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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA

Facoltà di Teologia
Dipartimento di Teologia Biblica

LA DISCENDENZA “DISTESA” DI GIUDA


Un’analisi narrativa di
Gn 38,1-30

Seminario: TBS085
Professore: FABRIZIO FICCO
Studente: BENJAMIN OLDANI
Matricola: 161591

ROMA 2020
La casa di Giacobbe si stabilisce a Ebron, dando inizio alle ‫ ֹתְּלדוֹת‬che scandiscono
gli eventi del Ciclo di Giuseppe (Gn 37,1-2). Genesi 38 si trova innestato in questo
insieme e dispiega, in modo storiografico, la porzione discendente da Giuda. La
presente indagine narrativa cerca di focalizzare il suo contenuto sul motivo delle
‫ ֹתְּלדוֹת‬anche in senso metaforico. Infatti, la discendenza di Giuda è l’unica
privilegiata dal Ciclo, con maggior dettaglio sulla causalità umana e divina.
Mentre lo stesso Giuseppe viene a rimarcare questa duale causalità degli eventi
come chiave ermeneutica verso la fine del Ciclo, la discendenza di Giuda invece la
riveste come proposta narrativa sin dall’inizio, offrendo un importante contributo
alla rilettura teologica dell’intero Ciclo. Questo aspetto, che rimane in qualche
modo velato nel presente capitolo, viene comunque alla luce attraverso il
protagonismo femminile, i cui elementi si dimostrano decisivi per condurre alla
consapevolezza del giusto e dell’ingiusto relativamente al disegno divino,
identificato nella discendenza promessa.

1. Traduzione e problemi testuali


v.5b ‫« ְוָהָיה ִבְכִזיב ְבִּלְדָתּהּ ֹאֹתו‬Succedeva, poi, che lei era deludente quando lo
partorì». L’interpretazione di questa frase mostra un problema di traduzione
e un’ambiguità testuale [‫]ִבְכִזיב‬. L’uso di ‫ ְוָהָיה‬pf. consecutivo, è raro in una
frase circostanziale. Smr e Tsmr lo riportano all’impf. con un senso
impersonale (non si tratterebbe di Giuda). Concorda Aquila, mentre G con
LXX lo riporta al f. (si tratterebbe della moglie). Ciò sembra smentire il
senso forte (lui stava) di fronte al senso debole (copulativo temporale).
Quest’ultimo indica simultaneità di azione in frasi nominali con l’uso
ripetuto di ‫( ב‬JM §111i). Tuttavia, ‫ ְוָהָיה‬serve per introdurre dati interni, (cf.
v.9b), consentendo di considerare in Kezîb sia il riferimento al nome di un
paese, sarebbe Achzib o Kōzēb’ā, adattabile all’ambientazione del capitolo
(tenuto da G, TO; cf. Mi 1,14; 1Cr 4,21-22), sia soprattutto la sua radice
verbale ‫( כזב‬essere bugiardo, falso, fallito o deludente; cf. Is 58,11; Gb 41,1;
Hab 2,3) costituendo uno spunto importante da riferirsi alla moglie, perché, a
quanto pare, ella avrebbe terminato il suo periodo di fertilità (cf. Gn 29,35;
Gen Rab 85:3). Ecco, il senso riconosciuto da S e V. Inoltre, questo
troverebbe riscontro nel fatto che il narratore rimarca pure le circostanze che
chiudono il contributo di Tāmār alla discendenza di Giuda (v.26b),
rinvenendo nella discendenza il motivo centrale del capitolo. La frase
sarebbe, infine, da associare al nome Šelāh, quale motivo di significato (cf.
Gb 41,9; Is 58,11; 2Re 4,28)1. Nonostante queste considerazioni, il fatto che
molti commentari e traduzioni moderni riferiscono ‫ ְוָהָיה‬a Giuda risente
l’utilità del senso forte per indicare un suo atteggiamento poco trasparente.
Senz’altro, un tale gioco di ambiguità è attinente alla narrazione.
1
‫ =( שלה‬l’aramaico ‫ )שלו‬seppure da un ebraico più tardivo, potrebbe indicare il fallimento (cf. Dn 3,29; 6,4;
Ez 4,22; 6,9; cf. ‫ נשל‬Dt 19,5; 28,40), cioè, dopo di lui, lei smette di travagliare; è ‘tranquilla’, non partorisce più.

1
v.9b ‫« ְוָהָיה ִאם־ָבּא ֶאל־ֵאֶשׁת ָאִחיו ְוִשֵׁחת ַא ְרָצה ְלִבְל ִ֥תּי ְנָתן־ֶזַרע ְלָאִחיו‬Succedeva,
poi, che sebbene entrasse dalla moglie di suo fratello, sprecava sempre a
terra per non dare così discendenza a suo fratello». Di nuovo, una frase
difficile da tradurre, più un’anomalia testuale [‫] ְנָתן‬. La preposizione ‫ ִאם־‬di
senso temporale, preceduto da ‫ ְוָהָיה‬, dice un’azione ripetuta, anzi, con
estensione generale: ogni volta. Ciò viene rafforzato sia da ‫[ ְנָתן‬dare] Qal
inf. cost.2 legato con maqqef a zēra‘, sia dal verbo ‫[ ִשֵׁ֣חת‬sprecare, rovinare]
al Piel pluralizzato (JM §52), introdotto da un waw subordinativo. Questo
aspetto verbale serve per trattare un oggetto in forma plurale. In particolare,
l’oggetto, zēra‘, prende un duplice significato: la prima accezione si
dovrebbe tradurre seme (esecuzione), mentre la seconda discendenza
(scopo), facendo così riferimento sia al coitus interruptus nell’atto ripetuto,
sia al frutto del levirato, l’erede. ‫ ִשֵׁחת‬riguarda entrambi i casi.
v.29ab ‫« ַו ְיִהי ְכֵּמִשׁיב ָיֹדו ְוִהֵנּה ָיָצא ָאִחיו ַותּ ֹאֶמר ַמה־ָפַּרְצָתּ ָﬠֶלי• ָפֶּרץ‬Ed avvenne che,
appena ritiratosi la mano, uscì suo fratello, quindi [la levatrice] esclamò,
“Come sei saltato fuori quando per te c’era una breccia!”». Diversi
commentatori vi trovano un problema di traduzione. Il participio Hifil ‫ֵמִשׁיב‬,
introdotto da ‫ כ‬e seguito da ‫ו‬, indicherebbe due azioni con immediata
conseguenza (JM §166m). Allora, Zārach fa breccia perché apre il grembo
della madre con la mano, ma, nel ritirarla, lascia un’altra breccia attraverso cui
Pārets, all'istante, salta fuori. Il discorso diretto della levatrice inizia con un
‫ ַמה־‬esclamativo (JM §144e) che si combina con •‫[ ָﬠֶלי‬prep. suf. 2s] seguito da
un predicato nominale ‫ ָפֶּרץ‬riguardante il soggetto che agisce ‫ָפַּרְצָתּ‬, per cui: 1)
per te / presso te; 2) [c’era] una breccia; 3) sei saltato fuori. G e V rendono al
passivo (divino?) «Come si è spaccato il recinto per te [che ti tratteneva]!». I
targumîm intendono ‫ ָפֶּרץ‬come profeticamente riferito all’«accrescimento»
della discendenza (cf. Gn 28,14; Es 1,12; Rt, 4,12). Questo valutare Pārets
come breccia della causalità divina, lega la crescita della linea Davidica
(messianica) alla benedizione dell’Alleanza. Tali elementi, più teologici,
dimostrano un fenomeno narrativo rafforzato dalla rilettura canonica.

