Il giornalista
By Mafai Miriam
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Book preview
Il giornalista - Mafai Miriam
Una lezione di stile
di Bruno Manfellotto
Il fatto è che non ci sono più i Grandi Maestri. Venerati o no che fossero. Intendiamoci, di bravi giornalisti ce n’è ancora, eccome, ma non c’è più il tempo, e ormai mancano pure i luoghi e perfino le occasioni in cui trasmettere ai più giovani pillole di esperienza. Perché tutto è cambiato. E così rapidamente, poi.
Nel mondo della carta stampata – rivoluzionato rispetto a quello di cui parla Miriam Mafai in queste appassionate, e già sconsolate, riflessioni su giornali e giornalisti – da decenni i costi salgono e i ricavi scendono; il calo verticale della pubblicità ha preceduto e seguito quello delle copie; il conseguente taglio della foliazione ha ridotto gli spazi e con essi la possibilità di servizi più robusti (magari le pagine si trovano però per la pubblicità mascherata
, quella redazionale: un virus che mina la credibilità dell’informazione); l’ondata di prepensionamenti finanziati dallo Stato per alleggerire i bilanci degli editori ha paurosamente impoverito le redazioni privandole di molte competenze. Ciò che Miriam intravedeva tanti anni fa si è avverato, e in peggio.
Be’, tutto questo – se ne parlava con Filippo Ceccarelli, profeta e cultore dell’archivio e della memoria come strumenti del mestiere – ha portato anche all’estinzione di riti consolidati che contribuivano alla fabbrica delle notizie: è scomparsa per esempio la mazzetta
dei giornali, cioè il pacco dei quotidiani portati orgogliosamente sotto il braccio, che obbligava a leggere, meditare, sottolineare, tagliare, archiviare; non ci sono più le plenarie
, le riunioni di redazione aperte a tutti nelle quali suggerire argomenti e mettere sotto esame il giornale uscito; il passaggio dei testi
in presenza del redattore era utile per rimediare a sfondoni, insegnare trucchi, arricchire e migliorare l’articolo: oggi, quasi sempre, tutto va direttamente in pagina; a Repubblica
, dove Miriam ha lavorato tanti anni, sono state abolite le scrivanie personali sostituite da postazioni
a disposizione di chi capita, sennò si lavora da casa: così è finita pure la quotidiana socializzazione dalla quale nascevano spunti, idee, perfino i titoli di un’inchiesta. Oggi il vicino, l’interlocutore, il referente è uno schermo freddo che vomita informazioni, o pagine già disegnate, magari a chilometri di distanza. Per non dire della difficoltà di accesso alla professione, e dell’incubo della precarietà.
Dell’irruzione del web e delle sue conseguenze s’è già detto e scritto molto; in quanto all’intelligenza artificiale, che forse sarà il giornalismo di domani, siamo ancora ai primi vagiti. Sottolineo solo due aspetti, il primo è finanziario. Si sperava che la rete restituisse gli introiti persi dalla carta, ma non è così: per incassare l’equivalente di una copia in edicola occorrono più o meno quattro abbonamenti digitali perché il mercato impone un prezzo ancora irrisorio (fino a poco fa era tutto gratis: eccolo, il peccato originale). Inoltre, e qui penso ai contenuti, i giornali si riempiono spesso di storie e sceneggiate prese dal web, dove peraltro ritornano il giorno dopo in un pigro gioco di informazione circolare che penalizza i giornali di carta e spesso soddisfa solo chi ha scatenato la storia sui social.
Insomma, non tira una bell’aria. Eppure, c’è chi legge in positivo certe novità e si dice convinto che l’informazione non sia mai stata così forte, potente, influente. In effetti argomenti e notizie sono rilanciati dalle rassegne stampa di radio e tv, fin dalla notte; su quei titoli e commenti si costruisce ogni giorno la scaletta di tg e talk show, animati peraltro dalle stesse firme dei giornali. I social, infine, fanno da cassa di risonanza, da megafono dei quotidiani per poi, come si diceva, tornare su questi il giorno dopo. Insomma, il pubblico non sarebbe più solo quello delle edicole, che peraltro chiudono una dopo l’altra, ma è molto molto più ampio, e dunque c’è una possibilità di raggiungere l’opinione pubblica mai conosciuta prima.
Sì, molte di queste affermazioni sono fondate. Così si spiegherebbe anche il frenetico giro di comprati e venduti
, la paradossale corsa ai giornali da parte di nuovi editori, che però spesso sono editori solo per caso o per qualche altra ragione che conoscono solo loro. E dunque sì, questo potere c’è ancora, ma è come vampirizzato dai nuovi media. In realtà si è creato un evidente squilibrio tra rete, social e tv che succhiano quotidianamente il lavoro della stampa, e i giornali costretti dal mercato a una sorta di lavoro nero le cui conseguenze, però, sono il calo delle copie e degli introiti pubblicitari che si riversano sui nuovi soggetti. È una deriva che va arrestata, o almeno sulla quale dovremmo interrogarci senza eccessi di pessimismo, ma neanche indulgendo alla rassegnazione.
E allora, se le cose stanno così, se nulla è più come prima, se l’informazione si serve di strumenti nuovi, perché ci siamo decisi a pubblicare ora le riflessioni che Miriam Mafai scrisse tanti anni fa? E perché abbiamo integrato quelle pagine aggiungendo in appendice preziosi decaloghi scritti da grandi e venerati maestri?
Be’, innanzitutto per raccontare a chi non c’era, dunque soprattutto ai più giovani che sognano questo mestiere, cosa sia stato il giornalismo negli anni ruggenti del secolo scorso, accompagnarli per