. Infatti, si scoprì che praticava
gli stessi rituali di soffocamento anche con la sua fidanzata, riuscendo però in quei casi a
controllarsi e a non ucciderla, riflessione in base alla quale il giudice decise che, nonostante
l’evidente danno al cervello, il soggetto fosse in grado di porre un freno ai suoi impulsi
criminali e quindi che ci fosse un’intenzionalità nel portare a termine l’atto con le vittime e
non con la fidanzata.

Insomma, il giudice concluse che il serial killer avrebbe potuto agire diversamente e che
quindi era meritevole di condanna e della pena che da essa deriva.

Nei casi descritti vi era un evidente danno cerebrale, eppure la valutazione data alle azioni
dei soggetti è stata diversa, perché vi è stata una diversa interpretazione dell’intenzionalità
degli stessi nel compimento dell’azione e della possibilità di fare altrimenti.

Nelle società moderne la giurisprudenza distingue le azioni lecite da quelle illecite e


meritevoli di pena, al fine di promuovere la convivenza civile, attribuendo responsabilità per
le azioni ritenute lesive dei diritti altrui.

Le scoperte delle neuroscienze hanno aiutato a comprendere alcuni dei fattori causali del
comportamento, ma sempre all’interno di un quadro più generale che guarda all’individuo
nella sua complessità, includendo nella valutazione elementi anamnestici e di analisi
psicologica, che danno una visione a tutto campo della personalità del soggetto.

Come già detto, comunemente si tende ad attribuire responsabilità ai nostri simili per azioni
che riteniamo essi abbiano compiuto coscientemente e liberamente, e a dare anche una

9
lettura morale dell’azione, assegnando meriti o biasimi a seconda delle risultanze di un
giudizio istintivo di ciò che è bene e ciò che è male.

Lungi dal prolungarmi sull’annosa questione del discernimento del bene dal male, nel
presente testo intendo solo illuminare l’ambito della problematica della responsabilità
morale toccato dalle possibilità di declinazione del libero arbitrio, alla luce delle scoperte
delle neuroscienze.

In questo elaborato intendo presentare con la maggiore accuratezza possibile alcuni esempi
paradigmatici degli esperimenti che mettono in dubbio l’esistenza del libero arbitrio e
riportarne le conclusioni generalmente ritenute più valide, insieme alle obiezioni
metodologiche e teoriche mosse contro le modalità di esecuzione degli stessi e contro le
deduzioni fatte al riguardo.

Intendo inoltre tracciare un profilo teorico dello stato attuale della riflessione riguardo al
problema.

Affronterò il tema che analizza le condizioni secondo le quali si possa parlare di libero
arbitrio e se tali criteri trovino riscontro nel mondo che conosciamo, e come essi si
inseriscano nella discussione riguardo le problematiche scoperte delle neuroscienze
cognitive.

Infine, per dovere di sintesi, riterrò il lettore già informato rispetto ai concetti di “coscienza”
e “autocoscienza” che, nella riflessione comune, sono strettamente connessi al compimento
di un’azione libera, mentre emerge con sempre maggior evidenza, nella discussione
neuroscientifica, l’apparente disgregazione dell’Io in molteplici agenzie subpersonali e
l’illusorietà della volontà cosciente.9

Risulta problematico conciliare la visione comune di un Io unitario, “Imperatore”10 della


propria interiorità, su cui sembra avere un controllo totale, e “generale in capo” delle proprie
azioni volontarie, con i riscontri delle neuroscienze che sempre più spesso rimandano
immagini destrutturate della coscienza che, piuttosto che guidare il comportamento, sembra

9
Si veda Maraffa, M. e Paternoster, A. [2013[, per quel che concerne le principali posizioni della filosofia
della mente rispetto al problema della coscienza e una rassegna di esperimenti che mettono in luce il
carattere illusorio della stessa. Per ulteriori riscontri scientifici, si veda Wegner, D., M. in De Caro, Lavazza e
artori [2010].
Per una riflessione riguardo le definizioni cmuni e filosofiche rispetto ai concetti di “coscienza” e
“autocoscienza”, si veda Perconti, P. [2008].
10
Ringrazio il mio relatore che, inconsapevolmente, mi ha fornito lo spunto per questa definizione dell’Io.

10
emergere in ritardo rispetto alle deliberazioni inconsce neuronali, che preparano l’azione
molto prima che l’Io cosciente ne sia al corrente, ed essere spesso anche male informata
riguardo le reali motivazioni del comportamento.

Concluderò l’elaborato con alcune mie personali valutazioni che affrontano la questione da
un punto di vista diverso e che potrebbero fornire un ulteriore spunto di riflessione su di un
argomento che, come abbiamo visto, è vasto e la cui problematicità resta tuttora aperta.

11
CAPITOLO I

Libero arbitrio e responsabilità

1. Il libero arbitrio e il piano concettuale

La discussione sul libero arbitrio è antica, nel corso dei secoli ha interessato teologi, filosofi
e giuristi, e resta uno di quei problemi attualmente senza una soluzione, su cui il dibattito è
ancora aperto e ricco di spunti di riflessione su varie posizioni teoriche.

La definizione del concetto è problematica e, da un punto di vista filosofico, non vi è


attualmente accordo se tale concetto debba applicarsi solo all’azione o anche alla volontà,
perché si possa definire pienamente “libero” il comportamento umano.11

Nell’opinione comune, per libero arbitrio si intende la libertà della volontà umana nell'agire
e nel giudicare ed è una facoltà comunemente attribuita a tutti gli esseri umani che agiscano
secondo criteri di razionalità e non sottoposti ad alcun tipo di restrizione o di imposizione.

Come già detto, a livello intuitivo, implica la consapevolezza, da parte dell'agente, dei
possibili effetti dell'azione scelta e, secondo alcuni, la possibilità di controllare il
comportamento in base ad essi, motivo per cui la problematica della conciliazione della
libertà umana con il rispetto della causalità naturale è al centro della discussione per
l'attribuzione della responsabilità.

In etica ingenua, ovvero quel tipo di etica che si rifà ai costrutti teorici e alle deduzioni
proprie della psicologia del senso comune,12 il concetto chiave per l’ascrizione di

11
De Caro, Mori e Spinelli [2014]
12
Spiegherò meglio come funziona la psicologia del senso comune più avanti in questo paragrafo. Per ora mi
limito a dire che si tratta dei meccanismi tramite cui interpretiamo il significato delle azioni altrui come azioni
intenzionali del soggetto, volte al raggiungimento di uno scopo, secondo desideri e credenze che attribuiamo
all’agente razionale.

12
responsabilità ad un soggetto è la credenza che questi sia un soggetto razionale che opera
secondo le sue deliberazioni coscienti, ovvero secondo la sua volontà, e che quest’ultima sia
libera.

In ambito filosofico è generalmente accettato che, perché si possa parlare di libertà, debbano
realizzarsi due requisiti che, presi singolarmente ne sono condizione necessaria, vale a dire
che ciascuno di essi è necessario alla definizione del libero arbitrio, mentre, presi
congiuntamente, ne rappresentano la condizione sufficiente, vale a dire che la presenza di
entrambi i requisiti garantisce che si tratti di un’azione libera.

Il primo è il requisito detto delle possibilità alternative: esso prevede che, al momento
dell’azione, all'agente si prospettino diversi corsi d'azione alternativi tra cui poter scegliere.
Intuitivamente è comprensibile che, per poter dire che un’azione è frutto di una libera scelta,
ci aspetteremmo che l’agente, al momento di compiere quell’azione abbia avuto più opzioni
possibili tra cui scegliere, altrimenti diremmo che la sua era una scelta obbligata.

Il secondo requisito, detto dell’autodeterminazione, prevede che la scelta tra i diversi corsi
d’azione non sia causale, determinata da fattori fuori dal controllo dell’agente, ma richiede
piuttosto che l’agente la determini effettivamente o che svolga un ruolo causale
nell’attualizzazione di quello specifico corso d’azione.13

Perché entrambi i criteri si realizzino, e si possa avere quindi il libero arbitrio, a quali leggi
deve sottostare il mondo e l’uomo, che di esso fa parte?

A questo punto bisogna introdurre due importanti distinzioni scientifico-metafisiche che,


secondo molti, prese congiuntamente sono le visioni del mondo più esaustive nell’attuale
panorama di riflessione.14

Si tratta della distinzione tra determinismo e indeterminismo, intesi nell’accezione causale.15

Per determinismo si intende, appunto, quella visione del mondo secondo la quale tutto ciò
che esiste e che accade è causalmente determinato in virtù degli stati passati dell’universo e
secondo le leggi della natura.

13
De caro e Maraffa [2016].
14
Strawson si discosta da questo punto di vista: egli ritiene che si possa dare una definizione di responsabilità
morale anche prescindendo da questa distinzione scientifico-metafisica. Anzi definisce “oscuro” il concetto di
determinismo. Tratterò più avanti questa tesi. Per maggiori approfondimenti si veda Strawson, in De Caro
[2002].
15
Vi sono infatti altri tipi di determinismo, logico e religioso, estranei agli intenti del presente elaborato. Cfr.
De Caro e Maraffa [2016].

13
Detto in altre parole, ogni evento esiste perché ha delle cause preesistenti, estranee al
controllo dell’agente, che, in congiunzione con le leggi della natura, lo determinano
esattamente nel modo in cui si presenta, rendendolo dunque necessario.16

La maggior parte degli autori lega la nozione di causalità a quella di legge di natura,
considerando ogni relazione causale l’esemplificarsi di una legge naturale.17

L’indeterminismo è la posizione contraria al determinismo e prevede che nulla sia causato


da un fattore specifico; gli eventi che si verificano sono causati solo dal caso.

Alla luce di questa distinzione è possibile analizzare due grandi gruppi di teorie riguardo al
libero arbitrio: il compatibilismo e l’incompatibilismo.

I fautori del compatibilismo ritengono che il libero arbitrio sia compatibile con la visione
deterministica del mondo, e, anzi, secondo certi autori, la richiede, dato che, in assenza di
determinazione causale, non è possibile rendere conto del secondo criterio del libero arbitrio,
ovvero non è possibile determinare causalmente un corso di eventi piuttosto che un altro, e,
in tal caso, i fatti si realizzerebbero su base casuale; è intuibile come la causalità non abbia
niente a che vedere con la libertà.

Al compatibilismo sono state mosse due obiezioni, una tradizionale e una più recente.

La prima considera proprio il determinismo un ostacolo alla libertà, poiché, se il corso degli
eventi è già determinato da fattori esterni alla volontà dell’agente e, la stessa volontà,
secondo l’interpretazione riduzionista che riconduce la mente all’attività cerebrale, è
determinata da fattori neuronali precedenti alla consapevolezza dell’autore, egli non può
scegliere tra corsi d’azione differenti, come impone il primo dei requisiti del libero arbitrio,
quello delle possibilità alternative.

16
A dire la verità, c’è un ulteriore distinzione tra determinismo forte, che implica che tutto ciò che esiste esista
necessariamente, ovvero che non possa presentarsi in maniera diversa da come si presenta, e spesso prende il
nome di meccanicismo, e determinismo debole che si rifà al principio di completezza causale, secondo il quale,
pur essendoci fattori probabilistici che influenzano in vario modo il corso degli eventi, tutto ciò che esiste ha
una causa sufficiente a provocarne l’esistenza. Vi sono pensatori che ritengono che i fattori probabilistici
neghino il determinismo e posizioni che invece inseriscono le probabilità di esistenza dei vari fattori causali
all’interno del discorso deterministico. Per ora io manterrò la seconda posizione e considererò il determinismo
come inclusivo dei fattori probabilistici. Cfr. Francesco Guala e Neil Levy per i diversi punti di vista al
riguardo, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].
17
Prendo questa precisazione da De Caro in De Caro, Mori e Spinelli [2014], in quanto mi sembra utile riflettere
sul fatto che il collegamento tra causalità e legge di natura sia una connessione speculativa, creata cioè nel
corso di una riflessione teorica, e non un aspetto intrinseco a uno dei due concetti. Al riguardo, si veda anche
Simone Gozzano, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013] per una riflessione sul legame tra causalità e
responsabilità.

14
Infatti, la volontà non solo è condizionata da fattori biologici e genetici, che è quanto emerge
dai risultati delle neuroscienze, ma, in base a quanto dimostrato dalle scienze sociali, essa è
influenzata anche da fattori culturali, sociali e biografici che agiscono in tempi in cui di solito
l’individuo non è in grado di opporsi, né di comprenderne gli effetti, ovvero durante
l’infanzia, determinando il suo carattere futuro e le sue propensioni.

A questo tipo di obiezione i compatibilisti rispondono che ciò che conta perché un’azione
possa dirsi libera è che sia conseguente alla volontà dell’agente, oltre che libera da costrizioni
esterne.

In altri termini, essi affermano che il soggetto avrebbe compiuto l’azione X piuttosto che
l’azione Z, se avesse scelto o preferito X a Z. Dunque, per i compatibilisti il determinismo è
compatibile con il libero arbitrio nel grado in cui un’azione libera segua la volontà
dell’autore, pur essendo quest’ultima completamente determinata da fattori neuronali,
genetici e sociali precedenti allo stesso.

I critici del compatibilismo ritengono che tali puntualizzazioni siano sofisticazioni che non
rendono realmente conto del requisito delle possibilità alternative, considerando non valida
la tesi compatibilista per l’attribuzione di responsabilità.

A tale obiezione, i compatibilisti rispondono distinguendo tra possibilità come capacità (che
è compatibile col determinismo) e possibilità come opzione (che non è concessa dal
determinismo).18

Vi è, però, una versione innovativa e più recente di compatibilismo – Daniel Dennett e Alfred
Mele sono alcuni degli esponenti – secondo cui il libero arbitrio non presuppone il requisito
delle possibilità alternative, ma solo quello dell’autodeterminazione, nell’accezione in cui,
per poter definire un’azione libera, il soggetto deve essere in grado di fornire spiegazioni
razionali alla sua azione, vale a dire che quell’azione deve riflettere la sua personalità e i
valori con cui egli si identifica.

Questa visione non è incompatibile col determinismo, dato che solitamente le nostre scelte
sono il riflesso della nostra identità personale e della nostra razionalità, altrimenti
l’alternativa sarebbero scelte irrazionali, che sono ben lontane dal potersi definire libere.

18
Si veda l’opinione di Moore, in De Caro, Mori e Spinelli [2014].

15
Di fatto la discussione è ancora aperta e non vi sono motivi dirimenti per cui scegliere una
posizione piuttosto che un’altra.

Nell’ambito delle discussioni riguardo alla necessità di conservare o meno il requisito delle
possibilità alternative, Frankfurt fornisce un contributo interessante.19

Afferma che non è necessario che al soggetto siano disponibili più corsi d’azione alternativi
perché questi possa essere ritenuto responsabile.

Per comprendere la sua asserzione, immaginiamo che un certo individuo, Jones, debba
prendere una decisione, poniamo quella di uccidere Smith, e che, precedentemente,
all’insaputa di Jones, un malvagio neurochirurgo abbia inserito nel cervello di Jones un
meccanismo in grado di controllare le decisioni di Jones a favore dell’omicidio.

Il meccanismo nel cervello di Jones viene attivato a distanza dal neurochirurgo, ma solo se
esso rileverà che Jones ha deciso di risparmiare la vita a Smith.

L’attivazione del meccanismo farebbe sì che il neurochirurgo possa controllare i processi


decisionali di Jones e indurlo deterministicamente a propendere per l’uccisione di Smith.

Jones decide di uccidere Smith e il meccanismo non viene attivato.

In questa ipotesi il soggetto non aveva effettivamente delle reali possibilità di agire
diversamente, dato che se avesse scelto di non uccidere Smith, il meccanismo si sarebbe
attivato e lo avrebbe causalmente determinato a ucciderlo comunque.

Eppure, Jones è intuitivamente considerato responsabile della propria scelta e meritevole di


biasimo per essa.

Personalmente, seppur per altre motivazioni, tendo a concordare con Frankfurt nel ritenere
che non sia necessario avere una o più alternative al corso d’azioni scelto, per avere
l’esperienza di un’azione libera e nemmeno per esserne ritenuti responsabili.

Ma approfondirò il mio punto di vista nel capitolo dedicato alle conclusioni.