2
Si aspetta tēt, ma la presente forma si trova altrove unicamente in Nm 20:21.

2
2. Analisi della narrazione
1. Giuda scende, “si stende” con Chîrāh, ed entra (vv.1-6) [l’esposizione]
2. Il fallimento della discendenza (vv.7-11) [l’avvio]
3. Con Chîrāh Giuda sale a tirare le somme (vv.12) [la complicazione 1]
3a. Tāmār cambia la veste e sale (v.13-14) [la complicazione 1a]
3ai. Giuda “si stende”, consegna ed entra (vv.15-18) [la complicazione 1b]
3b. Tāmār scende e cambia la veste (v.19-20) [la complicazione 2a]
3bi. Con Chîrāh il fallimento del pago (vv.21-23) [la complicazione 2b]
4. Si dimostra l’eredità non riconosciuta (vv.24-25) [la svolta]
4a. Tāmār giustificata: i pegni e l’eredità riconosciuti (v.26) [la risoluzione]
5. Viene fuori la discendenza (vv.27-30) [l’epilogo]

2.1 L’intreccio: avvenne in quel tempo (v.1, v.27)


L’uso di wayhî per dividere l’intreccio è molto indicativo e traccia un
arco narrativo principale che rientra sotto il titolo: Il fallimento della
discendenza di Giuda (v.7-26). Manca un wayhî al v.12, malgrado l’apertura
di una scena nuova, sostituito dall’espressione temporale: «nel moltiplicarsi
dei giorni». La sua ellisse crea una suspense prolungando l’unità
dell’azione fino alla confessione di Giuda, cosicché quest’ultima è una
ripresa di quanto avvenuto fin dal v.7. Una tale ripresa serve allo scopo del
racconto per non limitare il senso all’incontro in strada presso ‘Ênayim
(v.12ss). Difatti, questa scena non spiega il culmine della narrazione che
considera Tāmār giusta, mentre Giuda no (v.26a). La suspense intorno al
fallimento è risolta con un gap piuttosto complesso: Giuda implicitamente
riconosce come suoi i figli nel grembo di Tāmār per l’ambiguo
riconoscimento dei pegni che lei porta in mano, esplicitando però la sua
intenzione disonesta con lei (cf. v.11). Questa strana forma ambigua di
riconoscimento dipende dal non voler condannare sé stesso alla medesima
sorte (Lv 20, 12), cosa che l’atteggiamento di Tāmār cerca pure di evitare.
Subito dopo, all’apertura dell’epilogo, compare ancora il sintagma wayhî
bā‘ēt, non qualificato genericamente (‫ ;ַהִהוא‬quel tempo v.1), ma con un
indizio preciso (‫ ;ִלְדָתּהּ‬il tempo del parto, v.27). Allora, mentre l’arco
narrativo principale ha un tempo narrato di lunghi periodi indeterminati, in
cui l’azione si focalizza intorno al protagonismo di Tāmār (vv.13-20; 24-26),
l’epilogo, invece, esprime un tempo narrante. Ogni dettaglio introdotto da
wayhî (vv.27, 28 e 29) rende il parto come avvenuto in slow-motion3. Quanto
avvenuto prima del v.27 non incide sul dopo. In più, l’epilogo ha le parti non
solo di una scena, ma anche di un secondo mini-arco narrativo. Infine, qui
emerge un ruolo simmetrico dell’uso di wayhî che mette in rapporto momenti

3
È uno scenario che rimanda alla nascita di Esaù e Giacobbe. Quella volta, Esaù, essendo preso per il
calcagno, comunque uscì per primo (Gn 25,26). Ora, Zārach viene sopraffatto, in ricordo del motivo
teologico della (progressivamente divina) sostituzione della primogenitura, proprio del libro della Genesi.

3
decisivi secondo la struttura di un doppio intreccio. Il rapporto fra di loro è da
ricercare teologicamente nel motivo dello scambio: la sua causalità sarebbe il
potere umano nel primo intreccio, mentre nel secondo il potere divino.
…‫( ַו ְיִהי ְבֵּﬠת‬v.1) l’esposizione …‫( ַו ְיִהי ְבֵּﬠת‬v.27) l’esposizione
…‫( ַו ְיִהי‬v.7) l’avvio …‫( ַו ְיִהי‬v.28) l’avvio
[uno scambio dei posti legato alla mano] [uno scambio dei posti legato alla mano]
…‫( ַו ְיִהי‬v.24) la svolta …‫( ַו ְיִהי‬v.29) la svolta

