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Un banchetto letterario: la
letteratura italiana e cucina
Classe 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA IISS MAJORANA
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Un banchetto letterario: la letteratura italiana e Classe 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA
cucina IISS MAJORANA
Presentazione progetto
Destinatari
Metodologia
Nella letteratura italiana la centralità del cibo è stata evidente fin dall'inizio
e ribadita in ogni passaggio d'epoca. Basti pensare al rilievo reale e
metaforico del cibo nella Commedia e nel Convivio di Dante; nelle novelle
del Decameron di Boccaccio; nelle Intercenali di Alberti; nel Cortegiano di
Castiglione e nel Galateo di Della Casa; nei Promessi Sposi di Manzoni e
nelle novelle di Verga; nelle opere di Gadda e di Calvino; nel Ventre di Napoli
di Matilde Serao, in Fame e in Nascita e morte della massaia di Paola Masino.
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secondo grado (licei, istituti tecnici e istituti professionali), selezionate su
tutto il territorio nazionale, guidato da un gruppo di italianisti di scuola e
università (del quale fa parte anche la sottoscritta) (www.compita.it).
Infine, l'analisi dei testi, prima ricercati con l'aiuto del docente, sarà
finalizzata alla riappropriazione del testo in una forma di riscrittura
personale, ovvero nella rielaborazione di ricette di cucina e nella produzione
di saggi su usi e costumi dell'arte culinaria nella storia italiana, raccolti in un
e-book, utilizzando la piattaforma Epubeditor, fruibile da tutta la comunità
scolastica e non solo. Il lavoro finale sarà presentato al comitato scientifico
di COMPITA.
Sviluppare:
Competenze letterario-interpretative
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Lezione dialogata
Il tutto tenendo ben presente i principi base della centralità del testo, del
lettore e del procedimento euristico
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TESTI DA ANALIZZARE
Speculum perfectionis
Verri, Il caffè
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IL "Convivio" di Dante
Convivio I, 1 (1-19)
1. Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini
naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere
[ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è
inclinabile alla sua propia perfezione; onde, acciò che la scienza è
ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima
felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.
2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per
diverse cagioni, che dentro all'uomo e di fuori da esso lui rimovono
dall'abito di scienza.
3. Dentro dall'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno
dalla parte del corpo, l'altro dalla parte dell'anima. Dalla parte del
corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla
ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Dalla parte
dell'anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di
viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni
cosa tiene a vile.
4. Di fuori dall'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una
delle quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la
cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli
uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non
possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita,
che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente
studiosa lontano.
5. Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima
dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di
perdono degne; le due altre, avegna che l'una più, sono degne di
biasimo e d'abominazione.
6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi
rimangono quelli che all'abito da tutti desiderato possano pervenire, e
innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono
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affamati.
7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane
delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno
comune cibo!
8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è
amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama,
coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia
sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e
ghiande se[n] gire mangiando.
9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente
coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e
sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che
di sopra è nominata.
10. E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito
della pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo
di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che
dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a
poco a poco ricolgo, misericordievolemente mosso, non me
dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale
alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti
maggiormente vogliosi.
11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un
generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane
ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non
potrebbe essere mangiata. Ed ha questo convivio di quello
pane degno, co[n] tale vivanda qual io intendo indarno [non]
essere ministrata.
12. E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi
disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno
assettatore de' vizii, perché lo stomaco suo è pieno d'omori
venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.
13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella
umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti
s'assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia
si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere: e quelli e
questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e
gustare e patire.
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14. La vivanda di questo convivio saràe di quattordici maniere
ordinata, cioè [di] quattordici canzoni sì d'amor come di vertù
materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna
oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro
bontade era in grado.
15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la
quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.
16. E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia,
più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a
quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa
quella; veggendo sì come ragionevolemente quella fervida e
passionata, questa temperata e virile essere conviene.
17. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per
che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci
e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo
libro, sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all'entrata
della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata.
18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che
di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle
intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una
ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati.
19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto
conviene alla sua grida, che non al mio volere ma alla mia facultade
imputino ogni difetto: però che la mia voglia di compita e cara
liberalitate è qui seguace.
Convivio I, 13 (11-12)
12. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me
ne soverchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo
quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in
tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce.
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Il Convivio
È un'opera mista di prosa e versi di argomento filosofico-dottrinale, scritta
da Dante in un periodo agli inizi del suo esilio (probabilmente intorno al
1304-1308): il progetto originale dell'opera prevedeva quindici trattati in
prosa volgare, uno introduttivo e altri quattordici di commento ad
altrettante canzoni dottrinali composte dall'autore negli anni precedenti.
Dante non portò a termine l'opera e la lasciò incompiuta dopo il IV Trattato,
probabilmente per dedicarsi alla composizione della Commedia.
Il titolo significa letteralmente «banchetto» e allude alla volontà dell'autore
di imbandire ai lettori la sapienza attraverso delle vivande rappresentate
dalle canzoni, mentre il pane è costituito dal commento in prosa.
L'ambizione di Dante era quella di creare una vasta opera enciclopedica, in
cui affrontare tutti gli argomenti dello scibile e dimostrare così il proprio
sapere e la propria maestria letteraria per riscattare la sua condizione di
esule.
L'opera nasce dagli studi filosofici cui Dante si era dedicato negli anni
successivi alla morte di Beatrice, come egli stesso precisa nel Trattato
introduttivo (in cui, tra l'altro, reinterpreta in chiave allegorica la donna
gentile di cui aveva parlato nella Vita nuova, dichiarando che essa altro non
era che allegoria della filosofia). Dante afferma nel I Trattato di essere ai
piedi della mensa dei veri sapienti, dalla quale raccoglie le briciole, per cui è
sua intenzione condividere la ricchezza del sapere con gli altri lettori
comunicando le sue scoperte: da qui la scelta del volgare come lingua
dell'opera, dal momento che il pubblico cui si rivolge è italiano, colto ma non
specialistico, formato da alta borghesia e piccola nobiltà, quindi non
necessariamente in grado di intendere il latino.
II Trattato
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Boezio), quindi reinterpreta la donna gentile di cui si parlava nei capp. XXXV-
XXXIX della Vita nuova come allegoria della filosofia, per cui la materia
narrativa del libello giovanile viene rivisitata e attualizzata. Su questa base
egli svolge il commento e l'interpretazione della canzone, tessendo un
appassionato elogio della filosofia e dello studio della materia dottrinale.
III Trattato
IV Trattato
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(anche se nell'opera si avverte una certa sopravvalutazione della
speculazione filosofica e della ragione umana a scapito della teologia: ciò è
stato interpretato come causa del cosiddetto «traviamento» morale di
Dante, rimproveratogli da Beatrice nel Canto XXX del Purgatorio e
all'origine, forse, dello smarrimento nella selva oscura). Un certo debito di
Dante è innegabile anche verso la tradizione medievale della letteratura
didascalica, a cominciare dalle opere di Brunetto Latini come Trésor (in
lingua d'oïl) e Tesoretto, nonché alle razos dei poeti provenzali con cui essi
spiegavano il significato delle loro poesie e le commentavano.
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Ingredienti:
1 kg di gioia
1 kg di emozione
1 kg di creatività
1 kg di fantasia
1 kg di ricerca
1 kg di analisi
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500 gr di digitale
1 kg di libri
infinite parole
1 kg di competenze
Un pizzico di follia
Preparazione:
Con carta e penna e col digitale frulla il tutto e spalma il composto sui libri.
Il tutto va cotto sul tuo cuore e nella tua testa per l'eternità.
La conoscenza sarà pronta ogni volta che testa e cuore saranno disposti ad
accoglierla.
Buon appetito
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Erisìttone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.
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OMO, e tutto ciò a causa del profumo dei frutti che pendono dall'albero e
dell'acqua, che producono quell'effetto in modo incomprensibile all'uomo.
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golóso (ant. gulóso) agg. [dal lat. gulosus, der. di gula «gola»]. ጀ1. a.
Ghiotto, avido di cibi raffinati e ricercati o in genere di determinati cibi:
essere g. di dolci, di frutta, di ostriche. Più spesso, usato assol., che ha il
vizio della gola: è molto g.; non sono affatto g.; anche sostantivato: i g.
sono puniti da Dante nel 2° cerchio dell'Inferno. b. fig. Avido, desideroso,
bramoso: esser g. di piaceri, di soldi; un pubblico g. di notizie scandalistiche;
riferito agli occhi e allo sguardo, che rivela concupiscenza, desiderio
sensuale: le rivolse uno sguardo g.; la guardava con occhi g.; con altro sign.,
nel linguaggio poet., riferito agli occhi, bramosi di vedere: sempre con li
occhi gulosi si mira innanzi (Dante). 2. estens. Di cibo, che stuzzica la gola
(meno com., in questo senso, di gustoso, ghiotto, appetitoso): piatti g.; un g.
manicaretto. ◆ Dim. golosino, golosétto; accr. golosóne (f. -a); pegg.
golosàccio (gli ultimi due, usati di solito come sost.). ◆ Avv. golosaménte,
con golosità, con avidità: mangiava golosamente la sua porzione di dolce;
seguiva golosamente tutti i particolari della vicenda.
L'aggettivo rimanda ad una certa voluttà nel ricercare i cibi più raffinati. Si
collega anche al termine leccornìa: questa parola significa ᠀挀椀戀漀 squisito e
raffinato' e deriva da lecconerìa, cioè cibo da leccone, che anticamente
significava ‘goloso'.
Nel Convivio (III, VII 17), Dante accenna al vizio della gola, annoverandolo
tra i vizii consuetudinarii (sì come la intemperanza, e massimamente del
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vino), distinti dai vizi connaturali, cioè da quelli a li quali naturalmente
l'uomo è disposto (sì come certi per complessione collerica sono ad ira
disposti).
Nel Purgatorio esso è punito nel sesto dei sette gironi del sacro monte (Pg
XXII 115 ss., XXIII, XXIV), dopo l'avarizia e prodigalità e prima della lussuria,
secondo uno schema progressivo di minore gravità: tra quei peccati, cioè,
generati dall'erroneo indirizzarsi dell'amore d'animo, con troppo... di vigore
(Pg XVII 96), con ordine corrotto (v. 126) in quanto corrompe l'ordine
naturale al bene.