19
Luca Fonnesu, nel saggio Libertà e responsabilità: dall’utilitarismo classico al dibattito contemporaneo, in
De Caro, Mori e Spinelli [2014], presenta in maniera molto chiara questa obiezione e anche la tesi di Frankfurt
per attribuire responsabilità e libertà agli esseri umani. Per approfondimenti riguardo le critiche e correzioni
all’obiezione mossa da Frankfurt al requisito delle possibilità alternative, si veda anche Pereboom, in De Caro,
Lavazza e Sartori [2013].

16
Vi è poi una seconda e più recente obiezione al compatibilismo, che viene detta del
Consequence Argument.20

Esso considera il secondo requisito del libero arbitrio, quello dell’autodeterminazione: per
poter compiere un’azione libera, il soggetto deve poterla determinare causalmente, e questo
significa che deve poter intervenire o avere il controllo sui fatti del passato o le leggi di
natura, ovvero i fattori alla base di ogni corso di eventi; se così non fosse si tratterebbe di
un’azione eterodeterminata e non autodeterminata. Ma è evidente che il soggetto non possa
manipolare i fatti del passato, che è inalterabile, né tantomeno possa controllare le leggi di
natura a suo piacimento.

Dunque, se anche il soggetto potesse scegliere liberamente, (se si rifiuta la visione


riduzionista della mente e si nega il potere causale deterministico dei fattori biologici e
sociali condizionanti), egli non potrebbe effettivamente mettere in atto un’azione diversa da
quella già determinata dal corso di eventi in atto, causati a loro volta da eventi passati e dalle
leggi di natura.

Di conseguenza, secondo questa obiezione, anche il secondo requisito del libero arbitrio è
inattuabile e dunque il compatibilismo è inaccettabile.

Recentemente è stato rianalizzato e semplificato il secondo requisito del libero arbitrio,


ammettendo che, perché si possa dire che il soggetto determini causalmente un corso
d’azioni, è necessario:

• Che l’agente sia in grado di analizzare consapevolmente le motivazioni a favore di


quella scelta
• Che abbia la capacità di governare le proprie azioni in base a tali considerazioni
• Che possa fare entrambe le operazioni prima dell’attualizzazione della scelta.

Questa definizione del secondo criterio del libero arbitrio è ritenuta sufficiente dai nuovi
compatibilisti perché si abbia libertà, mentre, per i compatibilisti classici, essa deve essere
accompagnata da una spiegazione riguardo la possibilità di darsi del primo criterio, quello
delle scelte alternative.21

20
Riprendo questa obiezione da De Caro, Mori e Spinelli [2014].
21
Oppure si può evitare di rispondere a questo quesito, se si accetta l’obiezione di Frankfurt. Ma la posizione
di Frankfurt rispetto al libero arbitrio e alla responsabilità non si muove sullo stesso piano concettuale dei
compatibilisti, dato che la libertà per Frankfurt consiste nell’adesione della volontà alle volizioni di secondo
livello delle persone e non dipende dal determinismo o dall’indeterminismo. Cfr Luca Fonnesu (ibidem).

17
L’altra grande famiglia teorica rispetto al determinismo è quella degli incompatibilisti, che
ritengono incompatibile determinismo e libero arbitrio.

Essi si dividono a loro volta in libertari, che ritengono invalido il determinismo e valido il
libero arbitrio, e illusionisti, che credono che il mondo e lo stesso essere umano siano
determinati e che, dunque, il libero arbitrio sia una mera illusione.

La posizione illusionistica è sostenuta da molti scienziati che leggono i risultati degli


esperimenti sul funzionamento cerebrale e sul ritardo che su di esso hanno i fenomeni
coscienti, in senso deflazionistico per la coscienza.

Alcuni di questi esperimenti saranno presentati e discussi nel corso dell’elaborato; essi
mostreranno come, spesso, le scelte coscienti individuali siano il prodotto di attività
inconscia del cervello precedente alla consapevolezza dell’autore; ma non solo: gli
esperimenti sulla confabulazione mostrano che le persone, indotte in inganno dallo
sperimentatore, sono in grado di fornire motivazioni ragionevoli, e di cui hanno piena
convinzione, per scelte compiute su basi motivazionali reali del tutto estranee al
ragionamento fornito dal soggetto o, a volte, addirittura, per scelte mai compiute.22

L’illusionismo, dunque, resta una valida alternativa teorica al compatibilismo.

In quest’ottica, risulterebbe problematico attribuire responsabilità agli agenti, secondo i


criteri dell’etica ingenua.

Anche il libertarismo, ovvero la tesi secondo cui la libertà è compatibile con


l’indeterminismo, ha un suo seguito, specie in considerazione delle scoperte riguardo
l’indeterminismo dei fenomeni della fisica quantistica.

A questo riguardo, De Caro23 fa notare che, il fatto che la meccanica quantistica sembra
interpretare per lo più in senso indeterministico gli eventi subatomici, non prova che
effettivamente tali fenomeni abbiano carattere indeterministico.

22
Per questo tipo di esperimenti, si veda De caro, Lavazza e Sartori [2010], mentre per altre evidenze
sull’esistenza dell’inconscio cognitivo, si vedano gli esperimenti illustrati da Legrenzi e Umiltà [2018] sulla
tecnica del repetition priming, usata anche in campo pubblicitario, e del priming semantico. Si vedano inoltre
gli esperimenti descritti in De Caro e Maraffa [2016] rispetto all’effetto posizione, l’effetto alone, il cosiddetto
“paradigma della cecità alla scelta” e gli esperimenti in cui il soggetto crede di essere il responsabile del
movimento di un mouse collegato ad uno schermo, mentre in realtà il movimento è pilotato da un collaboratore
dello sperimentatore.
23
In De Caro, Mori e Spinelli [2014].

18
Inoltre, prosegue, è opinione diffusa che, se anche la meccanica quantistica fosse
indeterministica, per quel che riguarda il mondo microscopico, ciò non cambia la modalità
di presentazione deterministica dei fenomeni macroscopici e del comportamento umano in
particolare.

Di conseguenza, se il determinismo causale costituisse una minaccia al libero arbitrio, le


scoperte della fisica quantistica non l’avrebbero minimamente intaccata.

Un’obiezione comune che portano i fautori dell’illusionismo, al libertarismo indeterminista,


e che risale almeno a Hume, è che, se fosse valido l’indeterminismo, allora sarebbe vera la
sua tesi fondamentale, ossia che nulla determina gli eventi, e, di conseguenza nemmeno
l’agente è in grado di determinare un corso d’azioni, invalidando la possibilità del secondo
requisito per il libero arbitrio.

La libertà collasserebbe sul caso.24 Ma vediamo come i libertari intendono rispondere a


questo tipo di obiezione.

Vi sono due concezioni del libertarismo, una causale e una concettuale che fa capo a Kant.

Quest’ultima sostiene che la visione del mondo esperienziale e la libertà umana siano due
realtà incommensurabili tra loro in quanto appartenenti a due piani distinti, di conseguenza
l’esistenza del libero arbitrio non è contraddetta dalla causalità naturale.

L’obiezione che si fa a questa posizione è che, sostenendo l’esistenza di due diversi livelli
di realtà, romperebbe l’unitarietà con cui guardiamo al mondo fisico.

La famiglia degli indeterministi causali, a sua volta, si suddivide in coloro che valutano
l’indeterminismo rispetto agli eventi e coloro che considerano l’indeterminismo rispetto
all’agente.25

Il concetto che intendo esprimere è complesso ed implica due approcci diversi al libero
arbitrio, e dunque alla possibilità di definire la responsabilità morale, in base al fatto che si
consideri causalmente efficace il corso di eventi, nel qual caso bisogna immaginare un
indeterminismo che agisca al livello della catena causale degli eventi, oppure che si consideri

24
Come fa notare De Caro in De Caro, Mori e Spinelli [2014], tale argomento non dimostra necessariamente
l’inesistenza del libero arbitrio, ma solo che l’indeterminismo non è condizione sufficiente alla sua
realizzazione. Vi è infatti la corrente di pensiero secondo cui l’indeterminismo è condizione necessaria al darsi
del libero arbitrio.
25
Riprendo questa puntualizzazione da Derk Pereboom che l’analizza approfonditamente nel suo saggio Lo
scetticismo ottimistico su libertà e responsabilità, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].

19
il soggetto come sorgente determinante le azioni; nel qual caso, per poter attribuire
responsabilità morale, bisogna immaginare un indeterminismo applicabile al soggetto.26

Pereboom invita a riflettere infatti sul concetto di causalità, per comprendere se esso debba
essere applicato ai soggetti esperienziali delle azioni, ovvero le sostanze, come atomi,
organismi e agenti, oppure agli eventi; e ritiene più adeguato far risalire la causa degli effetti
a stati di eventi.

Un esempio di queste due diverse visioni è dato da un aereo che precipita dopo essere stato
colpito da un missile: il fatto che precipiti può essere letto come causato da una sostanza, il
missile che ha colpito l’aereo, oppure, più correttamente, secondo Pereboom, da un evento,
l’evento per cui il colpire l’aeroplano da parte del missile, ne ha provocato la distruzione.

Non intendo esprimere una preferenza per una lettura della causalità o per l’altra, ma
semplicemente far notare che, seguendo questo tipo di ragionamento, per poter ascrivere
responsabilità secondo i criteri incompatibilisti, bisogna immaginare di poter applicare
l’indeterminismo o alla catena causale degli eventi, e in tale filone si pongono i libertari degli
eventi, oppure alla capacità causativa del soggetto; una sostanza, dunque, che è in grado di
fare scelte causalmente efficaci sul corso di eventi, senza essere a sua volta determinato a
farle.

In quest’ottica si pongono i libertari dell’agente.

Dal punto di vista dei libertari degli eventi, all’interno della catena causale deterministica si
verificherebbe un momento di rottura indeterministico, che alcuni identificano col momento
della decisione e che avrebbe, però, una valenza causale in grado di impedire che
l’indeterminismo collassi sul caso.

Questo momento di rottura sarebbe generato dai fenomeni del mondo subatomico che, in
questo modo farebbero risuonare, a livello macroscopico, l’indeterminismo del livello
microscopico.27

26
Riferendoci ai requisiti necessari alla definizione di libero arbitrio, il primo prevede che al soggetto si diano
corsi d’azione alternativi, cosa che può verificarsi solo immaginando una rottura indeterministica della catena
causale degli eventi storici e naturali; in tal caso si parlerebbe di indeterminismo riguardo gli eventi. Il secondo
requisito impone che il soggetto abbia efficacia causale nel determinare un corso d’azioni rispetto ad altri;
questo è l’ambito dell’indeterminismo rispetto all’agente.
27
Se si considerassero provate le teorie della fisica quantistica, condizione che, come abbiamo accennato, non
tutti accettano.

20
In tal modo sarebbe garantito il requisito delle possibilità alternative, dato dalla rottura della
catena causale deterministica; mentre, proprio la valenza causale di questo momento
assicurerebbe la determinazione dell’azione da parte del soggetto.

Ma vi sono delle obiezioni a questa ipotesi concettuale.28

In primo luogo, non è dimostrato, ed è anzi controintuitivo, che i processi cerebrali abbiano
carattere indeterministico; di conseguenza, per poter accettare una dimensione
indeterministica dei processi mentali, bisogna supporre una concezione non riduzionistica
della mente o immaginare che essa sopravvenga sul livello cerebrale deterministico, con
caratteristiche indeterministiche.29

Una seconda obiezione è rappresentata da un’analisi più raffinata della critica illusionistica
alla libertà, in un universo indeterministico.30

Come detto, l’elemento causale della decisione assicura al soggetto la possibilità di


determinare l’azione tramite una scelta, effettuata sulla base dei suoi stati mentali,31 ma,
proprio l’indeterminismo che permette che egli possa scegliere un’azione piuttosto che
un’altra, suggerisce che, nelle stesse condizioni, egli avrebbe potuto fare diversamente.

Se, però, si accetta questo punto, ovvero che dallo stesso soggetto, nei medesimi stati
mentali, dato l’indeterminismo della situazione che permette scelte alternative, sarebbe
potuta discendere un’azione diversa, si nega ogni validità alla scelta e agli stati mentali del
soggetto, poiché essi risultano del tutto ininfluenti nell’attualizzazione di un corso d’azioni
piuttosto che di un altro.

Non si tratta di negare un ruolo causale al soggetto, ma di mostrare che il ruolo causale che
gli spetta è irrilevante rispetto ai criteri di attribuzione della responsabilità in senso morale.

Spiegherò meglio questo concetto, portando un esempio fatto da Kane,32 che parla di
obiezione dell’agente che scompare.

28
Riprendo questa argomentazione da De Caro, in De Caro, Mori e Spinelli [2014], ampliata da mie riflessioni
personali, che poi ho trovato confermate in Pereboom, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].
29
E sarebbe problematico spiegare da dove nascerebbe poi l’elemento indeterministico. Sul concetto di
“sopravvenienza” del mentale sul cerebrale, si veda Lavazza e Sartori [2011] o, per approfondimenti, Di
Francesco [2002].
30
Si tratta dell’obiezione nota come obiezione della sorte e la sua forma classica si trova nel Trattato sulla
natura umana di Hume. Al riguardo Cfr. Pereboom, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].
31
Dove per stati mentali si intendono le credenze, i valori e i desideri di un soggetto.
32
Nel già citato saggio di Pereboom, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].

21
Anne può decidere di fermarsi ad aiutare la vittima di un’aggressione, e in tal caso
arriverebbe in ritardo ad un’importante riunione di lavoro, oppure può decidere di non
fermarsi, e arrivare così puntuale a lavoro.

La decisione di Anne di fermarsi o meno è sostenuta da rilevanti condizioni antecedenti a


favore di entrambe le scelte e dotate di eguale forza motivazionale.

Ad esempio, la sua credenza che, se arriverà tardi al lavoro, contrarierà il suo capo e il suo
desiderio di non contrariarlo, da un lato, e il suo desiderio di aiutare le persone in difficoltà
e la credenza di poter aiutare la vittima, dall’altro lato.

Vale a dire che, per Anne, vi sono motivi sufficienti per fermarsi, così come per non fermarsi,
ed essi hanno uguale peso e sono condizioni preesistenti che la riguardano.

Il suo ruolo decisionale in un senso o nell’altro, dunque, è esautorato di valore morale, dato
che non vi è altro che la riguarda, in questa decisione, che non siano gli stati antecedenti in
cui è coinvolta.

Dunque, la sua decisione in un senso o nell’altro non la rende un soggetto di azioni morali,
e, in quest’ottica, risulta inutile immaginare un allentamento della rete causale deterministica
degli eventi, rendendoli indeterministici.

L’indeterminismo degli eventi, infatti, renderebbe conto solo del primo dei requisiti del
libero arbitrio, la possibilità di scegliere o agire diversamente, ma non del secondo, dato che
non fornirebbe una spiegazione per cui un agente sia la fonte delle sue decisioni o azioni.

Ma si può semplificare l’obiezione contro i libertari degli eventi, dicendo che, se un corso
di eventi è indeterminato, per definizione, nulla lo può determinare, nemmeno il soggetto, e,
dato che il concetto di autodeterminazione risulta fondamentale per la nostra intuizione di
libertà, questa forma di libertarismo sembra lontana dal fornire una soluzione alla questione.

La teoria del libertarismo dell’agente, invece, ritiene che, nella rottura indeterministica del
corso di eventi, l’agente sarebbe dotato di uno speciale potere di causazione: potrebbe
causare liberamente un corso di eventi piuttosto che un altro, senza essere a sua volta
necessitato, in quanto sarebbe “inclinato” nelle scelte e nelle azioni dalla sua storia
biografica e dalle leggi di natura, ma senza esserne determinato.

22
Secondo l’espressione di Chisolm,33 l’agente si comporterebbe come un primo “motore
immobile”, dando vita, attraverso le sue scelte, a nuovi corsi di azione che poi
proseguirebbero secondo le leggi naturali.

L’obiezione di maggior rilievo, a questa teoria, è che, concependo uno speciale ambito
d’azione per l’agente, questa tesi rischia di minare l’unitarietà con cui guardiamo al mondo,
dato che risulta problematico conciliare la causalità naturale con la capacità di causazione
particolare del soggetto.

Da quanto argomentato fin qui emerge che tutte le posizioni in gioco, riguardo il problema
del libero arbitrio e la “legalità naturale”,34 portano validi contributi alla riflessione, ma
nessuna risulta conclusiva nel dare una risposta alla questione.

Al di fuori del panorama concettuale che vede il determinismo e l’indeterminismo come


ipotesi esplicative del funzionamento del mondo, vi sono altre due teorie che potrebbero
essere valide in entrambe le situazioni.

