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D’Annunzio
Chieti-Pescara
Scuola di Medicina e Scienze della Salute
Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche
Candidato: Relatore:
Luigi De Michele Chiar.ma Prof.ssa Clara Mucci
Matricola N°3122233
Luigi De Michele
Indice
Abstract………………………………………………….4
Introduzione…………………………………………….5
Discussione
Capitolo 1……………………………………………….7
Capitolo 2………………………………………………11
Capitolo 3………………………………………………14
Capitolo 4………………………………………………17
Capitolo 5………………………………………………22
Capitolo 6………………………………………………25
Conclusioni…………………………………………….27
Note……………………………………………………..30
Abstract
Siamo intenzione.
Ragion per cui, un daltonico percepirà la realtà esterna in maniera differente rispetto ad
un non daltonico. E, come se non bastasse, questa differenza sarebbe, o potrebbe essere,
la summa delle miriadi di differenti interfacciamenti che si ritroverebbe ad incontrare il
succitato istinto. Che, a sua volta, potrebbe interfacciarsi dal monitor di un CPU,
all’infinito, passando per il Browser di un Software installato in un CPU, attraverso il
quale interfacciarsi alla realtà virtuale. Ne consegue che l’intenzionalità finalizzata allo
scopo sia interfacciata all'esterno attraverso la struttura della nostra mente. Assume forme
differenti attraverso il funzionamento del nostro Sistema Nervoso Centrale, nonché
attraverso la natura della nostra stessa architettura mentale. L'intenzionalità determina le
loro stesse strutture.[2]
Discussione
Capitolo 1
Le tappe che portano l’essere umano alla completa, ed attuale configurazione cerebrale e,
quindi, al completo ed attuale interfacciamento alla realtà, nasce con il periodo
protoverbale circa 200 mila anni fa con l’Homo Sapiens. In questo periodo l'uomo utilizza
utensili e simboli per interagire. Tale configurazione dell'essere umano si completa con
l’acquisizione della funzione linguistica. [3]
Lo sviluppo del Sistema Nervoso Centrale, e del nostro apparato psichico, sono
determinati durante il periodo di gravidanza. Esso è frutto del corredo genetico, della
attività biochimica del caregiver femminile (la madre), del rapporto ambiente esterno
madre-bambino, della funzione del padre sulla diade madre-bambino, nonché sugli effetti
che l’ambiente circostante produce su entrambi. [5]
Il bambino nasce 'ad immagine e somiglianza della madre'. La madre determina l'aspetto
genetico, l'attività biochimica, nonché l'attività mentale del bambino, attraverso le proprie
caratteristiche genetiche, del proprio Sistema Nervoso Centrale, della propria attività
biochimica, del proprio apparato psichico, delle proprie strutture. La madre, inoltre, può
essere causa di trauma cumulativo per via della eccessiva protezione nei confronti del
figlio che, a sua volta, può indurre il suo Sé alla dipendenza dal caregiver. [6]
Il feto percepisce lo stato psicologico della madre, del suo rapporto con l'esterno, con il
caregiver maschile, la sua vita mentale. [7]
È proprio per questo motivo che il ‘cordone ombelicale’ è il primo oggetto relazionale.
Perché l'esperienza del legame vissuto dal feto all'interno del grembo materno
nutrirà/denutrirà, trasmetterà stati emozionali, accoglierà/respingerà e fornirà
sicurezza/insicurezza allo stesso. Il seno materno prenderà il posto del cordone
ombelicale fino alla dodicesima settimana di allattamento, settimana in cui i possibili
effetti da ‘dipendenza biochimica’ (il cortisolo su tutti) dalla madre non si faranno più
sentire. [8] Ecco perché vi è una relativa continuità tra trauma intra ed extrauterino.
