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collana postumani

diretta da Antonio Caronia

n. 5

Chi sono i postumani? Coloro che, “per effetto del processo evolutivo, hanno superato
i limiti biologici, neurologici e psicologici insiti negli esseri umani”, secondo la definizione
del movimento transumanista, o l’umanità che si è “scorporata dal grembo materno”, come
affermano alcune femministe? Quello che è certo è che per la prima volta, nella storia delle
culture umane, la biologia sembra oggi non essere più un limite oggettivo alle trasformazio-
ni culturali. Questa collana si propone di documentare una tematica e una discussione che
nel panorama italiano sono ancora poco diffuse, e trattate in genere in modo sensazionali-
stico, presentando sia testi fondamentali stranieri non ancora tradotti, che ricerche italiane
particolarmente significative.
CRISTIAN FUSCHETTO

DARWIN TEORICO
DEL POSTUMANO
Natura, artificio, biopolitica

Mimesis
Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” – Università
degli studi di Napoli “Federico II”.

© 2010 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine)


Collana: Postumani n. 5

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indice

Prefazione
Per un’antropologia evoluzionista
di Antonio Caronia p. I

Introduzione p. 9

Capitolo primo: Un laboratorio di forme sperimentali


1. Le condizioni implicite della vita: selezionabilità,
sperimentalità e fabbricabilità p. 17
2. Potenziale creativo della selezione darwiniana p. 24
3. «Animali artificiali». Darwin vs. Wallace p. 30
4. La soglia di discontinuità biotecnologica p. 36

Capitolo secondo: Nascita dell’antropotecnica.


Ontologia e sociobiologia dell’artefattuale
1. Quel che resta della betulla di Heidegger p. 41
2. «Artefatti biotici», artificial life e «algenia»:
tanto rumore per (quasi) nulla p. 48
3. L’uomo sperimentale p. 53
4. Il socialdarwinismo di Darwin p. 61
5. Ambigue diagnosi p. 67
6. L’effetto reversivo dell’evoluzione p. 72
7. Nascita dell’antropotecnica p. 78

Capitolo terzo: I serragli dell’umanesimo


1. L’esperimento di Nietzsche p. 87
2. I mostri di Darwin e i mostri di Derrida p. 103
3. Darwin teorico del postumano p. 115
4. Vita e/è artificio. Un appunto sull’«ecotecnia»
di Jean-Luc Nancy p. 122
5. Umanisti con la svastica p. 126

Indice dei nomi p. 137

R ingraziamenti p. 141
Ai dolcissimi sorrisi di Antonietta,
senza più parole eppure mai muti.
I

Antonio Caronia

Prefazione
Per un’antropologia evoluzionista

Fra i tanti problemi che nel Novecento sono maturati, sono stati dibat-
tuti, ci sono stati tramandati in eredità, quello della “natura e del posto nel
mondo” dell’uomo (come recita il sottotitolo dell’opera di Arnold Gehlen
dedicata all’argomento1) è certo uno dei più rilevanti, ma al tempo stesso,
ormai, uno di quelli che più hanno mostrato i limiti e le impasse dei para-
digmi essenzialisti. Meno di trent’anni dopo la prima apparizione di quel
libro, Michel Foucault poteva scrivere:

Una cosa comunque è certa: l’uomo non è il problema più vecchio o più co-
stante postosi al sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve
e una circoscrizione geografica ristretta – la cultura europea dal XVI secolo
in poi – possiamo essere certi che l’uomo vi costituisce un’invenzione recente.
Non è intorno ad esso e ai suoi segreti che, a lungo, oscuramente, il sapere ha
vagato. Di fatto, fra tutte le mutazioni che alterarono il sapere delle cose […]
un[a] sol[a], quell[a] che prese inizio un secolo e mezzo fa e che forse sta chiu-
dendosi, lasciò apparire la figura dell’uomo. [...] L’uomo è un’invenzione di cui
l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse
la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se,
a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità
ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero,
come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico,
possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’or-
lo del mare un volto di sabbia.2

1 A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Berlin 1940;
trad. it. di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltri-
nelli, Milano 1983.
2 M. Foucault, Les mots et le choses, Gallimard, Paris 1966; trad. it di E. Panaite-
scu, Le parole e le cose, Rizzoli Milano 1978, pp. 413-414.
II Darwin teorico del postumano

La citazione non serve, naturalmente, solo per osservare come già nel
1966 Foucault ponesse quella che, quasi trent’anni dopo, si sarebbe chia-
mata la questione del postumano. Vuole stabilire anche, sin dall’inizio e nel
modo più chiaro possibile, un approccio “genealogico” e non essenzialista al
problema dell’umano. L’impostazione gehleniana ha avuto una certa fortuna
– in Italia, per esempio, più che altro nella volgarizzazione che ne ha dato
Umberto Galimberti3. Sposata al catastrofismo antitecnologico di Galim-
berti, la visione dell’uomo come “animale incompleto” è sembrata a molti
la quadratura del cerchio. Carente di istinti e ricco di pulsioni, capace della
raffinata strategia dell’”esonero”, l’uomo di Gehlen obbedisce «a una legge
strutturale particolare, la quale è la medesima in tutte le peculiari caratte-
ristiche umane, e va compresa muovendo dal progetto posto in essere dalla
natura di un essere che agisce»4. Gehlen costruisce tutto il suo discorso
per tentare di sfuggire allo spiritualismo del fondatore dell’“antropologia
filosofica”, Max Scheler – e forse, a modo suo, ci riesce, ma solo a prezzo
di spostare il dualismo scheleriano dalla spaccatura fra “natura” e “cultura”
all’interno della stessa natura. Con conseguenze, se vogliamo, ancora più
sconcertanti e contraddittorie del “salto metafisico” dello stesso Scheler. In
Gehlen, infatti, il dualismo non viene affatto superato: viene soltanto as-
sunto a dato empirico, e il carattere unitario della nuova scienza dell’uomo,
dell’antropologia filosofica, dovrà dare conto di questo dualismo:

Sarebbe a mio avviso un risultato meritorio qualora si potesse dar fon-


damento alla generale e popolare opinione che definisce “animale” tutto ciò
che non è uomo, dal lombrico allo scimpanzé, separandolo dall’uomo. Dove si
fonda il diritto di questa distinzione? E si può continuare a sostenerla anche se
si ammettono i principi fondamentali della teoria evoluzionistica?5

In effetti tutta la teoria di Gehlen è volta a fondare il “diritto” della di-


scontinuità fra uomo e animale, e ad adattare il punto di vista evoluzionistico
a tale discontinuità. La prima e fondamentale mossa è quella di riprendere
la visione dell’uomo come “essere manchevole” avanzata da Herder e svi-
lupparla alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili (quelle degli anni
trenta nel Novecento). Ed ecco quindi l’enunciazione di un punto di partenza
tanto più suggestivo quanto meno argomentato. «A differenza di tutti i mam-

3 U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano


1999.
4 A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, ed. it., cit., p. 55.
5 Ivi, p. 37.
Antonio Caronia - Per un’antropologia evoluzionista III

miferi superiori», scrive Gehlen, «dal punto di vista morfologico l’uomo è


determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in
volta vanno definite nel senso biologico di inadattamenti, non specializzazio-
ni, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo».6
A questa condizione di carenza, di inadattamento, di apparente paradosso
(«in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo ad
animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l’uomo sarebbe
già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra»7), l’uomo reagisce, se-
condo Gehlen, rovesciando i suoi apparenti svantaggi in vantaggi: modifica
l’Umwelt per trasformarlo in Welt (dall’ambiente, in cui vivono tutti gli altri
animali, al mondo, che l’uomo costruisce per se stesso); si “esonera” dagli
stimoli per costruire risposte più complesse, basate su “prestazioni di specie
superiore”8 come il linguaggio, la ragione, la riflessione; si affida a una atti-
vità collettiva di previsione e di pianificazione che nessun animale conosce.
«Egli vive, per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, manu-
fatta, e da lui modificata in senso favorevole alla vita. Si può anche dire che
egli è biologicamente condannato al dominio della natura»9.

Se escludiamo il riferimento finale al “dominio della natura”, non c’è


nulla da obbiettare all’affermazione di Gehlen, che è equivalente a quella
(altre volte da lui usata) della cultura come “seconda natura” dell’uomo.
Anche il concetto di “esonero”, tanto a livello delle attività percettivo-
motorie quanto di quelle superiori, può servire (al pari di altri) a descri-
vere i dispositivi linguistici e simbolici messi in opera dalla specie umana
per costruire i complessi rapporti fra uomo e mondo. Il punto debole del
modello gehleniano resta il punto di partenza. Perché far discendere tutto
ciò da una presunta debolezza, manchevolezza, incompletezza dell’esse-
re umano? Le contraddizioni e l’implausibilità di un simile “paradigma
dell’incompletezza” sono state già approfonditamente rilevate da Roberto
Marchesini nel suo ampio lavoro sul postumano10. Marchesini ha messo

6 Ivi, p. 60.
7 Ibid.
8 Ivi, p. 93.
9 A. Gehlen, Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentde-
ckung des Meschen, 1961; trad. it. di S. Cremaschi, Prospettive antropologiche.
Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, il Mulino,
Bologna 1987, p. 69.
10 R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhie-
ri, Torino 2002. Vedi in particolare il cap. 1, “Il paradigma dell’incompletezza”,
pp. 9-42.
IV Darwin teorico del postumano

bene in luce come tutte le caratteristiche di Homo sapiens (dalla neotenia


alle lunghe cure parentali) vengano ingiustificatamente virate “al negati-
vo” da Gehlen e da tutti coloro che ne seguono le orme, mentre non sono
altro che “le peculiarità della nostra specie”, che vanno ricondotte «non
allo svolgimento di essenze primigenie, quanto piuttosto a un processo
di meticciamento con il mondo»11. In base a che cosa l’uomo può essere
definito “carente”? Qual è il supposto “modello standard” in base al quale
si stabilisce ciò che all’uomo “manca”? Definire l’uomo in base a presunte
incompletezze è un’operazione che potrebbe essere ripetuta per ogni altro
animale, e sarebbe ogni volta priva di senso. A ogni specie vivente sulla
terra “mancano” le specializzazioni di cui sono fornite altre specie. Il ven-
taglio di soluzioni che la vita ha adottato nel corso della sua ormai lunga
storia su questo pianeta è così ampio, variegato, differenziato e mutevole
che difficilmente la fantasia più sfrenata avrebbe potuto immaginarlo. Che
cosa ci impedisce di considerare le forme specifiche con cui Homo sapiens
ha costruito gli strumenti della sua azione cooperativa – tramite l’ibrida-
zione interspecifica, la costruzione di oggetti tecnici, il raddoppiamento
del mondo e di se stesso tramite il linguaggio – come una fra le tante solu-
zioni che la ricchezza dell’evoluzione ha prodotto per rispondere alla sfida
della sopravvivenza? Una delle più elaborate e complesse, certo: diciamo
anche la più elaborata e complessa, senza paragone possibile con tutte le
altre. Ma niente più di questo.

In realtà tutta la costruzione concettuale legata alla teoria della carenza,


al paradigma dell’incompletezza, ha come unica giustificazione quella di
fondare più efficacemente, separandolo dalle ipotesi spiritualistiche, un
presupposto metafisico che non solo è non dimostrato e non dimostrabile
(e pour cause!), ma che si rivela il cavallo di Troia per cui il dualismo, cac-
ciato dalla porta, rientra dalla finestra: quello della separazione dell’uomo
dal regno animale, quello di una “linea evolutiva” speciale e peculiare
all’uomo. Come spiega sinteticamente una studiosa italiana dell’antropo-
logia filosofica,

l’uomo, per Gehlen, non solo occupa un posto privilegiato nel mondo, ma è
egli stesso il prodotto di un ‘progetto particolare’ della natura, non può essere
considerato semplicemente come l’ultimo anello di un unico processo evolu-
tivo che accomuna tutti gli esseri viventi, ma deve essere interpretato come

11 Ivi, p. 41.
Antonio Caronia - Per un’antropologia evoluzionista V
il risultato di un progetto separato, di una qualche linea evolutiva distinta da
quella degli animali12.

L’uomo, insomma, sarebbe l’esito di un “progetto” della natura affatto


particolare, l’esito di una linea evolutiva basata su una “legge peculiare”
tipica solo dell’uomo. Anche qui Pansera sintetizza con esemplare chiarez-
za questa posizione:

Il nostro autore suppone infatti che, a un certo stadio dell’evoluzione della


specie, si siano diramati due tronconi indipendenti: uno che porta alle scimmie
antropoidi seguendo la legge della specializzazione degli organi e delle fun-
zioni in relazione alle condizioni ambientali; l’altro che conduce direttamente
all’uomo attraverso una via che conserva il carattere primitivo, arcaico, non
specializzato degli organi e delle funzioni, ma che sviluppa enormemente le
facoltà psichiche e finisce in tal modo per consentire ugualmente un adatta-
mento all’ambiente, o meglio a molteplici ambienti13.

