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Economia del settore agroalimentare

di Valerio Morelli
Appunti del corso di Economia del Settore Agroalimentare tenuto dalla Docente
Prof.ssa Anna Carbone presso l'Università della Tuscia

Università: Università degli Studi della Tuscia


Facoltà: Economia
Docente: Prof.ssa Anna Carbone
Valerio Morelli Sezione Appunti

1. La manodopera nel settore agricolo


La tabella mostra le diverse figure della manodopera impiegata nelle aziende agricole.
Abbiamo due grandi gruppi: manodopera familiare e altra manodopera. Le prime righe sono occupate
dai diversi ordinamenti produttivi, il secondo gruppo di righe distingue per dimensione economica delle
aziende; guardando l’ultima riga del totale, si notano alcuni aspetti rilevanti. Ad esempio, il 52%, la metà
abbondante di tutta la manodopera utilizzata nell’agricoltura italiana, è lavoro erogato dal conduttore,
dall’imprenditore. Nel complesso, la manodopera familiare rappresenta l’85%, la stragrande maggioranza
del lavoro erogato. Le altre figure familiari compaiono in proporzioni ridotte: 16% del coniuge, altri
familiari più del 10% e parenti meno del 5%. Le altre colonne, che riguardano il ruolo della manodopera
salariata, non familiare, distinta a sua volta in salariati fissi, ossia impiegati a tempo indeterminato, i quali
contano davvero poco; 0.9% sono coloro che svolgono un ruolo dirigenziale, 3% sono operai, persone
assunte a tempo indeterminato nelle aziende agricole, che si occupano di mansioni manuali. A tempo
determinato, in particolare nella posizione degli operai, le cose cambiano; troviamo un quasi 10% del lavoro
complessivamente erogato, perché i lavori in agricoltura, il fabbisogno di manodopera in agricoltura è
molto a singhiozzo, il calendario dei lavori è mal distribuito nel corso dell’anno. Si verificano momenti di
picco, ad esempio per le culture arboree, il momento della raccolta o potatura. Raccolta che è momento di
picco anche per seminativi e ortive, momento di picco nell’assorbimento. Questo fa si che, in aziende
piccole, dove nel corso dell’anno c’è esubero di manodopera disponibile, inutilizzata, poi in alcuni momenti,
per alcuni giorni o settimane, c’è bisogno di prendere persone dall’esterno, poiché la disponibilità familiare
non basta più. In altri casi, il problema della discrepanza tra domanda e offerta di manodopera aziendale,
deriva dal tipo di mansione da svolgere. Se analizziamo, dettagliatamente, i diversi ordinamenti produttivi,
l’incidenza della manodopera a tempo determinato, cambia a seconda del tipo di produzioni prevalenti.
Ad esempio, è piuttosto bassa nell’ordinamento specializzato a seminativi, dove la raccolta è meccanizzata,
c’è il terzista e non c’è assunzione di operai. Dato più forte nell’OTE dell’ortofloricoltura, nella frutticoltura,
nell’olivicoltura, e poi si riabbassa nel caso degli allevamenti, dove gli stessi allevamenti hanno la % più alta
della manodopera a tempo indeterminato, perché sono quelle produzioni per cui il fabbisogno di
manodopera è elevato e costante per tutto l’anno. Nel leggere queste %, importante è la distorsione,
derivante dalla qualità del lavoro erogato che, nel caso delle aziende familiari, porta ad una sovrastima, dove
la % è calcolata sul numero di giornate lavorate, dichiarate al momento del censimento dal conduttore
aziendale. Percentuale di aziende per l’impegno aziendale del conduttore. Da questa tabella emerge che, 1
imprenditore su 4 possiede un’altra attività, esterna all’azienda, il 25%. Nel caso delle dimensioni aziendali,
la % di pluriattività è più alta nelle aziende piccole, e si riduce progressivamente man mano che aumentano
le dimensioni delle aziende; laddove le dimensioni aziendali lo consentono, l’impegno dell’imprenditore si
concentra in azienda. Se, invece, la relazione di capitali dell’impresa non permette di generare reddito
sufficiente per la famiglia, strategia più frequente è la pluriattività. Se si scremasse il dato del 25%, da quelle
imprese gestite da imprenditori anziani, l’incidenza sarebbe più elevata. Nel dettaglio degli ordinamenti
produttivi, emergono alcune differenziazioni significative, ad esempio l’OTE a culture ortive o floricole ha
un’incidenza della pluriattività più bassa rispetto alle altre, perché si tratta di ordinamenti produttivi che

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richiedono più impegno in azienda, sia come erogazione quotidiana di manodopera, che come impegno
gestionale. Al tempo stesso, sono anche ordinamenti produttivi che generano redditi maggiori, c’è minore
spinta verso la ricerca di un’altra attività. Ci sono poi ordinamenti dove la pluriattività non incide di più. La
prima colonna riguarda imprenditori agricoli full time, a tempo pieno, oppure che hanno un impegno in
azienda prevalente. Quando l’imprenditore agricolo è pluriattivo, impegnato in un altro settore, l’attività
extragricola tende quasi sempre ad essere prevalente come impegno.

Attività extraziendale del conduttore part time


Qui c’è il dato % di quello che fanno gli imprenditori agricoli pluriattivi, come attività al di fuori della loro
azienda. Alcuni, il 16%, sono attivi in agricoltura, fuori dalla loro azienda, ma sempre nel settore primario.
Più del 25% sono attivi nell’industria, e a seguire negli altri settori. RLS aziendale per impegno in azienda
del conduttore. Si può vedere come si differenzia il dato medio, a parità di dimensioni aziendali, nel caso
dell’attività a tempo pieno in azienda, o nel caso della pluriattività, con l’attività mista che riduce il reddito
aziendale.