2.2 Giuda scende, si stende con Chîrāh, ed entra (vv.1-6)


In questa sezione di esposizione, si presentano tutti i personaggi
dell’arco narrativo principale, tranne gli abitanti anonimi di ‘Ênayim. La
voce del narratore domina da un punto di vista esterno, salvo al v.5b. Qui,
wehāyā interrompe la catena narrativa per spiegare un dettaglio interno non
noto all’ascoltatore: la fine, nei fatti, del contributo della moglie alla
discendenza di Giuda (v.5b). Il caso anticipa l’avvio, mirando alla
frustrazione della discendenza, suggerita nell’immaginario come un uomo
disceso e disteso (v.1). Il tempo narrato indeterminato scorre velocemente,
fornendo un minimo dettaglio alle nascite, frutto della successiva azione di
Giuda: l’aver preso [‫( ] ִיָּקֶּחָה‬una moglie), entrando da lei (legata dal
narratore al nome di Šûa). Mentre prendere ed entrare sono comuni
eufemismi per indicare concretamente i rapporti con una donna, la scelta di
sostituire il suo nome proprio con quello del padre potrebbe voler
sottolineare il suo valore lessicale (cf. nota 5).
Tutto questo lascia grandi vuoti intorno ai circa vent’anni della vita di
Giuda lontano dalla casa paterna. Per questa ragione, molti commentari
chiudono l’esposizione al v.5, visto il lungo lasso di tempo trascorso prima
del v.6. Tuttavia, la narrazione stessa fornisce ed indica dove fissare
l’attenzione. Infatti, il sopramenzionato stato della moglie alla nascita di
Šelāh interrompe il corso degli eventi. Giustapposta a questo è
l’introduzione di Tāmār non casualmente prima del wayhî del v.7: per il
narratore, le due donne vanno considerate insieme perché Tāmār è l’altra
donna che ha a che fare con la discendenza di Giuda. Ciò rileva ancora il
motivo della discendenza, qui rimarcato dall’apposizione di ‘Ēr come
«primogenito» (v.6). Quest’ultimo dettaglio delinea Tāmār come la madre
attraverso la quale dovrebbe passare il diritto alla maternità del nipote erede
primogenito. Pure lei viene presa [‫ ] ִיַּקּח‬dalla mano di Giuda allo scopo della
discendenza4.

4
L’ambiguità prolettica di ciò non si sente per ora. Il narratore sa più dell’ignaro ascoltatore riguardo
alla sorte, piena di imprevisti, dell’avveduta protagonista. Lei, pur attenendosi allo stesso scopo (indicato dal
verbo prendere), rovescerà il controllo sulla discendenza prendendo in mano il pegno di Giuda, anche se lui

4
L’introduzione dei nomi è un altro elemento centrale nell’esposizione,
importante per la caratterizzazione dei personaggi, apportando spesso un
significato prolettico che dice qualcosa sull’azione che verrà associata al
personaggio. Nell’esposizione, i nomi Chirāh, Šûa e Tāmār sono presentati
mediante delle frasi nominali: uso del waw parentetico con ûšemô [al
femminile per Tāmār; nella LXX ῇ anche per Šûa, sos. f. = personaggio f.].
Questo modo di fermare brevemente l’azione consente di vedere in essi un
significato interno5. I nomi dei figli di Giuda si presentano, invece,
mediante il verbo qārā’ perché sono legati al motivo tematico della
discendenza. Il genere del verbo suggerisce che ‘Ēr, Zārach e Pārets sono
nominati da Giuda, mentre ’Ōnān e Šelāh dalla moglie.
Il tentativo di dare un significato alla scelta del nome da parte della
madre è forse ostacolato da discrepanze di critica testuale6. Tuttavia, è da
notare che tutti i figli di Giacobbe ricevono il nome così. Sarebbero ben 13
i casi su 18, nel libro della Genesi, in cui la madre dà il nome. I restanti casi

pensa che si tratta solo di rinviare il pago ad una meretrice con un capro, verso Timnat [‫( ]ִבּ ְגּ ִדי ִתְּמָנָתה‬vv.16-
17). Questo rovesciamento è sempre ricordato da Giuda dopo il fallimento del pago, perché dirà del pegno:
«che lo prenda per sé» [‫( ]ִתַּקּח־ָלהּ‬v.23), rilevando in esso una concessione di potere (cf. nota 22).
5
Chîrāh: un caso di dubbia etimologia e hapax nei vv. in esame (1b.12b). L’etimologia propone la
radice ‫ חור‬del vb. chāvar [diventare bianco o pallido; come per vergogna, cf. Is 29,22], o da sost. trattasi
di una stoffa bianca (magari il cashmere, perché contestualizzato nel capitolo come allevatore di capre; cf.
Is 19,9; Est 1,6; 8,15), o di una caverna. Altre speculazioni potrebbero risentire il verbo ‫( חרה‬sebbene non
compaia mai al Piel), che troverebbe un tenue riferimento in Gn 45,5, associato al dolore adirato (di
vergogna) che avrebbero provato i fratelli nei loro rapporti dopo la scomparsa, e persino al momento del
ritrovamento e del riconoscimento, di Giuseppe. Infine, si pensa a ‫[ בחיר‬uomo di qualità o eletto, cf. Sa
78,31]. Il suo nome è abbinato all’apposizione Adullamita, dalla radice ‫עדל‬, attestata solo nella suddetta
città e nel nome Adlai, la cui dubbia etimologia potrebbe proporre la radice dall’Assiro edlu [chiusura o
prigione, persino indicando la vedova abbandonata, o donna ripudiata (The Assyrian Dictionary, IV,
Chicago 1958, 33-34.73)]. Se fosse così, la città della casa paterna di Tamar (suppostamente ad Adullam)
vi troverebbe una felice coincidenza. Infine, sarebbero possibili abbinamenti metaforici in riferimento ad
altri episodi biblici, i quali presenterebbero Chîrāh Adullamita: 1) in quanto metafora esterna: caverna o
grotta dove Giuda si rifugia (1Sm 22,1); 2) in quanto metafora interna: Giuda si distoglie [dalla casa paterna]
per abitare presso la vergogna (1Sm 22,2), che è poi il posto dove Dio fa scoprire l’infedeltà segreta tramite
articoli sul collo (2Mac 12,38-41); 3) in quanto uomo eletto ed equo, perché svolge il ruolo di portare il pago a
Tāmār; lei però tornava ad Adullam ormai con l’erede (Mi 1,14-15). Fin qui, è tutta speculazione metaforico-
lessicografica. Riguardo i possibili significati dietro il nome di Tāmār [palma], cf., Y.L., ARBEITMAN,
«Tamar’s Name or is It? (Gen 38)», ZAW 112 (2000), 341-355; il suo simbolismo sarebbe concentrato nei
vv.24-25. Il nome di Šûa: «grido di aiuto», o, in modo dubbio, anche «opulenza», cf. Gb 36,19. Sempre in
ordine metaforico, a questo nome (sos. f. che sta per la moglie) andrebbero legati i nomi dei figli (da essa
“venuti fuori”): ‘Ēr: dalla radice ‫[ עור‬essere suscitato] oppure dall’aggettivo ‫[ ערירי‬derelitto (di figli); cf. TJ;
SARNA, Genesis, JPS, 265.], non lontano dal verbo Piel ‫[ ִבֵﬠר‬divorare, da pascolo o fuoco, indicando la
vigorosità animale]. ’Ōnān: uguale a ‫[ און‬essere vigoroso] (cf. Os 12,3); virilità maschile, cioè, la capacità di
generare il primogenito (cf. Gn 49,3; Dt 21,17). N.B. la contraddizione con il suo agire al v.9. Šelāh: verbo
[essere tranquillo, rappacificato, prospero, agiato]; della stessa radice ‫[ שלה‬essere richiesto, inviato, cioè da
portare via (cf. Gb 27,8)]; prep. rel. di possesso [«di lei» anticipazione dei vv.11.30; cf. M., LEUCHTER,
«Genesis 38 in Social and Historical Perspective» JBL 132, 2 (2013), 221.]; sost. f. [qualcosa che non va (cf.
Dn 3,29)]. In conclusione, si tratterebbe di casi di polisemia con nomen omen.
6
SPEISER considera l’accezione del v.3 al neutro, valutando Smr e TJ che la riportano al femminile;
COTTER, con lui, pensa che sarebbe normale per il padre dare il nome in riconoscimento della propria
paternità (cf. Gn 16,15), il che rileverebbe la negligenza di Giuda rispetto alla sua discendenza;
E.A SPEISER, Genesis, ABC, 295-297. D.W. COTTER, Genesis, BO, 280.