Ora, è evidente che un’ipotesi del genere fa piazza pulita del carattere
scientifico e unitario della visione darwiniana dell’evoluzione (come, per
altra via, fece Teilhard de Chardin con la sua idea della “noosfera”). È una
versione dell’evoluzione, consciamente o no poco importa, in ultima anali-
si finalista, teleologica, su cui si allunga, insidiosa, l’ombra dell’intelligent
design. La forza e la scientificità dell’ipotesi darwininana sta proprio inve-
ce nella sua dimensione unitaria, nella rigorosa esclusione di ogni carattere
“progettuale” anche solo intrinseco del processo evolutivo, nell’assegna-
zione del ruolo strategico di questo processo alla materialità della quantità
e della qualità di cibo che gli individui di una specie riescono a procurarsi
e al loro successo riproduttivo – unici criteri che determinano il successo
nella trasmissione del loro corredo genetico ai propri discendenti.
E, last but not least, l’ipotesi dell’incompletezza si dimostra incompati-
bile con il dato empirico della varietà, della dispersione, della sostanziale
intraducibilità delle culture umane (che non significa incomunicabilità).
Come sempre, le ipotesi di una “discontinuità” fra uomo e natura, dualiste
e tendenzialmente anche pluraliste quando affrontano il problema dei di-
spositivi biologici ed evolutivi, si trasformano come per magia in qualcosa
di rigidamente monista quando si tratta di cultura. L’ipotesi di una “natu-
ra umana” chiaramente descrivibile e unificante della specie (al di là del

12 M. T. Pansera, Antropologia filosofica. La peculiarità dell’umano in Scheler,


Gehlen, Plessner, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 57.
13 Ivi, p. 63.
VI Darwin teorico del postumano

corredo biologico) non può che approdare a una visione (certo, irrealistica
e idealistica) della cultura umana come sostanzialmente unitaria. Se il lin-
guaggio, la tecnica, l’organizzazione sociale, la dimensione del simbolico,
fossero la risposta a una carenza biologica della specie (unitariamente de-
scrivibile per definizione), esse avrebbero prodotto una “cultura” unica,
non il ventaglio di narrazioni, visioni del mondo, dispositivi simbolici e
organizzazioni sociali che ci hanno consegnato gli studi di etnografia e di
antropologia culturale. Ha osservato acutamente Marchesini:

Se infatti ipotizziamo che la cultura sia informata sulle carenze della na-
tura umana non sfuggiamo al rischio di ammettere una base omologata della
cultura, poiché necessariamente correlata […] alla struttura della carenza che
ovviamente è uguale per tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens. […]
Nell’ipotesi di una correlazione culturale al repertorio di carenze, prospettato
per la specie umana, è evidente che dovremo riscontrare molti più elementi
comuni di quelli che ci è dato ritrovare alla prova dei fatti. Le diverse tradizioni
culturali ci appaiono infatti come processi creativi, espressione di una storia
unica e irripetibile, piuttosto che il risultato di un meccanismo algoritmico di
emendazione di un catalogo di carenze condiviso da tutti gli esseri umani. […]
La teoria dell’incompletezza può quindi spiegare la cultura come costante, ma è
visibilmente in panne quando deve rendere ragione della pluralità culturale14.

Non abbiamo bisogno, dunque, di teorie più o meno larvatamente an-


tropocentriche, che per dare conto della specificità del fenomeno “uomo”
ipotizzino l’ennesima variante di una natura umana universale, che separa
irrimediabilmente Homo sapiens dal contesto biologico in cui si è formato;
non abbiamo bisogno di evoluzionismi “teleologici” che, volenti o nolenti,
non possono che produrre una riproposizione del dualismo (anche se gli
elementi della coppia non si chiamano più “anima” e “corpo”, o res exten-
sa e res cogitans, ma, poniamo, “materia” e “informazione”, o hardware
e software). Questo non significa ricadere nel riduzionismo. Se abbiamo
assimilato la lezione del discorso sulla complessità, abbiamo bisogno di
nuovo «di spiegazione scientifica, in cui l’obiettivo non è la riduzione a
componenti fondamentali e la stretta predicibilità degli eventi, consiste
piuttosto nel cercare le condizioni in cui un processo può effettivamente
emergere»15. Tanto più, questo, quando gli eventi che Foucault, nel 1966,
poteva soltanto ipotizzare, sono ormai in pieno svolgimento, e l’“uomo”

14 R. Marchesini, Post-human, cit., pp. 21-22.


15 I. Licata, La logica aperta della mente, Codice, Genova 2009, p. vii. Licata parla
qui della comprensione dei processi cognitivi, di una nuova teoria della mente,
Antonio Caronia - Per un’antropologia evoluzionista VII

come figura dell’episteme moderna sorta fra XVIII e XIX secolo si sta
rapidamente cancellando «come sull’orlo del mare un volto di sabbia». Per
evitare che il dibattito sul postumano produca solo le lamentazioni di un
umanesimo nostalgico e impotente, o, all’opposto, le esaltazioni tecnofile
degli adoratori della “singolarità tecnologica”16, abbiamo bisogno di una
riflessione che tenga insieme le acquisizioni delle ricerche scientifiche più
aggiornate e la prospettiva di una rifondazione non essenzialista e non
universalista dell’antropologia.

Proprio in questa direzione va il lavoro di Cristian Fuschetto che avete


adesso tra le mani. L’ampia rilettura delle teorie di Darwin che ci propone
l’autore tiene conto dello scenario biotech che è una delle marche distintive
più rilevanti della nostra contemporaneità, registra accuratamente lo stato
dell’arte del dibattito sull’evoluzione, ma tutto questo lo fa con lo sguardo
curioso e trasversale del filosofo, alla ricerca di legami fra campi discipli-
nari diversi, di illuminazioni inedite, di ricostruzioni della genesi delle te-
orie che mirano a costruire “concetti”, cioè inquadramenti complessi degli
eventi e delle tendenze capaci di rendere ragione di fenomeni già noti ma
tra loro non ancora collegati, o addirittura di fare emergere nuove ten-
denze. L’operazione concettuale di Fuschetto riesce perché è coraggiosa e
radicale: egli non va all’attacco del “pensiero della discontinuità” sul puro
terreno di un discorso generale sull’idea di evoluzione, ma esplicita, per
così dire, la “ontogenesi” del pensiero darwiniano, mostra come Darwin
abbia concepito sin dall’inizio il dispositivo della selezione naturale utiliz-
zando le conoscenze sulla selezione artificiale, sull’allevamento e sull’ibri-
dazione. E fu questo approccio che permise a Darwin di superare davvero,
in profondità, il pregiudizio sulla stabilità delle specie (l’ideologia “fissi-
sta”) che era propria di altre concezioni “evoluzionistiche” precedenti o
contemporanee a lui. Solo considerando i processi selettivi come dotati
di una particolare attitudine “creativa” (una creatività di tipo non proget-
tuale, s’intende), si può comprendere come le specie nascano, si evolvano
e scompaiano. Ogni essere vivente, ogni organismo, scrive Fuschetto, è

ma il requisito che egli richiede è formulato con una generalità tale che ci con-
sente di estenderlo anche al nostro contesto.
16 Per una rapida rassegna sulle tematiche del postumano è utile Post-umano. Re-
lazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, a cura di M. Pireddu e A.
Tursi, Guerini e associati, Milano 2006. Mi permetto di rimandare, per un esame
delle posizioni richiamate nel testo, al cap. 10, “Dal cyborg al postumano” del
mio Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano 2008.
VIII Darwin teorico del postumano

«interpretabile come l’esito di una specifica attività selettiva, ovvero come


l’artefatto di un caratteristico processo senza soggetto». Selezionabilità,
sperimentalità, fabbricabilità: questi sono gli “impliciti” della vita che
Darwin ha esplicitato, e alla cui ricerca e precisazione Fuschetto ci invita.
Ecco perché non ha alcun senso opporre la “natura” all’“artificio”: perché
la natura, lungi dall’essere un repertorio di forme stabili che si traman-
dano da una generazione all’altra, è invece un gigantesco laboratorio di
organismi in divenire, una continua fabbrica di artefatti. Così, ci viene
opportunamente spiegato nel primo capitolo, il modello darwiniano di na-
tura supera tanto quelli ordinati tassonomicamente (ma statici e incapaci
di spiegare il cambiamento) della storia naturale di Cuvier e di Buffon,
quanto quello meccanicistico (ma rigorosamente deterministico) di Car-
tesio. Il rovesciamento darwiniano è così efficace perché – con una mossa
sorprendente per il pregiudizio antropocentrico, ma, una volta compresa,
perfettamente semplice e autoevidente – non si sforza di ricondurre la cul-
tura alla natura, ma al contrario – si potrebbe dire – di «artificializzare la
natura». È solo il pregiudizio antropocentrico, infatti, che ci impedisce di
concepire un processo creativo, trasformativo, privo di un progetto e di un
“soggetto” agente. Siamo così radicati nella nostra abitudine linguistica
e causalista, nel raddoppiamento e nella razionalizzazione della realtà a
opera del linguaggio, e nella conseguente identificazione di “mondo” e
“realtà”, che non riusciamo a cogliere la genesi perfettamente “naturale”
delle nostre stesse “prestazioni di specie superiore”. E ci convinciamo così
che la nostra coscienza – che altro non è se non un epifenomeno (per quan-
to lussureggiante, labirintico e affascinante) di quel complesso artefatto
biologico che è il nostro cervello – sia l’unica possibile origine dei proces-
si creativi. Magari trasferita, proiettata e sublimata (questa coscienza) in
quella di un essere trascendente che non soffra della nostra stessa aporia di
esseri finiti (e “condannati” alla finitudine in quanto esseri viventi) capaci
però di trastullarci con l’infinito.

Vorrei insistere sul fatto che questa operazione preliminare (che Fu-
schetto opera così efficacemente nel primo capitolo di questo libro), questa
“rifondazione biologica del monismo” è la condizione indispensabile per
poter superare le illusioni universaliste della visione delle culture (illusioni
che non restano, però, a livello delle teorie, ma hanno pesanti e misurabili
conseguenze sul piano delle pratiche). L’arrovellarsi a vuoto sulla defini-
zione della “natura umana”, infatti, non è altro che il risultato dell’incapa-
cità a riconoscere l’unica vera “natura” di cui disponiamo, l’unica base che
Antonio Caronia - Per un’antropologia evoluzionista IX

accomuna tutti gli esseri umani, e cioè l’insieme delle nostre particolarità
biologiche – neanch’esse immutabili, neanch’esse date una volta per tutte,
è vero, che però possiamo e dobbiamo supporre “costanti” nei brevi perio-
di di esistenza della specie di cui possiamo occuparci. Gli effetti di queste
particolarità biologiche (che André Leroi-Gourhan sintetizzò così chiara-
mente già molti anni fa nella stazione eretta, nella liberazione degli arti
superiori e nell’aumento del volume craniale17) sono essenzialmente la no-
stra attitudine al linguaggio e alla tecnica: una predisposizione, una pura
possibilità, una “facoltà” generica che non è descrivibile o catalogabile
in modo più preciso di questo. Perché ogni volta che questa facoltà uma-
na agisce, si esplicita, produce artefatti materiali o immateriali (lingue,
utensili, attrezzi, processi produttivi, organizzazioni sociali, immagina-
ri), questi artefatti risultano diversissimi tra loro, variegati, distantissimi,
incommensurabili se non sulla base di quella vasta e generica potenzia-
lità che li ha prodotti. L’universalista, incapace di riportare questa stra-
ordinaria varietà di esiti alla sua origine biologica (probabilmente perché
non ha una visione sufficientemente ricca e articolata della biologia) cerca
disperatamente un denominatore comune tra loro al livello sbagliato, là
dove non potrà mai trovarlo: al livello degli effetti di quella potenzialità, al
livello della esplicitazione, dei cosiddetti “fondamenti” ideali delle cultu-
re. Col risultato che ogni universalismo, invariabilmente, consiste nell’ele-
vare arbitrariamente i “valori” di una cultura dal posto che loro compete
(i fondamenti di quella cultura, della sua) a un livello superiore, che loro
non compete e che neppure esiste: a fondamento di ogni possibile cultura.
A quali effetti abbia già portato questa pretesa (che, sappiamo, ha storica-
mente caratterizzato e ancora caratterizza quella che chiamiamo “civiltà
occidentale”) lo sappiamo bene, e lo vediamo ancora oggi, nel confronto e
nello scontro fra le culture e i sistemi di vita a livello planetario. Seguia-
mo Fuschetto nel secondo e nel terzo capitolo del suo libro: ci mostrerà
– spero in modo convincente – a dove ci ha già condotti quel «brutale
umanesimo dell’esclusione» che, in nome di presunti modelli, di presun-
te purezze, di presunte “essenze dell’uomo”, ha praticato la schiavitù, lo
sterminio delle razze, l’emarginazione del “mostruoso”. Se a qualcosa può
e deve servire una cultura del postumano, è in primo luogo, io credo, a
riconoscere correttamente l’origine concettuale di quelle pratiche – non
“incidenti di percorso”, non aberrazioni della civiltà, ma coerenti e possi-
bili esiti (possibili, certo, non necessari né automatici, ma cionondimeno

17 A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, 2 voll., Albin Michel, Paris 1964 e 1965;


trad. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola, 2 voll., Einaudi, Torino 1977.
X Darwin teorico del postumano

perfettamente conseguenti) di un certo umanesimo, di un certo culto della


purezza, di una certa ossessione dell’“origine”. Se questa operazione non
verrà onestamente e umilmente compiuta almeno dagli studiosi, temo che
i “mai più” che tante anime belle pronunciano solennemente ogni anno ai
cancelli di Auschwitz e Treblinka non rimarranno che proclamazioni reto-
riche. Come troppi luoghi del mondo contemporaneo, dalla Palestina alle
prigioni di Abu Graib e Guantanamo, purtroppo dimostrano.
DARWIN TEORICO
DEL POSTUMANO
Natura, artificio, biopolitica
9