Sull’asse delle ordinate, di questo grafico, ci sono dati % sull’incidenza di agricoltori con meno di 40 anni.
La colonna blu riguarda l’agricoltura, quella gialla riguarda l’economia. Sull’asse delle ascisse, troviamo gli
occupati in agricoltura in tutte le figure professionali.
Nell’agricoltura italiana, con meno di 40 anni, abbiamo il 37/38%; negli altri settori dell’economia italiana,
l’incidenza è più elevata, poco sotto il 50%. In alcuni grandi paesi europei, nel complesso del sistema
economico, ci sono più giovani di quanti non ce ne siano in agricoltura. C’è una differenza generale nella
struttura demografica, tra un paese industrializzato e un paese meno ricco, con un’incidenza di
popolazione giovane più elevata nei paesi meno industrializzati, rispetto a quelli ricchi in cui c’è una
tendenza all’invecchiamento, perché s’allunga l’età media, si riducono i tassi di natalità. Dopodiché, c’è una
specificità che riguarda il settore agricolo, che è la senilizzazione del settore, ossia l’invecchiamento della
manodopera utilizzata nel settore agricolo, che dipende dalla selettività del processo dell’esodo agricolo,
avvenuto con l’avvento dell’industrializzazione del paese, quando si sviluppano gli altri settori
dell’economia, il settore industriale, dei servizi e c’è uno spostamento selettivo dei lavoratori dal settore
primario agli altri settori, che riguarda lavoratori più giovani, i quali hanno più facilità a riconvertirsi dal
punto di vista professionale, imparare a fare nuove cose, sono più facilitati nel spostarsi sul territorio dove
c’è domanda di lavoro. Pertanto, nel settore primario tendono a rimanere persone adulte, più grandi d’età.
Quindi, c’è un primo cambiamento della struttura demografica, che avviene in modo concentrato, in
particolar modo in Italia, con uno svuotamento della manodopera più giovane. Col passare del tempo, la
struttura demografica del settore resta squilibrata, perché giovani generazioni che s’affacciano al mondo
del lavoro, vanno in via preferenziale verso gli altri settori. Inoltre, si riducono progressivamente nel tempo i
giovani che entrano nel settore primario; una volta finito l’esodo vero e proprio, continua ad esserci un
assottigliamento delle fila di giovani che, quando terminano gli studi e devono entrare nel mondo del lavoro,
scelgono il settore primario, perché le occasioni d’occupazione sono minori, i redditi sono bassi, e quindi c’è
una selezione anche in entrata. In Italia, dagli anni ’50 agli anni ’80, c’è stato un allungamento dell’età

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scolare, un ritardo nell’entrata del mondo del lavoro che si è man mano esteso, spostando verso l’alto la
piramide demografica degli occupati in agricoltura. La minore presenza di giovani è un fatto comune
all’agricoltura dei principali paesi dell’UE.
Tuttavia, c’è qualche differenziazione tra paese e paese. Ad esempio, un dato rilevante è la situazione del
Portogallo, dove c’è un’incidenza di giovani in agricoltura bassissima, a differenza degli altri settori in cui la
presenza di giovani è piuttosto elevata. Questo grafico, per il Portogallo, evidenzia una specificità
dell’agricoltura. Portogallo che si comporta in maniera un po’ anomala, nel caso della distribuzione delle
aziende agricole, per classi dimensionali, dove emerge una situazione di frammentazione drammatica,
peggiore, rispetto all’Italia. In Olanda, invece, c’è una situazione opposta. Ci sono parecchi giovani
nell’agricoltura, dove la situazione agricola non è molto diversa dagli altri settori dell’economia. Il grafico ci
dice che, quando c’è una maglia aziendale più forte, l’agricoltura trattiene e/o attira più giovani; viceversa,
laddove la maglia aziendale è più fragile, c’è minore presenza di giovani.