5
sono Seth (da Eva), Ishmael (da Hagar), Moab e Ben-Ammi (dalle figlie di
Lot)7. Ciascuna di esse lega il nome del figlio a un determinato significato,
anzi, a un discorso narrante. Che cosa dire, invece, per ’Ōnān e Šelāh? Il
v.5b sembra offrire una soluzione per Šelāh nella sfumatura combinata sulla
radice ‫כזב‬. Invece, ’Ōnān, pur non avendo un motivo esplicitato, potrebbe
personificare la negligenza di Giuda per la discendenza, avveratasi poi nei
suoi atti, e che contraddicono il significato del suo nome (v.9; nota 5).

2.3 Il fallimento della discendenza (vv.7-11)


L’azione comincia a complicarsi e il punto di vista esterno del narratore si
fa più marginale (vv. 7, 10 e 11d). ‘Ēr diventa il primo individuo nella Bibbia
che Dio stesso “fa morire” perché si era reso malvagio [‫]רע‬, significato
palindromico del suo nome. La sua morte imprevista provoca il primo
discorso diretto del capitolo in cui Giuda espone l’intenzione di tutelare la
propria discendenza mediante l’usanza del levirato [‫]ַיֵבּם‬, richiesto ad ’Ōnān
(v.8). Il narratore riporta il pensiero di ’Ōnān al riguardo da cui si vede, come
caso tipico, l’animosità fraterna che, in realtà, affligge tutta la casa di
Giacobbe. Ne segue una parentesi, aperta con wehāyā, per indicare le azioni
private assiduamente commesse contro Tāmār, ai ‘danni’ del fratello morto.
La ripresa della catena wayyiqtol viene giustapposta all’esito delle azioni
di ’Ōnān con la sua conseguente morte, sotto la mano di Dio, ugualmente a
suo fratello (v.10). Nella prima morte, Giuda sembra indifferente, ora,
invece, riprende il discorso diretto cambiando strategia per tutelare la
discendenza: spedisce Tāmār alla casa paterna sotto ordine di vedovanza,
sempre secondo un tempo indeterminato (11a). Infine, il narratore espone i
pensieri e i motivi privati di Giuda al riguardo (v.11b), rivelandone un
fondo di doppiezza che, innanzitutto, svela la sua paura di un pericolo, in
realtà poco fondata, la quale, di fatto, fa intuire la sua intenzione di non
rispettare la promessa fatta a Tāmār di sposare Šelāh. Importante è notare
qui che Giuda ignora ciò che il narratore e l’ascoltatore già sanno: la colpa
per la morte di ’Ōnān non ricade affatto su Tāmār, contrariamente ad una
credenza popolare secondo la quale la donna porta qualcosa in sé che causa
la morte dei mariti (cf. Tb 3,7ss; 8,9s)8. Ciò posiziona Tāmār come vittima
di ingiustizia: donna fidanzata e ripudiata, ormai doppiamente vedova9.

7
Altri casi rilevanti includono: Mosè, Sansone, Samuele, e Salomone; Ichabod e Pereš.
8
G. VON RAD, Genesis, 483.
9
Vista l’iniziativa di Giuda di ricorrere al levirato, ci si aspetterebbe la stessa cosa con Šelāh. Il
discorso diretto di Giuda, da una parte, lo conferma con delle parole che equivalgono al fidanzamento di
un matrimonio levirato combinato, ma dall’altra parte, il rinvio di Tāmār alla casa paterna (subito prima)
equivale anche ad un atto di ripudio. La loro giustapposizione, infatti, crea una situazione ambigua che
serve per rilevare nel tempo la disonestà di Giuda. Il suo dovere verso di lei viene ricordato dal narratore
sempre qualificandoli come suocero-nuora (vv.11a.13b.24b.25a).

6
Così, sotto il mandato di Giuda, lei diventa figura della donna vulnerabile e
abbandonata, secondo un triplice indizio. Eppure, il narratore ci tiene a
sottolineare la sobrietà con cui Tāmār si sottomette al parere del
paterfamilias (v.11c). Simbolo di ciò sono le vesti di vedovanza che lei
indossa, il cui sintagma ‫ ִבְּגֵדי ַאְלְמנוָּתהּ‬esprime un gioco di significato da
approfondire come termine chiave.
È una svolta decisiva perché Giuda, per ignoranza ed ironia drammatica,
sigilla l’impedimento che annulla effettivamente la realizzazione di ciò che
cerca di salvaguardare. In altre parole, di fronte alla paura di perdere il
figlio più piccolo, l’atto di difenderlo diviene per lui motivo di negligenza
colpevole, sia nei riguardi di Tāmār sia nei riguardi della propria
discendenza. La decisione di risparmiare Šelāh (per apposizione «mio
figlio»10) significa, difatti, rimanere senza erede per diffidenza verso Tāmār
(per apposizione «sua nuora», indicando sempre il diritto alla maternità
dell’erede primogenito). La trascendenza di questi elementi all’interno della
linea messianica si riapre a grandi linee teologiche11, ma all’interno del Ciclo
di Giuseppe certi elementi fanno comunque analessi e prolessi. Ad esempio,
nell’anticipo due eventi simili di impedimento riguardanti il trattenimento
del figlio piccolo come riportati in Gn 42,38; 44:17. In questi episodi, sotto
la minaccia di una nuova negligenza, Giuda si scoprirà in grado di
intervenire con la giusta misura, conoscendo ormai la problematica per
esperienza (Gn 43,3-5.8-10; 44,18-34).
Questa sezione ha, poi, una cornice dedicata alla moglie di Giuda. Lei
sarebbe diventata sterile dopo la nascita di Šelāh (v.5b). Solo dopo la sua
morte (dato esterno v.12a), che coincide con l’età matura di Šelāh, Tāmār
può diventare protagonista della propria situazione, arrivando alla
conclusione che la promessa non sarebbe stata più rispettata (dato interno
v.14c). Lei intuisce il definitivo fallimento della discendenza e il negligente
carattere di Giuda nei suoi riguardi. Grazie a questa scoperta, decide di
utilizzare la propria situazione ambigua a suo vantaggio, visto il contesto
accostato dal narratore alla consolazione di Giuda12, cioè, la tosatura del
gregge, scena tipo per ristabilire la giustizia13.