Questo accade, quindi, quando la madre è esposta a stress psicosociale, e può portare alla
nascita di bambini costretti ad affrontare fin dalla nascita periodi caratterizzati da
depressione ed ansia, mentre la madre può sviluppare una depressione post-partum. Nei
casi peggiori, ci possono essere gravi anomalie nel neurosviluppo del feto o, addirittura,
la madre può anche perdere il bambino. [9] [10]
Risulta alquanto strabiliante come la donna viva un periodo lungo circa ventiquattro mesi
dall’inizio della gravidanza, durante i quali viene letteralmente riscolpita l’architettura del
proprio Sistema Nervoso Centrale, e la materia grigia si riduce nelle aree coinvolte
nell’elaborazione e nella risposta ai segnali sociali. Questo decremento della materia
grigia, tuttavia, può rappresentare un processo benefico di maturazione e
specializzazione, nonostante anche l’ippocampo perda anch’esso volume. Il grado di
perdita di materia grigia predice quello che sarà il grado di attaccamento futuro. [11]
Il trauma è vieppiù generazionale, non solo nei rapporti bidirezionali con i genitori ma,
anche e soprattutto, nell'interazione monodirezionale madre-bambino quando il
feto/bambino vive vincolato per forza di cose alla madre. L'aspetto generazionale, la
tendenza a ripetere le proprie esperienze traumatiche, fatte di trascuratezze, abusi,
violenze, porterà il bambino a rivivere il trauma fino al raggiungimento
dell’indipendenza’ dal nucleo famigliare ma, tuttavia, potrebbe non andar via, nonostante
questo passaggio. Il trauma, il cattivo rapporto genitore-figlio, la deficitaria funzione
biologica messa in atto dalla Diade primordiale, comprometteranno il corretto sviluppo
cerebrale e, nella fattispecie, del sistema limbico. [14] Ciò varrebbe, a mio modo di
vedere, per le ripercussioni riflesse del comportamento paterno sul feto attraverso la
madre.
Capitolo 2
Ciò considerato e premesso, risulta alquanto lampante come la crescita del cervello, la
sua auto-organizzazione e lo sviluppo del Sé siano intrecciati con il contesto sociale delle
relazioni umane. E, se Allan N. Schore sostiene che l’auto-organizzazione del cervello
umano avvenga, nella fattispecie, nel contesto di una relazione con un altro Sé, a mio
modesto avviso, è parimenti vero che ciò avvenga fin dallo stato fetale.
Schore ha il merito rivoluzionario di aver compreso per primo come l’altro Sé, il Sé
materno, quello del caregiver principale, agisca da regolatore psicobiologico esterno della
crescita ‘dipendente dall’esperienza’ del sistema nervoso centrale del bambino. Per
quanto mi riguarda, piuttosto, la principale figura di accudimento, la madre, effettua
questa regolazione anche al suo interno, durante i nove mesi di gravidanza.
A tal fine, risulta assai importante che la diade non venga assolutamente sollecitata
negativamente dalla figura paterna, dalla famiglia, dagli affetti (e dalla madre stessa) ma,
piuttosto, venga protetta dall’esterno da tutte quelle figure che interagiscono
quotidianamente con una donna che aspetta un figlio. Gli input somministrati dagli agenti
esterni alla diade, infatti, possono agire sul caregiver, se perpetrati, in modo sittanto
controproducente per il feto, che il suo neurosviluppo, può risultare irrimediabilmente
compromesso.
È proprio per questo motivo che nell’Introduzione accenno alle intuizioni di Franz
Brentano sull’intenzionalità finalizzata allo scopo. Ed è altresì vero che credo che il
primordiale ruolo del caregiver non sia esclusivamente quello di sintonizzarsi con il
bambino, ma quello di confermare al bambino, che lei è sua madre, e che lui è suo figlio.
Che è al Mondo. E che, qualora il ‘viaggio’ nel grembo fosse stato positivo, continuerà
ad andare bene, mentre, qualora ci sia stato qualche inconveniente, andrà meglio.
L’apoteosi delle aspettative e dei sogni. Che, se disattesi possono certamente
traumatizzare il piccolo, e contribuire a creare un attaccamento deficitario.
È a partire da questo presupposto che, quando sostengo che il taglio del cordone
ombelicale è il primo trauma post-natale, intendo in realtà dire che il passaggio da feto a
bambino è un periodo di crisi (kratos) in cui il bambino deve ritrovare la certezza di
appartenere ad un altro essere umano, allo stesso essere umano.
Capitolo 3
Ritengo di fondamentale importanza, per la psicologia che verrà, scandagliare quelle che
sono le emozioni, le percezioni, le sensazioni, i comportamenti, ed i pensieri che ‘fanno’
il bambino. In modo tale da dare lui le giuste risposte, ed attivare i giusti accorgimenti.
Perché credo fermamente che il bambino, nei primi tre anni di età, sia in perenne ricerca
di conferme. E le interazioni cervello-cervello che avviano stati mentali di
consapevolezza ne sono la conferma.