Esse sono l’eliminazionismo e l’epifenomenismo.

Inizio la trattazione considerando l’eliminazionismo. I sostenitori di questo tipo di pensiero


ritengono che il comportamento umano sia comprensibile tramite una teoria del
comportamento, anzi, una proto-teoria35 che sorge spontaneamente in ognuno di noi quando
osserviamo il comportamento altrui ed è detta “psicologia ingenua”.

Essa teorizza che le azioni umane siano causate efficacemente da stati intenzionali come
credenze e desideri, di un soggetto razionale.

Quindi, credenze e desideri sarebbero le entità teoriche su cui costruiamo la nostra


comprensione del comportamento altrui.

Più nello specifico, ciò che spiega il comportamento di un agente ritenuto razionale, è il
contenuto dei suoi stati intenzionali, ovvero il contenuto delle sue credenze e dei suoi
desideri.

33
Ho tratto questa definizione data da Chisolm, da De Caro, Mori e Spinelli [2014]
34
Prendo questo spunto da De Caro [2002].
35
Cfr. De Caro e Maraffa [2016]

23
Per comprendere il funzionamento di questa teoria, basta pensare alle attribuzioni di
significato che pratichiamo ogni giorno, osservando i comportamenti altrui, di cui, di fatto,
non conosciamo le cause reali.

Immaginiamo di vedere Martina indossare il cappotto prima di uscire di casa e immaginiamo


che fuori faccia freddo.

A questo punto, secondo la teoria ingenua della mente, deduciamo che Martina indossi il
cappotto perché non vuole raffreddarsi.

Il fatto che non voglia prendere freddo e che creda che indossando il cappotto otterrà lo
scopo di non raffreddarsi sono il contenuto dei suoi atteggiamenti di credenza e desiderio,
che gli osservatori le attribuiscono nella lettura del suo comportamento come intenzionale e
proprio di un essere razionale.

Secondo gli eliminazionisti, tale teoria è inadeguata a spiegare il comportamento umano e,


col tempo, come è successo per altre teorie poi soppiantate dalle scoperte scientifiche, come
la teoria del flogisto, destinata ad essere messa da parte a favore di spiegazioni più aderenti
alla reale causa delle azioni.

Secondo l’epifenomenismo, invece, i nostri stati mentali coscienti sono solo epifenomeni che
non hanno alcuna efficacia causale e quindi non valgono per spiegare il comportamento
umano, che sarebbe determinato da fattori neurologici inconsci.

Entrambe le teorie sembrano trarre forza dai risultati degli esperimenti delle neuroscienze e,
negando l’efficacia causale dei nostri stati mentali consci, efficacia causale che è un
presupposto imprescindibile per il compimento di un’azione libera, negare il libero arbitrio
e la responsabilità morale che esso implicherebbe.

Come visto, l’orizzonte teorico è vasto e ricco di interessanti spunti di riflessione sia per
quanto riguarda le posizioni speculative, sia per quanto riguarda le obiezioni ad esse fatte.

24
2. L’opinione comune e l’attribuzione di responsabilità

I filosofi non sono tutti dello stesso parere rispetto a come l’opinione comune interpreti il
rapporto tra libero arbitrio e responsabilità. L’idea di alcuni36 è che la diffusione dei risultati
delle neuroscienze a favore del determinismo possa mettere in crisi la concezione ordinaria
e, secondo un certo punto di vista anche giuridica,37 di attribuzione di responsabilità. Essi
sostengono che sarebbe meglio non diffondere i risultati di tali esperimenti per evitare che
le persone comuni rischino di sviluppare un diminuito senso della propria dignità e si lascino
andare a comportamenti immorali. L’idea è che l’opinione comune sia incompatibilista e, si
teorizza che, scoprendo che i propri stati mentali sono illusioni, i soggetti si sentirebbero
esentati dalla valutazione morale per le proprie azioni, non potendo essere ritenuti
responsabili di azioni su cui non hanno avuto il controllo e che erano determinati a compiere
da fattori esterni e preesistenti rispetto alla loro volontà.

Detto in altri termini, se si dimostrasse vero il determinismo neuronale, l’etica ingenua e il


diritto si troverebbero in difficoltà, dato che le determinazioni coscienti sembrano essere alla
base di una corretta attribuzione della responsabilità.

Secondo Smilansky, il principale sostenitore di questo punto di vista, questo fatto porterebbe
al compimento di azioni illecite e minerebbe le basi della società civile.

Non tutti gli autori sono dello stesso parere al riguardo.

Seguendo la riflessione di De Caro e Maraffa,38 abbiamo ben tre ordini di argomenti da


esporre contro questo punto di vista.

36
Si veda De Caro e Maraffa [2016] per una raccolta delle opinioni più significative al riguardo.
37
Si vedano, al riguardo, le opinioni di Sartori, Lavazza, Sammicheli, in Lavazza e Sartori [2011]. Essi fanno
notare che è già un dato di fatto l’ingresso massiccio dei risultati delle neuroscienze nelle aule di tribunale e,
alla luce di ciò, pongono il problema di una rivisitazione del nostro sistema giuridico, proponendo un
trattamento del reo in base alla sua pericolosità sociale e non alla retribuzione per il crimine commesso.
Espongono anche il punto di vista della società e dell’opinione comune che, in base ad una radicata intuizione
morale, richiede che il reo venga punito per il solo fatto che ha compiuto il crimine, a rischio, altrimenti, che
sia minato l’ordine sociale. Invitano la neuroetica a riflettere sulla tensione problematica tra le due posizioni.
Si tratta, d’altronde, dell’idea che ha guidato i legislatori nell’istituzione delle REMS in alternativa ai vecchi
OPG. Si vede al riguardo l’Introduzione del presente elaborato, dove espongo la problematicità della
coesistenza dell’intuizione morale retributivista con le cognizioni specialistiche che si acquisiscono mediante
gli approfondimenti peritali. Per un approfondimento sulla pericolosità sociale della persona che commette
crimini in stato di alterazione mentale e sulla non imputabilità, Cfr. Piccione e Di Cesare [2018] e Pellegrini
[2017].
38
Faccio riferimento alla chiarezza di impostazione del discorso in De Caro e Maraffa [2016], mentre per le
argomentazioni ho tratto spunto anche dal saggio di Maraffa e Sirgiovanni, in De Caro, Lavazza e Sartori
[2013].

25
In primo luogo, abbiamo ragioni storiche per ritenere che non avverrebbe quanto predetto
da Smilansky, se il determinismo risultasse vero e il libero arbitrio un’illusione.

Infatti, basta pensare alle comunità luterane e calviniste del XVI secolo, che ritenevano che
il libero arbitrio umano fosse invalidato dalla prescienza divina e che la sorte degli esseri
umani fosse predeterminata.

Considerando il peso preponderante che in quelle comunità aveva l’aspetto religioso, una
simile consapevolezza, nell’ottica di Smilansky, avrebbe dovuto dare vita a fenomeni
distruttivi per la società.

Ma, invece, si è registrato un aumento della propensione all’efficienza mondana, che,


secondo l’analisi fatta da Max Weber nel suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo,
ha fornito l’impulso alla crescita economica e imprenditoriale che ha dato vita al capitalismo.

Questo esempio mostra come le previsioni di Smilansky siano state contraddette dagli eventi
storici.

Vi sono poi delle riflessioni di carattere teorico che ci portano a pensare che, la prova del
determinismo, non necessariamente ci porterebbe a propendere per un annullamento della
responsabilità morale.

In particolare, condivido la tesi di Harry Frankfurt, secondo il quale bisognerebbe basare il


concetto di “responsabilità” sul concetto di “persona”.39

Frankfurt sostiene che non è necessario esaminare le possibilità di esistenza del libero
arbitrio per essere in grado di ascrivere responsabilità al comportamento umano, ponendosi
così all’esterno della questione che verte sul determinismo e sul compatibilismo.

Secondo la sua idea, non tutti gli esseri umani possono essere definiti “persone” e di certo
non possono esserlo definiti gli animali.

Sia esseri umani che animali, infatti, hanno dei desideri, che lui chiama desideri di primo
livello, uno dei quali potrebbe essere ad esempio quello di desiderare di mangiare della
cioccolata.

Ma, il fatto che un individuo abbia un certo desiderio di primo livello, non significa che esso
sia o sarà il fattore motivante il suo comportamento. Può trattarsi di un desiderio tra tanti,

39
Frankfurt, H. G. [1971]. Luca Fonnesu, opera cit.

26
che non avrà influenza sulle sue azioni, dato che nulla sappiamo della forza di questo
desiderio.

Solo gli esseri umani sono capaci di una valutazione riflessiva dei loro desideri, sono cioè
capaci di avere desideri di secondo livello, ovvero di desiderare di volere o di non voler
qualcosa, sulla base di una valutazione critica dei loro desideri.

I desideri di secondo livello, ancora, non costituiscono la caratteristica sufficiente per poter
definire una persona.

Essi devono essere effettivamente una motivazione verso un certo tipo di azione e, per far
ciò, è necessario che l’agente desideri che siano la sua volontà.40

Questo tipo di desideri di secondo livello sono detti volizioni di secondo livello o di livello
superiore.

Solo le persone sono in grado di avere volizioni di livello superiore, mentre altri esseri umani
(che Frankfurt chiama wantons, capricciosi) possono avere desideri di primo livello o di
secondo livello, ma non volere che tali desideri costituiscano effettivamente la loro volontà.

Farò un esempio per rendere più chiari questi concetti.

Il mio desiderio di primo livello di mangiare della cioccolata può confliggere con altri
desideri di primo livello, quali quello di restare in forma e avere una sana alimentazione.

Formulerò un desiderio di secondo livello se desidererò desiderare la cioccolata o non


desiderarla.

Se però non farò in modo che tale desiderio di secondo livello diventi effettivamente la mia
volontà, mi spinga cioè all’azione, sarei definita da Frankfurt wanton, ovvero capricciosa,
ma non potrei essere definita “persona” nel senso qui inteso.

Se invece desiderassi che il mio desiderio di restare in forma sia la mia volontà, avrei
espresso una volizione di secondo livello e potrei essere definita “persona”.

40
Si tratta di una differenza sottile; Frankfurt la spiega con un esempio. Si ammetta che l’agente A stima molto
l’agente B, e che per questo A voglia desiderare esattamente quello che desidera B, ovvero voglia essere mosso
dagli stessi fattori motivazionali. Potremmo dire che A desideri avere gli stessi desideri di B, pur non sapendo
quali essi siano. Questo suo desiderio costituisce un esempio di desiderio di secondo livello, ma non di
volizione di livello superiore, in quanto il desiderio di A di desiderare ciò che desidera B non è la volontà di
A, non lo spingerà in alcun modo all’azione, non avendo, potremmo dire, un contenuto di cui A possa essere
consapevole e che possa quindi mettere in atto. Crf. Frankfurt [1971]. Si tratta di una distinzione sofisticata,
ma che serve a spiegare il punto di vista dell’autore.

27
A questo punto, secondo Frankfurt, si può parlare di responsabilità: solo le persone possono
essere investite di responsabilità morale per le proprie azioni; i bambini, gli animali o alcuni
individui adulti, non possono essere definiti “persona” e dunque il loro comportamento non
può essere valutato sulla base delle categorie della responsabilità morale.

Ma, non tutte le persone sono libere e non a tutte le persone è possibile attribuire
responsabilità per le proprie azioni.

Frankfurt fa l’esempio di due tossicodipendenti di cui uno voglia disintossicarsi, voglia che
la sua volontà sia smettere di drogarsi, mentre l’altro no. Entrambi alla fine si drogano. Il
primo dei due ha una volizione di secondo livello, ma non è libero di fare quello che la sua
volontà lo spingerebbe a fare perché costretto dalla sua addizione alla droga; il secondo,
invece, non ha desideri di secondo livello che orientino la sua volontà in un senso piuttosto
che in un altro.

Il primo dei due soggetti, per quanto possa essere definito “persona” in quanto esprime
volizioni di ordine superiore, non può essere ritenuto responsabile della sua azione, perché
soggetto ad un meccanismo compulsivo che non permette alla sua volontà di essere
causalmente efficace, non è “libero”.41

Per Frankfurt la libertà della volontà dipende quindi dalla capacità riflessiva del soggetto di
avere volizioni di secondo livello e dal confronto di queste con le situazioni reali, in cui il
soggetto non sia costretto da altro. L’attribuzione di responsabilità, che da essa discende,
non dipende, quindi, dal confronto col determinismo.

Per Frankfurt solo le persone possono essere ritenute responsabili, ma, solo le persone non
forzate da meccanismi di costrizione interni o esterni. E sono persone solo quegli individui
della specie umana che fanno in modo che, tra i tanti desideri che hanno, uno soltanto, quello
giudicato migliore in una valutazione critica, coincida con la loro volontà, diventi insomma
espressione della loro personalità in quanto agenti pratici nel mondo.

41
Al riguardo, Lavazza riporta i risultati di studi (di Levy) sulla forza di volontà, in particolare nel caso della
tossicodipendenza. Qui la forza di volontà viene intesa come capacità di autocontrollo che dipende, non solo
dai processi neurologici e dai neurotrasmettitori, ma anche dagli strumenti a disposizione dell’individuo e
dall’ambiente esterno e gli stimoli che da questo provengono. Questa posizione teorica sembra riecheggiare la
teoria della mente estesa di Di Francesco, Cfr. Di Francesco, in Lavazza e Sartori [2011]. Così definito,
l’autocontrollo si comporterebbe come un muscolo che, se usato troppo a lungo, diminuisce le sue prestazioni
nel breve periodo, mentre, proprio come accade per la capacità aerobica, nel lungo periodo, esse aumentano
con la pratica. Dunque, un tossicodipendente non può sottrarsi indefinitamente allo uno stimolo di drogarsi, se
la droga è a disposizione, ma può evitare gli ambienti o gli stimoli che lo portino ad immaginare la
soddisfazione proveniente dalla droga. Cfr. Lavazza, in Lavazza e Sartori [2011].

28
Nello stesso filone di pensiero si inserisce Gary Watson42 che riprende la tesi di Frankfurt
secondo cui è possibile fondare la responsabilità sulla riflessività, ma critica la distinzione
fatta da Frankfurt tra desideri di primo e di secondo livello, che ritiene poco sensata.

Secondo Watson, per poter comprendere il grado di libertà di un soggetto, e quindi anche il
livello di responsabilità che è possibile ascrivergli, bisognerebbe distinguere tra il “volere”
o “desiderare”, da un lato, e il “valutare”, dall’altro. Infatti, ciò che può muovere un
individuo libero ad agire può essere sia il suo desiderio più forte, sia ciò che egli valuta di
più. Il sistema di valutazione può non coincidere col sistema dei desideri di un agente, vale
a dire che un individuo può essere spinto ad agire da desideri irrazionali o da passioni, anche
quando tali desideri contrastano col sistema di valutazione del comportamento migliore da
avere secondo l’agente.

Secondo Watson, la libertà di un soggetto sta nella sua capacità di far aderire il suo sistema
motivazionale, fatto di desideri e pulsioni, al suo sistema di valori.

Alcuni individui non sono liberi in quanto, pur avendo un sistema di valore ben funzionante,
non riescono a controllare il proprio sistema motivazionale sulla base del loro giudizio di
valore. In quest’ottica, secondo Watson, non possono essere considerati responsabili delle
loro azioni i cleptomani e gli ossessivi, in quanto le loro scelte, seppur ispirate ad una corretta
analisi valoriale del comportamento migliore da tenere, sono ininfluenti rispetto al corso
d’azioni che è invece in preda ad un meccanismo patologico di asservimento a desideri,
vissuti spesso come egodistonici.

La proposta di Gary Watson, dunque, è quella di valutare il grado di libertà dei soggetti sulla
base di un dialogo tra il sistema motivazionale e quello valoriale dell’agente, in cui è il
secondo a guidare il primo, secondo condizioni di riflessività critica. Solo ad individui liberi
secondo questa definizione, è possibile ascrivere responsabilità, e dunque biasimo o lode,
per le loro azioni.

La tesi di Watson, come quella di Frankfurt, si pone al di fuori della problematica


determinismo/indeterminismo e compatibilismo/incompatibilismo, per conservare un valido
concetto di responsabilità.

