2. silenziosa luna?
8. di mirar queste valli?
1
i sempiterni calli: la scelta dell’aggettivazione insiste (dopo l’invocazione iniziale alla luna) sulla ricorrenza, pressoché
eterna, del moto lunare, che in tal senso è ancor più estraneo alle sofferenze del pastore che prende la parola
all’apertura del canto.
2
prendi a schivo: espressione letteraria per mettere subito al centro della riflessione la “noia” dell’esistenza, vera e
propria malattia di cui soffre il poeta.
3
Vi è qui una chiara memoria letteraria petrarchesca, dalla canzone Ne la stagione che ‘l ciel rapido inchina
(Canzoniere, L, vv. 29-38).
4
altro mai non ispera: ragionando sull’etimologia latina da spes, -ei, un passo dello Zibaldone del 1 ottobre 1823
spiega il punto di vista leopardiano: “Il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare ma l’aspettare
indeterminatamente al bene o al male”.
19. questo vagar mio breve,
5
Nell’espressione, è sottointesa la domanda: “a che vale” (v. 16). Si noti poi la disposizione a chiasmo dei termini “al
pastor la sua vita | la vostra vita a voi?”.
6
Vecchierel bianco, infermo: altro rimando petrarchesco, questa volta al celebre Movesi il vecchierel canuto e bianco
(Canzoniere, XVI). Il paragone tra la vita e il faticoso cammino di un uomo anziano è anche in una nota dello Zibaldone
(17 gennaio 1826).
7
quando avvampa l’ora: perifrasi per “l’estate”, la stagione più torrida per il pastore.
40. ed è rischio di morte il nascimento 8.
8
è rischio di morte il nascimento: Leopardi qui allude sia alle complicanze del parto che soprattutto alla condanna
all’infelicità implicita per lui in ogni venuta al mondo.
9
da parenti: latinismo per “genitori”.
10
si dura: nel verbo al presente, è implicita una sfumatura continuativa, come se il tollerare l’ingiustizia e il dolore
della vita sia, nei fatti, una inevitabile legge cosmica.
11
Intatta: richiama il “vergine” del v. 37, ma aggiungendovi l’idea del sostanziale disinteresse dell’astro per le questioni
umane (come a dire: “non sfiorata nemmeno dai nostri problemi”, in modo analogo al v. 60). Gli attributi scelti qui per
la luna sono quelli classicamente attribuiti alla dea Diana.
61. Pur tu, solinga, eterna peregrina,
12
smisurata e superba: i due termini, in endiadi, stanno ad indicare sia il rapporto spaziale (il creato è immenso
rispetto alla finitezza di un singolo essere umano) che quello gerarchico (il mondo è superbo e quasi sprezzante nei
confronti della nostra sorte) tra l’uomo e tutto ciò che lo circonda e lo annichilisce.
111. ogni estremo timor subito scordi;
118. e un fastidio m'ingombra
PARAFRASI
2. o silenziosa luna?
ANALISI
Il Canto notturno viene composto nella natìa Recanati, tra l’ottobre 1829 e i primi giorni di aprile del
1830. Secondo una nota dello Zibaldone (3 ottobre 1828) l’ispirazione giunge a Leopardi dalla
lettura di un articolo del barone di Meyendorff (Voyage d’Orenbourg à Boukhara fait en 1820),
pubblicato dal «Journal des Savants» nel settembre del 1826, dove si descrive un’abitudine dei
pastori nomadi kirghisi. Nel resoconto di viaggio presso la popolazione dell'Asia centrale, si
raccontava che alcuni pastori del luogo intonassero canti rivolgendosi alla luna. In questo troviamo
un'apertura quasi indiscriminata di Leopardi a quella che è la poetica romantica: c'è l'esotismo, la
lontananza, c'è una popolazione straniera dagli usi sconosciuti e sorprendenti, c'è soprattutto la
situazione notturna. Eppure la lingua e l'immaginario di Leopardi sono sempre gli stessi. Sono
presenti l'invocazione alla luna, presente sin dai primi idilli, con l'idillio intitolato appunto Alla luna, è
presente l'interrogazione al mondo animale, con un'intensità ed una voce diretta rivolta appunto alla
fauna, il mondo animale, che altrimenti non avremmo conosciuto
Il Canto notturno è diviso in sei stanze, molto diverse l'una dall'altra. Ognuna, tuttavia, presenta
struttura basata sulla successione di domande, considerazioni e riflessioni personali, poi di sentenze
di valore generale. ( La ripetizione volontaria crea un effetto di litania). Fanno eccezione:
La prima stanza, sospesa a una domanda che riprende e approfondisce in chiusura il quesito
iniziale;
Nella prima stanza il pastore si rivolge alla luna silenziosa, confrontando la sua condizione con
quella dell'astro. Il pastore si definisce "vecchierel bianco", un chiaro riferimento a un sonetto di
Petrarca (Movesi il vecchierel). Il confronto sproporzionato tra essere umano e astro celeste si
ritrova anche in altri Canti pisano-recanatesi, come nelle Ricordanze. Il pastore si interroga poi sulla
sua esistenza, confrontando la sua situazione con quella del suo gregge, domandandosi come mai gli
animali non sentano il tedio della vita. Per lui l'esistenza è male.