Schore afferma, vieppiù, che tra i dieci ed i dodici mesi, a conferme giunte, il bambino
incomincia ad esplorare l’ambiente fisico non materno, risultando abbastanza autonomo.
Ciò nonostante, egli continua a cercare conferma (ancora una volta!) di ‘rinnovata
partecipazione’. Tale ‘rinnovata partecipazione’ è, secondo il mio modesto punto di vista,
essa stessa ‘conferma’, silenzia le onnipresenti paure del bambino di perdere le sicurezze
acquisite dopo il taglio del cordone ombelicale, e non ancora cementate a causa di un
sistema limbico non ancora completamente strutturato.
A dieci mesi, il 90% dei comportamenti materni consiste in gesti affettivi, in giochi e in
accudimento. Tra i tredici ed i diciassette mesi la madre esprime più proibizioni. Nel
secondo anno di vita il caregiver diventa agente di socializzazione. Sono mesi cruciali per
il neurosviluppo del bambino e, personalmente, credo che il ruolo del gioco sia di
fondamentale importanza.
Penso, tuttavia, che il suo ruolo debba essere ridisegnato nell’ottica di un momento atto a
creare nel bambino 1. Stabilità emotiva (anche da conferme ricevute nei mesi precedenti);
2. Autonomia dal caregiver. Questo perché, se è vero che gli oppiacei endogeni e la
dopamina regolano la crescita neurale e lo sviluppo (Le Moal e Simon, 1991; Hauser et
al., 1987), è anche vero che il bambino non possiede un’architettura mentale, un Sé tale
da reggere la produzione eccessiva di tali neurotrasmettitori.
Shore sostiene che, durante il secondo anno di vita, uno stato di eccitamento e di euforia
contraddistingue il bambino, che ha accesso a rappresentazioni presimboliche che
codificano la sua aspettativa di essere in sintonia con il partner. Più che le aspettative –
repetita iuvant – le rappresentazioni presimboliche codificano la sua aspettativa di essere,
per così dire, mentalizzato dal caregiver. In breve, il bambino continua imperterrito, e
continuerà per tutto il corso della sua vita, a ricercare riconoscimento e conferme di
esistenza e di appartenenza. Che, con la sempre maggiore acquisizione di consapevolezza
ed empatia, con il maggior sviluppo della corteccia orbitofrontale e, nella fattispecie, della
corteccia destra, diventano conferme che riguardano l’altro, che riguardano il caregiver.
Lo stupore di essere. Sono perché sei.
Già Winnicott (1958) parlò di ‘continuità nell’essere’ come fattore imprescindibile per lo
sviluppo emotivo del bambino. È alquanto sensato pensare che questo traguardo
debba/possa essere raggiunto scientemente dal caregiver poggiando sulle attuali evidenze
in Letteratura Scientifica: partendo dal presupposto che il bambino vive una
sensibilissima fase di neurosviluppo, e che la sua salute mentale dipenda da come questa
fase verrà vissuta e gestita dal caregiver posto nell’ambiente circostante, sarebbe
possibile ipotizzare un modello universale di approccio al bambino atto a ‘sostenere’,
‘disegnare’, nonché ‘modellare’ chirurgicamente il suo sviluppo cerebrale, in modo tale
da prevenire disturbi nel corso della sua esistenza.
Durante l’ultima parte del suo secondo anno di vita, poi, nel bambino avviene un
completo rinnovamento dei sistemi frontolimbici e della corteccia orbitofrontale, e le
rappresentazioni presimboliche diventano a tutti gli effetti simboliche (Mrzljak, Uylings,
van Eden e Judas, 1990). Questa riorganizzazione della regione prefrontale è ‘aperta a
interazioni con il mondo esterno’ (Kostovic, 1990).
Tuttavia, differentemente da Schore, non credo affatto che la semplice vergogna sia alla
radice dei possibili problemi del bambino ma, anzi, credo che questa affondi le proprie
radici nel terreno fertilissimo dell’abbandono, della trascuratezza, dell’abuso, della
violenza. La vergogna è, in questo caso, infatti ‘trasmessa’ dall’adulto, ed il bambino,
ancora una volta, non possiede assolutamente un sistema limbico abbastanza maturo da
permettergli la corretta gestione di tale mole di ‘informazioni’ emotive. Sopratutto se si
imbatte in vergogna genitoriale dettata dal rifiuto di adempiere al proprio ruolo materno
(o paterno) o, addirittura, dal rifiuto di entrambi i genitori (laddove la madre ‘preferisce’
il partner a suo figlio). Soprattutto se, come credo, la vergogna sia indotta da derisione,
umiliazione e svalutazione (anche giocosa) genitoriale.