42
Si veda il già citato saggio di Luca Fonnesu, in De caro, Mori e Spinelli [2014].

29
Entrambi i punti di vista corroborano l’idea che, se pure il determinismo risultasse vero, non
saremmo giustificati, per questo, ad abbandonare il sistema di attribuzione di responsabilità
ai nostri simili, per le loro azioni.

Mi permetto di dilungarmi ulteriormente su quest’ultima posizione, per fare un’obiezione


chiarificatrice.

Per Watson, possono essere ritenuti responsabili solo quegli individui il cui comportamento
è regolato dal proprio sistema valoriale, ossia in cui i desideri e le passioni sono assoggettate
al timone della valutazione critica rispetto al comportamento migliore da tenere.

E’ evidente la dicotomia tra sistema valoriale e sistema motivazionale all’azione nei


cleptomani e negli ossessivo-compulsivi, i quali riconoscono razionalmente che
preferirebbero comportarsi diversamente, ossia non mettere in atto determinate azioni, ma
non per questo, riescono ad evitare di commetterle.

Nel caso delle psicosi la situazione è diversa.

Il punto che intendo dimostrare è che, secondo questo ragionamento, in alcuni casi, sarebbe
giustificato ritenere responsabili delle loro azioni soggetti che agiscono sotto l’effetto di una
crisi psicotica, asserzione che ci sembra scorretta a livello intuitivo e sulla base di quanto
finora accettato anche dalla giurisprudenza al riguardo.

A causa del mio lavoro, mi è capitato più volte di confrontarmi con soggetti in preda ad una
crisi psicotica e, a differenza di quanto immagina l’opinione comune, il confronto è sempre
stato ricco ed interessante.

Ciò che, però, mi ha colpito maggiormente è la coerenza argomentativa che molti di questi
discorsi possiedono.

La maggior parte delle volte che osserviamo dall’esterno il comportamento di una persona
malata di psicosi, specie se durante una crisi, esso ci sembra contraddittorio, irrazionale,
imprevedibile e, spesso, contrario alle comuni regole della società.

Ma, parlando con queste persone e chiedendo loro spiegazioni rispetto al loro
comportamento, si potrebbe essere sorpresi nello scoprire che si tratta di azioni che
potremmo ritenere assolutamente ragionevoli e coerenti con il loro sistemi di valori.

Anzi, se accettassimo la realtà delle loro percezioni, ovvero riuscissimo a comprendere


quanto reali appaiono le allucinazioni visive e uditive a chi le vive, reali quanto la realtà con

30
cui ci confrontiamo quotidianamente, forse, dopo un periodo di tempo sufficiente,
arriveremmo a concordare che essi hanno fatto la scelta migliore, data la situazione.

In questi soggetti il sistema valoriale appare perfettamente funzionante,43 vale a dire che essi
sono in grado di valutare quale sia l’azione migliore da compiere in una determinata
situazione e di fare in modo che la loro volontà coincida con essa, a differenza dei cleptomani
e degli ossessivi che non riescono a governare il proprio sistema motivazionale.

Ciò che risulta alterato è la percezione della situazione reale, alterazione di cui però i soggetti
sono inconsapevoli.

Per chiarezza farò un esempio. Se fossi sotto l’influsso di allucinazioni che mi portano a
pensare che c’è un folletto che racconta barzellette, sulla spalla del mio capo, durante una
riunione di lavoro, la cosa mi sembrerebbe buffa e mi porterebbe sicuramente a guardarmi
attorno, per vedere se anche gli altri abbiano visto il folletto, e a distrarmi da quello che dice
il mio capo. Potrei finire col suscitare il disappunto del mio capo che mi vede poco
concentrata senza apparente motivo.

In questo caso la mia azione sarebbe conseguente al mio sistema valoriale e, inoltre, sarebbe
“sensata” agli occhi di chi sapesse cosa sto vedendo, ma non si può dire che si tratti di
un’azione di cui io possa essere ritenuta responsabile, in quanto, seppur il mio sistema di
valori funzioni coerentemente alla situazione e riesca a governare il mio sistema
motivazionale, esso elabora i suoi giudizi sulla base di informazioni provenienti da un
sistema percettivo inficiato dall’allucinazione.

Per questo motivo, mi sentirei di proporre che la tesi di Watson possa essere integrata
affermando che si può ascrivere libertà e responsabilità agli individui il cui comportamento
sia guidato dal proprio sistema valorial; sistema valoriale che tragga le sue informazioni da
un sistema percettivo aderente alla realtà.

Un terzo ordine di motivi per cui potrebbe risultare non necessaria la raccomandazione di
Smilansky – di evitare di diffondere i risultati degli esperimenti che sminuiscono il libero
arbitrio alla luce del determinismo – è dato da riscontri empirici.44

43
Parlo di soggetti che non abbiano altre concomitanti condizioni morbose che ne determinino una riduzione
delle capacità cognitive.
44
Si tratta del filone detto della filosofia sperimentale, che studia i risultati di esperimenti che usano tecniche
prese in prestito dalla psicologia sperimentale per analizzare le intuizioni comuni riguardo argomenti di
interesse filosofico. Cfr. De caro e Maraffa [2016]. Gli esperimenti e le citazioni che proporrò sono tratti da
questo testo.

31
Secondo la tesi di Frankfurt, un soggetto può essere ritenuto responsabile delle proprie azioni
nella misura in cui si identifica con esse.

Partendo da questo assunto, Woolfolk, Doris e Darley proposero un esperimento per


dimostrare che il punto di vista comune sul libero arbitrio è compatibilista.

Ai partecipanti veniva letta una storia in cui due coppie di amici vanno in vacanza insieme
ai caraibi. Verso la fine della vacanza uno dei due uomini, Bill, scopre che l’amico, Frank, è
l’amante della moglie. Sul volo di ritorno, l’aereo viene preso da dei terroristi che
costringono Bill ad uccidere Frank.

Venivano lette due diverse versioni di questo episodio, una a “bassa identificazione”, in cui
Bill non esperisce come propria, come desiderata, l’azione di uccidere Frank, ed una ad “alta
identificazione”, in cui Bill si identifica, appunto, con l’azione cui è costretto dai dirottatori.

Ecco la prima versione:

Bill era atterrito. In quel momento era certo dei suoi sentimenti. Non voleva uccidere Frank, anche se era
l’amante di sua moglie. Ma, sebbene inorridito dalla situazione e schiantato dal dolore, puntò con riluttanza la
pistola alla tempia di Frank e gli fece saltare le cervella.

Invece, nella variante ad “alta identificazione”, i soggetti leggevano quanto segue:

Malgrado le circostanze disperate, Bill capì la situazione. Aveva l’opportunità di uccidere l’amante della
moglie e farla franca. E in quel momento Bill era certo dei suoi sentimenti; voleva uccidere Frank. Senza alcuna
riluttanza, puntò la pistola alla tempia di Frank e gli fece saltare le cervella.

Coerentemente con la previsione degli sperimentatori, i soggetti hanno giudicato Bill più
responsabile delle proprie azioni nel secondo caso, ovvero nel caso con elevata
identificazione del soggetto con l’azione che compie, e meno responsabile, invece, nel caso
in cui la sua volontà, per quanto inefficace, si discosta dall’azione.

Dunque, questo esempio sembra mostrare che l’opinione dei partecipanti sia compatibilista.

32
Ma, un’obiezione che è possibile muovere a questo esperimento è che i partecipanti
potrebbero ritenere che Bill avrebbe potuto agire diversamente; avrebbe potuto rifiutarsi di
sparare o compiere un’azione diversa (ad esempio, sparare ai terroristi o a sé stesso).

Per far fronte a questa argomentazione, gli sperimentatori proposero una nuova versione
della storia, in cui a Bill viene somministrato un farmaco che lo costringe a comportarsi
esattamente come gli viene ordinato:

Gli effetti [del farmaco] sono simili all’influsso dell’ipnosi somministrata da un ipnotista esperto: il farmaco
dà luogo a una totale sottomissione. Per verificare gli effetti del farmaco, il capo dei rapitori gridò a Bill di
darsi uno schiaffo. Con enorme stupore, Bill osservò la mano destra infliggere un ceffone alla guancia sinistra,
sebbene non avesse avvertito in alcun modo la volontà di muovere la mano. A quel punto il capo dei rapitori
diede a Bill una pistola con un proiettile in canna. A Bill fu ordinato di sparare a Frank alla testa.

Anche in questo caso, i partecipanti giudicarono Bill responsabile delle proprie azioni nella
variante ad “alta identificazione” e non in quella a “bassa identificazione”. Gli sperimentatori
conclusero che l’opinione comune riguardo responsabilità e libero arbitrio è compatibilista.

Altri esperimenti sembrano comprovare questa tesi. Nahmias e colleghi presentarono ai


partecipanti un caso in cui il soggetto compie azioni immorali nel nostro universo, inteso
come deterministico:

Immagina che nel prossimo secolo si siano scoperte tutte le leggi della natura e si sia costruito un
supercomputer che da queste leggi e dallo stato attuale di tutto ciò che esiste nel mondo è in grado di dedurre
con esattezza quello che accadrà in ogni istante futuro. Il computer può, con assoluta precisione, prender nota
di tutto ciò che concerne lo stato attuale del mondo e prevedere tutto ciò che riguarda il suo stato futuro.
Supponi che un tale computer esista e che esamini lo stato dell’universo in un certo istante del 25 marzo 2150,
venti anni prima della nascita di Jeremy Hall. Da queste informazioni e dalle leggi della natura il computer
deduce che certamente Jeremy rapinerà la Fidelity Bank alle 18:00 del 26 gennaio 2195. Come di consueto, la
previsione del computer è corretta: Jeremy rapina la Fidelity Bank alle 18:00 del 26 gennaio 2195.45

45
Questa citazione è presa da Maraffa, M. e Sirgiovanni, E., in De Caro, Lavazza e Sartori [2013], p.93. Per
un approfondimento degli esperimenti Nahmias et al. [2005] e [2006].

33
Fig. 1: Asse temporale della previsione del computer: nel 2150 fa la previsione della rapina alla banca da parte
di Jeremy. Jeremy nasce nel 2170 e il 26 gennaio 2195 rapina la Fidelity Bank, come previsto dal computer.

Ai partecipanti allo studio furono fatte due domande: se essi ritenessero che Jeremy aveva
rapinato la banca di sua volontà; e se ritenevano biasimevole, quindi moralmente
responsabile, Jeremy per la rapina alla banca.

Sorprendentemente, i risultati furono che il 76% dei partecipanti dissero di essere convinti
che Jeremy avesse svaligiato la banca di sua libera volontà, mentre l’83% dei soggetti a cui
era stata posta la seconda domanda ritennero Jeremy responsabile dell’azione compiuta.

Sembrerebbe un’ulteriore prova del fatto che l’opinione comune è compatibilista rispetto ai
giudizi di responsabilità.

Nichols e Knobe46 hanno messo in discussione questa lettura dei fatti, affermando che le
intuizioni comuni rispetto alla responsabilità, in condizioni astratte, sono incompatibiliste,
mentre le risposte riguardo a casi concreti sarebbero compatibiliste.

La loro ipotesi è che in genere l’opinione comune sarebbe incompatibilista e che le risposte
compatibiliste risultanti dai precedenti esperimenti sarebbero dovute a una sorta di errore di
prestazione causato dall’influenza perturbatrice delle forti emozioni che sorgono quando si
è messi dinanzi ad una notevole violazione delle norme morali.

La prova di ciò sarebbe data dai loro esperimenti. Essi presentarono ai partecipanti le
descrizioni di due universi, A e B, dove l’universo A era del tutto deterministico, mentre
l’universo B era deterministico in tutto, tranne che per le azioni umane. Fu chiesto loro quale
dei due universi assomigliasse di più al nostro e il 90% dei soggetti ha risposto indicando
l’universo B.

46
Si vede Maraffa e Sirgiovanni, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013]; per la citazione pag. 94.

34
Successivamente i partecipanti furono divisi casualmente nelle due condizioni “astratta” e
“concreta”. Ai soggetti nella condizione “astratta” fu posta la seguente domanda:
<<Nell’universo A è possibile che una persona abbia la piena responsabilità morale per le
proprie azioni?>>. L’86% degli intervistati ha dato una risposta incompatibilista, ritenendo
che nell’universo A la piena responsabilità morale per le azioni sia impossibile.

Ai soggetti nella condizione “concreta”, invece è stato proposto il seguente scenario:

Nell’universo A un uomo di nome Bill si è invaghito della sua segretaria e si convince che l’unico modo per
stare con lei è quello di uccidere la moglie e i tre figli. Bill sa che in caso di incendio non vi è modo di fuggire
dalla casa in cui abita. Prima di partire per un viaggio d’affari, Bill colloca in cantina un marchingegno che
manda a fuoco la casa e stermina la famiglia. Secondo te, Bill ha la piena responsabilità morale della morte
della moglie e dei figli?

In questa condizione concreta e carica emotivamente, il 76% dei partecipanti ha dato una
risposta compatibilista affermando che Bill è pienamente responsabile per la morte della
moglie e dei figli.

Alla luce di questi esperimenti, Nichols e Knobe hanno concluso che l’opinione comune è
tendenzialmente incompatibilista e che i risultati compatibilisti siano solo apparenti e dovuti
piuttosto all’errore performativo in cui si cade quando entrano in gioco situazioni concrete
che suscitano una forte reazione morale (quale, ad esempio, la rabbia o l’indignazione).

In un successivo studio, Nahmias, Coates e Kvaran47 hanno ritenuto che ciò che ha portato i
partecipanti dello studio d Nichols e Knobe a negare il libero arbitrio e la responsabilità
morale nei loro esperimenti, sia stata l’interpretezione di determinismo come
epifenomenismo. Secondo questi autori la descrizione del determinismo usata da Nichols e
Knobe: <<Ogni cosa deve verificarsi come di fatto si verifica>>48 avrebbe indotto i
partecipanti a ritenere che nell’universo A le decisioni sono determinate e causalmente
inefficaci, mentre nell’universo B esse sono indeterminate e causalmente efficaci.

47
Si veda Maraffa e Sirgiovanni, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013] e De Caro e Maraffa [2016].
48
De Caro, Lavazza e Sartori [2013] pag. 95.

35
Per comprovare la loro teoria, Nahmias, Coates e Kvaran hanno sviluppato due scenari, uno
in cui il comportamento è descritto in termini riduzionistici, e uno in cui esso è descritto in
termini psicologici.

Hanno poi fatto tre previsioni: nello scenario descritto in termini mentali, i partecipanti
avrebbero ritenuto che il determinismo non costituiva una minaccia al libero arbitrio; nello
scenario descritto col linguaggio meccanicistico riduzionista delle neuroscienze, invece, essi
avrebbero giudicato il determinismo una minaccia per la libertà e la responsabilità, e, infine,
i partecipanti avrebbero ritenuto responsabili soggetti specifici che venivano descritti
compiere atti immorali (come nel caso di Bill), in un numero significativamente più alto di
volte rispetto alle descrizioni delle stesse azioni fatta in maniera astratta.

I risultati dell’esperimento sembrano confermare questa teoria: i partecipanti fornirono più


risposte compatibiste nel caso della descrizione “psicologica” e più risposte incompatibiliste
per la descrizione “neurologica”.

Di fatto, la discussione al riguardo resta aperta ma, come fanno notare alcuni studiosi, sembra
che noti filosofi incompatibilisti siano riusciti a vivere una vita degna e moralmente corretta,
nonostante lo spettro del determinismo. Questa considerazione e le molte fatte finora, mi
portano a ritenere che, se si dovesse scoprire l’illusorietà delle decisioni coscienti o
l’impossibilità di applicare il criterio di responsabilità secondo i canoni cui siamo abituati
dalla psicologia ingenua, il modo di rapportarci gli uno agli altri non cambierebbe molto.

A tal proposito, riporto l’opinione di Strawson per cui è un fatto naturale per gli esseri umani
attribuire responsabilità ai propri simili per i loro atti, in quanto l’attribuzione della
responsabilità, nel senso comune, proviene, non da un approfondita riflessione circa le
condizioni di possibilità del libero arbitrio, ma da intuitivi atteggiamenti reattivi (come la
rabbia o l’indignazione, appunto), che sorgono quando osserviamo qualcuno violare
macroscopicamente le regole morali, a danno di un altro individuo.49

49
Per approfondimenti, si veda Luca Fonnesu, nel saggio citato. Secondo Strawson, gli atteggiamenti reattivi
morali, oltre che naturali sarebbero anche razionali, in quanto, a suo parere, sarebbe irrazionale pensare di
comportarsi diversamente, pensare cioè di non continuare a relazionarci con gli altri attribuendo loro
responsabilità per le loro azioni.

