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IL GIOCO DEL DESTINO

MITI
GRECI
1

Edipo
Il gioco del destino
a cura di Giulio Guidorizzi

COBHJEBE DELIA SEDA


Grandi miti greci
Collana a cura di Giulio Guidorizzi
Published by arrangement with The Italian Literary Agency
Voi. 1 - Edipo

© 2018 Out ofNowhere S.r.l., Milano


©2018 RCS MediaGroup S.p.A., Milano

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Edizione speciale per il “Corriere della Sera” pubblicata su licenza di Out ofNowhere S.r.l.
Il presente volume deve essere venduto esclusivamente in abbinamento al quotidiano “Corriere delia Sera”

CORRIERE DELLA SERA STORIE n. 1 del 2/1/2018


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ISSN 2038-0844

Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi


Editor: Martina Tonfoni

Il racconto del mito e Variazioni sul mito di Giulio Guidorizzi


Concept e realizzazione: Out ofNowhere S.r.l.
Progetto grafico e impaginazione: Marco Pennisi & C. S.r.l.
Coordinamento editoriale e redazione: Flavia Fiocchi
Indice

Introduzione 7
di Giulio Guidorizzi

Il racconto del mito 19


di Giulio Guidorizzi

Genealogia 88

Variazioni sul mito 93


di Giulio Guidorizzi

Antologia 123

Per saperne di più 163


Introduzione

Il racconto

«Potendo - scrive Cesare Pavese nell’introduzione ai Dia­


loghi con Leucò - si sarebbe fatto a meno di tutta questa
mitologia». Potendo; ma non si può. Da quasi tre millenni, i
miti greci fanno parte della nostra civiltà, e si direbbe pro­
prio che siano compagni dì strada inevitabili, un vivaio ine­
sauribile di simboli e di storie.
Mythos, in lingua greca, designa il concetto nei suoi dif­
ferenti livelli: la singola parola che esce dalle labbra di qua­
lunque persona; una serie di parole che si organizzano in
un discorso; un discorso che ha lo scopo di raccontare una
storia; infine, un particolare tipo di storia che racconta fatti
avvenuti in un tempo lontano e che sono diventati esemplari.
Questo è ciò che generalmente oggi intendiamo per "mito”.

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GRANDI MITI GRECI

Mito è dunque un modo di raccontare; ma è anche un


modo di pensare. Il pensiero mitico infatti è un prodotto
dell’immaginazione umana che segue logiche diverse ri­
spetto al pensiero cosciente. E un pensiero che racconta e
non analizza. Ogni essere umano utilizza in qualche modo il
pensiero simbolico, e tutti comunque lo sperimentiamo, con
inesorabile regolarità, nel momento in cui, chiusi gli occhi
alla veglia, li riapriamo durante il sonno: il sogno infatti
usa lo stesso linguaggio del mito, racconta di noi stessi e il
nostro mondo segreto usando la stessa materia del mito. Del
resto, risale a Freud l ’idea che il sogno rappresenti il mito
dell’individuo, mentre il mito è il sogno collettivo dell’uma­
nità delle origini.
Con la psicanalisi, all’inizio del X X secolo, il mito è sta­
to trasferito dal lontano passato a un eterno presente, che
è quello della mente. Il mito, da questa prospettiva, riguar­
da davvero ogni essere umano perché il suo mondo è quello
dell ’irrazionale, da cui le antiche storie fanno emergere un
impasto di energie emotive fatto di passioni, di sangue, di
eros; il mito non rimette le cose a posto, non esige un lie­
to fine ma lascia enigmi. Il mondo simbolico che viene dai
miti è uno specchio dell’e sperienza psichica e ne svela i
meccanismi: la gelosia di Medea, l odio di Clitemnestra, la
passione distruttiva di Fedra, i rimorsi di Oreste. Non esiste

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EDIPO

emozione umana di cui il mito greco non parli attraverso i


suoi personaggi. Come scrisse James Hillman, psicanalista e
filosofo statunitense, dal punto di vista della realtà psicologi­
ca «qualsiasi cosa vera ha sempre una componente mitica...
vero è solo ciò che è mitico». Se è così, il mito greco può esse­
re guardato come una specie di stanza del tesoro in cui sono
conservati ifondamenti della struttura psichica dell’umanità
e le sfide principali che si incontrano durante l esistenza.
Per chi li ascoltava, nella Grecia delle origini, invece, i
miti non riguardavano le profondità della mente, ma la realtà
della vita. Racconti veri, anche se in una dimensione diversa
da quella dell ’e sperienza quotidiana: storie che emergevano
da tempi lontanissimi e parlavano con una voce collettiva.
La caratteristica del mito greco è quella di essere un rac­
conto fatto di parole, non di segni scritti, trasmesso non da
sacerdoti o sapienti, ma da specialisti della parola, vale a dire
i poeti, che ne fecero il soggetto fondamentale delle loro ope­
re. Così, il mito ha viaggiato attraverso il tempo: nei racconti
dei cantori, nei versi di Omero, nelle sanguinose vicende del­
la tragedia, e più tardi nella poesia di Virgilio e di Ovidio.
Il mito greco è sopravvissuto anche quando sembrava
sepolto, anche quando i cristiani rinnegarono gli dèi e ne
distrussero i santuari. Malgrado ciò, i miti greci resistettero,
sotto la superficie, pronti a manifestarsi appena qualcuno li

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GRAND! MIT! GRECI

avesse cercati. È in questo multiforme universo di racconti


che si nasconde davvero il genio del paganesimo.
Scaturiti all’alba della nostra storia, dalla fantasia di una
popolazione del Mediterraneo orientale, ì miti greci hanno
colonizzato prima i Romani, che fecero propri quei racconti,
si sono insinuati nei racconti popolari e nell’iconografia del
Medioevo - decorazioni per capitelli o elementi pittorici delle
cattedrali—per poi rinascere durante il Rinascimento. I cantori
del mito non inventavano le loro storie, ma le recuperavano
dalla memoria collettiva, trasmessa attraverso le generazio­
ni. La vera essenza della mitologia —in particolare eroica - e,
si potrebbe dire, anche la sua inesauribile energia, sta nella
volontà dei Greci di conservare e di trasmettere le storie più
antiche del proprio popolo, in cui essi individuavano il nucleo
dell’identità culturale: una specie di Big Bang narrativo da cui
si generò a cascata la mirabolante varietà delle storie moderne.
Simili racconti circolavano non solo in letteratura, ma nel­
le leggende locali come quelle che Pausonia (II secolo d.C.)
ebbe modo di ascoltare dalla voce degli abitanti delle terre che
andava visitando; grazie a lui emersero quelli che potrebbe­
ro essere definiti “luoghi della memoria mitica”. A Pausania
fu mostrato il luogo in Arcadia dove Oreste pazzo si staccò
un dito con un morso, a Colono la tomba dove giacevano le
ossa di Edipo, quella in cui riposava la dolce eroina Antiope,

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EDiPO

dal cui tumulo gli abitanti di una regione vicina andavano a


rubare ogni anno poche manciate di terra, per rendere fertili
i loro campi grazie alla magica energia di quella zolla consa­
crata, persino gli avanzi della creta con cui Prometeo aveva
plasmato iprimi uomini in una desolata valle della Focide.
Quella che viene definita mitologia greca è in realtà un
labirinto di racconti, storie nate in luoghi e tempi diversi,
leggende locali, opere letterarie: un organismo vivente che
continua a riprodursi, fili che corrono paralleli tra loro o
s ’intrecciano in mille varianti.
Il mito contiene inform a narrativa tutta la memoria di un
popolo riversata nelle parole di chi lo racconta; e deve affa­
scinare e incantare, perché il piacere dell'ascoltare, la bel­
lezza e la magia di questi racconti, la loro capacità di susci­
tare emozioni formano il cuore della loro esistenza. Nessun
uomo è insensibile alfascino di un bel racconto: «Più divento
solitario - diceva Aristotele (fi. 668 Rose) - e più amo i miti».

Gli dèi

La civiltà greca non possedeva un libro sacro, né una casta


di sacerdoti o di dottori della legge a cui fosse affidato il
compito di spiegare la parola divina.

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GRANDI MITI GRECI

La storia sacra dei Greci è costituita da quei miti che nar­


rano le imprese degli dèi e le origini del mondo; ma le divinità
greche non dettano massime morali, non impongono coman­
damenti: essi non vogliono rendere più santa l ’umanità, ob­
bligandola alle regole di una legge sacra. Vogliono, piuttosto,
tutelare l ’ordine cosmico, di cui l ’uomo è una parte.
Da questo sistema di pensiero, fondato sulla natura libe­
ra del mito, discesero poi alcune form e fondamentali della
civiltà greca, di cui noi siamo gli eredi: la filosofia, in primo
luogo, cioè la ricerca di una mente umana libera di guardare
ovunque - altrimenti, non sarebbe stata filosofia, ma teolo­
gia la scienza; e anche quella form a speciale di comunica­
zione che fu il teatro tragico.
Storie che arrivano alle origini del mondo. Quello del
mito non è infatti semplicemente un passato e neppure un
passato molto remoto: il mito divino parla di un tempo in cui
il mondo era organizzato in modo differente e spesso descri­
ve un evento originario da cui deriva il presente. Da quando
Prometeo rubò ilfuoco agli dèi, gli uomini possono cuocere
le carni; da quando Persefone tornò alla luce dall’A de ebbe
inizio il ciclo regolare delle stagioni.
Il tempo del mito è un tempo delle origini, in cui gli dèi
e gli eroi operavano insieme. Tutto ciò che ora appare or­
ganizzato e diviso, di modo che gli dèi, invisibili, occupano

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EDIPO

il proprio mondo e lasciano agli uomini il loro, era allora


senza confini certi.
Il mito divino presuppone che le cose essenziali siano
precedenti a noi e si trovino a ll’inizio del tempo. Gli dèi
greci non creano il mondo: nascono, e non muoiono mai.
La nascita di un nuovo dio, Apollo o Hermes o Atena, è
un pezzo dell’universo che si completa. Poi, operano invi­
sibili accanto agli uomini e portano loro la propria forza
e anche la propria ira: proteggono, annientano. Ma sono lì,
in mezzo agli uomini: belli e felici però, mentre gli uomini
sono condannati alla morte e al dolore.

Gli eroi

A mano a mano che, attraverso la catena delle generazioni,


si risale verso il passato, ci si avvicina al tempo in cui, molto
vicini agli dèi, operavano uomini più nobili e grandi.
I personaggi dei miti greci generalmente discendono
dall unione tra una divinità e una creatura mortale. In loro,
però, la natura divinasi mescola a ll’o pacità del corpo uma­
no, e così, se da un lato sono fo rti e gloriosi, dall ’altro par­
tecipano al destino comune attraversando la sofferenza e
la morte.

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GRANDI MITI GRECI

La parte più ricca e splendente della mitologia greca ri­


guarda appunto questefigure che, con una parola forse pre­
greca, erano definiti "eroi” fheroes/ Ingenerale i Greci non
dubitarono mai che i loro eroifossero esseri reali e vedevano
in essi i loro antenati. I loro sepolcri, in recinti consacrati,
erano diffusi ovunque a testimoniare ilfatto che un eroe, pur
morto, continuava a vivere in qualche modo nel cuore delle
città, in mezzo agli uomini. Ricevevano onori, si portavano
offerte sulla loro tomba.
Molto meno potenti degli dèi da cui discendono, gli eroi
erano figure sacre, al punto che senza di essi sarebbe im­
possibile concepire la religione dei Greci, i quali li consi­
deravano i loro invisibili protettori: «Questa vittoria - disse
Temistocle dopo la battaglia di Salamina, come racconta
Erodoto (8, 109) —non è opera nostra: noi la dobbiamo ai
nostri dèi e ai nostri eroi».
Come gli dèi, anche gli eroi possono proteggere o colpire.
Senz’altro, un elemento che caratterizza l ’eroe greco lungo
tutta la sua storia è l ’eccezionaiità, che lo pone ben oltre la
normale condizione umana, per la sua intrinseca natura:
«Un eroe - scrive Aristotele ^Politica, 1332 b) - ha un corpo
e un’anima più grande».
Si potrebbe dire che la caratteristicafondamentale dell ’e-
roe greco è la sua ambivalenza morale, dal momento che

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EDIPO

egli non è buono nel senso etico del termine, ma piuttosto


una creatura premorale, e talvolta persino sinistra: Edipo
si macchiò di incesto e parricidio; Achille lasciò dietro di
sé una scia di sangue; Oreste uccise la madre; Ulisse fu bu­
giardo e impostore. In moltefigure eroiche, gli estremi della
nobiltà e dell’infamia si mescolano inestricabilmente, tutta­
via questa natura contraddittoria, eccessiva e straordinaria
assicura loro un posto glorioso nella memoria trasmessa dai
poeti attraverso i racconti. L ’e roe greco non è una creatura
del bene: è un essere che per le sue azioni si è reso degno di
essere ricordato. Tutto proteso verso la propria autoaffer­
mazione, l ’eroe greco si scontra con i limiti che la natura
umana, il destino, o altri uomini, gli pongono davanti. Non
cede, viene travolto. Ogni cosa della sua esistenza è eccessi­
va, le sue imprese, le sue ire, le sue sofferenze, il suo destino
e molto spesso anche la morte, che avviene in form e clamo­
rose e violente, sì potrebbe dire anch 'esse esemplari.
Alcuni di loro, però, ebbero infine un premio negato agli
uomini comuni: furono rapiti ancora viventi in un luogo ai
confini della terra, e da allora dimorano nelle Isole dei Beati,
felici p er sempre. Vissero, però, soprattutto nelle storie dei
poeti della loro gente, a cui la loro storia fu per sempre affi­
data. Sono quindi anche i nostri eroi: le loro storie non sono
solo la mitologia greca, ma la nostra.

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Conservata al
Metropolitan Museum
di New York, questa
tela di Gustave
Moreau, Edipo e la
Sfinge, racconta di un
Edipo molto umano
fisicamente in dialogo
con la Sfinge, sospeso
tra la vita e la morte.
Un oracolo spaventoso

Il mito di Edipo descrive il più antico omicidio stra­


dale della storia: a un incrocio si trovarono nello
stesso punto due uomini, un giovane e un anziano.
Il prim o camminava con il suo bastone da viandan­
te, e aveva percorso una lunga strada. Il secondo,
accompagnato da alcuni servitori, viaggiava sopra
un carro, condotto da un auriga. Ciascuno voleva
passare per primo. L’anziano volle imporsi, perché
era re e lo infastidiva quel giovane un po’ troppo
spavaldo che rifiutava di cedergli il passo; così,
mentre si incrociavano, gli calò un colpo di frustino
sul viso. Allora il giovane, infuriato, lo assalì col suo
bastone e gli spezzò il cranio, per scagliarsi poi sui

19
GRANDI MITI GRECI

suoi accom pagnatori che uccise, uno dopo l’altro,


con la stessa arma; solo uno riuscì a fuggire. I prota­
gonisti di questa folle scena di violenza e di rabbia si
chiamavano Edipo e Laio, il primo era il figlio e l’al­
tro il padre: non lo sapevano, perché il padre aveva
abbandonato il figlio molti anni prim a. Avrebbero
incontrato il proprio destino all’incrocio di tre stra­
de. Un luogo noto a tutti nell’antichità, in Focide,
proprio là dove si congiungevano le strade che parti­
vano da Dauli e da Tebe, per fondersi nell’unica via
che saliva verso la vallata di Delfi, dove aveva sede
il tempio di Apollo. In quel luogo sarebbe apparso ai
viandanti il (presunto) sepolcro di Laio, fatto di pie­
tre ammucchiate sul crocevia. Un’altra versione del
mito afferma che fu Laio a spingere il carro contro
Edipo schiacciandogli un piede con la ruota; per
questo Edipo lo afferrò, lo trascinò a terra e lo ucci­
se. Una lite, si direbbe, per futili motivi, come tante
ne accaddero in ogni epoca: la violenza accompagna
da sempre la nostra specie, sin dall’omicidio di A be­
le per mano di Caino. Quello tra i due viandanti
sembrerebbe un incontro del tutto casuale, tuttavia,
secondo la prospettiva del m ito greco, quel folle
scoppio di rabbia era stato voluto e deciso da tempo,

20
EDIPO

e faceva parte di un oscuro piano degli dèi. Il mito di


Edipo, infatti, ha, tra le varie domande che porta con
sé, questa: l’uomo è veramente libero e padrone dei
suoi atti? O dietro a ciò che crede di fare liberamen­
te si nasconde un progetto crudele e insondabile, che
muove le azioni umane come un burattinaio muove i
suoi pupazzi? Esiste il caso, esiste la libera scelta,
oppure tutto è già stato scritto e determinato da una
forza superiore? C hi portò quei due uom ini a
quell’incrocio, chi fece esplodere la loro rabbia? M a
partiamo dall’inizio, perché questa è una storia pie­
na di passioni e di episodi terribili: vedremo un ten­
tato infanticidio, un parricidio, un incesto e tanti al­
tri fatti tremendi. M a vedremo anche - e questo ren­
de grande il suo protagonista, Edipo - un uomo che
cerca di capire se stesso, che non ha paura di svelare
il suo lato oscuro, un uomo illuminato dall’intelli­
genza. Grandezza e miseria: così sono infatti gli eroi
greci. Non già esseri buoni, leali e puri ma un m i­
scuglio di forze che li rende sin troppo umani, vicini
agli istinti più prim itivi che ribollono nel fondo
dell’anima, eppure capaci di atti straordinari e dun­
que terribilm ente sim ili a tutti noi. Il racconto ha
inizio a Tebe, con un personaggio torbido, proprio

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GRANDI MITI GRECI

l’uomo che a quel fatale incrocio sarebbe morto in


modo tanto cruento. Edipo ancora non era stato con­
cepito quando accaddero cose che avrebbero condi­
zionato per sempre la sua vita.
Laio, re di Tebe, contristato per non aver generato
figli con la moglie Giocasta, si recò a Delfi per inter­
rogare l’oracolo di Apollo. «Non generare un figlio,
perché se lo farai, questo figlio ti ucciderà», gli disse
la Pizia, la profetessa estatica, che parlava in nome del
dio. Il responso era spaventoso. L’oracolo di Apollo si
manifestò così per la prim a volta in questa storia in
cui i protagonisti avrebbero cercato in ogni modo di
evitare quello che era scritto accadesse: il destino li
avrebbe avviluppati in una medesima rete, e più ten­
tavano di evitarlo più la rete si stringeva intorno a lo­
ro. Spaventato dall’oracolo, Laio, da quel momento,
evitò di unirsi alla sposa. Una sera, però, dopo un
banchetto durante il quale aveva bevuto in abbondan­
za, entrò nella sua stanza e si gettò su di lei. Da
quell’unico amplesso, la regina concepì un figlio.
Mentre il ventre di Giocasta cresceva, crescevano an­
che le angosce di Laio, che maturò il suo piano crimi­
nale. Quel figlio non poteva vivere accanto a lui, nella
sua stessa casa, per poi diventarne un giorno l’assas­

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EDIPO

sino. Così quando il bambino nacque, il re lo conse­


gnò a un servo perché lo portasse a morire sul monte
Citerone ma, prima di affidarglielo, trapassò le cavi­
glie del neonato con un anello d’oro, in modo da bloc­
carle. «Nostro figlio - ricorda Giocasta ndì'Edipo re
di Sofocle - era nato da meno di tre giorni quando
Laio gli legò le caviglie e ordinò di gettarlo sopra un
monte inaccessibile». «Desideravo il seno di mia ma­
dre - dice Edipo nelle Fenicie di Euripide - quando
mio padre mi mandò a diventare misero pasto di ani­
mali». Alcuni raccontavano che Edipo fu gettato a
morire sul Citerone, chiuso in un orcio d’argilla, se­
polto vivo, ma i più sostenevano che il neonato fosse
stato esposto con i piedi forati in un luogo impervio,
dove poco dopo fu trovato e raccolto da un pastore.
Perché Laio compì l’estrema crudeltà di bucare i
piedi di suo figlio? Non fu tanto un atto malvagio,
quanto superstizioso: sconciando i piedi del neonato,
Laio voleva impedire che il suo fantasma tornasse
indietro a perseguitarlo. M a Edipo non morì. Da quel
m archio indelebile si faceva derivare anche il suo
nome: Edipo, “l’uomo dai piedi gonfi” (oidào “esse­
re gonfio” e poùs “piede”), anche se - ed è più pro­
babile - il suo nome potrebbe significare “il conosci­

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GRANDI MITI GRECI

tore dei piedi” (òida “conosco” e poiis “piede”), in


rapporto all’enigm a della Sfinge di cui parleremo.
Quel bambino abbandonato tra i rovi del monte Cite-
rone è dunque, nel senso proprio del termine, un fi­
glio del monte: rifiutato dalla famiglia, il neonato
venne accolto dalla natura, selvaggia per tutti ma
amica per lui, e nacque una seconda volta nel luogo
in cui avrebbe dovuto morire divorato dalle fiere. Il
Citerone l’aveva salvato dalla morte, invece di ucci­
derlo. In questo modo, l’ambiente selvaggio della
montagna scambiò la sua funzione con quella della
civiltà: crudeli gli uomini, benevola la natura. «Ahi
Citerone, perché mi hai accolto?», grida infatti Edi­
po subito dopo essersi accecato. «Perché non mi hai
preso e ucciso subito?»
Come mai Laio ricevette un responso tanto terri­
bile? Gli dèi - si sa - non hanno bisogno di dare
spiegazioni. Qualche scrittore antico però si sforzò
di offrirne una ragione, trasformando così l’arbitrio
divino in un atto di giustizia. Secondo una versione
riportata da alcuni mitografi, quando Laio si trovava
in esilio lontano da Tebe, dopo un colpo di Stato che
l’aveva privato del trono, fu ospitato dal re Pelope
nella terra che da lui prendeva nome. In quella circo­

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EDIPO

stanza, s’innam orò follem ente del figlio del suo


ospite, Crisippo, lo rapì e gli fece violenza. Per que­
sto è indicato come il primo degli uomini a praticare
la pederastia. Crisippo si uccise per la vergogna, e
quando Pelope venne a sapere dell’accaduto, male­
disse Laio insieme a tutta la sua discendenza. Per
questo gli dèi impedirono che il re di Tebe generasse
figli: la sua stirpe doveva finire con lui, come lui
aveva distrutto la stirpe di Pelope. Il figlio non volu­
to di Laio sarebbe stato dunque il vendicatore della
m orte di un altro ragazzo - seppure a distanza di
molti anni. Come una malattia, la colpa e la conta­
minazione dovevano trasmettersi di padre in figlio,
finché tutta la fam iglia di Laio non ne fosse stata
annientata. Quando Laio riconquistò il trono di Tebe
e sposò la giovane Giocasta, portò con sé una colpa
da espiare, senza rendersene conto.
Fermiamoci un istante a osservare che la storia
del fanciullo abbandonato al momento della nascita,
e m iracolosam ente preservato dal destino, per di­
ventare un giorno re o capostipite di una dinastia, è
uno schema narrativo molto diffuso nella mitologia
mondiale. I casi di Romolo e Remo, abbandonati sul
Tevere in un cestello e poi nutriti da una lupa, e quel­

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GRANDI MITI GRECI

lo di Mosè, raccolto da una principessa egiziana dal­


le acque del Nilo, sono solo i più noti. Ve ne sono
tantissimi altri.
Semiramide, figlia della dea Derceto e di un sem­
plice mortale, fu esposta da sua madre su un monte
dove venne nutrita da colombe, si salvò e divenne
poi regina. Una simile peripezia capitò a Gilgamesh,
l’eroe sumero, secondo quanto racconta Ebano: i
magi predissero al re di Babilonia, Sevecora, che il
figlio di sua figlia gli avrebbe tolto il regno, così
quando il bambino nacque lo fece gettare da una fi­
nestra del palazzo, ma un’aquila lo raccolse al volo e
lo depositò nel parco dove un giardiniere lo avrebbe
trovato e poi allevato. Gilgamesh sarebbe diventato
re e un grande eroe: il più antico degli eroi.
Esiste anche - e a prim a vista potrebbe sembrare
strano - un Edipo medievale, anzi ne esistono molti:
leggende che si tram andavano oralmente e poi tra­
scritte da autori dell’epoca; Edipo non si chiama più
Edipo e chi racconta la storia non ha neppure chiara
coscienza di parlare di Edipo, anche quando parla
del suo mito. La storia resta, il nome cambia. Un
fatto è certo: il m ito di Edipo può esistere anche
senza di lui.

26
EDIPO

Un caso particolare, che unisce il m ito greco a un


ambiente cristiano, è quello che si legge nella Legen­
da Aurea di Jacopo da Varagine (XIII secolo d.C.) in
cui viene raccontata la vita rom anzata di alcuni san­
ti; in questo libro si parla anche di Giuda, l’apostolo
maledetto, e in lui vediamo comparire improvvisa­
mente Edipo, o almeno la sua storia.

Fermiamoci un istante a osservare che la


storia del fanciullo abbandonato al mo­
mento della nascita, e miracolosamente

CG preservato dal destino, per diventare un


giorno re o capostipite di una dinastia, è
uno schema narrativo molto diffuso nella
mitologia mondiale.

