Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
n. 5
Chi sono i postumani? Coloro che, “per effetto del processo evolutivo, hanno superato
i limiti biologici, neurologici e psicologici insiti negli esseri umani”, secondo la definizione
del movimento transumanista, o l’umanità che si è “scorporata dal grembo materno”, come
affermano alcune femministe? Quello che è certo è che per la prima volta, nella storia delle
culture umane, la biologia sembra oggi non essere più un limite oggettivo alle trasformazio-
ni culturali. Questa collana si propone di documentare una tematica e una discussione che
nel panorama italiano sono ancora poco diffuse, e trattate in genere in modo sensazionali-
stico, presentando sia testi fondamentali stranieri non ancora tradotti, che ricerche italiane
particolarmente significative.
CRISTIAN FUSCHETTO
DARWIN TEORICO
DEL POSTUMANO
Natura, artificio, biopolitica
Mimesis
Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” – Università
degli studi di Napoli “Federico II”.
www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com
Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)
Telefono e fax: +39 02 89403935
E-mail: mimesised@tiscali.it
Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD)
E-mail: info.mim@mim-c.net
indice
Prefazione
Per un’antropologia evoluzionista
di Antonio Caronia p. I
Introduzione p. 9
R ingraziamenti p. 141
Ai dolcissimi sorrisi di Antonietta,
senza più parole eppure mai muti.
I
Antonio Caronia
Prefazione
Per un’antropologia evoluzionista
Fra i tanti problemi che nel Novecento sono maturati, sono stati dibat-
tuti, ci sono stati tramandati in eredità, quello della “natura e del posto nel
mondo” dell’uomo (come recita il sottotitolo dell’opera di Arnold Gehlen
dedicata all’argomento1) è certo uno dei più rilevanti, ma al tempo stesso,
ormai, uno di quelli che più hanno mostrato i limiti e le impasse dei para-
digmi essenzialisti. Meno di trent’anni dopo la prima apparizione di quel
libro, Michel Foucault poteva scrivere:
Una cosa comunque è certa: l’uomo non è il problema più vecchio o più co-
stante postosi al sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve
e una circoscrizione geografica ristretta – la cultura europea dal XVI secolo
in poi – possiamo essere certi che l’uomo vi costituisce un’invenzione recente.
Non è intorno ad esso e ai suoi segreti che, a lungo, oscuramente, il sapere ha
vagato. Di fatto, fra tutte le mutazioni che alterarono il sapere delle cose […]
un[a] sol[a], quell[a] che prese inizio un secolo e mezzo fa e che forse sta chiu-
dendosi, lasciò apparire la figura dell’uomo. [...] L’uomo è un’invenzione di cui
l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse
la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se,
a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità
ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero,
come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico,
possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’or-
lo del mare un volto di sabbia.2
1 A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Berlin 1940;
trad. it. di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltri-
nelli, Milano 1983.
2 M. Foucault, Les mots et le choses, Gallimard, Paris 1966; trad. it di E. Panaite-
scu, Le parole e le cose, Rizzoli Milano 1978, pp. 413-414.