36
CAPITOLO II

La scienza e l’esplorazione della mente

Guardate nel cervello: vedrete le connessioni neurali e i messaggi neurali che scoppiettano
dappertutto, in quantità paurosa. Ma non vedrete nessun fenomeno mentale soggettivo
consapevole. Soltanto il resoconto dell’individuo che ne sta facendo esperienza potrà
dirvene qualcosa.50

1. La fine della libertà umana?

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 un gruppo di ricerca guidato dal
neuroscienziato californiano, Benjamin Libet, fece una serie di esperimenti tesi a valutare il
momento in cui il soggetto avverte la consapevolezza di voler compiere un movimento
precedentemente concordato con lo sperimentatore, confrontandolo con il momento effettivo
in cui compie tale movimento, valutato tramite elettromiografia, e col momento di
insorgenza di un aumento dell’attività elettrica cerebrale, riscontrabile
all’elettroencefalogramma come una curva che cresce gradualmente, detta potenziale di
prontezza motoria (Readiness Potencial).51

I risultati di questi esperimenti, pubblicati nel 1983 sulla rivista Brain, ebbero un grosso
impatto sulla discussione sul libero arbitrio ed hanno dato il via ad una serie di esperimenti
simili, che illustrerò in seguito, aprendo ad una nuova prospettiva di ricerca concetti fino ad
allora indagati prevalentemente dalla filosofia della mente e per questo, potremmo dire,

50
Libet, B. [2004]
51
Più nello specifico, per “potenziale di prontezza motoria”, o meglio “potenziali di prontezza motoria”, si
intendono quegli incrementi di attività cerebrale (Movement Related Cortical Potentials, MRCP) rilevabili con
curve specifiche, a carattere negativo, all’EEG, che, fin dai tempi di Kornhuber e Deecke, sono risultati essere
relazionati con la preparazione motoria del cervello alle azioni. Per maggiori approfondimenti rimando a
Shibasaki, H. e Hallett, M. [2006].

37
avulsi da un referente empirico, o dalla psicologia sociale, ma privi del rigore categoriale
tipico della metafisica.52

La causa di tanto clamore sono i risultati apparentemente controintuitivi di tali esperimenti.

Nella psicologia ingenua infatti si considerano le azioni libere come completamente


trasparenti alla coscienza e determinate unicamente dal nostro libero arbitrio; dove per
“determinazione” si intende una connessione causale tra libera volontà dell’agente e
attuazione dell’azione voluta, con una presentazione temporalmente precedente della prima
rispetto alla seconda; e per “trasparenza alla coscienza” si intende invece quella caratteristica
propria di alcune azioni di essere completamente presenti alla consapevolezza dell’agente,
nel momento in cui sono compiute.

Negli esperimenti di Libet veniva chiesto ai soggetti sperimentali di piegare un dito o di


flettere il polso della mano destra, tenendo il braccio poggiato sul tavolo, nel momento in
cui sentissero intimamente di avere la volontà a farlo, senza alcun tipo di imposizione o
costrizione esterna e assolutamente non in risposta ad alcuno stimolo esterno.53

Allo stesso tempo i soggetti erano sottoposti ad elettroencefalogramma, allo scopo di


registrare l’incremento graduale dell’attività elettrica in una specifica zona del cervello, la
Supplementary Motor Area (SMA, o area motoria supplementare), da cui emerge un
potenziale elettrico chiamato Potenziale di Prontezza Motoria (PPM o Readiness Potencial,
RP) rilevabile bilateralmente in corrispondenza delle regioni pre e postcentrali dello scalpo
e che si presenta all’elettroencefalogramma come un’onda lenta, circa un secondo o poco
più prima di ogni movimento volontario.54

La scelta di focalizzare l’attenzione su questo tipo di onda elettrica piuttosto che su altre
evidenze dell’elettroencefalogramma ovviamente non fu casuale.

Il potenziale di prontezza motoria, scoperto nel 1965 da Kornhuber e Deecke, è infatti


fortemente implicato nella preparazione dei movimenti programmati, mentre è molto ridotto
o assente nei movimenti involontari o compiuti in modo automatico.55

52
Legrenzi, P. e Umiltà C, [2014].
53
Libet, B. [1985].
54
Studi recenti, Bozzacchi, C., et al. [2012] dimostrano che il PPM è implicato anche nella preparazione di
azioni “virtuali”, vale a dire che si riscontra anche in soggetti che assistono ad una determinata azione, allo
stesso modo in cui si presenta nell’ EEG di soggetti controllo che stanno effettivamente producendo
quell’azione.
55
De Caro, M., Lavazza, A. e Sartori, G. [2010].

38
Inoltre, ai soggetti era chiesto di riportare il momento in cui avessero sentito l’”impulso” a
compiere il movimento, riferendo la posizione di un cursore luminoso che viaggiava su di
un quadrante a forma di orologio e che impiegava 2,6 secondi a compiere il giro completo.
L’analisi di tale momento era molto accurata, a seguito di ulteriori esperimenti di controllo
in cui lo sperimentatore stimolava in maniera casuale e imprevedibile la cute del dorso della
mano dei soggetti che poi erano chiamati a riportare il momento esatto di tale stimolazione
percepita (momento S, da Stimulus, negli articoli di Libet).

I risultati degli esperimenti evidenziarono che i soggetti diventavano consapevoli della


volontà di agire, (il momento W, da Will), circa 350 ms dopo l’istaurarsi del PPM di tipo II
(tipico delle azioni non pianificate e più spontanee) e circa 500-800 ms dopo l’instaurarsi
del PPM di tipo I (tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate).56 Mentre
emerse che la consapevolezza di star per compiere l’azione, il momento M (da Movement)
entra nella coscienza dei soggetti sperimentali solo 86 ms prima dell’azione effettiva.

Si veda la Fig. 1.

Fig. 1

Riporto l’immagine da De Caro e Maraffa [2016]. Sui due assi cartesiani sono rappresentati il voltaggio del
PPM, che inizia a presentarsi circa 1 secondo prima dell’azione, segnata col punto 0 sull’asse delle ascisse, e
il tempo. Si noti come il momento W, la consapevolezza dell’azione insorga circa 200 ms prima del momento
M, il movimento e quando il PPM è già ben delineato all’elettroencefalogramma.

56
Libet, B et al. [1983] e Libet, B. [1985].

39
Da ciò molti dedussero che l’attività preconscia del cervello, (l’attivazione di SMA e
l’insorgenza del PPM) sia la causa reale del comportamento umano, in questo caso della
flessione del dito o del polso, relegando i fenomeni coscienti a semplici spettatori di eventi
che originano da attivazioni cerebrali precedenti al loro emergere.57 Anche altri esperimenti
più raffinati di questo hanno dato risultati simili. Sembrerebbe che la coscienza si appropri
della decisione solo poco prima che il movimento abbia inizio, mentre alcune aree cerebrali
hanno iniziato a prepararlo già un po' di tempo prima.

Esperimenti dello stesso tipo su pazienti con lesioni alla corteccia parietale mostrano che i
soggetti diventano consapevoli della volontà di compiere il movimento solo quando questo
è già sul punto di iniziare; in questi casi, la consapevolezza, piuttosto che precedere l’inizio
dell’azione, tende a coincidere con l’avviamento della stessa.58

Gli autori di questi esperimenti ne deducono che questa zona del cervello sia implicata nella
programmazione motoria di azioni volontarie, rafforzando la tesi secondo cui, almeno la
classe di azioni esaminate in questo tipo di esperimenti, sia in gran parte determinata da
fattori al di fuori del controllo del soggetto e interni piuttosto alla scatola cranica.

Libet diede un’altra spiegazione ai risultati dei suoi esperimenti. Ritenne che, nonostante la
completa determinazione cerebrale della propensione ad agire, al soggetto resta la possibilità
di porre un veto su tali movimenti nei circa 200 ms che separano la consapevolezza
dell’impulso ad agire, dal movimento vero e proprio (la cosiddetta teoria del free won’t).59

Questa definizione della libertà umana riecheggia in qualche modo le posizioni dualiste sui
rapporti mente-corpo e mente-cervello, dotando il soggetto di una libertà di veto le cui basi,
non potendo essere neuronali, a rischio di ricadere nella problematica della determinazione
preconscia, già evidenziata per le volizioni positive, poggerebbero su di una non meglio
specificata ulteriore sostanza che dota l’essere umano della libertà di scelta perlomeno sulle
volizioni negative.

57
Questa è la lettura dei fenomeni mentali data dall’Epifenomenismo. Cfr Cap 1 del presente elaborato.
58
Sirgiu, A. et al. [2004]
59
Libet, B. [2004]. Libet ritiene che numerosi eventi neuronali accadano in contemporanea nel nostro cervello,
una sorta di “borbottio inconscio del cervello”; stimoli di cui diveniamo consapevoli con 500 ms di ritardo, pur
non percependo questo ritardo per via del problema della cronostasi (cfr. più avanti in questo elaborato). Nella
teoria di Libet, una volta che tali stimoli giungono alla consapevolezza, (solo quelli la cui durata sia uguale o
superiore ai 500ms), la coscienza, liberamente, decide quali portare a compimento, o meglio quali lasciare che
si compiano, e quali invece bloccare usando la sua potenzialità di veto.

40
Tale considerazione, condivisa dalla scrivente e del tutto assente in Libet, invalida la tesi
della residua libertà umana nella possibilità di porre un veto.

Infatti, non si capirebbe su quali basi le azioni umane sarebbero completamente determinate
per quel che concerne le decisioni positive, mentre riguardo la decisione di porre un veto
(una volizione negativa) sarebbero invece libere e non determinate da ulteriori catene causali
di origine neurocognitiva.

Una possibilità di uscire da questa empasse sarebbe data dall’esistenza di una seconda
sostanza, non determinata dall’attività cerebrale e in grado di fornire all’essere umano la
libertà di bloccare le azioni non desiderate. Ma, pur ammettendo che una tale sostanza esista
e abbia efficacia causale nel mondo fisico in cui viviamo, resterebbe da spiegare, oltre a
come possa agire causalmente sul mondo determinato, anche la motivazione dell’esistenza
di un doppio percorso decisionale per l’essere umano, quello positivo e determinato
dall’attività neuronale e quello negativo e indeterminato.

Tale sostanza dovrebbe essere indeterminata nel senso del libertarismo dell’agente causale,
incorrendo nelle obiezioni che abbiamo già esaminato riguardo la rottura dell’unitarietà del
mondo fisico.

Altra opzione per poter accettare questa ipotesi fatta da Libet, sarebbe data da una rottura
indeterministica degli eventi, che farebbe sì che per il soggetto sia possibile decidere in
maniera diversa, nonostante la catena deterministica neuronale.

Anche in questo caso, però, il ruolo causale del soggetto sarebbe irrilevante per la
determinazione di usufruire della libertà di veto, oppure di lasciare che il corso di eventi
determinato dall’attivazione neuronale vada avanti.60

Da un punto di vista empirico, poi, bisogna aggiungere che alcuni studi recenti61 mostrano
il coinvolgimento di una specifica area del cervello, la corteccia frontale dorsomediale
sinistra (dMFC) nell’inibizione (inconscia) dei processi neuronali che portano a compimento
alcune azioni volontarie.

Questo dato, insieme alla considerazione che si è visto un ruolo simile per la succitata area
motoria supplementare, (per quel che concerne la soppressione automatica ed involontaria

60
Faccio riferimento all’obiezione della sorte, di Hume, e a quella dell’agente che scompare. Cfr. Cap I, par.
1.
61
Brass, M. e Haggard, P. [2007].

41
del movimento della mano dovuto al contesto esterno e non volontario), sembrerebbe fornire
una base neuronale al free won’t di cui teorizza Libet.

Sembrerebbe infatti che si siano individuati i sostrati materiali per il concetto libetiano di
libertà di veto, se non fosse che l’azione inibitoria esplicata da queste strutture neuronali è
specificamente inconscia e dunque anch’essa sfugge al controllo del soggetto. Dunque,
queste scoperte, ben lungi dal sostenere la teoria di una residuale libertà umana nel porre un
veto, o nell’inibire, in questo caso, il compimento di azioni, la cui genesi sembra essere
completamente determinata da avvenimenti neuronali inconsci, corroborano l’idea che
alcuni di questi eventi neuronali in forma inconscia siano implicati nei processi di controllo
inibitorio tanto di azioni coscienti quanto di azioni involontarie.

2. Obiezioni alla lettura di Libet

Come visto, l’idea di Libet di poter salvare la libertà umana riferendola alle volizioni
negative, ovvero al potere di veto sulle azioni, non sembra reggere alla critica mossagli da
molti studiosi sul perché l’essere umano dovrebbe essere determinato dai suoi costituenti
neuronali per quel che riguarda le volizioni positive, mentre non lo sarebbe per le negative.62

Bisogna ora affrontare due ordini di obiezioni da muovere al corpo principale


dell’interpretazione dei risultati dei suoi esperimenti.

Un primo ordine di obiezioni di principio è suggerito da Mario De Caro nel capitolo a suo
nome in Neuroetica [2011].

In accordo con l’ottica del senso comune, Libet assume che un’azione libera debba essere
presente alla coscienza nel momento in cui la si compie; ma ciò non è sempre vero.

Si pensi alle molte azioni che compiamo in maniera volontaria pur non pensandoci nel
momento stesso dell’attuazione, come i movimenti necessari a guidare un’auto o a formulare
una frase di senso compiuto, attività durante la quale, un parlante madrelingua non pensa

62
Tra i molti, De Caro, M e Maraffa, M [2016] e Legrenzi, P. e Umiltà, C. [2014].

42
coscientemente a tutte le regole grammaticali che sta adottando.63 Un altro esempio potrebbe
essere il caso di un azione compiuta routinariamente come allacciarsi le scarpe prima di
uscire di casa, mentre nel frattempo si sta pensando alla lista della spesa da fare e non
all’azione che si sta compiendo; nessuno direbbe che l’azione di indossare le scarpe sia stata
un’azione involontaria imputabile a qualcosa al di fuori del nostro controllo, seppur nel
momento del compimento stessimo consapevolmente pensando ad altro.

O anche, come suggerito da De Caro, una situazione paradigmatica, per quanto riguarda
l’opacità della volontà alla coscienza in determinati momenti, è quella di un relatore
particolarmente impegnato in un dibattito che ha l’intenzione di bere un bicchiere d’acqua,
ma, dopo averlo bevuto, si chiede se l’ha fatto oppure no. In questo caso è evidente che il
relatore ha compiuto un’azione volontaria che però è rimasta per un certo periodo di tempo
opaca alla coscienza perché la stessa era momentaneamente occupata in attività più onerose
a livello di attenzione richiesta.

Non è necessario che ci sia una correlazione tra precisione del resoconto della coscienza e il
compimento di un’azione perché quest’ultima sia ritenuta libera.

Il secondo ordine di obiezioni è più specifico e verte sulla considerazione


dell’inappropriatezza della scelta dell’area cerebrale su cui focalizzare l’attenzione; infatti
non solo in letteratura non vi è accordo su quale sia il ruolo del potenziale di prontezza,64 ma
è noto che l’area supplementare motoria (SMA), come suggerisce lo stesso nome, è un’area
implicata nella preparazione del movimento.

Nulla sappiamo riguardo a una sua specificità per il processo di presa di decisione, per il
quale piuttosto, sembrerebbe indicato indagare altre aree del cervello che abbiano una
maggiore probabilità di essere deputate per questa funzione, quali potrebbero essere le aree
corticali prefrontali65 e parietali, la cui lesione anatomica anche microscopica, come emerge

63
Per dare un esempio più chiaro di questo concetto, si pensi all’apprendimento di una seconda lingua e a come
il parlarla fluentemente significhi proprio non incagliarsi sulla traduzione letteraria e sull’attenzione alle regole
grammaticali, ma piuttosto arrivare a “pensare” in questa lingua, così da non porre coscientemente l’attenzione
ai particolari grammaticali del discorso che si sta producendo, proprio come se si parlasse la propria lingua
madre.
64
Lavazza, A. e Sartori, G. [2011]
65
Groll-Knapp et al. [1977] in Cap 1, in De caro, Lavazza e Sartori [2010], scoprirono che la corteccia
prefrontale prepara i movimenti volontari per periodi più lunghi di quanto non avvenga nell’area supplementare
motoria; essa risulta quindi un indicatore più affidabile per la previsione della decisione rispetto all’analisi del
PPM.