Questo Giuda, arrivato all’autore medievale attra­


verso racconti folklorici e vangeli apocrifi, porta,
come l’Edipo di Sofocle, il peso di essere nello stes­
so tem po maledetto e prescelto. Come nel caso di
Edipo, anche il concepimento di Giuda fu accompa­
gnato da presagi funesti, che indussero i genitori a
chiuderlo in un cestello e ad affidarlo al mare: in

27
GRANDI MITI GRECI

questo caso però, gli am m onim enti non venivano


dall’oracolo di Apollo m a da un sogno comparso alla
madre. Anche in questa storia il neonato fu salvato
da una regina che lo adottò; una volta cresciuto, Giu­
da, che già manifestava la sua natura malvagia, uc­
cise il fratello putativo e si rifugiò a Gerusalemme
dove si mise al servizio di Pilato. I due s’intendeva­
no molto bene, tanto che il governatore lo prese a
benvolere e ne fece il suo uomo di fiducia. A G eru­
salemme si compì quello che era scritto nel libro del
destino: Pilato dal suo palazzo vedeva ogni giorno
un frutteto pieno di alberi bellissimi e fu preso dal
desiderio di avere quei frutti; Giuda si precipitò nel
giardino e iniziò a saccheggiarlo, ma in quel m o­
mento arrivò il padrone e lo sorprese mentre stava
rubando la frutta. I due si azzuffarono, finché Giuda
uccise quell’uomo con un colpo di pietra, senza sa­
pere che si trattava proprio di suo padre. Anche in
questo caso, come fu per Edipo, il parricidio venne
ricompensato con un premio avvelenato: Pilato donò
a Giuda i beni del morto e tra essi anche la moglie
che divenne quindi concubina di suo figlio. Un gior­
no, poi, la donna gli raccontò, sospirando, la vecchia
storia che ancora l’affliggeva, la storia del suo bam­

28
EDIPO

bino abbandonato alle onde. Fu così che Giuda sep­


pe di avere ucciso il padre e sposato la madre. Per
questa ragione decise di darsi alla penitenza e di
unirsi ai discepoli di Cristo.
Torniamo ora al bambino gettato a morire tra i rovi
del monte Citerone. La mano del destino guidò un
pastore fino al luogo dove il neonato stava agonizzan­
do: sentì i vagiti, vide il bimbo, ne ebbe pietà e lo
raccolse. Più tardi, durante la transumanza, lo affidò
a un altro pastore, che pascolava le greggi di Pólibo,
re di Corinto. Quest’ultimo non aveva avuto figli dal­
la moglie Mérope, e così, quando il pastore tornò in
città e gli mostrò il trovatello, decise di allevarlo come
figlio proprio. Nulla di ciò fu mai rivelato al bambino.

Il destino si mette in moto

Sembrava che la vita sorridesse a Edipo, dopo un


inizio tanto terribile. Ora aveva una famiglia, e non
di povera gente: un trovatello era diventato l’erede al
trono! Crebbe tra tutti gli agi e divenne un giovane
principe, orgoglioso di sé e della sua condizione. A
questo punto della storia, i tre protagonisti della pro­

29
GRANDI MITI GRECI

fezia sono molto lontani tra loro: Laio, tranquillizza­


to dall’infanticidio che aveva commissionato, conti­
nuava a regnare su Tebe - e, pensando al genere di
uomo che era, senza troppi rimorsi - , Giocasta, triste
per il figlio perduto ma sempre sottomessa al marito,
al quale aveva permesso un’azione così infame, gli
stava accanto come regina e, infine, Edipo cresceva
felicemente in un’altra città. Avrebbe potuto finire
così. Ma, dopo molti anni, la macchina infernale del
destino si rim ise in moto. Durante un banchetto, in­
fatti, un convitato che aveva bevuto troppo, obnubi­
lato dai fumi del vino, rinfacciò a Edipo di non esse­
re veram ente figlio dei suoi genitori. Le parole
dell’ubriaco avrebbero potuto scivolare via, come
vaneggiamenti, ma Edipo ne fu profondamente scos­
so. Il giorno seguente si presentò ai genitori adottivi
e li interrogò; Pólibo e Mérope mantennero il segre­
to, anzi dichiararono indignati che era davvero figlio
loro, e che quell’uomo aveva parlato da ubriaco.
Qualcosa però continuava ad agitarsi nella mente di
Edipo, come un pungolo nascosto che gli toglieva la
quiete. Quelle parole gli avevano turbato l’anima.
Così fu infatti sempre Edipo: un uomo tormentato,
un uomo che non poteva tollerare zone d’ombra at­

30
EDIPO

torno a sé. Ed ecco comparire per la seconda volta in


questa storia, Apollo e il suo oracolo. Assillato dai
propri pensieri, Edipo decise di andare a interrogare
il dio, nello stesso luogo in cui tanti anni prim a si era
recato suo padre Laio. Si mise in cam m ino senza
dire niente a nessuno e giunse al tempio di Delfi.
Quando arrivò il suo turno per porre la domanda,
chiese alla profetessa: «Sono davvero figlio di Póli-
bo e Mérope?». Chi, se non Apollo, poteva saperlo?
La Pizia però non gli rispose e invece gli disse: «Tu
ucciderai tuo padre e sposerai tua madre».
La Pizia pronunciava oracoli nel cuore del tempio
di Apollo a Delfi, seduta su un grande tripode sacro,
in uno stato di trance - o “posseduta da Apollo”,
come dicevano gli antichi - : i suoi oracoli dunque
provenivano dal dio di cui era solo la mediatrice. La
sua risposta era sempre ambigua e insidiosa: come i
sogni, infatti, anche gli oracoli richiedono di essere
interpretati, ed è facile sbagliare. Del resto, l’Apollo
oracolare era detto il “Lossia”, vale a dire il “contor­
to”. Oggi, nella civiltà occidentale, viviam o in un
mondo senza oracoli e profezie, dunque ci è difficile
immaginare il valore culturale che possedeva questo
bisogno di interpellare un dio e disvelare il futuro,

31
GRANDI MITI GRECI

piccolo o grande che fosse. A Delfi, si recarono folle


di persone, per secoli e secoli, a consultare Apollo e
ciò che usciva dalla bocca della Pizia era considerato
sacro e vero. M a attenzione: a ben vedere, l’oracolo
di Apollo non svelava tanto il futuro, piuttosto ren­
deva evidente l’enorme distanza che passa tra l’u o ­
mo e gli dèi. Gli oracoli infatti sono enigmi che gli
uomini non possono comprendere. Gli esseri m orta­
li sono prigionieri di questo paradosso: da un lato
interrogano l’oracolo, ansiosi di sapere ciò che li
aspetta, dall’altro cercano di m odificare il futuro
prefissato, senza immaginare che proprio in questo
modo finiscono per cadere nella trappola che è stata
loro preparata dal destino. «È orribile conoscere,
quando non serve a nulla a chi conosce», dice infatti
a Edipo uno che di oracoli se ne intende davvero, il
profeta Tiresia, definendo con queste parole quella
via senza uscita che l’oracolo pone davanti ai con­
sultanti. Edipo, l’uomo fiero della sua intelligenza,
colui che avrebbe saputo risolvere l’enigm a della
Sfinge, non seppe capire l’oracolo che lo riguardava
direttamente. Il grande affannarsi di un figlio e di
un padre - il primo per stornare parricidio e incesto,
il secondo per evitare di m orire proprio per mano

32
EDIPO

del figlio - li portò a quell’incrocio dove si compiro­


no le parole di Apollo e fu resa vera la domanda:
perché consultare gli oracoli dal momento che nes­
suno può veramente sapere se e come si realizzeran­
no? L’oracolo è una forma di linguaggio che rispon­
de a logiche diverse da quelle della comunicazione
abituale. Gli uom ini non possono comprendere le
parole del dio perché la loro intelligenza si ferma
alla forma esteriore delle parole e non penetra il loro
reale significato.
L’oracolo per sua natura elude, e a volte scherza.
Gli esempi di questa mancata comprensione da parte
degli uom ini sono innumerevoli negli scritti degli
autori antichi. La leggenda narra che Ilio, figlio di
Eracle, interrogò Apollo per sapere quando avrebbe
potuto tornare in patria e riprendersi il regno pater­
no; l’oracolo rispose «attendi il terzo raccolto». Ilio
interpretò queste parole in senso letterale e pensò che
il terzo raccolto significasse il terzo anno. Dopo ave­
re atteso il tempo predetto, si mise a capo di un eser­
cito per riconquistare il Peloponneso, m a fu sconfitto
e ucciso. Il dio voleva dire «devono passare tre gene­
razioni, tre raccolti di uomini». E ancora, il dio di
Delfi avvertì il re Creso che se avesse attaccato i Per­

33
GRANDI MITI GRECI

siani avrebbe distrutto un grande impero; incorag­


giato dal responso, Creso iniziò la guerra e dovette
constatare che le parole di Apollo erano state veritie­
re: un grande impero fu infatti distrutto, il suo. Così
dunque accadde anche a Edipo: il dio gli aveva parla­
to chiaramente, ma gli aveva nascosto chi fossero i
suoi veri genitori. Una risposta veritiera, ma a metà.
Sconvolto e terrorizzato dal responso della Pizia,
Edipo si tenne lontano da Corinto, dove vivevano
quelli che pensava essere i suoi genitori, e iniziò a
vagare per il mondo, come un vagabondo. Qualsiasi
luogo poteva accoglierlo, tranne quello che era con­
vinto fosse la sua patria, fermamente deciso a non
rivedere più Pólibo e Mérope, i due vecchi che gli
erano tanto cari. Fu durante i suoi vagabondaggi che
gli capitò d’incontrare Laio a quel fatidico incrocio.
La prim a parte della profezia si era dunque compiu­
ta. Così almeno racconta Sofocle. M a del parricidio
di Edipo esistono anche altre versioni: un autore re­
lativamente tardo, Nicola di Damasco - 1 secolo a.C.,
precettore dei figli di Antonio e Cleopatra - , accen­
tuò il carattere barbarico, per non dire brigantesco,
di questo scontro, trasformandolo nell’agguato di un
predone, e questa è l’unica testim onianza in cui la

34
EDIPO

colpa del delitto ricade interamente sul figlio e non


sul padre. Laio, racconta l’autore, era partito per Dei-
fi insieme alla sposa; la coppia viaggiava sul carro,
preceduta da un araldo che faceva strada e invitava i
passanti a cedere il passo al re. Edipo a sua volta si
era allontanato da Corinto non, come narra Sofocle,
per interrogare Apollo o per evitare che si avverasse
il responso del dio, ma per razziare bestiame, come
un brigante. Così i tre si ritrovarono a quell’incrocio.
Lì si ricompose per l’unica volta in pochi, cruenti
istanti, la famiglia reale di Tebe, dissoltasi nel mo­
mento in cui Edipo era stato esposto: questa è l’unica
testimonianza dell’antica tradizione mitica secondo
la quale Giocasta assistette di persona all’assassinio
del marito per mano del figlio. L’araldo - nelle paro­
le di Nicola di Damasco - ordinò allo straniero di
farsi da parte, ma Edipo, giovane brigante, volendo
dare prova del proprio coraggio e del suo rango, pie­
no d’alterigia, afferrò la spada - non il bastone, dun­
que, in questa variante - , trafisse l’araldo e subito
dopo anche Laio che era accorso. Giocasta non fu
toccata: l’assassino fuggì sui monti, come fanno i
briganti o i guerriglieri, e successivamente tornò a
Corinto per vie traverse portando al padre adottivo

35
GRANDI MITI GRECI

Pólibo le mule che trainavano il carro di Laio, trofeo


della sua gagliardia giovanile. Giocasta, dal canto
suo, seppellì sul posto i corpi dei due assassinati.
Un Edipo violento e brigantesco, dunque; del re­
sto, un carattere impulsivo gli è attribuito unanim e­
mente dall’antica tradizione letteraria. Il mitografo
latino Igino, per esempio, racconta che a Corinto i
coetanei di Edipo lo tenevano a distanza e lo scher­
nivano dicendo che non poteva essere davvero figlio
di Pólibo, uomo mite (clemens), lui senza freni (im-
pudens): per questo, non per le parole dell’ubriaco,
Edipo aveva cominciato a dubitare della propria na­
scita. E ancora neWEdipo re, l’eroe si comporta co­
me un uomo piuttosto sgradevole, dominato da un’i­
ra che è incapace di frenare; prim a di diventare l’in­
felice piegato da un destino troppo crudele, Edipo si
muove sulla scena da vero tiranno, arrogante e so­
spettoso, un uomo che vede complotti ovunque, e si
scaglia, con accuse e minacce, contro chi non si con­
forma alle sue direttive. A farne le spese sono il co­
gnato Creonte, il profeta Tiresia e, più tardi, il pasto­
re che porterà alla conclusione della vicenda, il qua­
le si decide a parlare solo in seguito alla minaccia di
torture da parte di Edipo.

36
EDIPO

Neppure nell 'Edipo a Colono le disgrazie e la con­


dizione di mendicante vagabondo in cui Edipo era
precipitato, smorzano la sua naturale impulsività: an­
che qui infatti lo vediam o scagliare imprecazioni
contro i nemici di un tempo, maledire i figli, gonfio
d’ira e di rancore: Edipo del resto è un tyrannos, il cui
potere assoluto - specialmente nella prospettiva del
dram m a ateniese, figlio di una cultura democratica -
si accompagna a caratteri duri; violenza, irrazionali­
tà, irritabilità sono i tratti tipici del tiranno, e in par­
ticolare del tiranno sulla scena tragica. Altre versioni
del mito danno allo scontro tra padre e figlio un tono
elevato, quasi eroico, fino a far assumere alla lotta tra
Edipo e Laio i contorni del duello. Si immaginò che
al fatale incrocio i due uomini fossero giunti contem­
poraneamente, ognuno conducendo il proprio carro,
come due eroi omerici che si affrontano ad armi pari,
faccia a faccia: «Mentre attraversava la Focide in car­
ro - racconta il mitografo Apollodoro - incontrò Laio
che stava conducendo il suo carro in un passaggio
stretto. Quando Polifonte, che era l’araldo di Laio, gli
comandò di cedere il passo e abbatté uno dei suoi
cavalli perché non gli prestava ascolto e indugiava,
Edipo sdegnato uccise sia Polifonte sia Laio».

37
GRANDI MITI GRECI

Di questo episodio fondamentale per il m ito di


Edipo esistevano ancora altre versioni. Una, partico­
larmente originale, viene da un anonimo commenta­
tore antico di Euripide (scolio alle Fenicie, 26), che
racconta la vicenda in modo completamente diverso:
Laio che si era innamorato follemente del giovane
Crisippo, figlio di Pelope, di cui abbiamo già parlato,
gli tese un agguato e lo rapì. Edipo, amico di Crisip­
po, si mise sulle sue tracce e lo raggiunse prim a che
Laio arrivasse a Tebe con la preda; ne seguì una zuf­
fa in cui Laio ebbe la peggio. Per celebrare i funerali
del marito giunse da Tebe la regina Giocasta, e fu lì,
davanti al cadavere freddo di Laio, che i due, travol­
ti da un’improvvisa passione, si unirono. Se Freud
avesse conosciuto questa variante del mito, viene da
dire che certamente ne avrebbe tratto spunto per raf­
forzare la sua teoria sul complesso di Edipo.
A quelfincrocio, in ogni caso, Edipo cambiò an­
cora la sua natura, e non lo sapeva: a Corinto da
trovatello era diventato principe, lì da principe si
trasformò in parricida. M a non sapeva ancora né l’u-
na cosa né l’altra. Il parricidio è un’azione definitiva,
un punto di non ritorno oltre il quale l’assassino si
trova proiettato in un gorgo da cui non riuscirà più a

38
EDiPO

risalire. Il parricida dà un taglio definitivo al passa­


to: chi compie quest’atto non potrà mai ripercorrere
la sua storia e quella della sua famiglia senza prova­
re smarrimento, vergogna e rimorso. Con l’aggres­
sione al padre, il flusso regolare delle generazioni
s’interrom pe; perciò è naturale che nelle teogonie
m itiche il passaggio da una generazione divina
all’altra avvenga con una violenza sul padre, per fare
posto a un nuovo inizio sotto il patronato di un nuo­
vo dio: Crono evirò il padre Urano, Zeus avrebbe
incatenato il padre Crono. Nei miti di successione
divina, l’eliminazione del padre determ ina una risi­
stemazione del cosmo: nulla può essere come prima,
i nuovi dèi prendono il potere imponendo un ordine
diverso dal precedente, tutto deve ricominciare da
capo. Nella condizione umana, il parricidio obbliga
chi lo compie a confrontarsi per sempre con l’ombra
della figura paterna e sconvolge un’istituzione che è
fatta per durare nel tempo: la famiglia.
Nell’antica Roma, il parricidio era considerato il
più spaventoso dei delitti, un nefas ultimum, e punito
con la temibile e infamante poena cullei, la “pena
del sacco”: il parricida era messo in ceppi, incappuc­
ciato, gettato in carcere e poi chiuso in un sacco e

39
GRANDI MITI GRECI

sprofondato in un fiume. Nella cultura greca, versa­


re sangue di congiunti aveva una sola possibile con­
seguenza: rendere fom icida un maledetto, «quando
due consanguinei si uccidono con le loro mani - dice
il coro nei Sette contro Tebe - non c’è tem po che
possa cancellare questa contaminazione».
Edipo però uccide suo padre inconsapevolmente,
e questo è un fatto che in parte lo assolve.

«È orribile conoscere, quando non serve a


nulla a chi conosce», dice infatti a Edipo

GG uno che di oracoli se ne intende dawero, il


profeta Tiresia, definendo con queste pa­ 90
role quella via senza uscita che l’oracolo
pone davanti ai consultanti.

Fu assassinio o legittima difesa? In ogni caso il fatto


di averlo ucciso porta con sé una maledizione incan­
cellabile, il cui segno tangibile sarà la pestilenza che
si abbatterà su Tebe dopo che Edipo ne sarà diventa­
to re. Secondo l’arcaico principio della colpa collet­
tiva, infatti, la malattia si propaga dal re ai suoi sud­
diti. Oltre che della vendetta divina, il parricida o il

40
EDIPO

m atricida è vittim a di se stesso, perseguitato da for­


ze infernali scatenate dalla sua azione: Oreste, dopo
avere ucciso la madre Clitemnestra, impazzì ed errò
per il mondo perseguitato dalle Erinni, m ostri dalle
chiome di vipere, che lo seguivano ovunque. Alcme-
one - assassino della m adre Eri fi le - fu preda della
follia e dovette fuggire, alla ricerca di un luogo dove
poter essere purificato: ovunque passasse, la terra
diveniva sterile. Secondo Platone, il parricidio e il
matricidio appartengono alla categoria dei crim ini
inespiabili: chi uccide un genitore subirà la stessa
violenza da parte dei figli, in questa vita o in una
futura reincarnazione. «Questa macchia - afferma
il filosofo - non potrà essere lavata prim a che l’ani­
m a di chi ha commesso il fatto non abbia pagato,
uguale omicidio con uguale omicidio, e non abbia
placato l’ira dei consanguinei». Eschilo nelle Coefo­
re fornisce un elenco di punizioni che il matricida
dovrà sopportare per la sua colpa: «Vendette che
salgono dal ventre della terra, malattie terribili che
balzano sui corpi, la lebbra dalle mascelle selvagge,
mali che divorano ciò che prim a era un corpo, men­
tre bianchi peli fioriscono sulle piaghe... e l’assalto
delle Erinni eccitate dal sangue paterno». Cose ter-

41
GRANDI MITI GRECI

ribili dunque dovevano aspettare Edipo, dopo quel


fatale incontro con Laio.

La Sfinge

A questo punto, la storia si sposta nuovamente a Te­


be. Giunge in città la notizia che il re è morto, ucciso
da predoni: è Tunico scampato alla strage a riferirlo.
La reggenza passa a Creonte, fratello della regina
Giocasta, che non ha eredi, o almeno così si crede.
Creonte è un uomo mediocre, secondo la descrizio­
ne che ne fanno gli antichi: un astuto politicante, pri­
vo della torva crudeltà di Laio ma anche della gran­
dezza tragica di Edipo. Il suo potere durerà poco: sui
tebani si abbatte presto il flagello della Sfinge, un
mostro assassino che assedia la città, divenendo l’in­
cubo dei suoi abitanti.
Anche la Sfinge è destinata ad avere una lunga
storia nell’im m aginario collettivo, potrem m o anzi
dire che essa è diventata la figura mitica tutelare de­
gli enigm isti. Il racconto universalm ente diffuso
narra infatti che la Sfinge si fosse appostata su un
monte alle porte di Tebe. Da qui, il mostro propone-

42
EDIPO

va un indovinello, sempre lo stesso, e nessuno riu­


sciva a rispondere; con una zampata precipitava gli
sfidanti giù dalla montagna e poi ne divorava i corpi.
Dei tanti che la sfidarono, rim asero solo alcune ossa
rosicchiate: pagarono con la vita la presunzione di
voler gareggiare con la sapienza della Sfinge. Tra
loro, si diceva ci fosse anche il figlio di Creonte,
Emone - che secondo altre versioni del mito, sareb­
be invece divenuto il promesso sposo di Antigone,
figlia di Edipo.
Nella raffigurazione classica, la Sfinge aveva te­
sta di donna, corpo di leonessa ed era dotata di ali,
che a volte usava per planare su Tebe e rapire le sue
vittim e, quando le veniva voglia di agire da mostro
e non da enigmista. Assediò Tebe per punire i suoi
abitanti di una colpa che gravava su di loro: alcuni
sostenevano si trattasse della punizione inviata a La-
io da Hera - la sposa divina - indignata per gli atti
contro natura che il re di Tebe aveva un tempo com­
piuto contro il giovane Crisippo; per questo la Sfin­
ge si accaniva in particolare contro i bambini di Te­
be, che erano le sue vittim e preferite.
La Sfinge pare essere, per così dire, un mostro
d’importazione, giunta in Grecia da modelli più an-

43
GRANDI MITI GRECI

tichi - egiziani, forse attraverso una mediazione si­


riaca - ma la sua presenza nell’immaginario mitico
è di molto precedente, dal momento che un essere
simile compare già nelle raffigurazioni di epoca m i­
cenea, sul finire dell’età del bronzo.
U na Sfinge in forma di leonessa alata si vede
spesso nelle raffigurazioni vascolari greche: le im ­
magini del mito di Edipo che ci sono pervenute at­
traverso la pittura antica si riconducono quasi esclu­
sivamente a questo momento della storia. General­
mente, i pittori descrivono il momento centrale di un
racconto, ossia quello in cui l’eroe e il m ostro si
fronteggiano, il momento in cui le due figure appa­
iono circoscritte nello stesso spazio e, per un istante
solo, vicine. Talvolta la Sfinge ha l’aspetto di una
belva, in altri casi invece appare stranamente picco­
la, più o meno grande come un gufo, appollaiata so­
pra un monte oppure sopra una colonna, mentre Edi­
po si sporge con un gesto leggero, quasi di danza: il
suo volto è dolce e intenso come quello di un uomo
che corteggia, più che di chi sfida la morte, la sua
fronte non è corrugata nello sforzo di capire m a
spianata come quella di chi controlla e dom ina la
situazione. E curioso - ma in fondo non troppo sor-

44
EDIPO

prendente - trovare questa immagine in un contesto


piuttosto speciale, vale a dire nella biblioteca di
Sigmund Freud; i suoi libri infatti erano personaliz­
zati da un ex libris che raffigura un giovane Edipo
davanti alla Sfinge, con un’epigrafe in greco che cita
alcuni degli ultim i versi dell 'Edipo re di Sofocle:
«Lui, che risolse gli enigmi famosi ed era un uomo
potentissimo». Nell’ex libris scelto da Freud, Edipo
appare pensoso, mentre riflette sull’enigma, e intan­
to si appoggia al bastone: lo stesso con cui poco pri­
m a aveva ucciso il padre. La Sfinge lo fissa, con aria
maligna di sfida, con le zampe leonine ben in vista,
e sembra pronta a balzare, se Edipo non avesse indo­
vinato. L’enigma era ciò che a Freud pareva più ca­
ratteristico nel mito di Edipo, più ancora del parrici­
dio e dell’incesto: l’uomo della ragione che riflette
sul dilem m a proposto, un’immagine che simboleg­
gia la sfida che l’analista affronta con i segreti celati
nella parte più oscura della mente dei suoi pazienti.
Questa la Sfinge come la si immaginava general­
mente. Altre tradizioni, più tarde, ne avrebbero eli­
minato l’aspetto mostruoso. Secondo alcune versio­
ni, Sfinge era una ragazza tebana, figlia di un certo
Ucalegonte; dopo la morte del padre e del marito, si

45
GRANDI MITI GRECI

ritirò sul monte Fìkion, nei pressi della città, dove


Edipo prim a la sedusse e poi la uccise. Questo even­
to truce, dice il mitografo - un anonimo commenta­
tore di Euripide, che cercava evidentemente di razio­
nalizzare il mito - fu l’origine della leggenda che da
allora si racconta. Il viaggiatore Pausania (II secolo
d. C.) narra una storia ancora più intricata: la Sfinge
era una figlia illegittim a di Laio, e suo padre, che
l’amava, le aveva rivelato un oracolo segreto, la cui
conoscenza apriva le porte al trono. Così Sfinge-
donna sfidò gli altri figli di Laio a risolvere l’oracolo
e, a mano a mano che essi fallivano, li uccideva, in
quella che assume le forme di una lotta per il potere.
Solo Edipo riuscì a interpretare l’oracolo, perché ave­
va sognato la soluzione, e in questo modo divenne re.
Una donna, un incesto, un sogno: la versione di
Pausania crea un fantastico meccanismo narrativo,
mescolando i temi del mito tradizionale. Queste an­
tiche versioni vengono riscritte da Diirrenm att che
nella Morte della Pizia trasform a la Sfinge in una
sacerdotessa insediata su un monte alle porte della
città di Tebe, circondata da leonesse addomesticate.
Questa Sfinge è creduta figlia di Laio ma in realtà è
figlia del suo araldo Polifonte. E ciò genera una con­

46
EDIPO

tinua serie di equivoci in cui le relazioni tra i vari


personaggi s’intrecciano fino al limite dell’inverosi­
mile. Non dobbiamo stupirci di trovare un mostro
assassino in forma di donna: quasi tutti gli esseri di
questo genere, nella mitologia greca, sono al femmi­
nile. Le più terrorizzanti figure legate alla morte e
all’aldilà, o anche alla colpa e alla follia, sono donne,
di una fem m inilità deforme, m ostruosa; così sono
per esempio la Gorgone che pietrifica, le Erinni che
rendono folli, Scilla che divora.
Nel personaggio della Sfinge vediamo congiunti
due aspetti in apparenza contraddittori: la saggezza
e la crudeltà; è un mostro che uccide come una bel­
va, m a contemporaneamente un essere che conosce
gli enigmi e quindi più che umano. Strano mostro
dunque, un mostro intelligente.
D ’altra parte, questi mostri femminili che porta­
no la morte con sé, sono talvolta immaginati anche
come esseri seduttivi. L’unione di Eros e Thanatos,
la voluttà dell’abbracciare la morte, è un evento che
compare anche nel caso delle Sirene, e non manca
neppure per la Sfinge: la dimensione erotica è quella
che ebbe forse più fortuna nella pittura simbolista
m oderna, da Gustave M oreau a Franz von Stuck.