Nel Purgatorio le anime di coloro che assecondarono i piaceri della gola oltra
misura (Pg XXIII 65), purgano il loro peccato soffrendo gli stimoli della fame
e della sete (il contrapasso è, in questo caso, evidente), resi più acuti dalla
vista di due alberi posti alle due estremità del girone, pieni di pomi odorosi
(a odorar soavi e buoni, XXII 132), e di una sorgente di acqua limpida (un
liquor chiaro, v. 137), che bagna e rende fragranti con i suoi spruzzi le foglie
di uno degli alberi (Di bere e di mangiar n'accende cura / l'odor ch'esce del
pomo e de lo sprazzo / che si distende su per sua verdura, XXIII 67-69). Il
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tormento per le anime che girano incessantemente si rinnova di continuo (E
non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena, vv. 70-
71). Il loro aspetto è deformato dall'estrema magrezza: profonde e scure
occhiaie, pallore sul volto, pelle a contatto diretto con le ossa dello scheletro
(Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, / palida ne la faccia, e tanto scema
[" scarna "] / che da l'ossa la pelle s'informava, vv. 22-24); le occhiaie
somigliano ad anella santa gemme, tanto gli occhi sono privi di luce, quasi
invisibili e infossati nel profondo de la testa (vv. 31 e 40), e chi nel viso de li
uomini legge ᬀ omo ' / ben avria quivi conosciuta l'emme (vv. 32-33: cioè le
due occhiaie simili a due ᬀ O ', e la linea dei sopraccigli e del naso, simile a
una ᬀ M ', messa in rilievo dalla magrezza). Ai due estremi del girone, presso
i due alberi odorosi e carichi di pomi, si ode una voce che indica
rispettivamente ᬀ esempi ' di temperanza e di intemperanza (presso il primo:
l'episodio evangelico, narrato in Ioann. 2, 11, della vergine Maria, che alle
nozze di Canaan spinse Gesù a compiere il miracolo di mutare l'acqua in
vino, non per sua golosità, ma perché fosser le nozze orrevoli e intere,
conformi alle buone usanze e complete [XXII 143]; la credenza, affermata
da Valerio Massimo [II I 3], citato poi da s. Tommaso in Sum. theol. II II 149
4, secondo cui le antiche donne romane bevevano solo acqua; il racconto
biblico, in Dan. 1, 3-20, secondo cui il profeta Daniele rifiutò i cibi raffinati
della mensa del re Nabuccodonosor, accontentandosi del cibo semplice dei
poveri, e ricevendo, quale ricompensa, da Dio le doti del sapiente e del
saggio; la mitica leggenda dei tempi dell'età dell'oro, secondo cui gli uomini
allora soddisfacevano ai bisogni del sostentamento con mezzi semplici,
come le ghiande e l'acqua di ruscello; l'episodio evangelico, narrato in Matt.
3, 4 e in Marc. 1, 6, secondo cui s. Giovanni Battista, ritiratosi nel deserto, si
nutrì di miele e di locuste. Presso il secondo: l'episodio, narrato da Ovidio in
Met. XXII 210 ss., dei centauri, che, ubriacatisi durante le nozze di Piritoo,
aggredirono la sposa e le altre donne presenti, generando una mischia
furibonda, in cui molti di essi persero la vita per mano di Piritoo e di Teseo;
l'episodio biblico del libro dei Giud. 6, 11 e 7, 25, secondo cui Gedeone,
dovendo muovere contro i Madianiti, non volle tra le fila dei suoi soldati
quegli Ebrei che presso la fonte di Arad mostrarono troppo slancio e
mollezza nel voler soddisfare la sete; e oltre a queste, altre colpe de la gola
/ seguite già da miseri guadagni, XXIV 128-129). Inoltre la voce divina
presso i due alberi fa precedere l'elenco degli ᬀ esempi ' da un
ammonimento (presso il primo: Di questo cibo avrete caro, " mancanza "
[XXII 141], che ricorda il divieto fatto da Dio ad Adamo ed Eva di cibarsi dei
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pomi dell'albero della scienza del bene e del male, in Gen. 2, 17; presso il
secondo: Trapassate oltre sanza farvi presso: / legno è più sù che fu morso
da Eva, / e questa pianta si levò da esso [Pg XXIV 115-117], con più preciso
riferimento al lignum del racconto biblico, che si trova più sù, in cima alla
montagna del Purgatorio, nel Paradiso terrestre). Infine, le anime penitenti,
ogni volta che giungono vicino al secondo albero, si fermano qualche istante
gridando e alzando le mani verso le foglie, quasi bramosi fantolini e vani (v.
108), per poi riprendere, delusi, il loro andare, accompagnato dal canto "
Labïa mëa Domine " (versetto 17 del Miserere; Pg XXIII 11).
http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Ricette_da_fiaba.html
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Speculum perfectionis
112. DEL CIBO E DEL PANNO CHE, PRESSO A MORIRE, EGLI DESIDERAVA
1812
113. Stava il Santo, infermo dell'ultima malattia che lo portò a morte, nel
luogo di Santa Maria degli Angeli. Un giorno chiamò i suoi compagni e
disse loro: « Voi sapete come Donna Jacopa de Settesoli è vivamente
devota a me e al nostro Ordine. Credo perciò ch'ella considererà
grande favore e consolazione se la informiamo del mio stato.
Domandatele specialmente che mi faccia avere del panno monacale
color cenere e, insieme, mi mandi anche di quel dolce che a Roma
preparò per me più volte». I romani chiamano quel dolce: mostaccioli,
ed è fatto di mandorle, zucchero e altri ingredienti. Quella nobildonna
era molto religiosa, una delle vedove più nobili e ricche di Roma. Per i
meriti e la predicazione di Francesco, aveva ricevuto dal Signore la
grazia di emulare, nelle lacrime e nel fervore, nell'amore e
nell'appassionata dedizione a Cristo, Maria Maddalena. Scrissero
dunque una lettera come aveva detto il Santo; e un frate andava
cercando un compagno che recapitasse alla nobildonna la lettera,
quando fu picchiato alla porta del luogo. Un frate aprì, ed ecco, lì in
persona, Donna Jacopa, venuta con gran fretta a visitare Francesco. Un
frate la riconobbe e si recò immediatamente da Francesco,
annunziandogli con grande gioia che Donna Jacopa era venuta da
Roma con suo figlio e molto seguito a fargli visita. Soggiunse: « Cosa
facciamo, padre? Possiamo lasciarla entrare da te? ». Disse questo,
perché per volontà di Francesco era stato deciso che in quel luogo, per
preservarne il decoro e il raccoglimento, non vi entrasse alcuna donna.
Ma il Santo disse: « Tale regola non va osservata per questa
nobildonna, che una grande fede e devozione ha fatto accorrere qui da
tanto lontano ». Così Donna Jacopa entrò dal beato Francesco,
scoppiando in lacrime davanti a lui. E, cosa mirabile, portava con sé il
panno mortuario, color cenere, per fare una tonaca, e le altre cose
contenute nella lettera, come se l'avesse ricevuta in antecedenza. La
signora disse ai frati: « Fratelli miei, mentre pregavo ebbi questa
ispirazione:--Va' a visitare il tuo padre Francesco; affrettati, non
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indugiare; ché, tardando, non lo troveresti più vivo. E portagli il tale
panno per la tonaca e tali altre cose, per fargli quel dolce. Inoltre, porta
con te gran quantità di cera per farne delle candele, e anche
dell'incenso ---». Questo, tranne che l'incenso, era annotato nella
lettera che si stava per recapitarle. E così avvenne che Colui, il quale
ispirò ai re Magi di andare con doni a onorare il Figlio suo nel giorno
della sua nascita, ispirò anche a quella nobile e santa signora di recarsi
con doni a onorare il suo dilettissimo servo nei giorni della sua morte, o
meglio della sua vera nascita. Preparò quella signora il cibo che il Santo
desiderava mangiare, ma egli ne mangiò ben poco, perché sempre più
gli mancavano le forze e si avvicinava alla morte. Fece fare anche
molte candele che, dopo la morte del Santo, ardessero intorno alla sua
salma; e con il panno, i frati confezionarono la tonaca con la quale
venne sepolto. Francesco stesso ordinò ai frati di cucirgli del sacco
sulla veste che portava, in segno ed esempio di umiltà e di sovrana
povertà. E in quella settimana in cui era venuta Donna Jacopa, il nostro
santissimo padre migrò al Signore.
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PANE
inebria le narici.
scioglie le papille.
http://www.storico.org/storia_societa/pane.html
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definizione di maniera che forse non va intesa in senso spregiativo visto che
era usata talvolta anche per le composizioni latine. La raccolta non ha un
vero e proprio schema narrativo ed è priva di qualunque cornice in prosa,
distaccandosi così dai modelli precedenti della Vita nuovae del Convivio, e
se il tema centrale è la storia tormentata dell'amore di Petrarca per Laura
non mancano temi d'occasione, come ringraziamenti ad amici e conoscenti
o rime encomiastiche per i potenti protettori del poeta, così come liriche di
argomento politico (specie le canzoni Spirto gentil e Italia mia) e sonetti di
polemica contro la corruzione della Curia papale di Avignone, detta "avara
Babilonia". L'opera comprende 366 poesie tra cui 317 sonetti, 29 canzoni,
9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, che si succedono apparentemente
prive di uno schema anche se, come detto, il libro racconta le fasi
dell'amore per Laura e dunque c'è un ordine cronologico; il numero delle
poesie rispecchia quello dei giorni di un anno bisestile e la raccolta si può
dividere in due parti (Rime in vita di Madonna Laura e Rime in morte di
Madonna Laura), anche se tale suddivisione si deduce dal tema delle poesie
e non è resa esplicita dall'autore (la canzone 264 è la prima rima in cui si
accenna in modo allusivo alla morte della donna, benché il fatto venga
dichiarato solo nel sonetto 267). L'ordine delle liriche non rispetta
comunque quello della composizione, in quanto il sonetto di apertura è stato
composto intorno al 1350 e costituisce una sorta di bilancio a posteriori
della vita amorosa del poeta, quindi la struttura del Canzoniere è frutto di
una rielaborazione finale dell'autore cui, probabilmente, è giunto solo negli
ultimi anni della sua vita. Dell'opera esiste l'autografo di Petrarca e
l'edizione critica si basa principalmente sul Codice Vaticano Latino 3196,
scritto in gran parte di suo pugno e che contiene anche le annotazioni a
margine e le correzioni apportate dal poeta, consentendo perciò di
ricostruire con buona approssimazione la "storia editoriale" di quest'opera
che, almeno sotto questo aspetto, è già decisamente moderna.
Il sonetto n. 9 paragona l'effetto del sole sulla terra e gli effetti degli occhi di
Laura su Petrarca. Il sole fa nascere frutti preziosi, come tuberi, asparagi,
tartufi, soprattutto in pirimavera, quando la terra si risveglia dinanzi ai suoi
raggi ed è quasi ingravidata dal seme della luce. I frutti preziosi sono pronti
per essere colti e gustati.
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Forse non avviene la stessa cosa in amore: i raggi dagli occhi di Laura
producono pensieri, atti e parole d'amore in Petrarca, ma questi non sa
come questa donna operi in amore, perché non vi è mai gioia e
corrispondenza d'amore.
L'amore è decisamente più difficile da realizzarsi rispetto alla nascita di un
frutto della terra.
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PER DECORARE:
PREPARAZIONE
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aggiungiamo il latte caldo alla crema, mescoliamo bene e riportiamo sul
fuoco per 3- 4 minuti sempre mescolando. Quando la crema si addensa la
possiamo versare sulla base.