43
da più studi,66 sembrerebbe alla base di un comportamento sociale disfunzionale,
caratterizzato appunto da azioni vissute come involontarie e incontrollabili da parte del
soggetto.

Inoltre, è importante ricordare l’annosa questione della differenza tra il tempo fisico,
misurato con strumenti precisi e dettati dalla fisica newtoniana, di carattere puntiforme, e il
tempo della consapevolezza, caratterizzato da un andamento disteso nel tempo, percepito
come un continuum.

Per quel che concerne la difficoltà della misurazione temporale della percezione di uno
stimolo, Legrenzi e Umiltà [2014] riportano lo studio condotto da Edwin Boring nel 1929.
Questi esaminò gli appunti di due astronomi di Greenwich del XVII secolo, rispettivamente
l’astronomo reale e il suo assistente, il cui compito era registrare con la massima accuratezza
possibile il momento in cui un dato astro passasse su di un punto dell’oculare, ascoltando
allo stesso tempo i battiti di un metronomo che serviva da strumento di misura del tempo.
Bisognava osservare l’oculare ed in contemporanea ascoltare i battiti del metronomo, finché
uno di questi non coincidesse col passaggio dell’astro nell’oculare.

I dati raccolti dai due differivano sistematicamente di alcuni decimi di secondo e l’astronomo
reale finì col licenziare per sbadataggine l’assistente, che pur riteneva di aver assolto il
compito in maniera precisa e coscienziosa.

Da tale studio si evidenzia per la prima volta il problema del tempo della coscienza a
confronto col tempo fisico e il problema della cronostasi, direttamente conseguente al primo.

La cronostasi è l’effetto di dilatazione temporale del primo stimolo percepito dopo il


movimento saccadico.67

Si può notare il fenomeno guardando le lancette di un orologio; sembrerà che il tempo


necessario alla lancetta per percorrere il primo secondo sull’orologio sia più lungo degli
altri.68 Yarrow e i suoi colleghi dimostrano che questo fenomeno è dovuto alla momentanea
cecità che si crea mentre l’occhio compie la saccade, ovvero il rapido movimento oculare da
un punto all’altro del campo visivo che avviene quando spostiamo lo sguardo o guardiamo

66
Si vedano tra gli altri, i casi emblematici riportati da Giuseppe Sartori e Cristina Scarpazza nel Cap. 4 in De
Caro, M., Lavazza, A. E Sartori, G. [2013]; o anche lo studio citato precedentemente di Sirgiu et al. [2004].
67
Yarrow, K., Haggard, P.,Heal, R., Brown P.eRothwell, J. C. [2001].
68
Tale variazione temporale può raggiungere l’estensione di due decimi di secondo, ovvero, il 20% in più del
tempo effettivo. De Caro, M., Lavazza, A. e Sartori, G. [2010].

44
un oggetto in movimento, e che viene colmata dalla coscienza retrodatando lo stimolo
successivo al movimento.69

Anche Libet negli esperimenti di controllo, in cui stimolava la cute del dorso della mano dei
soggetti, registrò che tale stimolazione veniva percepita coscientemente con 500 ms di
ritardo, ma i soggetti retrodatavano il momento della consapevolezza dello stimolo, andando
così a far coincidere la consapevolezza della stimolazione con la stimolazione stessa. In
esperimenti in cui la stimolazione tattile della stessa zona era ottenuta tramite stimolazione
diretta, mediante elettrodi, sulla corrispondente area della corteccia somatosensoriale, si
registrava lo stesso ritardo di percezione cosciente dello stimolo, a livello cutaneo, ma senza
retrodatazione della consapevolezza.70

Ne discende l’inaffidabilità della ricostruzione cosciente fatta dai soggetti riguardo la


posizione del cursore luminoso in movimento, per cui gli 800 ms che separano l’attivazione
della zona supplementare motoria dal momento della consapevolezza della decisione
possono essere frutto di un errore di misurazione del tempo “interno” della soggettività,
piuttosto che un valore predittivo di una “decisione neuronale” precedente alla decisione
cosciente.

Vi sono poi altre obiezioni, che riguardano la classe di decisioni scelta da Libet per i suoi
esperimenti e portata ad esempio di decisione libera per testare la tenuta del concetto di
libero arbitrio umano, che affronteremo in seguito perché condivisibili anche per quel che
riguarda i successivi esperimenti che a Libet si sono ispirati.

In conclusione, gli esperimenti di Libet, lungi dal dimostrare l’inesistenza del libero arbitrio,
o l’esistenza di una qualche capacità di veto per l’essere umano, hanno avuto soprattutto il
merito di aprire la strada ad una più specifica attenzione verso un filone di ricerca, quello
sulla coscienza e sul libero arbitrio umano, che fino ad allora non era stato ancora inquadrato
organicamente dalla scienza, né affrontato secondo riferimenti empirici dalla filosofia.

69
Yarrow e colleghi fanno notare che questa illusione non si presenta quando l’oggetto si muove secondo un
percorso casuale rendendo imprevedibile il suo spostamento durante la saccade [2001].
70
Libet et al. [1983]; Filippo Tempia, professore ordinario di fisiologia all’Università di Torino, inferisce che
è come se la coscienza facesse in modo che la percezione dello stimolo sia contemporanea alla stimolazione,
dato che questo “errore” di misurazione del tempo da parte della coscienza si nota soprattutto nel compimento
di azioni volontarie, quasi a voler rendere coincidente o precedente la volontà di compiere un’azione
sull’azione stessa; Pareti, G. e Zippo, A. G. [2016].

45
3. Le macchine per “leggere la mente”

Sulla scia degli esperimenti di Libet, molti altri hanno indagato la mente cosciente con le
possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

Per correttezza storica, bisogna citare gli esperimenti del fisiologo italiano Angelo Mosso
che per primo, verso la fine del XIX secolo, pensò di studiare la variazione del flusso
sanguigno cerebrale in pazienti impegnati a svolgere un compito cognitivo. Questi metteva
i soggetti distesi su di un asse tenuto in equilibrio su un cavalletto e notò che l’asse si
inclinava verso la testa quando ai soggetti era chiesto di svolgere a mente un calcolo. Mosso
tentò inoltre di misurare la variazione del flusso sanguigno nelle arterie cerebrali in pazienti
che, per via di una malformazione congenita, avevano una discontinuità nelle ossa del
cranio.71

Tali esperimenti diedero risultati grezzi e furono condotti con metodiche grossolane se
confrontate con quelle oggi a disposizione, ma mostrano che l’idea che gli eventi mentali
possano essere ricondotti ad un incrementato afflusso di sangue al cervello era già presente
nella riflessione scientifica alla fine dell’‘800.

Si tratta di un primo passo verso la teoria riduzionistica del mentale; essa riporta gli eventi
mentali agli eventi cerebrali per quanto concerne la loro causa. Approfondiremo la questione
nel paragrafo dedicato alla riflessione filosofica sulle possibili interazioni tra mente e
cervello e sulla natura della mente.

In tempi più recenti, i primi esperimenti che indagavano la correlazione tra “attivazione”72
cerebrale e funzioni cognitive utilizzarono la PET (tomografia ad emissione di positroni),
una metodologia radiodiagnostica che si basa sull’iniezione, solitamente in una vena del
braccio, di isotopi radioattivi, i quali, una volta distribuiti nell’organismo tramite il flusso
sanguigno, permettono al macchinario che registra le radiazioni, il tomografo, di “leggere”

71
Legrenzi, P. e Umiltà, C. [2014]
72
Da notare che i neuroni sono sempre attivi, vale a dire che hanno un consumo basale di ossigeno che permette
loro di restare in vita, se così non fosse staremmo studiando cellule morte. Nel linguaggio comune si parla di
attivazioni cerebrali per intendere, in senso più specifico, un aumentato consumo di ossigeno e nutrienti da
parte delle cellule neuronali. Questo aumento del metabolismo cellulare è relazionato ad un incremento
dell’attività di scarica, a sua volta compatibile con la trasmissione di un messaggio, che in termini riduzionistici,
a seconda del tipo di teoria considerata, ha una maggiore o minore valenza cognitiva, oltre che neuronale.

46
il percorso del sangue, e quindi, attraverso la scia di materiale radioattivo, capire quali parti
del cervello hanno aumentato la loro attività, avendo aumentato l’afflusso di sangue che ha
portato una maggior quantità di farmaco in quella zona.

Si tratta però di una metodica piuttosto costosa e poco precisa in termini di finezza di
localizzazione.

Per questi motivi si è passati all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fRMI), una
metodica di immagine che usa il differente modo in cui, immerse in un campo magnetico, le
molecole di ossiemoglobina risuonano rispetto alle molecole di desossiemoglobina. Detto in
termini più semplici, il segnale che il macchinario capta dal flusso sanguigno cerebrale
regionale (regional cerebral blood floww, rCBF)73varia in funzione del livello di
ossigenazione del sangue: un tessuto metabolicamente più attivo, rilascia più emoglobina
deossigenata di un tessuto con un metabolismo basale.

La risonanza magnetica funzionale non solo è una tecnica meno costosa, ma rende meglio
la localizzazione delle reti neurali attive ed è anche più precisa sul versante del profilo
temporale del susseguirsi degli eventi neurologici.

Si pensi che con la PET è possibile analizzare in maniera soddisfacente una porzione di
tessuto cerebrale, immaginabile come un cubo, il cui spigolo è di circa 3 cm; mentre lo
spigolo del voxel analizzabile con la risonanza magnetica funzionale può arrivare fino a 3
mm.74

4. La capacità di prevedere la scelta

Nel 2008 apparve sulla rivista <<Nature Neuroscience>> un articolo dal titolo Unconscious
determinants of free decisions in the human brain (I determinanti inconsci delle decisioni
libere nel cervello umano).75

73
Attingo queste precisazioni, in parte, da Legrenzi, P. e Umiltà, C. [2014].
74
Per voxel (volumetric pixel) si intende proprio la porzione più piccola di tessuto cerebrale analizzabile con
una determinata tecnica di imaging cerebrale.
75
Soon, C. S. et al. [2008].

47
In esso gli autori riportano i risultati di alcuni loro esperimenti, ritenendo di aver fornito la
prova che i processi decisionali liberi e coscienti umani sono ininfluenti sulle azioni, le cui
cause sarebbero invece da ricercare nelle attività cerebrali che li precedono di ben 10
secondi.

L’articolo è teso a dimostrare, quindi, che le decisioni coscienti umane non solo non
sarebbero libere (infatti l’aggettivo “libere” rivolto ad esse nell’abstract dell’articolo è posto
tra virgolette), ma non avrebbero nemmeno alcun ruolo causale sul corso d’azioni, riducendo
l’esperienza cosciente ad una pura illusione.76

Più nello specifico, gli sperimentatori chiesero ai soggetti di rilassarsi guardando uno
schermo su cui scorreva una sequenza randomizzata di lettere che si aggiornava ogni 500
ms77 e di poggiare i due indici delle mani su due pulsanti. Quando sentissero liberamente
l’impulso a farlo, (when they feel the urge to do so), dovevano premere uno dei due pulsanti.
Successivamente apparivano sullo schermo, ai quattro angoli di un quadrato, tre lettere e il
segno cancelletto (#), posizionati in maniera casuale. I soggetti dovevano comunicare,
tramite pressione di un pulsante, la lettera presente sullo schermo nel momento in cui
avevano sentito l’impulso a compiere il movimento e se tale lettera non era tra le presenti,
dovevano premere il tasto cancelletto (#).

Lo scopo era di confrontare, mediante una sofisticata tecnica statistica, la pattern


recognition, il tempo di insorgenza della consapevolezza della scelta con l’attività neuronale
precedente, tramite fRMI, cui i soggetti erano sottoposti durante l’esecuzione
dell’esperimento.

Il risultato fu sorprendente: gli sperimentatori, in una certa percentuale di casi, erano in grado
di prevedere se il soggetto avrebbe premuto il tasto di destra o quello di sinistra con ben 10
secondi di anticipo rispetto all’azione.

Si tratta di un riscontro interessante per vari motivi.

Innanzitutto, gli esperimenti di Soon e colleghi non si prestano all’obiezione cui si


prestavano gli esperimenti di Libet: in quel caso infatti Libet decise arbitrariamente di far
iniziare lo studio della catena causale dal potenziale di prontezza motoria (PPM) che si

76
Si fa qui riferimento alla teoria illusionista della coscienza, secondo la quale le azioni umane sono
determinate da fattori al di fuori del controllo del soggetto e la stessa esperienza cosciente è solo un’illusione,
priva di alcun ruolo causale. Cfr. Cap I, par. 1.
77
Gli sperimentatori potevano accedere al ciclo esatto di presentazione delle lettere per ricostruire il momento
della consapevolezza.

48
attivava durante l’esperimento, ma non prestò attenzione al momento precedente, quello in
cui i soggetti decidevano liberamente di aderire allo studio, momento che sembra più vicino
ad una vera presa di decisione.

Come osservano molti autori,78 per compiere un’azione libera non è necessario che la si
compia nel momento esatto in cui si decide di compierla, è sufficiente che nel momento in
cui la si compie si è aderenti ad una decisione presa precedentemente.

E’ questo il caso dell’iscrizione ad una determinata facoltà universitaria, iscrizione che si


effettua nel periodo istituzionale previsto dall’università, ma a seguito di una decisione presa
molti mesi prima.

Di fatto, i soggetti dello studio di Libet avevano già preso una decisione nel momento in cui
avevano accettato di partecipare all’esperimento e di questo momento Libet non dice nulla.
In altre parole, il PPM registrato potrebbe anche indicare una generica predisposizione
all’azione, successiva ad una precedente decisione consapevole, ed essere quindi l’effetto di
tale decisione e non una manifestazione dell’attività preconscia del cervello.

Negli esperimenti di Soon e colleghi invece ai soggetti era chiesto solo di accettare di
scegliere in un secondo momento quale pulsante premere, si trattava insomma di una
metascelta che non riguardava il compimento di un’azione specifica, ma la futura scelta tra
due diverse opzioni.

E, il fatto che i soggetti potessero scegliere se premere il tasto destro o il sinistro, impedisce
di leggere l’attivazione cerebrale precedente come una generica predisposizione all’azione,
essendovi un preciso interessamento di un’area del cervello piuttosto che di un’altra se il
soggetto premerà il tasto destro piuttosto che il sinistro.

Altra miglioria è stata la scelta di utilizzare, per riconoscere il momento della


consapevolezza della presa di decisione, lettere che si susseguono in modo impredicibile
invece del quadrante con cursore luminoso: si previene in questo modo la possibilità di
contaminazione dell’esperimento che si avrebbe per via delle preferenze sistematiche per
determinate posizioni dell’orologio.

78
De Caro, M. e Maraffa, M. [2016]; Legrenzi, P. e Umiltà, C. [2014].

49
Inoltre, lo strumentario tecnologico a supporto degli esperimenti di Soon e colleghi è molto
più avanzato e fine nella qualità dei dati forniti rispetto all’elettroencefalogramma utilizzato
da Libet.79

Altro punto a favore di questi esperimenti è il tempo che separa la “predizione” del pulsante
che verrà scelto dal compimento dell’azione vera e propria. Trattandosi infatti di 10 secondi,
è impossibile affermare che la precedenza dell’attivazione neurale sulla consapevolezza
della scelta sia dovuta ad un errore di misurazione del tempo “interno” della coscienza, dato
che l’intervallo di tempo è molto più ampio, di ben 30 volte maggiore rispetto agli 800-500
ms misurati da Libet.

Anche in questo caso, però, vi sono delle possibili e valide obiezioni alla lettura dei risultati
fatta dagli sperimentatori.

In primo luogo, è utile notale che la capacità predittiva degli esperimenti di Soon si limita al
60% di accuratezza, vale a dire che le previsioni degli sperimentatori erano corrette solo 60
casi su 100.

Sembra un risultato un po' magro se si pensa che, trattandosi della scelta tra due sole opzioni,
provando ad indovinare a caso, si avrebbe un 50% di probabilità di prevedere la scelta giusta;
dunque questi esperimenti riescono a dare una probabilità di correttezza maggiore solo di un
10% rispetto ad una previsione casuale.80

Da questo punto di vista è possibile criticare la corrente dell’illusionismo, che dai risultati di
questi esperimenti deduce l’inefficacia delle decisioni causali umane e la loro completa
determinazione in termini neurocognitivi.