Introduzione

Hurrah!
Charles Darwin, 2 dicembre 1839

Darwin, come Einstein, trova una formula di convertibilità della ma-


teria in energia: realizzare, come lui ha realizzato, una genealogia inte-
gralmente materialistica della mente e della morale equivale né più né
meno che a tradurre la materialità del biologico nell’immaterialità dello
spirituale. Roba da cibernetici! Darwin, più di Einstein, reinventa la no-
stra percezione del mondo: indipendentemente dall’effettiva portata di una
rivoluzione scientifica, quella compiuta dal naturalista è infatti per forza
di cose più tangibile di quella compiuta dal fisico. A differenza del fisico
il naturalista descrive e interpreta un livello di realtà che rinvia alla natura
dell’uomo con più nettezza della cosmologia. Sarà una semplice questione
di percezione di distanze, ma parlare del posto dell’uomo nel cosmo suona
inevitabilmente un po’ più astratto che non parlare del posto dell’uomo
nella natura. Se solo gli fosse capitato di nascere nel XIX invece che nel
XVI secolo sono certo che anche il cardinale Bellarmino ne sarebbe rima-
sto persuaso. Detto in altri termini, Darwin reinventa la nostra percezione
del mondo non soltanto perché ci spiega che il mondo che abitiamo è retto
da leggi interamente consegnate all’imprevedibilità del tempo, ma anche e
soprattutto perché ci suggerisce che gli abitatori di questo mondo, i viventi
che amiamo così tanto classificare in specie, sono essi stessi «fabbricati»
dal tempo. È grazie all’incontenibile potenza della dimensione diacronica
10 Darwin teorico del postumano

che la variazione e la selezione possono fabbricare nuove forme di vita, è


soprattutto e innanzitutto «il tempo che permette la fissazione d’un carat-
tere nuovo [...]»1, anima compresa.
Parafrasando, ma non troppo, la metafora lucreziana resa celebre da
Blumenberg2, si può dire che con Darwin l’uomo scopre d’un colpo che tra
sé e il naufragio cui da sempre assiste con fascino e tribolazione non c’è più
alcun margine di sicurezza. Densità della carne e impalpabilità dell’anima
si accoppiano come mai prima s’era azzardato di pensare e diventano il
medesimo frutto di una natura naturans spudoratamente immune a ogni
soluzione di continuità. È su questa strada che la biologia, in misura sco-
nosciuta alla cosmologia, può diventare il terreno di coltura entro cui far
maturare un’antropologia rinnovata.
A partire da Darwin tra bíos e anthropos si istituisce una relazione im-
mediata e dal momento in cui la biologia diventa evoluzionistica non c’è di-
scorso sull’uomo che potrà fingere di non tenerne conto, fosse pure solo per
continuare a marcare delle differenze. Heidegger, tanto per fare un nome
piuttosto significativo, ne è (suo malgrado) testimone. «Siamo in generale
sulla via giusta – si domanda il filosofo tedesco ne la sua celebre Lettera
sull’“umanismo” – per determinare l’essenza dell’uomo se e finché consi-
deriamo l’uomo come un essere vivente tra gli altri, che si distingue rispetto
ai vegetali, agli animali e a Dio?». «Si può certo procedere così», ricono-
sce Heidegger, in questo modo potranno persino farsi «corrette asserzioni
sull’uomo», ma si deve tenere ben chiaro che su questa strada si finisce
sempre col cacciare l’uomo «nell’ambito essenziale dell’animalitas»: «in li-
nea di principio si pensa sempre all’homo animalis anche quando l’anima
è posta come animus sive mens, e quest’ultima più tardi come soggetto,
come persona, come spirito. Questo modo di porre è il modo tipico della
metafisica»3.
Ma le cose stanno davvero così? O forse, per una sorta di contrappasso
filosofico, Heidegger cade qui nello stesso “errore” che egli ha additato a
gran parte del pensiero occidentale, da Platone a Nietzsche? Non è forse
metafisico il modo di porre heideggeriano, così attento a distinguere in

1 C. DARWIN, L’Origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza


(1859), tr. it. della 6ª edizione del 1872 di L. Fratini, Bollati Boringhieri, Torino
1967, p. 507.
2 Il riferimento è, ovviamente, a H. BLUMENBERG, Naufragio con spettatore:
paradigma di una metafora dell’esistenza (1979), tr. it. di F. Rigotti, Il Mulino,
Bologna 1985.
3 M. HEIDEGGER, Lettera sull’«umanismo» (1947), tr. it. a cura di F. Volpi, Adel-
phi, Milano 1995, pp. 45-46.
Introduzione 11

modo essenziale tra il piano del bíos e quello dell’anthropos? In fondo


la preoccupazione di Heidegger è quella di assicurare all’uomo un deci-
sivo distanziamento dagli «ontici» domini della natura in direzione del-
le insondabili regioni dell’Essere. In tutta onestà mi pare un umanismo
davvero poco eterodosso. L’uomo è sì un vivente, sostiene Heidegger, ma
non è né partendo dalla vita né dalle sue evoluzioni che dell’uomo potrà
comprendersi l’essenza. Giocando un po’ con le definizioni si potrebbe de-
finire l’antropologia heideggeriana un’onto-antropologia anti-biologistica
(molto probabilmente, considerata la sua idiosincrasia per l’antropologia,
il filosofo di Messkirch si starà rivoltando nella tomba).
Come sappiamo, la lezione darwiniana ci ha indirizzato su un’altra
strada. E se è vero, come è vero, che il darwinismo può assumersi come
una sineddoche della biologia contemporanea, è quest’ultima e non solo
il darwinismo a indirizzarci su una strada diversa dai “sentieri interrotti”
frequentati dal maestro tedesco.
Facendo il punto sul portato di un’antropologia conseguentemente post-
darwiniana e in risposta all’opzione irrimediabilmente metafisica di Hei-
degger, Peter Sloterdijk, sicuramente tra le voci più intriganti della filosofia
contemporanea, ribadisce invece che l’uomo, con tutto il suo corteggio di
ex-staticità, deve essere pensato a partire dal bíos e non dall’Essere, va cioè
spiegato come un «prodotto di forze creatrici che, secondo il loro rango on-
tologico si trovano a un livello più basso del risultato»4. Con buona pace di
tutti i sedicenti umanisti più o meno devoti, Sloterdijk ci invita a percorrere
sentieri darwiniani e a pensare che l’«umanità dell’uomo» possa e debba es-
sere colta nella sua specificità proprio per mezzo della natura, senza l’aiuto
di nessun “salto ontologico” o “appello dell’Essere”. Dopo secoli di «antro-
pologia insulare», con Darwin vengono finalmente fissate le coordinate di
un’«antropologia - orgogliosamente - peninsulare»5, vale a dire di un’antro-
pologia scevra dagli sterili narcisismi di discorsi ieri come oggi imbastiti al
fine di fortificare la solitudine ontologica di quest’angelo caduto.
Ma Darwin fa anche qualcosa di più. Con Darwin non si tratta soltanto
di riconoscere le specificità dell’uomo nella continuità della serie animale,

4 P. SLOTERDIJK, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung,


in ID., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), tr. it. di A.
Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 126.
5 Cfr. E. MORIN, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana? (1973), tr. it.
di E. Bongioanni, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 18-20.
12 Darwin teorico del postumano

di ammettere l’esistenza di una «materia della mente»6 o di derubricare


le differenze di genere a differenze di grado; con Darwin si tratta di far
esplodere l’impianto concettuale entro cui tutte queste distinzioni diven-
tano effettivamente pensabili. Darwin elabora una teoria della vita che
non solo riconosce la medesima ontologia sia all’uomo sia all’animale, ma
pone le premesse anche per una rivisitazione di distinzioni apparentemen-
te autoevidenti, come quelle tra dato e prodotto o tra natura e artificio.
Elaborata sul modello della selezione artificiale, la selezione naturale può
infatti essere considerata come una sorta di commutatore di piani di co-
noscenza, in virtù di cui il dato naturale diventa interpretabile a partire
da quello artificiale e viceversa. Con Darwin la natura strizza l’occhio al
biotech e noi, che del biotech abbiamo fatto il sigillo della nostra epoca,
stentiamo ancora a prenderne atto. In altre parole, Darwin legittima la
commensurabilità tra due dimensioni dell’essere da sempre ritenute pres-
soché incommensurabili, quella della natura e quella dell’artificio, e lo fa
grazie a una mossa da prestigiatore: dapprima naturalizza un processo
meramente artificiale come la selezione e poi, proprio in virtù di questa
inedita naturalizzazione, artificializza quel che di più naturale non si po-
trebbe. Nell’ottica darwiniana, infatti, ogni organismo, dall’infusore al sa-
piens, diventa interpretabile come l’esito di una specifica attività selettiva,
ovvero come l’artefatto di un caratteristico processo senza soggetto. In un
certo senso si può dire che Darwin è stato l’inventore di una grammatica
biotecnologica del vivente. Bisognerebbe tenerne conto quando si scrive,
spesso con toni allarmati e allarmanti, sul moderno «Prometeo scatenato»
inarrestabilmente impegnato a manipolare il dato naturale per opera di
sempre più sofisticate strumentazioni biotecnologiche. Se oggi Jean-Luc
Nancy ci invita a considerare, giustamente, che la vita «è ormai insepa-
rabile da tutto un insieme di condizioni che definiamo “tecniche” [...]»7,
Darwin, a mio modo di vedere, ci ha da tempo invitato a fare qualcosa di
più, e cioè a prendere atto del dato per cui prima ancora della possibilità
fattuale di una ibridazione tra tecnica e vita, è possibile ipotizzare un’ibri-
dazione concettuale tra queste due (così distanti?) dimensioni dell’essere,
ovvero ci ha invitato a pensare il dato naturale come tale, già di per sé, en-
tro la dimensione biotecnologia della produzione. Ed è esattamente questo,
per citare ancora Sloterdijk, il «crimine mostruoso» compiuto da Darwin,

6 Cfr. G. EDELMAN, Sulla materia della mente (1992), tr. it. di S. Frediani, Adel-
phi, Milano 1993.
7 J. L. NANCY, La creazione del mondo, o la mondializzazione (2002), tr. it. di D.
Tarizzo e M. Abbruzzese, Einaudi, Torino 2003, p. 91
Introduzione 13

quello cioè di incrociare natura e artificio, quello di vanificare il «mono-


polio ontologico di natura ed essere»8 e, su questa strada, di destituire di
ogni fondamento la consolidata assiologia che vuole il naturale più vero e
dunque più buono dell’artificiale.
Ma sul «mostruoso» occorre rimanere. E non per particolare affezio-
ne alla teratologia, ma perché è attraverso questa imprendibile figura che
diventa possibile accennare alle innovazioni che il darwinismo inaugura
anche sul piano etico. Contro la violenza di quella che Derrida ha definito
metafisica della presenza, contro il potenziale discriminatorio di un pen-
siero sedotto dalla pienezza dell’essere e perciò insensibile a ogni differen-
za, contro la presunta verità di forme pure e la presunta impurità dei loro
derivati, contro l’aspirazione gerarchizzante e proto-nazista di un’ontolo-
gia ostinatamente orientata a scavare solchi sempre più profondi tra oppo-
ste regioni dell’ente, Darwin inventa una «scienza delle molteplicità»9 in
grado di accogliere e privilegiare ciò che la metafisica sub specie biologi-
ca, vale a dire la biologia essenzialistica che l’ha preceduto, aveva invece
sistematicamente allontanato sotto l’infamante stigma della mostruosità,
vale a dire l’assolutamente Altro, la perturbante presenza del liminare, la
fastidiosa esistenza di tutto quel che non si lascia collocare nelle griglie di
un alcun ordine per il semplice fatto che, con la sua stessa presenza, chia-
ma in causa la validità stessa dell’ordine istituito. «L’esistenza dei mostri
mette in questione il potere che ha la vita di insegnarci l’ordine»10 spiega
Canguilhem. Ebbene, insensibile a ogni teratologica minaccia e ad ogni
anomica regressione, Darwin opta per una riabilitazione del mostruoso! E
non solo. Egli arriva addirittura a concepire le forme mostruose come le
forme di vita più interessanti. Egli riscatta il mostruoso perché a suo giu-
dizio è proprio per il tramite di queste anomale e marginali figure che di-
venta possibile palesare uno dei più importanti segreti della natura, niente
di meno che il cuore della nuova visione evoluzionistica della vita. Lungi
dall’essere la degenerazione di un tipo, nella biologia darwiniana il mostro
appare infatti come la possibile manifestazione di una «specie incipiente»,
appare cioè come la manifestazione di qualcosa che non appartiene più

8 P. SLOTERDIJK, L’ora del crimine mostruoso. Per una giustificazione filosofica


dell’artificiale, in ID., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger,
cit., pp. 293-310, in particolare cit. p. 308.
9 G. DELEUZE e F. GUATTARI, Mille piani: capitalismo e schizofrenia (1980), tr.
it. a cura di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma 2006, p. 96.
10 G. CANGUILHEM, La mostruosità e il portentoso, in ID., La conoscenza della
vita, (1965), tr. it. di F. Bassani, Il Mulino, Bologna 1976, pp. 239-255, in partico-
lare cit. p. 239.
14 Darwin teorico del postumano

alla specie di provenienza e che tuttavia non è ancora la specie di destina-


zione, di qualcosa che di conseguenza è inclassificabile e senza nome, di
qualcosa che si presenta necessariamente come l’assoluta alterità ma che,
non per questo, ha da essere emarginata. Anzi, ha da essere privilegiata.
La nuova visione della vita inaugurata da Darwin, proprio per il fatto di
essere evoluzionistica, non può più concedersi il lusso di concentrare il suo
sguardo solo sulle specie ma deve allargarlo anche alle loro condizioni di
possibilità, deve cioè diventare dinamica e privilegiare non più soltanto le
forme ma anche il de-forme, ciò che apparentemente è poco più che nulla
ma che invece può rivelarsi promessa d’avvenire.
Sebbene per vie inconsuete, si potrebbe dire carsiche, Darwin teorizza
in tal modo la più radicale smentita di ogni gerarchizzazione fondata sulle
rassicuranti traiettorie dell’essere. Da Darwin in poi, infatti, l’essere non
serba più alcun paradigma da cui poter dedurre implacabili assiologie, la
vita acquista una storia, l’essere diventa tempo e non c’è più forma che pos-
sa vantare qualche sorta di familiarità ontologica con l’essenza; tutt’altro,
ogni forma, per quanto apparentemente perfetta, diventa in questo nuovo
scenario sintomo di incompiutezza. Siamo di fronte a un risoluto svuota-
mento dell’ideologia nazista e del suo morboso umanesimo essenzialista.
Non bisogna infatti dimenticare che ad Auschwitz come a Treblinka uo-
mini di scienza, medici e antropologi prima di altri11, hanno cercato di
«ri-creare l’umanità» attraverso l’annientamento di tutti gli uomini che
ai loro occhi non erano nemmeno più uomini ma soltanto dei «mostri»,
dei sotto-uomini, dei quasi-uomini, degli esseri contro-natura, comunque
degli usurpatori del genere Homo. Non bisogna infatti dimenticare che
ad Auschwitz come a Treblinka, il più delle volte sotto sedicenti insegne
darwiniane, si è cercato di mettere ordine nella specie in nome di un bru-
tale umanesimo dell’esclusione12, in nome del quale ogni uomo giudicato
non all’altezza della “pura” forma dell’humanitas è potuto apparire come
un’anomalia, un ibrido, un mostro e, come tale, uno scarto da eliminare13.
Ciò su cui credo non si rifletterà mai abbastanza è che ad Auschwitz, Tre-
blinka, Bełżec, Sobibór e in qualunque altro luogo in cui si sia perseguito

11 Cfr. B. M. HILL, Scienza di morte. L’eliminazione degli Ebrei, degli Zigani e dei
malati di mente 1933-1945 (1984), tr. it. a cura di I. Barrai, ETS, Pisa 1989.
12 Su questo ho già avuto modo di esprimermi nel saggio Purificazione bio-sociale
e stigmatizzazione della finitezza: un’analisi della mentalità eugenetica, in «Ri-
vista di Teologia Morale», 157 (2008), pp. 89-111.
13 Cfr. Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità (2000), tr. it. di V. Verdiani,
Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 8-19.
Introduzione 15

l’allucinato ideale di purificare l’umanità emendandola da forme ibride e


bastarde si è, per molti versi, portata a conseguenze parossistiche la violen-
za essenzialistica della tipologia, la furia dicotomica di un’ontologia e di
un umanesimo trivialmente autarchici. Ma «la richiesta dell’archia in ge-
nerale – si chiedeva qualche tempo fa un ispiratissimo Derrida - quali che
siano le precauzioni con cui si circonda questo concetto, non è l’operazio-
ne essenziale della metafisica?»14. Certamente sì! È allora la metafisica che
bisogna (ancora una volta!) superare per pensare un umanesimo affrancato
dalla superbia dell’arché e dalla violenza dell’originario, un «umanesimo
an-archico», come lo ha definito Lévinas, un umanesimo, cioè, che sappia
«trovare un senso all’umano anche senza misurarlo con l’ontologia»15.
Come vedremo è in questo senso – e non solo - che può dirsi postumano
il pensiero di Darwin, di chi ha avuto l’audacia di teorizzare contro ogni
autarchia e contro ogni narcisistica ontologia; di chi non ha temuto di di-
schiudere la sostanza stessa dell’umano a un’alterità innominabile; di chi
ha osato immaginare che potremmo «essere tutti legati in un’unica rete»16.
Tutti. Non solo noi uomini, ma tutti noi viventi.