Nella stanza II Leopardi rielabora un sonetto di Petrarca dal titolo Movesi il vecchierel, che dispiega
un paragone tra un vecchio canuto che, ormai alla fine della sua esistenza terrena, si reca in
pellegrinaggio a Roma per contemplare la Veronica (il velo con cui santa Veronica avrebbe pulito il
volto sanguinante di Cristo mentre portava la croce verso il Golgota) e il poeta. Quest’ultimo va
cercando nei volti delle donne nelle quali si imbatte l’immagine della donna desiderata, Laura,
contrapponendosi così, con gran tormento personale, alla ricerca spirituale dell’anziano pellegrino.
Qui invece l'immagine della vita umana, mortale e breve, quando anche emblematizzata da una
persona anziana, viene comparata a un principio metafisico, ovvero alla vita di un astro, come la
luna. E questa sproporzione tra vita microcosmica, la vita dell'uomo mortale e la vita degli astri, di
quelle immagini silenziose che Leopardi vedeva proiettate sullo schermo del firmamento, la
ritroviamo anche in altri canti pisano-recanatesi. Inoltre, una poesia filosofica che si rivolge non solo
alle entità naturali come la luna, ma anche agli animali per chiedere come mai non abbiano quel
senso di tedio dell'esistenza che pure invece per ogni uomo è così conosciuto. "A me la vita è male",
dice il pastore, confrontando la sua situazione con quella del proprio gregge.
La stanza III descrive la nascita dell'essere umano come momento doloroso e rischio per la vita
stessa del nascituro, riprendendo un'immagine analoga del De rerum natura di Lucrezio (V, 222-227)
in cui si dice che il bambino appena nato è come un naufrago gettato a riva dalle onde, bisognoso di
tutto e intento a riempire i luoghi circostanti dei suoi lamenti. Anche questo passo ha due
antecedenti nello Zibaldone, ad es. un pensiero del 1819 (68) dove si diceva che il "nascere istesso
dell’uomo cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di
coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel
nascere"; cfr. anche questa annotazione del 13 ag. 1822 (2607): "...l’uno de’ principali uffizi de’ buoni
genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli
alla vita". La stanza si conclude con la domanda sul perché l'uomo debba "durare", sopportare la vita
se è fatta di dolore, con un possibile allusivo riferimento al tema del suicidio.
La stanza IV, la più lunga e complessa del componimento, presenta le domande angosciose che il
pastore rivolge alla luna sull'esistenza umana e, soprattutto, sulla ragione ultima della vita
dell'universo, di fronte al quale il personaggio si sente piccolo e insignificante: il passo ha vari
precedenti letterari, tra cui Virgilio che in Georg., II, 475-482 chiedeva agli astri di mostrargli i
segreti dei loro movimenti e la spiegazione di vari fenomeni celesti, come l'alternarsi del giorno e
della notte e delle stagioni (il poeta latino ovviamente voleva conoscere qualcosa di ignoto, mentre
Leopardi lascia intendere che la spiegazione a tutto questo non fornisce risposte alle domande
dell'uomo). Un possibile riferimento dei versi del canto è anche un passo dei Night thoughts del
poeta inglese Edward Young, in cui egli si rivolge agli astri e domanda loro qual è lo scopo ultimo
delle meraviglie del creato.