47
GRANDI MITI GRECI

Nella versione più diffusa del mito antico, comun­


que, la Sfinge ha una funzione narrativa precisa:
consentire il trionfale rientro in patria di Edipo e il
compiersi dell’ultim a parte della profezia di Apollo.
La Sfinge rappresenta l’orco delle fiabe da uccidere,
il mostro che l’eroe deve sconfiggere con la propria
astuzia - con la forza non potrebbe - per superare la
prova iniziatica che gli consente il passaggio da uno
status sociale all’altro, da giovinetto a uomo, da celi­
be a sposato, da outsider a re.
Questo è proprio ciò che accade a Edipo: il giova­
ne vagabondo dopo aver decretato la fine della Sfin­
ge, diventerà re e marito, ottenendo in sposa la regi­
na di Tebe. A partire quanto meno da Sofocle, la
sfida tra Edipo e la Sfinge si gioca su un duello di
parole: il mostro propone un indovinello e uccide chi
non riesce a rispondere. Forse nei racconti più anti­
chi la Sfinge non era così sottilmente omicida: si li­
mitava a rapire e a divorare ed Edipo la uccideva con
la forza, come Teseo uccise il M inotauro. M a non
possiamo saperlo.
Torniamo ora al nostro racconto. Abbiamo dun­
que una città assediata da un mostro. Di fronte a
questo flagello, i Tebani diffondono un pubblico

48
EDIPO

bando in cui si promette la mano della regina Gioca-


sta e il regno di Tebe a chi riesca a risolvere l’enigma
e liberarli così dal mostro. Ed ecco che la macchina
infernale fa un altro giro: Edipo, parricida inconsa­
pevole, nei suoi vagabondaggi si avvicina per caso a
Tebe e si trova faccia a faccia con la Sfinge. Anche
lui dovrà risolvere l’enigma, oppure morire.
L’enigma è, senz’altro, il più famoso della storia;
si diceva che a suggerirlo fossero state le Muse. A
prim a vista non sembra molto difficile da risolvere:
chi è l’animale che al mattino camm ina con quattro
gambe, a mezzogiorno con due e alla sera con tre?
L’uomo, naturalmente. L’indovinello, tuttavia, sem­
brerebbe alludere anche alla storia di Edipo: Edipo-
trovatello, il bambino che inizia a camminare a quat­
tro zampe, Edipo re che camm ina forte e fiero verso
il suo destino, Edipo mendicante e vecchio che si
appoggia al proprio bastone da cieco. Sempre lui,
Edipo, l’uomo che la Sfinge stava aspettando per
morire, perché forse - possiamo spingerci a immagi­
nare - era proprio questo che la Sfinge voleva, per­
dere la vita insieme al suo segreto. Una Sfinge scon­
fitta che si allontana um iliata da Tebe non è neppure
immaginabile.

49
GRANDI MITI GRECI

Un matrimonio incestuoso

Edipo indovina, come tutti sanno, e la Sfinge, vinta,


si uccide gettandosi dalla sua montagna. I Tebani
ora lo accolgono in trionfo, senza sapere che
quest’uomo non è uno straniero, ma un cittadino, e
che il giovane vittorioso e fiero della sua intelligen­
za è il neonato che un tempo era stato esposto, in
segreto, a morire per mano di suo padre.
Il talamo di Giocasta ora è pronto per lui: lo stes­
so letto in cui era stato partorito ora vedrà l’unione
tra il figlio e la madre. L’incesto si è compiuto, ora la
profezia di Apollo si è realizzata completamente,
senza che nessuno ne sia consapevole.
E Giocasta? Ciò che sorprende in questa donna è
la passività. Il mondo delle eroine greche è ricco di
personaggi eroici e passionali, che sanno prendere in
mano il proprio destino e ne sono protagonisti: Elena
abbandona il marito per seguire il suo grande amore,
Medea uccide i figli per vendetta, Antigone sfida il
potere a testa alta, e così molte altre. Giocasta, al
contrario, accetta di non congiungersi più a Laio per
proteggerlo dall’oracolo e poi che la possegga da
ubriaco, sopporta ancora che suo marito esponga l’u­

so
EDIPO

nico figlio, non si preoccupa di cercare il suo assas­


sino, accetta nuovamente di essere messa in palio per
il solutore dell’enigm a e di accogliere come sposo
uno sconosciuto. Non c’è stato amore o corteggia­
mento: Giocasta è solo il premio di una gara, il mez­
zo di trasmissione del potere, quasi un oggetto, non
la donna desiderata e scelta dal futuro sposo. Lo stes­
so Sofocle, grande creatore di personaggi femminili,
sembra un po’ in imbarazzo con lei; nel dram m a in­
fatti compare come una figura scialba, che cerca di
sopire e nascondere, di rassicurare Edipo, una donna
pronta a subire tutto per quieto vivere. In un solo mo­
mento agisce con impeto, ma in modo autodistrutti­
vo, quando si suicida. Regnava un uomo e Giocasta
sedeva al suo fianco, un altro uomo regna ora e Gio­
casta gli ha trasmesso il potere del marito; a prima
vista sembra che la linea di successione legittima si
sia interrotta e che il regno sia passato da un uomo di
sangue tebano a uno straniero. Sembra: in realtà è
passato dal padre al figlio, e tutti e due hanno posse­
duto Giocasta, ovvero - come si disse - «uno stesso
solco ha accolto il seme del padre e del figlio».
L’incesto tra Edipo e Giocasta, naturalmente, ha
assunto un ruolo chiave dopo essere passato attraver­

si
GRANDI MITI GRECI

so l’interpretazione freudiana del personaggio. Sa­


rebbe però fuorviante vedere qui, nel rapporto tra
Edipo e Giocasta, la realizzazione di una morbosa
sessualità - quella che per esempio Pier Paolo Paso­
lini presta ai due personaggi nella versione cinemato­
grafica delYEdipo re. Il tipo di rapporto che emerge
dal mito, e in particolare da Sofocle, è quanto di più
lontano dall’erotismo si possa immaginare: se l’ince­
sto è il segno di una potenza oscura e deviata della
sessualità, questo certo non può essere dedotto dal
testo sofocleo, dove anzi i rapporti tra Edipo e Gioca­
sta seguono la linea di un freddo e quasi distaccato
rispetto. Edipo non dice una sola parola amorosa a
Giocasta, o questa a Edipo. Essi si congiungono per
volontà sociale e il senso del loro matrimonio non è
l’eros ma, appunto, la regalità. L’Edipo greco ha dun­
que molto poco di edipico, dal punto di vista del rap­
porto emotivo con la figura materna: in effetti, Edipo
non ama la madre-sposa se non nel modo in cui un
cittadino della polis può amare una donna che si è
presa in moglie, una donna sposata allo scopo di
“arare figli legittimi” per la città e che completa la
sua qualità di uomo adulto, e di cittadino.
Chi s’ispira a un modello psicanalitico dovrà in-

52
EDIPO

vece dim ostrare che Edipo sapeva, o intuiva, chi


fosse Giocasta, nel momento in cui entrò nel letto di
sua madre, ma è una ricerca vana. L’Edipo del mito
greco non sa nulla di questo, e l’essenza della sua
storia è appunto la terribile casualità del suo atto:
non un atto consapevole, dunque, ma assolutamente
involontario. Così la casa reale di Tebe ha preso for­
ma, con l’arrivo di Edipo, e sembra destinata a pro­
sperare nel tempo. N on è più una coppia sterile,
com’erano Laio e Giocasta, ma una vera e propria
famiglia. Ciò che nessuno ancora sa, tuttavia, è che
quella di Edipo è una famiglia entro cui si realizza
una specie di corto circuito, dato che ciascuno dei
membri è in una relazione plurima con gli altri: ma-
dre-sposa-nonna (Giocasta); figlio-sposo-fratello
(Edipo); figlio-fratello-nipote (i figli di Edipo). Il
vertice di questo triangolo è appunto costituito da
Edipo su cui convergono tutte le rette che invece
avrebbero dovuto essere parallele.
Giunti a questo punto, occorre almeno accennare
a un tem a troppo importante nel mito di Edipo per
essere trascurato, ma anche troppo ampio per essere
sviluppato qui in modo sistematico, vale a dire quel­
lo dell’incesto, perché l’incesto è un grande proble­

53
GRANDI MITI GRECI

ma antropologico. La specie umana, e le società che


essa crea, prevede una barriera matrimoniale: ci so­
no unioni permesse e unioni vietate. Chi pensa che
l’incesto sia contro natura sbaglia: si può dire piutto­
sto che è contro cultura, perché i divieti m atrim onia­
li assumono di volta in volta forma diverse. Esiste
un’unione universalm ente riprovata, ed è l’incesto
diretto (madre-figlio; padre-figlia; fratello-sorella).
Ma poi i confini dell’incesto variano da cultura a
cultura. Per i Romani, per esempio, erano interdetti,
0 fortem ente riprovati, i m atrim oni entro il sesto
grado di parentela (regola che poi passò alla cultura
cristiana); non ci si poteva dunque sposare nem m e­
no tra cugini.
La civiltà greca propone un modello molto più
endogamico. Ad Atene quando una ragazza rim ane­
va orfana, il primo pretendente era il fratello del pa­
dre, dunque lo zio paterno; erano legittimi persino i
matrimoni tra fratellastri, purché non nati dallo stes­
so utero. Dunque, l’incesto e i suoi limiti variano da
cultura a cultura. Questo tra gli uomini comuni. Tra
1 re e gli dèi, invece, cambiano le regole: il sangue
reale o divino deve essere puro, perciò i faraoni spo­
savano le loro sorelle e, tra gli dèi, Zeus sposò sua

54
EDIPO

sorella Hera. Nell 'Odissea, Eolo il re (o dio) dei ven­


ti ha dodici figli, sei maschi e sei femmine; ciascuno
dei m aschi ha preso in moglie una sorella, e tutti
vivono felicemente nello stesso palazzo e banchetta­
no insieme. Un caso di endogamia divina.
Dunque, nel palazzo reale di Tebe si annida una
famiglia incestuosa. M algrado tutto, però, si direbbe
che ora Edipo si trovi nel punto più alto della sua
parabola. Che cosa mai avrebbe potuto desiderare di
meglio? Sono gli anni della gloria: è re, amato dai
suoi cittadini che ha salvato dalla Sfinge, la sua fa­
m iglia cresce, le sue ricchezze si moltiplicano. Un
benedetto dagli dèi che invece è maledetto. Gioca-
sta, quasi sterile con Laio, diventa straordinaria­
mente prolifica. Q uattro figli nascono - secondo la
tradizione più diffusa - dalle nozze incestuose: le
femmine Antigone e Ismene, i maschi Eteocle e Po­
linice. Gloria, fama, potere. Ma dietro Edipo, o forse
sarebbe meglio dire dentro di lui, si cela un’ombra
orribile: il parricidio e l’incesto, un passato che pri­
m a o poi verrà alla luce. Nessuno lo può ancora sa­
pere, però; solo un uomo conosce questi segreti, ol­
tre ad Apollo, ed è il vecchio profeta Tiresia che sa
tutto m a tace, e tacerebbe per sempre se dopo molti

55
GRANDI MITI GRECI

anni la m acchina infernale non si mettesse nuova­


mente in azione.
Improvvisamente, a Tebe scoppiano una pestilenza
e una carestia: muoiono gli armenti, nei campi si dis­
seccano le messi, i cittadini sono sterminati dalla ma­
lattia. Come sempre nell’antichità, questi eventi ven­
nero attribuiti a una causa soprannaturale, all’ira degli
dèi per qualche offesa o contaminazione. Si fanno sa­
crifici, si supplicano le divinità, m a invano. Allora
non resta che un modo: andare a consultare l’oracolo
di Delfi, come si faceva abitualmente in questi casi.

Apollo torna a parlare

Ed ecco che per la terza volta, ancora decisivo, torna


a parlare Apollo: Edipo invia il cognato Creonte a
interrogare la Pizia e questi torna con una risposta in
apparenza rassicurante: «Il signore Apollo ci disse
chiaramente di espellere la maledizione della regio­
ne, cresciuta in questa terra». Un uomo, un uomo
solo: basta scacciarlo come un capro espiatorio e la
città sarà salva. Ora sì che il dio di Delfi agisce nella
sua funzione di divinità purificatrice: il suo messag­

56
EDIPO

gio dice che bisogna eliminare dalla città la conta­


m inazione. M a a ben vedere è stato proprio lui,
Apollo, la causa prim a di questa contam inazione,
quando tacendo e parlando a suo arbitrio, ha indiriz­
zato Edipo e Laio verso una serie di atti che hanno
portato alla distruzione di chi l’aveva consultato.
Laio! Molti anni sono passati: è un fantasma di­
menticato e ora sembra ritornare dal nulla per allun­
gare la sua ombra funesta sulla città. Perché non lo
si è cercato prim a? Dom anda giustam ente Edipo.
Perché Tebe era sotto la minaccia della Sfinge, gli
risposero, altre cose più urgenti incalzavano. Forse
- nessuno lo dice, m a probabilmente anche questo
conta - perché un altro uomo ha occupato il suo let­
to, perché non ci sono figli che abbiano interesse a
vendicare il padre; forse anche perché un uomo tor­
vo come Laio era poco amato dai Tebani. Ma la ri­
cerca va compiuta, e dovrà essere proprio Edipo a
occuparsene. Prim a però pronuncia, come suo dove­
re di re, una maledizione solenne contro il colpevole
e i suoi complici: invita pubblicamente l’assassino a
denunciarsi, promettendo che non avrebbe subito al­
cun castigo se non l’esilio. M a se non si denuncia,
dice Edipo, su lui e i suoi complici, su chi sa e non

57
GRANDI MITI GRECI

parla, calerà la maledizione più solenne: nessun cit­


tadino potrà parlargli, nessuno invitarlo a casa sua
né offrirgli acqua o fuoco o cibo. Sarà un maledetto,
un contam inato per tutta la vita. È una situazione
crudele e terribile quella che si sta verificando: sen­
za saperlo, Edipo maledice solennemente se stesso!
Il capro espiatorio che bisogna scacciare è proprio
lui, re e vittim a nello stesso tempo. A questo punto,
davanti al silenzio di tutta la città, Edipo inizia la
sua attività di “detective”. Come scoprire un delitto
vecchio di molti anni e avvenuto in un luogo ignoto?
La prim a soluzione è trovare l’assassino per vie so­
prannaturali. A Tebe vive il più venerabile e ascolta­
to degli indovini, il cieco Tiresia, che per grazia di
Apollo possiede un terzo occhio profetico. Edipo fa
dunque chiamare Tiresia m a - almeno n eìYEdipo re
di Sofocle - l’indovino si m ostra reticente, e irrispet­
toso, nel non dire e parlare solo per allusioni. Sa che
davanti a lui non sta più il re di Tebe nel pieno del
suo potere, ma un uomo sul ciglio di un precipizio.
Edipo lo incalza, Tiresia tace, m a davanti alla rabbia
del re che lo accusa di essere complice dell’assassi­
nio, sbotta gridando: «Tu, tu sei l’assassino, e non sai
neppure chi sei, e se mi deridi perché sono cieco,

58
EDIPO

sappi che tra poco il cieco sarai tu, e andrai in giro


come un mendicante a tastare la terra col bastone».
Tiresia, per quanto sgradevole e persino sadico,
ha ragione, lo sappiamo: e non fatica ad avere ragio­
ne perché è un profeta ispirato da Apollo e può cono­
scere facilmente cose che gli altri dovranno scoprire
con la loro intelligenza. Ha ragione anche nel dire
che Edipo non sa chi è davvero, perché in effetti non
lo si può definire in un unico modo: un re? Un trova­
tello? Il salvatore di Tebe? Un assassino? Un figlio
incestuoso? Un poveraccio che tra poco sarà rifuggi­
to da tutti? Egli è tutte queste cose insieme.
Di fatto, in quel momento, Edipo conosce di sé
solo una parte, quella luminosa di giovane principe
e poi di re di Tebe, di uomo che ha saputo sconfigge­
re un mostro ed ora è felice, ricco, potente, padre di
una bella e numerosa prole, si direbbe intoccabile.
M a non conosce ancora l’altra parte di sé, quella
oscura che ora sta per venire alla luce, e tutto acca­
drà nell’arco di un solo giorno. Così gli suonano co­
me insultanti e persino folli, le parole con cui Tiresia
si allontana da lui: «Q uest’uomo che ti sei messo a
cercare con m inacce e proclami, l’assassino di Laio,
è qui», grida rabbiosamente l’indovino. Dicono che

59
GRANDI MITI GRECI

è uno straniero, poi si scoprirà che è nato a Tebe, ma


non avrà da rallegrarsi di questo. Diverrà cieco da
vedente, povero da ricco, cam m inerà tastando col
bastone la terra d’altri. E si scoprirà che per i suoi
figli è insieme fratello e padre, e per la donna da cui
nacque, figlio e marito, e per suo padre, compagno
di seme e assassino. «Pensa a questo, mentre ritorni
in casa» sono le ultime parole di Tiresia; «se dim o­
strerai che è tutto falso, di’ pure a tutti che io non so
profetare». E di nuovo, sarà una semplice parola a
muovere il suo animo. Edipo sospetta che Creonte e
Tiresia complottino contro di lui e prende il cognato
a male parole. Giocasta interviene per sedare la lite,
ed ecco che il passato, rimosso da tempo, torna ad
affacciarsi contro la volontà di tutti i personaggi.
Giocasta chiede a Edipo la ragione della sua rab­
bia, e lo sposo le spiega che l’indovino Tiresia ha
osato accusarlo di essere l’assassino di Laio, cosa,
pensa lui, palesemente assurda. Come può avere uc­
ciso un uomo che neppure conosceva?
Giocasta lo consola. Gli indovini, dice, non sanno
ciò che dicono, parlano a caso. E vuole provarglielo. A
questo punto, come le tessere di un mosaico, comin­
cia a comporsi davanti a Edipo l’agghiacciante verità.

60
EDIPO

Un tempo - dice Giocasta - a Laio fu predetto che


sarebbe stato ucciso da suo figlio. Allora fece esporre
lo sventurato piccino su un monte, dove morì. Poi
Laio fu ucciso da banditi all’incrocio di tre strade.
Perciò niente di quello che era stato predetto si avve­
rò: né il figlio ha ucciso il padre, né il padre ha subito
alcun male dal figlio.
Noi conosciamo quale intreccio di eventi si sia veri­
ficato, e forse ne rabbrividiamo; ne rabbrividisce anche
Edipo, che ancora non sa. Se Giocasta avesse sempli­
cemente detto “su una strada” o “lontano da Tebe” pro­
babilmente nessuna luce si sarebbe accesa nella mente
Edipo. Ma specifica “incrocio di tre vie”. Perché? Un
trucco del destino per svelare cose che si vogliono te­
nere segrete? Un caso? O Giocasta voleva dare un indi­
zio a Edipo? O forse, ancora, era stato proprio Apollo
a mettere queste parole nella bocca di Giocasta?

Il dubbio e la ricerca

Come un tempo le parole dell’ubriaco di Corinto gli


diedero il tormento, così ora le parole di Giocasta,
dette come per caso, lo gettano nello sgomento.

61
GRANDI MITI GRECI

Proprio lì, proprio a un incrocio, Edipo aveva ucci­


so un uomo, e questo lo ricorda bene. B asta una
sola parola, quasi un lapsus, a cambiare un destino.
Edipo racconta la sua storia m a non è ancora arri­
vato a collegare tutto; chiede che aspetto avesse La-
io; «Era simile a te» gli risponde Giocasta. Già, un
figlio e un padre spesso si assomigliano. M a perché
allora G iocasta ha afferm ato che Laio è morto per
mano di predoni e non di un solo aggressore? Q ue­
sto è il filo di speranza a cui si appiglia ancora Edi­
po: era solo a quell’incrocio e, se gli assassini di
Laio furono molti, non può certo essere lui il colpe­
vole. Un solo uomo può conferm are i suoi sospetti:
l’unico sopravvissuto alla strage, che ora fa il pa­
store sul monte. Edipo ordina che lo si faccia veni­
re, ma nel frattem po si affaccia un altro indizio al­
larm ante: quell’uomo chiese di essere m andato a
pascolare greggi fuori da Tebe subito dopo che Edi­
po fu fatto re.
M anca comunque un tassello, il più importante,
per completare il puzzle. Infatti, anche ammesso che
sia Edipo l’assassino del vecchio re, l’unico suo ca­
stigo potrà essere l’esilio da Tebe, dovrà lasciare la
sua amata famiglia e portare con sé l’orribile m ac­

62
EDIPO

chia di avere condiviso la donna di un uomo del qua­


le ha versato il sangue.
Come si completa questo tassello, come Edipo
viene a sapere di essere parricida e incestuoso? Pos­
siamo ancora partire dalla versione di Sofocle, tragi­
camente perfetta.
M entre Edipo è preso dalle sue angosce, arriva da
Corinto un vecchio pastore portando un messaggio
triste: Pólibo è morto di vecchiaia. Edipo è afflitto
da un lato, ma sollevato dall’altro: allora non è vero
quello che l’oracolo gli aveva preannunciato, non è
un parricida! E G iocasta lo rassicura nuovamente,
con la famosa frase che tanto colpì Freud: molti, di­
ce, sognarono di fare l’amore con la madre, m a que­
sto poi non avviene nella realtà. Così, anche, molti
oracoli furono resi, ma non tutti si avverarono.
Tocca al pastore rivelare, anche non volendolo, la
verità, nella speranza di ottenere una ricompensa:
Edipo non è figlio di Pólibo, dice, ma un trovatello,
salvato un giorno sul monte Citerone, con i piedi fo­
rati; egli l’aveva ricevuto da un altro pastore, che pa­
scolava le greggi di Laio, e portato con sé a Corinto.
Ormai Giocasta ha capito tutto, piena d’angoscia
cerca d’impedire a Edipo di chiudere il cerchio con

63
GRANDI MIT! GRECI

l’ultimo anello: non andare oltre, gli dice, non insi­


stere a voler sapere chi sei, basta la mia sofferenza.
M a Edipo ormai vuole sapere, costi quello che costi.
Sta infatti arrivando un secondo pastore, che è
l’unico superstite del gruppo di servi che accompa­
gnava Laio quando fu ucciso e, per caso, lo stesso
pastore che un tempo aveva salvato Edipo neonato e
l’aveva consegnato al primo. Mettendo a confronto i
loro racconti, Edipo capisce infine la verità e fugge
inorridito nella reggia, dove Giocasta si è già rifu­
giata, dopo avere pronunciato le ultim e parole:
«Sventurato, che tu non possa mai sapere chi sei».
Questa scena emozionante si deve alla fantasia su­
blim e di Sofocle. Esistevano anche altre versioni,
forse meno geniali, dello svelamento dell’identità di
Edipo. Una viene da un antico poema, YEdipodia,
che ci è giunto in frammenti.
Secondo questa versione, dopo avere ucciso Laio
all’incrocio fatale, Edipo gli tolse, come trofeo, il cin­
turone trapunto e la spada. Poi avvenne quello che
doveva avvenire, Edipo sconfisse la Sfinge, divenne
re di Tebe e sposò Giocasta. Molto tempo dopo, gli
capitò di ritornare, insieme alla sposa, nello stesso
luogo, mentre stava andando a fare sacrifìci sul mon­

64
EDIPO

te Citerone - lo stesso sul quale era stato esposto da


bambino. Passando di lì, si ricordò di quanto era ac­
caduto quel giorno fatale e ne parlò alla moglie, per
la prim a volta, mostrandole la cintura che aveva pre­
so a Laio.
Giocasta la riconobbe subito, capì che aveva spo­
sato l’assassino di suo m arito m a lo tenne per sé.
Accadde poi che il pastore che l’aveva salvato sul
monte si presentasse al re sperando di avere una ri­
compensa; gli rivelò che cosa era successo tanti anni
prim a e gli mostrò le fasce che aveva conservato e il
punteruolo che era servito a forargli i piedi. Così av­
venne il fatale riconoscimento.