14 J. DERRIDA, «Ousia» e «grammé». Nota su una nota di «Sein und Zeit», in


Margini della filosofia della filosofia (1972), tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino
1997, pp. 105-152.
15 E. LEVINAS, Umanesimo dell’altro uomo (1972), tr. it. di A. Moscato, Il Melan-
golo, Genova 1998, p. 127.
16 C. DARWIN, B 232, in ID., Taccuini 1836-1844 (Taccuino Rosso, Taccuino B,
Taccuino E) (1987), tr. it. di I. C. Blum e a cura di T. Pievani, Laterza, Roma-Bari
2008, p. 218.
17

Capitolo primo
Un laboratorio di forme sperimentali

One day, I’m going to grow wings,


a chemical reaction.
Radiohead, Let Down, 1997

1. Le condizioni implicite della vita: selezionabilità, sperimentalità e


fabbricabilità

La selezione naturale esplicita le condizioni implicite della vita. Esplici-


tare le condizioni implicite della vita non vuol dire semplicemente svelare
aspetti del vivente fino a un certo punto ignoti. Se così fosse, un’espres-
sione di questo tipo, vale a dire così marcatamente teoreticheggiante, po-
trebbe adoperarsi per ogni passo in avanti compiuto sulla strada della co-
noscenza biologica, finendo così col legittimare il sospetto secondo cui i
filosofi spesso amano rubricare cose semplici sotto diciture gratuitamente
cerebrali.
Esplicitare le condizioni implicite della vita vuol dire anche altro. Espli-
citare le condizioni implicite della vita vuol dire infatti ricondurre la vita
in una anomala condizione di pericolo. Non a caso «esplicitare le condi-
zioni implicite della vita» è l’espressione che Peter Sloterdijk utilizza a
proposito del terrorismo1.
In particolare Sloterdijk colloca la principale caratteristica del terrori-
smo in quello che lui definisce il «principio di esplicitazione»: «è terro-
rista colui che si procura un vantaggio in materia di esplicitazione delle
condizioni implicite di vita del nemico […]»2. Che la vita in sé non abbia
nemici e che quindi l’analogia tra la selezione naturale e il «principio di
esplicitazione» possa risultare poco meno che una provocazione mal riu-
scita è evidente. Tuttavia, come si proverà a dimostrare, l’accostamento
tra la definizione sloterdijkiana di terrorismo e la teoria darwiniana della
selezione naturale risulta utile ai fini della comprensione dello specifico
potenziale espositivo di questa scoperta. A differenza di altre, che pur

1 P. SLOTERDIJK, Terrore nell’aria (2002), tr. it. di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma


2006.
2 Ibidem, p. 21.
18 Darwin teorico del postumano

hanno segnato tappe fondamentali nella storia della biologia, la scoperta


darwiniana del carattere selettivo dell’evoluzione fa infatti da detonatore
all’esplicitazione di alcuni peculiari caratteri dei viventi, cioè fa venire
allo scoperto la loro selezionabilità, sperimentalità e fabbricabilità. Si trat-
ta di una scoperta che pone i viventi in un particolare stato di esposizione
a prassi biotecnologiche e dunque in una particolare condizione di rischio.
Tracciando un’elementare schematizzazione si può dire che se da un lato
l’esplicitazione di tali caratteri dei viventi pone le premesse per una inedita
concettualizzazione della vita, dall’altro la conseguente esposizione della
vita a inusitate forme di rischio pone a sua volta le premesse per radicali
cambiamenti circa i margini di intervento politico e biopolitico praticabili
su di essa.
Detto questo va tuttavia subito sgombrato il campo da fastidiosi frain-
tendimenti. È evidente che trarre dal suddetto accostamento (cioè tra la de-
finizione sloterdijkiana di terrorismo e la teoria darwiniana della selezione
naturale) conclusioni su un Darwin “nichilista” nel senso diffusamente
polemico adoperato nei suoi confronti da alcune correnti neocreazioni-
stiche, come se fosse possibile considerare la sua teoria alla stregua di
una ideologia fieramente contraria alla dignità e all’intangibilità della vita,
sarebbe operazione francamente grossolana, malevola e un po’ ridicola. E
in fin dei conti anche inutile: la pericolosità di un’idea non ne confuta la
veridicità.
Ma cosa spinge la selezione naturale a esplicitare l’implicito della vita
al di fuori dai perimetri della sola apparizione? Perché l’esplicitazione
dell’implicito ha qui il senso ulteriore di una ricognizione del noto tale da
far apparire e, per ciò stesso, esporre ciò che fino a un dato momento ri-
mane nella neutralità del tacito? Perché la selezione naturale, e solo essa,
esplicita le condizioni implicite del vivente nel senso dell’esposizione, del-
la “messa in pericolo”, e non, piuttosto, nel senso del mero mostrare?
Qual è la specifica pericolosità della selezione naturale?
La selezione naturale, come è noto, “mette fuori” un aspetto fondamen-
tale del mondo dei viventi: ne esplicita il meccanismo evolutivo, ovvero
il comune principio di funzionamento. È chiaro però che se si limitasse
a questo rimarrebbe nella stessa area di esplicitazione, tanto per fare un
esempio, della scoperta del DNA. Così come quest’ultima “mette fuori”
il meccanismo della trasmissibilità del materiale genetico tra gli organi-
smi, la selezione naturale ne “mette fuori” il meccanismo evolutivo. Ma,
e questo è il punto, la selezione naturale fa di più: non solo “mette fuori”
un meccanismo della vita ma, nel farlo, “mette a rischio” le forme viventi
Un laboratorio di forme sperimentali 19

come tali. In che modo? Né più né meno che modificandone lo statuto; né


più né meno che variandone l’ontologia. La selezione naturale permette
infatti di pensare i viventi come tanti prodotti di una perenne attività se-
lettiva, esplicitandone così in modo del tutto peculiare una loro implicita
condizione, vale a dire la selezionabilità: «Nella natura addomesticata – fa
notare Patrick Tort - Darwin vede immediatamente e prima di tutto il ri-
sultato della selezione e siccome la natura addomesticata non ha per questo
cessato di essere naturale, ecco che la selezione appare immediatamente
una capacità della natura. Come la variazione prova la variabilità, così
la selezione è prova della selezionabilità»3. Si tratta allora di capire quali
effetti abbia prodotto la ridefinizione darwiniana dei viventi come enti
selezionabili.
Va subito messo in evidenza che l’analogia di Tort tra variazione e sele-
zione non è affatto casuale: la scoperta della selezione cade insieme a quel-
la della variazione, non si dà l’una senza l’altra. Come chiarisce lo stesso
Darwin la variazione è il prodromo della selezione, il «materiale su cui la
selezione opera»4. Affinché possa effettivamente essere produttiva di nuo-
ve specie, la selezione naturale non può infatti che agire su corpi assogget-
tabili a «indefinite trasformazioni»5. In un certo senso è come se Darwin
nel teorizzare la selezione riconoscesse finalmente agli organismi la forza

3 P. TORT, Darwin e il darwinismo (1997), tr. it. di G. Chiesura, Editori Riuniti,


Roma 1998, p. 44.
4 C. DARWIN, L’Origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza
(1859), tr. it. della 6ª edizione del 1872 di L. Fratini, Bollati Boringhieri, Torino
1967, p. 109. Cfr. anche p. 114.
5 Per capire la portata e il senso di queste «indefinite trasformazioni», si presti
attenzione a quello che Darwin scrive ne L’Origine delle specie: «Da alcuni au-
tori è stato affermato che i nostri prodotti domestici raggiungono ben presto il
limite delle loro possibilità di variazione, limite che non può mai essere superato
in seguito. A me sembra piuttosto azzardato asserire che questo limite è stato
sempre raggiunto, in ogni caso, giacché quasi tutti i nostri animali e piante sono
migliorati molto e in molti modi, nei periodi più recenti, e ciò implica varia-
zione». Ma questa variazione è o non è indefinita? Darwin risponde presto al
quesito: «Mi sembra ugualmente azzardato asserire che quei caratteri che hanno
oggi raggiunto il loro limite massimo di variabilità, non possano, dopo essere
rimasti fissi per molti secoli, ritornare a variare in nuove condizioni di vita». La
variabilità è dunque indefinita. C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 111.
Da notare che Darwin acquisisce piena consapevolezza dell’indefinita plasticità
degli organismi molto presto, già verso la fine degli anni ’30. Cfr. S. SMITH, The
Origin of “The Origin” as Discerned from Charles Darwin’s Notebooks and His
Annotations in the Books He Read between 1837 and 1842, in «Advancement of
Science», n. 64 (1960), pp. 391-401.
20 Darwin teorico del postumano

di infrangere gli invalicabili confini tipologici entro cui erano stati fin lì
collocati6. Per quanto durevole, suggerisce Darwin, ogni carattere può «ri-
tornare a variare in nuove condizioni di vita»7. Bene, la complementarità
concettuale e funzionale tra selezione e variazione è ciò che fa da premes-
sa alla seconda condizione implicita dei viventi. Se, come abbiamo visto,
ogni organismo è mutevole e se ogni organismo è selezionabile in ragione
di questa sua mutevolezza, cosa impedisce di intendere tutti gli organismi
come tante variazioni in fase di sperimentazione? Cosa impedisce, cioè, di
intenderli come tante prove di una continua attività selettiva? Cosa impe-
disce, insomma, di intenderli come tanti esperimenti sottoposti al giudizio
insindacabile della vita? Come osserva Canguilhem, «per Darwin vivere
vuol dire sottoporre una differenza individuale al giudizio dell’insieme
degli esseri viventi. Questo giudizio conosce due sanzioni: morire oppure
venire a far parte a propria volta, per un certo tempo, del tribunale. Fin-
ché si vive si è sempre giudici e giudicati»8. Nell’orizzonte darwiniano
ogni organismo diventa quindi un ente sperimentale che, coerentemente
al suo statuto, rimane permanentemente suscettibile a modifica. Modifica
a sua volta permanentemente sperimentata e giudicata dal «tribunale» dei
viventi. Ecco allora che la teoria della selezione naturale, insieme alla se-
lezionabilità, esplicita anche un’altra condizione dei viventi: la sperimen-
talità. Al nuovo sguardo evoluzionistico non potrà pertanto mai sfuggire

6 Sulla rilevanza e sulla pervasività delle categorie “essenzialistiche” della biolo-


gia tipologica pre-darwiniana, si è cominciato a riflettere con notevole ritardo.
I primi fondamentali studi al riguardo sono, come è noto, quelli di Ernst Mayr
e di David Hull, che tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 del se-
colo scorso hanno messo in evidenza il carattere «filosoficamente» innovativo
dell’evoluzione darwiniana, definita “evoluzione variazionale” per differenziarla
dagli altri modelli evolutivi, “trasformazionali” o “saltazionali”, con cui spesso
veniva ancora confusa. Cfr. E. MAYR, Tipological versus Population Thinking,
in B. J. MEGGERS (ed.), Evolution and Anthropology. A Centennial Appraisal,
Anthropological Society of America, Washington DC 1959, pp. 409-412; D.
HULL, The Effect of Essentialism on Taxonomy: Two Thousand Years of Stasis,
in «The British Journal for the Philosophy of Science», Vol. 15, No. 60 (Feb.,
1965), pp. 314-326. Sull’argomento si veda anche E. SOBER, From a biological
point of view. Essays in evolutionary philosophy, Cambridge University Press,
Cambridge 1994, in particolare l’undicesimo capitolo «Evolution, population
thinking, and essentialism», pp. 201-232.
7 C. DARWIN, L’Origine delle specie, op. cit., p. 111.
8 G. CANGUILHEM, L’essere vivente e il suo ambiente, in La conoscenza della
vita (1965), tr. it. di F. Bassani, Il Mulino, Bologna 1976, p. 196.
Un laboratorio di forme sperimentali 21

il fatto per cui la vita, per ogni vivente, non è mai solo un dato ma è già da
sempre sperimentazione di nuove condizioni di esistenza.
A tal proposito, e solo per anticipare un tema su cui poi torneremo,
va segnalato che è proprio in questo orizzonte concettuale, quello aperto
dalla trasfigurazione del vivente in chiave sperimentale, che ha senso col-
locare i coevi progetti eugenetici di autoperfezionamento della specie. È
questa trasfigurazione dello statuto dei viventi da enti naturali a enti spe-
rimentali a ispirare, al contempo legittimandole, prospettive ingegneristi-
che totalmente inedite sugli organismi, uomo compreso9. Sono per questo
discutibili i tentativi, pure spesso compiuti, di spiegare l’eugenetica svol-
gendone semplicemente un pregresso che andrebbe dallo spartano monte
Taigeto alla Repubblica di Platone, per arrivare alle utopie di Tommaso
Campanella e poi ancora ai sogni di rimodellamento dell’uomo di matri-
ce illuministica10. In tutti questi casi manca infatti l’elemento fondante
dell’eugenetica come scienza e prassi biopolitica, ovvero la comprensio-
ne e la conseguente introiezione del carattere schiettamente sperimentale
degli organismi e, nel caso specifico, la comprensione dello statuto speri-
mentale dell’uomo. Tracciare una storia dell’eugenetica mettendo in ombra
le novità che la biologia darwiniana fa emergere nella fenomenologia dei
processi vitali, a partire, per l’appunto, dalla loro «sperimentalità», rischia
allora di essere fuorviante.
A titolo di esempio basti dire che nell’ambito di una biologia tipologica,
quale era la biologia di rifermento in epoca pre-darwiniana, gli organismi
mantengono comunque dei limiti insuperabili e dunque rimane per de-
finizione precluso ogni autentico progetto di illimitato perfezionamento
dell’uomo, il che costituisce fin dall’inizio l’obiettivo trainante del mo-
vimento eugenetico. Non è certo un caso se il fondatore dell’eugenetica,