II Darwin teorico del postumano
La citazione non serve, naturalmente, solo per osservare come già nel
1966 Foucault ponesse quella che, quasi trent’anni dopo, si sarebbe chia-
mata la questione del postumano. Vuole stabilire anche, sin dall’inizio e nel
modo più chiaro possibile, un approccio “genealogico” e non essenzialista al
problema dell’umano. L’impostazione gehleniana ha avuto una certa fortuna
– in Italia, per esempio, più che altro nella volgarizzazione che ne ha dato
Umberto Galimberti3. Sposata al catastrofismo antitecnologico di Galim-
berti, la visione dell’uomo come “animale incompleto” è sembrata a molti
la quadratura del cerchio. Carente di istinti e ricco di pulsioni, capace della
raffinata strategia dell’”esonero”, l’uomo di Gehlen obbedisce «a una legge
strutturale particolare, la quale è la medesima in tutte le peculiari caratte-
ristiche umane, e va compresa muovendo dal progetto posto in essere dalla
natura di un essere che agisce»4. Gehlen costruisce tutto il suo discorso
per tentare di sfuggire allo spiritualismo del fondatore dell’“antropologia
filosofica”, Max Scheler – e forse, a modo suo, ci riesce, ma solo a prezzo
di spostare il dualismo scheleriano dalla spaccatura fra “natura” e “cultura”
all’interno della stessa natura. Con conseguenze, se vogliamo, ancora più
sconcertanti e contraddittorie del “salto metafisico” dello stesso Scheler. In
Gehlen, infatti, il dualismo non viene affatto superato: viene soltanto as-
sunto a dato empirico, e il carattere unitario della nuova scienza dell’uomo,
dell’antropologia filosofica, dovrà dare conto di questo dualismo:
6 Ivi, p. 60.
7 Ibid.
8 Ivi, p. 93.
9 A. Gehlen, Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentde-
ckung des Meschen, 1961; trad. it. di S. Cremaschi, Prospettive antropologiche.
Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, il Mulino,
Bologna 1987, p. 69.
10 R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhie-
ri, Torino 2002. Vedi in particolare il cap. 1, “Il paradigma dell’incompletezza”,
pp. 9-42.
IV Darwin teorico del postumano
l’uomo, per Gehlen, non solo occupa un posto privilegiato nel mondo, ma è
egli stesso il prodotto di un ‘progetto particolare’ della natura, non può essere
considerato semplicemente come l’ultimo anello di un unico processo evolu-
tivo che accomuna tutti gli esseri viventi, ma deve essere interpretato come
11 Ivi, p. 41.
Antonio Caronia - Per un’antropologia evoluzionista V
il risultato di un progetto separato, di una qualche linea evolutiva distinta da
quella degli animali12.
Ora, è evidente che un’ipotesi del genere fa piazza pulita del carattere
scientifico e unitario della visione darwiniana dell’evoluzione (come, per
altra via, fece Teilhard de Chardin con la sua idea della “noosfera”). È una
versione dell’evoluzione, consciamente o no poco importa, in ultima anali-
si finalista, teleologica, su cui si allunga, insidiosa, l’ombra dell’intelligent
design. La forza e la scientificità dell’ipotesi darwininana sta proprio inve-
ce nella sua dimensione unitaria, nella rigorosa esclusione di ogni carattere
“progettuale” anche solo intrinseco del processo evolutivo, nell’assegna-
zione del ruolo strategico di questo processo alla materialità della quantità
e della qualità di cibo che gli individui di una specie riescono a procurarsi
e al loro successo riproduttivo – unici criteri che determinano il successo
nella trasmissione del loro corredo genetico ai propri discendenti.
E, last but not least, l’ipotesi dell’incompletezza si dimostra incompati-
bile con il dato empirico della varietà, della dispersione, della sostanziale
intraducibilità delle culture umane (che non significa incomunicabilità).