Perdere la vista

M a torniamo a Edipo e Giocasta, che ora sanno tut­


to, e -àWEdipo re di Sofocle.
Giocasta entra nella reggia, sbarra la stanza nu­
ziale e si getta sul letto che ha condiviso col marito
e con il figlio, e sul quale ha partorito Edipo e i figli
di Edipo. Tutti figli suoi, tutti mescolati in una razza
nella quale ognuno di essi è figlio e fratello di suo

65
GRANDI MITI GRECI

figlio. E a lei cosa può restare ora, se non la vergo­


gna e il disonore? Invoca il nome di Laio, come non
le capitava da molti anni, ricorda il momento in cui
ha concepito Edipo, l’infelice, il maledetto dagli dèi.
Edipo, che l’ha seguita nella reggia, fuori di sé, cer­
ca di entrare nella stanza sfondando la porta. Che
vorrà fare? Ucciderla? Forse neppure lui lo sa. Quel­
lo che è certo è che Giocasta non potrà più sostenere
il suo sguardo.
Veloce, scioglie la lunga cintura ricamata, ne ap­
pende un capo a una trave del tetto, fa un cappio e
s’impicca lasciandosi cadere dal letto. Edipo intanto
ha sfondato la porta ed è entrato. Vede la m adre-spo­
sa penzolare m orta da quel laccio, scioglie la cintura
e depone il corpo sul letto. Poi, in un assalto di furia
rabbiosa, la stessa che un giorno l’aveva portato a
uccidere quello sconosciuto all’incrocio, strappa gli
spilloni d’oro che ornavano la veste di Giocasta e se
li pianta negli occhi, una volta, due volte, molte volte.
Con le orbite cieche e insanguinate esce barcol­
lando dalla reggia e si presenta ai suoi cittadini, al
colmo del dolore e della miseria. Possiamo im m agi­
nare l’effetto che questa apparizione fece sul pubbli­
co che assisteva per la prim a volta alYEdipo re sui

66
EDIPO

gradoni del teatro di Atene, sotto FAcropoli: ciò che


Aristotele definiva “pietà e terrore”, il fine supremo
per il quale una tragedia greca veniva scritta.
O ra è maledetto, cieco, contaminato, l’ombra di
se stesso: fino a quella m attina si era potuto conside­
rare il più felice degli uomini. Ora andrà in esilio,
come un capro espiatorio, solo, miserabile, maledet­
to. Così Sofocle chiude la sua tragedia: «Cittadini
della m ia patria, Tebe, guardate Edipo che risolse
l’enigm a famoso ed era un uomo potentissimo, a cui
non c ’era cittadino che guardasse senza invidia.
Guardatelo: in che abisso di m iseria è precipitato.
Perciò non chiamate felice nessuno dei mortali che
attendono di vedere il loro ultimo giorno prim a di
vedere se morirà senza avere sofferto dolori».
Edipo, dunque, nella prospettiva tragica, è il m o­
dello perfetto della caduta, in cui si risolve l’essenza
del tragico: la sventura, il destino attendono in ogni
momento di compiersi; nessuno è al riparo, per m i­
steriosi motivi la grandezza può crollare, la fortuna
cambiare e non c’è nulla che possa rim anere saldo e
sicuro per sempre. Come diceva Erodoto, contempo­
raneo e amico di Sofocle, i fulm ini cadono sulle
querce più alte; gli dèi e il destino sono qualcosa di

67
GRANDI MITI GRECI

“invidioso e sconvolgente” e solo così gira la ruota


della vita e procedono le cose umane. Questa, in
fondo, è la grande lezione della tragedia greca.
Ma, quella appena descritta, non era l’unica ver­
sione della fine di Edipo. L’Edipo più antico, quello
ricordato da Omero in un passo dell 'Odissea, non
finiva così. Dopo che la verità era stata portata alla
luce - e Omero non dice come - Edipo non si accecò
ma continuò a regnare su Tebe; la sua sposa - che in
Omero si chiama Epicasta - s’impiccò ma lui rim ase
sul trono, roso dalle sue angosce, tormentandosi per
quanto aveva involontariam ente compiuto. Come
afferma Omero: per tutta la vita fu perseguitato dal­
le Erinni della madre che si era uccisa per lui e, pro­
babilm ente, lo aveva m aledetto prim a di m orire.
Morì dunque da re, e quando fu morto, si celebraro­
no in suo onore grandi giochi funebri, per partecipa­
re ai quali accorsero i più nobili atleti da tu tta la
Grecia, giochi che rim asero famosi. Altri racconta­
vano che dopo la morte di Giocasta, Edipo ebbe al­
tre due mogli, Eurigania e, dopo la morte di costei,
A stim edusa. D ue figure sbiadite, per noi, di cui
null’altro si ricorda. Edipo dunque, in questa versio­
ne, non si accecò né fuggì da Tebe.

68
EDIPO

Altre versioni del mito risparmiano anche Gioca-


sta. Alcuni sostenevano che la misera donna non si
fosse uccisa dopo avere saputo di essere la madre di
suo marito; e che, dopo la morte di Edipo, avesse cer­
cato di tenere unita la famiglia e soprattutto tentato di
mediare tra i due figli-nipoti, Eteocle e Polinice, per
evitare che si mettessero in guerra tra loro. Il poeta li­
rico Stesicoro racconta questo, in un poema frammen­
tario ritrovato su un papiro: siccome i due figli di Edi­
po, dopo la morte del padre, non riuscivano a mettersi
d’accordo per l’eredità, Giocasta insieme al vecchio
Tiresia - questa volta un Tiresia “buono” - tentò di
conciliare la lite. Quello che avvenne è noto: Eteocle e
Polinice avevano ereditato la natura violenta di tutti i
maschi della famiglia e finirono per uccidersi tra loro.
Sembra dunque che in origine il triste caso di
Edipo fosse visto, più che come un delitto, come un
incredibile gioco del caso.
Non sempre l’Edipo re di Tebe fu un miserabile
cieco costretto all’esilio. In una tragedia di Euripide,
le Fenicie, i quattro superstiti protagonisti della vi­
cenda sono ancora insieme. Edipo si è accecato e
vive recluso tra le mura domestiche, a rodersi per le
sue sventure; Eteocle ha preso il potere; Polinice co­

69
GRANDI MITI GRECI

manda un esercito accampato sotto le m ura di Tebe


e Giocasta assiste impotente agli avvenimenti. Eteo-
cle e Polinice si affrontano in una “singoiar tenzone”
davanti agli occhi di tutti; nel duello finiscono en­
trambi feriti a morte e Giocasta, disperata, esce dalle
mura e si suicida con la spada di un figlio, cadendo
riversa sui loro corpi. Solo a questo punto, come un
mostro che sbuca dal suo covo, compare Edipo, gon­
fio di rancore e di odio verso il mondo: verrà caccia­
to in esilio come un mendicante, e Tebe si libererà
per sempre di lui e di questa famiglia maledetta.
Di Sofocle e della tragedia che ancora rende im ­
mortale il suo nome abbiamo già lungamente parla­
to; va ricordato però che la stessa scena di acceca­
mento fu raccontata dal suo “collega”, Euripide, del­
la cui opera restano solo frammenti.
Anche nell 'Edipo euripideo l’eroe veniva privato
della vista, m a a farlo non erano le sue m ani dispe­
rate: in un passo di questo dram m a si racconta che,
quando si scoprì che Edipo era l’assassino di Laio, i
fedeli servitori del vecchio re gli tesero un agguato,
lo im m obilizzarono e gli strapparono gli occhi;
qualcuno di loro infatti raccontava: «Noi afferram ­
mo il figlio di Pólibo, lo gettammo a terra e gli strap­

70
EDIPO

pammo gli occhi». In un altro frammento della stes­


sa tragedia, Giocasta si vanta di aver saputo accom­
pagnare fedelmente lo sposo nella sciagura, dividen­
do il dolore con lui.
Un Edipo cieco, dunque, ma contro la sua volontà;
un Edipo non roso dai rimorsi ma vittim a dell’odio
altrui e che precipita nella cecità ancora prim a che le
sue colpe emergano, visibili a tutti: è chiaro infatti
che, nel momento della loro vendetta sommaria, i
servitori di Laio pensavano di avere a che fare con il
“figlio di Pólibo” e dunque la vera identità di Edipo
era ancora ignota. Forse, a istigarli, era stato il tradi­
zionale nemico di Edipo, Creonte, fratello di Gioca­
sta, che nella tragedia occupa il ruolo del politico
ambizioso per eccellenza, se non persino del tiranno:
questa ipotesi trova un sostegno nella scena dipinta
sopra un’urna etrusca di Volterra che raffigura il m i­
to di Edipo e che potrebbe con molta probabilità es­
sere stata desunta dalla tragedia euripidea. Sul vaso
si vedono due soldati tenere fermo un uomo inginoc­
chiato, certamente Edipo, mentre un terzo gli sta ca­
vando gli occhi con un pugnale. Sulla sinistra si indi­
vidua un uomo in piedi in atteggiamento compreso e
solenne - forse Creonte dall’altro lato del vaso due

71
GRANDI MITI GRECI

bambini, i figli di Edipo, piangono strappandosi i ca­


pelli e una donna, Giocasta, si precipita disperata
sulla scena, a stento trattenuta da un servo.
Se questa ricostruzione è fondata, l’accecamento
di Edipo avveniva in seguito a una congiura fam ilia­
re in cui Creonte si assunse il compito, come parente
più vicino all’assassinato, di vendicarne la morte e,
nello stesso tempo, non si lasciò scappare l’occasio­
ne per impadronirsi del regno.
In tutti i casi, neWEdipo di Euripide, la rivelazio­
ne dell’incesto avveniva in modo diverso: a renderlo
noto, provvede la madre adottiva Mérope, venuta a
Tebe per annunciare la morte del marito; è lei a rive­
lare a Edipo i segreti della sua infanzia, e a spiegar­
gli come era stato trovato e accolto.
A ll’Edipo di Euripide m ancava quindi l’oscuro
tormento e l’ansia di ricerca che fanno grande l’eroe
sofocleo. Una tragedia dovuta al cieco caso, quella
euripidea, il cui valore doveva consistere nella capa­
cità di costruire un intreccio complicato e ricco di
colpi di scena, come avviene spesso nei dram m i eu­
ripidei dell’ultim o periodo. Potrem mo persino so­
spettare che, in una polemica indiretta con Sofocle
- come spesso avviene nelle sue opere teatrali - , Eu­

72
EDIPO

ripide tendesse a svilire il personaggio che aveva fat­


to la gloria del suo rivale: del resto, anche nell’altra
circostanza in cui si riaffaccia, nel dram m a le Feni­
cie, l’Edipo cieco e gonfio d’odio che compare nella
scena finale appare come un individuo più ripugnan­
te che infelice, di sicuro lontano dalla grandezza am­
bigua e tremenda che emana nella tragedia sofoclea.

Morte di Edipo

Torniamo ora a seguire la strada più battuta e famo­


sa del mito, quella percorsa da Sofocle. A più di no­
v an tan n i egli scrisse il suo ultimo dram m a e lo de­
dicò, ancora una volta, a Edipo: YEdipo a Colono,
ispirandosi a una leggenda ateniese. Ad Atene infat­
ti si raccontava che il sepolcro di Edipo si trovasse in
un boschetto appena fuori dalla città, consacrato al­
le Eumenidi, le dee della punizione nell’aspetto be­
nevolo, possiamo dire le dee del placamento.
Edipo, cieco e mendicante, arriva alla fase finale
della sua vita, accompagnato dalla figlia Antigone;
accolto ad Atene dal pio re Teseo, ritrova una patria
e muore pacificato nel boschetto sacro, in modo m i­

73
GRANDI MITI GRECI

sterioso: diventerà un eroe protettore della città, e


sul suo sepolcro si celebreranno offerte. Da reietto a
divinità del sottosuolo: questa è la sua parabola, l’a­
biezione precede la santificazione.
Tuttavia quello di Atene non era l’unico “sepol­
cro di Edipo” di cui si raccontava. Secondo un anti­
co commentatore di Sofocle (scolio a Sofocle, Edipo
a Colono, 91), quando Edipo morì a Tebe - e non,
come vuole Sofocle, in A ttica - i suoi parenti aveva­
no intenzione di seppellirlo nella terra paterna, ma i
Tebani vietarono che i resti di un uomo tanto impu­
ro contam inassero la loro città. A llora i fam iliari
trasportarono il corpo in un sito della Beozia chia­
mato Keos e ve lo seppellirono; avvenne però che
gli abitanti di quel villaggio fossero perseguitati da
una serie di disgrazie che naturalmente furono attri­
buite alla scomoda presenza della tomba di Edipo, e
al suo fantasma inquieto, perciò imposero ai fami­
liari di trasferirlo altrove. I familiari di Edipo finiro­
no per trasportarlo in un luogo di frontiera tra la
Beozia e l’Attica, chiamato Eteono, dove lo seppelli­
rono clandestinamente, di notte, per evitare che gli
abitanti si opponessero, senza sapere che in quel sito
sorgeva un recinto consacrato a Demetra. Grande fu

74
EDIPO

lo scandalo, quando la cosa si riseppe; gli abitanti di


Eteono inviarono a Delfi una delegazione per sapere
che cosa avrebbero dovuto fare; in quella circostan­
za Apollo fu più pietoso col morto di quanto era sta­
to col vivo, tanto da decretare che «non bisognava
disturbare il supplice della dea (Demetra)».

Così Sofocle chiude la sua tragedia: «Cit­


tadini della mia patria, Tebe, guardate Edi­
po che risolse l’enigma famoso ed era un
uomo potentissimo, a cui non c’era citta­

uu dino che guardasse senza invidia. Guarda­


telo: in che abisso di miseria è precipitato.
Perciò non chiamate felice nessuno dei
mortali che attendono di vedere il loro ulti­
mo giorno prima di vedere se morirà senza
avere sofferto dolori».

Edipo potè infine trovare la sua quiete in quel sito e


il luogo del sepolcro divenne uno spazio sacro che
l’eroe tebano condivideva con la dea delle messi.
Anche in quel luogo riceveva offerte, come si usava
fare con i morti sacri e gli eroi: una lontana anticipa­

75
GRANDI MITI GRECI

zione del culto dei santi cristiani. Nel frattempo, sul


finire della vita, i suoi sensi di colpa si erano placati;
«Io - diceva - quello che ho fatto, uccidere mio pa­
dre e sposare m ia m adre, l’ho fatto involontaria­
mente. M entre chi mi ha fatto del male, i miei geni­
tori, l’hanno fatto ben consapevoli di ciò che stava­
no facendo». Non è più Apollo o il destino ad averlo
guidato; ora ha finalmente capito che esiste anche il
male subito, oltre a quello inflitto.
Questo Edipo tragico è un personaggio davvero
commovente e solo, ed è l’esempio di come l’infeli­
cità possa bussare alla porta di chiunque, senza una
ragione che la giustifichi.
Comunque fosse morto Edipo, in patria o ad Ate­
ne, da re o da mendicante, la sua storia non si ferma
qui. La maledizione che grava su questa famiglia si
proietta anche sui figli, Eteocle e Polinice. Edipo al­
larga la sua ombra sulla sua discendenza sciagurata.
A lla sua morte, o prim a ancora, i due figli hanno
cominciato a dividersi e litigare per l’eredità del pa­
dre. Quello che è certo è che Edipo li maledisse e
augurò loro la morte.
Le ragioni di questo atto di crudeltà sulla sua
stessa stirpe non sono molto chiare. Alcuni sostene­

76
EDIPO

vano che Edipo avesse maledetto i figli quando, an­


cora nella reggia, era stato offeso da loro, anche in
questo caso per un motivo abbastanza futile, l’aver­
gli offerto la parte poco nobile di una vittim a, du­
rante un banchetto, una zampa, in segno di sfregio.
Vi dividerete la m ia eredità in modo uguale, aveva
detto: a ognuno toccherà la stessa porzione di terra,
quella in cui sarà sepolto.
Così uscì di scena, iroso e corrucciato: quasi la
copia di quel Laio che aveva cercato di ucciderlo
appena nato. No, non era un bel destino nascere in
quella fam iglia ed essere figli di tali padri. Così
infatti avvenne: Eteocle e Polinice iniziarono a liti­
gare per il regno; decisero di dividersi il potere, re­
gnando un anno ciascuno. M a quando toccò a Ete­
ocle cedere il potere al fratello, si rifiutò e lo m an­
dò in esilio. Così Polinice si rifugiò ad Argo, rac­
colse un’arm ata e tornò per conquistare Tebe. Sette
porte aveva la città, sette condottieri guidavano gli
assedianti; alla settim a porta, nel cuore della batta­
glia, i due fratelli si affrontarono faccia a faccia e
si trafissero a vicenda. Così finì la fam iglia di Edi­
po. N on tutta: restavano le figlie, restava Antigone.
E questo è un altro mito!

77
GRANDI MITI GRECI

Edipo da Aristotele a Freud

La nostra epoca è una consumatrice di miti; non tanto


perché li crea, quanto perché li riutilizza e continua-
mente si ispira a essi. Del resto funziona sempre così:
un mito è fatto per essere raccontato, e ogni volta che
10 si racconta cambia un po’. L’Edipo di Omero è di­
verso da quello di Sofocle, e l’Edipo di Seneca è anco­
ra differente. Il nostro, diverso ancora. Ogni epoca
cerca risposte nuove dal medesimo mito, perché - use­
remo, il lettore ce lo permetta, le parole di Aristotele -
un mito tende all’universale, la storia al particolare. In
questo universale è compreso tutto, ci sono tutte le
possibili storie sullo stesso soggetto e una quantità di
significati diversi che di volta in volta si manifestano,
sempre nuovi. Altrimenti, non sarebbe un mito.
Lo possiamo verificare anche per i due personag­
gi del mito greco su cui l’epoca m oderna ha proietta­
to un aspetto fondamentale della propria visione del
mondo: sono un padre e una figlia, Edipo e A ntigo­
ne. Per la cultura ottocentesca, infatti, Antigone era
11 simbolo del naturale im pulso dell’essere umano
verso l’afferm azione della legge morale: «Io sono
nata per am are e non per odiare» dice allo zio

78
EDIPO

Creonte, che sta per condannarla a morte. L’unico


essere predisposto all’amore in una famiglia gron­
dante d’odio. «Le tue leggi umane non possono an­
dare contro quelle antichissime, stabilite dagli dèi»,
gli dice, leggi che ognuno sente dentro di sé: il cielo
stellato sopra, la legge morale dentro, questa era l’in­
terpretazione idealista di Antigone che si sacrifica
per seguire il suo “giusto”.
Il padre Edipo, invece, diviene per il Novecento
- un secolo segnato da sangue e violenza - il m ani­
festo di una visione diversa dell’individuo, l’eroe
dall’identità frustrata, un uomo in cui si agitano
istinti ingovernabili. È proprio così: si deve a Edipo
un certo uso moderno del mito greco. L’Edipo del
Novecento ha un padre che lo riporta alla luce: Freud,
un uomo fondamentale nella storia della cultura con­
temporanea, ora a distanza di un secolo lo capiamo
bene, non meno grande di quanto lo sia stato Sofo­
cle, il creatore di Edipo nella storia della letteratura.
M a dopo Sofocle e prim a di Freud, incontriamo un
altro uomo che ebbe un peso determinante nella storia
del pensiero occidentale e che si occupò, anch’esso, di
Edipo: Aristotele. UEdipo re era per Aristotele - lo
scrive nella Poetica - il modello perfetto di tragedia,

79
GRANDI MITI GRECI

e il mito di Edipo l’esempio inimitabile di una narra­


zione commovente ed emozionante: «Basta solo sen­
tirla raccontare - scriveva - e si provano le emozioni
più tipiche della tragedia: terrore e pietà».
Edipo fu vittima inconsapevole dei propri errori,
perché ignorava quale fosse la sua vera nascita. Que­
sto lo rende degno di pietà: non era un uomo comple­
tamente buono ma neppure malvagio, uno come tanti
quindi, eppure l’intreccio degli eventi lo travolse.
Nella triste vicenda di questo eroe si può scorgere il
gioco del destino che in modo imperscrutabile muove
la vita di un uomo, come se veramente non fosse la
sua volontà a dirigerlo. Certamente Edipo fu condi­
zionato dagli oracoli di Apollo. Fu, tuttavia, condotto
a fare ciò che fece anche dalle proprie scelte e dai
propri istinti; da un lato ci sono le azioni, dall’altro la
volontà. Edipo non vide e non capì: questo fu - dice
Aristotele - la sua vera colpa. Meno che mai quest’uo­
mo comprese se stesso e, possiamo aggiungere, se
non quando i giochi erano fatti, il senso di quello che
gli stava accadendo. E forse il senso non c’è proprio.
È accaduto: inutile cercare una spiegazione o una ra­
gione, e nemmeno incolpare gli dèi. I quali comun­
que mai forniscono spiegazioni per il loro agire!

80
EDIPO

Ecco uno dei punti su cui la tragedia di Edipo


induce a riflettere: l’assurdità del dolore e - se pos­
siamo prendere a prestito la famosa definizione di
H annah Arendt - la banalità del male. Edipo soffre
e fa soffrire, eppure non è del tutto colpevole, m o­
ralmente. La sua è una colpa involontaria. Ha ucciso
un uomo, ma era stato aggredito: ogni tribunale an­
tico l’avrebbe assolto, e forse anche un tribunale m o­
derno. Perché, dunque, un uomo precipita, con o
senza colpa, perché persino gli dèi, persino Apollo,
decretano che un innocente, un uomo che ha salvato
una città, come fece Edipo, e ha fatto di tutto per
evitare gli eventi predetti dall’oracolo, patisca quello
che gli è toccato patire? Il mito di Edipo incrocia il
problema della colpa con quello della sofferenza, e
afferma che l’una è indipendente dall’altra. Non c’è
una giustizia, non c’è un compenso e, tutto somma­
to, nemmeno una spiegazione. Forse tutto avviene
per caso. O forse non è così. Non sappiamo, non sa­
premo mai. Molti secoli dopo A ristotele, la stessa
tragedia diventa esemplare nell’opera di Freud e, del
resto, se si leggono le pagine che egli ha dedicato al
“suo” Edipo, è difficile non avvertire l’emozione che
l’austero scienziato viennese provò scrivendole.