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Boccaccio, Decameron
Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor
ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo
incominciò:
Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia
novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo
con la sua, ma io me ne 'ngegnerò.
Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata
abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino,
uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri
dipintori usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli
molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò
che de'modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era
similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in
ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del
Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose
di voler prender diletto de'fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere
alcuna nuova cosa. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San
Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl'intagli del
tabernacolo il quale è sopra l'altare della detta chiesa, non molto tempo
davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e
informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme
s'accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non
vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle
quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e
gran lapidario.
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A' quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in
piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte
piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin
domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che
le più si trovavano in Berlinzone, terra de'Baschi, in una contrada che si
chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e
avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna
tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan
genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e
cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più
ne pigliava più se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di
vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro
gocciol d'acqua.
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legare in anella, prima che elle si forassero, e portassele al soldano,
n'avrebbe ciò che volesse. L'altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari
appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque
persona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona
veduto dove non è.
Allora Calandrin disse: - Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si
truova?
A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino: - Di che grossezza è questa pietra? O che colore è il suo?
Rispose Maso: - Ella è di varie grossezze, ché alcuna n'è più e alcuna meno,
ma tutte son di colore quasi come nero.
Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere
altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di voler cercare di questa
pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di
Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di
costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n'andassero a
cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli.
Ultimamente, essendo già l'ora della nona passata, ricordandosi egli che
essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo
fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n'andò a
costoro, e chiamatigli, così disse loro: - Compagni, quando voi vogliate
credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze, per ciò che io
ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la
qual chi la porta sopra non è veduto da niun'altra persona; per che a me
parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v'andasse,
v'andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco;
e trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela
nella scarsella e andare alle tavole de'cambiatori, le quali sapete che stanno
sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno
ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a
schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.
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che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza
star più.
- Or ben, - disse Bruno - come è ella fatta?
Calandrin disse: - Egli ne son d'ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a
me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere,
tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo,
andiamo.
A cui Brun disse: - Or t'aspetta; - e volto a Buffalmacco disse: - A me pare
che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò
che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per
che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che
il sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse
cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si
potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi
altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto
per l'ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover
fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di
festa, che non vi sarà persona che ci vegga.
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accordò, e
ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a
cercar di questa pietra; ma sopra ogn'altra cosa gli pregò Calandrino che
essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò
che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che
udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che così
era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a
fare ordinarono fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul
far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel
Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando.
Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or
là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella
ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando
una e quando un'altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via
andato, che egli il seno se n'ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della
gonnella, che all'analda non era, e faccendo di quegli ampio greé, e
similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di
pietre empiè.
Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del
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mangiare s'avvicinava, secondo l'ordine da sé posto, disse Bruno a
Buffalmacco: - Calandrino dove è?
Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là
riguardando, rispose: - Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi.
Disse Bruno: - Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli è ora a
casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d'andar cercando le pietre
nere giù per lo Mugnone.
- Deh come egli ha ben fatto, - disse allora Buffalmacco - d'averci beffati e
lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi!
chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse
trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?
Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli
fosse venuta e che per la virtù d'essa coloro, ancor che lor fosse presente,
nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro
alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò
a venire.
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: - Noi che faremo? Ché non ce ne
andiam noi?
A cui Bruno rispose: - Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non
me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina,
io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse
un mese di questa beffa - ; e il dir le parole e l'aprirsi e '1 dar del ciotto nel
calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il
piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in mano uno de'ciottoli che raccolti avea, disse a
Bruno: - Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a
Calandrino! - e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran
percossa. E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su
per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in
terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie
de'gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di
non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.
Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto
alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre
Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece
motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era
ciascuno.
Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua.
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Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e
valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga
dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: - Mai, frate, il
diavol ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare.
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di
dolore cominciò a gridare: - Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m'hai
diserto; ma in fè di Dio io te ne pagherò - ; e salito in una sua saletta e quivi
scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e
presala per le treccie la si gittò a'piedi, e quivi, quanto egli poté menar le
braccia e'piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza
lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa
valendole il chieder mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi che co'guardiani della porta ebbero alquanto riso,
con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e
giunti a piè dell'uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie
dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino
tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui
dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro
la sala piena di pietre, e nell'un de'canti la donna scapigliata, stracciata,
tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte
Calandrino scinto e ansando a guisa d'uom lasso sedersi.
Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: - Che è questo, Calandrino?
Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? - E oltre a questo
soggiunsero: - E monna Tessa che ha? E'par che tu l'abbi battuta; che
novelle son queste?
Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la
donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva
avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla
risposta. Per che soprastando, Buffalmacco ricominciò: - Calandrino, se tu
aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi
sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a
diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che
noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai
mai.
A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: - Compagni, non vi turbate,
l'opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella
pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di
me domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece braccia; e
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veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi, e
continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto.
E, cominciandosi dall'un de'capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto
e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci
gliel'avessero, e poi seguitò: - E dicovi che, entrando alla porta con tutte
queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete
quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que'guardiani a volere ogni cosa
vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li
quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola
mi dicesse né mezza, sì come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto
qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed
ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù
ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze,
sono rimaso il più sventurato; e per questo l'ho tanto battuta quant'io ho
potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego
le veni; che maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi venne in
questa casa!
E raccesosi nell'ira, si voleva levar. per tornare a batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi
forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran
voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per
battere un'altra volta la moglie, levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo
di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine
facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si
guardasse d'apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli
aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch'egli
aveva in animo d'ingannare i suoi compagni, a'quali, come s'avvedeva
d'averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con
essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua
trascutata domanda.
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Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi,
o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna
apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in
Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il
qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.
E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non
conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come
che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, sì come molto
avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti
de'futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né più vili luoghi
delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori
bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la
bella camera non avrebbe. E così le due ministre del mondo spesso le lor
cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più vili, acciò che
di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore. Il che
quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto
rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta
contata, che sua moglie fu, m'ha tornata nella memoria, mi piace in una
novelletta assai piccola dimostrarvi.
Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina
fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per
certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli
con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse
cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni
mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo
forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la
fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna,
che egli n'era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra
abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose
sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel
contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar
messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò
che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma
avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli
pareva onesta cosa il presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il
quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto
bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più
tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli
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avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva
davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e
un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due
bicchieri che parevano d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi
passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber
sì saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a'
morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: -
Chente è, Cisti? è buono? -
Cisti, levato prestamente in piè, rispose: - Messer sì, ma quanto non vi
potre' io dare a intendere, se voi non assaggiaste -.
Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il
saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli
ambasciadori sorridendo disse: - Signori, egli è buono che noi assaggiamo
del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne
penteremo -; e con loro insieme se n'andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò
che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano
innanzi, disse: - Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a
me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non
aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!
E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire
un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer
Geri e a' compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran
tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli
ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber
messer Geri. A' quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece
un magnifico convito al quale invitò una parte de' più orrevoli cittadini, e
fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose
adunque messer Geri a uno de' suoi famigliari che per un fiasco andasse del
vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino,
tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: - Figliuolo, messer Geri
non ti manda a me. -
Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere,
tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: - Tornavi e
digli che sì fo: e se egli più così ti risponde, domandalo a cui io ti mando. -
Il famigliare tornato disse: - Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a
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te. -
Al quale Cisti rispose: - Per certo, figliuol, non fa. -
- Adunque -, disse il famigliare - a cui mi manda? -
Rispose Cisti: - Ad Arno. -
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero
dello 'ntelletto e disse al famigliare: - Lasciami vedere che fiasco tu vi porti -
; e vedutol disse: - Cisti dice vero -; e dettagli villania gli fece torre un fiasco
convenevole.
Il quale Cisti vedendo disse: - Ora so io bene che egli ti manda a me -, e
lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo
soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli
disse: - Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane
m'avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io
a questi dì co' miei piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin
da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo
d'esservene più guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi
come vi piace.
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò
credette si convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.
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INGREDIENTI
Durata: 1 h
Livello: Facile
Dosi: 4 persone
Questo tipo di impasto richiede un tempo di cottura più lungo di quello per
gli gnocchi di patate che, invece, vengono scolati appena salgono in
superficie. Pertanto, prima di scolare i "maccheroni", assaggiatene uno e
verificate la cottura, indi estraeteli dall'acqua con il mestolo forato e
metteteli in una zuppiera condendoli, mano a mano, con il formaggio.
Condite con il burro che potrete aggiungere fuso o a riccioli.
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Ingredienti
Preparazione
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Morgante
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Giunto Morgante un dì in su 'n un crocicchio,
uscito d'una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Dètte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: «Costui non conosco»;
e posesi a sedere in su 'n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.
113
Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
- Dimmi il tuo nome, - dicea - vïandante. -
Colui rispose: - Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d'esser gigante,
poi mi penti' quando al mezzo fu' giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. -
114
Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
ecco ch'io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t'ho domandato
se se' cristiano o se se' saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino. -
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115
Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch'a l'azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,
e molto più nell'aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
116
e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo;
e 'l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;
117
ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch'io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch'io non son terren da porvi vigna.
118
Questa fede è come l'uom se l'arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d'una monaca greca
e d'un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch'avea fantasia
cantar di Troia e d'Ettore e d'Achille,
43
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non una volta già, ma mille e mille.
119
Poi che m'increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l'arco e 'l turcasso.
Un dì ch'io fe' nella moschea poi sciarra,
e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;
120
anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n'ho settanta e sette de' mortali,
che non mi lascian mai lo state o 'l verno;
pensa quanti io n'ho poi de' venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.
121
Non ti rincresca l'ascoltarmi un poco:
tu udirai per ordine la trama.
Mentre ch'io ho danar, s'io sono a giuoco,
rispondo come amico a chiunque chiama;
e giuoco d'ogni tempo e in ogni loco,
tanto che al tutto e la roba e la fama
io m'ho giucato, e' pel già della barba:
guarda se questo pel primo ti garba.
122
Non domandar quel ch'io so far d'un dado,
o fiamma o traversin, testa o gattuccia,
e lo spuntone, e va' per parentado,
ché tutti siàn d'un pelo e d'una buccia.
E forse al camuffar ne incaco o bado
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o non so far la berta o la bertuccia,
o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?
Io so di questo ogni malizia e frodo.
123
La gola ne vien poi drieto a questa arte.
Qui si conviene aver gran discrezione,
saper tutti i segreti, a quante carte,
del fagian, della stama e del cappone,
di tutte le vivande a parte a parte
dove si truovi morvido il boccone;
e non ti fallirei di ciò parola,
come tener si debba unta la gola.
124
S'io ti dicessi in che modo io pillotto,
o tu vedessi com'io fo col braccio,
tu mi diresti certo ch'io sia ghiotto;
o quante parte aver vuole un migliaccio,
che non vuole essere arso, ma ben cotto,
non molto caldo e non anco di ghiaccio,
anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso
(pàrti ch'i' 'l sappi?), e non troppo alto o basso.