Alla luce di ciò, va considerato, infine, che il successo nel regolare la fluidità di queste
transazioni è anche il principale indicatore della organizzazione e della stabilità del Sé
emergente e nucleare. Emde (1983), infatti, identificò la struttura primordiale di
integrazione del Sé nascente nell’emergente nucleo affettivo, che garantisce il
mantenimento dell’umore positivo e la regolazione del comportamento interattivo del
bambino. La maturazione e lo sviluppo degli affetti rappresentano un momento chiave
dell’infanzia, uno dei principali traguardi evolutivi (Krystal, 1988). Il bambino passa da
una fase di passività nella regolazione degli affetti ad una fase attiva. Ed è in questo
periodo che si ‘forma’ il temperamento del bambino.
Questa è la conferma che il traguardo ontogenetico di un sistema interno efficace che
possa regolare adattivamente diverse forme di eccitazione e, quindi, di affetti, cognizioni
e comportamenti, può essere raggiunto unicamente in un ambiente socioemotivo ottimale,
e che la partecipazione della madre alla regolazione emotiva del bambino modella in
maniera indelebile la capacità di auto-organizzazione del Sé emergente (Schore, 2003).
Capitolo 4
L’attaccamento sicuro, altresì, diventa una sorta di patto stretto tra madre e figlio. Un
patto recriminato da parte del bambino a viva voce, ma senza l’utilizzo del linguaggio. A
volte un grido d’aiuto, che rimane inascoltato, e per questo non sempre facilmente
comprensibile agli occhi del caregiver, che richiede da parte di quest’ultimo grandi
capacità di lettura delle emozioni del piccolo (torna potente il concetto secondo il quale
il bambino sa più di quello che dà a vedere), che la mancanza di comunicazione verbale
non può e non deve pregiudicare.
Il bambino comunica attraverso emozioni che cercano solo un contenitore per essere lette.
Questa comunicazione deve tornare sotto forma di una comunicazione altrettanto
emotiva, ma ben calibrata e ragionata. Il caregiver si presume debba essere uno scaffolder
emozionale. In caso contrario il bambino incomincia a sentirsi rifiutato (‘Perché mi hai
messo al Mondo?’, ‘Perché ce l’hai con me?’, ‘Cosa ho sbagliato?’) e consolida un
modello di Sé non meritevole d’aiuto e conforto. Quello che emerge, quindi, è un feto-
bambino che si sviluppa e nasce nella illusione del dare e del ricevere senza condizioni.
Sono persuaso dal pensare, nonostante i limiti posti dalle mie attuali competenze, che la
nascita del Super-Io nel bambino coincida con la perdita di questa certezza, e che la
modalità con cui questo avviene influisca grandemente, per non dire in maniera
determinante, con l’emergere di un Sé primordiale.
Quanto al concetto di vergogna inculcata dal caregiver ho un’opinione che spero essere
più approfondita e più puntuale: la vergogna è causata dal fatto che il Super-Io del
bambino gli ha permesso di maturare la consapevolezza che sta innescando il meccanismo
di identificazione proiettiva nei confronti del caregiver ed, in questo modo, finisce per
sentirsi in colpa.
Vissuto il primo trauma, il bambino ha riempito per la prima volta anche il serbatoio del
suo Inconscio. Un serbatoio creato per mano del Super-Io. Il suo Sé nascente non può
molto contro una architettura Super Egoica già bella che formatasi. Cosa si potrebbe fare
per rimediare celermente ad una condotta materna così nefasta? In mia opinione,
considerato che il bambino non possiede un Sé maturo per una questione anzitutto
biologica, si dovrebbe agire – modellandola chirurgicamente – su quella stessa
architettura Super Egoica che ha creato l’Inconscio.
Ragion per cui, una volta creato il serbatoio dell’Inconscio, il Super-Io punitivo del
bambino, figlio di un Super-Io duale (quello collettivo appartenente alla madre ed al
padre), che oltrepassa indisturbato le generazioni, dapprima mina alle fondamenta
l’autostima del piccolo, mentre, al contempo, lavora ineluttabilmente anche sul serbatoio
della stima di Sé (creato inizialmente dalla madre), forandolo, in modo tale da non farlo
riempire o traboccare mai. Ed è quasi allo stesso modo che agisce la paranoia: come la
gramigna non va tagliata, ma estirpata.