81
GRANDI MITI GRECI

Fondando la psicanalisi, Freud scelse proprio l’Edi-


po del dram m a greco come simbolo di un altro ge­
nere di dram m a, che ogni uomo interpreta, senza
saperlo, in una parte segreta della propria mente: la
storia del re di Tebe si può dunque considerare il
mito di fondazione della psicanalisi.
«Se il re Edipo - scriveva Freud we\YInterpreta­
zione dei sogni - riesce a scuotere l’uomo moderno
non meno dei Greci suoi contemporanei, la spiega­
zione può trovarsi soltanto nel fatto che deve esiste­
re, nel nostro intimo, una voce pronta a riconoscere
la forza coattiva del destino di Edipo [...]. Il suo de­
stino ci commuove soltanto perché sarebbe potuto
diventare anche il nostro, perché prim a della nostra
nascita l’oracolo ha decretato la medesima maledi­
zione per noi e per lui».
Nell’Edipo di Freud, i grandi temi della tragedia
greca sembrano prendere un’altra via, eppure resta­
no ben riconoscibili: la colpa inconsapevole di Edi­
po diviene un istinto inevitabile, che lo induce a eli­
m inare il padre per giacere con la madre; il Fato
decretato da A pollo si trasform a nell’Inconscio,
compagno di vita di ogni uomo, con le sue voci am ­
bigue che spingono là dove non si sarebbe creduto di

82
EDIPO

andare. È appunto questo, ciò che, da un certo m o­


mento in poi, fu definito “complesso di Edipo”. A n­
che se il concetto di “complesso di Edipo” si precisa
successivamente, nel pensiero di Freud - non prim a
del 1910 - , il dialogo tra lui e il “suo” Edipo era ini­
ziato assai prima. Il “nuovo” Edipo, che Freud inau­
gura e che accompagna il Novecento, delinea un ti­
po di uomo inquietante perché in lui si m anifesta un
intreccio di forze davanti alle quali la volontà consa­
pevole è disarmata; di forze in conflitto tra loro, che
rendono vana la volontà di essere come si è deciso di
essere e anche come si è convinti di essere.
Edipo riteneva di essere un re, m a era un trova­
tello e un p arricida senza saperlo. Pensava che
A pollo lo guidasse e invece lo stava ingannando.
L’alto e il basso in lui si mescolano. Chi di noi può
dire di essere padrone della propria volontà sino in
fondo, e non essere invece, poco o tanto, condizio­
nato dalle forze che stanno sopite dentro una parte
della mente, e potrebbero, nella m aniera più im pre­
vedibile, m anifestarsi e condizionare la volontà,
come avvenne in quel fatale incrocio in cui Edipo,
preso dalla rabbia, uccise il padre? Chi di noi può
pensare di interpretare gli oracoli di Apollo, quelli

83
GRANDI MITI GRECI

che vengono dalla parte alta dell’anim a, e non esse­


re deviati nel cam m ino, come Edipo lo fu per non
averli compresi? Non sempre, per fortuna, vi sono
incroci in cui ci si im batte nel padre e lo si uccide;
ma non sempre Apollo orienta il cam m ino verso la
conoscenza di sé.
C erto Edipo uccide Laio senza saperlo: e dun­
que non riconosce in quell’uomo il proprio padre.
Q ualcosa, tuttavia, li muove l’uno contro l’altro, a
quell’incrocio, qualcosa di inevitabile e di incon­
scio, che era stato decretato da una forza superio­
re. Edipo non sapeva chi avesse davanti e quindi la
te o ria di F reud non si può ap plicare, p erché
quell’uomo per lui non era il padre. Era stato, p e­
rò, portato sin lì non per caso: stava cercando suo
padre, altrim en ti non sarebbe andato a D elfi a
consultare l’oracolo. La rabbia che afferra i due
uom ini a quell’incrocio viene da lontano, non sap­
piam o da dove. Q uesta im provvisa ondata di vio ­
lenza ha qualcosa di folle: la follia dell’ora m eri­
diana, la follia della cam pagna deserta, la follia
degli spazi solitari dove è facile essere “posseduti
dalle ninfe”. Gli incroci erano appunto i luoghi in
cui si pensava che, n e ll’ora del m ezzogiorno, le

84
EDIPO

ninfe si ritrovassero e ogni uomo, che si trovasse


in quei luoghi, correva il rischio di essere assalito
da una di loro, con la conseguenza di am m alarsi o
perdere la ragione; per questo motivo, la religione
popolare prescriveva di posare, nel punto in cui
tre strade s’incrociano, pane, miele e latte per pla­
care le ninfe.
Lo scontro tra Laio ed Edipo sembrerebbe una
m anifestazione del delirio di uom ini posseduti dal­
le ninfe, se non fosse stato preparato da tanto tem ­
po nella mente degli dèi. Eppure, la furia che sca­
tena i due viandanti l’uno contro l’altro stupisce,
tanto pare assurda: i due uom ini sono accecati dal­
la rabbia, ciascuno di loro agisce come in trance,
senza rendersi conto delle conseguenze delle pro­
prie azioni: «Niente pane propiziatorio in quell’in­
crocio, niente miele, latte, uova, nessun cibo dell’a­
nim a a quell’incrocio - scrive James H illm an - [...]
erano, entram bi quegli uom ini, vulnerabili alla fol­
lia delle ninfe, a ll’om bra m eridiana, a quell’alta
follia solare detta “superbia”, vittim e di una m an­
canza, un’assenza d ’anim a, o di u n ’A nim a, psico­
logicam ente inetta?».
La storia dell’eroe che uccide il padre per giacere

85
GRANDI MITI GRECI

nel suo stesso talamo con la madre, si trasform a, nel


pensiero di Freud, in un modello applicabile a ogni
situazione psichica.
Il “nuovo” Edipo che prende forma nel N ovecen­
to ha però, oltre a Freud, un secondo padre. Nel no­
no capitolo della Nascita della tragedia, Nietzsche
gli dedica alcune parole importanti: ne fa l’esempio
dell’uomo che infrange le convenzioni sociali e m o­
stra come la sapienza e la conoscenza siano in real­
tà un delitto contro la natura. Edipo ha violato la
legge dell’individuazione, secondo la quale un uo­
mo non può essere altro che se stesso: si scoprirà,
invece, che quest’uomo è, nello stesso tempo, il cri­
minale e il salvatore, un uomo che infine si riscatta
passando attraverso il cerchio del dolore e dell’illu­
m inazione, dopo avere visto il tetro fondo di se
stesso. L’eroe del YEdipo a Colono è per Nietzsche
una figura completamente diversa: «Il vecchio so­
verchiato dalla m iseria e che accetta come soggetto
passivo tutto ciò che lo domina, spande una divina
serenità che ci dice come l’eroe raggiunge una for­
ma superiore di attività col suo contegno passivo,
laddove il suo conscio e deliberato sforzarsi e trava­
gliarsi nel corso della sua precedente esistenza non

86
EDIPO

lo ha condotto altro che alla passività». È difficile,


per noi, parlare di Edipo senza vedere dietro di lui
apparire l’om bra di N ietzsche e ancora di più di
Freud, e parlare dell’Edipo greco senza proiettare
su di lui l’ombra dell’Edipo novecentesco. I miti, in
fondo, si possono leggere nelle due direzioni: par­
tendo dall’antico per arrivare al moderno, ma anche
viceversa. Che Sofocle, col dram m a di Edipo, abbia
aperto la via che ha portato a queste riletture è il
segno della sua grandezza, della grandezza della
tragedia greca e anche della capacità del m ito di
produrre significati sempre nuovi, in ogni epoca.

87
La prim a testim onianza pervenutaci della soprav­
vivenza del mito di Edipo al di fuori della cultura
greca è un’opera divenuta a sua volta punto di rife­
rim ento fondamentale per le successive rielabora­
zioni teatrali, fungendo da modello tanto quanto lo
è stato il testo di Sofocle: YEdipo di Lucio Anneo
Seneca databile intorno alla m età del I secolo d.C.,
a cui si aggiungono - m a con un peso meno rile­
vante - le Fenicie, opera incom piuta dello stesso
autore, che tratta la tem atica dell’omonimo dram ­
m a euripideo, parte della celebre trilogia di cui le
due restati opere, Enomao e Crisippo, sono oggi
perdute. Il m ito del re di Tebe, godette del resto di
una singolare fortuna presso gli esponenti della ca­
sata imperiale: Giulio Cesare aveva scritto un Edi­

93
GRANDI MITI GRECI

po, che non si conservò perché A ugusto dispose


che l’opera fosse bruciata, secondo la testim onian­
za data da Svetonio nell’opera Vite dei Cesari, Li­
bro I; Nerone, poeta e attore più che dilettante, ave­
va nel suo repertorio prediletto arie sul tem a “Edi­
po accecato” come testim onia sempre Svetonio in
Vite dei Cesari, Libro VI. Il tem a dell’incesto era
per gli im peratori della casata giulio-claudia qual­
cosa di più di un semplice interesse poetico. Storici
e cronisti dell’epoca alludono con insistenza scan­
dalistica ai m atrim oni fra consanguinei, assai abi­
tu ali per questi im peratori: C laudio sposò, con
pubblico scandalo, A grippina, figlia di suo fratello
Germanico; a Nerone fu data in m atrim onio O tta-
via, figlia del padre adottivo Claudio; dei rapporti
tra N erone e la m adre A grippina, Tacito traccia,
nei suoi Annali, un quadro che possiamo definire
morboso, riferendo dei tentativi di seduzione ope­
rati dalla m adre nei riguardi del giovane figlio, al
quale si m ostrava sovente discinta, dopo averlo fat­
to ubriacare. CEdipo di Seneca non è certam ente
l’eroe sofferente ma, a m odo suo, grande della tra­
gedia di Sofocle, bensì un personaggio torbido e
nevrotico, a cui m anca il rovello del dubbio e la

94
EDIPO

nobiltà intellettuale del m odello greco. Segue in


modo virtuosistico il modello sofocleo, di cui m an­
tiene gli elementi fondam entali della tram a, com­
preso l’accecam ento finale, m a introduce alcune
scene fosche e sanguinarie, tipiche dello stile tragi­
co di Seneca e più fam iliari alla cultura rom ana
dell’epoca: esem plari sono la grande scena neoro­
m antica nella quale l’anim a di Laio viene evocata
perché denunci il figlio quale suo assassino e la
scena divinatoria durante la quale M anto, figlia di
Tiresia - personaggio introdotto ex novo, nella tra­
ma, da Seneca - disseziona una vittim a sacrificale,
la più ampia trattazione dram m atica di scena divi­
natoria presente nel teatro antico.
A ncora u n ’opera della letteratura latina del I seco­
lo d.C., rilevante sul m ito edipico, in cui però
l’eroe entra solo m arginalm ente, è il poem a epico
Tebaide di Papinio Stazio, incentrato sulla guerra
dei Sette contro Tebe: E dipo appare a ll’inizio,
d all’oltretom ba, come fantasm a cieco e im placabi­
le persecutore dei propri figli, Eteocle e Polinice,
im pegnati nell’assedio di Tebe e condannati a uc­
cidersi l’un l’altro, proprio a causa della m aledi­
zione del padre.

95
GRANDI MITI GRECI

Edipo nel Medioevo

L’Edipo medievale è soprattutto un Edipo folklori-


co, legato a versioni orali della storia del fanciullo
incestuoso, che m uta nome e diviene di volta in
volta G regorio M agno, G iuda Iscariota, A ndrea
Cretese e molto altro ancora. La scom parsa della
conoscenza della lingua greca nel medioevo latino,
del resto, fu causa dell’oblio della tragedia di Sofo­
cle; e poiché anche il Seneca tragico era poco dif­
fuso in età medievale - sebbene ne restino anche
m anoscritti m iniati - la fonte principale per il mito
edipico restava la Tebaìde di Stazio - con il com ­
m ento del suo chiosatore L attanzio Placido. Le
principali raccolte di mitologia compilate nel corso
del Medioevo, come, per esempio, le Mitologiae di
Fulgenzio, le Narratìones fabularum Ovidiarum e
i cosiddetti Mitografi vaticani - riproposti nel 1831
in una celebre edizione a cura di Angelo Mai - , non
fanno praticam ente cenno alle vicende dell’infelice
re di Tebe. Talvolta però la storia di Edipo si riaf­
faccia in opere tardo-latine o volgari, in particolare
a partire dal X II secolo, legate soprattutto a rilettu­
re della Tebaide di Stazio. Risale alla fine del X I

96
EDIPO

secolo, la lamentazione Diri patris, scritta in tardo-


latino: è il pianto di un Edipo, vecchio e in attesa
della m orte, che ripercorre le tappe della propria
m isera vita ed enum era tutte le colpe che l’hanno
reso celebre ai contem poranei, come ai posteri. Di
circa un secolo più recente, e scritto in francese
volgare, è il Roman de Thèbes: nell’opera, G iocasta
vive per vent’anni insieme al figlio-sposo, scopre
la sua identità durante un bagno, quando nota le
cicatrici sulle caviglie di Edipo e gliene chiede ra­
gione - questo stesso elemento, responsabile dell’i­
natteso e im provviso riconoscim ento tra i due per­
sonaggi, si ritrova, in un passo interpolato, nel se­
condo Mitografo vaticano: dal suo racconto la regi­
na lo scopre come proprio figlio, diviene consape­
vole del parricidio e dell’incesto. A ltri testi che ri­
portano il m ito edipico in epoca tardo-m edievale
sono YHistoire ancienne jusqu’à Cesar - composta
agli albori del X III secolo - e YOvide moralisé - ,
anonim a trasposizione in versi, in lingua francese,
delle ovidiane Metamorfosi, apparsa nei prim i anni
del X V secolo. Anche il nostro G iovanni Boccac­
cio conosceva le vicende della casata reale di Tebe,
di cui parla, a varie riprese, nel suo grande m anua­

97
GRANDI MITI GRECI

le di mitologia, Genealogia deorum gentilium, ol­


tre che in altre due sue opere erudite, il De casibus
virorum illustrium e il De mulieribus Claris.

Edipo dai Rinascimento all’Ottocento

La vera rinascita di Edipo nella cultura occidentale


avviene però durante il Rinascimento, quando torna­
no a essere nuovamente accessibili e studiati i capo­
lavori del teatro greco e torna a diffondersi anche il
Seneca tragico. Edipo diviene nuovamente perso­
naggio teatrale, un eroe tipico da tragedia - «a mir-
ror o f misery», come di lui scrisse il celebre dram ­
maturgo inglese Christopher Marlowe - lungo una
linea ininterrotta che lo collega ai giorni nostri. Nel
Cinquecento la storia di Edipo è oggetto di varie ri­
scritture di stampo classicheggiante, generalmente
prone al grande modello antico, dal quale esitano a
distaccarsi; tra di esse, si possono citare un Edipo re
di Alessandro Pazzi de’ Medici, del 1520, una Gio-
casta di Lodovico Dolce e infine YEdippo di Giovan­
ni Andrea dell’Anguillara, risalente al 1563, dram m a
costruito contaminando le opere di Sofocle e di Se­

98
EDIPO

neca, dal quale riprende Manto, figlia di Tiresia, e la


lunga scena divinatoria. Il dram m a si chiude con il
suicidio di Giocasta, in una scena teatralmente mal­
destra sino alla goffaggine. Poco più che un esercizio
di virtuosismo erudito è YEdipo, scritto nel 1580 in
lingua latina, dall’inglese W illiam Gager. Verso la
fine del Cinquecento il mito edipico diviene oggetto
di cantate e corali, spesso in appoggio a rappresenta­
zioni del testo sofocleo: ne sono un esempio la com­
posizione corale apparsa nel 1585 a opera del vene­
ziano Andrea Gabrieli, e quella di Leone Leoni del
1615, entram be com poste per rappresentazioni
de\YEdipo re di Sofocle al teatro Olimpico di Vicen­
za. Edipo in musica, lungo tutto il Seicento, continua
a essere considerato un soggetto adatto a rappresen­
tazioni di corte; due dei grandi musicisti di quest’e­
poca, Jean Baptiste Lully e Henry Purcell, compose­
ro Paccompagnamento musicale di due tragedie che
in questo periodo costituiscono il punto più elevato
della rinata fortuna teatrale di Edipo: rispettivamen­
te, YOedipe di Pierre Corneille del 1659, e YOedipus
di John Dryden e Nathaniel Lee, del 1679. La trage­
dia di Corneille rappresenta una svolta nella tratta­
zione teatrale del mito di Edipo; infatti, anziché ri-

99
GRANDI MITI GRECI

produrre rispettosamente i modelli antichi, com’era


generalmente prassi della tragedia cinquecentesca,
Corneille m odernizza fortem ente l’intreccio della
tragedia, introducendo un elemento del tutto estra­
neo a Sofocle e a Seneca, m a essenziale per i gusti
del pubblico dell’epoca: il tema amoroso. Corneille
inventa un personaggio nuovo, attorno al quale co­
struisce un intreccio secondario: una figlia legittima
di Laio e Giocasta che vive nella reggia di Tebe dal
nome, squisitamente tebano, di Dirce. Costei, come
una moderna Elettra, cova un sordo rancore contro la
madre che si è presa per sposo uno straniero, che le
impedirà l’accesso al trono, e contro lo stesso Edipo,
che considera un usurpatore. Il nesso tra eros e pote­
re - tema centrale di questo e di vari drammi succes­
sivi - è completato dalla vicenda di Emone, al quale
Edipo, vorrebbe dare in sposa Dirce. La giovane è
però innamorata, ricambiata, del ben più nobile Te­
seo, re di Atene e si oppone alle nozze impostele. Di
qui si dirama un complicato intreccio, dove accanto
alla tram a principale, quella che ha come personaggi
principali Edipo e Giocasta, si innesta il tema dell’a­
more tra Dirce e Teseo. Il testo sofocleo resta per
Corneille poco più che un pretesto narrativo: di esso

100
EDIPO

si conserva poco più che l’antefatto e il riconosci­


mento grazie all’incontro dei due pastori, il Corinzio
e il Tebano, che un tempo avevano salvato il neonato
esposto. Seneca è evocato nell’episodio oscuro
dell’apparizione del fantasm a di Laio - una scena
spesso ricorrente anche in rielaborazioni moderne
del mito edipico. Il dram m a si chiude positivamente
per il protagonista: Edipo, infatti, si autolegittima al
potere quando scopre che nelle sue vene scorre non il
sangue di uno straniero, ma quello legittimo della ca­
sata reale. Si sarebbe del resto mai potuto immagina­
re, nel Grand Siècle di Luigi XIV, che un dram m a­
turgo osasse mettere in scena un re privato del pote­
re, um iliato e costretto all’esilio? Corneille si era
proposto, nel suo misurarsi con il massimo modello
della tradizione antica, di costruire, seppure sulla ba­
se della tradizione, un’opera d’arte originale e riuscì
nell’intento: il suo Oedipe, a sua volta, costituì un’o­
pera destinata a diventare classica, un modello per i
canoni del nuovo linguaggio tragico. Con YOedipe di
Corneille non può rivaleggiare YEdipo apparso nel
1661, per mano del letterato piemontese Emanuele
Tesauro, vissuto alla corte dei Savoia, noto e stimato
per la grande erudizione e la sua attività di critico

101
GRANDI MITI GRECI

letterario - fu autore tra l’altro del Cannocchiale ari­


stotelico pur nell’angustia dell’afflato creativo, YE-
dipo di Tesauro segna un colpo d’ala nel campo delle
riprese tragiche italiane di questo tema. L’autore se­
gue abbastanza fedelmente il modello sofocleo, su
cui innesta, sull’esempio di Corneille, ma cautamen­
te, una trama secondaria di carattere amoroso: un idil­
lio sbocciato tra Antigone e Creonte - che la tradizione
voleva nemici, se non addirittura l’uno assassino
dell’altra - che tuttavia non trova nel dramma quel pie­
no sviluppo che avrebbe contribuito a una maggiore
originalità del tessuto drammatico dell’opera.

Edipo diviene nuovamente personaggio


teatrale, un eroe tipico da tragedia - «a
m irror o f misery», come di lui scrisse il
celebre drammaturgo inglese Christopher
Marlowe - lungo una linea ininterrotta che
CG lo collega ai giorni nostri. Nel Cinquecento
la storia di Edipo è oggetto di varie riscrit­
( y |

ture di stampo classicheggiante, general­


mente prone al grande modello antico, dal
quale esitano a distaccarsi.

102
EDIPO

Uno dei capolavori del teatro inglese del periodo


della restaurazione è invece YOedipus di John
D ryden e N athaniel Lee, del 1679, adattam ento
delYEdipo re di Sofocle, dove però il modello sofo­
cleo si fonde con un modello fondamentale del tea­
tro moderno, quello shakespeariano. A ll’immortale
Shakespeare questo Oedipus deve certamente qual­
cosa: Riccardo III, Macbeth, Otello, Amleto si pos­
sono scorgere sullo sfondo della tragedia, in cui sce­
ne necromantiche, follia, sogni, fantasmi, fanno ri­
suonare l’eco e il clima dei maggiori dram m i shake­
speariani. La tragedia si conclude con l’accecamento
di Edipo e la follia di Giocasta la quale prim a di
uccidersi uccide i figli dell’incesto, mentre Edipo a
sua volta muore precipitandosi nel vuoto. Nel Sette­
cento Edipo continua a essere soggetto di opere in
musica; da ricordare, tra le altre, Edippo di Pietro
Torri su libretto di Domenico Lalli, del 1729, Oedi­
pus, King o f Thebes di Thomas A ugustin A rne su
libretto di Dryden, del 1740, e infine Oedipus di G e­
org Gebel II su libretto di Christian von Kleist, del
1751. La pièce teatrale più significativa, nella prim a
parte del secolo, quantomeno per la fama dell’auto­
re, è il giovanile Oedipe di Voltaire scritto nel 1718;

103
GRANDI MITI GRECI

Voltaire non apprezzava particolarmente il dram m a


di Sofocle, al quale rimproverava la povertà dell’in­
treccio e il fatto che la scoperta della vera identità di
Edipo, evidente sin dall’inizio della tragedia, venis­
se ritardata al finale dell’opera. Da ciò nacque la sua
rielaborazione, che tende a complicare l’intreccio,
con l’introduzione di Filottete, antico innamorato di
Giocasta, che ricompare dopo le nozze tra la regina
ed Edipo. Nel dram m a Voltaire accentua la polemi­
ca antireligiosa, che era solo velatamente accennata
in Sofocle: sia Edipo sia Giocasta, una volta scoper­
ta la verità del loro matrimonio incestuoso, accusa­
no gli dèi di essere i veri colpevoli di tutte le male
azioni che hanno infangato la casata reale di Tebe. Il
tem a di Edipo continua, lungo tutto il Settecento, a
ispirare una serie di m ediocri autori europei, spe­
cialmente nell’ambito del teatro francese: Antoine
H oudar de la M otte pubblicò nel 1726 la tragedia
Oedipe, M. de La Tournelle fu autore, tra il 1730 e il
1731, di ben quattro tragedie di argomento edipico:
Oedipe ou les trois fils de Jocaste, Oedipe et Polibe,
Oedipe et l ’ombre de Laius, Oedipe et toute sa fa-
mille, un vero e proprio ciclo teatrale sul modello
della tetralogia eschilea. Louis-Léon de Lauraguais

104
EDIPO

scrisse nel 1781 la tragedia Jocaste. In Italia, si può


ricordare un Edipo tiranno pubblicato nel 1720 da
Pier Jacopo Martello. Nell’Ottocento il mito edipico
non fu particolarmente presente sulla scena teatrale.
In Italia, sulla scia della tragedia di stampo alfieria-
no - A lfieri del resto trascurò Edipo, per valorizza­
re, come peraltro molti romantici e preromantici, la
vicenda della figlia Antigone - , il letterato e patriota
pisano Silvestro Centofanti nel 1829 compose un
Edipo re, di mediocre successo, d’ispirazione alfie-
riana, giocato quindi essenzialm ente sul tem a del
potere e sulla figura di Creonte, antagonista m a qua­
si controfigura di Edipo. Si può ricordare ancora
Der romantische Oedipus del poeta e drammaturgo
tedesco August von Platen, un singolare pastiche te­
atrale, apparso nel 1829, non privo di toni grotteschi:
Edipo che ostenta, sul corpo, una voglia a forma di
pipistrello che funge da segno di riconoscimento per
Giocasta; l’eroe che, anziché accecarsi, si seppelli­
sce vivo; la Sfinge che, non propone il suo enigma,
bensì esige dai viandanti un distico m etricam ente
corretto e afferma che «un cattivo verso può sem­
brare una piccola pena, eppure genera una gran
quantità di colpe».