125
Del fegatello non ti dico niente:
vuol cinque parte, fa' ch'a la man tenga:
vuole esser tondo, nota sanamente,
acciò che 'l fuoco equal per tutto venga,
e perché non ne caggia, tieni a mente,
la gocciola che morvido il mantenga:
dunque in due parte dividiàn la prima,
ché l'una e l'altra si vuol farne stima.
126
Piccolo sia, questo è proverbio antico,
e fa' che non sia povero di panni,
però che questo importa ch'io ti dico;
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non molto cotto, guarda non t'inganni!
ché così verdemezzo, come un fico
par che si strugga quando tu l'assanni;
fa' che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,
poi spezie e melarance e l'altre zacchere.
127
Io ti darei qui cento colpi netti;
ma le cose sottil, vo' che tu creda,
consiston nelle torte e ne' tocchetti:
e' ti fare' paura una lampreda,
in quanti modi si fanno i guazzetti;
e pur chi l'ode poi convien che ceda:
perché la gola ha settantadue punti,
sanza molti altri poi ch'io ve n'ho aggiunti.
128
Un che ne manchi, è guasta la cucina:
non vi potrebbe il Ciel poi rimediare.
Quanti segreti insino a domattina
ti potrei di questa arte rivelare!
Io fui ostiere alcun tempo in Egina,
e volli queste cose disputare.
Or lasciàn questo, e d'udir non t'incresca
un'altra mia virtù cardinalesca.
129
Ciò ch'io ti dico non va insino all'effe:
pensa quand'io sarò condotto al rue!
Sappi ch'io aro, e non dico da beffe,
col cammello e coll'asino e col bue;
e mille capannucci e mille gueffe
ho meritato già per questo o piùe;
dove il capo non va, metto la coda,
e quel che più mi piace è ch'ognun l'oda.
130
Mettimi in ballo, mettimi in convito,
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ch'io fo il dover co' piedi e colle mani;
io son prosuntüoso, impronto, ardito,
non guardo più i parenti che gli strani:
della vergogna, io n'ho preso partito,
e torno, chi mi caccia, come i cani;
e dico ciò ch'io fo per ognun sette,
e poi v'aggiungo mille novellette.
131
S'io ho tenute dell'oche in pastura
non domandar, ch'io non te lo direi:
s'io ti dicessi mille alla ventura,
di poche credo ch'io ti fallirei;
s'io uso a munister per isciagura,
s'elle son cinque, io ne traggo fuor sei:
ch'io le fo in modo diventar galante
che non vi campa servigial né fante.
132
Or queste son tre virtù cardinale,
la gola e 'l culo e 'l dado, ch'io t'ho detto;
odi la quarta, ch'è la principale,
acciò che ben si sgoccioli il barletto:
non vi bisogna uncin né porre scale
dove con mano aggiungo, ti prometto;
e mitere da papi ho già portate,
col segno in testa, e drieto le granate.
133
E trapani e paletti e lime sorde
e succhi d'ogni fatta e grimaldelli
e scale o vuoi di legno o vuoi di corde,
e levane e calcetti di feltrelli
che fanno, quand'io vo, ch'ognuno assorde,
lavoro di mia man puliti e belli;
e fuoco che per sé lume non rende,
ma con lo sputo a mia posta s'accende.
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134
S' tu mi vedessi in una chiesa solo,
io son più vago di spogliar gli altari
che 'l messo di contado del paiuolo;
poi corro alla cassetta de' danari;
ma sempre in sagrestia fo il primo volo,
e se v'è croce o calici, io gli ho cari,
e' crucifissi scuopro tutti quanti,
poi vo spogliando le Nunziate e' santi.
135
Io ho scopato già forse un pollaio;
s' tu mi vedessi stendere un bucato,
diresti che non è donna o massaio
che l'abbi così presto rassettato:
s'io dovessi spiccar, Morgante, il maio,
io rubo sempre dove io sono usato;
ch'io non istò a guardar più tuo che mio,
perch'ogni cosa al principio è di Dio.
136
Ma innanzi ch'io rubassi di nascoso,
io fui prima alle strade malandrino:
arei spogliato un santo il più famoso,
se santi son nel Ciel, per un quattrino;
ma per istarmi in pace e in più riposo,
non volli poi più essere assassino;
non che la voglia non vi fussi pronta,
ma perché il furto spesso vi si sconta.
137
Le virtù teologiche ci resta.
S'io so falsare un libro, Iddio tel dica:
d'uno iccase farotti un fio, ch'a sesta
non si farebbe più bello a fatica;
e traggone ogni carta, e poi con questa
raccordo l'alfabeto e la rubrica,
e scambiere'ti, e non vedresti come,
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il titol, la coverta e 'l segno e 'l nome.
138
I sacramenti falsi e gli spergiuri
mi sdrucciolan giù proprio per la bocca
come i fichi sampier, que' ben maturi,
o le lasagne, o qualche cosa sciocca;
né vo' che tu credessi ch'io mi curi
contro a questo o colui: zara a chi tocca!
ed ho commesso già scompiglio e scandolo,
che mai non s'è poi ravvïato il bandolo.
139
Sempre le brighe compero a contanti.
Bestemmiator, non vi fo ignun divario
di bestemmiar più uomini che santi,
e tutti appunto gli ho in sul calendario.
Delle bugie nessun non se ne vanti,
ché ciò ch'io dico fia sempre il contrario.
Vorrei veder più fuoco ch'acqua o terra,
e 'l mondo e 'l cielo in peste e 'n fame e 'n guerra.
140
E carità, limosina o digiuno,
orazïon non creder ch'io ne faccia.
Per non parer provàno, chieggo a ognuno,
e sempre dico cosa che dispiaccia;
superbo, invidïoso ed importuno:
questo si scrisse nella prima faccia;
ché i peccati mortal meco eran tutti
e gli altri vizi scelerati e brutti.
141
Tanto è ch'io posso andar per tutto 'l mondo
col cappello in su gli occhi, com'io voglio;
com'una schianceria son netto e mondo;
dovunque i' vo, lasciarvi il segno soglio
come fa la lumaca, e nol nascondo;
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e muto fede e legge, amici e scoglio
di terra in terra, com'io veggo o truovo,
però ch'io fu' cattivo insin nell'uovo.
142
Io t'ho lasciato indrieto un gran capitolo
di mille altri peccati in guazzabuglio;
ché s'i' volessi leggerti ogni titolo,
e' ti parrebbe troppo gran mescuglio;
e cominciando a sciòrre ora il gomitolo,
ci sarebbe faccenda insino a luglio;
salvo che questo alla fine udirai:
che tradimento ignun non feci mai. -
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la sua fede unicamente nel gioco d'azzardo e nel vino. Il passo, giustamente
celebre in quanto tratteggia un personaggio deforme e paradossale,
contiene vari elementi sacrileghi e blasfemi che hanno contribuito ad
attirare sull'autore accuse di empietà, tali da farlo morire in odore di eresia
e di negargli una sepoltura cristiana. In seguito Morgante e Margutte
diverranno amici e compiranno assieme varie imprese, di segno beffardo
(come gli scherzi ai danni di un povero oste) o di carattere nobile (come
quando libereranno la giovane Florinetta).
https://epicacavalleresca.weebly.com/il-credo-di-margutte.html
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Cappone, sia lesso, sia arrosto; anche nel burro, nella birra, nel mosto
Fegatelli
Buon vino
Torta e tortino.
DICHIARAZIONE NUTRIZIONALE
5775 Kj
ENERGIA
1395 kcal
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GRASSI 97 g
CARBOIDRATI 6,15 g
PROTEINE 172,8 g
Sodio 92,8 mg
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Il Caffè
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bottega; in essa bottega, che vuol leggere, trova sempre i fogli di Novelle
Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri;
in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale
Enciclopedico, e l'Estratto ella Letteratura Europea, e simili buone raccolte
di Novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano
Romani, Fiorentini, Genovesi, o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco
Europei; in essa bottega v'è di più un buon Atlante, che decide le questioni
che nascono nelle nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano
alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si
scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi
son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo
accadere, e tutt'i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi
trovo d'averne già messi i ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il
Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè".
Il Giornale fu fondato nel 1764 da Pietro Verri, una delle più significative
espressioni dell'Illuminismo italiano. Si stampava a Brescia, in territorio
veneto, per sfuggire alla censura austriaca. Si propose di scuotere tradizioni
e pregiudizi sociali, letterari, scientifici, trattando argomenti di economia,
agronomia, storia naturale, medicina ecc. Nella lingua gli scrittori si
permisero grande libertà, curandosi solo del vigore del pensiero; anche per
questo Il Caffè fu avversato da Baretti e da altri, mentre riscosse favore in
Europa. Cessò nel maggio 1766, per il dissidio fra Verri e Cesare Beccaria.
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dell'Illuminismo sono le due città più grandi, le due metropoli della penisola
italiana, governate entrambe da regimi stranieri, ma con un ambiente
culturale ricco e variegato: Milano, passata nel 1714 dalla dominazione
spagnola a quella austriaca, in cui la figura di Maria Teresa (1717-1780)
introduce un quarantennio di riforme; e Napoli, anch'essa sotto il dominio
austriaco dal 1720 al 1734, poi però passata sotto un ramo cadetto dei
Borbone di Spagna che diviene quello dei Borbone di Napoli, e anch'essa
percorsa dal vento delle riforme, che trovarono un filone di interesse
soprattutto giuridico.
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In un certo senso esso rappresenta una sorta di paradigma dell'Illuminismo
lombardo, sintetizzabile in questi punti: - la rivista si propone di trattare
qualunque argomento che interessi il suo pubblico; - la rivista è orientata
dalle scelte e dai gusti dei suoi lettori, che infatti attraverso la loro
approvazione e il loro interesse incoraggeranno le pubblicazioni: il giornale
si farà fintanto che qualcuno vorrà leggerlo! - gli argomenti trattati saranno
basati sulla pubblica utilità; - il giornale si ispira agli incontri culturali che
avvengono, appunto, in un caffè, dove si leggono giornali, ci si confronta e
si discute, al fine di abbandonare ristrette visioni particolaristiche e di
andare verso la direzione di un sentito cosmopolitismo.
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Caffè fumante
caffè sognante
il mio ossesso
perché la vita
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I promessi sposi
"Vi ringrazio,„ rispose Renzo: "io veniva solamente per dire una parolina a
Tonio; e se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, noi possiamo andare
a desinare all'osteria, e parleremo.„ La proposta fu per Tonio tanto gradita
quanto meno inaspettata; e le donne non videro mal volentieri che si
sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L'invitato non
istette a domandare altro, e partì con Renzo.