Questo grafico riporta l’incidenza dei lavoratori anziani, molto anziani come lavoratori, in un’età (65 anni)
in cui si va in pensione come lavoratori dipendenti. Le barre gialle, che riguardano l’intera economia, sono
basse, ci sono pochi lavoratori occupati nei paesi europei. Qui è la situazione è completamente diversa. Il
massimo è il 15% dei lavoratori agricoli in Portogallo. I lavoratori, sostanzialmente, sono pochi; ci sono
liberi professionisti, imprenditori, lavoratori autonomi. Mentre, in agricoltura, ce ne sono sempre di più, in
ogni paese. Si nota che, in alcuni paesi, c’è una presenza particolarmente forte, come Portogallo appunto,
Grecia, Italia, Danimarca. Un primo motivo per cui, in agricoltura, la manodopera tende a restare attiva,
anche molto in avanti negli anni, è lo stesso settore che, essendo una struttura d’impresa di tipo familiare, i
lavoratori tendono ad andare in pensione, smettono l’attività, oppure vanno in pensione ma la proseguono
nella loro impresa. In agricoltura c’è una specificità in più, che riguarda la commistione tra la vita
professionale e la vita delle persone; la vita nell’azienda agricola, spesso, è la vita delle persone, in azienda
c’è la residenza di queste persone. Qualora non ci fosse un familiare interessato a subentrare, in maniera
attiva, non avviene successione. Come si valuta questo fenomeno? Fenomeno che presenta dei chiaroscuri:
da una parte, se l’alternativa è l’abbandono totale dei terreni agricoli, è meglio che ci sia qualcuno, per
quanto anziano, che si preoccupi ancora del governo dei terreni; dall’altra parte, la permanenza degli anziani
in azienda tende a irrigidire ulteriormente il mercato fondiario già rigido, riducendo l’offerta di terreni. In
Francia hanno fatto un esperimento, operante già da diversi anni, che è una Banca dei Terreni, una banca
dati dei terreni disponibili o che lo saranno in un certo orizzonte temporale, terreni condotti da imprenditori
agricoli anziani, che non hanno una successione interna alla famiglia, e nel giro di un tot numero di anni,
non saranno più coltivati dall’imprenditore attuale. A fronte di questo, c’è una potenziale domanda di
terreni, un’altra banca dati, domanda e offerta di terreni; da una parte ci sono giovani imprenditori agricoli,
che magari hanno pochi terreni e vorrebbero ingrandirsi, oppure giovani aspiranti imprenditori agricoli. La
domanda di terreni è specificata, segmentata, a seconda dell’ubicazione dei terreni, o di dove gli aspiranti
vorrebbero avviare un’attività.
Banca dati che svolge una funzione di mediazione tra imprenditori agricoli, potenziali uscenti e potenziali
entranti, cerca di assortirli e di facilitare un’attività d’affiancamento nel tempo, ossia un’acquisizione di

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competenze, dall’anziano in uscita al giovane in entrata.

Questo grafico è sempre una ripartizione per diverse classi d’età: sotto 44 anni, tra i 45 e 64 anni e sopra i
65; riguarda solo i conduttori aziendali, gli imprenditori agricoli. In questo caso, si mostra come la
situazione demografica, con riferimento ai conduttori aziendali, sia molto più esasperata, i lavoratori
salariati tendono ad essere più giovani degli imprenditori. La situazione dell’invecchiamento del lavoro
agricolo è dovuta proprio all’invecchiamento degli imprenditori stessi. Ulteriore fattore d’invecchiamento
della manodopera, abbastanza recente, che iniziò ad esercitare in Italia i suoi effetti negli anni ’80, è una
sorta di ritorno all’agricoltura.
C’è stato un processo di inversione dei saldi demografici dei lavoratori agricoli, per cui dai 60 anni in su,
ricominciavano ad esserci dei saldi attivi; questo perché, in quel periodo, c’erano pensionamenti anticipati
come età, persone che andavano presto in pensione da altre occupazioni, e invece di non far nulla,
iniziavano un’attività di agricoltori, o essendo di estrazione agricola come famiglia, ossia poteva essere un
ritorno all’agricoltura di persone che, da giovani, erano uscite dal settore primario, oppure persone che non
avevano mai fatto gli agricoltori, ad esempio smettono di lavorare, lasciano la città, vanno a vivere in
campagna e iniziano una loro attività produttiva. L’incidenza forte di agricoltori anziani ha,
tradizionalmente, delle conseguenze negative, perché i giovani sono meglio istruiti, più propensi al rischio,
hanno un orizzonte di vita maggiore davanti a loro, tendono ad essere imprenditori più dinamici. Alcuni
studiosi rappresentano questo fenomeno, raccontandolo come circolo virtuoso, dove nelle aziende più
grandi, meglio dotate, si tende a restare giovani, perché se si è figlio di agricoltore, che ha un’azienda con
buone prospettive di reddito, è probabile che si decida di rimanere attivi in agricoltura; a sua volta, la
presenza di giovane agricoltore darà un contributo positivo alla redditività dell’azienda, possibilità di
investire capitali, ecc. Nelle aziende minori, invece, che sono meno produttive, meno redditizie, c’è
maggiore probabilità di non avere un successore, di restare abbandonate. NUOVO ARGOMENTO.
Valutazione della misura di sostegno all’ingresso di giovani agricoltori, che l’UE ha incluso nell’ambito
della PAC. È una misura di tipo strutturale, che è un aiuto a fondo perduto, per giovani che intendono
iniziare un’attività in agricoltura, e per favorirne l’insediamento. È un tentativo di valutare se questa misura
è stata efficace o meno; la tesi che si sostiene è che, questa misura non poteva avere nessuna efficacia per
come era costruita, rilevandosi come iniqua. Non essendo riuscita a generare nuove imprese condotte da
giovani, è stata considerata come regalo di 30mila € a giovani che erano già insediati in aziende agricole,
oppure a giovani che non sarebbero mai stati imprenditori agricoli ma avevano un familiare coinvolto in tale
settore.

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2. Evoluzione storica del settore agricolo italiano dal Dopoguerra ad


oggi
I cambiamenti che hanno investito il nostro Paese, in quest’arco di circa 60 anni, sono stati impetuosi e
molto profondi. Il processo di industrializzazione e di modernizzazione della società italiana è avvenuto
nell’arco di 20/30 anni. Se guardiamo agli altri paesi europei, come Inghilterra, Francia e Germania, questo
processo ha interessato un secolo e anche più. C’è stata una concentrazione di fenomeni estremamente
rilevante.