105
GRANDI MITI GRECI

Edipo e la modernità

M entre lo studio scientifico della mitologia, uno dei


frutti della nuova “scienza dell’antichità” - in parti­
colare di m atrice germ anica - sviluppava, a partire
dalla m età dell’Ottocento, una revisione complessi­
va delle conoscenze e dei significati della mitologia
classica e, contem poraneamente, la mitologia com ­
parata e l’antropologia contribuivano a delineare
nuove funzioni del patrim onio mitico greco, Edipo
visse, a partire dai prim i anni del Novecento, una
poderosa rinascita. Egli è, senz’altro, l’eroe della
m itologia greca che più ha stim olato negli autori
contemporanei la sfida alla rielaborazione del pas­
sato. E persino superfluo ricordare i contributi del­
la psicanalisi freudiana - a partire da\VInterpreta­
zione dei sogni del 1900 - , che alimentano una li­
nea di interesse ancora viva nel campo della ricerca
e della pratica psicanalitica; certo è che la tesi freu­
diana, anche al di là della psicanalisi, contribuì p o ­
tentemente a focalizzare nuovamente su Edipo l’in­
teresse di scrittori e dram m aturghi. È quasi im pos­
sibile pensare alle riscrittu re letterarie del m ito
edipico nel Novecento senza scorgervi, in m isura

106
EDIPO

m aggiore o m inore, l’om bra di Freud e della sua


scuola. Una prim a testim onianza di questo clima di
rinato interesse per la vicenda edipica è il dram m a
in tre atti Oedipus und die Sphinx, apparso nel 1904
per opera di Hugo von Hofm annsthal, futuro libret­
tista di Richard Strauss in Ariadne a u f Naxos del
1912 e già autore, nel 1903, di un testo ispirato alla
tragedia greca e all’odio che contrappone le genera­
zioni all’interno della stessa famiglia: Elektra, testo
anch’esso successivam ente m usicato da Strauss.
Nel dram m a di H ofm annsthal, la sequenza degli
eventi è fatta scorrere all’indietro, rispetto all’opera
di Sofocle: in questa tragedia non si assiste a un
movimento retrogrado, non si incontra un re che ri­
percorre la sua vita alla ricerca degli indizi che lo
conducano alle sue origini - l’idea che costituisce la
grandezza del dram m a sofocleo - , bensì, al contra­
rio - con un’apparente regolarizzazione del tempo
n arrativo, che procede sulla re tta passato/pre-
sente - il giovane straniero che uccide il padre,
sconfigge la Sfinge, lotta con Creonte per il potere
e viene acclamato dai Tebani come loro sovrano,
quasi contro la sua stessa volontà. Il prim o atto è
ambientato presso un trivio della Focide, dove Edi-

107
GRANDI MITI GRECI

po e Laio stanno per incontrarsi: la lotta, l’uccisio­


ne del servo e poi di Laio che, morente, maledice
Edipo, avvengono in un clima più nordico che m e­
diterraneo, in mezzo a una tem pesta, nel buio, tra
rocce scoscese e sentieri dirupati. L’opera si conclu­
de con le nozze tra G iocasta ed Edipo, e con un in­
cesto consapevole, svelato dalle tram e di un eros
che si dispiega, in modo sottile e irresistibile, tra la
regina, innam orata del ricordo del suo bam bino
perduto, e la com parsa di quello stesso bambino che
le si m anifesta nel fiore della giovinezza e va a oc­
cupare il posto del padre nel letto ancora caldo. In
Francia, Jean C octeau dedicò a Edipo due opere,
sebbene il suo eroe prediletto fosse il ben più soave­
mente poetico Orfeo: la prim a è il testo per l’opera-
oratorio di Stravinskij Oedips rex, rappresentata a
Parigi nel 1927. Cocteau scrisse il testo, che fu poi
tradotto in latino da Jean Daniélou (solo il narratore
parla in francese). L’idea di rappresentare un testo
in latino era nata, nella mente di Stravinskij, dalla
ricerca di una lingua sacra, lontana dal parlato, che
conferisse, alla rievocazione musicale del mito, una
patina di solenne sacralità. Il risultato fu un’opera
che m anifestò la nuova tendenza del compositore

108
EDIPO

russo verso il neoclassicismo, innestato però su un


tipo di teatro completamente anti-rappresentativo e
dunque di avanguardia. L’opera che Cocteau e Stra-
vinskij idearono lavorando insieme sotto il cielo lu­
m inoso della Costa A zzurra - lo stesso che ispirò
Renoir, Matisse, Picasso - è però un dram m a cupo,
nel più alto e tenebroso stile tragico; YOedipus rex
segue in modo abbastanza fedele la tram a àsfflEdi­
po re di Sofocle, m a la scrittura di Cocteau, ulte­
riorm ente dissolta nel difficile latino postclassico
della traduzione, sfilaccia il testo tragico in un lin­
guaggio formulare, quasi liturgico, fatto di anafore,
ellissi, frasi spezzate, iterazioni, mentre i personag­
gi non dialogano mai tra loro, ma piuttosto espon­
gono, in un ossessivo giro di parole, il loro sogget­
tivo punto di vista, dim entichi degli altri esseri
um ani che come loro sono impigliati nell’assurdità
di questa vicenda. Paragonato alla forza di quest’o­
pera, ben poca cosa è l 'Edipo re musicato da Rug­
gero Leoncavallo su libretto di Giovacchino Forza­
no; Leoncavallo morì nel 1919, l’opera, rim asta in­
compiuta, fu completata da Giovanni Pennacchio e
rappresentata postum a a Chicago nel 1920. Gli anni
Venti e Trenta del X X secolo furono un periodo

109
GRANDI MITI GRECI

fortunato riguardo al m ito edipico: oltre alle opere


di Cocteau-Stravinskij e di Leoncavallo che abbia­
mo appena m enzionato, si registra un Sophocles’
King Oedipus, adattam ento del dram m a sofocleo di
W illiam Butler Yeats, rappresentato a Dublino nel
1926 e, dello stesso autore, un Sophocles’ Oedipus
at Colonus del 1927 e soprattutto La machine infer­
nale di Cocteau del 1932 e YOedipe di A ndré Gide
del 1930. Il secondo incontro di Cocteau con il mito
edipico, nel giro di pochi anni, capovolge compieta-
mente la prospettiva del testo rispetto a WOedipus
rex. La machine infernale è un testo teatrale, in
quattro atti, con voce narrante, dunque compieta-
mente libero da necessità di rapportarsi a una tessi­
tura musicale. La “m acchina infernale” è il destino
da cui i personaggi restano inevitabilmente schiac­
ciati; la rilettura di Cocteau però non è tragica nel
senso sofocleo - o senecano - del term ine, m a ha
una componente onirica e surreale, bizzarram ente
lieve e impertinente. L’ombra di Laio, per esempio,
si m aterializza vicino alle cloache di Tebe - «per
via dei vapori che si form ano solo là» - ed è un
fantasm a gentile e un po’ frustrato - come il fanta­
sma di C anterbury nel racconto di Oscar W ilde -

110
EDIPO

che non incute spavento, tanto che i soldati, sulle


m ura, fanno am icizia con lui e lo considerano anzi
un “buon diavolo”. La Sfinge, dal canto suo, com­
pare nel secondo atto in com pagnia del cane Anubi,
il dio egizio dei morti: inflessibile lui, stanca di uc­
cidere lei. Q uesta Sfinge sazia di orrori, incontra
Edipo, un bel giovane vanesio e sciocco, si invaghi­
sce di lui e gli rivela la soluzione dell’enigma. Eroe
quindi, Edipo, tronfio della propria presunta sag­
gezza, in realtà eroe per imbroglio. Anche il tema
dell’incesto è giocato in forme vagamente oniriche:
Giocasta ed Edipo, già sposi, hanno sogni incestuo­
si e imbarazzanti; nella stanza nuziale peraltro, ac­
canto a loro, è posta una culla: quella del piccolo
Edipo, che rinnova ogni giorno alla m adre il ricor­
do del suo abbandono. Il quarto atto torna sulle
tracce dell 'Edipo re, e la vicenda si chiude con la
m orte di Giocasta e l’accecamento di Edipo: la pri­
m a si trasform a in fantasm a che assieme ad A ntigo­
ne conduce il cieco Edipo, un po’ più, anche se non
com piutam ente, consapevole di se stesso, per vie
lontane dalla città: «Sarà una giornata dura», è la
chiosa del protagonista. UOedipe di A ndré Gide se­
gue invece, sostanzialmente, la tram a della tragedia

m
GRANDI MITI GRECI

sofoclea. Edipo qui è un provocatore: con grande


scandalo del benpensante Creonte, si m ostra indif­
ferente alle convenzioni e per niente im barazzato
all’idea di essere fratello dei suoi stessi figli - «Co­
sa vieni a seccarm i con questi problemi di parente­
la? Se i miei figli sono anche i miei fratelli, li amerò
soltanto di più». Un Edipo, dunque, freudianamente
consapevole delle proprie pulsioni e ben disposto ad
accettarle; tuttavia, malgrado ciò, o anzi provocato­
riamente appunto per questo, l’intreccio ricade nella
dimensione del dram m a greco con l’accecamento di
Edipo e la sua autoespulsione dalla comunità.

Questa Sfinge sazia di orrori, incontra Edi­


po, un bel giovane vanesio e sciocco, si
invaghisce di lui e gli rivela la soluzione
€G dell’enigma. Eroe quindi, Edipo, tronfio
della propria presunta saggezza, in realtà
0 9

eroe per imbroglio.

Il fatto è che questo apparire del “rim osso”, questo


passato che attira verso di sé il protagonista, gli im ­
pedisce in definitiva di vivere la propria vita e di

112
EDIPO

esprim ersi liberam ente in una piena afferm azione


di sé - «Invano m i chiam ava l’avvenire: Giocasta
m i tirava indietro». Il dram m a di Gide è anche una
riflessione sull’individualismo e sullo scacco all’au­
tosufficienza di chi crede di bastare a se stesso ed
essere libero da condizionamenti dettati dai vincoli
psicologici e dalla propria storia, familiare e socia­
le. A Edipo, anche C esare Pavese dedica uno dei
suoi Dialoghi con Leucò, testo pubblicato nel 1947:
I ciechi, l’incontro tra Edipo e Tiresia, un testo de­
gno della grande forza mitopoietica del m iglior Pa­
vese. Vanno anche ricordate la novella di Gregor
von Rezzori, Oedipus siegt bei Stalingrad, del 1954;
The Elder Statesman, dram m a in versi di Thomas
S. Eliot del 1958, basato sull 'Edipo a Colono', la
Ballad o f thè Oedipus complex di Lawrence D urrell
del 1960, e una dram m a m usicale Oedipus der
Tyrann di Cari Orff, il cui libretto è costituito dalla
classica traduzione settecentesca di Sofocle a opera
di Hòlderlin. Non a Edipo, ma a un tem a edipico,
ossia all’Edipo medievale, trasm esso in particolare
grazie al poema, venato di leggenda, Gregorius di
H artm ann von Aue, sulla vita di papa Gregorio M a­
gno, Thom as M ann dedica una delle sue ultim e

113
GRANDI MITI GRECI

opere, il rom anzo breve L ’eletto, iniziato nel 1948 e


pubblicato a N ew York, e contem poraneam ente a
Francoforte, nel 1951. U na testim onianza di grande
rilievo culturale - m a forse di esito artistico in ­
certo - è l’Edipo arabo di Tawfiq al Hakim, Al ma-
lik Udip pubblicato nel 1949. U na rilettura del m ito
edipico in chiave di romanzo, anzi di nouveau ro­
meni, è Les gommes uscito nel 1953 per opera di
A lain Robbe-Grillet. Qui Edipo si chiama Dupont,
e, al term ine di un intreccio sfilacciato - secondo la
nuova tecnica rom anzesca - , viene ucciso, per le­
gittim a difesa, da un investigatore della polizia che
si rivela essere suo figlio: il m odello sofocleo è
esplicitamente richiam ato dall’autore - se non altro
attraverso l’enigm a che suona «quale anim ale è
parricida al m attino, incestuoso a m ezzogiorno,
cieco la sera?». Molti gli autori novecenteschi che si
sono avvicinati al mito edipico con sempre m aggio­
re libertà anche di am bientazione: citiam o qui il
portoghese Bernardo Santareno che nel 1960 pub­
blicò Antonio Marinheiro - o Edipo de Alfama - nel
quale Lisbona si sostituisce a Tebe come teatro del
dram m a, Judith R ossner che nel lavoro del 1980
Emmeline sceglie lo Stato del M aine o infine Haru-

114
EDIPO

ki M urakam i e il suo G iappone con Kafka sulla


spiaggia, dato alle stampe nel 2002. In Italia, vi si
cimentarono A lberto M oravia, che nel 1968 scrisse
Il dio Kurt, tragedia in due atti am bientata in un
lager nazista in Polonia, e Giovanni Testori che nel
1997 portò in scena un Edipus - terzo capitolo di
u na trilo g ia dram m atica, rielaborazione di tre
dram m i shakespeariani, accanto adAmbleto e Mac-
betto. Qui non vi è intreccio, ma un monologo scrit­
to in un fantastico linguaggio antico-padano; tutte
le parti sono alternativamente recitate da un unico
attore, lo Scarrozzante, che sviluppa nelle sue furi­
bonde e allucinatorie vociferazioni - una sorta di
flusso di coscienza - il tem a del legame colpevole
che unisce i tre personaggi alternativamente recita­
ti - Laio, Edipo, G iocasta - annodati nel loro intri­
co incestuoso. E il cinem a non è stato da meno, con
i due film sceneggiati da Gabriel Garcia M àrquez,
Tiempo de morir del 1965 ed Edipo Alcalde del
1998. E come non citare la possente rievocazione
del mito edipico espressa nel film di Pier Paolo Pa­
solini, YEdipo re, girato nel 1967; nella sua reinter­
pretazione il linguaggio cinem atografico diventa
istantaneam ente un moltiplicatore e un potenziato-

115
GRANDI MITI GRECI

re di significati. U n’opera, come lo stesso Pasolini


ebbe a dire, dichiaratam ente onirica, dichiarata-
mente freudiana, dichiaratam ente autobiografica:
l'autobiografism o è evidente dalla tram a, dove il
mito è incorniciato entro due inserti biografici - la
nascita di Edipo-Pasolini negli anni Venti all’inizio
della pellicola il suo vagabondaggio, nell’ultim a
sequenza, dove il regista compare in prim a perso­
na, sotto i portici di una città, cieco e intento a suo­
nare un flauto, lo stesso flauto che Tiresia aveva
suonato durante la parte m itica della storia. È una
Tebe preistorica, comunque atemporale - le scene
furono girate in una città medievale del M arocco - ,
un luogo completamente estraneo a una visione ar­
cheologica della Grecia antica: non templi o colon­
ne, m a casupole affastellate su una collina circon­
data dal deserto. L’opera lascia in ombra il parrici­
dio per focalizzarsi sul rapporto erotico tra Edipo e
Giocasta, fatto di una sensualità morbosa e violen­
ta, cui fa da contrappunto la visione di una Tebe
popolata di cadaveri in putrefazione: questo nesso
tra eros e thanatos, la semi-consapevolezza del rap­
porto incestuoso tra madre e figlio, conferisce alla
vicenda un tono completamente originale; è questa

116
EDIPO

un’opera nella quale, attraverso Edipo, l’autore par­


la di se stesso offrendo una confessione che utilizza
il linguaggio circolare del sogno e ricorre genial­
mente alla forza simbolica dell’im m agine cinem a­
tografica. Incernierata tra i due flash sul presente,
l’azione segue fedelmente, a volte sino alla tradu­
zione letterale, il testo sofocleo, m a ne dà una rilet­
tu ra intensam ente m oderna. Ricorderem o ancora,

Molti gli autori novecenteschi che si sono


avvicinati al mito edipico con sempre mag­
giore libertà anche di ambientazione.

nello stesso anno del film di Pasolini, un Oedipus


tyrann del dram m aturgo tedesco Heiner Miiller, il
vero erede - in tutti i sensi, dal momento che assun­
se anche la direzione del B erliner Ensem ble - di
Bertolt Brecht e della sua visione “epica” del teatro;
M iiller am a peraltro rivisitare in questa chiave che,
attraverso il mito, disvela la crudezza dei rapporti
di potere del mondo attuale, il teatro tragico greco,
con esiti spesso estrem am ente efficaci - basti pen­

117
GRANDI MITI GRECI

sare al suo Philoktet, anch’esso di ispirazione sofo­


clea. Anche il dram m aturgo e regista francese Jean
A nouilh portò sulla scena, nel 1978, un Oedipe ou
le Roi boiteux che, dopo molti anni dalYAntigone,
ripropone un’altra rivisitazione del mito tragico, in
una forma ormai sentita come limpidamente tradi­
zionale, una voce ormai isolata in mezzo alle pro­
vocazioni e al fragore del teatro d’avanguardia - e
di quello di pseudo-avanguardia. C oncludiam o
questa rassegna con un testo che per la sua origina­
lità e la sua forza si pone in modo degnissim o al
term ine di una nobile tradizione letteraria: La mor­
te della Pizia, breve racconto dello scritto re e
dram m aturgo svizzero Friedrich D urrenm att, pub­
blicato nel 1976 nella raccolta di racconti Mitma-
cher. Al centro dell’opera sta la decrepita sacerdo­
tessa di Delfi, stanca e annoiata di tutto, che pro­
nuncia dispettosam ente oracoli ingarbugliati, i
quali però finiscono per realizzarsi, attraverso un
pirotecnico gioco di equivoci e capovolgim enti,
m ettendo in crisi il senso d ’identità dei personaggi
e la loro visione del reale. La lettura di D urrenm att
è lontana da esplicite rem iniscenze freudiane;
nell’irrisione del m ito, nel gioco apparentem ente

118
EDIPO

assurdo - m a in realtà, geom etricam ente esatto -


degli intrecci, l’autore offre una visione cultural­
m ente fondata, si potrebbe dire antica, della forza
dell’oracolo: l’uomo brancola in un mondo di false
certezze, dove la sua lotta per padroneggiare la re­
altà finisce in uno scacco; le parole dell’oracolo m i­
steriosamente rim ettono ogni cosa al proprio posto,
in un mondo in cui la realtà è soltanto e comunque
un enigma. Si potrebbero elencare varie altre opere
di avanguardia, come Le nom d ’Oedipe. Chant du
corps interdit di Hélène Cixous per la m usica di
A ndré Boucourechliev, del 1978, o The Gospel at
Colonus di Lee Breuer del 1983, m a una cosa è cer­
ta: il X X I secolo porterà nuove letture di questo
racconto, la cui storia iniziò nella prim avera di un
anno a noi sconosciuto, quando il Partenone era da
poco stato edificato.

119
Antologia
Il pittore svizzero Johann Heinrich Fiissli nell’opera Oedipus
Cursing Hls Son, Polynices, coglie il momento drammatico in cui
Edipo maledice il figlio Polinice protagonista della lotta fratricida
con Eteocle. Un passaggio deli’Edipo a Cotono di Sofocle.
Un oracolo funesto

La storia di Edipo era nota anche a Omero, che ne par­


la fuggevolmente; in epoca arcaica circolavano poemi (ora
perduti) di cui abbiamo i titoli: Èdipodia e Tebaide, che par­
lavano della saga dei re di Tebe. Restano davvero pochi
frammenti: in uno Edipo che era ancora nella reggia (non
sappiamo se cieco o no) maledice i figli perché durante un
sacrificio gli hanno offerto per dileggio una zampa della vit­
tima, parte vile, e per offenderlo del cibo e del vino sul vas­
soio e nella coppa di Laio. Il mito di Edipo entrò nel teatro
tragico attraverso Eschilo che, nel 467 a.C. mise in scena
una trilogia suH’argomento in cui narrava le varie fasi del­
la storia: i drammi si chiamavano Laio, Edipo, Sette contro
Tebe accompagnati dal dramma satiresco Sfinge. Di essi
resta solo il terzo, che descrive la morte reciproca dei due
fratelli maledetti, Eteocle e Polinice. Questi racconti ci sono
noti attraverso i riassunti di antichi eruditi e mitografi; che
cosa fosse successo prima della nascita di Edipo appare
anche da alcuni versi dei Sette contro Tebe, che parlano del
suo concepimento contro la volontà dell’oracolo di Apollo.

Laio figlio di Labdaco regnava a Tebe e aveva


come sposa Giocasta figlia di Meneceo, ma non
osava accostarsi a lei e generare figlioli perché te­

123
GRANDI MITI GRECI

meva le maledizioni di Pelope. Dicono infatti che


Laio s’innamorò di Crisippo figlio di Pelope che
costui aveva avuto da un’altra donna e non dalla
moglie legittima Ippodamia; Laio, innamoratosi
di lui, lo rapì e gli fece violenza e fu il primo degli
uomini a praticare l’omosessualità, come tra gli
dèi fece Zeus avendo rapito Ganimede. Quando
Pelope lo venne a sapere, maledisse Laio e gli
augurò di essere ucciso da qualcuno della sua
discendenza. Poiché dunque Laio stava invec­
chiando senza figli, si recò all’oracolo di Apollo
per chiedere se avrebbe dovuto procreare e il dio
emise questo vaticinio: “Non seminare un solco
di figli contro il volere degli dèi”. Laio ricevette
questo responso e tornato a casa si guardò bene
dal condividere il letto con la moglie, ma un gior­
no in cui era ebbro, si unì alla sposa e concepì
Edipo. Per timore dell’oracolo che gli aveva pre­
annunciato la morte per mano del figlio, come Pe­
lope gli aveva augurato, quando Edipo nacque, gli
bucò i piedi con anelli d’oro e lo fece gettare sul
monte Citerone. Ma alcuni pastori lo trovarono,
lo raccolsero e lo diedero al re di Corinto, Pólibo.
Costui lo allevò e lo crebbe sino all’età adulta.*

coro : Racconto l’antica colpa dall’acuta pena,


estesa sino alla terza generazione,
allorché Laio,
dopo che per tre volte Apollo
gli disse con forza nell’oracolo pitico,

’ Argomento III, Eschilo, Sette contro Tebe, trad. G. Guidorizzi

124
EDIPO

l’ombelico del mondo,


che avrebbe salvato la città
se fosse morto senza prole,
tuttavia dominato dalla sua stoltezza
generò la sua morte,
Edipo parricida
che seminando il solco puro di sua madre
dalla quale era nato
portò una radice di sangue:
folle stoltezza aveva unito i due sposi.*

L’incrocio fatale

Come si arrivò a quel fatale momento? Certo, perché il de­


stino lo voleva. Ma ne\VEdipo re è Giocasta che involontaria­
mente mette in moto il processo di riconoscimento; uscita
dalla reggia per sedare il litigio tra Creonte ed Edipo, che
accusa il cognato di avere ordito una congiura contro di lui
insieme al profeta Tiresia, cerca di calmare il marito con pa­
role rassicuranti: «I profeti - dice - non sanno quello che
dicono perché a noi fu profetizzato che nostro figlio avrebbe
ucciso il padre. Ma Laio lo fece uccidere, esponendolo sul
monte Citerone, mentre lui stesso fu ucciso a un incrocio di
tre strade da un gruppo di predoni».

*Eschilo, Sette contro Tebe, vv. 742-757, trad. G. Guidorizzi

125
GRANDI MITI GRECI

È questa frase a mettere in agitazione Edipo, che incomin­


cia a rievocare la sua storia, anzi quella parte di storia che
conosce. Il resto lo scoprirà poco dopo.

edipo : Mio padre è Pólibo, di Corinto, e mia


madre Mèrope, una donna dorica. Tra tutti i citta­
dini ero reputato l’uomo più grande, prima che mi
capitasse questo caso: un caso strano, certamente,
ma certo non tanto grave perché me ne occupassi.
Durante un banchetto, un uomo strapieno di
vino, nell’ebrezza mi apostrofò dicendo che non
ero il vero figlio di mio padre. Io mi infuriai, ma
per quel giorno mi trattenni, anche se a stento; il
giorno dopo andai da mio padre e da mia madre
e li interrogai. Loro presero molto male l’insulto
che quell’uomo mi aveva lanciato, e io, vedendo­
li così arrabbiati provai sollievo, ma ugualmen­
te quelle parole mi assillavano, mi mordevano
dentro. Allora, senza dire niente a mio padre e a
mia madre, mi misi in viaggio per Pito, e Febo
mi rimandò indietro senza risposta per quello che
chiedevo, ma - povero me! - pronunciò un altro
responso, terribile e orrendo: sarebbe stato mio
destino unirmi a mia madre, e mostrare agli occhi
del mondo una razza inguardabile, e avrei ucciso
il padre che mi aveva generato.
Dopo queste parole, evitai la terra di Corinto e
fuggii altrove, misurando il mio cammino sulle
stelle, dove non sarebbe mai stato possibile vede­
re compiersi le infamie predette dall’oracolo.

126
EDIPO

Nei miei vagabondaggi, giungo in un luogo si­


mile a quello in cui tu dici che fu ucciso questo
re. Ti dirò il vero, donna: quando, nel cammino,
giunsi là dove la strada si biforca, ecco che mi
si fecero incontro un uomo, sopra un carro trai­
nato da cavalle, e davanti a lui un araldo, come
tu raccontavi. Il conduttore del carro e anche il
vecchio cercarono di cacciarmi via dalla strada,
a forza. E io, in preda all’ira, colpisco il con­
ducente che cercava di scacciarmi; veduto ciò il
vecchio, aspettando il momento in cui passavo
di fianco al carro, mi percosse in mezzo al capo
con la sferza a due punte. Ma la pagò cara. Su­
bito, colpito dal bastone brandito da questa mia
mano rotolò a terra, a capofitto, e poi uccisi an­
che tutti gli altri.
E se tra questo vecchio e Laio c’è qualche
relazione, chi sarà più infelice di me? Nessuno
degli stranieri o dei cittadini potrà parlarmi o ac­
cogliermi in casa, ma dovranno cacciarmi via. E
sono stato io, proprio io, che ho invocato queste
maledizioni su di me. E contamino il letto di un
uomo che ho ucciso con le mie mani. Non so­
no un criminale? Un uomo maledetto? E se vado
in esilio da qui, non potrò più rivedere i miei né
mettere piede in patria, dato che il destino impo­
ne che sposi mia madre e uccida mio padre, Póli-
bo che mi ha generato e mi ha cresciuto?
Se qualcuno mi guarda e dice: quest’uomo è
vittima di un demone maligno, non ha ragione?
Ah no, maestà sacra degli dèi, che io non veda

127
GRANDI M IT I GRECI

mai quel giorno, ma che sparisca dalla vista degli


uomini, prima che veda precipitare su di me una
macchia così grande.*

Un’ombra corrucciata

L'Edipo di Seneca si ispira in linea generale all 'Edipo re di


Sofocle ma con alcune notevoli varianti. La principale è che
qui manca l’oracolo di Delfi, che è sostituito da un rituale
negromantico, più affine ai riti divinatori romani, durante il
quale Creonte e Tiresia (insieme alla figlia Manto, anch’es-
sa profetessa e ritenuta fondatrice mitica di Mantova) per
ordine di Edipo si recano in un bosco sacro a consultare i
morti, fitto di alberi orridi e minacciosi, scavano una fossa
vicino a una mefitica palude, compiono sacrifici sgozzan­
dovi dentro animali e poi Tiresia, con formule terribili, evoca
i morti. Subito la terra si squarcia, si spalancano le dimore
infernali e tra gli altri morti compare l’ombra di Laio che pro­
nuncia terribili maledizioni. In Seneca l’ambiguità comunque
luminosa e solare deil’oracolo di Apollo è sostituita da una
scena horror, a tinte cupissime, che consente all’autore una
divagazione sul mondo infernale. Infine è proprio l’ombra di

* Sofocle, Edipo re, vv. 774-832, trad. G. Guidorizzi

128
EDIPO

Laio a parlare (la scena è narrata da Creonte): è uno spettro


implacabile e irato, che grida con voce tremenda una ma­
ledizione in cui invoca ogni male sul figlio. Come un capro
espiatorio, Edipo porterà via con sé ogni male da Tebe, la
peste e la rovina graveranno su di lui e la città potrà rifiorire.