9 Come si dimostrerà più avanti, porre l’eugenetica in un orizzonte darwiniano


non implica affatto porre Darwin e il darwinismo in un orizzonte eugenetico.
10 Pur cogliendo importanti aspetti dell’eugenetica come prassi biopolitica moder-
na, anche Pierre-André Taguieff cade in questo grossolano errore di “precorri-
mento”. Cfr. P. A. TAGUIEFF, Il progresso. Biografia di una utopia moderna
(2001), tr. it. M. Ferrara, Città Aperta, Roma 2003, p. 163. Rimane per l’appunto
precluso, in questo quadro, l’obiettivo ultimo degli eugenisti. Lombroso, tanto per
fare un nome, nel rimanere fuori dal movimento eugenista rimane coerente al suo
quadro teorico di riferimento, di tipo trasformazionale e non evoluzionistico-dar-
winiano. Cfr. R. VILLA, Il deviante e i suoi segni, Franco Angeli, Milano, 1985,
pp. 142-144. Sulla non ammissibilità dell’antropologia criminale lombrosiana ai
presupposti dell’eugenetica si veda anche il mio saggio sullo Statuto teorico e spes-
sore biopolitico dell’eugenetica, in R. PRODOMO (a cura di), La nascita. I mille
volti di un’idea, Giappichelli, Torino 2006, pp. 129-150.
22 Darwin teorico del postumano

Francis Galton, proprio nell’opera in cui concettualizza la «scienza del


perfezionamento della specie umana», ritorna ripetutamente sulla legit-
timità dell’analogia tra lo «straordinario» lavoro di domesticazione eser-
citato dall’uomo sulle piante e sugli animali e, in prospettiva, l’altrettanto
straordinario lavoro di domesticazione esercitabile dall’uomo su se stesso.
È infatti sul presupposto della riconosciuta sperimentalità dell’anthropos
che Galton può avanzare l’auspicio, per un uomo finalmente emancipatosi
dagli ingombranti limiti di polverose metafisiche e di desuete tipologie11,
di «plasmare il corso dell’umanità futura»12. «Plasmare» («shaping») sta
qui per «forgiare», come se si trattasse letteralmente di sperimentare e
produrre nuove forme di umanità e non semplicemente di migliorare i
“tipi” esistenti.
Forzando i termini del discorso, lo ripeto, accade esattamente quel che
Sloterdijk coglie nella fenomenologia dell’atto terroristico: «Le [nuove]
armi del terrore – dice il filosofo tedesco - sono quelle che rendono più
esplicite le condizioni di vita; nuove forme di attentato aprono, nel modo
della brutta sorpresa, nuove superfici di vulnerabilità». La selezione natu-
rale, alla stregua di un atto terroristico del sapere sulla vita, rende infatti
più esplicite le condizioni di vita dei viventi, ne mostra l’intrinseca se-
lezionabilità e sperimentalità, ne ridefinisce l’ontologia e, così facendo,
ne apre inevitabilmente, per esempio attraverso la prospettiva eugenetica,
«nuove» e impensate «superfici di vulnerabilità»13.
Infine, il terzo implicito della vita a essere esplicitato dalla selezio-
ne naturale è quello relativo alla sua fabbricabilità. Che la dimensione
della vita, ovvero del dato naturale, cominci effettivamente a ibridarsi
con la dimensione della volontà, dello scopo e dell’artificio, lo attestano
in modo incontrovertibile le stesse parole di Darwin. Si pensi a quello

11 La transizione dal pensiero tipologico-essenzialistico a quello evoluzionistico-


darwiniano trova proprio nella statistica popolazionale di Galton un passaggio
fondamentale. Come osserva Mayr, egli ebbe «dell’unicità dell’individuo una
percezione più chiara di tutti i suoi contemporanei». E. MAYR, Storia del pen-
siero biologico. Diversità, evoluzione, eredità (1982), tr. it. a cura di P. Corsi,
Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 645. Ciononostante va segnalato che Gal-
ton rimane comunque legato a una biologia tendenzialmente tipologica. Cfr. E.
SOBER, op. cit., p. 218 e J. MAYNARD SMITH, in M. KEINES (ed. by), Sir
Francis Galton. The Legacy of his Ideas, MacMillan Press, London 1993, pp.
162-164.
12 F. GALTON, Inquiries into Human Faculty and its Development (1883), Mac-
millan, London 1892, p. 218.
13 P. SLOTERDIJK, Terrore nell’aria, cit., p. 21.
Un laboratorio di forme sperimentali 23

che il naturalista, ragionando intorno al problema della «variazione allo


stato domestico» degli organismi, scrive nel primo capitolo dell’Origine,
quando smentisce il luogo comune della “purezza” delle razze e spiega
che in realtà esse non sono altro che delle «fabbricazioni» dell’uomo:
«La teoria dell’origine delle razze domestiche da numerosi ceppi selvati-
ci originari è stata spinta fino all’assurdo da alcuni autori, secondo i qua-
li ogni razza che si mantiene pura [...] ha avuto un prototipo selvatico»14.
Credenza «assurda», osserva un Darwin insolitamente irritato. Da dove
questa insofferenza? A mio parere proprio dalla nuova comprensione
della vita, dalla sua risemantizzazione in chiave sperimentale. È infatti
la scoperta della «plasticità» del vivente15, la scoperta della sua speri-
mentalità a indurre il grande naturalista a dire senza mezzi termini che
l’uomo «si è fabbricato le razze che gli sono vantaggiose»16. Con mossa
degna di un “pensatore del sospetto” Darwin smaschera, per così dire, le
condizioni materiali di esistenza di una forma fin lì ritenuta pura e quello
che nei manuali di zoologia e di antropologia fisica era dato pressoché
per scontato, vale a dire il carattere archetipico della razza, viene da lui
integralmente smentito arrivando ad assumere la razza come l’esito di un
peculiare processo di fabbricazione. Ma ancora non è tutto. La fabbrica-
bilità va infatti estesa alla vita come tale e non solo a quella sottoposta
all’artificialità dei processi di domesticazione. Se così fosse, se cioè Dar-
win si limitasse a parlare di fabbricazione del vivente solo in relazione

14 C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 92. Se nell’Origine parla di teoria


«assurda», in seguito arriverà a giudicare la credenza nella “purezza” originaria
delle razze come una vera e propria «superstizione». ID., Variazione degli ani-
mali e delle piante allo stato domestico (1868), tr. it. traduzione italiana sulla 2.
ed. inglese col consenso dell’autore di Giovanni Canestrini, Unione tipografico-
editrice, Torino 1876, p. 321. Corsivo mio.
15 Il termine «plastico» viene utilizzato più volte da Darwin per descrivere lo stato
degli esseri viventi sia allo stato domestico sia a quello selvatico. A proposito del
primo osserva che «Gli allevatori parlano abitualmente dell’organismo di un ani-
male come qualcosa di plastico, che essi possono modellare quasi a loro piacere»,
o che «Si può dire che allo stato domestico l’intera organizzazione diviene in
qualche modo plastica». Mentre a proposito dello stato selvatico, osserva: «Senza
volerlo, l’uomo espone gli esseri viventi a nuove e mutevoli condizioni di vita, e
da ciò consegue la variabilità. Ma cambiamenti simili di condizioni potrebbero
avvenire, e avvengono infatti, allo stato di natura». Se ne deduce il carattere in-
trinsecamente plastico degli organismi anche allo stato selvatico. C. DARWIN,
op. cit., pp. 101-102; 146. Ma si vedano anche le pp. 87 e 197. Cfr. anche ID,
Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, cit., p. 495.
16 ID., L’Origine delle specie, cit., p. 101.
24 Darwin teorico del postumano

alla domesticazione, l’ibridazione concettuale da lui azzardata tra natu-


ra e artificio non rappresenterebbe la novità che effettivamente rappre-
senta17. Ebbene, Darwin estende la condizione di fabbricabilità alla vita
come tale nel secondo capitolo dell’Origine, quello dedicato alle «varia-
zioni allo stato di natura», dove egli parla apertamente di «processi di
fabbricazione di nuove specie»18. La natura, osserva Darwin, «fabbrica»
essa stessa nuove specie; ma se la natura fabbrica nuove specie non può
che dedursene il carattere implicitamente artefattuale degli organismi.
Insomma, nella misura in cui la selezione naturale ci dice della selezio-
nabilità degli organismi, nella misura in cui la loro conseguente rubrica-
zione da enti dati a enti selezionati in continua fase di sperimentazione ci
dice della loro sperimentalità, così la fabbricazione delle specie viventi
ci dice della loro fabbricabilità.
La teoria della vita formulata dal naturalista vittoriano sembra quindi
destinata sin dall’inizio a superare i confini del sole scienze biologiche. Nel
corso degli ultimi lustri del XIX secolo la selezionabilità, la sperimentali-
tà e la fabbricabilità diventano i nuovi trascendentali della vita e forse non
è privo di interesse il fatto che lo stravolgimento semantico della parola
chiave del XX secolo19 verrà effettuato nell’ambito di una teoria che, nel
momento stesso in cui chiama in causa aspetti impensati dei viventi, si
chiama fuori da qualsiasi tentativo di darne una esplicita definizione20.

2. Potenziale creativo della selezione darwiniana

In un originale saggio tra estetica, critica letteraria e biologia evolu-


zionistica, Margot Norris osserva che Darwin «traccia tali analogie tra la

17 L’idea della producibilità delle razze allo stato domestico era da tempo sufficien-
temente chiara agli allevatori. Ecco cosa scrive, per esempio, John Wilkinson, un
trattatista particolarmente apprezzato da Darwin, in una lettera del 1820: «Noi
sappiamo che razze distinte possono facilmente essere formate dagli sforzi con-
giunti della natura e dell’artificio. […]
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Esse possono essere selezionate attingen-
do dall’intera orda». J. WILKINSON, Remarks on the Improvement of Cattle, in
a letter to Sir John Saunders Selbright, Bart. M. P., Nottingham 1820, pp. 4-5.
18 C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 126.
19 H. PLESSNER, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia
filosofica (1928). tr. it a cura di V. Rasini, Torino, 2006, p. 27.
20 André Pichot spiega che Darwin, contrariamente alla tradizione dei naturalisti
che lo precedono, non si impegna mai nel tentativo di dare una definizione della
vita. Cfr. A. PICHOT, Histoire de la notion de vie, Gallimard, Paris 1993, p.
763.
Un laboratorio di forme sperimentali 25

selezione artificiale e quella naturale da attribuire, anche se se non proprio


in senso effettivo, un potere creativo alla selezione naturale»21. La Norris
avrebbe potuto essere anche un po’ meno guardinga: la selezione darwi-
niana presenta effettivamente questa importante specificità, essa è cioè
un’attività creativa e non semplicemente eliminativa. Anzi non è esagerato
dire che nel passaggio da eliminazione a creazione ne va dell’originalità
dell’intera teoria.
Conway Zirkle ha ampiamente dimostrato che si può parlare di sele-
zione naturale anche prima di Darwin 22. Empedocle, Lucrezio, Diderot,
Rosseau, Maupertius e Blyth, solo per citarne alcuni, rappresenterebbero
altrettanti casi di «selezione naturale prima de l’Origine delle specie». Può
un’affermazione essere esatta e tuttavia non essere vera? Quest’afferma-
zione di Zirkle ne è la prova.
Dire, come ha fatto Zirkle, che anche prima di Darwin siano state elabo-
rate delle concezioni selettive di forze naturali nei confronti di alcuni tipi di
organismi è per molti aspetti esatto. Si pensi solo a quello che sembra essere
il caso più eclatante di “anticipazione” della selezione naturale, ovvero alle
teorie elaborate dal naturalista inglese Edward Blyth, il quale in alcuni ar-
ticoli pubblicati negli anni ’30 del XIX secolo fa riferimento, per esempio,
alla capacità di «variare» degli individui, ai loro cambiamenti («semplici» e
«acquisiti») verificatisi sia allo stato naturale sia a quello domestico, quindi
alle pratiche «selettive» degli allevatori, alla circostanza secondo cui «il più
forte deve prevalere sempre sul più debole» e alla successiva sopravvivenza
di alcuni piuttosto che di altri. Sembra proprio che Blyth abbia la “darwi-
niana” consapevolezza di qualcosa come la differenza selettiva nel tasso ri-
produttivo delle diverse «varietà» di organismi e, quindi, di un processo tale
da comprendere sia l’estinzione di alcune varietà sia la produzione di nuove.
Ma non è così. Quando Blyth parla di «lotta per l’esistenza» e di sopravvi-
venza di alcuni e non di altri, fa sì riferimento a un processo selettivo, ma a
un processo selettivo di tipo esclusivamente «eliminativo». La selezione di
cui parla Blyth non produce nuove forme ma ne tutela l’originaria tipologia.
Si tratta di una selezione che non crea ma che preserva.
Quando Blyth parla di «selezione» intende solo ed esclusivamente una
selezione finalizzata alla conservazione della perfezione del «tipo», cioè