Era un’Italia dove la popolazione era, in grandissima parte, rurale, non urbanizzata, una popolazione che
estraeva il suo sostentamento dal settore primario, soprattutto dall’agricoltura; una popolazione largamente
sott’occupata che, nei contesti rurali, non riusciva ad impiegare la propria capacità lavorativa. Si trattava di
una popolazione non istruita, l’analfabetismo molto diffuso, una popolazione non alimentata
sufficientemente, mal nutrita sia in termini quantitativi, come livello aggregato di assunzione calorica, che in
termini di composizione della dieta. Un’Italia diversa, lontana, rispetto all’Italia che conosciamo oggi. Le
aziende agricole, nell’Italia a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono in
minima parte integrate nel mercato, definite come realtà ancora pre mercantili, realtà economiche di
autoconsumo; in quegli anni c’è il latifondo, la mezzadria, ci sono tante famiglie rurali che sono legate in
quanto famiglia alla terra che lavorano, specie al Sud, ma anche in Toscana e alcune aree dell’Italia
settentrionale come il Veneto. I rapporti sociali erano arcaici, quasi medievali, in termini economico –
sociali; la famiglia contadina era legata al fondo, se si nasceva figlio di contadini, si lavorava poi in
quell’azienda, non si era chiamati a fare individualmente una propria scelta. Con il latifondista c’era un
rapporto di tipo signorile, un rapporto che in alcuni casi non era molto distante dalle gerarchie sociali di tipo
medievale. Il fatto che le aziende agricole erano chiuse in se stesse, poiché realtà di autoconsumo, aveva dei
risvolti rilevanti non solo sul piano sociale, ma anche sul piano tecnologico e delle scelte produttive. In quel
periodo il mercato era perlopiù locale, i trasporti non erano sviluppati, s’avevano piccoli mercati marginali
locali dal punto di vista geografico.
La maggior parte della produzione serviva per il consumo familiare, per la sopravvivenza della famiglia, il
che significa che, il tipo di produzioni che venivano attivate dall’agricoltore, quello che in agricoltura si
chiama l’ordinamento produttivo, le aziende agricole sono aziende multi prodotto. Nel caso di aziende di
autoconsumo, l’esigenza di produrre tante cose è molto forte; l’azienda che produce per autoconsumo deve
attivare tutti i processi produttivi che danno luogo a tutti gli alimenti di cui la famiglia ha bisogno nel corso
dell’anno. È un’azienda dove le dimensioni dei singoli processi produttivi sono minuscole, perché devono
corrispondere al fabbisogno alimentare di un nucleo di persone che difficilmente supera le 15/20 unità.
Processi produttivi, quindi, molto frammentati, parcellizzati. Il vantaggio più importante di tutti
dell’esistenza del mercato è che il mercato attiva degli scambi, e gli scambi permettono la specializzazione,
consentono a ogni soggetto presente nel mercato di produrre solo la cosa per la quale è più produttivo, che
gli riesce meglio, perché i fattori della produzione di cui dispone sono più adatti a produrre una certa cosa, e
tutti gli altri beni di cui ha necessità per vivere li ottiene attraverso il meccanismo dello scambio. Quest’altri

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beni saranno prodotti da soggetti che, a loro volta, sono specializzati nella produzione di ognuna di queste
cose, sono più efficienti, più produttivi, c’è quindi un vantaggio complessivo di tutti coloro che partecipano
allo scambio. Questo è il nocciolo duro dell’ideologia liberista, ma anche la parte più forte sulla quale c’è
meno disaccordo.

Per quanto riguarda l’azienda agricola italiana del Dopoguerra, possiamo vedere come la necessità di
produrre tante cose per soddisfare i bisogni alimentari della famiglia, parcellizza i processi produttivi e fa si
che, presso qualsiasi zona italiana ci trovassimo, si producesse in quell’azienda un po’ di ogni cosa. In
Piemonte, ad esempio, si trovavano delle piccole limonaie, protette contro i muri, i vasi coi limoni l’inverno
venivano portati al chiuso, perché non c’erano mercati tali da far arrivare i limoni calabresi o siciliani anche
in Piemonte; allo stesso modo, un po’ di latte necessario per i figli dell’agricoltore, nelle zone collinari
interne dell’Italia meridionale, dove le condizioni ambientali non sono invocate per produrre latte in modo
efficiente, si ricavava dalla singola vacca nella stalla che serviva a produrre quel po’ di latte che altrimenti
non sarebbe stato disponibile.
Si parla, quindi, di aziende agricole estremamente despecializzate, con tanti processi produttivi, ognuno
attivato a livello infimi; queste aziende, chiuse dal lato degli sbocchi delle proprie produzioni, erano anche
chiuse dal lato dell’acquisizione dei fattori produttivi. Non vi erano mercati per i beni finali, nemmeno per i
fattori della produzione, la tecnologia che s’adottava nell’aziende era semplice, mezzi tecnici pochi e quasi
tutti autoprodotti, la semente era un po’ del raccolto dell’anno precedente trattenuto per attivare la semina
l’anno successivo, il concime era il letame dell’unica vacca che serviva per produrre latte e letame per
concimare i campi, la forza lavoro era familiare come manodopera, la forza meccanica che era bestiame e
attrezzi semplici prodotti in azienda o reperibili dal fabbro o falegname del paese.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, negli anni successivi, l’economia italiana all’inizio
lentamente, e a seguire a ritmi sempre più incalzanti, comincia a crescere moltissimo. Rapidamente vengono
costruite infrastrutture, soprattutto per via dell’intervento pubblico, s’iniziano a costruire tante strade,
potenziare le ferrovie, il sistema dei trasporti pubblici si potenzia molto, nascono le prime grandi industrie,
prima nel triangolo industriale Lombardia – Piemonte – Liguria, qualcosa al Sud quelle che saranno
chiamate cattedrali nel deserto. Le industrie sottraggono braccia all’agricoltura, una parte consistente dei
lavoratori agricoli si sposta dal settore primario all’industria, spostamento che riguarda inizialmente gli
uomini e non le donne, implica uno spostamento di popolazione dal Sud al Nord, dalle campagne alla città,
quindi il fenomeno di inurbamento è dilagante, e selettivo per genere ed età, perché i primi che vanno a
lavorare nella nascente industria sono maschi giovani, mentre nelle campagne rimangono soprattutto donne
anziane. In quegli anni, l’agricoltura è un settore definito come serbatoio di manodopera, proprio perché
non riusciva a dare impiego a tutte le persone che vivevano nei contesti rurali, intrappolate in agricoltura,
da l’assenza di alternative, nonostante il verificarsi delle grandi ondate emigratorie dell’Italia tra la fine
dell’800 e inizi 900, di italiani che non riuscivano ad essere occupati in agricoltura e non avevano reddito.
Italiani che si erano recati verso l’America latina, l’America del Nord. Nel ventennio fascista erano state
bloccate le emigrazioni, ma subito dopo la guerra ripartono verso la Germania, la Francia. In questo periodo,