Come sempre, le ipotesi di una “discontinuità” fra uomo e natura, dualiste
e tendenzialmente anche pluraliste quando affrontano il problema dei di-
spositivi biologici ed evolutivi, si trasformano come per magia in qualcosa
di rigidamente monista quando si tratta di cultura. L’ipotesi di una “natu-
ra umana” chiaramente descrivibile e unificante della specie (al di là del
corredo biologico) non può che approdare a una visione (certo, irrealistica
e idealistica) della cultura umana come sostanzialmente unitaria. Se il lin-
guaggio, la tecnica, l’organizzazione sociale, la dimensione del simbolico,
fossero la risposta a una carenza biologica della specie (unitariamente de-
scrivibile per definizione), esse avrebbero prodotto una “cultura” unica,
non il ventaglio di narrazioni, visioni del mondo, dispositivi simbolici e
organizzazioni sociali che ci hanno consegnato gli studi di etnografia e di
antropologia culturale. Ha osservato acutamente Marchesini:
Se infatti ipotizziamo che la cultura sia informata sulle carenze della na-
tura umana non sfuggiamo al rischio di ammettere una base omologata della
cultura, poiché necessariamente correlata […] alla struttura della carenza che
ovviamente è uguale per tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens. […]
Nell’ipotesi di una correlazione culturale al repertorio di carenze, prospettato
per la specie umana, è evidente che dovremo riscontrare molti più elementi
comuni di quelli che ci è dato ritrovare alla prova dei fatti. Le diverse tradizioni
culturali ci appaiono infatti come processi creativi, espressione di una storia
unica e irripetibile, piuttosto che il risultato di un meccanismo algoritmico di
emendazione di un catalogo di carenze condiviso da tutti gli esseri umani. […]
La teoria dell’incompletezza può quindi spiegare la cultura come costante, ma è
visibilmente in panne quando deve rendere ragione della pluralità culturale14.
come figura dell’episteme moderna sorta fra XVIII e XIX secolo si sta
rapidamente cancellando «come sull’orlo del mare un volto di sabbia». Per
evitare che il dibattito sul postumano produca solo le lamentazioni di un
umanesimo nostalgico e impotente, o, all’opposto, le esaltazioni tecnofile
degli adoratori della “singolarità tecnologica”16, abbiamo bisogno di una
riflessione che tenga insieme le acquisizioni delle ricerche scientifiche più
aggiornate e la prospettiva di una rifondazione non essenzialista e non
universalista dell’antropologia.
ma il requisito che egli richiede è formulato con una generalità tale che ci con-
sente di estenderlo anche al nostro contesto.
16 Per una rapida rassegna sulle tematiche del postumano è utile Post-umano. Re-
lazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, a cura di M. Pireddu e A.
Tursi, Guerini e associati, Milano 2006. Mi permetto di rimandare, per un esame
delle posizioni richiamate nel testo, al cap. 10, “Dal cyborg al postumano” del
mio Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano 2008.
VIII Darwin teorico del postumano
Vorrei insistere sul fatto che questa operazione preliminare (che Fu-
schetto opera così efficacemente nel primo capitolo di questo libro), questa
“rifondazione biologica del monismo” è la condizione indispensabile per
poter superare le illusioni universaliste della visione delle culture (illusioni
che non restano, però, a livello delle teorie, ma hanno pesanti e misurabili
conseguenze sul piano delle pratiche). L’arrovellarsi a vuoto sulla defini-
zione della “natura umana”, infatti, non è altro che il risultato dell’incapa-
cità a riconoscere l’unica vera “natura” di cui disponiamo, l’unica base che
Antonio Caronia - Per un’antropologia evoluzionista IX
accomuna tutti gli esseri umani, e cioè l’insieme delle nostre particolarità
biologiche – neanch’esse immutabili, neanch’esse date una volta per tutte,
è vero, che però possiamo e dobbiamo supporre “costanti” nei brevi perio-
di di esistenza della specie di cui possiamo occuparci. Gli effetti di queste
particolarità biologiche (che André Leroi-Gourhan sintetizzò così chiara-
mente già molti anni fa nella stazione eretta, nella liberazione degli arti
superiori e nell’aumento del volume craniale17) sono essenzialmente la no-
stra attitudine al linguaggio e alla tecnica: una predisposizione, una pura
possibilità, una “facoltà” generica che non è descrivibile o catalogabile
in modo più preciso di questo. Perché ogni volta che questa facoltà uma-
na agisce, si esplicita, produce artefatti materiali o immateriali (lingue,
utensili, attrezzi, processi produttivi, organizzazioni sociali, immagina-
ri), questi artefatti risultano diversissimi tra loro, variegati, distantissimi,
incommensurabili se non sulla base di quella vasta e generica potenzia-
lità che li ha prodotti. L’universalista, incapace di riportare questa stra-
ordinaria varietà di esiti alla sua origine biologica (probabilmente perché
non ha una visione sufficientemente ricca e articolata della biologia) cerca
disperatamente un denominatore comune tra loro al livello sbagliato, là
dove non potrà mai trovarlo: al livello degli effetti di quella potenzialità, al
livello della esplicitazione, dei cosiddetti “fondamenti” ideali delle cultu-
re. Col risultato che ogni universalismo, invariabilmente, consiste nell’ele-
vare arbitrariamente i “valori” di una cultura dal posto che loro compete
(i fondamenti di quella cultura, della sua) a un livello superiore, che loro
non compete e che neppure esiste: a fondamento di ogni possibile cultura.