21 M. NORRIS, Darwin, Nietzsche and Kafka, and Problem of Mimesis, in «MLN.


Modern Language Notes», Vol. 95, n. 5 (Dec., 1980), pp. 1232-1253, in partico-
lare cit. p. 1233.
22 C. ZIRKLE, Natural Selection before the “Origin of Species”, in «Proceedings
of the American Philosophical Society», vol. 84, n. 1 (1941), pp. 71-123.
26 Darwin teorico del postumano

del prototipo che nella prospettiva della biologia pre-darwinina incarne-


rebbe tutte le qualità originarie e, proprio per questo, perfette della specie.
«La forma originaria di una specie – osserva Blyth - è senza dubbio meglio
adattata alle sue condizioni naturali di qualsiasi altra sua modificazione»23,
ovvero «ogni individuo che devia dalla condizione normale è un indivi-
duo incapace di qualche prestazione essenziale»24. È questa incapacità a
renderlo «degenerato» e pertanto oggetto dell’attività selettiva, cioè elimi-
nativa della natura. È chiaro, quindi, come in un contesto eminentemente
tipologico «selezionare» diventi sinonimo di «eliminare» ed è per questo
che Ernst Mayr esclude la possibilità stessa di parlare, in contesti essen-
zialistici, di una «teoria della selezione», preferendo invece l’espressione
di «teoria dell’eliminazione»25.
La potenza creatrice della selezione può emergere solo con il supera-
mento di un’idea tipologica di natura in direzione di una integralmente
evoluzionistica e popolazionale. La selezione può cioè rivelare una poten-
za creatrice se e solo se, come scopre Darwin, anche la più lieve variazione
può esser letta come l’indizio di una «specie incipiente»26. Ecco perché la
selezione darwiniana è diametralmente opposta alle «selezioni» che pure
l’hanno preceduta. Essa, per così dire, può avere un senso solo nella mi-
sura in cui la biologia tipologica smarrisce ogni suo senso possibile. È
pertanto esatto dire, come ha detto Zirkle, che ci sono stati «numerosi
casi di selezione naturale precedenti l’Origine delle specie», solo che in

23 E. BLYTH, Attempt to Classify the “Varieties” of Animals, with Observations on


the Marked Seasonal and Other Changes Which Naturally Take Place in Various
British Species, and Which Do Not Constitute Varieties, in «Magazine of Natural
History», 8 (1835), pp. 40-53, cit. p. 46.
24 ID., Psychological Distinctions Between Man and Other Animals, in «Magazine
of Natural History», 10 (1837), I, p. 147.
25 E. MAYR, Storia del pensiero biologico, cit., p. 435.
26 Darwin sancisce la scomparsa di ogni soluzione di continuità tra «specie», «sot-
tospecie», «varietà» e «differenze individuali», riconoscendo in quest’ultime il
primo, necessario, stadio di trasformazione di ciò che successivamente, in deter-
minate circostanze, potrà originare una specie. Tra tutti questi stadi, così cari ai
sistematici, si danno secondo Darwin differenze «che si fondono l’una nell’altra
per gradi insensibili». Tra variazione e specie, osserva Darwin con acume da
filosofo ancor più che da naturalista, è quindi «osservabile una serie che suggeri-
sce l’idea di una trasformazione reale». C. DARWIN. L’Origine delle specie, cit.,
p. 122. È per questa ragione che osserva: «Una varietà ben distinta può quindi
chiamarsi una specie incipiente […]». Ibid., p. 123. Su questo si veda, in parti-
colare, il paragrafo dell’Origine dedicato al «principio di divergenza». Ibid., pp.
173-179.
Un laboratorio di forme sperimentali 27

questo caso l’esattezza di un’affermazione piuttosto che garantire da un


fraintendimento ne è una garanzia. Collocare la selezione naturale elabo-
rata da Darwin in un contesto pre-evoluzionistico e non popolazionale,
quindi insensibile alla significatività evolutiva di ogni singola variazione
di ogni singolo organismo, significa destituirla di senso e collocarla fuori
dalla sua verità.
Tuttavia la potenza creatrice della selezione darwiniana rappresenta un
tale punto di svolta nella storia del pensiero biologico che neppure la sua
collocazione in un contesto genuinamente evoluzionistico ne costituisce
un sicuro motivo di comprensione. Il contesto evoluzionistico è, per così
dire, condizione necessaria ma non sufficiente affinché se ne possa valu-
tare il suo caratteristico potere di forgiare nuove forme di vita, ovvero la
sua caratura biotecnologica. Lo dimostrano il caso di Herbert Spencer e,
ancor più, quello del «co-scopritore» della selezione naturale, Alfred Rus-
sel Wallace. Per ora concentriamoci su Spencer.
Spencer non solo è stato riconosciuto come uno dei possibili precursori
dell’idea di selezione naturale, ma da alcuni ne è stato indicato come un
suo chiaro «anticipatore»27. In effetti Spencer ha esercitato un’influenza
diretta su Darwin, tanto da indurlo a correggere, smussare e integrare la
metafora della selezione naturale con quella della «sopravvivenza del più
adatto», coniata da Spencer già nei primi anni ̓5028. Oltre allo stesso Spen-
cer è anche l’amico e collega Wallace a invitarlo a rivedere la sua «espres-
sione metaforica», facendogli notare la maggiore congruenza dell’espres-
sione spenceriana: «”sopravvivenza del più adatto” è l’espressione nuda
e cruda del fatto; “selezione naturale” ne è un’espressione metaforica e,
in una certa misura, indiretta e inesatta, dato che, anche personificando-
la, la natura non tanto seleziona variazioni speciali quanto stermina le

27 Cfr. M. HARRIS, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teo-
ria della cultura (1968), tr. it. di P. G. Donini e M. Sofri, Il Mulino, Bologna 1971,
p. 173.
28 Clayes fa risalire l’espressione ad un articolo di Spencer del 1852: H. SPENCER,
A Theory of Population Deduced from the General Law of Animal Fertility, in
«Westimnster Review», LVII (o. s.), I, pp. 468-501. Cfr. G. CLAYES, The “Sur-
vival of the Fittest” and the Origins of Social Darwinism, in «Journal of the His-
tory of Ideas», 61, pp. 223-240, in particolare cit. p. 227. Questo
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articolo costitui-
rà la base della sesta e ultima parte dei Principle of Biology, l’opera in cui, come
vedremo, Spencer fa aperto riferimento alla nozione darwiniana di «selezione
naturale» invitandolo a sostituirla con la propria, appunto con quella di «soprav-
vivenza del più adatto». Cfr. H. SPENCER, Principles of Biology, Williams &
Borgate, London 1864-67, p. 444-445.
28 Darwin teorico del postumano

più sfavorevoli»29. Spinto da tali pressioni Darwin “cede” e in omaggio a


Spencer, a partire dalla quinta edizione de L’Origine (1869), decide di ac-
compagnare la descrizione del principio della selezione naturale con que-
sta frase: «Ma l’espressione “sopravvivenza del più adatto”, spesso usata
da Herbert Spencer, è più idonea e talvolta ugualmente conveniente»30.
Le due metafore, quella selezionista e quella adattazionista, sembrereb-
bero dunque effettivamente sovrapponibili. Una medesima legge di na-
tura parrebbe essere nominata sia dalla «selezione naturale» che dalla
«sopravvivenza del più adatto». Non è solo Spencer a riconoscerlo, ma
è anche lo stesso Darwin: l’espressione di Spencer, dice, «è più idonea
e talvolta ugualmente conveniente». Ora, se del magniloquente filosofo
del progresso una qualche riserva sarebbe pur comprensibile averla, del
discreto naturalista ritiratosi nella campagna del Kent saremmo portati ad
avere un’incondizionata fiducia. Tra la forza attiva della selezione e quella
passiva dell’adattamento, tanto per esprimerci in termini nicciani, parreb-
be non esserci alcuna differenza sostanziale. Ma anche di Darwin c’è poco
da fidarsi, soprattutto quando si tratta di fare delle concessioni a esimi
colleghi e illustri intellettuali. Come è noto Darwin è uomo geniale quanto
modesto: quando può riconoscere ad altri meriti che invece competereb-
bero a lui non si tira indietro, anche a costo di sminuire l’originalità e, in
certi casi, le specificità delle proprie teorie. E infatti, contrariamente a quel
che ammette, la metafora spenceriana non rende affatto il senso enorme-
mente più complesso della “sua” selezione. Come ha osservato Antonello
La Vergata, la «teoria spenceriana della “sopravvivenza del più adatto”,
apparentemente così simile alla selezione naturale del maltusiano Darwin,
[è] in realtà [molto] diversa per presupposti, statuto e implicazioni»31. È
proprio su questa diversità che si installa il potenziale creativo della sele-
zione concepita da Darwin.

29 A. R. WALLACE, lettera del 2 luglio del 1866 riportata in J. MARCHANT, Al-


fred Russel Wallace: Letters and Reminiscences, vol. 2, Harper Bros, New York
1916, pp. 140-143. Interessante anche le prime righe della risposta di Darwin,
puntualmente “accomodanti”: «Sono completamente d’accordo con quello che
dici sui vantaggi dell’eccellente espressione di Spencer della “sopravvivenza del
più adatto”», C. DARWIN, lettera del 5 luglio del 1866 riportata in F. DARWIN,
The life and letters of Charles Darwin, including an autobiographical chapter,
vol. 3, John Murray, London 1887. p. 46.
30 C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 131.
31 A. LA VERGATA, Nonostante Malthus. Fecondità, popolazioni e armonia della
natura, 1700-1900, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 145.
Un laboratorio di forme sperimentali 29

La «selezione naturale», per Spencer, non è altro che la versione bio-


logica della fondamentale legge fisica, sociale e morale secondo cui tutto
procederebbe «da una omogeneità indefinita e incoerente a una eteroge-
neità definita e coerente»32. Posto di fronte al concetto di selezione natu-
rale, il problema di Spencer diventa allora questo: perché dare un nuovo
nome a un concetto già efficacemente espresso? Perché indicare, relati-
vamente alla realtà biologica, la «legge cosmica» della «sopravvivenza
del più adatto» con l’espressione pericolosamente antropomorfizzante
di «selezione naturale»? È da questa prospettiva che Spencer promuove
con riserva, per dir così, la selezione naturale di Darwin, la quale espri-
me sì una verità ma non altrettanto adeguatamente della meccanicistica
«sopravvivenza del più adatto». Agli occhi dell’evoluzionista cosmico è
inutile cercare di capire, come si sforza di fare Darwin, se la selezione
“premia” gli adatti ad un livello individuale, di gruppo oppure specifico,
poiché l’universalità dell’adattamento investe ogni livello della realtà,
fisica o organica che sia.
Si può dire che Spencer finisce col cozzare contro gli stessi “limiti” in-
contrati da Blyth: la «sopravvivenza del più adatto» viene concepita come
un meccanismo eliminativo e non fabbricativo33. Essa è immaginata come
un principio che elimina tutto ciò che si rivela inadatto alle circostanze
in un determinato “campo di forze” e non come un principio in grado di
produrre delle nuove strutture in lenta ma netta discontinuità rispetto alle
potenzialità organiche già espresse. Il punto è questo: la «sopravvivenza
del più adatto» origina un processo teoricamente prevedibile, sviluppan-
do al massimo livello di organizzazione ciò che in un primo momento si
presenta rozzamente indifferenziato, mentre la «selezione naturale» origi-
na un processo essenzialmente imprevedibile, dove non è in gioco alcuno
“sviluppo” (concetto embriologico e ontogenetico più che filogenetico e
evoluzionistico) perché si tratta di produrre delle forme di vita radicalmen-
te e strutturalmente nuove, quindi non meramente più complesse. È per
questo che a Spencer può andar bene anche la metafora del «setaccio» (sif-
ting) che separa l’adatto dall’inadatto (senza però creare nulla), mentre per

32 ID., A System of Synthetic Philosophy, voll. 4-5 (The Principles of Psychology),


Williams and Norgate, London 1870-72, p. 396.
33 Per una più ampia ricognizione dei problemi in questione si veda J. GAYON, Sé-
lection naturelle ou survie des plus aptes? Eléments pour une historie du concept
de fitness dans la théorie évolutioniste, in C. Blanckaert, J. L. Fischer e R. Rey,
(ed.) Nature, Historie, Société: hommage à Jacques Roger, Klincksieck, Paris
1995, pp. 263-287.
30 Darwin teorico del postumano

Darwin non c’è reale alternativa all’analogia con la domesticazione34. Solo


la domesticazione, infatti, può render conto del fenomeno della «specia-
zione», cioè della produzione e «fabbricazione» di nuove forme organiche.
Del resto, «Se la selezione consistesse nel separare qualche varietà netta-
mente differenziata e farla riprodurre, il principio sarebbe di tale evidenza
che non metterebbe conto discuterlo»35. Ma per l’appunto non si tratta solo
di questo: «La sua importanza consiste nel grande effetto prodotto dall’ac-
cumularsi in una sola direzione, nel corso delle generazioni, di differenze
assolutamente inapprezzabili per occhi inesperti, differenze che io stesso
ho tentato invano di scoprire»36. È il prodursi di questo «grande effetto»
che sancisce l’incommensurabilità tra la prospettiva di Darwin e quella di
Spencer, e di conseguenza tra le loro metafore.