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sono 10 mln e più le persone che si spostano. Processo dirompente che ha una serie di risvolti interessanti da
un punto di vista del settore agricolo. Non c’è più coincidenza geografica tra la produzione agricola e il
consumo, perché se milioni di persone s’allontanano dalle campagne per andare in città, si crea una netta
separazione tra il momento della produzione e quello del consumo; si generano i mercati, l’esigenza di
spostare merci, produrre per il mercato. Inoltre, l’industria nascente di quegli anni è industria meccanica e
chimica, si inizia a creare un mercato di mezzi tecnici, di fattori produttivi per l’agricoltura, la quale si apre
al mercato nel giro di pochi anni, sia dal lato dei fattori della produzione sia dal lato dei beni che genera. Lo
sviluppo delle infrastrutture di trasporto accompagna questo processo, perché mezzi tecnici e beni possono
spostarsi lungo il paese. Questa apertura fa aumentare moltissimo la produzione, perché l’acquisizione dei
mezzi tecnici dall’esterno introduce progresso tecnico che rende l’agricoltura più produttiva, aumenta la
produzione e la produttività.

L’apertura al mercato sul lato dei beni rende possibile la specializzazione dell’aziende che, producendo
per il mercato e iniziando ad esistere mercati più sviluppati, ci si può permettere di non produrre qualcosa,
definire produzioni per le quali le diverse aree sono più richiamate, diversi terreni sono più produttivi, la
cultura che si è stratificata nel tempo rende le persone più abili a produrre. Specializzazione che fa
aumentare la produttività del lavoro e della terra; produttività del lavoro aumenta perché da un lato c’è molta
manodopera che esce, produttività che è il rapporto tra il prodotto e il fattore produttivo, espressa in quantità
o in valore. Si parla di produttività globale quando al numeratore sono contabilizzati i fattori produttivi e si
può misurare solo in valore. La produttività parziale, invece, può essere espressa anche in quantità, come la
produttività del lavoro o della terra, definita come rapporto tra una certa quantità di prodotto ottenuto e il
numero delle ore di lavoro necessarie per ottenerlo. La produzione aumenta perché aumenta moltissimo la
produttività.

In particolar modo aumenta la produttività del lavoro e della terra, per via della meccanizzazione, dove i
mezzi meccanici sono sostituti del lavoro, e per via dell’utilizzazione massiccia di input chimici, sementi
geneticamente migliorati e selezionati, migliori rotazioni agronomiche inserite e processo di
specializzazione selettiva, per cui i terreni sono utilizzati per produrre ciò che sono più invocati a produrre.
Durante questo periodo, si riduce la quantità di lavoro utilizzata, perché ci sono milioni di lavoratori che
passano dal settore primario all’industria e servizi, ma erano lavoratori sott’occupati, il cui contributo
marginale era ridottissimo all’ottenimento della produzione, e si riduce anche la terra usata in agricoltura,
poiché i processi di industrializzazione e di urbanizzazione rubano terra all’agricoltura, perché utilizzano
terreno ed esprimono domanda di terra, cioè la terra di pianura più vicina alle infrastrutture, alla viabilità.
C’è competizione, che inizia in quegli anni e c’è tutt’oggi, tra l’agricoltura e gli altri settori nell’uso della
terra. Effetti competizione fondamentali in un paese come l’Italia, che è un paese strutturalmente povero di
terra e di terreni agricoli: carente di terra perché è un paese piccolo, densamente popolato, e povero di
terreni agricoli perché è un paese montuoso e collinare, dove una parte rilevante di questi terreni che sono
pochi non è soggetta ad essere coltivata, utilizzata in agricoltura o lo è parzialmente con livelli di
produttività ridotti. Nella competizione per l’uso della terra, i settori non agricoli come l’industria, servizi e