Infatti, anche ammettendo che il tipo di scelta offerto negli esperimenti possa essere portato
ad esempio paradigmatico di tutte le scelte umane, cosa da cui siamo ben lontani, ci sarebbe
ancora un 40% di possibilità che esse siano libere e indeterminate, oltre che causalmente
efficaci; detto in altre parole, ci sarebbe un 40% di possibilità di realizzazione del
libertarismo.

79
Anche se, in termini di finezza di risoluzione temporale, l’EEG riesce a cogliere eventi che avvengono in
scarti temporali dell’ordine delle centinaia di millesecondi; cosa che è impossibile da fare con la fRMI, a
causa del ritardo della risposta emodinamica, come fa notare Haynes nel suo capitolo in De Caro, M.,
Lavazza, A. e Sartori, G. [2010]
80
Da notare che Haynes nn esclude che la capacità predittiva possa migliorare con l’avanzamento dello
strumentario tecnologico.

50
Inoltre, il determinismo, secondo molti, oltre a non essere un ostacolo per il libero arbitrio,
è necessario al compimento di azioni libere e causalmente efficaci, dato che il contrario del
determinismo sarebbe la casualità che non dà alcuna certezza di efficacia alle azioni umane
e non offre quindi nessuna prospettiva di libertà potenziale.81

Tornando alle obiezioni agli esperimenti di Soon, bisogna precisare che le previsioni ottenute
provengono dall’elaborazione statistica di dati ricavati tramite riconoscimento di schemi di
attivazione neurologica rilevati dagli autori nell’attività ad ampio spettro del cervello82. Tali
dati, prima di poter essere significativi, devono essere sottoposti ad un’operazione detta di
preprocessamento, che può essere definita una sorta di pulizia dal rumore di fondo, che fa sì
che vengano eliminati tutti i fattori di disturbo quali potrebbero essere le variazioni tra
individuo e individuo (o meglio, tra cervello e cervello) o le attivazioni neurali non
specifiche per lo studio in questione.

Come dimostrato da Vul e colleghi [2009], questo tipo di attività statistica è soggetta a molti
errori sistematici che portano ad imprecisione nei risultati, che solitamente tendono a
sovrastimare la forza della correlazione tra attività neurale osservata e output
comportamentali.

Infatti, la forza della correlazione notata tra due elementi, in questo caso l’attivazione di
specifiche reti neurali e determinati comportamenti, non dipende solo dalla loro reale
correlazione, quanto anche dall’affidabilità delle tecniche di misurazione degli stessi.

Dall’analisi dell’affidabilità degli strumenti di misurazione comunemente usati per valutare


il comportamento umano da un lato, (strumenti della psicologia come la scala MMPI), e
della capacità predittiva del segnale BOLD83 in immagini di fRMI, emerse che i valori di
affidabilità delle due tecniche, presi singolarmente, non arrivano alla capacità predittiva
assegnata in questi studi alla loro correlazione, cosa che rende ottimistici i risultati proposti
da questo tipo di studi che utilizzano le tecniche del neuroimaging.

81
Questa è la posizione dei deterministi compatibilisti che ritengono appunto che la mente umana sia
determinata dai fattori neuronali, governati dalle leggi causali della fisica, e che ciò sia compatibile con
l’esistenza del libero arbitrio umano
82
Questo vuol dire che gli autori, a differenza di quanto avvenuto negli studi precedenti dove si cercavano
differenze di attivazione neuronale in zone specifiche, hanno cercato differenze negli schemi di attivazione
in aree più vaste, anche in assenza di una sostanziale differenza quantitativa nell’attivazione di ciascuna
singola area.
83
Il termine sta per Blood Oxygenation Level Dependent, ed è un segnale di variazione del livello di
ossigenazione del sangue, utilizzato in neuroimaging per discriminare i tessuti più attivi da quelli meno
attivi.

51
Inoltre, da quanto emerge dalla metanalisi di Vul e colleghi, non tutti gli studi usano gli stessi
criteri per distinguere, tra le informazioni ottenute dalle immagini della fRMI, quali ritenere
significative e sottoporre a preprocessamento. Ciò porta a considerevoli differenze di validità
nei risultati di studi diversi che hanno utilizzato criteri diversi, non essendoci ancora un
giudizio unanime su quali siano i criteri più affidabili in tale operazione.

Spostando l’attenzione all’impostazione teorica degli esperimenti, tanto quelli di Soon,


quanto quelli di Libet, invece, bisogna ricordare che ai partecipanti viene detto di muovere
il dito quando sentano l’impulso a farlo. Come fanno notare De Caro e Maraffa [2016],
sentire un impulso a fare qualcosa non è condizione necessaria, né sufficiente affinché
l’azione svolta si possa ritenere libera.

Non è condizione necessaria per un’azione libera perché non sempre, quando compiamo
un’azione libera sentiamo un tale impulso; si pensi a quando parliamo o a quando portiamo
la forchetta alla bocca mentre mangiamo, non sentiamo alcun impulso a farlo, ma
ciononostante non si possono definire queste azioni come non libere.

E, sentire un impulso a far qualcosa non è sufficiente perché l’azione sia libera, dato che
possiamo sentire lo stesso impulso prima di compiere gesti involontari quali ad esempio
starnutire o sbadigliare.

Infine, si noti come le decisioni proposte in questi esperimenti non rappresentino delle vere
e proprie decisioni, dato che si tratta di scelte irrilevanti per il soggetto.

Infatti, il concetto di decisione presuppone una preferenza di un corso d’azioni piuttosto che
di un altro in seguito ad una valutazione critica dei fattori presenti, secondo elementi
motivazionali che variano da soggetto a soggetto e da situazione a situazione, in dipendenza
del carico “valoriale” che gli si assegna di volta in volta.

E’evidente che scegliere il momento in cui piegare un dito, come nel caso di Libet, o il
momento e il dito da piegare, come nel caso di Soon, non rappresenta il paradigma delle
scelte umane possibili, né di una qualunque scelta nel senso proprio del termine.

Si tratta piuttosto di scelte irrilevanti per i soggetti, compiute in un contesto sperimentale,


quindi prive dei fattori motivazionali della vita quotidiana che rendono tale una scelta, ma
utilizzate dagli sperimentatori per la semplicità di esecuzione e la relativa facilità di analisi
dei meccanismi neuronali correlati.

52
In conclusione, è accettabile ritenere che questi studi abbiano portato maggiori conoscenze
sul funzionamento del cervello e, in particolare, abbiano stabilito una possibile correlazione,
seppur con i limiti tecnici di cui sopra, tra attivazione delle zone prefrontali e parietali e
determinate azioni umane, che potremmo definire scelte non rilevanti per l’individuo.

Spingersi ad affermare che la volontà umana è epifenomenica, o ancor peggio, un’illusione,


priva di alcuna potenzialità causale in tutte le classi di decisioni umane, sembra voler
forzatamente ampliare i risultati ottenuti in questi esperimenti ad un ambito
comportamentale umano più ampio e complesso.

Senza considerare che non è necessario, né tantomeno nessuno immagina di poterlo


postulare, che tutte le azioni umane siano completamente libere e non determinate in alcun
caso da fattori al di fuori del controllo del soggetto.

53
CONCLUSIONI

Fino ad ora la riflessione riguardo la possibilità per l’essere umano di essere libero e
responsabile per le sue azioni è stata posta, quasi unicamente, sul piano binario che vede il
determinismo, da un lato, e l’indeterminismo dall’altro, e con essi intrecciate le grandi
famiglie di idee compatibiliste e incompatibiliste.

Secondo quanto ho precedentemente descritto, il determinismo ritiene che tutto ciò che esiste
abbia una causa interna al sistema mondo e che esista, dunque, per necessità, esattamente
nel modo in cui esiste, decretando quindi la cosiddetta chiusura causale della fisica.

Il gruppo di teorie compatibiliste sostiene che la libertà umana e la necessità causale possano
convivere nello stesso universo determinato, e, anzi, come visto, che spesso la prima
necessita della seconda per poter sussistere.

Le concezioni incompatibiliste, invece, ritengono valido il libero arbitrio mentre negano il


determinismo, secondo le opinioni dell’indeterminismo libertario, oppure ritengono illusoria
la libertà, secondo le posizioni illusionistiche

Vi è poi il gruppo di idee riguardo la libertà umana che non hanno relazione col problema
del determinismo o meno del mondo fisico, in quanto potrebbero essere ugualmente valide
in un mondo deterministico o indeterministico. Di queste fa parte la teoria
dell’epifenomenismo, secondo cui i fenomeni coscienti umani sono solo epifenomeni, privi
di qualsiasi valenza casuale sul mondo e sul comportamento umano, dato che quest’ultimo
risulta essere completamente determinato da fattori neuronali inconsci.

La seconda di questo gruppo di teoria è la teoria eliminazionistica, secondo cui la teoria della
psicologia ingenua sia solo una prototeoria, destinata a scomparire col progresso delle
scienze.

54
Questo approccio al problema, per ora, ha dato vita alla feconda discussione di cui ho trattato
nel primo capitolo, ma non ha ancora fornito una risposta univoca che soddisfi tutte le
obiezioni.

Ciò perché, a mio parere, probabilmente la questione è stata osservata da un punto di vista
poco congeniale con una possibile soluzione unitaria.

Mi sentirei di dire che, una tale lettura del problema, ci faccia cadere in un tranello
interpretativo, postoci dalle nostre stesse facoltà cognitive.

Ritengo infatti riduttivo immaginare che tutti gli eventi che popolano il mondo, da quelli
fisici a quelli mentali, possano appartenere esclusivamente ad una delle due categorie, quella
di fenomeni determinati e necessari e quella di fenomeni indeterminati e con una possibile
valenza causale.

Mi rendo conto che, posta così la questione, risulti controintuitiva e, anzi, contraria alla
stessa logica con cui analizziamo il mondo e gli eventi attorno a noi.

Ho riflettuto sulla convinzione comune che il mondo sia regolato da leggi deterministiche e
che la causalità sia una di queste leggi naturali.

Seguendo Hume, mi sembra di poter ritenere che tale convinzione sia più che altro, una
radicata credenza intuitiva, dovuta all’aver osservato più volte due fenomeni presentarsi a
breve distanza l’uno dall’altro, o nello stesso tempo, e sempre con la stessa precedenza
temporale dell’uno sull’altro.

Ma, di fatto non vi è nulla di intrinseco al fenomeno A che comporti la compresenza del
fenomeno B o che lo includa nella sua esistenza, se non la memoria dell’osservatore che ha
visto più volte B susseguirsi o accompagnarsi strettamente ad A.

Estremizzando il discorso, si potrebbe dire che la causalità e con essa il determinismo siano
modalità con le quali conosciamo il mondo, spiegazioni che ci permettono di comprendere
la maggior parte degli eventi cui assistiamo.

E, per noi esseri umani, la capacità di comprendere ciò che accade attorno a noi è
strettamente relazionata con la capacità di prevedere gli eventi futuri e, nel caso essi possano
risultare dannosi, prevenirli o preparare dei rimedi opportuni.

55
La stessa teoria della coscienza sembrerebbe preferire dotare di intenzionalità qualcosa che
non è cosciente, piuttosto che rischiare l’errore opposto, ovvero non ritenere cosciente,
qualcosa che invece rappresenta una minaccia per l’individuo o la specie.

Mi rifaccio qui ad un noto filmino in bianco e nero, creato da Fritz Heider e Marianne
Simmel nel 1944.84

In esso compaiono alcune figure geometriche che si muovono sullo schermo.

La maggior parte degli osservatori descrive questi movimenti come una lotta in cui la figura
del rettangolo grande cerca di ingabbiare le altre figure più piccole, rincorrendole sullo
schermo e aprendo uno dei suoi lati per farvele rientrare, mentre le altre figurine scappano
da tutte le parti.

Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà ritengono che gli osservatori vedano effettivamente quello
che descrivono, ovvero urti e movimenti intenzionali di agenti coscienti e razionali. La loro
idea è, appunto, che, senza ulteriori passaggi intermedi di interpretazione, la nostra mente
“veda” degli agenti intenzionali quando osserva anche eventi del mondo i cui soggetti sono
enti non umani. Essi teorizzano, con una certa coerenza, a mio parere, che la mente umana
sia fatta in un modo tale che risulta più “economico” aggiungere “menti”, ovvero
caratteristiche intenzionali, agli eventi che osserviamo, per comprenderli.

In un’ottica darwiniana, ipotizzano, questa facoltà umana si sarebbe sviluppata proprio per
permetterci di armarci contro eventuali “mostri” che, in età preistorica, costituivano una
minaccia alla sopravvivenza, quali ad esempio un orso o anche una tempesta di vento e
pioggia particolarmente forte.

E sarebbe proprio questo nostro modo di funzionare, ad aprire il dibattito rispetto agli
individui in fase vegetativa o ai feti, e ad impedirci di trattarli come non-persone.85

Alla luce di queste argomentazioni, ho ritenuto che le leggi di natura, di fatto, siano un nome
che abbiamo dato alle modalità con cui riusciamo a comprendere e, in parte, manipolare il
mondo.

84
Heider e Simmel sono due psicologi statunitensi; il filmino è reperibile su Youtube. Per approfondimenti,
si veda Legrenzi e Umiltà [2014].
85
Non intendo, in questo ambito affrontare questa discussione, ma solo far notare come sia proprio questa
facoltà umana ad essere chiamata in causa in questo genere di riflessioni.

56
Dunque, ho ipotizzato che la visione deterministica abbia una valenza strutturale per la
mente umana, dovuta alla sua ascendenza preistorica, ma non solo.

Sulla base della teoria della mente estesa, che ritiene che la mente non sia contenuta solo
nella scatola cranica, ma che si estenda al di fuori di essa, nel corpo, negli strumenti che
l’essere umano usa e nell’ambiente stesso in cui cresce e vive, è proprio la possibilità di
comprendere le nostre interazioni con l’ambiente esterno e di esercitare un potere causale su
di esso, che ci permette di avere un’esistenza ricca di esperienze e di relazionarci l’un l’altro,
fatto, quest’ultimo, di non poca importanza nell’ottica della sopravvivenza della specie.86

Ritengo quindi importante conservare il concetto di determinismo, per il semplice fatto che
è necessario al naturale funzionamento della mente umana e ci permette di comprendere
meglio il mondo e gli altri esseri.

Ma, mi sembrerebbe azzardato considerare come una certezza monolitica ciò che finora è
stato presentato solo come una nostra possibile interpretazione di eventi, della cui reale
natura non abbiamo altre informazioni.

Vi sono, d’altronde, molti casi in cui è proprio il determinismo ad essere messo in dubbio
dai fatti che accadono.

Si pensi alle mutazioni genetiche, che avvengono in maniera casuale o alle miracolose
guarigioni da alcune patologie allo stadio avanzato; si tratta di eventi che la scienza, con gli
strumenti ed i metodi di indagine finora sviluppati, non è ancora riuscita ad inserire in
un’ottica unitaria che faccia riferimento alla visione deterministica del mondo. Ma, si
potrebbe obiettare che in un futuro avremo sufficienti informazioni per spiegare questi fatti
alla luce del determinismo.87

Se anche si riuscisse in questa impresa, e si potesse creare il supercomputer ipotizzato da


Nahmias e colleghi, in grado di prevedere la probabilità di realizzazione di ciascun evento
e, sulla base di questo, i futuri accadimenti e il comportamento umano, ciò non negherebbe
la validità della tesi secondo cui non abbiamo ulteriori metodi per indagare la natura, se non
le nostre facoltà cognitive che, come ho mostrato, dispongono di uno strumentario limitato,

86
Per un approfondimento sulla teoria della mente estesa, Cfr. Di Francesco, in Lavazza e Sartori [2011],
mentre per una rassegna delle teorie della mente, si veda Di Francesco [1998] e [2000].
87
Vi è un’ulteriore classe di eventi di difficile spiegazione con gli strumenti del determinismo e sono alcuni
eventi probabilistici, di cui ancora non siamo in grado di dare una spiegazione. Si pensi alla fecondazione e
all’altissimo numero di eventi probabilistici che devono realizzarsi perché il risultato della ricombinazione
genica sia l’individuo che ne viene fuori, e non una sua possibile variante.

57
per quanto raffinato, e naturalmente orientato ad un’ottica di spiegazione ed interpretazione
degli eventi secondo criteri di intenzionalità e causalità.