3. «Animali artificiali». Darwin vs Wallace

Nel giugno del 1858 Darwin riceve da Wallace la celebre lettera che lo
indurrà a rompere ogni indugio circa l’opportunità di pubblicare quello
che nella sua corrispondenza talvolta chiama il «mio grande libro sulle
specie» («my big species book»)37. Alla lettera Wallace allega un mano-
scritto, Sulla tendenza delle varietà ad allontanarsi indefinitamente dal
tipo originario38, che per la sua straordinaria coincidenza con quanto da

34 Cfr. J. GAYON, Darwinism’s Struggle for Survival. Heredity and the hypothesis
of natural selection (1992), tr. by M. Cobb, Cambridge University Press, Cam-
bridge 1998, p. 53.
35 C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 102.
36 Ibid.
37 Cfr. F. DARWN, The life and letters of Charles Darwin, vol. 2, cit., pp. 41 e 85.
Si tratta di due lettere, una del 1853 indirizzata a J. D. Hoocker e l’altra del 3 ot-
tobre 1856 indirizzata a W. D. Fox. Quando Darwin riceve la lettera di Wallace,
nel luglio del ’58, aveva già scritto ben 11 capitoli di quello che avrebbe dovuto
essere il suo «grande libro sulla discendenza per modificazione attraverso la se-
lezione naturale», da intitolarsi, sempre secondo i suoi progetti, Natural Selec-
tion. Questo lavoro verrà poi sviluppato da Darwin sia nella stesura de L’origine
delle specie (1859) sia in quella de La Variazione delle piante e degli animali allo
stato domestico (1868). Cfr. R. C. STAUFFER, Charles Darwin’s Natural Selec-
tion, Being the Second Part of His Big Species Book Written from 1856 to 1858,
Cambridge University Press, Cambridge 1975.
38 A. R. WALLACE, On the Tendency of Varieties to depart indefinitely from the
Original Type, in C. DARWIN and A. R. WALLACE, On the tendency of species
to form varieties; and on the perpetuation of varieties and species by natural
Un laboratorio di forme sperimentali 31

Darwin maturato – e non ancora pubblicato - nel corso di una ricerca


più che ventennale, rischia di gettarlo nel panico39. Ecco cosa scrive di
lì a poco all’amico e autorevolissimo geologo Charles Lyell: «Il vostro
avvertimento che sarei stato preceduto si è rivelato oltremodo vero. [...]
Non ho mai visto una coincidenza più sorprendente; se Wallace avesse
avuto l’abbozzo del mio manoscritto del 184240 non avrebbe potuto farne
un compendio migliore! [...] Così tutta la mia originalità, qualunque essa
fosse, va in fumo»41. E, come se non bastasse, nell’autobiografia arriva a
sentenziare: «This essay contained exactly the same theory as mine»42. Ma
anche in questo caso c’è poco da fidarsi. Sebbene di natura sostanzialmen-
te differenti rispetto a Spencer, anche tra Darwin e Wallace è possibile
individuare delle discordanze teoreticamente molto significative sul con-
cetto di selezione naturale.
A dire il vero non sono molti gli studiosi che hanno prestato la dovuta
attenzione alla distanza che separa i due “scopritori” della selezione natura-
le. Tuttavia, pagine pregevoli su questo punto le ha scritte Jean Gayon, che
chiarisce: «Darwin e Wallace erano d’accordo sulle implicazioni generali
del principio di selezione, vale a dire sulla teoria della selezione naturale, ma
divergevano sul significato dell’ipotesi centrale. Mentre erano d’accordo sul
fatto che la selezione naturale dovesse implicare una riorganizzazione della
storia naturale, tra i due non c’era la medesima comprensione del processo
della selezione, o comunque su quel che Darwin intendeva per processo di
selezione»43. Tra i due c’è una comunanza di temi e di concetti, dalla lotta
per l’esistenza alla divergenza dei caratteri, dalla pressione popolazionale
alla convertibilità delle varietà in specie. In entrambi c’è un definitivo supe-
ramento della biologia sistematica e, soprattutto, c’è una rappresentazione

means of selection [Read 1 July], in «Journal of the Proceedings of the Linnean


Society of London», Zoology 3, 1858, pp. 53-62.
39 Cfr. F. FOCHER, L’uomo che gettò Darwin nel panico. La vita e le scoperte di
Alfred Russel Wallace, Bollati Boronghieri, Torino 2007, in particolare p. 123.
Uno dei meriti del testo di Focher è quello di riportare ampie citazioni dei testi di
Wallace, altrimenti ancora inediti in italiano.
40 Darwin si riferisce al famoso Pencil Sketch, in cui per la prima volta egli riassu-
me quella che poi diventerà la sua teoria dell’evoluzione. Il manoscritto è apparso
per la prima volta in F. DARWIN, The foundations of The origin of species. Two
essays written in 1842 and 1844, Cambridge University Press, Cambridge 1909,
pp. 1-53.
41 F. DARWIN, The life and letters of Charles Darwin, vol. 2, cit., p. 116-117
42 Ibid., vol. 1, p. 85.
43 J. GAYON, Darwinism’s Struggle for Survival, cit., p. 22.
32 Darwin teorico del postumano

temporale della vita come serie di ramificazioni casuali44. Convergenze tutte


sostanziali, tanto che Wallace è tra i primi a definirsi, non senza generosità,
un «darwinista»45. Ma su di un punto la distanza è netta, e cioè sulla legit-
timità dell’analogia tra selezione naturale e domesticazione artificiale. Ciò
essenzialmente per due motivi.
Il primo lo abbiamo già visto: parlare di «selezione naturale» è per Wal-
lace un modo naïve di rappresentare l’operato della natura, personificandola
e lasciandola quindi immaginare come un grande «selezionatore» fornito
di volontà e scopi. È per questo che Wallace giudica la selezione naturale
come una metafora «indiretta e inesatta». Ma questa è un’obiezione acces-
soria. L’obiezione principale che Wallace muove a Darwin riguarda invece
la possibilità stessa di inferire dallo stato domestico alcun principio che
possa valere anche per lo stato naturale. L’obiezione di Wallace è dunque
strutturale: mina alla base il modello epistemologico darwiniano esclu-
dendo ogni possibilità di estendere al dominio del naturale condizioni di
conoscibilità riconosciute valide entro il dominio dell’artificiale. È facile
capire che se l’obiezione di Wallace si tenesse in piedi verrebbe erosa in
un sol colpo la legittimità dell’intersecazione concettuale tra tecnica e vita
promossa, a mio avviso, dalla nuova visione darwiniana del vivente.
Wallace rifiuta l’analogia con la domesticazione in virtù di un principio
paradossalmente molto caro ai fissisti, il principio di “reversione”, secon-
do cui le specie domestiche una volta lasciate allo stato selvatico ritornano
progressivamente al loro “tipo” originario, «pena la totale estinzione»46.
La tendenza a variare «di certe classi di varietà» verso forme «sempre
più lontane dal tipo originario» si dà solamente in natura, dove «non vi
sono ragioni per assegnarle alcun limite definito»47. Per Wallace, quindi,
la produzione di una nuova, stabile, forma di vita, può dunque darsi solo
in natura e non nella condizione artificiale della domesticazione. Per quale

44 È per questo che Giulio Barsanti può legittimamente dire che «Seppure non
identica, la teoria di Wallace era largamente sovrapponibile alla darwiniana».
G. BARSANTI, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi,
Torino 2005, p. 237.
45 Cfr. A. R. WALLACE, Darwinism: An Exposition of the Theory of Natural Se-
lection, with Some of Its Application, Macmillan, London 1889. ���������������
Nelle prime pa-
gine del libro Wallace riconosce apertamente in Darwin «l’uomo della nostra
epoca più adatto alla grande impresa che ha iniziato» (p. VII).
46 A. R. WALLACE, On the Tendency of Varieties, cit. p. 60. Il����������������������
corsivo è di Walla-
ce. Ora anche in F. FOCHER, op. cit., p. 132.
47 Ibid., p. 62. In F. FOCHER, op. cit., p. 134.
Un laboratorio di forme sperimentali 33

motivo? Per quello che poi Wallace poi chiamerà il «principio di utilità»48,
secondo cui ogni carattere, organo, istinto, forma e così via, deve la sua ra-
gion d’essere al fatto di costituire un vantaggio per l’organismo che lo de-
tiene. Secondo Wallace gli organismi addomesticati, per il fatto di essere
accuditi, nutriti, protetti, insomma preservati dalla “normale” condizione
di lotta per l’esistenza, cominciano a sviluppare caratteri di fatto svincolati
da ogni reale criterio di utilità, che mai avrebbero sviluppato in condizioni
selvatiche, e quindi cominciano ad assumere forme che possono mantene-
re solo fintantoché rimangono entro le artefatte condizioni di domestica-
zione. «Gli animali domestici sono anormali, irregolari, artificiali, sono
soggetti a variazioni che non si verificano mai, e mai si potranno verificare
in natura; [...] molti di essi sono lontanissimi da quella giusta proporzione
fra le varie facoltà, da quel vero equilibrio organico che è l’unica cosa che
permette a un animale, lasciato a se stesso, di sopravvivere e di perpetuare
la propria razza»49. Gli animali domestici sono «artificiali», osserva Wal-
lace, e in virtù di questa loro artificialità non possono, né mai potranno
costituire dei modelli da cui inferire processi genealogici validi anche per
gli animali selvatici, ossia «naturali». «I due gruppi sono talmente opposti
l’uno all’altro in qualunque aspetto della loro esistenza, che ciò che vale
per il primo è quasi certo che non vale per il secondo»50.
Diametralmente opposte a quelle di Wallace sono le conclusioni di Dar-
win, secondo cui l’artificialità degli animali domestici non rappresenta
alcun impedimento alla comprensione della naturalità degli animali sel-
vatici. L’autore de l’Origine rovescia completamente il ragionamento di
Wallace e mostra che le genealogie osservabili allo stato domestico rical-
cano fedelmente quelle che si producono anche allo stato naturale. A suo
giudizio tra gli animali artificiali e quelli naturali sussiste la medesima
ontologia: «Benché la tendenza alla riversione sia assai generale [...], non si
può considerarla come caratteristica in un modo invariabile, ma vi è anche
luogo a credere ch’essa possa essere vinta da una selezione prolungata per
lungo tempo»51. Per Darwin variazione, selezione e tempo possono quindi
fabbricare nuove forme di organismi e fissare caratteri parimenti irrever-

48 ID., The problem of utility: are specific characters always or general useful?, in
«Journal of the Linnean Society», 25, 1896, pp. 481-496.
49 A. R. WALLACE, On the Tendency of Varieties, cit. p. 61. In F. FOCHER, op.
cit., p. 132. Corsivo mio.
50 Ibid.
51 C. DARWIN, Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, cit., p.
279.
34 Darwin teorico del postumano

sibili, indipendentemente dal tipo, naturale o artificiale, di selezione. «Il


tempo permette ancora la fissazione d’un carattere nuovo, mettendo da
parte continuamente gli individui che subiscono una reversione o variano,
e conservando quelli che ereditano il nuovo carattere»52. La selezione, sia
artificiale che naturale, predomina sulla reversione: «Perciò io ho parlato
della selezione come della potenza principale, sia applicata dall’uomo alla
formazione delle sue razze domestiche, sia impiegata dalla natura alla pro-
duzione delle specie»53.
Per Darwin, insomma, l’irreversibilità delle variazioni deve valere an-
che se si tratta di variazioni domestiche, altrimenti verrebbe meno la po-
tenza creativa della selezione in generale. In estrema sintesi si può dire
che mentre per Wallace e la biologia (di fatto o di nome) pre-darwiniana54
la forza inerziale del tipo prevale su quella modificativa della selezione,
per Darwin è esattamente il contrario, e cioè la forza modificativa della
selezione tende a superare quella inerziale del tipo.
È inoltre importante segnalare che diversamente da Wallace e da tutti
i naturalisti prima di lui, per Darwin anche l’eredità diventa una catego-
ria biologica dinamica, fuoriuscendo così dal suo tradizionale senso di
statica perpetuazione. Per Darwin, infatti, l’eredità non trasmette alcun
tipo ma trasmette una variazione. In Darwin, osserva Gayon, variazio-
ne ed eredità diventano due «concetti gemelli»55. Nella cornice teorica
darwiniana l’eredità acquista un significato dinamico perché non è più
il presupposto della purezza e della costanza di una forma quanto della
sua progressiva modificabilità in direzioni sempre nuove: l’eredità diven-
ta per Darwin un commutatore di categorie biologiche tradizionalmen-
te concepite come ontologicamente distinte. “Tipo”, “specie”, “varietà”
e “razza”, poste nell’orizzonte darwiniano, arrivano infatti a convertirsi
l’una nell’altra, e ciò proprio grazie all’ereditarietà delle variazioni che
ogni organismo può presentare e che, in determinate condizioni, si trova a
trasmettere a una progenie sempre più numerosa e, soprattutto, progressi-
vamente sempre più lontana rispetto al tipo originario. «Questa – osserva
ancora l’epistemologo francese - è la significativa lezione che Darwin trae

52 Ibid., p. 507.
53 Ibid., p. 508.
54 Gayon suggerisce che Wallace compie solo una rottura parziale rispetto alla bio-
logia tipologica e, quindi, solo un’apertura altrettanto parziale nei confronti del
pensiero popolazionale. Cfr. J. GAYON, Darwinism’s Struggle for Survival, cit.,
pp. 30-31.
55 Ibid., p. 39.
Un laboratorio di forme sperimentali 35

dall’esperienza degli allevatori: l’eredità non è una forza di fissità ma una


forza di fissazione»56. Quando gli allevatori compiono l’operazione così
poco naturale di inventare nuove razze, essi fanno quindi affidamento su
un principio così poco artificiale come la «forza di fissazione» veicolata
dall’eredità.
Come osserva Robert Young, Darwin, a differenza di Wallace, «esten-
de il principio della selezione dai desideri degli allevatori alla natura»57
e, in questo modo, pone le premesse per la dislocazione della vita in un
nuovo dominio, un dominio in cui natura e artificio diventano grandezze
pienamente commensurabili. Pietro Omodeo, a sua volta, fa notare che
con Darwin «Il rapporto tra selezione artificiale e selezione naturale ac-
quista una fisionomia precisa: esso non viene veduto come una banale ana-
logia e nemmeno come una metafora, ma come specchio di un’autentica
corrispondenza di effetti dovuti a processi corrispondenti. Difatti, nella
società umana è l’allevatore che provvede a selezionare i migliori ripro-
duttori per il mercato, in natura responsabile della scelta è la capacità di
soddisfare i propri bisogni: cambia l’agente selettore, ma i processi riman-
gono eguali»58. Le parole di Young e quelle di Omodeo, pur nella diversità
delle loro prospettive, ci conducono a una medesima conclusione, ovvero
confermano come nella natura disegnata da Darwin la selezione diventi
una sorta di interfaccia tra la vita «naturale» dello stato selvatico e la vita
«artificiale» di quello domestico59, come cioè sussista nella visione darwi-
niana una considerevole sovrapponibilità tra la dimensione naturale e la
dimensione tecnicizzata del vivente.