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usi urbani, vincono rispetto all’agricoltura, in questa competizione per accaparrarsi questa risorsa scarsa,
perché sono più produttivi e remunerano meglio questa risorsa scarsa. Ogni fattore produttivo si muove da
un uso all’altro, in base al livello di remunerazione, e settori che rendono più produttivo quel fattore sono
settori che lo utilizzeranno intensamente. I lavoratori si spostavano dall’agricoltura all’industria, perché i
salari che ottenevano in agricoltura erano inferiori ai salari ottenuti in altri settori, livello d’impiego e di
produttività erano più bassi. Lavoro e terra si sono spostati massicciamente dal settore primario a usi non
agricoli. Con la crescita del reddito, i consumi alimentari sono migliorati moltissimo; il problema della fame
è diventato ricordo del passato. Aumenta l’assunzione di calorie, migliora e cambia la dieta, perché non solo
è cambiata la composizione in termini di categorie di alimenti.
Nelle società rurali del Dopoguerra, la base della dieta era data da cereali, e prodotti zootecnici, ma anche
frutta e ortaggi avevano un ruolo marginale; il consumo dei grassi vegetali e animali era ridotto, il vino era
consumato in maniera ubiquitaria dalla popolazione, e svolgeva una funzione importante l’integrazione
calorica. Tutto ciò cambia nel giro di pochi anni, perché le mansioni svolte dagli operai nell’industria non
sono compatibili col tasso alcoolico elevato nel sangue, quindi i consumi di vino si riducono velocemente e
aumentano i consumi di prodotti zootecnici, latte e derivati, carni e aumentano anche i prodotti ortofrutticoli.
Quella era l’Italia del boom demografico, un paese molto giovane dove i rapporti tra le diverse classi d’età
erano diverse da quelle di oggi, c’erano meno anziani e più bambini/ragazzi. L’incremento in termini
assoluti della popolazione fa crescere i consumi alimentari e di queste categorie, che i bassi livelli del
reddito comprimevano. Come il reddito inizia a crescere, c’è un cambiamento interno nei consumi
alimentari tra queste diverse categorie di alimenti. L’eventuale trasformazione delle materie prime in
alimenti pronti per il consumo, avviene in gran parte in azienda; il grano, ad esempio, viene portato al
mulino per la farina, ma viene portato su base individuale, la farina si riporta in casa, così come pane e
pasta. Stesso discorso vale anche per pelati e olio. La rudimentale trasformazione delle materie prime
agricole per renderle alimenti avviene su base domestica. Con il svilupparsi dei mercati agricoli, si
esternalizzano alcune funzioni al di fuori della famiglia, si sviluppa un’industria alimentare. Queste
trasformazioni cambiano velocemente la posizione delle aziende agricole, da produttrici di beni che
vengono auto consumati (niente mercato) a produttrici di beni che, in parte, vanno sul mercato e, in parte,
vanno sul mercato finale, perché sono beni destinati direttamente al consumo e destinati anche ad un
mercato intermedio, perché sono beni venduti all’industria, che li utilizza come materie prime per una
successiva trasformazione e seguente immissione sul mercato. L’agricoltura cambia notevolmente i suoi
interlocutori, acquisisce nuovi interlocutori a monte per il reperimento delle materie prime e fattori
produttivi, e a valle per la vendita dei prodotti. Tutto l’agroalimentare italiano si apre agli scambi con
l’estero.

In quei tempi, le persone non attraversavano il confine e neppure i prodotti. Era stato un ventennio
autarchico. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e dell’integrazione europea, che sfocia nella costruzione
di un vero e proprio mercato unico, l’Italia s’integra in un sistema di scambi molto intenso, che è un dato
fondamentale per l’agricoltura. Il dato della scarsità dei terreni che caratterizza l’agricoltura italiana è un
dato importante da un punto di vista macroeconomico, dove crescita del reddito e boom demografico fanno

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crescere moltissimo i consumi alimentari, perché l’Italia è un paese strutturalmente deficitario di beni
agroalimentari, e inizia ad importare alimenti finali e materie prime agricole dal resto del mondo. Si
sviluppano sia scambi in entrata, l’Italia è paese importatore di beni agroalimentari, che scambi in uscita,
perché l’Italia è soprattutto esportatore di prodotti trasformati dell’industria alimentare. Uno dei pilastri
costruttivi iniziali della CE è stata la Politica Agricola Comune (PAC), la prima e fino a tempi recenti la più
importante sfera di azione della CE e poi dell’UE, più importante in termini sia di bilancio che di apparato
normativo. La PAC ha sostenuto, incentivato e protetto, a partire dai primissimi anni della sua operatività, le
produzioni continentali, in particolar modo cereali e zootecnia bovina da latte e da carne. L’integrazione è
stata un po’ contraddittoria, perché incentivando queste produzioni, per le quali l’Italia non è
particolarmente evocata, a differenza di Francia, Germania e parte del Regno Unito, ha creato una
distorsione nella specializzazione produttiva dei paesi, e quindi anche dell’Italia che, per condizioni
ambientali naturali, sarebbe stata più invocata a produrre ortofrutta, olio, vino, le produzione mediterranee.
Una parte rilevante delle risorse agricole del Paese è stata dirottata, sotto l’azione di questi incentivi stabiliti
all’interno della PAC, a produrre altre produzioni. Altro dato strutturale importante dell’Italia è che, pur
essendo molto piccolo il Paese, è un Paese con condizioni produttive per l’agricoltura e condizioni
ambientali, climatiche e pedologiche, molto differenziato. L’Italia ha una peculiarità dettata una varietà di
ambienti, con avocazione produttiva diversa. Fino a metà degli anni ’70, la gestione del settore agricolo è
stata unitaria, in quanto non esistevano le regioni, istituite nel ’72. Questa è una fase nella quale, il governo
da parte del settore pubblico di questi processi, è stato molto centralizzato, seppur la Cassa del Mezzogiorno
operava nel settore industriale e per la costruzione di acquedotti, alcune opere per il settore primario, gestite
con una ripartizione territoriale a larga scala.