10
Cf. v.26b. Giacobbe parla con la stessa espressione riferendosi al “figlio piccolo” (cf. Gn 37,33.35;
42,38; 45,28; 49,9); è un indizio che Giuda man mano va comprendendo il dolore che ha provocato al
padre. Ciò si vede soprattutto nel discorso magnifico di Giuda (Gn 44,18-34) in giustapposizione con
l’uso massiccio della frase «mio/nostro/suo padre» (14x).
11
Non è un caso che Tamar viene ricordata da Mt 1,3.
12
Dalla storia di Ruth, VON RAD considera che, slegato dal matrimonio, Giuda da suocero sarebbe anche
candidato legittimo per compiere il dovere del levirato (G. VON RAD, Genesi, 484). In contrasto, Giacobbe
rifiutava ogni consolazione nel suo lutto (Gn 37,35). Per la nozione di essere consolato alla chiusura del
lutto, cf. Gn 24,67; R.J., CLIFFORD, «Genesis 38: Its Contribution to the Jacob Story» CBQ 66 (2004), 529.
13
La festa della tosatura del gregge nel VOA era un importante evento sociale paragonabile alle feste
di mietitura, contrassegnato da ubriachezza, vendetta ed altre attività di dubbio carattere morale. Nella

7
2.4 Viene fuori la discendenza (vv.27-30)
Questa ultima sezione, l’epilogo del capitolo, scioglie la suspense
causata dalla frustrazione della discendenza di Giuda, ed è costruita
secondo un secondo mini-arco narrativo diviso in parti, con dei personaggi
propri: la levatrice e i due gemelli che nascono. Qui la voce del narratore
rimane sul punto di vista esterno, venendo interrotto due volte dal discorso
diretto della levatrice (vv.28c e 29b). Oltre la difficoltà che alcuni hanno con
la descrizione poco verosimile del parto14, il protagonismo della levatrice,
tramite lo scarlatto, praticamente determina i nomi di entrambi i figli15.
Zārach ‫ זרח‬che significa «sorgere» (spesso riferito all’alba) ricorda
foneticamente ‫ זרעהּ‬col suff. pron. f. (cf. Gn 3:15), per cui all’orecchio
sembra dire «la discendenza di lei»16, cioè, di Tāmār: lui è il zēr‘a che le
appartiene secondo il diritto del levirato (v.9a). Questi porta sulla mano lo
scarlatto, segno del modo in cui «è sorta» la sua primogenitura: mostra la
mano che, spesso, connota il potere17. A proposito dello scarlatto ‫[ שני‬šānî],
secondo i motivi di nomen omen, dovrebbe essere noto che ‫[ שני‬šēnî] indica
il secondo di una sequenza (cf. Gn 32,19). Ciò crea un gioco di significato
con la coppia mano-potere. Legare un ‫ שני‬alla mano sarebbe come ricevere
il segno di seguace: al «potere (di uscire dal grembo)» viene legato «un
secondo posto». Infine, benché Zārach era di lei (per diritto, fedeltà o
perspicacia), Pārets ha sopraffatto, manifestando la volontà divina.
Spunta qui un motivo teologico: Dio guida i suoi eletti e li fa uscire
primi fra ogni discendenza e potere18. Si sente persino un parallelismo di
intensificazione fra i loro nomi. Il primo sorge, ma il secondo irrompe,
superando pure il posto del primo. L’accenno alla restituzione dei due figli
‘cancellati’ da Dio trova anche un’allusione nel parallelismo dei loro
significati, giocando sempre su causalità umana e divina: Giuda cerca i
primi per sé, e Dio li cancella; poi Giuda riconosce gli ultimi come frutto
del fare divino, e Dio restituisce il potere nella mano dell’eredità eletta.

Bibbia riguarda lo stabilimento della dinastia Davidica (Gn 31,19; 38,12; 1Sm 25,2.7; 2Sm 13,23-27); Cf.
J.C., GEOGHEGAN, «Israelite Sheapshearing and David’s rise to Power», Biblica 87 (2006) 55-63.
14
Cf. E., VIEZEL, «The Influence of Realia on Biblical Depictions of Childbirth», VT 61 (2011), 685-689.
15
Viene espressa anche una certa valenza profetica che si volge alla linea Davidica per quanto il sintagma
dei loro nomi [spuntare l’aurora] segnali l’arrivo messianico (Nm 24,17; Ml 3,20; Mt 2,2; Lc 1,78-79).
16
Ciò lascerebbe intravedere una tenue affinità con uno dei significati di Šelāh [di lei]. Vi si trova poi
una certa allusione dello scarlatto al significato di Edom: rosso (Gn 25,25.30), luogo del clan di Zerach.
17
Non è possibile determinare testualmente se lo scarlatto coincida o meno con uno dei cordoni
[‫ ]ְפִּתיִלים‬tenuti da Tāmār nel pegno (ritenuto simbolo del controllo sulla discendenza). La lessicografia
riporta ‫ְפִּתיִלים‬, spesso associato all’Efod di Es 28 e 39, soprattutto con l’aggettivo ‫[ ְתֵּכֶלת‬blu] ma anche
šānî, (Es 35,25). Si tratterebbe di un filo fatto di lana di capra, secondo l’utilizzo di Nu 15,38 da ‫ִציִצת‬
(nappe) per l’identificazione dell’appartenenza al Popolo. Ciò potrebbe servire da simbolo per identificare
Zārach con il Popolo Eletto. Infatti, il suo nome si trova già tra i discendenti di Esaù (Gn 36,13.17).
18
Simile argomento rinvia a Gn 25,22-23 in cui i gemelli di Rebekah rappresentano due nazioni. Al
secondo posto della nazione di Esaù si trova il nome di Zerach, pure lui nato di incesto.