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sottotitolo, "storia milanese del sec. 17°", che l'autore finge di avere
"scoperta e rifatta" sul manoscritto di un anonimo contemporaneo. La prima
stesura del romanzo, risalente agli anni 1821-23, recava il titolo Fermo e
Lucia, dal nome che vi avevano i protagonisti; la seconda redazione,
profondamente modificata (fra l'altro il nome di Fermo è mutato in quello di
Renzo), fu pubblicata in tre volumi dal 1825 al 1827 (ed. detta ventisettana
), col titolo, che doveva restare, I promessi sposi; la seconda edizione
definitiva, ampiamente riveduta e corretta specie in fatto di lingua, apparve
dal 1840 al 1842 (ed è perciò detta la quarantana).
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descrizione dei più saldi valori morali. Quella di Renzo e Lucia non è
un'avventurosa esperienza d'amore, ma una difficile conquista di pace e di
felicità, perseguite con impegno e senso del dovere in una realtà dominata
dall'ipocrisia e dal conformismo.
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Il termine polenta deriva dal latino polĕnta «farina d'orzo, polenta», affine
a pollen -lĭnis «fior di farina» e a puls pultis «pappa».
Questo prodotto era già usato dai romani, come impasto di farina e acqua.
In realtà, era presente anche nei menù degli uomini preistorici. Con il mais
era preparata dai nativi del centroamerica.
Un tempo, a causa della penuria, era il piatto unico per sopravvivere, anche
se fra i contadini portò all'insorgere della pellagra, soprattutto nel
settecento.
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molli e a vari sughi, innaffiato da vino rosso, fermo, di medio corpo, anche
novello.
Al tempo di Renzo costituiva il piatto per sopperire alla fame. E nel testo di
Manzoni è ben evidente.
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Il risotto
La piada
PASCOLI, Il risotto
INGREDIENTI:
350 gr riso carnaroli
200 gr funghi
100 gr fegatini di pollo
1 bicchiere di passata di pomodoro
1 cipolla
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80 gr burro
1 bustina zafferano
carota sedano cipolla prezzemolo per il brodo vegetale
II
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vaporando il suo bianco alito fino,
che si depone sul tuo capo biondo.
III
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aride. Del granturco, ecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
Ciò che secca e che cade e che s'oblia,
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
si stacca triste e che poi fa che sia
IV
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arida foglia per un cimitero?
VI
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poi si partisce in forma della croce:
VII
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risposta ad una lettera del suo amico Augusto Guido Bianchi (cronista
milanese del Corriere della sera con il quale il Pascoli ebbe un lungo
carteggio), il quale gli suggeriva (usando abbondantemente il futuro: «tu far
ai, tu vorrai, tu saprai " ☀⤀ la ricetta del delizioso Risotto alla milanese. Una
giocosa sfida tra risotti, che evidenzia la passione di Pascoli per il buon cibo.
Un buongustaio verace, amante dei piatti della sua terra, come testimonia
anche l'ode La piada.
Pane dei poveri o pane dei ricchi, pane bianco o pane nero; pane fresco o
pane secco, profumato o irrancidito?
Pane di Verga, di Silone, della Deledda, di Tommasi di Lampedusa o pane di
Pascoli?
La "Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai romagnoli la spianata di grano o di
granoturco o mista, che è il cibo della povera gente; e si intride senza
lievito; e si cuoce in una teglia di argilla, che si chiama testo, sopra il
focolare, che si chiama arola…" è il pane di Giovanni Pascoli.
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non era così diffusa a livello nazionale; oggi la troviamo confezionata nei
supermercati e la portiamo a casa per farcirla a modo nostro.
La piadina, però, ha origini molto antiche, una sua storia e una sua dignità
culturale. Il primo documento storico che parla della "piada" risale infatti al
1371.
Questo piatto della tradizione è stato la musa ispiratrice della poesia "Il
desinare" e del poemetto "La Piada" di Giovanni Pascoli; in altri scritti il
poeta la cita come "pane di Enea" o "pane rude di Roma" attribuendole
l'origine latina e la descrive come "Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai
romagnoli la spianata di grano o di granoturco o mista, che è il cibo della p
overa gente; e si intride senza lievito; e si cuoce in una teglia di argilla, che
si chiama testo, sopra il focolare, che si chiama arola…".
Si tratta del pane tradizionale più usato in Romagna e Pascoli gli dedica un
poemetto che contiene una descrizione felice del rapporto domestico con la
sorella Maria, rappresentato nel momento in cui allarga l'impasto e lo
stende in una forma rotonda, come una luna piena, e poi cotta in una teglia
di argilla, chiamata "testo".
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L'amore per la cucina e per la campagna, per i sapori semplici e genuini, per
i prodotti dell'orto traspare nella sua produzione poetica spesso in maniera
discreta fino ad arrivare a descrivere delle vere e proprie ricette, l'ambiente
della cucina con tutti gli attrezzi: «teglia», «aglio», «paiolo», «cannone»
(matterello), «canovaccio» (telo).
Ma l'intento poetico non è ovviamente la descrizione dell'esecuzione di una
ricetta. La funzione nutritiva del cibo (della piada in questo caso) passa in
secondo piano per dare spazio ad una atmosfera magica dove
l'immaginazione e la comunicazione si concentrano su pensieri esistenziali e
sociali.
La piada povera, quella confezionata con farina di mais (eventualmente
arricchita di un po' di grano), ben diversa dalle piade ricche per i benestanti
di puro frumento, rinforzate con strutto, uova o zucchero, nella poesia del
Pascoli diventa un sublime e dignitoso "pane della povertà", "pane
dell'umanità", "pane della libertà" e "pane del lavoro".
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Proprio dalla farcitura del crescione, inoltre, sembra derivi il suo nome.
Infatti, era abitudine in passato riempire la sfoglia con un'erba chiamata
appunto crescione. Ad essa si aggiungeva aglio, scalogno e cipolla, che
insaporivano il tutto.
Ai nostri giorni questa farcitura non è più molto diffusa e al suo posto il
"crescione" è solitamente riempito con spinaci e bietole. Questi possono poi
essere accompagnati da ricotta, mozzarella o formaggio squacquerone.
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Marino Moretti
Sotto la luce che gli batteva nel mezzo, il tagliere parve abbagliare
nella scura cucina.
Ella era una donna antica, un'azdora (la massaia) della tradizione e
si mostrava contrarissima alle azdore giovani che facevano della
piada una pizza, un dolce qualsiasi, adoperando - le schizzinose - il
puro fior di farina, gramolando e impastando col latte, lo strutto e
la chiara d'uovo, aggiungendo perfino alla miscela appiccicosa
quell'altra porcheriola del bicarbonato!
Ecco: il più era fatto: la pasta era ben lavorata, pronta per il
matterello.
Teneva sulle due palme aperte, così come si tiene una cosa ricca,
la prima candida sfoglia che ricadeva floscia dalle sue mani in
pieghe molli di stoffa morbida e spessa.
Mi lasci, mi lasci! -
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sgòbole che si disfacevano ardendo senza quasi più fiamma.
Sente?
Ella la ritirò col coltello, la prese poi col pollice e l'indice incalliti,
che non temevano le scottature, la mostrò con orgoglio alla
padroncina tenendola sollevata in alto, bella, tonda, compatta,
fantastica, religiosa, miracolosa, come una grande ostia da
spezzarsi nel rito domestico: la portò poi sulla credenza e la mise lì,
ritta contro il muro, dietro i candelieri, perché non rinvenisse.
La vita e le opere
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tratta di testi ispirati sin dai titoli a una vena crepuscolare di poesia
quotidiana e abbassata di tono. E' significativo che editore di tutte e tre le
raccolte sia Ricciardi di Napoli, che in quegli anni andava pubblicando anche
le opere di Sergio Corazzini. Allo scoppio della Grande Guerra, Moretti si
arruola volontario, ma ben presto gli è assegnato il ruolo di addetto stampa
della Croce Rossa a Roma. Al termine del conflitto, il poeta sente
significativamente il bisogno di presentare una selezione antologica della
propria produzione giovanile e, insieme, di accomiatarsene (la guerra è
stata un potente discrimine anche in senso culturale): nel 1919 esce
pertanto presso l'editore Treves di Milano un volume di "Poesie scritte col
lapis" che comprende una scelta di testi provenienti dalle precedenti
raccolte. L'esperienza crepuscolare è così formalmente conclusa. In realtà,
essa non muore del tutto; piuttosto, si rinnova segretamente nell'ispirazione
del poeta e nella sua stessa sensibilità critica. Non per caso l'antologia
appena citata rivedrà la luce trent'anni dopo la prima edizione, questa volta
da Mondadori, e con nuove modifiche: il poeta vuole insomma suggerirci
che il suo "lapis" (la matita) è sempre stato ben vitale.
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Pazzi"(1951).
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coetanei come Govoni, l'amico Palazzeschi e, per certi aspetti, Gozzano. Nel
complesso, egli rielabora "con candida astuzia" temi e modi linguistici dei
predecessori; e quella che offre è dunque una poesia colta e raffinata, al di
là della apparente 'ingenuità'.
Che questa ingenuità sia, appunto, apparente, lo dimostra bene, oltre alla
raffinatezza formale delle composizioni, anche l'idea stessa che Moretti ha
della poesia e del ruolo di poeta. C'è infatti in lui una negazione della
eloquenza poetica, e della 'storia' in cui questa eloquenza si dovrebbe
manifestare, che in un certo senso, è ancor più radicale rispetto agli altri
crepuscolari; se, per esempio, Gozzano diceva di vergognarsi di essere un
poeta e Corazzini negava addirittura di esserlo, Moretti va oltre e afferma di
non avere "niente da dire", giudica il poeta un essere di "poco cervello" che
non sa nulla della vita, conoscendola solo dalla "giostra2 della poesia:
insomma, una sorta di "pagliaccio", infinitamente distante dai "VATI" che
alla poesia davano così tanta importanza.
Ne deriva, come osserva Fausto Curi, una vera "profanazione della poesia".
L'autore applica il suo "lapis" alla realtà più banale e quotidiana, non però
con l'idea di ricavarne 'epifanie' o simbolismi come fa Pascoli con le sue
"Myricae", ma piuttosto per restituirla così come è, nel suo colore scialbo e
inerte ('il grigio che incombe / sui cuori'). Di qui, ancora secondo la tesi di
curi, il rovesciarsi del pascolismo morettiano in un sostanziale
'antipascolismo': se Pascoli è protagonista attivo della propria poesia,
Moretti 'subisce' gli oggetti che canta e li registra annullandosi, per così
dire, in essi.
Ma al di là di queste - forse un poco forzate - interpretazioni, quali sono tali
oggetti? Quali i temi della poetica morettiana? Il repertorio non muta troppo
rispetto alla maniera crepuscolare: giardini 'chiusi'(come quelli delle stazioni
ferroviarie); ambienti e arredi domestici(per esempio la cucina con i tegami
smaltati, gli aromi, il paiuolo che brontola); educandati e conventi, farmacie
e botteghini del lotto; e poi beghinaggi, organetti, tristezza domenicale (il
tipico 'giorno crepuscolare'); e ancora quaderni, matite, maestrine,
compagni di scuola. Ma si potrebbe continuare a lungo.