56 Ibid., p. 49. Corsivo mio. A proposito della forza di fissazione di nuovi caratteri
individuata da Darwin nell’ereditarietà delle variazioni individuali e, ovviamen-
te, nella loro selezione cumulativa, è opportuno ricordare che egli trae molti e
importanti spunti dai trattati degli stessi allevatori, come Selbright e Wilkinson,
che dal canto loro avevano già cominciato a evidenziare come la selezione potes-
se avere effetti duraturi, pressoché irreversibili. Cfr. M. RUSE, Charles Darwin
and Artificial Selection, in «The Journal of the History of Ideas», vol. 36, 2 (Apr-
Jun 1975), pp. 339-350.
57 R. M. YOUNG, Darwin’s Metaphor. Nature’s Place in Victorian Culture, Cam-
bridge University Press, London-New York 1985. p. 54.
58 P. OMODEO, Ereditarietà e selezione nei programmi di Charles Darwin, in S.
FORESTIERO e M. STANZIONE, Selezione e Selezionismi, Franco Angeli, Mi-
lano 2008, p. 36. Corsivo mio.
59 È per questa ragione che mi sembra assai calzante l’espressione con cui Gayon
definisce la teoria darwiniana, vale a dire come una «teoria generale della sele-
zione» o, meglio ancora, come una «ontologia della selezione». Cfr. J. Gayon,
Darwinism’s Struggle for Survival, cit. p. 51; pp. 60-84.
36 Darwin teorico del postumano

4. La soglia di discontinuità biotecnologica

Tra la natura del teorico Darwin e i serragli degli empirici allevatori


emerge dunque una continuità concettuale e metodologica. La selezione
naturale appare come una sorta di imitazione della selezione artificiale così
come quest’ultima appare a sua volta come una sorta di imitazione della
selezione naturale; l’una con lo scopo di incrementare l’adattamento degli
organismi «naturali» al loro ambiente non ancora umanizzato, l’altra con
lo scopo di incrementare l’adattamento degli animali «artificiali» al loro
ambiente domestico. Tra le due selezioni, come osserva Kenneth Waters,
c’è una «relazione isomorfa»60, sussistono cioè medesimi meccanismi di
variabilità, ereditabilità e irreversibilità. Così come sussistono, è il caso di
aggiungere, medesime condizioni di selezionabilità, sperimentalità e fab-
bricabilità.
Facciamo ora un passo ulteriore e vediamo come tale isomorfismo fi-
nisca per investire il cuore stesso dell’idea di natura. Se, come dice Dar-
win, bisogna riconoscere la selezione come la «potenza principale» della
natura61, ne consegue che ciò che più di ogni altra cosa contraddistingue
la natura è, per l’appunto, un’attività di costruzione (Darwin, a proposito
della selezione naturale, parla di «produzione» e «formazione») e non di
preservazione. In Darwin la selezione è creazione e, pertanto, la natura che
ospita la selezione, la natura che nelle sue forme testimonia questa perenne
attività selettiva, non può che essere una natura radicalmente nuova rispet-
to a quella fin lì concepita dal pensiero biologico. Si potrebbe dire che la
natura, con Darwin, da collezione di tipi e prototipi diventa un laboratorio
di forme sperimentali, cioè un luogo di incessante costruzione di entità di
volta in volta nuove. Si potrebbe dire, ancora, che con Darwin la natura
diventa una realtà artefatta, cioè una realtà attraversata da una ricorsivi-

60 C. KENNETH WATERS, Taking Analogical Inference Seriously: Darwin’s Ar-


gument from Artficial Selection, in «Proceedings of the Biennial Meeting of the
Philosophy of Science Association», vol. 1, The University of Chicago Press on
behalf of the Philosophy of Science Association, Chicago 1986, p. 507. �������
Chiara-
mente l’isomorfismo con la selezione naturale vale in modo peculiare per quella
che Darwin definisce «selezione inconscia», cioè quella che «deriva dal desiderio
di ciascuno di possedere e moltiplicare gli individui migliori di ogni specie […]
senza tuttavia avere l’intenzione di cambiare la razza in modo permanente». C.
DARWIN, Origine delle specie, cit., p. 104. Insomma, una sorta di selezione
preterintenzionale.
61 C. DARWIN, Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, cit., p.
508.
Un laboratorio di forme sperimentali 37

tà di processi selettivi, produttivi e fabbricativi. Mettere la selezione al


centro della natura e fare della selezione qualcosa di più di un semplice
«setaccio», come invece la concepiva Spencer, è quindi un’operazione epi-
stemologicamente traumatica, equivale infatti a legittimare una visione
costruttiva e fabbricativa della realtà naturale rispetto a cui non pare più
tracciabile alcuna distinzione tra «ciò che è dato» e «ciò che è prodotto».
Certo, Darwin non penserà mai all’esistenza, in natura, di un designer in
grado di assemblare materiali in vista di uno scopo62, tuttavia ciò che la
sua visione della natura ci restituisce è un insieme di enti naturali pensabi-
li come l’esito di un determinato processo di produzione.
Sull’incrocio di queste dimensioni, la naturale e l’artificiale, occorre ora
fare un ulteriore approfondimento. Accanto al carattere tecnicamente creati-
vo della selezione darwiniana è infatti il caso di considerare anche il suo ca-
rattere concettualmente ibridativo. L’idea di selezione naturale, infatti, uni-
sce due realtà concettualmente distinte. Dire “selezione naturale” è come
dire che un artificio, vale a dire la selezione, non è artificiale: si tratta di una
evidente contraddizione di termini. La “selezione naturale” traspone l’arti-
ficiale nel naturale, vale a dire traspone la domesticazione in uno spazio non
ancora umanizzato, e fa sì che in natura possa rappresentarsi uno specifico
«processo senza soggetto», cioè una selezione senza selezionatore, al cui
cospetto, come Darwin comprende benissimo, risultano inservibili sia i mo-
delli teleologicamente orientati delle teologie naturali, per cui ad ogni realtà
complessa non può che corrispondere un progettista intelligente, sia quelli
meccanicisticamente strutturati delle scienze fisiche, per cui ogni fenomeno
non può che corrispondere a delle precise e ripetibili cause effettuali.
Amalgamando esemplarmente biologia di tipo descrittivo e quadro in-
terpretativo di tipo tecnologico, la selezione concepita da Darwin segna
dunque una profonda discontinuità nei confronti di ogni precedente idea
di natura, non solo nei confronti della tradizione tassonomico-osservativa
della storia naturale, ma anche, e qui a mio giudizio il dato più interessan-
te, nei confronti di modelli parimenti tecnomorfi pensati dalla tradizione,
come per esempio quelli meccanicistici di matrice cartesiana.
Il modello tecnomorfo di natura elaborato da Darwin si distingue da
quelli tradizionali innanzitutto in ragione dell’assenza di qualsiasi motivo
deterministico. Il modello darwiniano si basa sulla tecnica selettiva degli

62 Su quanto sia difficile evitare i tranelli “intenzionalistici” suggeritici dal pro-


fondo dei nostri stessi modelli mentali, si veda V. GIROTTO, T. PIEVANI e G.
VALLORTIGARA, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predi-
sposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice Edizioni, Torino 2008.
38 Darwin teorico del postumano

allevatori, dunque su una pratica nient’affatto governata dal determinismo


che per esempio presiede al funzionamento degli automi di Cartesio. Ciò
significa che il suo è un modello tecnico ma non macchinino, il che è asso-
lutamente dirimente quanto a impronta teleologica del modello di natura
che se ne può dedurre. Possiamo dunque dire che pur essendo entrambe
tecnomorfe, tra la natura darwiniana e quella cartesiana passa la profonda
differenza per cui solo quella darwiniana può superare le pregiudiziali
finalistiche iscritte nei determinismi dell’«universo-macchina»63 e, di qui,
solo essa è concretamente in grado di conservare la potenza creativa della
vita, cosa di cui non a caso ha chiara consapevolezza agli inizi del XX se-
colo un filosofo assi sensibile alle prerogative del vitale come Bergson64.
Nei Principi di filosofia il padre della filosofia moderna scrive: «Ed é
certo che tutte le regole della meccanica appartengono alla fisica, cosicché
tutte le cose che sono artificiali, sono per ciò stesso naturali». È quindi evi-
dente che già con Cartesio siamo di fronte a un’artificializzazione del bios,
solo che a differenza dell’artificializzazione darwiniana qui ne va di quel
che Bergson avrebbe definito la durata del vivente, ovvero della sua im-
prendibile spontaneità65. La natura di Cartesio, così come quella di Newton
o di Kant, tanto per tracciare delle coordinate, è infatti quella galileiana, è
una realtà interamente spazializzata, fisico-meccanicistica, in cui si dà cer-
to una sovrapposizione tra natura e artificio («tutte le cose che sono artifi-
ciali, sono per ciò stesso naturali»), ma in cui gli organismi, proprio perché
automatizzati, cioè “fisicalizzati”, sono essenzialmente fatti privi di quella
«plasticità» con cui poi invece affioreranno dalla biologia darwiniana.
Come ha osservato Karl Löwith, fino alla rinaturalizzazione del mondo
operata da Darwin la coscienza moderna si trova a fare i conti con una «fi-
sica senza physis»66, quindi con una fisica incapace di rendere conto della
creatività della vita67. La natura darwiniana, invece, è pienamente capace
di dar conto della creatività del fenomeno vita perché in essa non si iscrive
più la sterile solidità della meccanica ma piuttosto l’imprevedibile malle-

63 R. CARTESIO, I principi della filosofia (1644), parte IV, § 203, in ID., Opere
filosofiche, tr. it di A. Tilgher e M. Garin, vol. II, Laterza, Roma - Bari 2005, pp.
364-65. Corsivo mio.
64 Cfr. H. BERGSON, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. di F. Polidori, Raffaello
Cortina, Milano 2002.
65 Cfr. Ibid., pp. 166-222.
66 K. LÖWITH, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
(1967), tr. it. di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2002, p. 62.
67 Cfr. O. FRANCESCHELLI, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana sag-
gezza, Donzelli, Roma 2007, p. 59-62.
Un laboratorio di forme sperimentali 39

abilità della zootecnica. Siamo di fronte a un vero e proprio mutamento


d’essenza. In questo passaggio, infatti, la sostanza della natura si spoglia
della sua estesa corazza meccanicistica per acquistare una fluida consi-
stenza plastica. È a partire da qui che si costituisce quella che possiamo
definire una soglia di discontinuità biotecnologica, ovvero una concezione
del vivente che consente di interpretare il dato naturale entro la dimen-
sione biotecnologica della produzione, della manipolazione e, perché no,
dell’invenzione. Nella natura di Darwin non sono più in gioco gli automa-
tismi di un orologio ma le sperimentali casistiche di indefiniti incroci e
selezioni. La selezione, un’attività artefattuale e non un semplice artefatto,
diventa il cuore esplicativo della natura e, per ciò stesso, pone le basi per
una sua trasfigurazione in senso bio-tecnologico. È per questo che penso
si possa tranquillamente sostenere che con Darwin comincia a strutturarsi
un’episteme in grado di reggere un discorso tra biologia e tecnologia68.
Anche solo per avere una vaga idea di quanto sia spiazzante il modello
elaborato da Darwin, è sufficiente ricordare che esso risulta incomprensi-
bile persino a Nietzsche, vale a dire a chi, tra i suoi contemporanei, è di
certo a lui più affine quanto a potenza dissolutrice dei paradigmi culturali
dominanti. Per Nietzsche dire «selezione naturale» equivale a dire che nel-
la natura opera una volontà. Essendo infatti la selezione un processo per
definizione finalistico, cioè orientato alla produzione di «tipi» desiderati di
piante e di animali, la selezione «naturale» non può che consistere nell’at-
tribuzione di un simile scopo anche alla natura. «[...] Si attribuiscono alla
selezione naturale metamorfosi lente e infinite; […] Ma non si trovano in
nessun luogo esempi di selezione inconsapevole (in alcun modo)» 69. Niet-
zsche adopera solo raramente, pressoché mai in scritti ufficiali, l’espressio-
ne «selezione naturale» proprio perché da lui giudicata fuorviante ai fini
della reale comprensione dei processi naturali, come si sa da lui giudicati
tutt’altro che selettivi: «Solo i mediocri hanno la speranza di continuare, di
perpetuarsi – sono essi gli uomini del futuro, i soli a sopravvivere; [...]»70, o

68 K. BAYERTZ and P. NEVERS, op. cit., p. 115.


69 F. NIETZSCHE, Frammenti Postumi 1888-89, in Opere, ed. it. condotta sul testo
critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, a cura di M. Carpitella e M. Monti-
nari, versione di S. Giametta, Adelphi, Milano 1986, VIII/3, 14 [133], primavera
1888, p. 105. Corsivi dell’autore.
70 ID., Al di là del bene e del male (1886), tr. it. di F. Masini sull’ed. curata da G.
Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 2000, § 262, p. 186.
40 Darwin teorico del postumano

ancora: «Le specie non crescono nella perfezione: i deboli tornano sempre
di nuovo a soverchiare i forti [...]»71.
Darwin, invece, può parlare di selezione naturale perché riesce a con-
cepire una selezione senza selezionatore, cioè riesce a privare il processo
eminentemente finalistico dell’attività selettiva della sua teleologia e, in
questo modo, riesce a mutuare regimi di funzionamento dall’artificio alla
natura. Il tutto, si badi, evitando di cadere in una ingenua antropomorfiz-
zazione della realtà naturale. Si capisce che anche chi filosofa col martello
può rimanerne spiazzato.

71 ID, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello (1888), tr. it. di
F. Masini, Adelphi, Milano 1983, cap. 9 §14, p. 92. Come vedremo più appro-
fonditamente nel secondo capitolo, Nietzsche, al pari di tutti i lettori di Darwin
di area tedesca, recepisce la «selezione» darwininana non attraverso il termine
tecnicamente più corretto di Selektion ma per mezzo di termini come Zuchtwahl
o Züchtung, che invece rimandano esplicitamente al processo artificiale dell’«al-
levamento» e del perfezionamento. Cfr. A. KELLY, The Descent of Darwin. The
Popularization of Darwinism in Germany, 1860-1914, The University of North
Carolina Press, Chapel Hill 1981, pp. 30-35. Ciò contribuì ad assimilare Darwin
alla scuola degli utilitaristi e progressisti inglesi à la Spencer, uniti da una co-
mune fiducia nell’equivalenza tra evoluzione e progresso. L’esatto contrario di
ciò che, molto significativamente, ritenevano altri cattivi lettori di Darwin, gli
eugenisti. Per questo motivo coglie nel segno Jean Gayon quando scrive: «Le
allusioni di Nietzsche alla “selezione” vanno tutte nella stessa direzione: contro
Darwin e in favore dell’eugenetica». J. GAYON, Nietzsche and Darwin, in J.
MAIENSCHEIN and M. RUSE (ed. by), Biology and the Foundation of Ethics,
Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 175. Il fatto che anche Darwin
ritenesse improbabile l’equivalenza tra evoluzione e progresso rende evidente-
mente complesso il rapporto tra Darwin, Nietzsche e il pensiero eugenista. Com-
plessità che proveremo a sbrogliare nel terzo capitolo.

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