8
‘Ēr [suscitare, essere sveglio] Zārach [sorgere, l’aurora]
’Ōnān [vigorosità, virilità generativa] Pārets [irrompere, moltiplicarsi]

Dopo la situazione di frustrazione, la successiva restituzione della


discendenza sotto il controllo di Giuda sarebbe accennata anche dalla
prevista riconsegna del pegno nella sua mano (v.26), e dalla nomina dei
gemelli col verbo al m. (vv.29-30)19. L’esito di questo controllo è
confermato dal narratore: «non la conobbe più» (v.26b), poiché una volta
identificata la nuora, egli ha timore davanti a Dio. Giuda considererebbe la
fine dei primi figli come causa dell’essere nati da unione irriverente di fronte a
Dio? Infatti, il divieto di sposare le Cananee era già di norma in famiglia (Gn
24,3; 28,1). Lo sviamento, personificato da ’Ōnān (nominato dalla madre), si
andrà ricuperando con Zārach e Pārets (nominati dal padre). Sebbene Tāmār
fosse probabilmente Cananea, il suo matrimonio non viene mai realizzato.
Le donne straniere rappresentano un pericolo per la discendenza perché
ignorano l’Alleanza. Curiosamente, però, l’atteggiamento di Tāmār attende
il vantaggio dell’Alleanza. Di quest’attesa parla Giuda al culmine di tutta la
narrazione dicendo: «Tu sei giusta, io invece no, per la mia intenzione di
non darti a Šelāh mio figlio» (v.26)20. Queste parole mirano alla tutela della
discendenza. Appunto, Tāmār rimane in un’attesa attiva, e cerca il
compimento della promessa ricevuta, che coincide con quella divina. Giuda
invece sta disteso nella negligenza. La fedeltà alla promessa viene ripagata
da Dio, e la discendenza si moltiplica nelle mani di Tāmār, come pure gli
articoli del pegno (cf. vv.18b.25b). La trascendenza del gesto rinvia poi alla
benedizione di Giacobbe (Gn 49,8-10), che proclama l’obbedienza dei
fratelli alla stirpe di Giuda sino all’arrivo della figura messianica, nominata
‫( שילה‬Shiloh). La vicinanza morfologica con ‫( שלה‬Šelāh) è nota, entrambi
essendo figure di una realtà non ancora realizzata. In ciò, l’attesa per ‫ שלה‬si
pone in paragone con l’attesa del Messia ‫שילה‬, la cui intuizione teologica si
avvera, guadagno dell’atteggiamento di Tāmār. La trascendenza di questo
atteggiamento la mette a capo della stirpe messianica per scelta divina, ma
porta in sé un valore metaforico che deve essere ancora approfondito.

19
HAMILTON, notando il femminile in Peš e Smr, è convinto che la loro nomina è fatta da Tamar o
persino dalla levatrice (vv.29-30), per cui la negligenza rilevata da SPEISER e COTTER (cf. nota 6) non
verrebbe risolta. La presente indagine vede nella nomina al maschile un motivo teologico suggerito dal TM.
V.P. HAMILTON, The Book of Genesis, Chapters 18-50, 451-453.
20
La confessione di Giuda permette di fare un’indagine lessicografica sui sintagmi ‫ ַﬠל־ֵכּן‬e ‫ִכּי־ַﬠל־ֵכּן‬
all’interno del libro della Genesi per rivelarne la sfumatura propria. Al-kēn (Gn 2,24; 10,9; 11,9; 16,14;
19,22; 20,6; 21,31; 25,30; 26,33; 29,34.35; 30,6; 31,48; 32,32; 33,17; 42,21; 47,22; 50,11) è utilizzato
come spiegazione esterna o epesegetico di un determinato termine, meglio tradotto «per questa ragione».
Kî-al-kēn (Gn 18,5; 19,8; 33,10; 38,26) tende ad una spiegazione più interna, meglio tradotto «con questo
scopo» oppure «perché con questo scopo», per cui il v. in esame può essere tradotto con l’«intenzione» di
Giuda che confessa, ancora per ellisse (di contrasto), di «non essere giustificata».

9
3. Termini Chiave
3.1 Il gioco di abbigliamento tra ‫ ִבְּגֵדי ַאְלְמנוָּתהּ‬e ‫( ְצִﬠיָפהּ‬vv.14a.19)
Le sopramenzionate vesti di vedovanza [‫ ]ִבּ ְגֵדי ַאְלְמנוָּתהּ‬che Tāmār indossa,
tornata alla casa paterna, sono innanzitutto segno di uno stato sociale di
disgrazia. Queste solitamente mostrano esteriormente un dolore interiore,
presumibilmente verso il marito mancato, sebbene nel caso di Tāmār i mariti
non le dimostrassero neanche legami amorevoli. Perciò, nel contesto, tali
vesti dicono pure la disgrazia del ripudio pronunciato da Giuda, anzi, sono
simbolo di sottomissione al suo parere (v11a) mentre lei ci teneva, invece, di
essere promessa sposa. Anche il vicinato la considera in questo modo nel
momento in cui arriva la notizia della sua gravidanza (v.24)21. Così, domina,
in Tāmār, la speranza di essere promessa sposa (v.14c), espressa dalla facilità
con cui lei cambia «di abito», coprendosi [‫ ]ַוְתַּכס‬con un velo [‫( ]ְצִﬠיָפהּ‬v.14a).
Che cosa significa coprirsi con un velo? Infatti, la parola che indica
questo specifico tipo di velo compare soltanto qui e in Gn 24,65 dove il suo
significato è ben altro che l’abito di una meretrice.
«[Rebekah] disse al servo: “Chi è quell’uomo che viene attraverso la
campagna incontro a noi?” Il servo rispose: “È il mio padrone.” Allora ella
prese il velo [‫ ]ַהָצִּﬠיף‬e si coprì [‫]ַוִתְּתָכּס‬.»
In questa scena, Rebekah è nient’altro che la promessa sposa di Isacco la
quale così deve andargli incontro. È da notare che questa scena è stata sopra
menzionata in riferimento al verbo ‫[ ַו ִיָּנֵּחם‬essere consolato] (v.12) che
compare subito dopo per indicare la sua unione con «il padrone» (Gn 24,67).
L’accezione, benché unica, è attendibile, considerando che il suo campo
semantico si combina, nel suo complesso, con la presente scena di incontro
che avviene tra l’altro «sulla via», dandole un senso retrospettivo.
Sembra che qui Tāmār cerchi di presentarsi con le vesti della promessa
sposa per fare una dichiarazione a Giuda, suo padrone, cioè, per rispondere
all’azione di Giuda che, chiudendo il tempo del lutto, sarebbe disposto ad
elargirle il diritto di lasciare la vedovanza. Nonostante ciò, il dinamismo
della narrazione porta il lettore, mediante un gap, a supporre che Tāmār
abbia sempre avuto l’intenzione di presentarsi a Giuda nella falsità, per
ingannarlo. Il fatto, però, è che lo stesso Giuda si propone a lei. Non si tratta
propriamente di un caso forzato di seduzione femminile (cf. Gn 39,7-12;
Prv 7,10-15). Benché lei sia consenziente, sotto la condizione del pegno, il
velo ha un pretesto chiaro, che le corrisponde addirittura come una legittima
possibilità: per decisione di Giuda, lei è simultaneamente vedova e promessa
sposa. Allora, se questo è il significato del velo, Tāmār non sta propriamente