Laio (inorridisco a parlarne) si sollevò orrendo


per il sangue che gli copriva tutti gli arti, con i
capelli arruffati e sporchi, e così disse con voce
rabbiosa:
«Famiglia insanguinata di Cadmo, che sempre
godi del sangue di parenti, scagliate i tirsi, fate a
pezzi i figli con mano folle - a Tebe il delitto più
grande è l’amore materno! Patria mia, tu vai in
rovina non per l’ira degli dèi, ma per i tuoi delitti.
Non ti danneggia l’Austro con il suo soffio
mortifero, non la terra con le sue esalazioni aride,
dopo che non è stata saziata dalla pioggia, ma un
re sporco di sangue che come compenso dell’or­
rendo delitto tiene lo scettro e il letto impuro del
padre, e ha figli inguardabili, ma lui stesso è padre
ancora peggiore che figlio, e ancora pesa sull’u­
tero nefasto, si è spinto alla sua stessa origine, e
ha generato figli maledetti nel corpo della madre:
persino le bestie lo evitano, ma lui ha generato
fratelli a se stesso! Malanno aggrovigliato, mostro
ambiguo più della sua Sfinge! Te, te, che porti in
mano uno scettro cruento, te io, padre invendica­
to, assalirò insieme alla tua città, e con me porterò

129
GRANDI MITI GRECI

l’Erinni che fu pronuba alle tue nozze, e le Furie


che agitano le fruste e sconvolgerò quella casa
incestuosa e la cancellerò con una guerra empia.
Cacciate via subito quel re empio, e a mano a
mano che lascerà quella terra col suo passo fu­
nesto, rifiorirà la primavera e spunterà il verde,
l’aura vitale darà venti purissimi e torneranno
a prosperare i boschi. Assieme a lui scompari­
ranno la Morte, la Peste, la Sciagura, la Pena, il
Contagio, il Dolore, la compagnia che si merita,
e sarà lui a voler fuggire di corsa dalla nostra ca­
sa, ma io gli metterò i ceppi ai piedi e lo tratter­
rò, striscerà non sapendo dove andare, tastando
il suo triste cammino con un bastone da vecchio.
Strappategli voi la terra: io, suo padre, gli viete­
rò il cielo».*

Ora tutto è chiaro

È il momento decisivo de\V Edipo re: gli indizi si accumula­


no, Edipo passa dall’angoscia alla speranza e poi ancora
all'angoscia. Tutto è affidato alla memoria di un vecchio
pastore, che viene portato a forza sulla scena. Così, nel
quarto episodio della tragedia, si trovano ancora insieme
gli uomini che furono protagonisti di quel giorno fatale: il

* L.A. Seneca, Edipo, vv. 626-658, trad. G. Guidorizzi

130
EDIPO

pastore che doveva uccidere Edipo ma che l’ha salvato per


pietà, quello che anziché crescerlo per sé e allevarlo come
aiutante l’ha consegnato al re di Corinto, e lui, il bambinello
che non aveva nemmeno un nome, e che ora con il nome
di Edipo regna su Tebe.
La scena è descritta in un faccia a faccia tra i tre, con
la tensione drammatica tipica del grande Sofocle; uno, il
Messaggero, parla ingenuamente sperando che questo
riconoscimento gli porti una ricompensa da un uomo che
è diventato un re; l’altro è reticente, terrorizzato, cerca di
divagare, ma è infine costretto a confessare; lui, Edipo, è
diretto come una lama verso la terribile verità: sa che cosa
l’aspetta, ma vuole conoscere, vuole sapere chi è, è pron­
to a stare davanti alle cose più terribili. Giocasta, nel frat­
tempo, è corsa in casa, dove si ucciderà, e non assiste allo
svelamento della verità di quella tragedia, di cui lei stessa
è complice, avendo consegnato di sua mano suo figlio a
quello che doveva diventare il suo carnefice. È un momen­
to terribile in cui ci si trova davanti all’orrenda verità, senza
veli, senza pietà: così infine Edipo scopre chi è, anche se
la scoperta lo rovina.

edipo : (al Messaggero) Vecchio, se devo con­


getturare anche se non Tho mai incontrato, credo
che sia quello il pastore che cerchiamo da tempo.

131
GRANDI MITI GRECI

È molto vecchio, e l’età si accorda esattamente, e


riconosco i miei servi che lo conducono, ma puoi
dirlo tu meglio di me: quel pastore lo hai già visto.
{Arriva un vecchio pastore, circondato dalle
guardie)
coro : Anch’io l’ho riconosciuto, era il pastore
più fidato di Laio, tra tutti gli altri.
edipo : Per primo chièdo a te, straniero di Corin­
to: lo conosci?
messaggero : È proprio lui.
edipo : {alpastore) Dico a te, vecchio: guardami
e rispondi a ciò che chiedo: eri un servo di Laio?
pastore: Sì , sono nato in casa, non mi ha com­
prato.
edipo: E di che cosa ti occupavi, qual era la tua vita?
pastore: Per gran parte della vita ho custodito
le greggi.
edipo : E dove andavi a pascolare?
pastore: Sul Citerone, o nei dintorni.
edipo : Quest’uomo lo conosci, l’hai mai incon­
trato?
pastore: A fare cosa? Che uomo dici?
edipo : Questo che è vicino a noi. L’hai mai in­
contrato?
pastore: Non so dire, non me lo ricordo.
messaggero: Non c’è da meravigliarsi, mio si­
gnore: non mi riconosce, ma gli farò ricordare.
Certo ricorderà che sul Citerone lui portava a pa­
scolare due greggi, e io solo una, e insieme a lui
ho passato tre anni, dalla primavera sino al sorge­
re di Arturo; d’inverno, io tornavo alle stalle con

132
EDIPO

le mie greggi, e lui a quelle di Laio.


pastore: È vero. È passato tanto tempo!
messaggero: Allora, ti ricordi che una volta mi
hai dato un bambino, perché lo allevassi come mio?
pastore: Come? E perché me lo chiedi?
messaggero: (indicando Edipo) Eccolo qui, ami­
co, lui era quel bambino.
pastore: Vai in malora! Stai zitto!
edipo : Non impedirgli di parlare, tu: sono le tue
parole che non impediranno di punirti.
pastore: In che cosa sbaglio, ottimo padrone?
edipo: Tu non parli del bambino di cui lui racconta.
pastore: Sono sciocchezze, le sue, parole a vanvera.
edipo: Se non parli con le buone, avrai da piangere.
pastore: N o, in nome degli dèi, sono vecchio
non farmi del male.
edipo : Presto, torcetegli le braccia.
pastore: Povero me, ma per che cosa? Che cosa
vuoi sapere?
edipo : Il bambino di cui parla, glieThai dato?
pastore: GlieTho dato. Fossi morto allora!
edipo : Morirai ora, se non parli.
pastore: Morirò molto di più, se parlo.
edipo: A quanto pare, quest’uomo tira per le lunghe.
pastore: N o, no te l’ho già detto: gliel’ho dato.
edipo : E dove l’hai preso? Veniva dalla casa o
era di altri?
pastore: Mio non era, no; lo ebbi da altri.
edipo: Da qualche cittadino? Da che casa veniva?
pastore: In nome degli dèi, signore, non chie­
dere altro.

133
GRANDI MITI GRECI

edipo :Sei morto, se me lo fai ripetere.


pastore: Era un bambino della casa di Laio.
edipo : Da un servo? O era nato dal suo sangue?
pastore: Ahi, che cosa terribile da dire!
edipo : E per me da ascoltare. Ma bisogna.
pastore: Si diceva che fosse suo figlio. Però te
lo può dire la tua sposa, che ora è nella reggia. Lei
può dirti meglio come andarono le cose.
edipo : Fu lei a dartelo?
pastore: Sì, mio signore.
edipo : E perché?
pastore: Perché lo uccidessi.
edipo : Sua madre, la sciagurata?
pastore: C’era un oracolo funesto.
edipo : Quale?
pastore: Diceva che avrebbe ucciso i genitori.
edipo: E perché l’hai consegnato a questo vecchio?
pastore: Ebbi compassione, padrone. Pensavo
che l’avrebbe portato in un’altra terra, da dove
veniva. Ma lui ti ha salvato destinandoti ai mali
più terribili: perché se tu sei quel bambino, come
dice, sappi che sei nato per soffrire.
edipo : Ah, tutto è chiaro. Luce ti vedo per l’ul­
tima volta! Ecco chi sono: sono nato da chi non
dovevo, vivo con chi non dovrei stare, ho ucciso
chi non dovevo uccidere!
0Corre dentro la reggia)*

* Sofocle, Edipo re, vv. 1100-1184, trad. G. Guidorizzi

134
EDIPO

Uscire dalla luce

L’accecamento di Edipo, nella tragedia di Sofocle, è rac­


contato da un messaggero. Sempre così avviene nella
tragedia greca: gli episodi di violenza e le morti non av­
vengono sulla scena ma, per una convenzione teatrale
quasi sempre osservata, devono essere narrati da uno
spettatore oculare. Questo si spiega da una parte per
motivi rituali (anche se simulato, lo spargimento di sangue
contaminerebbe lo spazio del teatro, che è comunque
consacrato a Dioniso) ma soprattutto per efficacia poeti­
ca: il teatro greco è un teatro della parola, più che dell’a­
zione, e la parola, il racconto anche macabro in questo
caso, è certo più forte di un semplice atto. Nei racconti
dei messaggeri il poeta tragico mette il meglio della sua
arte: sono storie emozionanti, patetiche, in cui la parola
conduce il pubblico all’emozione e alla pietà. Nel caso
di Edipo, la duplice tragedia, e l’accecamento di Edipo,
avviene nella stessa stanza in cui Edipo era nato tanti anni
prima - cosa anche questa tremenda poco prima un
pastore aveva appena confermato la terribile verità: era
proprio Edipo il bambinello che Laio aveva fatto esporre
sul monte. Giocasta comprende tutto un attimo prima ed
esce disperata dalla scena; Edipo si fa raccontare la cosa

135
GRANDI MITI GRECI

e la segue. Ed ecco che cosa accade ai due sventurati.


Subito dopo Edipo si mostrerà al pubblico con le orbite
vuote e sanguinanti.

messaggero: Basta un attimo per dire e sapere


tutto: la splendida Giocasta è morta.
coro : Sventurata! E com’è morta?
messaggero : Con le sue mani. La cosa più tre­
menda non la puoi vedere. Ma per quanto sta
nella mia memoria saprai le sciagure di quella
sventurata.
Appena Giocasta entrò nell’atrio, fuori di sé, si
precipitò alle stanze nuziali, strappandosi i capelli
con tutt’e due le mani. Come fu oltre la porta si
mise a urlare Laio, Laio che ormai da tempo non
viveva più e ricordava quell’antico amplesso per
cui era morto e l’aveva lasciata a generare insieme
al figlio una discendenza contro natura.
Riempiva di gemiti il letto dove nella sua sven­
tura aveva concepito la sua doppia prole, figli
dal figlio e sposo dallo sposo. Come sia morta,
poi, non lo saprei dire: intanto, gridando Edipo si
precipitava in casa. Lasciammo allora il dolore di
lei ma fissammo lui che si aggirava e chiedeva di
dargli una spada e cercava lei, moglie non moglie,
il ventre materno che aveva germogliato due rac­
colti, lui stesso e i suoi figli.
Un dio forse governava la sua pazzia; certo,
nessuno di noi lì attorno. Gridando in modo spa­
ventoso, come se qualcuno gli spiegasse la stra­

136
E D IP O

da, si avventò sulla porta della camera da letto, la


strappò dai cardini, e irruppe dentro.
Lì vedemmo la donna: si era impiccata, stretta
fra un intrico di lacci. Scorgendola, l’infelice gri­
da come un animale disperato e allenta il cappio
sospeso. Appena la sventurata fu a terra, accad­
de la cosa più terribile. Le strappò dalla veste le
fibbie d’oro di cui si era adomata, le alzò, se le
ficcò negli occhi, gridando che mai più avrebbero
visto i mali che aveva sofferto e compiuto, ma
nelle tenebre per ora sempre avrebbero cercato
chi non doveva vedere e non avrebbero ricono­
sciuto chi non doveva riconoscere. E con queste
maledizioni si trafisse più e più volte. Dai bulbi
sprizzava sangue sulle guance, non poche gocce
rosse, ma una pioggia scura, una grandine conti­
nua di sangue.*

Morte di Edipo

Raccogliendo una leggenda locale, Sofocle fa morire il


“suo” Edipo a Colono, un sobborgo di Atene dove egli
stesso era nato. Questo avviene ne\\'Edipo a C olono, tra­
gedia che fu rappresentata postuma, in essa, Edipo è un
vecchio cieco, un mendicante assistito dalla figlia Anti­

* Sofocle, Edipo re, vv. 1234-1280, trad. G. Guìdorizzi

137
GRANDI MITI GRECI

gone che non l’ha abbandonato; anche Sofocle però era


vecchio, quasi novantenne, e morì prima di finire la trage­
dia. C’è quindi qualcosa di commovente e di autobiogra­
fico in quello che scrive sulla morte di Edipo, sapendo lui
stesso di essere all’estremo tramonto della sua esistenza:
e la morte di Edipo è misteriosa, e avviene senza sofferen­
ze e dolore. A Colono esisteva una “tomba di Edipo” sul­
la quale gli abitanti portavano offerte. Il che significa che
Edipo era diventato un eroe, vale a dire un uomo diviniz­
zato che continua in qualche modo a esistere anche dopo
la morte e a fare sentire la sua misteriosa presenza nel
luogo in cui è stato sepolto. Edipo muore abbracciando
le figlie Antigone e Ismene e, per un attimo, l’uomo, male­
detto e segnato dal destino diventa terribilmente umano;
poi si riscuote e sparisce nel nulla, condotto da un dio:
questo modo di svanire agli occhi degli uomini (a p h a n i-
sm òs = scomparsa) era tipico dei racconti eroici, nei quali
si diceva che un essere scelto dagli dèi passava dalla vita
terrestre a un altro tipo di vita, invisibile.
Non per la bontà o i meriti: un eroe greco è amorale, nel
senso che bene e male coesistono potenti nella sua ani­
ma. Diventare un eroe, essere ricordato e ricevere onori
dai vivi era la forma di sopravvivenza dopo la morte che
la religione greca riservava ai suoi eroi.

138
EDIPO

messaggero: Zeus sotterraneo tuonò, e le due


figlie rabbrividirono ascoltandolo. Caddero alle
ginocchia del padre e piangevano e si percotevano
il petto tra lunghi lamenti. Lui, udendo le loro tristi
grida, le toccò con le mani e disse: «Figlie, oggi
vostro padre muore. Per me tutto è finito, non avre­
te più da penare occupandovi di me. Lo so, figlie,
è stato duro, ma una sola parola ripaga le vostre
fatiche: al mondo non esiste chi vi ama più di me,
ma senza me dovrete passare la vita che vi resta».
Così abbracciati piangevano a dirotto tutti e
tre. Quando finirono i lamenti e le grida cessaro­
no, si fece silenzio, ma improvvisa risuonò una
voce misteriosa, che fece drizzare a tutti i capel­
li per il terrore. Molte volte un dio lo chiamò:
«Edipo, Edipo, cosa aspettiamo ad andare, per­
ché indugi?» Appena sentì di essere chiamato da
un dio, disse a Teseo, il nostro re, di avvicinarsi,
e quando fu vicino disse: «Cara testa, porgi la
mano alle mie figlie, segno dell’antica promessa,
e voi a lui: prometti che non le abbandonerai, ma
anzi, per quanto sta in te, le aiuterai sempre».
E quello che è, un uomo nobile, senza mostra­
re cenno di timore, giurò di fare questo per il suo
ospite.
Appena ebbe promesso, subito Edipo stese sulle
figlie le mani brancolanti e disse: «Figlie, bisogna
che mostriate la vostra nobiltà e vi allontaniate da
questi luoghi. Non dovete vedere e sentire ciò che
non si deve. Andate subito: solo il re Teseo resti a
vedere ciò che accade».

139
GRANDI MITI GRECI

Tutti noi presenti lo sentimmo dire questo, e ce


ne andammo piangendo a dirotto insieme alle ra­
gazze. Poco dopo essercene andati ci voltammo e
vedemmo che quell’uomo era sparito, mentre il no­
stro re si copriva gli occhi con le mani, come se fos­
se apparso qualcosa di terribile, di cui non si poteva
sostenere la vista. Poco dopo lo vediamo adorare,
con una duplice preghiera, la Terra e il divino Olim­
po. Ma di preciso, in che modo Edipo sia morto non
lo potrebbe dire nessuno, tranne Edipo in persona.
Non lo rapì il lampo fiammeggiante di un fulmine
scagliato da un dio, né una bufera marina sorta pro­
prio in quel momento, ma fu forse un messaggero
degli dèi, o si è aperto nella terra, benevolo, l’abisso
dei morti, e non ha provato sofferenza.
QuelTuomo se ne è andato senza grida di dolo­
re, soffrendo per una malattia, ma in modo mera­
viglioso, lui solo tra tutti.
E se vi sembro pazzo, non accetterò questa opi­
nione.*

<S

Due poesie per Edipo

Che cosa stava pensando Edipo durante il suo cammino


solitario, quando in lontananza vide comparire il carro di
Laio? Nè l’uno né l’altro immaginavano che proprio lì, in po­

* Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1606-1666, trad. G. Guidorizzi

140
EDI PO

chi istanti, si sarebbe compiuto ii suo destino. E prima di


quel momento, la Pizia: una persona che parla, ma non è
padrona delle sue parole, e davanti a lei sfila una folla di per­
sone, ciascuna col suo destino, e tutto è già scritto. Eppure,
su tutta questa folla anonima, Apollo - cioè, il destino - ha
pronta una risposta, per piccolo o grande che il destino sia.

[La strada di Edipo]


Non s’inquietò Edipo quando vide
lontano nella polvere tebana
un corteo breve di uomini
ed un carro trainato da cavalle nere
e sopra un uomo rilucente d’oro
che spiccava su tutti.
Troppo gli consumava l’anima
il responso terribile di Apollo
un terrore nero gli rubava il sonno
ogni pensiero terminava lì,
a Mèrope e Pólibo,
all’impossibile destino
che qualche dio gli aveva preparato.
Intanto passo dopo passo
si stava allontanando
dai vecchi genitori di Corinto.
Che c’entrava con lui l’uomo del carro?
Presto la strada
sarebbe ritornata bianca e vuota.
Fuggire, togliere dal cuore la paura
rendere vane le minacce del dio

141
GRANDI MITI GRECI

ecco l’unico rovello.


Così Edipo, e intanto
passo dopo passo
era quasi giunto al trivio.

[La Pizia]
Quanti destini s’incrociano in Apollo!
La Pizia è semicieca, sfatta,
immemore di sé,
ima vita sfilacciata da infiniti
segreti riversati in lei,
una folla sconosciuta che disvela
uno squarcio di se stessa
e alla vecchia chiede
d’allargare lo spiraglio
gettandovi il suo sguardo
spento ma veggente.
Un pulviscolo di gente
soffiata via dal tempo.
Ma non è osceno
chiedere questo al dio?
Pensare che gli Olimpi
abbiano tanta degnazione
da occuparsi di te,
ombra del nulla?
Eppure, bisogna pur sentirsi un centro
sperando che per un attimo soltanto
Apollo su te posi lo sguardo,
prima del buio.*

' G. Guidorizzi, Poesie

142
EDIPO

Edipo nel folklore

Le ricerche filologiche hanno mostrato che la storia dell’uo­


mo che uccide involontariamente il padre e sposa la madre
è diffusa in tutto il mondo: compare come fiaba, come poe­
sia, come racconto, come dramma. Le varianti sono molte e
naturalmente nessuno di questi racconti può essere messo
neppure lontanamente a confronto con l’arte di Sofocle, e
con la complessità dei temi sviluppati ne\\’Edipo re. L’an­
tropologo russo Vladimir Propp (1895-1970) ha studiato le
varianti medievali del tema di Edipo: racconti che circolava­
no oralmente e che furono poi raccolti in tempi recenti; egli
identifica quattro varianti principali: modello Andrea Cretese,
Giuda (trattato, come abbiamo visto, anche nella Legenda
Aurea di Jacopo da Varagine), Gregorio (che ispirò L’Eletto,
uno degli ultimi romanzi di Thomas Mann) e sant’Albano.
Questo pullulare di racconti in ogni parte del mondo (esi­
stono anche varianti mongole e bantù), apre una serie di
problemi, a cui è difficile rispondere. Evidentemente il mito
di Edipo ha radici profonde nella storia del pensiero uma­
no. Il mito raccontato da Omero e poi da Sofocle certa­
mente risale a forme di cultura antichissime; sulla sua ori­

143
GRANDI MITI GRECI

gine possiamo avanzare soltanto delle ipotesi: il mito parla


di un rito di successione (il giovane re che uccide il vecchio
e ne eredita la sposa)? Parla delle origini della famiglia e del
passaggio da incesto a esogamia? Oppure altro ancora?
Attraversando i secoli e i millenni la storia assume forme
differenti ma sostanzialmente rimane lo stesso.

[Il carattere folclorico di Edipo]


Il compito, che ci si pone in questo studio, non
abbraccia tutta la problematica connessa a Edipo.
Per far questo sarebbe necessaria una ingente ri­
cerca. Il problema qui è più modesto: esaminare
in questo intreccio gli scontri delle contraddizioni
storiche che vi sono riflessi.
Su Edipo esiste ormai una letteratura immensa.
Tuttavia, questi studi non possono soddisfarci. Fi­
nora non esiste un compendio del materiale esisten­
te, e tutte le ricerche si svolgono con un materiale
limitato e non folclorico-comparato. In secondo
luogo, tali studi non possono soddisfarci neppure
dal punto di vista del metodo e della problemati­
ca loro. Se trascuriamo i lavori freudiani e quelli
condotti nello spirito della scuola mitologica, la
principale questione dibattuta è quella di sapere se
il dato intreccio è mutuato dai tempi antichi oppure
no. Ma questa questione non tocca la sostanza delle
cose. Anche se il prestito (o la sua assenza) fosse
accettato in modo definitivo, il problema dell’ori-
gine di questo intreccio non sarebbe così risolto.

144
EDIPO

Per rispondere alla questione da noi posta non


basta il materiale di un paio di popoli, ma si deve
addurre tutto il materiale esistente. Nel folclore
Tintreccio di Edipo è noto sotto forma di fiaba,
leggenda, canto epico; canto lirico e libro popo­
lare. Inoltre, nella letteratura a carattere semi-fol­
clorico esso è noto nella forma di tragedia, dram­
ma, poema, novella. È noto presso tutti i popoli
europei, nonché in Africa (zulù) e tra i mongoli.
L’elenco dei materiali è così grande che non può
rientrare nell’ambito di un breve articolo: la ras­
segna del materiale potrebbe costituire l’oggetto
di un’apposita ricerca storico-letteraria. I repertori
degli intrecci fiabeschi conoscono due tipi (931 e
933) del nostro intreccio. In realtà se ne possono
fissare quattro tipi, nei quali si sistema quasi tutto
il materiale europeo. I tipi sono i seguenti.
Andrea di Creta incomincia sempre con una pro­
fezia. Il protagonista è buttato in mare, viene edu­
cato in un monastero o da navigatori, da pescatori,
ecc.; viene a sapere di essere un trovatello e abban­
dona il tutore. Si offre come guardiano del giardino
della casa dei suoi genitori, lì uccide il padre venu­
to a controllarlo e ne sposa la vedova. Conosciu­
ta la verità, si sottopone a una penitenza: va sotto
terra (si seppellisce in un pozzo, ecc.). Quando si
ricordano di lui, è già morto, ma è un santo oppure
muore subito come santo, portando a termine il suo
celebre canone, il canone di Andrea di Creta.
Questo è il tipo d’intreccio più completo e il più
vicino a Edipo, con una sola eccezione: il perso­

145
GRANDI MITI GRECI

naggio non sale al trono. Questo tipo è noto sol­


tanto ai russi, agli ucraini e ai bielorussi, nonché ai
serbi, in una forma alquanto abbreviata e diversa.
Il tipo di Giuda dapprincipio si svolge come
quello di Andrea di Creta. In casa del tutore uc­
cide il fratellastro e fugge. A differenza di Andrea
di Creta a volte egli è educato in un ambiente re­
gale perché a trovarlo è una regina. In patria egli
è assunto dal governatore della città, di solito da
Pilato. Per accontentarlo ruba mele nel giardino
del padre. Colto in flagrante, uccide il padre. Ne
sposa la vedova e, appresa la verità, va tra gli apo­
stoli di Cristo. Questo tipo è molto vicino a quello
di Andrea di Creta, e se ne distingue solo per i
particolari, la fine e la trattazione del personaggio
come uno scellerato.
Il tipo di Gregorio comincia col matrimonio in­
cestuoso di fratello e sorella. Dopo la nascita e
l’allontanamento del bambino il padre va a Geru­
salemme a pregare per i propri peccati e là muore.
Il luogo dell’educazione del protagonista è molto
variabile. Quando sa della sua origine, egli va alla
ricerca dei genitori. Gregorio, come regola, spo­
sa ima regina, che egli spesso libera dai suoi per­
secutori. La morte tempestiva del padre elimina
dall’intreccio il parricidio. Gregorio sale al trono
(ma si ha anche una trattazione borghese di questo
intreccio). Conosciuta la verità, egli, a differenza
di Andrea di Creta, non va sotto terra ma si chiude
in una grotta su un’isola. Lo trovano, ed egli di­
venta papa: La gloria della sua santità riempie il

146
EDIPO

mondo e giunge anche alla madre. Essa va da lui


a confessarsi e si riconoscono a vicenda. Questo
tipo è caratteristico per l’Occidente cattolico e per
la Polonia. È noto anche tra i cechi e, in tradizione
manoscritta, tra i russi.
Il tipo di Albano comincia col matrimonio in­
cestuoso di un re con la figlia. Il bambino viene
portato in una terra straniera e abbandonato sul
margine di una strada. I mendicanti che lo trovano
10 portano al re del Paese. Qui egli viene educato.
11 re lo fa passare per proprio figlio, gli dà in mo­
glie la figlia del re vicino e muore. La figlia del re
non è altri che la madre del bambino. Ma poiché
egli è nato dal matrimonio incestuoso di padre e
figlia, sua moglie gli è contemporaneamente ma­
dre e sorella per via di padre, mentre suo padre gli
è contemporaneamente nonno in quanto padre di
sua madre. Quando la verità si scopre, la moglie
chiama il proprio padre e tutti e tre se ne vanno in
un deserto. Ma il diavolo tenta di nuovo il vecchio
padre. Egli fa di nuovo l’amore con la figlia, il
giovane figlio li coglie in fallo e uccide entrambi
i genitori e poi va nel deserto. In seguito egli di­
venta santo, e il suo cadavere fa miracoli. Questo
tipo è piuttosto raro e prevale nella tradizione lati­
na manoscritta e non in quella folclorica. Ma suoi
echi si trovano nelle Mille e una notte."