Con siffatta vita mentale, purtroppo, il bambino non avrà un corretto neurosviluppo. Lo
stress attiverà cortisolo più del dovuto, che agirà in modo nefasto sul sistema limbico e,
nello specifico, sulla sua memoria. Un’altra gabbia si aggiungerà a quella precedente ed,
anzi, la ingabbierà del tutto. In parole povere: una matrioska.
Qualora, poi, lo stress proverrà dal padre, e non direttamente dalla madre, ci ritroveremmo
in presenza di una terza gabbia, quella forse definitiva, della ‘madre morta’ (Green, 1983).
Nel ‘Complesso della madre morta’, infatti, spiega Green, la madre non muore nel senso
fattuale, ma nel senso che non è più viva nel rapporto con il bambino, smette di investire
affettivamente su di lui, ed è persa in un lutto, o in un altro investimento. In questo modo
il bambino finisce in uno stato di non vita, nella necropoli del ‘primo’ caregiver.
Un padre violento, dispatico, insensibile, stressante, può svestire la donna dei panni della
madre, lasciata sola nell’accudimento del figlio, e per di più maltrattata (o non abbastanza
lodata) per il lavoro di accudimento svolto. Queste dinamiche famigliari rappresentano la
precoce morte delle aspettative del bambino. Esse rappresentano il fatto che le conferme
non arriveranno mai. Una ferita narcisistica che dovrà diventare feritoia quanto prima
(Carotenuto, 1998).
Entrato in questa spirale, il bambino si ‘stringe’ più di prima alla donna che gli ha dato la
vita ed, anzi, la piange come fosse morta. Di contro, il rancore, la rabbia, l’insofferenza
nei confronti di un padre percepito come assassino, non tarderanno ad arrivare. Così come
non tarderanno ad arrivare il ‘Complesso di Edipo’ ed il ‘Complesso del Salvatore’. Due
rovesci della stessa medaglia, uno che si abbevera nell’Es, l’altro che si abbevera nel
Super-Io. Entrambi potrebbero durare in eterno, se non portati alla consapevolezza.
Entrambi indispensabili chiavi per riaprire quelle gabbie-matrioska nel quale è stato
costretto il bambino. Un bambino focalizzato ormai solo su stesso, laddove se stesso
significa diade madre-figlio.
È anche partendo da questi presupposti che il bambino vive un altro tipo di sviluppo:
quello sessuale. Credo, difatti, che l’Edipo altro non sia che un cedimento da parte dei
Sé non coesi della madre e del bambino alle spinte dei loro Es, troppo pressati dai
rispettivi Super-Io (pentole a pressione). Ma, ciò detto, al fine di comprendere meglio
quello di cui vado parlando, preferirei focalizzare l’attenzione, più che sulla teoria
freudiana-junghiana, su quella propriamente di Silvia Montefoschi (“L’uno e l’altro.
Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico”, 1977). Montefoschi ci
spiega come l’incesto sia legge universale che trova conferma nella storia biologica e
materiale dell’Umanità, dall’intero universo umano, all’universo tutto, dal mondo
atomico e molecolare, passando per il Big Bang.
Montefoschi, infatti, già molto tempo prima di Paul C. Vitz ne “L’inconscio cristiano di
Sigmund Freud” del 2018, intuì come per comprendere appieno il ‘Complesso di
Edipo’, occorreva spogliarsi proprio di quel Super-Io di matrice prettamente cristiana
(‘Gesù come ‘Anti-Edipo’’). Riempiendo l’incesto giustappunto di quei connotati
moralistici, dogmatici e religiosi che sia Freud, sia Jung, cercarono di evitare allo
sfinimento pur di non falsare la loro lente d’ingrandimento.
Quanto alla ‘Sindrome del Salvatore’, può essere, appunto, diretta conseguenza della
‘Sindrome della Madre Morta’, nonché di un Super-Io dai contenuti religiosi molto forti
ed, il più delle volte, figli abiurati dell’umanesimo cattolico. In casi come questi, il
bambino ‘diventa’ dapprima il salvatore di una madre vessata da un padre violento
(molte volte alcolista) o, addirittura, malata (depressa) ed, in seguito, salvatore
(crocerossino) di una intera umanità che, tuttavia, guarda ormai con gli occhi del narciso
(‘Sindrome del Messia’). Nella fattispecie, la ‘Sindrome del Messia’ è l’ultimo step di
questo complesso, uno step che, se compiuto, può significare molto spesso delirio,
schizofrenia.