A quali effetti abbia già portato questa pretesa (che, sappiamo, ha storica-
mente caratterizzato e ancora caratterizza quella che chiamiamo “civiltà
occidentale”) lo sappiamo bene, e lo vediamo ancora oggi, nel confronto e
nello scontro fra le culture e i sistemi di vita a livello planetario. Seguia-
mo Fuschetto nel secondo e nel terzo capitolo del suo libro: ci mostrerà
– spero in modo convincente – a dove ci ha già condotti quel «brutale
umanesimo dell’esclusione» che, in nome di presunti modelli, di presun-
te purezze, di presunte “essenze dell’uomo”, ha praticato la schiavitù, lo
sterminio delle razze, l’emarginazione del “mostruoso”. Se a qualcosa può
e deve servire una cultura del postumano, è in primo luogo, io credo, a
riconoscere correttamente l’origine concettuale di quelle pratiche – non
“incidenti di percorso”, non aberrazioni della civiltà, ma coerenti e possi-
bili esiti (possibili, certo, non necessari né automatici, ma cionondimeno
Introduzione
Hurrah!
Charles Darwin, 2 dicembre 1839
6 Cfr. G. EDELMAN, Sulla materia della mente (1992), tr. it. di S. Frediani, Adel-
phi, Milano 1993.
7 J. L. NANCY, La creazione del mondo, o la mondializzazione (2002), tr. it. di D.
Tarizzo e M. Abbruzzese, Einaudi, Torino 2003, p. 91
Introduzione 13
11 Cfr. B. M. HILL, Scienza di morte. L’eliminazione degli Ebrei, degli Zigani e dei
malati di mente 1933-1945 (1984), tr. it. a cura di I. Barrai, ETS, Pisa 1989.
12 Su questo ho già avuto modo di esprimermi nel saggio Purificazione bio-sociale
e stigmatizzazione della finitezza: un’analisi della mentalità eugenetica, in «Ri-
vista di Teologia Morale», 157 (2008), pp. 89-111.
13 Cfr. Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità (2000), tr. it. di V. Verdiani,
Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 8-19.
Introduzione 15
Capitolo primo
Un laboratorio di forme sperimentali
di infrangere gli invalicabili confini tipologici entro cui erano stati fin lì
collocati6. Per quanto durevole, suggerisce Darwin, ogni carattere può «ri-
tornare a variare in nuove condizioni di vita»7. Bene, la complementarità
concettuale e funzionale tra selezione e variazione è ciò che fa da premes-
sa alla seconda condizione implicita dei viventi. Se, come abbiamo visto,
ogni organismo è mutevole e se ogni organismo è selezionabile in ragione
di questa sua mutevolezza, cosa impedisce di intendere tutti gli organismi
come tante variazioni in fase di sperimentazione? Cosa impedisce, cioè, di
intenderli come tante prove di una continua attività selettiva? Cosa impe-
disce, insomma, di intenderli come tanti esperimenti sottoposti al giudizio
insindacabile della vita? Come osserva Canguilhem, «per Darwin vivere
vuol dire sottoporre una differenza individuale al giudizio dell’insieme
degli esseri viventi. Questo giudizio conosce due sanzioni: morire oppure
venire a far parte a propria volta, per un certo tempo, del tribunale. Fin-
ché si vive si è sempre giudici e giudicati»8. Nell’orizzonte darwiniano
ogni organismo diventa quindi un ente sperimentale che, coerentemente
al suo statuto, rimane permanentemente suscettibile a modifica. Modifica
a sua volta permanentemente sperimentata e giudicata dal «tribunale» dei
viventi. Ecco allora che la teoria della selezione naturale, insieme alla se-
lezionabilità, esplicita anche un’altra condizione dei viventi: la sperimen-
talità. Al nuovo sguardo evoluzionistico non potrà pertanto mai sfuggire
il fatto per cui la vita, per ogni vivente, non è mai solo un dato ma è già da
sempre sperimentazione di nuove condizioni di esistenza.