In ogni caso, cantando simili oggetti e simili atmosfere, il poeta si ripiega in
sè, ricerca sentimenti persino morbosamente tesi (per esempio, la 'gelosia'
per la sorella sposata nella poesia "A Cesena"): c'è insomma - per
riprendere il confronto - la sensibilità esasperata di Pascoli, non la sua
'felicità' dinanzi al 'manifestarsi' delle cose.
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Ne consegue una scrittura di "grado zero"(Bàrberi-Squarotti), senza picchi
espressivi. Una "prosa-poesia", come la definisce lo stesso Moretti nel testo
d'apertura del "Giardino dei frutti", in cui il discorso è costantemente
abbassato a un tono colloquiale e, appunto, prosastico. Di qui, quella
"omogeinità tendente al grigio" che corrisponde all'assunto del "non avere
nulla da dire". La sintassi è conseguentemente lineare, spesso franta,
adattandosi ai poveri ritmi della realtà che rappresenta (si veda "Piove. E'
mercoledì. Sono a Cesena"). Il lessico, ovviamente, è umile e semplice come
il 'lapis' che gli dà vita.
Ma in tale contesto così atonale, spicca una - talvolta ben celata -
squisitezza metrica e, più in generale, stilistica. Una raffinatezza formale
certo in contrasto con il 'lassismo' che, come si è visto, ha caratterizzato la
produzione crepuscolare rispetto al magistero di Carducci, Pascoli e
D'Annunzio. Proprio da Pascoli anzi, Moretti deriva certe eleganti
sperimentazioni e, in particolare, il gusto per le rime e le forme metriche
chiuse (si ricordi come invece un Corazzini procedesse senz'altro nella
direzione del verso libero). Non mancano poi arguti 'giochi di prestigio': se
Gozzano rimava "Nietzche" con "camicie", Moretti ("La maestra di piano") fa
quasi lo stesso con gli accoppiamenti "Piove:Beethoven" e
"quaderni:Czerny". Nella sostanza, la "prosa-poesia" morettiana implica un
aumento, non una diminuzione, d'artificio, che la allontana dalla prosaicità.
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quelle, per così dire, di un crepuscolare sopravvissuto. Nella sua vicenda
possiamo così riconoscere quell'evoluzione, nella 'maniera' poetica ma
anche esistenziale, che in altri autori è stata negata dalla morte precoce
(Gozzano e Corazzini) o da mutate attitudini (Govoni e Palazzeschi), e in
ogni caso dall'avvento della Grande Guerra che, come si è detto, ha
inevitabilmente concluso la stagione crepuscolare.
A differenza di Govoni e Palazzeschi, passati dalle prime prove crepuscolari
al Futurismo e a successive variegate esperienze, Moretti rimane
sostanzialmente fedele a un suo 'tono', adattandolo però di volta in volta,
rivisitandolo e ricreandolo continuamente. Tanto che pubblicherà più volte,
con successive variazioni e sino agli anni maturi, la scelta giovanile delle
"Poesie scritte col lapis": segno indiscutibile di fedeltà all'ispirazione poetica
dei primi anni.
E' evidente una contrapposizione fra l'agire di una donna anziana, avezza
alla cucina, e quello di giovani donne che vogliono modificare la tradizione.
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Come un muratore,
la vecchia signora,
ci mette ardore
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Contro la pastasciutta
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necessità di impedire che l'Italiano diventi cubico massiccio impiombato da
una compattezza opaca e cieca. Si armonizzi invece sempre più coll'italiana,
snella trasparenza spiralica di passione, tenerezza, luce, volontà, slancio,
tenacia eroica. Prepariamo una agilità di corpi italiani adatti ai leggerissimi
treni di alluminio che sostituiranno gli attuali pesanti di ferro legno acciaio.
Convinti che nella probabile conflagrazione futura vincerà il popolo più agile,
più scattante, noi futuristi dopo avere agilizzato la letteratura mondiale con
le parole in libertà e lo stile simultaneo, svuotato il teatro della noia
mediante sintesi alogiche a sorpresa e drammi di oggetti inanimati,
immensificato la plastica con l'antirealismo, creato lo splendore geometrico
architettonico senza decorativismo, la cinematografia e la fotografia
astratte, stabiliamo ora il nutrimento adatto ad una vita sempre più aerea e
veloce. Crediamo anzitutto necessaria: a) L'abolizione della pastasciutta,
assurda religione gastronomica italiana. Forse gioveranno agli inglesi lo
stoccafisso, il roastbeef e il budino, agli olandesi la carne cotta col
formaggio, ai tedeschi il sauer-kraut, il lardone affumicato e il cotechino; ma
agli italiani la pastasciutta non giova. Per esempio, contrasta collo spirito
vivace e coll'anima appassionata generosa intuitiva dei napoletani. Questi
sono stati combattenti eroici, artisti ispirati, oratori travolgenti, avvocati
arguti, agricoltori tenaci a dispetto della voluminosa pastasciutta
quotidiana. Nel mangiarla essi sviluppano il tipico scetticismo ironico e
sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo. Un intelligentissimo
professore napoletano, il dott. Signorelli, scrive: «A differenza del pane e del
riso la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Questo
alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla saliva e il
lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato. Ciò porta
ad uno squilibrio con disturbi di questi organi. Ne derivano: fiacchezza,
pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo».
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voluminosa pastasciutta quotidiana. Nel mangiarla essi sviluppano il tipico
scetticismo ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo. Un
intelligentissimo professore napoletano, il dott.Signorelli, scrive: "A
differenza del pane e del riso la pastasciutta è un alimento che si ingozza,
non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in
bocca dalla saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas
e dal fegato. Ciò porta ad uno squilibrio con disturbi di questi organi. Ne
derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo".
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degli equivalenti nutritivi.
Il "Carneplastico"
Esempio: Per preparare il Salmone dell'Alaska ai raggi del sole con salsa
Marte, si prende un bel salmone dell'Alaska, lo si trancia e passa alla griglia
con pepe e sale e olio buono finché è bene dorato. Si aggiungono pomodori
tagliati a metà preventivamente cotti sulla griglia con prezzemolo e aglio.
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uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salsiccia che
poggia su tre sfere dorate di carne di pollo.
6. L'uso della musica limitato negli intervalli tra vivanda e vivanda perchè
non distragga la sensibilità della lingua e del palato e serva ad annientare il
sapore goduto ristabilendo una verginità degustativa.
8. L'uso dosato della poesia e della musica come ingredienti improvvisi per
accendere con la loro intensità sensuale i sapori di una data vivanda.
9. La presentazione rapida tra vivanda e vivanda, sotto le nari e gli occhi dei
convitati, di alcune vivande che essi mangeranno e di altre che essi non
mangeranno, per favorire la curiosità, la sorpresa e la fantasia.
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Sorbetto al limone
100 g di zuccero
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https://www.paneangeli.it/ricette/dettaglio/torta-yogurt-mandorle-a-forma-
di-valigia
http://www.scuolavalore.indire.it/wp-
content/uploads/2014/12/La_chimica_in_cucina.pdf
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Polpette al pomodoro
Polpette al pomodoro
"Tua madre, che non era una letterata, e passò due terzi della sua vita in
cucina, ad ammannire per i suoi cibi non molto variati, ma dai quali
emanava, come da un uguale centro affettivo, un uguale irradiante calore
(l'inconfondibile impronta di un modo di esistere e, quindi, di uno stile)
ripegò – per così dire – sulle polpette, quando, partita te per un diverso
destino, la casa rimase quella di due poveri vecchi, che cercavano di celarsi
a vicenda i desiderio egoistico di essere il primo a morire, per non dover
rimanere solo sulla terra…. Le polpette al pomodoro, che né tu né io
assageremo più a questo mondo, venivano, non confezionate, ma servite in
due modi diversi. La tua povera madre le mangiava calde e senza la salsa;
io fredde e col piatto ricoperto fino agli orli di pomodoro."
Si tratta di un breve racconto, scritto dal poeta triestino Umberto Saba nel
1957, che immagina di avere ospite a cena Giacomo Leopardi.
La poesia accompagna il pasto come il pane per la scarpetta del sugo delle
polpette.
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PER 30 POLPETTE
• 50 g di mollica di pane raffermo
• 100 ml di latte
• 200 g di salsiccia
• 200 g di carne macinata di maiale (lonza)
• 300 g di carne macinata di manzo
• 100 g di mortadella a cubetti
• 3 uova
• 50 g di parmigiano
• 30 g di prezzemolo
• 1 cucchiaino di sale
• pepe
• noce moscata
• rosmarino
• 200 g di pangrattato
• 150 g di farina
• 500 ml di olio per friggere
Ammollate il pane raffermo nel latte per circa 10 minuti. Nel frattempo
preparate il composto unendo tutti gli ingredienti, tenendo da parte 2 uova
che vi serviranno più tardi per l'impanatura. Lavorate fino a ottenere un
impasto omogeneo. Unite il pane ammollato dopo averlo ben strizzato.
Lasciate riposare per qualche minuto.
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cuocere in padella e trasformarle in polpette al sugo.
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"Pronto".
"Pronto".
"Sono il re degli uomini di burro. Tutta panna di prima qualità. Latte di
mucca svizzera. Ha guardato bene il mio frigorifero?"
"Perbacco, è d'oro massiccio. Ma non esce mai di lì".
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burro s. m. [dal fr. ant. burre (mod. beurre), che è il lat. būty̆rum, gr.
βούτυρον; cfr. butirro]. ጀ1. Sostanza alimentare costituita dalle materie
grasse contenute nel latte di vacca, o anche di capra, pecora, renna, ecc., e
ottenuta mediante la scrematura (o separazione dal latte delle minute
goccioline di grasso che vi sono emulsionate) e la burrificazione, con la
quale la crema viene trasformata in burro; è un alimento altamente
energetico, composto per l'82-87% di grasso (mescolanza di gliceridi,
lecitine e piccole quantità di colesterolo e vitamine A e D) e di acqua,
proteine, sali minerali, sostanze aromatiche: b. di cremeria o da tavola, il
burro ottenuto da creme pastorizzate e fermentate artificialmente; b.
di centrifuga, quello ottenuto da creme di centrifuga, dolci o fermentate
spontaneamente; b. di casone, ottenuto da creme di affioramento; b. di siero
, ottenuto da creme di siero o simili; b. chiarificato, quello privato,
attraverso una prima fusione, delle parti lattiginose ancora presenti per
evitare che annerisca con la frittura. Nell'uso com.: b. fresco, rancido;
un panetto di b.; pane e b. o pane col b., pane spalmato di burro; pane al b.,
quando nella fabbricazione è condito con burro; uova al b.; spaghetti al b.