Allo stato attuale delle conoscenze, proporrei di pensare alla causalità, non come ad un
meccanismo necessitante, quanto piuttosto come ad una modalità di presentazione ai nostri
sensi degli eventi del mondo con maggior probabilità di accadere.

Propongo una teoria che prende in considerazione la visione deterministica del mondo, che
solitamente abbiamo, e la combina con una sorta di indeterminismo di fondo.

La tesi che qui suggerisco considera il realizzarsi di determinati eventi necessitato, secondo
le “leggi di natura” da alcuni eventi precedenti, le cause, le quali, però, a loro volta possono
presentarsi in una gamma di sfumature che vanno dall’accadimento completa della causa, ad
un’alta probabilità che accada, fino ad una bassissima probabilità che si verifichi, fino a che
questa probabilità giunge quasi a zero, secondo fattori probabilistici la cui forza può essere
maggiore o minore, declinandosi anch’essa in una vasta gamma di varietà.

Le stesse cause, poi, possono intrecciarsi in modi diversi tra loro.

Seguendo questo tipo di ragionamento, immagino che l’Universo si comporta un po' come
le agenzie subpersonali di cui postula la teoria della mente del funzionalismo: dall’esterno,
o meglio, dalla nostra prospettiva, esso è dotato di un’apparente unitarietà, gli eventi
sembrano succedersi secondo regole a noi comprensibili, con cause e fini, ma di fatto quel
che osserviamo non è altro che il verificarsi ogni volta dell’evento più probabile,
determinato, sì, ma all’interno di un sistema casuale che vede il determinismo realizzarsi
solo quando, in maniera assolutamente indeterministica, più fattori coesistono e danno il via
a quella che a noi appare come una catena casuale necessaria.

In quest’ottica, non ha senso prosi la domanda rispetto la libertà umana all’interno della
cornice concettuale che vede il determinismo opporsi all’indeterminismo.

D’altronde, però, è proprio la struttura della mente umana che ci riporta all’interno di questa
cornice ponendo in una relazione di tensione problematica i due concetti di libero arbitrio e
responsabilità.

Fermo restando che ritengo plausibile la concezione della responsabilità espressa da


Frankfurt e la tesi di Strawson, che i sentimenti reattivi siano del tutto naturali per l’uomo,
proverò a dare il mio punto di vista su un problema grande e sfaccettato quale quello del
libero arbitrio.
58
A mio parere, la libertà è una sensazione, che a volte abbiamo nel compiere determinati atti,
e che si accompagna ad un’altra sensazione di assoluta partecipazione ad essi.88

Sottoporrò ad ulteriore analisi i due elementi che nella riflessione classica sul libero arbitrio
accompagnano la possibilità di un’azione libera, ovvero il criterio delle possibilità
alternative e quello dell’autodeterminazione.

Concordo con Frankfurt nel ritenere che, per esperire un’azione come libera, non sempre è
necessario che si presenti un corso d’azione alternativo, ma per altri motivi diversi da quelli
dell’autore.

Se la libertà è una sensazione, intima e impossibile da mettere in discussione da parte di


terzi, perché io l’abbia non è necessario che ritenga di aver potuto fare diversamente, quanto
piuttosto che io mi identifichi con l’azione compiuta. In tal senso, l’azione è esperita come
volontaria, ovvero sento che essa corrisponde alla mia volontà cosciente.

Farò un esempio nel tentativo di spiegare questo punto di vista. Se devo uscire di casa devo
indossare delle scarpe. Scegliendo il paio di scarpe da indossare, prendo quelle con i lacci.
Nel momento in cui mi chino per allacciare i lacci sto compiendo un’azione volontaria, anche
se di fatto, conosco un solo modo per allacciare i lacci e non potrei fare altrimenti.

Si potrebbe obiettare che avrei potuto cambiare scarpe, piuttosto che allacciare i lacci. Ma,
cambiando scarpe, avrei limitato la mia libertà riguardo la scelta precedente, che è stata di
indossare proprio quel paio di scarpe, finendo così col limitare la mia libertà proprio nel
tentativo di ampliarla.

Questo esempio mi porta a pensare anche che, seppur spesso molte delle azioni umane siano
inserite in contesti deterministici in cui, se si vuole tenere un certo comportamento, non è
detto che si abbia a disposizione una gamma di possibilità alternative – che, però, si è in
grado di immaginare – siamo abituati a ritenere liberi comportamenti di agenti che non
possono fare altrimenti, in quella specifica condizione.

Azzarderei un’ipotesi.

88
Si veda, al riguardo, la definizione data da Wegner della volontà cosciente: egli fa l’esempio di un individuo
che dice di volersi fare una doccia, ma che, pur facendola, non ha l’esperienza di aver compiuto un’azione
volontaria. La volontà cosciente è uno di quei qualia assolutamente internistici e personali, quella sorta di
“Umpfh” interno che si prova quando si compie un’azione sentita come intenzionale. Wegner, in De Caro,
Lavazza e Sartori [2010].

59
L’esigenza di un corso d’azioni alternativo a quello scelto, per poter definire libera
un’azione, mi sembra piuttosto che sia una necessità dell’osservatore che, utilizzando i
parametri della psicologia ingenua, ha bisogno che sia presente una scelta alternativa per il
soggetto, per poter interpretare l’azione osservata come un’azione intenzionale e non
casuale.

La mia conclusione è, dunque, che non sia indispensabile che si realizzi il primo dei criteri
del libero arbitrio perché si possa compiere un’azione libera.

Sulla necessità del verificarsi del secondo criterio, invece, concordo, in quanto difficilmente
si potrebbe esperire come volontaria un’azione che non si sente come propria, causata dalla
propria volontà cosciente.89

Gli stessi esperimenti delle neuroscienze che indagano il ritardo della coscienza sulla
preparazione neuronale precedente suggeriscono, secondo molti autori, che la coscienza sia
un fenomeno che ci permette di sentire la “paternità” di un’azione e di avere un’Io stabile
nel tempo, in grado di relazionarsi con gli altri in una società civile.90

La discussione è ampia anche riguardo come si possa definire la coscienza (e


l’autocoscienza, di conseguenza), quali caratteristiche abbia e il legame intuitivo che ha per
noi con la volontarietà delle azioni.

Ma, per necessità di sintesi, non affronterò questi temi, seppur estremamente interessanti, in
questa sede.

Vorrei, però, abbozzare una mia idea riguardo alla responsabilità.

Pereboom,91 tra gli altri, identifica nella rabbia un’espressione paradigmatica della reattività
morale, di cui parlava Strawson.

89
Si vedano, al riguardo, gli esempi portati da Wegner, in De Caro e Maraffa [2016], degli individui affetti
dalla sindrome della “mano aliena”, sindrome in cui si ha l’esperienza altamente destabilizzante che la propria
mano agisca di propria autonoma volontà, al di fuori del controllo dell’agente e senza che questi possa sapere
prima cosa farà la mano.
90
A tal proposito, si veda “l’emozione della paternità”, in Wegner, Cit., o anche Da Re e Grion, in Lavazza e
Sartori [2011].
91
Si veda il saggio citato, in De Caro, Lavazza e Sartori [2013].

60
Secondo Pereboom, proviamo rabbia verso qualcuno o qualcosa quando questi ha delle
prestazioni scadenti o perché non “funziona” bene.92 Si potrebbe dire che proviamo rabbia
verso un agente perché le sue azioni non sono aderenti alle nostre aspettative al suo riguardo.

La mia esperienza in salute mentale mi ha insegnato a cercare sotto le emozioni mostrate dai
soggetti sensazioni più profonde in grado di causarle.

In particolar modo, alla base di esternazioni emotivamente forti, quale è la rabbia, vi sono
delle condizioni che potremmo definire di maggiore sensibilità per il soggetto, fattori che lo
rendono, in qualche modo, vulnerabile; motivo per cui il fatto di stuzzicarli (con determinati
argomenti o situazioni che “stressano” quegli elementi) provoca una reazione più grande del
necessario. La rabbia è di solito l’esternazione di una sensazione più intima e di cui non
sempre il soggetto è consapevole, ovvero la frustrazione, che sorge quando il soggetto
riscontra una mancata adesione di un suo simile, ma anche di uno strumento, quale può
essere il computer, alle sue aspettative riguardo il suo comportamento o funzionamento.

Più precisamente, la frustrazione emerge quando le prestazioni personali o degli altri soggetti
(dove si intende per soggetti anche gli oggetti che vengono investiti di intenzionalità nel
corso del loro utilizzo) risultano deficitarie o insoddisfacenti rispetto alle previsioni.

A mio parere, la frustrazione è strettamente connessa con un’altra sensazione, l’impotenza,


ovvero l’impressione di non avere potere causale su di un determinato stato di eventi, di
essere in balia del prossimo, se la rabbia è diretta verso una persona, o del caso, se la rabbia
è diretta verso un oggetto o uno stato di eventi.

Viene da chiedersi perché sensazioni come l’impotenza o la frustrazione siano così influenti
da generare un’emozione potenzialmente distruttiva, come la rabbia, o, anche, infinitamente
feconda, a seconda dell’uso strumentale che se ne fa.

Una prima risposta potrebbe essere che siamo dinanzi ad un meccanismo naturale di
protezione dell’individuo e, in un’ottica darwiniana, di un elemento tramandato nei millenni
nella mente degli uomini, perché funzionale alla sopravvivenza della specie: la necessità di

92
A questo proposito immagino lo scenario altamente realistico in cui un individuo colpisce violentemente una
fotocopiatrice, inveendo contro di essa come se fosse una persona che ha dato prestazioni contrarie alle
aspettative, dal momento che non risponde al comando dato premendo il tasto ON, con l’erogazione della
fotocopia richiesta. Ma le stesse riflessioni si possono fare riguardo un distributore elettronico di bevande e
merendine; si tratta di scene facilmente riscontrabili nella realtà di tutti a giorni, a comprova del fatto che
tendiamo a dotare di intenzionalità anche gli oggetti di cui ci serviamo e a rispondere in maniera reattiva, e, in
certi casi, furente, al loro malfunzionamento, provando esattamente le stesse emozioni che proveremmo di
fronte alla defezione di un amico o al comportamento ritenuto “non corretto” di un altro essere umano.

61
avere la sensazione del controllo sugli eventi, di sapere cosa possiamo aspettarci dai nostri
simili o dagli oggetti di cui siamo circondati. La lettura che Heider e Simmel, (ma anche
Legrenzi e Umiltà), hanno dato ai loro esperimenti, in pratica.

Dotare di intenzionalità il prossimo o gli oggetti con cui interagiamo è dunque una modalità
relazionale fondamentale per gli esseri umani. Ma, ascrivere intenzionalità, secondo la teoria
ingenua della mente, vuol dire appunto ritenere di essere in grado di comprendere i fattori
motivazionali del prossimo e dunque di poterne in alcuni casi prevedere il comportamento.

La mia idea è che la rabbia nasca istintivamente quando la nostra previsione riguardo il
comportamento altrui non è realizzata. Questa incongruenza tra la nostra previsione e ciò
che effettivamente accade mina la nostra impressione di essere in grado di controllare gli
eventi, generando nel nostro inconscio le sensazioni di impotenza e frustrazione che possono
scatenare, appunto, la risposta emozionale reattiva che chiamiamo rabbia.

Proviamo rabbia, in senso morale, quando proviamo sdegno o biasimo per qualcuno che
abbia agito contro ciò che riteniamo moralmente accettabile.

In un’ottica evoluzionistica, non è improbabile che il nostro sistema morale sia tarato
secondo regole93 che, in maniera del tutto inconsapevole per il soggetto, lo portino a ritenere
moralmente giusto ciò che è favorevole alla conservazione della specie e a tutela
dell’individuo, e moralmente biasimevoli i comportamenti che ne mettono a rischio la
sicurezza.

In una scala di valore, però, sembrerebbe che il nostro sistema morale sia creato per
proteggere in primo luogo la continuità della specie e, in secondo luogo l’individuo, inteso
in senso astratto e non nella sua singolarità; individuo, insomma, che della continuità della
specie sarà il portatore.

Questa tesi sarebbe avvalorata dalla considerazione che spesso riteniamo degni di lode
comportamenti altruistici, anche quando questi possono arrecare un danno diretto al soggetto
delle azioni.

Si pensi alla lode attribuita a coloro che sacrificano la propria vita, nella religione cattolica
o nelle tragedie classiche greche, quando questo gesto può favorire gli altri. Si tratta

93
Le Nomina agrapta, le regole non scritte, di cui parla Antigone nell’omonima tragedia di Sofocle per
giustificare la sepoltura dei fratelli morti, agendo contrariamente alle leggi, scritte, della città.

62
certamente di un gesto non conservativo per il soggetto, che potrebbe essere spiegato solo
nell’ottica di apportare benessere ad un numero più ampio di persone.

D’altro canto, proviamo sdegno morale dinanzi alla tesi della giustizia utilitaristica, secondo
cui sarebbe corretto punire un innocente o applicare punizioni più severe di quanto richiesto
per dare un esempio deterrente agli altri possibili criminali o per assicurare la pace sociale.

Eppure, a ben vedere, si tratta in entrambi i casi del sacrificio di uno per il benessere di molti.
Da cosa deriva la differente lettura morale che diamo alle due situazioni?

La differenza fondamentale tra i due casi sta nel modo in cui tale sacrificio è avvertito dal
capro espiatorio: nel primo caso c’è l’aderenza della volontà del soggetto al sacrificio, egli
si offre liberamente; nel secondo caso altri decidono per lui, privandolo della libertà di scelta,
ponendolo insomma in una condizione di impotenza: la vittima sacrificale in questo caso
non ha più alcuna possibilità di controllo sugli eventi.

Ritengo possibile che la rabbia morale nasca proprio dal comportamento del nostro prossimo
non conforme a quanto ci aspetteremmo, ovvero dal comportamento non cooperativo per il
benessere della maggioranza.94

Il comportamento di un individuo che viola la nostra previsione e compie azioni


disfunzionali agli altri e alla società, è avvertito come potenziale fattore di squilibrio,
indicando che la nostra capacità di previsione non è risultata corretta.

Inoltre, quando immaginiamo un’ingiustizia, ci viene spontaneo porci mentalmente nella


condizione di chi la subisce, provando la sensazione di perdere il controllo rispetto
all’avvenimento che avvertiamo come ingiusto e patito contro la nostra volontà.
L’ingiustizia subita è vissuta come un danno arrecatoci, un danno rispetto al quale la nostra
intenzionalità è risultata inefficace, impotente, appunto.

Ecco perché, a mio parere, ci sembra così naturale, usando le parole di Strawson, considerare
il nostro prossimo un soggetto intenzionale e ascrivergli la responsabilità delle sue azioni.

94
Si vedano gli esperimenti sulla cooperazione fatti col “gioco dell’ultimatum”, De Caro e Maraffa [2016]. In
questi esperimenti viene data una certa cifra a uno dei due soggetti sperimentali, chiamiamoli A e B. A e B
potranno fare il gioco una sola volta. Lo sperimentatore dà una somma di denaro ad A, che deve offrirne una
parte a B; se B accetta, entrambi potranno tenere i soldi, se B rifiuta, lo sperimentatore si riprende i soldi.
Questi esperimenti hanno dimostrato che, contrariamente alle attese razionali, B è disposto a non guadagnare
una somma di denaro per punire A, quando questi gli propone un accordo che B percepisce come iniquo; in
altre parole B è disposto a rimetterci personalmente per trasmettere ad A il messaggio secondo cui bisogna
essere cooperativi.

63
Perché, se la situazione fosse rovesciata e fossimo noi ad essere agiti, come se fossimo
oggetti e non soggetti morali, ci sentiremmo impotenti e frustrati, proprio come se stessimo
vivendo un’ingiustizia.

Per questi motivi, ritengo che sia “naturale”, nel senso che sia inscritto nei nostri geni,
relazionarci l’un l’altro attribuendoci responsabilità morale e valutando come negativi quei
comportamenti che, rompendo le “regole” morali inscritte nel nostro DNA, che ci
permettono di sopravvivere come specie, provocano in noi quella sensazione di impotenza
che genera la rabbia morale.

Dunque, alla luce dei riscontri fin qui esaminati, propongo di proseguire la ricerca in campo
neuroscientifico, che si rivela utile in molte occasioni, non ultima, nella valutazione dei
comportamenti criminali, ma, di non ritenere, per i motivi su esposti, di sospendere la nostra
naturale pratica di attribuzione di responsabilità gli uni con gli altri, dato che, in ogni caso,
che non potremmo fare altrimenti.

64
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