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3. Aspetti strutturali dell’agricoltura italiana


Altro aspetto strutturale dell’agricoltura italiana è rappresentato dalle dimensioni delle unità produttive
, delle aziende agricole. Storicamente, la struttura delle aziende agricole in Italia è estremamente
frammentata, in unità di piccolissime dimensioni. Queste dimensioni molto piccole, che sono il carattere
dominante della stragrande maggioranza delle aziende agricole italiane, hanno un numero ridotto di
aziende molto grandi; negli anni ’50 il latifondo caratterizzava ampissime regioni dell’Italia meridionale e
non solo. Si trattava di uniche proprietà e decine di migliaia di ettari di terreno, grandi come province. Un
ettaro di terreno sono 10 mila m2, un quadrato di 100 mt di lato. Proprietà quindi enormi gestite in maniera
estensiva, con investimenti minimali, che sfruttavano in termini unitari piccole rendite che, moltiplicate per
decine di migliaia di volte, diventavano rendite consistenti per i proprietari latifondisti, e rappresentavano da
una prospettiva economica generale un uso inefficiente di queste risorse. Tanto meno accettabile in un
contesto dove la proprietà contadina era talmente frammentata, il numero di bocce da sfamare in ogni
piccolissima azienda era elevato da generare situazioni di fame vera e propria. Questa situazione aveva
scatenato delle situazioni esplosive, si verificarono contrasti politici, sociali violentissimi come i moti di
Reggio Calabria. Fu messo in piedi un progetto di riforma fondiaria, partito inizialmente come progetto
ambizioso, doveva riguardare milioni di ettari di terreno fino a rappresentare una % dei terreni coltivati
molto rilevante. Questo progetto che era spinto da alcune forze politiche, era fortemente osteggiato dai
referenti politici dei proprietari terrieri; ci furono forze di spinte di controspinte significative, tanto che alla
fine la legge sulla riforma fondiaria fu approvata nell’50 ma monca, tanto che gli stessi tecnici e politici che
vi avevano lavorato restarono delusi, perché solo un milione di ettari di terreno fu coinvolto da questo
progetto di riforma agraria, completo come disegno a livello teorico, in quanto aveva un piano di espropri,
tutte le proprietà al di sopra di un certo numero di ettari che era stringente come soglia, perché le proprietà
sopra i 300 ettari, poi variava da zona a zona, ma l’ordine di grandezza era qualche centinaio.
Quindi, da decine di migliaia di ettari a poche centinaia, ai proprietari originari restava ben poco. Altra fase
è il riordino fondiario, con la creazione degli appezzamenti, le sistemazioni agrarie, viabilità e infrastrutture
delle abitazioni, questi appoderamenti che devono essere assegnati. Altro limite forte fu la volontà politica
che prevalse di massimizzare il consenso politico di tale operazione, massimizzare la platea dei beneficiari,
gli assegnatari; i terreni espropriati erano pochi, i beneficiari erano il maggior numero possibile per creare
consenso, il risultato fu che la nuova proprietà contadina creata era di dimensioni piccolissime. I terreni,
inoltre, furono assegnati anche a famiglie di artigiani, che si erano inurbate, e ricevettero questo “regalo” di
appezzamento di terra, a prezzo di non aiutare la formazione di questo nucleo di aziende agricole meglio
dotate, più competitive. Questo elemento strutturale di forte debolezza preesisteva, si è confermato e non era
un risultato scontato, in quanto si è parlato di un esodo agricolo massiccio, c’erano speranze che questi
grandi cambiamenti strutturali avrebbero potuto ingrandire la maglia aziendale, ma così non è stato. C’è
stato esodo rurale, spostamento di popolazione dalle campagne alle città; esodo agricolo, spostamenti di
lavoratori precedentemente occupati nel settore primario e poi si sono recati in altri settori (industria e
servizi); mentre la proprietà contadina è rimasta immutata: nonostante piccoli movimenti marginali, non si
è spostata significativamente. Non è scontato che una famiglia si sposta da un luogo all’altro, prima si