Capitolo 5
Va da sé che questo lasso di tempo sia, molto probabilmente, il periodo più importante e
predittivo per e della saluta mentale di un essere umano. Schore, infatti, ha portato alla
luce l’importanza delle transazioni vis-à-vis per quel che riguarda la sincronia affettiva
tra madre e bambino. Queste transazioni influenzano direttamente la strutturazione della
corteccia orbito-prefrontale, area cortico-limbica che avvia un cambiamento maggiore e
più intenso a partire proprio dal decimo mese di vita del bambino, necessaria per
acquisire forme di conoscenza indispensabili per la regolazione del comportamento
sociale.
Sede del non verbale, l’emisfero destro, tuttavia, lascia (o dovrebbe lasciare) il posto di
‘comando’ all’emisfero sinistro dopo il terzo anno di vita. È in questo periodo, infatti,
che, secondo Bowlby, vi è una diminuzione del sistema di attaccamento, per un
improvviso passaggio ad una soglia maturativa. Ma cosa succede se ‘tutto’ andasse
storto? Se la madre non adempie al suo ruolo di genitore quantomeno buono? E se la
padre venisse meno? Se, insomma, l’ambiente circostante fosse ostile al bambino a tal
punto da pregiudicare tale passaggio di consegne da emisfero ad emisfero?
La crescita accelerata del cervello va dalla fine della vita prenatale alla fine
dell’infanzia. Un arco di tempo in cui l’emisfero destro si espande rapidamente. Ma
sempre più prove indicano come il difetto genetico che sottende i disturbi psichiatrici si
trova nei sistemi ereditari implicati nella sintesi delle amine biogene che regolarizzano
la maturazione dei centri di elaborazione dell’informazione sottocorticali e corticali e
che, tali mutazioni, portano alla rottura della normale sinapto-genesi e della formazione
dei circuiti.
Risulta abbastanza palese che, in siffatte condizioni, il bambino non potrà affrontare
compiutamente le sfide adattive che la vita gli porrà dinanzi, e non riuscirà ad esprimere
al meglio una vita socio-affettiva, finendo per sviluppare un disturbo psichiatrico
(schizofrenia, depressione, depressione unipolare, disturbo bipolare, disturbo di
personalità narcisistico ed antisociale).
E, come se non bastasse, se tali maltrattamenti, poi, fossero stati perpetrati prima del
secondo anno di vita, non ci sarebbe assolutamente la possibilità di far riaffiorare il
contenuto emotivo delle esperienze rimosse, a causa del fatto che, se l’amigdala è
presente in modo funzionale sin dalla nascita, l’ippocampo si sviluppa compiutamente
solo dopo il secondo anno d’età. La definitiva gabbia, la più grande di tutte, che chiude
a doppia mandata il bambino.
Eppure è possibile guardare attraverso la ferita, facendo di essa una feritoia attraverso la
quale osservare, e comprendere il proprio mondo interno. È possibile ‘sbloccare’ una
volta per tutte il nostro emisfero destro chiuso a tenuta stagna, con l’aiuto certosino di
un terapeuta che proverà a riconnettersi con il bambino che fu, pur di portare Luce
sull’Ombra, mentre il Sole raggiunge lo Zenit. È possibile (nonché doveroso, nonché
assolutamente naturale e fisiologico) vivere una vita nella sofferenza latente. È possibile
riuscire ad adattarsi all’ambiente anche quando l’ambiente assume forme sempre più
impraticabili. È possibile dotarsi finalmente di un Sé maturo, coeso, riflessivo. È
possibile finanche rendersi autonomi, indipendenti, realizzare i propri sogni, reinserirsi
socialmente, affettivamente, lavorativamente. È possibile una ricostruzione della propria
architettura mentale, con i tanti Brunelleschi della psiche. È possibile rimodellare il
proprio Super-Io, rendendolo meno disumano. È possibile venirne fuori, farsi un’altra
vita e, perché no, avere dei figli, con la possibilità concreta di spezzare definitivamente
quello che sembra essere un destino cieco dinanzi al susseguirsi delle generazioni. È
possibile superare la paura, la rabbia, l’angoscia, fintantoché riusciremo a
padroneggiarle. È possibile addirittura ridisegnare il nostro Sistema Nervoso Centrale,
ispessire la nostra Corteccia Prefrontale, fare affidamento su di una plasticità neurale
che sembra non voglia abbandonarci mai. Ciò che non è possibile è pensare che tutto
questo, oggi, non sia possibile.