21
Cf. VON RAD, Genesis, 486-487.

10
nella falsità. Il senso del velo, però, viene frainteso. Giuda non la riconosce e
l’ambiguità della scena si allarga nel gioco sul pegno, nel sintagma del
v.17b22. Il traguardo del desiderio di Tāmār di procurarsi un discendente
secondo il proposito del padrone, però, non viene disatteso, anzi, lei si
districa bene nello sfruttare la situazione ambigua.
Che cosa, allora, il narratore vorrebbe suggerire quando riporta il
pensiero di Giuda: «la prese [‫ ]ַיְּחְשֶׁבָה‬per una prostituta perché essa si era
coperta la faccia» (v.15)? Questa frase non starebbe ad indicare la chiara
coincidenza tra l’uso del velo e l’imputazione di Giuda? Forse, non è
detto23. A considerare lessicograficamente l’uso del verbo ‫[ חשׁב‬imputare,
considerare, tramare], si nota come questo più volte indichi un pensiero
sbagliato o frainteso (1Sm 1,13; Gb 19,15; 35,2; Is 53,4), significando
persino un tramare con cattiva coscienza (2Sam 14,13; Sa 35,20; 41,8). A
questo scopo, lo sguardo di Giuda dovrebbe caricarsi di una certa quota di
fantasia bramosa: vede in lei ciò che serve al suo desiderio. Sul dettaglio,
però, il narratore rimane parco, anche se la narrazione rileva la perspicacia
di Tāmār nei confronti di un uomo impetuoso e ambiguo.
Un elemento di inganno mutuo, comunque, c’è in gioco. Il che permette
di ricordare il filo rosso delle intenzioni di Giuda verso Tāmār. Ecco, è
intenzione di Giuda di farla «abitare» da vedova indefinitamente
(‫ ;)ִבּ ְגֵדי ַאְלְמנוָּתהּ‬poi, con l’intenzione di essere consolato, c’è l’iniziativa di
Giuda di stendersi con lei (‫)ְצִﬠיָפהּ‬, anche se a sua insaputa, giudicandola
comunque come una donna senza valore. Forse senza intenzione, lui lascia

22
Il pegno [‫ ]ֵﬠָרֹבון‬è una parola prestata dall’ akkadico, mantenuto pure da LXX (SPEISER, Genesis,
ABC, 298). Un suo sinonimo ‫ חבל‬non viene utilizzato, probabilmente perché connota un atto che opprime
la parte svantaggiata, ma il suo campo semantico rileva diversi elementi coincidenti con lo sfondo
circostanziale della scena (la veste della vedova, la meretrice, il tratto sleale; cf. Dt 24,17; Gb 24,3;
Prv 20,16; 27,13). Riguardo il motivo del controllo sulla discendenza (quale svolta centrale del capitolo),
è da rilevare un legame lessicale che paragona il pegno di Giuda con la discendenza di Giuda. Quindi,
‫ֵﬠָרֹבון‬, dalla radice ‫[ ערב‬rassicurare, garantire, prendere per buono], rileva l’aspetto di equità di fronte a un
debito. Ovvero, il pegno si paragona al debito, e il suo debito con Tāmār riguarda proprio la discendenza
che rappresenta, in senso lato, la sicurezza di vita per entrambi i personaggi. L’accostamento va ancora
oltre. Nel sintagma del v.17b «‫ »ערבון עד שלחך‬si ritrova un’allusione fonetica ai nomi dei figli di Giuda:
‫ ער‬+ ‫‘[ שלהך ;ון‬Ēr con (‫ )ב‬Ôn; tuo Šelāh]. La loro non perfetta coincidenza (manca ‫א‬, scambia ‫ ח‬per ‫)ה‬,
porta a fare un altro gioco sulla traduzione, prendendo la frase con un impf. modale di valore abilitativo:
«Se tu potessi darmi in cambio [‫ ]ערב‬la (tua) potenza virile [‫]און‬, un testimone [‫( ]עד‬mi) avrai inviato»
(cf. vv.24-26). Giuda, rovesciando la sorte di Tāmār (sebbene a sua insaputa), infatti, le dà il controllo
sulla discendenza, facendola concepire dopo la consegna del pegno (esso indica con analessi la discendenza
in modo fonetico, e con prolessi in modo metaforico [cf. nota 24]). Solo sotto la premessa di stipulare il suo
triplice contenuto, lei ammette di essere presa dalla mano di Giuda, ora in senso eufemistico, ma
mantenendo sempre lo scopo originale: la maternità di un erede primogenito per la stirpe di Giuda (v.18).
23
Date le circostanze della scena e la facilità con cui lui consegna le insegne di valore come pegno, è
lecito pensare che Giuda era ubriaco. Mentre i testi biblici non esplicitano altrove l’associazione velo-
prostituta, VON RAD postula, dietro l’imputazione, una diffusa usanza cananea delle donne sposate che si
prestavano agli stranieri dopo aver fatto un voto (Dt 23,19; Os 4,13-14; Prv 7,10-15; VON RAD, 485). Ciò,
però, non porta a dire che Tāmār avrebbe fatto un voto. Un legame ubriachezza-prostituzione in compenso
c’è: Os 4,18: «sviati nell’ubriachezza si sono dati alla prostituzione, amando rifugiarsi nel disonore».