A tal proposito, e solo per anticipare un tema su cui poi torneremo,
va segnalato che è proprio in questo orizzonte concettuale, quello aperto
dalla trasfigurazione del vivente in chiave sperimentale, che ha senso col-
locare i coevi progetti eugenetici di autoperfezionamento della specie. È
questa trasfigurazione dello statuto dei viventi da enti naturali a enti spe-
rimentali a ispirare, al contempo legittimandole, prospettive ingegneristi-
che totalmente inedite sugli organismi, uomo compreso9. Sono per questo
discutibili i tentativi, pure spesso compiuti, di spiegare l’eugenetica svol-
gendone semplicemente un pregresso che andrebbe dallo spartano monte
Taigeto alla Repubblica di Platone, per arrivare alle utopie di Tommaso
Campanella e poi ancora ai sogni di rimodellamento dell’uomo di matri-
ce illuministica10. In tutti questi casi manca infatti l’elemento fondante
dell’eugenetica come scienza e prassi biopolitica, ovvero la comprensio-
ne e la conseguente introiezione del carattere schiettamente sperimentale
degli organismi e, nel caso specifico, la comprensione dello statuto speri-
mentale dell’uomo. Tracciare una storia dell’eugenetica mettendo in ombra
le novità che la biologia darwiniana fa emergere nella fenomenologia dei
processi vitali, a partire, per l’appunto, dalla loro «sperimentalità», rischia
allora di essere fuorviante.
A titolo di esempio basti dire che nell’ambito di una biologia tipologica,
quale era la biologia di rifermento in epoca pre-darwiniana, gli organismi
mantengono comunque dei limiti insuperabili e dunque rimane per de-
finizione precluso ogni autentico progetto di illimitato perfezionamento
dell’uomo, il che costituisce fin dall’inizio l’obiettivo trainante del mo-
vimento eugenetico. Non è certo un caso se il fondatore dell’eugenetica,
17 L’idea della producibilità delle razze allo stato domestico era da tempo sufficien-
temente chiara agli allevatori. Ecco cosa scrive, per esempio, John Wilkinson, un
trattatista particolarmente apprezzato da Darwin, in una lettera del 1820: «Noi
sappiamo che razze distinte possono facilmente essere formate dagli sforzi con-
giunti della natura e dell’artificio. […]
���������������������������������������������
Esse possono essere selezionate attingen-
do dall’intera orda». J. WILKINSON, Remarks on the Improvement of Cattle, in
a letter to Sir John Saunders Selbright, Bart. M. P., Nottingham 1820, pp. 4-5.
18 C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 126.
19 H. PLESSNER, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia
filosofica (1928). tr. it a cura di V. Rasini, Torino, 2006, p. 27.
20 André Pichot spiega che Darwin, contrariamente alla tradizione dei naturalisti
che lo precedono, non si impegna mai nel tentativo di dare una definizione della
vita. Cfr. A. PICHOT, Histoire de la notion de vie, Gallimard, Paris 1993, p.
763.
Un laboratorio di forme sperimentali 25
27 Cfr. M. HARRIS, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teo-
ria della cultura (1968), tr. it. di P. G. Donini e M. Sofri, Il Mulino, Bologna 1971,
p. 173.