(più corretto ma meno com. col b.). Come simbolo di morbidezza: tenero,
morbido come il b.; questa carne è un b.; anche di persona delicata, o mite,
arrendevole: è un b., è fatto di b.; ha le mani di b., chi lascia cadere ogni
cosa. 2. a. B. vegetale, grasso commestibile, preparato per idrogenazione di
olî vegetali di palma, cocco, ecc.; in alcune confezioni è mescolato con
margarina. b. B. di cacao: v. cacao. 3. Nome di varie sostanze di
consistenza e aspetto simile al burro: a. B. minerale, varietà di cerargirite. b.
B. essiccativo, miscela usata in pittura come essiccativo, costituita da
acetato basico di piombo e olio di noci; umettata con acqua acquista la
consistenza del burro. c. B. metallici, nome di alcuni cloruri caratterizzati
dall'aspetto molle di consistenza burrosa: b. d'antimonio, tricloruro
d'antimonio; b. d'arsenico, tricloruro d'arsenico; b. di stagno, cloruro
stannico; b. di zinco, cloruro di zinco, ecc. d. B. nero, il letame di stalla come
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si presenta dopo la normale decomposizione in concimaia, e cioè pastoso,
untuoso e di colore nero o bruno. 4. Albero del b., nome di varie piante dalle
quali si ricavano sostanze grasse simili al burro.
Conservarlo al fresco.
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addirittura provocarle il solletico. E dove metteva la mano lui, il latte
schizzava fuori come dalle mammelle d'una capra. Tanto che a noialtri non
restava che tenergli dietro, e raccogliere coi cucchiai la sostanza che egli
andava, ora qua ora là, facendo gemere; ma sempre come per caso, dato
che gli itinerari del sordo non parevano rispondere ad alcun chiaro proposito
pratico. C'erano punti, per esempio, che toccava solamente per il gusto di
toccarli: interstizi tra scaglia e scaglia, pieghe nude e tenere della polpa
lunare. Alle volte mio cugino vi premeva non le dita della mano, ma - in una
mossa ben calcolata dei suoi salti - l'alluce (montava sulla Luna a piedi
scalzi) e pareva che ciò fosse per lui il colmo del divertimento, a giudicare
dallo squittio che emetteva la sua ugola, e dai nuovi salti che seguivano.
Infatti, Qfwfq insieme al capitano Vhd Vhd, sua moglie, il cugino sordo e una
ragazzina di nome Xlthlx, nelle notti di plenilunio si recava con una
barchetta al largo degli Scogli di Zinco, dove la Luna toccava quasi la Terra,
per raccogliere il latte. Aiutandosi con una scaletta e aggrappandosi alle
irregolarità della superficie lunare dopo essersi lanciati, salivano sulla Luna
e una volta a testa in giù rispetto alla Terra, raccoglievano il latte lunare che
si formava in alcune crepe delle sue rocce e lo lanciavano a coloro che
erano rimasti sulla barca. In tutto ciò era abilissimo il cugino sordo e ciò non
passò inosservato alla moglie del capitano che era attratta da lui.
Si viene così a creare una situazione comica: il sordo era attratto dalla Luna,
la moglie del capitano era attratta dal sordo e Qfwfq era attratto dalla
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moglie del capitano.
Una notte anche la moglie del capitano volle seguire il sordo sulla Luna, ma
proprio durante quella notte la Luna cominciò ad allontanarsi. Fecero tutti in
tempo a saltare cadendo nel mare,eccetto la signora Vhd Vhd. Qfwfq nel
tentativo di salvarla ottenne l'esatto contrario,così entrambi rimasero
bloccati da soli sulla Luna in attesa che questa completasse il giro seguendo
la sua orbita, riproponendo in questo modo la stessa faccia alla Terra,e
tentare così di nuovo di scendere. Trascorso circa un mese, l'occasione si
ripresentò e con l'aiuto dei suoi compagni Qfwq riuscì a ritornare sulla Terra,
mentre la signora Vhd Vhd rimase sulla Luna perché capì che l'unico modo
per essere amata dal sordo era diventare un tutt'uno con essa.
Nel racconto, come nell'intera opera, l'evolversi dei fatti non segue un
ordine temporale preciso e la narrazione è tutta basata su dei flash-black; vi
è pertanto un continuo intreccio che prende il posto della fabula: i ricordi
affiorano in un tempo misto combinandosi con il presente. Ad ampliare
l'effetto espressivo del racconto vi è l'uso di molte figure retoriche tra cui :
dilogie (es. ellittica(..)ellittica; e quanto(..)e quanto(..) e quanto ),
raddoppiamenti( es. basso basso;alto alto;dolce e acuto dolce e acuto;e
invece e invece e invece ), similitudini (es. come un grappolo dal tralcio;
come una catapulta; come uno sterminato soffitto ) e nell'ultima parte del
racconto anche un climx ascendente ( "in cento in mille viste diverse") e
una personificazione (" ..lei che rende Luna la Luna").
Per spiegare il concetto della distanza della Luna dalla Terra, Calvino (per
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bocca di Qfwfq) non utilizza complesse argomentazioni fisico-scientifiche,
ma racconta fatti di vita quotidiana (come l'amore non corrisposto) in quella
lontana e fantastica situazione,il tutto con un tono ironico, con quella
comicità che si rifà ai comics inglesi (per esempio nel racconto lo si può
evincere quando è narrato l'episodio della piccola Xlthlx che per
acchiappare una medusa, che fluttuava nell'aria attratta dalla Luna, si
ritrova anch'essa sospesa tra la Terra e la Luna).
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Ma non solo!
Ingredienti
Latte intero 400 g
Miele 1 cucchiaino
Zucchero 80 g
Baccello di vaniglia 1
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Per preparare la crema al latte mettete a scaldare 300 g di latte insieme allo
zucchero in una casseruola. Incidete la bacca di vaniglia nel senso della
lunghezza ed estraete i semi, raschiandola con un coltellino; unite i semi
della bacca di vaniglia nel latte e scaldate a fuoco bassissimo, mischiando
bene con le fruste per far sciogliere lo zucchero. In una ciotola a parte
setacciate l'amido di mais, poi versate il latte rimanente, mescolando con
una frusta a mano: così facendo, eviterete la formazione di grumi nella
crema.
Unite la panna montata alla crema al latte, ormai fredda, mescolando i due
composti molto delicatamente dal basso verso l'alto fino ad ottenere una
crema liscia ed omogenea.
La vostra crema al latte è pronta: potrete usarla per farcire bignè, rotoli di
pasta biscotto, torte e altri dessert!
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so' dieci giorni che nun calo, eppure resisto, soffro e seguito le cure…
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Proverbi alimentari
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provano un senso d'inferiorità nei confronti di chi è più dotato fisicamente.
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Un anonimo del '500 soleva sempre dire: Ci sono tante cose importanti nella
vita, la prima è mangiare, le altre non le conosco." Evidentemente l'isotopia
alimentare e sessuale mi sembra chiaramente scontata, ma forse poi
nemmeno tanto. Carl William Brown
Cavolo: ortaggio familiare ai nostri orti e alle nostre cucine, grosso e saggio
all'incirca quanto la testa di un uomo. Ambrose Bierce
A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della
coscienza o da quelli della fame. Totò
Non c'è amore più sincero di quello per il cibo. George Bernard Shaw
Dei palati uguaglianza non può stare, perciò non s'ha dei gusti a disputare.
Proverbio Popolare
Le cose più belle della vita o sono immorali, o sono illegali, oppure fanno
ingrassare. George Bernard Shaw
Chi non ama le donne il vino e il canto, è solo un matto non un santo!
Arthur Schopenhauer
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ubriachi. Aristotele
Gli obesi vivono di meno: però mangiano di più! Stanislaw Jerzy Lec
Dio non ha fatto che l'acqua, ma l'uomo ha fatto il vino. Victor Hugo
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Il male non è ciò che entra nella bocca di un uomo, il male è ciò che ne
esce. Sacre Scritture
Ci sono tre cose che una donna è capace di fare con niente: un cappello,
un'insalata e una scenata. Mark Twain
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CONCLUSIONI
Gli alunni dellla classe che hanno partecipato al progetto hanno dimostrato
un grande sentimento di risveglio culturale.
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Gli storici sono unanimi oggi nell'affermare che, se è vero che l'uomo è un
essere onnivoro, per diversi milioni di anni è stato principalmente carnivoro.
Dalle origini sino all'inizio del Neolitico, circa 10.000 anni fa, l'uomo era un
cacciatore-raccoglitore nomade, il cui cibo era costituito essenzialmente di
selvaggina (proteine e lipidi) ma anche bacche (frutti selvatici) o ancora
radici (glucidi con indice glicemico molto basso contenenti molte fibre). La
maggior parte degli autori è concorde nel ritenere che i nostri antenati
mangiavano anche, in via accessoria, vegetali (foglie, germogli ☀⤀ e senza
dubbio anche, in qualche occasione, semi selvatici. Anche questi vegetali
sono da classificarsi nella categoria dei glucidi con indice glicemico
estremamente basso.
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allevatore dovette in realtà ridurre notevolmente la varietà della sua
alimentazione. Solo qualche raro animale, infatti, si prestava ad essere
addomesticato e allevato, e solo poche specie vegetali potevano essere
coltivate. Non è esagerato affermare che l'agricoltore-allevatore dovette
necessariamente razionalizzare, se non addirittura ottimizzare la sua attività
nel senso che attribuiamo oggi a questo termine.
Questa vera e propria rivoluzione dello stile di vita dei nostri antenati ebbe
perciò delle conseguenze.
Sulla salute innanzitutto. Il monofagismo che risultava dalle mono colture si
rivelò essere una fonte importante di carenze, che si tradusse con una
notevole diminuzione della speranza di vita delle popolazioni interessate.
Inoltre l'agricoltura (anche se realizzata su terre alluvionali ricche e ben
irrigate come in Egitto e in Mesopotamia) si rivelò molto più faticosa in
termini di sforzi fisici rispetto alla braccata e alla caccia della selvaggina del
mesolitico, ma anche degli animali di grosse dimensioni del paleolitico
superiore.
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Senza saperlo l'agricoltore e i suoi figli hanno così dato vita a un circolo
vizioso. Contribuendo a uno sviluppo demografico costante, i rischi e la
gravità delle carestie per via dei cattivi raccolti erano tanto più catastrofici.
L'Egitto
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all'esposizione di statue obese che testimoniano di una corpulenza molto
diversa, per lo meno per quanto riguarda alcune etnie, da quello che si era
sempre immaginato a priori a partire dalla maggiore parte degli geroglifici.
La Grecia
Nel mondo Greco i cereali fornivano non meno dell'80 % degli apporti
energetici totali.
Ma questa scelta alimentare era molto meno la conseguenza di una realtà
geografico-economico che il risultato di una politica in rapporto con
un'ideologia ben particolare.
In altri termini, tutto ciò che non esisteva allo stato naturale, ma che
risultava dall'intervento e dalla trasformazione dell'uomo era considerato
nobile. Solo addomesticando e trasformando la natura, «fabbricando» in
qualche modo il suo cibo, l'uomo poteva aspirare alla civiltà.
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zuppe di verdure miste e alle pappe di cereali grezzi e di legumi secchi che
rappresentavano il normale cibo quotidiano del popolo.