11
nella sua mano tre articoli che maggiormente connotano la sua identità
(v.18). Essi non vengono neppure stimati da lui quanto la propria
reputazione, che invece salvaguarda mascherando il pago dietro l’assistenza
di «un uomo di valore», Chirāh (v.23). È creata la suspense della svolta per
dilatare l’intenzione, ancora ingiustificata, di farla bruciare (v.24c)24. In
questo modo, Giuda deroga sia allo stato di ripudio (che slega la sua autorità
su di lei come paterfamilias) sia alla vedovanza (perché la punizione la
tratterebbe invece da promessa sposa). La svolta improvvisa, però, invece di
restituirle qualcosa, solleva la massima disgrazia e condanna. Lei sarebbe
pure andata al rogo vestita da vedova.
La stima per la reputazione di Giuda viene qui dimostrata proprio da
Tāmār, che invece di incriminarlo come complice, preferisce rischiare la vita
in un ulteriore fraintendimento, insieme ai bimbi in grembo, quale frutto
nascosto della sua sottomissione sempre e comunque al padrone. Viene
espressa, al di là dell’ambiguità, la fede di Tāmār nella discendenza promessa.
È una fede per cui lei è disposta a morire, una fede che non viene invece
conservata da Giuda. Ecco il senso delle parole di Giuda: «Tu sei giusta
mentre io no…» (v.26). In ciò si trova il simbolismo del nome di Tāmār: lei si
dimostra una donna di alto valore, dritta e forte nell’aridità, come la palma.
Questo filo rosso ha il suo motivo nella radice ‫ בגד‬che da sostantivo indica
un abito o una veste, ma come verbo significa trattare spietatamente,
tradire, essere disonesto o sleale. Su questo gioco, ‫ ִבּ ְגֵדי ַאְלְמנוָּתהּ‬assume un
doppio senso, indicando tutte le ingiustizie subite da Tāmār mediante lo
status di vedova. La situazione corrispondente è cantata da Lm 1,1-2:
«Come sta solitaria! […] è divenuta come una vedova [‫ ]…[ ]ְכַּאְלָמָנה‬non c’è
per lei un consolatore [‫ ]ְמַנֵחם‬fra tutti i suoi amanti. Tutti i suoi amici l’hanno
tradita [‫]ָכּל־ֵרֶﬠיָה ָבְּגדוּ ָבהּ‬, le sono divenuti nemici.»
Per contrasto, il contesto che corrisponde al velo [‫ ]ְצִﬠיָפהּ‬indica il «lasciare
da parte» [‫ ]ֵמָﬠֶליָה‬quello status (v.14a) per assumere il posto della promessa
sposa davanti al padrone. Lei, malgrado non venga riconosciuta a causa del
velo, riesce, tuttavia, con il parere del padrone, ad ottenere ciò che si aspetta.

24
Alcuni targumîm (esp. Neofiti) rileggono in questo triplice pegno tre testimoni (quelli di Dn 3) che
santificano il Nome di Dio passando attraverso il fuoco. Questa rilettura gioca con la soppressione di un ‫א‬
dalla parola ‫[ מוֵּצאת‬mentre (la) portavano fuori] (v.25a) per farla diventare ‫[ מוַצּת‬mentre la incendiarono].
Cioè, lei insieme ai due bimbi in grembo sono i tre testimoni che passano attraverso il fuoco, disposti a
dare la propria vita piuttosto che compromettere la reputazione del paterfamilias. In ciò, la ragione
teologica per cui lei viene dichiarata giusta [‫( ]צדיקין‬v.26), rivela appunto la mano divina che protegge la
discendenza eletta nonostante il potere umano; cf. E.M., MENN, «Santification of the (Divine) Name:
Targum Neotiti’s ‘Translation’ of Genesis 38.25-26», in The Function of Scripture in Early Jewish and
Christian Tradition, LNTS (1998), 206-240. Il motivo di questa lezione su come dare la propria vita
diventa poi chiave ermeneutica nella trasformazione di Giuda proprio perché egli offrirà la propria vita
come pegno per non compromettere il paterfamilias, Giacobbe (cf. Gn 44,33-34).

12
Altrove, la narrazione del Ciclo di Giuseppe fa uso del motivo della
ricezione o deposizione del vestimento, la quale comporta un cambiamento
di status25. Tuttavia, su questa capacità di resa, curiosamente, Tāmār si
dimostra protagonista ed eroina nel rimediare alla propria situazione,
opponendosi alla nota impotenza della vedova. A questa capacità poi viene
aggiunto quanto avvenuto dopo aver ricevuto il pegno, quale simbolo della
presa di controllo sulla discendenza. Mentre una vedova non incide più
sulla linea familiare, Tāmār praticamente la rifà da capo, dimostrando una
‘raddoppiata’ capacità generatrice. Tale fecondità, però, è da rendere a Dio,
collegando la svolta, perciò, al motivo della divina causalità che soggiace
al grande percorso di rivelazione e riconoscimento che muove la famiglia
di Giacobbe, in mezzo a tratti storti, verso la riconciliazione.
In conclusione, Tāmār è pure diversa da tutte le altre madri della casa di
Giacobbe perché non nomina i propri figli. Anzi, mentre le altre donne
hanno dato i nomi tra liti e diverbi con favoritismi, atteggiamenti che si
sono poi propagati nei rapporti fraterni, creando proprio quella situazione
in cui si inserisce e a cui risponde Genesi 38, invece Tāmār risponde alla
sfida del non riconoscimento dell’eredità, «sotto velo», mettendosi alla
‫[ ֶפַתח ֵﬠיַנ ִים‬entrata di ‘Ênayim = apertura degli occhi] (v14b). Quest’eredità,
progetto di Dio, rischia di fallire per la discordia fraterna e il
«distendimento» di Giuda. Tāmār non solo porta a riconoscere la mano
velata di Dio in mezzo alle ingiustizie [‫ ]בגדי‬da lei ‘indossate’, ma anche,
mostra altruismo nell’offrire la propria vita per proteggere la vita del
paterfamilias, restituendogli quanto gli ricorda la propria identità, un gesto
di esempio, teso a far sì che egli ristabilisca la tutela della discendenza
promessa affidatagli. Così, Giuda avrebbe imparato da lei ad offrire la
propria vita per riconciliare la famiglia (Gn 44,33-34), meritando, quindi,
nella benedizione paterna, l’eredità del ‘giusto’ che porta dietro di sé il
governo del Popolo dell’Alleanza, l’annuncio della stirpe messianica
(Gn 49,8-10). Di questa stirpe Tāmār è madre, pur rimanendo ormai
definitivamente una promessa sposa, osservante dell’Alleanza che l’ha
salvata dal destino del rogo. Anche lei ora attende l’arrivo di ‫שילה‬,
divenendo metafora imparentata, da grande distanza, alla figura della
madre del Messia (cf. Mt 1,3).

25
Cf. V.H., MATTHEWS, «The Anthropology of Clothing in the Joseph Narrative», JSOT 65 (1995) 25-36.

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BIBLIOGRAFIA

ARBEITMAN, Y.L., «Tamar’s Name or is It? (Gen 38)», ZAW 112 (2000), 341-355.
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JSOT 65 (1995) 25-36.
MENN, E.M., «Santification of the (Divine) Name: Targum Neotiti’s
‘Translation’ of Genesis 38.25-26», in The Function of Scripture in Early
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VIEZEL, E., «The Influence of Realia on Biblical Depictions of Childbirth», VT 61
(2011), 685-689.

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