Conclusioni
Esistono, infatti, a mio modo di vedere, quattro livelli di trauma da mano umana, quattro
livelli di traumatizzazione interpersonale: 0. Il trauma prenatale; 1. Il trauma relazionale
precoce; 2. I maltrattamenti, gli abusi, l’identificazione con l’aggressore; 3. Il trauma
massivo, la trasmissione intergenerazionale.
Il livello traumatico zero, appunto, è quello teorizzato dal sottoscritto attraverso questo
studio (Ferenczi+Schore+Mucci+De Michele). E prevede che il ‘cattivo’ neurosviluppo
del sistema limbico durante l’ultimo stadio della gravidanza, gli ultimi tre mesi (che causa
‘cattiva’ regolazione delle emozioni [15]), può essere causato dai vissuti materni, dagli
input stressanti del padre sulla madre, dall’ambiente in cui vive il caregiver.
Personalmente parto dal presupposto che una memoria emotiva compromessa porti ad
apprendere dall'esperienza in modo deficitario [16] e che, quindi, abbia un ruolo nefasto
sulle capacità adattive. Secondo la mia nascente teoria, le aree del Sistema Nervoso
Centrale implicate nella risposta allo stress sono amigdala, (ippocampo) e corteccia
orbitofrontale. Molteplici evidenze scientifiche mostrano, difatti, un incremento del
cortisolo e della norepinefrina. Mi è stato permesso dedurre, quindi, che la
sovrapproduzione di cortisolo da parte del caregiver possa agire negativamente su queste
aree interconnesse del Sistema Nervoso Centrale del feto, arrivando a comprometterne il
corretto funzionamento [17]. Ritengo, infine, che già a livello intrauterino il feto possa
subire traumi reali, diretti ed indiretti, a causa dei maltrattamenti subiti dal caregiver, a
causa di violenze, a causa di stress prolungato generato dal padre del bambino. Mentre
sono abbastanza cosciente del fatto che è tutto ancora da definire il concetto da me
lanciato di 'Dipendenza Biochimica', un trauma aggiuntivo, un trauma psicobiologico,
quello del Cordone Ombelicale, nonché quello derivante dalla possibilità che durante il
periodo di gravidanza si inneschi nel feto una dipendenza (quantomeno) dalla dopamina
'ricevuta' dalla madre, a livello sia quantitativo che qualitativo, tale che al momento della
nascita il bambino finisca per pagare questo distacco.
Il livello primo è stato elaborato da Schore, in seguito agli studi pionieristici di Bowlby
ed Ainsworth, e ci parla di una madre-regolatrice dell’ambiente circostante il bambino
durante i primi stadi dello sviluppo post-natale. Schore sostiene che le interazioni di
regolazione emotiva possono rivestire un ruolo critico durante il neurosviluppo ed il
mantenimento dei circuiti del sistema limbico. Il sistema limbico si ricopre di mielina nel
primo anno e mezzo di di vita ed è proprio questo primo anno e mezzo della vita umana,
in cui si forma la relazione di attaccamento, che influisce permanentemente sul
neurosviluppo futuro. Insomma, le relazioni di attaccamento hanno un forte impatto sulle
aree limbiche e corticali dell’emisfero destro e, quindi, presiedono alla formazione delle
qualità emotive, relazionali, sociali del bambino. Schore (1994) sostiene parimenti che
l’attaccamento disorganizzato sia associato ad una povera regolazione affettiva, povero
controllo degli impulsi, rabbia, deficit dell’attenzione, umore ballerino, fluttuazioni
estreme dell’umore e dell’autostima. La mancata regolazione affettiva impedisce lo
sviluppo della connessione dell’amigdala con le aree orbitofrontali che dovrebbero inibire
e controllare gli affetti negativi. Il primo livello di prevenzione dalle traumatizzazioni
future è proprio l’attaccamento futuro.
13. Deirde McCarthy, Paula Lueras, Pradeep G. Bhide (2008), ‘Elevated Dopamine
Levels During Gestation Produce Region-specific Decreases in Neurogenesis and Subtle
Deficits in Neuronal Numbers’.