28 Clayes fa risalire l’espressione ad un articolo di Spencer del 1852: H. SPENCER,
A Theory of Population Deduced from the General Law of Animal Fertility, in
«Westimnster Review», LVII (o. s.), I, pp. 468-501. Cfr. G. CLAYES, The “Sur-
vival of the Fittest” and the Origins of Social Darwinism, in «Journal of the His-
tory of Ideas», 61, pp. 223-240, in particolare cit. p. 227. Questo
�������������������������
articolo costitui-
rà la base della sesta e ultima parte dei Principle of Biology, l’opera in cui, come
vedremo, Spencer fa aperto riferimento alla nozione darwiniana di «selezione
naturale» invitandolo a sostituirla con la propria, appunto con quella di «soprav-
vivenza del più adatto». Cfr. H. SPENCER, Principles of Biology, Williams &
Borgate, London 1864-67, p. 444-445.
28 Darwin teorico del postumano
Nel giugno del 1858 Darwin riceve da Wallace la celebre lettera che lo
indurrà a rompere ogni indugio circa l’opportunità di pubblicare quello
che nella sua corrispondenza talvolta chiama il «mio grande libro sulle
specie» («my big species book»)37. Alla lettera Wallace allega un mano-
scritto, Sulla tendenza delle varietà ad allontanarsi indefinitamente dal
tipo originario38, che per la sua straordinaria coincidenza con quanto da
34 Cfr. J. GAYON, Darwinism’s Struggle for Survival. Heredity and the hypothesis
of natural selection (1992), tr. by M. Cobb, Cambridge University Press, Cam-
bridge 1998, p. 53.
35 C. DARWIN, L’Origine delle specie, cit., p. 102.
36 Ibid.
37 Cfr. F. DARWN, The life and letters of Charles Darwin, vol. 2, cit., pp. 41 e 85.
Si tratta di due lettere, una del 1853 indirizzata a J. D. Hoocker e l’altra del 3 ot-
tobre 1856 indirizzata a W. D. Fox. Quando Darwin riceve la lettera di Wallace,
nel luglio del ’58, aveva già scritto ben 11 capitoli di quello che avrebbe dovuto
essere il suo «grande libro sulla discendenza per modificazione attraverso la se-
lezione naturale», da intitolarsi, sempre secondo i suoi progetti, Natural Selec-
tion. Questo lavoro verrà poi sviluppato da Darwin sia nella stesura de L’origine
delle specie (1859) sia in quella de La Variazione delle piante e degli animali allo
stato domestico (1868). Cfr. R. C. STAUFFER, Charles Darwin’s Natural Selec-
tion, Being the Second Part of His Big Species Book Written from 1856 to 1858,
Cambridge University Press, Cambridge 1975.
38 A. R. WALLACE, On the Tendency of Varieties to depart indefinitely from the
Original Type, in C. DARWIN and A. R. WALLACE, On the tendency of species
to form varieties; and on the perpetuation of varieties and species by natural
Un laboratorio di forme sperimentali 31
44 È per questo che Giulio Barsanti può legittimamente dire che «Seppure non
identica, la teoria di Wallace era largamente sovrapponibile alla darwiniana».
G. BARSANTI, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi,
Torino 2005, p. 237.
45 Cfr. A. R. WALLACE, Darwinism: An Exposition of the Theory of Natural Se-
lection, with Some of Its Application, Macmillan, London 1889. ���������������
Nelle prime pa-
gine del libro Wallace riconosce apertamente in Darwin «l’uomo della nostra
epoca più adatto alla grande impresa che ha iniziato» (p. VII).
46 A. R. WALLACE, On the Tendency of Varieties, cit. p. 60. Il����������������������
corsivo è di Walla-
ce. Ora anche in F. FOCHER, op. cit., p. 132.