Ciò non toglie che per l'insieme della popolazione (salvo per il soldato
carnivoro della tradizione ellenica che traeva la sua forza erculea dalla
carne degli animali), il consumo di carne rimaneva marginale, quasi un tabù
se si considera che era riservata ai sacrifici. Le pecore erano dunque
allevate principalmente per la lana e il latte, dal quale si faceva il formaggio.
I bovini erano rari ed erano utilizzati come bestie da soma e da tiro.
I pesci (crostacei compresi) erano invece ampiamente consumati benché
non fossero oggetto di alcuna trasformazione.
La sofisticatezza dell'atto della pesca e il carattere rude del lavoro del
pescatore giustificavano senza dubbio il fatto che il pesce non fosse stato
classificato tra i cibi incivili. Forse, però, era solo per via di un certo realismo
che questo cibo era sfuggito all'ideologia restrittiva in materia alimentare,
considerato che non solo il pesce era presente in grandi quantità, ma che
rappresentava anche una tradizione per i popoli del bacino mediterraneo.
In questo modo, benché sia sempre difficile generalizzare, si può
considerare che l'apporto proteico nell'alimentazione dei Greci fosse
piuttosto basso. A tal punto che sarebbe lecito chiedersi se questa carenza
nella maggioranza della popolazione non abbia provocato un indebolimento
della loro salute. Ciò spiegherebbe meglio, forse, il motivo per cui la
medicina detta "moderna", sotto l'egida di Ippocrate, sia nata proprio in
Grecia.
Roma
Per i Romani il ruolo della carne è molto più importante perché vige per
questo popolo la tradizione «italica» dell'allevamento dei maiali, ereditata
dagli Etruschi. Anche se non riveste un ruolo primordiale nella loro
alimentazione, occupa una posizione non trascurabile nell'apporto di
proteine animali.
Ma l'alimento simbolo dei Romani rimane, come per i Greci, il Pane (di
grano), e in particolare per il Soldato Romano.
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Il Romano del popolo, infatti, consuma in fondo poco grano. Oltre al maiale,
al pollame e al formaggio, e a volte al pesce, si nutre abbondantemente di
verdura (essenzialmente il cavolo) e di cereali grezzi vari.
La coltura del grano è ovviamente il simbolo di una certa ricchezza che è
appannaggio di una classe superiore nella gerarchia censuaria.
Ma il grano non è solo l'alimento dei privilegiati. Serve anche al potere per
soffocare la carestia. Paradossalmente, questo alimento dei ricchi è
distribuito dal potere ai poveri durante i periodi di penuria.
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da un lato quella della carne, del latte e del burro, e dall'altra quella del
pane, del vino e dell'olio. Il mito dell'agricoltura e della città si opponeva
selvaggiamente a quello delle foreste e dei villaggi.
L'opposizione tra queste due modalità alimentari raggiunse l'apice nel III e
IV secolo quando i rapporti di forza si rovesciarono a beneficio dei barbari.
Ciò non toglie che anche dopo la caduta dell'Impero, il modello Romano
lasciò tracce profonde nelle popolazioni delle loro ex colonie.
Più che di una conversione dei barbari all'ideologia romana, è più corretto
parlare di simbiosi tra due diverse culture. Questa integrazione
dell'ideologia romana, infatti, non rimetteva in questione la tradizione
barbara, che ne usciva addirittura rafforzata! La caccia, l'allevamento di
animali in semi-libertà, la pesca di fiume e di lago, la raccolta, erano elevati
al rango di attività nobili alla stregua dell'agricoltura e della coltura delle
viti. Lo sfruttamento della foresta era una pratica corrente degna di
considerazione sul piano sociale per coloro che la esercitavano. Mentre i
vigneti erano misurati in anfore di vino, i campi in "boisseau" di grano e i
prati in carri di fieno, le foreste dal canto loro erano "misurate" in maiali (dei
quali il cinghiale era l'antenato), un'unità di misura cara alla civiltà celtica e
sempre in vigore nel mondo germanico.
I cereali inferiori (orzo, farro, miglio, sorgo, segale ☀⤀ molto più diffusi del
grano erano spesso accompagnati da legumi (fave, fagioli, piselli, ceci).
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Questa complementarità tra le risorse animali e vegetali consentì dunque di
garantire un cibo equilibrato alle popolazioni europee dell'Alto Medio Evo.
Non sembra dunque che l'Alto Medio Evo abbia conosciuto malattie di
carenza o di malnutrizione, come quelle che caratterizzarono i secoli
successivi.
Pur non essendo stata un'epoca di cuccagna, l'Alto Medio Evo non era così
sordido e oscuro come alcuni vogliono farci credere. Sul piano alimentare in
ogni caso, sia dal punto quantitativo che dal punto di vista qualitativo,
questo periodo fu piuttosto soddisfacente e comunque di gran lunga
superiore al periodo successivo.
A partire dalla metà del X secolo gli equilibri della produzione alimentare
che si erano insediati nell'Alto Medio Evo sono stati progressivamente
rimessi in questione.
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Bisogna anche dire che, oltre all'aumento del numero di bocche da sfamare,
le condizioni strutturali di questa economia sono radicalmente cambiate:
con lo sviluppo del commercio sta emergendo una vera e propria economia
di mercato.
Si pone l'accento sulla cultura dei cereali, sia perché sono facili da
conservare e da stoccare, ma anche perché consentono di soddisfare la
richiesta dei nuovi circuiti commerciali.
Anche se con il favore della pesta nera verso la metà del XIV secolo la
pressione demografica segna il passo, cosa che consente alla produzione di
carne di fare nuovamente la sua comparsa nelle fattorie, la progressiva
differenziazione dei regimi alimentari in funzione delle classi sociali si
afferma sempre più.
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tutti i paesi europei, anche se esisteva già da diversi secoli in Italia dove,
sotto l'impulso romano, il fenomeno urbano si era ampiamente sviluppato.
I Tempi Moderni
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l'espansione dell'agricoltura ha come conseguenza un aumento della
percentuale dei semi nell'alimentazione popolare che, per questo motivo,
diventa meno varia e sempre più carente di proteine.
A Napoli per esempio nel XVI secolo si uccidevano circa 30.000 bovini l'anno
per una popolazione di 200.000 persone. Due secoli più tardi ne venivano
uccisi solo 20.000 mentre la popolazione era di 400.000 persone.
A Berlino il consumo di carne pro capite nel XIX secolo era dodici volte
inferiore rispetto al XIV secolo.
Nella Languedoc alla fine del XVI secolo la maggiore parte delle fattorie
allevavano un solo maiale l'anno, una quantità tre volte inferiore rispetto
all'inizio del secolo.
Questo notevole degrado della razione alimentare della gente del popolo
variava ovviamente in funzione del paese e della regione. Lasciò comunque
tracce innegabili nelle popolazioni interessate, la cui salute fu molto colpita.
Secondo numerose statistiche, questi eventi avrebbero addirittura influito
negativamente sull'altezza degli individui.
Nel corso del XVIII secolo l'altezza media dei soldati reclutati dagli Asburgo
sembra essere diminuita, così come quelle delle reclute svedesi. In
Inghilterra, e in particolare a Londra, si nota che l'altezza degli adolescenti è
notevolmente diminuita alla fine del XVIII secolo. All'inizio del XIX secolo
l'altezza dei tedeschi sarebbe stata nettamente inferiore a quella che era
nel XIV e nel XV secolo.
Allo stesso modo gli abitanti delle aree montane sfuggivano sempre alle
carestie nella misura in cui il loro regime alimentare abbinava i prodotti
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dell'agricoltura, dell'allevamento, della raccolta, della caccia e della pesca.
Per questo motivo gli abitanti della montagna, la cui alimentazione non
presentava carenze, erano molto più alti e forte rispetto alla media. Questo
migliore stato di salute spiegava dunque perché fossero molto più attivi e
intraprendenti degli altri.
Un altro fattore che ha concorso all degrado del regime alimentare del
contadino è stata la trasformazione della proprietà rurale, che passava
progressivamente nelle mani dei ricchi proprietari (signori, borghesia ☀⤀⸀
Nell'Ile de France a metà del XVI secolo solo un terzo delle terre
apparteneva ancora ai contadini.
Un secolo più tardi il numero di piccoli proprietari era ancora diminuito. In
Borgogna, in alcuni villaggi, essi erano quasi tutti scomparsi dopo la guerra
dei trent'anni.
Altre diversificazioni sono meno felici. In Italia e nel Sud Ovest della Francia
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le gallette e le pappe d'orzo e di miglio furono sostituite da gallette di
polenta di mais. L'inconveniente fu che si dovette in seguito fronteggiare le
varie epidemie di pellagra provocate da una carenza di vitamina PP nel
mais, quando questo cereale è consumato come alimento di base.
Numerosi altri nuovi alimenti giunsero poi dal Nuovo Mondo (il pomodoro, il
fagiolo messicano, il tacchino…) ma la loro introduzione molto lenta e
progressiva in agricoltura non cambiò davvero il paesaggio alimentare.
Oltre all'emergere della patata, che in alcuni paesi come l'Irlanda divenne la
base dell'alimentazione con rischi identici a quelli del grano in caso di
carestia, altri due fenomeni alimentari che sopraggiunsero nel XIX secolo
meritano di essere sottolineati dato il loro impatto futuro sulla salute dei
nostri contemporanei.
Il pane bianco dei nostri antenati non era altro che ciò che oggi chiamiamo
pane nero, ossia il pane semi-integrale.
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Se si considera però che questa operazione di setacciatura della macinatura
era lunga e onerosa (era realizzata a mano), ciò spiega perché il pane
bianco fosse un lusso che solo i privilegiati potevano permettersi.
L'avvento del mulino a cilindro alla fine del XIX secolo e la sua
generalizzazione all'inizio del XX secolo avrebbe dunque cambiato
radicalmente la natura della farina, che risultò di gran lunga impoverita sul
piano nutrizionale, poiché era costituita esclusivamente di amido. Le
preziose proteine, le fibre, gli acidi grassi essenziali e le altre vitamine B
erano per la maggior parte eliminate con l'operazione di raffinazione.
Il fatto che la farina fosse diventata improvvisamente un alimento
impoverito sul piano nutrizionale non rappresentava un vero problema per
la salute dei ricchi, poiché le classi privilegiate beneficiavano di
un'alimentazione varia ed equilibrata.
Ma per gli strati sociali svantaggiati, per i quali il pane era rimasto la base
dell'alimentazione, il consumo di questo alimento sprovvisto del suo valore
nutrizionale avrebbe accentuato le carenze di un'alimentazione che era già
piuttosto squilibrata.
L'Era Contemporanea
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condizionare un gran numero di alimenti freschi sotto forma di conserve o di
surgelati (frutta, verdura, carne, pesce…)
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BIBLIOGRAFIA GENERALE
S. GHIAZZA, Le funzion del cibo nel testo letterario, WIP Edizioni 2011
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