<® 0

* V. Propp, Edipo alla luce del folclore, Einaudi, Torino 1975

147
GRANDI MITI GRECI

L’Edipo di Freud

Fondando la psicanalisi, Freud scelse l’Edipo del dramma


di Sofocle come esempio di un altro tipo di dramma. «Il re
Edipo - scrive - che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua
madre Giocasta è soltanto l’appagamento di un desiderio
della nostra infanzia». La storia del re di Tebe, che Freud sce­
glie come emblema dedicandogli alcune delle pagine più fa­
mose óe\\'Interpretazione dei sogni, si può dunque ben con­
siderare il vero e proprio mito dì fondazione della psicanalisi.
Anche se la nozione del “complesso di Edipo” venne preci­
sata successivamente nel pensiero di Freud - non prima del
1910 -, il dialogo tra lui e il “suo” Edipo iniziò assai prima e
andò a costituire un nucleo di riflessione decisivo per il na­
scente pensiero psicanalitico.
Edipo, i sogni d ’incesto e il segreto impulso verso l’amore
materno hanno già uno spazio rilevante nell Interpretazione
dei so g n i , pubblicata nel 1900: è dalla lettura di un passo
deiì'Edìpo re, cioè il sogno incestuoso raccontato da Gioca­
sta, e dalla constatazione che poi questo sogno si traduce
nella realtà psicologica dell’individuo, che Freud ragiona sul
rapporto tra conscio e inconscio.
Inoltre, queste pagine sono importanti anche per un al­
tro motivo: inaugurano l’uso psicanalitico della mitologia

148
EDIPO

greca. Da allora in poi, il nucleo primordiale dei miti greci,


con il loro impasto di energie elementari, la morte, la ses­
sualità, la violenza e simili, con la loro straordinaria forza
simbolica, diventa importante elemento di riflessione per
chi analizza le forze profonde sepolte nell'Inconscio della
psiche umana.

Secondo le mie ormai numerose esperienze, i


genitori hanno la parte principale nella vita psi­
chica infantile di tutti i futuri psiconevrotici:
amore per l’uno, odio per l’altro dei genitori,
fanno parte di quella riserva inalienabile di im­
pulsi psichici che si forma in quel periodo ed è
cosi significativa per la semeiologia della futura
nevrosi. Non credo però che gli psiconevrotici
si differenzino molto a questo riguardo da altri
uomini che rimangono normali, nel senso che
riescano a creare qualche cosa di assolutamente
nuovo e loro peculiare. È molto più probabile,
ed è comprovato da osservazioni occasionali in
bambini normali, che anche in questi sentimenti
di amore e di odio verso i genitori essi ci facciano
distinguere più chiaramente, per semplice ingran­
dimento, ciò che accade in modo meno chiaro e
meno intenso nella psiche della maggior parte dei
bambini. A sostegno di questa conoscenza, l’an­
tichità ci ha tramandato un materiale leggenda­
rio, la cui incisività profonda e universale riesce
comprensibile soltanto ammettendo un’analoga

149
GRANDI MITI GRECI

validità generale delle premesse anzidette, tratte


dalla psicologia infantile.
Intendo la leggenda del re Edipo e l’omonimo
dramma di Sofocle. Edipo, figlio di Laio re di Tebe
e di Giocasta, viene abbandonato lattante perché
un oracolo ha predetto al padre che il figlio che
sta per nascergli sarà il suo assassino. Edipo vie­
ne salvato e cresce come figlio di re in una corte
straniera, sinché, incerto della propria origine, in­
terroga egli stesso l’oracolo e ne ottiene il consi­
glio di star lontano dalla patria, perché facendovi
ritorno sarebbe costretto a divenire l’assassino di
suo padre e lo sposo di sua madre. Sulla strada che
lo porta lontano dalla presunta patria, incontra il
re Laio e lo uccide nel corso di una repentina lite.
Giunge poi davanti a Tebe, dove risolve gli enigmi
della Sfinge che sbarra la via; per ringraziamento i
tebani lo eleggono re e gli offrono in dono la ma­
no di Giocasta. Per lungo tempo regna pacifico e
onorato, genera con la madre a lui sconosciuta due
figli e due figlie, finché scoppia una pestilenza che
induce ancora una volta i tebani a consultare l’ora­
colo. Qui comincia la tragedia di Sofocle. I mes­
si portano il responso che la pestilenza avrà fine
quando l’uccisore di Laio sarà espulso dal paese.
Ma dove si trova costui?

«E dove
Potrà scoprirsi 1’indistinta traccia
Che testimoni della colpa antica?»

150
EDIPO

Ora, l’azione della tragedia non consiste in altro


che nella rivelazione gradualmente approfondita
e ritardata ad arte - paragonabile al lavoro di una
psicanalisi - che Edipo stesso è l’assassino di La-
io, ma anche il figlio dell’assassinato e di Gioca-
sta. Travolto dalla mostruosità dei fatti commessi
inconsapevolmente, Edipo si acceca e abbandona
la patria. La sentenza dell’oracolo è compiuta.
Edipo re è una cosiddetta tragedia del fato; il
suo effetto tragico pare basato sul contrasto fra il
supremo volere degli dèi e i vani sforzi dell’uomo
minacciato dalla sciagura; profondamente colpito,
lo spettatore dovrebbe apprendere dalla tragedia la
rassegnazione al volere della divinità, la cognizio­
ne della propria impotenza. E logico, quindi, che
alcuni poeti moderni abbiano cercato di ottenere
un effetto tragico analogo, intessendo lo stesso
contrasto in una favola da loro inventata. Ma gli
spettatori hanno assistito indifferenti all’attuarsi,
contro ogni resistenza, di una maledizione o del
decreto di un oracolo in uomini incolpevoli: le suc­
cessive tragedie del fato sono rimaste inefficaci.
Se VEdipo re riesce a scuotere l’uomo moderno
non meno dei Greci suoi contemporanei, la spiega­
zione può trovarsi soltanto nel fatto che l’effetto del­
la tragedia greca non si basa sul contrasto fra destino
e volontà umana, bensì va ricercato nella peculiarità
del materiale in cui tale contrasto si presenta. Deve
esistere nel nostro intimo una voce pronta a ricono­
scere la forza coattiva del destino di Edipo, mentre
siamo in grado di rifiutare come puramente arbitrarie

151
GRANDI MITI GRECI

le costruzioni che figurano in L ’àvola [di Grillparzer


(1817)] o in altre tragedie fataliste. E realmente, nel­
la storia del re Edipo è contenuto un momento deter­
minante di questo tipo. Il suo destino ci commuove
soltanto perché sarebbe potuto diventare anche il
nostro, perché prima della nostra nascita l’oracolo
ha decretato la medesima maledizione per noi e per
lui. Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il
primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il
primo desiderio di violenza contro il padre: i nostri
sogni ce ne danno la convinzione! Il re Edipo, che ha
ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta,
è soltanto l’appagamento di un desiderio della no­
stra infanzia. Ma, più fortunati di lui, siamo riusciti
in seguito - nella misura in cui non siamo diventati
psiconevrotici - a staccare i nostri impulsi sessuali
da nostra madre, a dimenticare la nostra gelosia nei
confronti di nostro padre. Davanti alla persona in cui
si è adempiuto quel desiderio primordiale dell’infan­
zia, indietreggiamo inorriditi, con tutta la forza della
rimozione che questi desideri hanno subito da allora
nel nostro intimo. Portando alla luce nella sua analisi
la colpa di Edipo, il poeta ci costringe a prendere co­
noscenza del nostro intimo, nel quale quegli impulsi,
anche se repressi, sono pur sempre presenti. La con­
trapposizione con cui il coro ci lascia:

... mirate
Lui che sapeva gli enimmi famosi, il più
grande tra gli uomini,
Edipo, a cui nessuno nel tempofelice si volse

152
EDIPO

Senza un invido sguardo... verso che gorghi


d ’orrore
E di dolore discenda...

esprime un monito che tocca noi stessi e il no­


stro orgoglio, noi che dagli anni deH’infanzia siamo
diventati ai nostri occhi così saggi e potenti. Come
Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri, offensivi
per la morale, che ci sono stati imposti dalla natura
e dopo la loro rivelazione noi tutti vorremmo disto­
gliere lo sguardo dalle scene della nostra infanzia.
Che la leggenda di Edipo sia tratta da un pri­
mordiale materiale onirico, che ha per contenuto
il penoso turbamento suscitato dal rapporto con i
genitori a causa dei primi impulsi sessuali, si tro­
va indicato in modo non equivoco nel testo della
tragedia sofoclea. Giocasta consola Edipo, non
ancora consapevole, ma reso tuttavia inquieto dal
ricordo dei responsi dell’oracolo, accennando a
un sogno comune sì a molti uomini ma, secondo
lei, senza significato alcuno:

Quanti, prima di te, nei sogni loro


Giacquero con la madre! Ma la vita
Per chi vede in quest ’ombre il nulla vano
E solamente lievissimo peso.

Come allora, anche oggi il sogno di avere rap­


porti sessuali con la madre è frequente in molti
uomini, che lo raccontano indignati e sorpresi.
Esso è, come si può comprendere, la chiave del­

153
GRANDI MITI GRECI

la tragedia e il compimento del sogno della morte


del padre. La favola di Edipo è la reazione della
fantasia a questi due sogni tipici e, nello stesso
modo in cui i sogni di adulti sono vissuti con sen­
timenti di rifiuto così la leggenda deve accogliere
nel suo contenuto anche orrore e autopùnizione.
La sua ulteriore configurazione deriva ancora una
volta da un’erronea elaborazione secondaria del­
la materia, che cerca di asservire quest’ultima a
un intento teologizzante. Il tentativo di conciliare
l’onnipotenza divina con la responsabilità umana
è destinato naturalmente a fallire, sia in questo sia
in qualsiasi altro materiale.'
<©■»

I due ciechi

I Dialoghi con Leucò, pubblicati nel 1946, sono l’opera che


Cesare Pavese ebbe più cara e forse quella a cui oggi resta
maggiormente legata la sua fama di scrittore.
I dialoghi e le situazioni sono immaginarie, ma i personaggi
sono ricavati dal mito greco e fatti parlare tra loro in uno
stile potente, a volte realistico a volte immaginifico; sono
in realtà dei dialoghi interiori, in cui Pavese dà voce ai suoi
dilemmi e alla sua visione del mondo, e interroga il suo
inconscio alla ricerca del nucleo di domande che sempre

* S. Freud, L'interpretazione dei sogni, trad. E. Facchinelli, Bollati Boringhieri, Torino 1993

154
EDIPO

lo tormentarono: l’infanzia, l’amore materno, il legame con


la sua civiltà contadina, la violenza, il sesso, la morte: in
sostanza, con l’enigma di vivere. Per lui, come ha scritto, il
mito è «un vivaio di simboli», un «midollo di realtà» e quindi
10 strumento adatto per penetrare nel proprio nucleo di
essere umano, al di fuori del tempo. Nei D ialoghi filtrano le
sue letture non solo classiche, ma anche antropologiche
e psicanalitiche (Frazer e Freud in particolare), in un'epo­
ca, subito dopo la guerra, in cui antropologia e psicanalisi
erano quasi sconosciute alla cultura italiana. Nel dialogo
I due cie ch i (il secondo della raccolta) s’incontrano Tire-
sia ed Edipo. Le parole d'introduzione di Pavese: «Non
c’è vicenda in Tebe in cui manchi il cieco indovino Tiresia.
Poco dopo questo colloquio cominciarono le sventure di
Edipo - vale a dire, gli si aprirono gli occhi e lui stesso se
11crepò dall’orrore».

(Parlano Edipo e Tiresia)


edipo : Vecchio Tiresia, devo credere a quel che
si dice qui in Tebe, che ti hanno accecato gli dèi
per loro invidia?
tiresia : Se è vero che tutto ci viene da loro, de­
vi crederci.
edipo : Tu che dici?
tiresia : Che degli dèi si parla troppo. Esser cie­
co non è una disgrazia diversa da esser vivo. Ho

155
GRANDI MITI GRECI

sempre visto le sventure toccare a suo tempo do­


ve dovevano toccare.
edipo : Ma allora gli dèi che ci fanno?
tiresia : Il mondo è più vecchio di loro. Già ri­
empiva lo spazio e sanguinava, godevi, era l’uni­
co dio - quando il tempo non era ancor nato. Le
cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose -
adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illu­
sione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio,
accostare o scostare le cose. Non toccarle, non
mutarle. Sono venuti troppo tardi.
edipo : Proprio tu, sacerdote, dici questo?
tiresia : Se non sapessi almeno questo, non
sarei sacerdote. Prendi un ragazzo che si bagna
nell’Asopo. È un mattino d’estate. Il ragazzo
esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa.
Gli prende male e annega. Che cosa c’entrano gli
dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure
il piacere goduto? Né l’uno né l’altro. È accaduto
qualcosa - che non è bene né male, qualcosa che
non ha nome - gli daranno poi un nome gli dèi.
. edipo: E dar il nome, spiegare le cose, ti par po­
co, Tiresia?
tiresia : Tu sei giovane, Edipo, e come gli dèi
che sono giovani rischiari tu stesso le cose e le
chiami. Non sai ancora che sotto la terra c’è roc­
cia e che il cielo più azzurro è il più vuoto. Per chi
come me non ci vede, tutte le cose sono un urto,
non altro.
edipo : Ma sei pure vissuto praticando gli dèi.
Le stagioni, i piaceri, le miserie umane ti hanno

156
EDIPO

a lungo occupato. Si racconta di te più di una fa­


vola, come di un dio. E qualcuna così strana, così
insolita, che dovrà pure avere un senso - magari
quello delle nuvole nel cielo.
tiresia : Sono molto vissuto. Sono vissuto tanto
che ogni storia che ascolto mi pare la mia. Che
senso dici delle nuvole nel cielo?
edipo: Una presenza dentro il vuoto...
tiresia : Ma qual è questa favola che tu credi ab­
bia un senso?
edipo : Sei sempre stato quel che sei, vecchio
Tiresia?
tiresia : Ah ti afferro. La storia dei serpi. Quan­
do fui donna per sette anni. Ebbene, che ci trovi
in questa storia?
edipo : A te è accaduto e tu lo sai. Ma senza un
dio queste cose non accadono.
tiresia : Tu credi? Tutto può accadere sulla terra.
Non c’è nulla d’insolito. A quel tempo provavo
disgusto delle cose del sesso - mi pareva che lo
spirito, la santità, il mio carattere, ne fossero av­
viliti. Quando vidi i due serpi godersi e mordersi
sul muschio, non potei trattenere il mio dispetto:
li toccai col bastone. Poco dopo, ero donna - e per
anni il mio orgoglio fu costretto a subire. Le cose
del mondo sono roccia, Edipo.
edipo: Ma è davvero così vile il sesso della donna?
tiresia : Nient’affatto. Non ci sono cose vili se
non per gli dèi. Ci sono fastidi, disgusti e illusioni
che, toccando la roccia, dileguano. Qui la roccia
fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresen­

157
GRANDI MITI GRECI

za sotto tutte le forme e i mutamenti. Da uomo


a donna, e viceversa (sett’anni dopo rividi i due
serpi), quel che non volli consentire con lo spi­
rito mi venne fatto per violenza o per libidine, e
io, uomo sdegnoso o donna avvilita, mi scatenai
come una donna e fui abbietto come un uomo,
e seppi ogni cosa del sesso: giunsi al punto che
uomo cercavo gli uomini e donna le donne.
edipo : Vedi dunque che un dio ti ha insegnato
qualcosa.
tiresia: Non c’è dio sopra il sesso. È la roccia,
ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più
antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra,
ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita
da la morte. Quale dio può incarnare e compren­
dere tanto?
edipo : Ma tu stesso. L’hai detto.
tiresia : Tiresia è vecchio e non è un dio.
Quand’era giovane, ignorava. Il sesso è ambi­
guo e sempre equivoco. È una metà che appare
un tutto. L’uomo arriva a incarnarselo, a viverci
dentro come il buon nuotatore nell’acqua, ma in­
tanto è invecchiato, ha toccato la roccia. Alla fine
un’idea, un’illusione gli resta: che l’altro sesso ne
esca sazio. Ebbene, non crederci: io so che per
tutti è una vana fatica.
edipo: Ribattere a quanto tu dici non è facile. Non
per nulla la tua storia comincia coi serpi. Ma co­
mincia pure col disgusto, col fastidio del sesso. E
che diresti a un uomo valido che ti giurasse d’igno­
rare il disgusto?

158
EDIPO

t i r e s i a : Che non è un uomo valido - è ancora

un bambino.
e d i p o : Anch’io, Tiresia, ho fatto incontri sul­

la strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato


dell’uomo - dall’infanzia alla morte - si è toccata
la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui
padre, e re di Tebe. Non c’è nulla d’ambiguo o di
vano, per me, nei miei giorni.
t i r e s i a : Non sei il solo, Edipo, a creder questo.

Ma la roccia non si tocca a parole. Che gli dèi ti


proteggano. Anch’io ti parlo e sono vecchio. Sol­
tanto il cieco sa la tenebra. Mi pare di vivere fuori
del tempo, di esser sempre vissuto, e non credo
più ai giorni. Anche in me c’è qualcosa che gode
e che sanguina.
e d i p o : Dicevi che questo qualcosa era un dio.

Perché, buon Tiresia, non provi a pregarlo?


t i r e s i a : Tutti preghiamo qualche dio, ma quel

che accade non ha nome. Il ragazzo annegato un


mattino d’estate, cosa sa degli dèi? Che gli gio­
va pregare? C’è un grosso serpe in ogni giorno
della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai
chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi
accecano?
e d i p o : Prego gli dèi che non mi accada.*

* C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947

159
Manuali di mitologia
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Greek Mythology, Chichester, Malden, MA, 2011
R. Graves, Im iti greci, Longanesi, Milano 1963
P. Grimal, Dizionario di mitologia greca e romana, Paideia
Editore, Brescia 1987
G. Guidorizzi, Il mito greco, voi. I e II, Mondadori, Milano
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K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore,
Milano 1962
H. J. Rose, A Handbook o f Greek Mythology, Routledge,
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Saggi
M. Bettini - G. Guidorizzi, Il mito di Edipo, Einaudi,
Torino 2004

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M. Delcourt, Oedipe ou la légende du conquerant,
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S. Freud, L ’interpretazione dei sogni, Einaudi, Torino 2014
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G. S. Kirk, La natura dei miti greci, Laterza, Roma-Bari
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B. Gentili - R. Pretagostini, Edipo. Il teatro greco e la
cultura europea. Atti del Convegno Internazionale
(Urbino, 15-19 novembre 1982), Edizioni dell’Ateneo,
Roma 1986
F. Maiullari, L ’interpretazione anamorfica dell ’Edipo re,
ed. Istituti editoriali e poligrafici intemazionali,
Pisa-Roma 1999
A. Moreau, Oedipe ou laproliferation explicative,
articolo sulla rivista universitaria «L’Antiquité»
classique, voi. 71, Liegi 2002

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EDIPO

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J.P. Vemant - P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nella
Grecia antica, Einaudi, Torino 1997
J.P. Vemant, Edipo senza complesso. Iproblematici
rapporti tra mitologia e psicanalisi, Mimesis, Milano
2013
P. Pucci, Oedipus and thè Fabrication o f thè Father:
Oedipus Tyrannus in Modern Criticism and
Phìlosophy, Johns Hopkins University Press,
Baltimora, Usa 1992

Fonti letterarie
Apollodoro, Biblioteca, con commento di J.G. Frazer,
edizione italiana a cura di G. Guidorizzi, Adelphi,
Milano 1995
Igino, Miti, Adelphi, Milano 2000

Nell’arte
Una grande collezione di fonti iconografiche antiche,
personaggio per personaggio, è il Lexicon
Iconographicun Mythologiae Classicae, in 18 volumi,
Artemis Verlag, Ziirich und Miinchen
J. Cocteau, Oedipe le carrefour des trois routes, progetto
per scenografia

165
GRANDI MITI GRECI

J.A. Ingres, Edipo e la Sfinge, M useo del Louvre, Parigi


G. Moreau, Edipo e la Sfinge, Metropolitan Museum,
New York
F. Khnopff, Carezze, Royal Museum o f Fine Arts of
Belgium, Bruxelles
C.F. Jalabert, Edipo e Antigone, Musée des Beaux-Arts,
Marsiglia
G. de Chirico, Edipo e la Sfinge, Fondazione Giorgio e
Isa de Chirico, Roma
F. Bacon, Oedipus and thè Sphinx after Ingres, Museo
Berardo, Lisbona
S. Dall, Complesso di Edipo, Museum o f M odem Art,
San Francisco

Geografia mitica
Delfi, Tempio di Apollo, Santuario, Teatro
Corinto, Tempio di Apollo
Tebe

Edipo nacque e passò poi gli anni della maturità a Tebe,


nell’attuale Egitto, il cui sito archeologico, situato tra le
attuali città di Luxor e Kam ak oggi è uno dei siti UNESCO,
Patrimonio dell’Umanità. È possibile collocare il trivio do­
ve, secondo il mito, uccise il padre Laio nella regione della

166
EDIPO

Focide, tra le vallate che circondano il monte Parnaso, la


cui città più importante è Delfi, la città dell’oracolo. Il sito
archeologico di Delfi riesce ancora oggi a trasmettere la
centralità e la forte componente religiosa di questo luogo,
nel santuario di Apollo, costruito nel IV secolo a.C., nel
teatro e infine nel tempio di Apollo in stile dorico che do­
mina la via Sacra. Secondo Sofocle, Edipo morì e venne
sepolto a Colono, uno dei demi dell’Attica, poco distante
da Atene.

Risorse online
Il sito Greek Mythology Link (www.maicar.com/GML)
offre materiale mitologico vario (testi, immagini, mappe)
e contiene una serie di utili link. Il sito de Gruppo trie­
stino di ricerca sul mito e la mitografia, coordinato da E.
Pellizer e G. Tedeschi (https://grm ito.units.it/) offre una
ricca bibliografia e la possibilità di consultare un diziona­
rio etimologico della mitologia greca.

167
Finito di stampare nel mese di novembre 2017

a cura di RCS MediaGroup S.p.A.

presso m * Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)

Printed in Itaiy
Il mito è un modo di raccontare ma è anche un m odo di
pensare. Il pensiero mitico infatti è un prodotto dell’im­
maginazione umana che segue logiche diverse rispetto
a quello cosciente, che racconta e non analizza. E m itico
è Edipo, forse uno dei personaggi più conosciuti nella
storia della letteratura mondiale. Edipo e l’enigma, Edi­
po e il destino. Personaggio complesso, nelle molteplici
versioni del mito che riportano tu tte alla centralità della
condizione umana e al rapporto col mistero della divini­
tà. L’uomo è libero nelle sue scelte, oppure c'è una forza
che lo condiziona inesorabilmente? Dall’Edipo dell’Ate-
ne classica e democratica, all’Edipo nel quale si realizza
la lotta tra Vecchio e Nuovo, tra padri e figli, quest’eroe
passa nel corso dei secoli, dalla tragedia all’arte, per ar­
rivare alla sua consacrazione psicanalitica.

GIULIO G U ID O R IZZI è grecista, traduttore, studioso di mitologia classica e


di antropologia del mondo antico; è stato professore presso le Università di
Milano e di Torino. È autore di manuali per la scuola, di letteratura e di storia, e
condirettore della rivista «Studi Italiani di Filologia Classica» (con Alessandro
Barchiesi). Importanti le sue traduzioni di Euripide, Apollodoro, degli Epigram­
mi di Meleagro e l'edizione delle Nuvole di Aristofane per la collana «Lorenzo
Valla». Tra le principali opere: Letteratura Greca (2003); Il mito di Edipo (con
Maurizio Bettini, 2004); il mito greco (due volumi, 2009-2012); Ai confini dell'a­
nima. I Greci e la follia (2010); La trama segreta del mondo (2015); io, Agamen­
none. Gli eroi di Omero (2016) e / colori dell'anima. I Greci e le passioni (2017).

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