47 Ibid., p. 62. In F. FOCHER, op. cit., p. 134.
Un laboratorio di forme sperimentali 33
motivo? Per quello che poi Wallace poi chiamerà il «principio di utilità»48,
secondo cui ogni carattere, organo, istinto, forma e così via, deve la sua ra-
gion d’essere al fatto di costituire un vantaggio per l’organismo che lo de-
tiene. Secondo Wallace gli organismi addomesticati, per il fatto di essere
accuditi, nutriti, protetti, insomma preservati dalla “normale” condizione
di lotta per l’esistenza, cominciano a sviluppare caratteri di fatto svincolati
da ogni reale criterio di utilità, che mai avrebbero sviluppato in condizioni
selvatiche, e quindi cominciano ad assumere forme che possono mantene-
re solo fintantoché rimangono entro le artefatte condizioni di domestica-
zione. «Gli animali domestici sono anormali, irregolari, artificiali, sono
soggetti a variazioni che non si verificano mai, e mai si potranno verificare
in natura; [...] molti di essi sono lontanissimi da quella giusta proporzione
fra le varie facoltà, da quel vero equilibrio organico che è l’unica cosa che
permette a un animale, lasciato a se stesso, di sopravvivere e di perpetuare
la propria razza»49. Gli animali domestici sono «artificiali», osserva Wal-
lace, e in virtù di questa loro artificialità non possono, né mai potranno
costituire dei modelli da cui inferire processi genealogici validi anche per
gli animali selvatici, ossia «naturali». «I due gruppi sono talmente opposti
l’uno all’altro in qualunque aspetto della loro esistenza, che ciò che vale
per il primo è quasi certo che non vale per il secondo»50.
Diametralmente opposte a quelle di Wallace sono le conclusioni di Dar-
win, secondo cui l’artificialità degli animali domestici non rappresenta
alcun impedimento alla comprensione della naturalità degli animali sel-
vatici. L’autore de l’Origine rovescia completamente il ragionamento di
Wallace e mostra che le genealogie osservabili allo stato domestico rical-
cano fedelmente quelle che si producono anche allo stato naturale. A suo
giudizio tra gli animali artificiali e quelli naturali sussiste la medesima
ontologia: «Benché la tendenza alla riversione sia assai generale [...], non si
può considerarla come caratteristica in un modo invariabile, ma vi è anche
luogo a credere ch’essa possa essere vinta da una selezione prolungata per
lungo tempo»51. Per Darwin variazione, selezione e tempo possono quindi
fabbricare nuove forme di organismi e fissare caratteri parimenti irrever-
48 ID., The problem of utility: are specific characters always or general useful?, in
«Journal of the Linnean Society», 25, 1896, pp. 481-496.
49 A. R. WALLACE, On the Tendency of Varieties, cit. p. 61. In F. FOCHER, op.
cit., p. 132. Corsivo mio.
50 Ibid.
51 C. DARWIN, Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico, cit., p.
279.
34 Darwin teorico del postumano
52 Ibid., p. 507.
53 Ibid., p. 508.
54 Gayon suggerisce che Wallace compie solo una rottura parziale rispetto alla bio-
logia tipologica e, quindi, solo un’apertura altrettanto parziale nei confronti del
pensiero popolazionale. Cfr. J. GAYON, Darwinism’s Struggle for Survival, cit.,
pp. 30-31.
55 Ibid., p. 39.
Un laboratorio di forme sperimentali 35
56 Ibid., p. 49. Corsivo mio. A proposito della forza di fissazione di nuovi caratteri
individuata da Darwin nell’ereditarietà delle variazioni individuali e, ovviamen-
te, nella loro selezione cumulativa, è opportuno ricordare che egli trae molti e
importanti spunti dai trattati degli stessi allevatori, come Selbright e Wilkinson,
che dal canto loro avevano già cominciato a evidenziare come la selezione potes-
se avere effetti duraturi, pressoché irreversibili. Cfr. M. RUSE, Charles Darwin
and Artificial Selection, in «The Journal of the History of Ideas», vol. 36, 2 (Apr-
Jun 1975), pp. 339-350.