Nella stanza V il pastore si rivolge al suo gregge (cambiando interlocutore per la prima volta nel
canto) e introduce il tema del "tedio", ovvero il senso di frustrazione e smania interiore che rode
l'uomo a causa della consapevolezza della sua infelicità, a differenza delle bestie che ne sembrano
prive. L’apostrofe al gregge permette di parlare della noia e, al tempo stesso, di concentrare
l’attenzione sulla minuta realtà che circonda il pastore, preparando per maggior contrasto il “volo”
fantastico dell’ultima stanza.
Anche qui c'è un'analogia con un passo dello Zibaldone (15 mag. 1828, 4306) in cui si dice che la
noia è la condizione delle persone sensibili, diversamente da quelle torpide che sono paragonate alle
bestie, cui la quiete non è minimamente fastidiosa. Cfr. anche un passo dei Night thoughts di Young,
in cui il poeta inglese afferma che la pace delle bestie è negata ai loro padroni, divorati
costantemente dal tedio e dalla scontentezza.
L'ultima stanza conclude il pensiero pessimistico del poeta sulla condizione di infelicità comune a
tutti gli esseri viventi ed è quella in cui il tono si fa più lirico, prima col desiderio da parte del pastore
di trasformarsi in un essere alato e nel tuono, poi con l'auspicio di essere più felice attraverso
l'anafora dei vv. 137-138, in cui si rivolge a entrambi gli interlocutori ("dolce mia greggia" / "candida
luna"). L’invenzione del volo che trasporta il pastore tra le stelle e lo proietta nella sfera incantata e
magica non lo libera delle sue inquietudini esistenziali ma, semplicemente, in tale sfera traporta tutti
i suoi dubbi. La negatività della sua vita diviene negatività di tutti gli esseri celesti e terreni e
dell’universo intero. La totale estraneità del pastore alla civiltà ( che significa qui libertà dagli errori e
dalle illusioni ) diviene la condizione privilegiata che lo conduce a intuire una verità universale e a
conoscere la natura per via poetica.
Leopardi gioca anche sull'ambiguità del termine "errare", che al v. 136 significa "vagare" mentre al v.
139 ha il senso di "sbagliare", sia pure con la stessa etimologia: il poeta smentisce in parte quanto
detto in precedenza e conclude dicendo che il "dì natale" (il giorno della nascita) è negativo per
qualunque creatura, nata in "covile" o in "cuna" (culla), dunque esprimendo nel modo più elevato il
concetto del pessimismo cosmico elaborato nei canti pisano-recanatesi di cui questo testo fa parte.
Va osservato che i vv. finali riprendono in parte il concetto espresso nel Dialogo di un fisico e di un
metafisico (Operette morali), in cui si ipotizza una forma di minore infelicità attraverso l'intensità
delle sensazioni e delle azioni, anche se ovviamente una tale possibilità è preclusa al pastore che
perciò è condannato a un'esistenza misera come la maggior parte degli altri uomini.
In questo canto sono evidenti le ripetizioni che conferiscono il ritmo di una “nenia” (es. nella
prima stanza si ripete Che fai, Ancor, sei..)
La sintassi è volutamente povera nella ricerca di un’essenzialità di risorse espressive,
conveniente ai supremi interrogativi che si pongono, alle nude verità che si affermano;
È prediletto il parallelismo;
Anche il lessico tende alla semplificazione e punta ad essere “trafigurato e favoloso, dotto e
semplicissimo”. In particolare nella quarta stanza, i termini ( eterna, solinga..) attivano la linea
dell’indefinito leopardiano. Presente anche l’uso dell’enjambement e del dimostrativo, come
nell’ Infinito.
La rima ricorre in maniera originale a distanza, come eco, per concludere il discorso.
(la rima – ale sigilla tutte le stanze per indicare la massima finale del pastore che spesso va a
coincidere con il contrasto tra lo stato umano e quello della luna: immortale, mortale, cale, male,
assale, natale).