57 R. M. YOUNG, Darwin’s Metaphor. Nature’s Place in Victorian Culture, Cam-
bridge University Press, London-New York 1985. p. 54.
58 P. OMODEO, Ereditarietà e selezione nei programmi di Charles Darwin, in S.
FORESTIERO e M. STANZIONE, Selezione e Selezionismi, Franco Angeli, Mi-
lano 2008, p. 36. Corsivo mio.
59 È per questa ragione che mi sembra assai calzante l’espressione con cui Gayon
definisce la teoria darwiniana, vale a dire come una «teoria generale della sele-
zione» o, meglio ancora, come una «ontologia della selezione». Cfr. J. Gayon,
Darwinism’s Struggle for Survival, cit. p. 51; pp. 60-84.
36 Darwin teorico del postumano
63 R. CARTESIO, I principi della filosofia (1644), parte IV, § 203, in ID., Opere
filosofiche, tr. it di A. Tilgher e M. Garin, vol. II, Laterza, Roma - Bari 2005, pp.
364-65. Corsivo mio.
64 Cfr. H. BERGSON, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. di F. Polidori, Raffaello
Cortina, Milano 2002.
65 Cfr. Ibid., pp. 166-222.
66 K. LÖWITH, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
(1967), tr. it. di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2002, p. 62.
67 Cfr. O. FRANCESCHELLI, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana sag-
gezza, Donzelli, Roma 2007, p. 59-62.
Un laboratorio di forme sperimentali 39
ancora: «Le specie non crescono nella perfezione: i deboli tornano sempre
di nuovo a soverchiare i forti [...]»71.
Darwin, invece, può parlare di selezione naturale perché riesce a con-
cepire una selezione senza selezionatore, cioè riesce a privare il processo
eminentemente finalistico dell’attività selettiva della sua teleologia e, in
questo modo, riesce a mutuare regimi di funzionamento dall’artificio alla
natura. Il tutto, si badi, evitando di cadere in una ingenua antropomorfiz-
zazione della realtà naturale. Si capisce che anche chi filosofa col martello
può rimanerne spiazzato.
71 ID, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello (1888), tr. it. di
F. Masini, Adelphi, Milano 1983, cap. 9 §14, p. 92. Come vedremo più appro-
fonditamente nel secondo capitolo, Nietzsche, al pari di tutti i lettori di Darwin
di area tedesca, recepisce la «selezione» darwininana non attraverso il termine
tecnicamente più corretto di Selektion ma per mezzo di termini come Zuchtwahl
o Züchtung, che invece rimandano esplicitamente al processo artificiale dell’«al-
levamento» e del perfezionamento. Cfr. A. KELLY, The Descent of Darwin. The
Popularization of Darwinism in Germany, 1860-1914, The University of North
Carolina Press, Chapel Hill 1981, pp. 30-35. Ciò contribuì ad assimilare Darwin
alla scuola degli utilitaristi e progressisti inglesi à la Spencer, uniti da una co-
mune fiducia nell’equivalenza tra evoluzione e progresso. L’esatto contrario di
ciò che, molto significativamente, ritenevano altri cattivi lettori di Darwin, gli
eugenisti. Per questo motivo coglie nel segno Jean Gayon quando scrive: «Le
allusioni di Nietzsche alla “selezione” vanno tutte nella stessa direzione: contro
Darwin e in favore dell’eugenetica». J. GAYON, Nietzsche and Darwin, in J.
MAIENSCHEIN and M. RUSE (ed. by), Biology and the Foundation of Ethics,
Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 175. Il fatto che anche Darwin
ritenesse improbabile l’equivalenza tra evoluzione e progresso rende evidente-
mente complesso il rapporto tra Darwin, Nietzsche e il pensiero eugenista. Com-
plessità che proveremo a sbrogliare nel terzo capitolo.