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muove il maschio giovane, poi nel giro di tot anni la famiglia si sradica dal luogo d’origine e si sposta,
magari passa una generazione e consolida la nuova localizzazione geografica, ma l’azienda resta di proprietà
della famiglia. Perché questo accade? Primo elemento è che la proprietà terriera è un elemento patrimoniale
importante per la famiglia, una riserva di valore; al di là dell’efficienza del suo utilizzo, ha un suo valore in
quanto tale, sta lì e in un paese dove l’offerta di terra è poca rispetto alla domanda, la terra è quel bene che
tende a mantenere il suo valore. Seconda ragione è che l’Italia è stato un paese caratterizzato da tassi di
inflazione notevoli, specie negli anni ‘70/’80. Quando l’inflazione è elevata, la terra diventa un bene rifugio,
rafforzando la tendenza a non alienare la terra, bensì ne ha aumentato la domanda.
Altro elemento che ha rafforzato questa tendenza alla relativa immobilità del mercato fondiario in Italia, è
stato il tipo di governo del territorio che ha caratterizzato il nostro Paese, cresciuto in maniera tumultuosa
anche nell’urbanizzazione, in un modo spesso e volentieri privo di regolamentazione, con piani urbanistici
assenti, conoscevano varianti che venivano modificate, tenute provvisorie. Questo vuol dire che, e in alcuni
casi tutt’ora è valido, chi aveva un appezzamento di terreno in una zona che potrebbe divenire suscettibile di
essere trasformata in edificabile, lo tiene fermo lì quel terreno anche se non lo coltiva quasi o lo coltiva a
livelli minimali. In quegli anni, tale tendenza all’immobilità era rafforzata anche dalla rigidità del mercato
degli affitti; c’erano poche compravendite di terreni agricoli, ma anche gli affitti dei terreni erano molto più
scarsi di quanto avveniva nella maggior parte degli altri paesi europei, e ciò era dovuto soprattutto alla
legislazione che regolamentava gli affitti dei terreni agricoli, una legislazione garantista per l’affittuario. Se
un proprietario terriero cedeva in affitto dei terreni ad un agricoltore, con lo status di coltivatore diretto, era
molto difficile che alla scadenza del contratto, se voleva rientrare in possesso del terreno, mentre l’affittuario
voleva tenerlo lui in affitto, era difficile per il proprietario riprendersi questi terreni. Ciò ha fatto si che, il
mercato degli affitti è stato scarsamente attivo, perlomeno quello degli affitti legali; per lunghi anni, si è
creato una sorta di mercato parallelo informale, di affitti di brevissimo periodo, e in quel caso garantiva poco
l’affittuario, scoraggiandolo dal fare investimenti sui terreni presi in affitto, terreni usati per produrre poche
culture foraggiere per il bestiame, ma non erano terreni sui quali si facevano investimenti in culture arboree,
che sono produzioni con orizzonte temporale lungo. Il vincolo dimensionale, quindi, delle aziende agricole
, dato dalla disponibilità di terreno, è stato estremamente rigido e permanente nel corso del tempo. Questo
non significa, però, che gli assetti organizzativi, il modo di funzionare dell’agricoltura italiana non abbia
trovato qualche escamotage per superare questo ostacolo. Altro cambiamento degli anni ‘50/’60 fu la
scolarizzazione di massa, l’istruzione universale rivolta a tutti con l’obbligo dell’istruzione, primaria e poi
crescente negli anni a seguire; ciò ha fatto si che, i giovani che s’affacciavano sul mercato del lavoro
nell’70/’80, anche in agricoltura erano giovani diversi da questi che erano stati agricoltori o operai
nell’50/’60.
Se questa prima fase individuata negli anni ’50/’60, di questi cambiamenti forti del boom industriale,
demografico, del grande esodo, della crescita vivace del PIL che ha modificato i redditi e i modi di
consumare delle persone, ha visto imprese del settore pubblico nel campo delle infrastrutture significativo,
l’apertura al mercato internazionale, gradualmente a partire dagli anni ’70 e fortemente negli anni ’80, si
sono verificati cambiamenti meno evidenti nei numeri aggregati dell’economia, cambiamenti organizzativi
molto importanti. Parte di questa seconda fase riguarda anche i primi anni ’90, con un momento di svolta

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nella fine della prima Repubblica, quando ci sono stati cambiamenti sia nella posizione internazionale dell’
Italia con la politica valutaria degli anni ’90, che provocò momenti di rottura importanti per la posizione del
Paese; a livello internazionale, ci fu un’accelerazione nei processi di globalizzazione. Negli anni ‘70/’80,
quella che era indicata come la specificità del mondo contadino, la sua peculiarità e fattore d’isolamento
viene a cadere per una serie di ragioni, prima fra tutte l’istruzione. Parliamo di persone che hanno una
capacità di comprensione del mondo e di apprendimento di funzioni accresciuti rispetto a prima. Anche
bambini e ragazzi che vivono in campagna frequentano le scuole, imparano a leggere e scrivere, sono
giovani meno diversi dai giovani che crescono in contesti urbani, di quanto non era avvenuto nelle
generazioni precedenti. Ciò accade non solo per la presenza di scuole nelle campagne, ma anche perché il
mondo delle campagne è diventato un mondo meno lontano dalla città, di quanto non era prima. Da un lato
le città sono cresciute, con periferie molto ramificate, la rete stradale è cresciuta enormemente avvicinando
le campagne alle città, il sistema dei trasporti è molto più sviluppato, in tutte le famiglie in quel periodo
inizia ad esserci l’automobile o un mezzo a due ruote.
La scolarizzazione degli adolescenti e l’acquisizione di un mezzo per muoversi, autonomo, ha creato questa
nuova figura sociale, divenuta poi economica di consumatori, ma prima di tutto sociale e sono gli
adolescenti. Quando non c’è obbligo scolastico, disponibilità economiche, si esce dall’infanzia e si entra nel
mondo degli adulti, perché si va a lavorare e avvolte anche prima.
Verso la fine degli anni ’60 si sviluppa il movimento della Beat Generation; già c’erano gli studenti di liceo,
ma erano delle èlite. I liceali, prima della Seconda Guerra Mondiale, erano come sono oggi i dottorandi di
ricerca, le èlite del paese. Nel giro di poco più di un decennio, c’è la scuola di massa, l’istruzione superiore
per i giovani, si crea questa nuova classe sociale. Progressivamente, quindi, viene a cadere la diversità
culturale, uno status di inferiorità culturale. Negli anni ’70 si crea una commistione molto forte nelle attività
produttive; per cercare di aggirare il vincolo dimensionale delle aziende agricole che, essendo piccole, non
riuscivano a generare un volume di reddito sufficiente per corrispondere ai fabbisogni della famiglia, molte
famiglie agricole iniziano a diversificare le proprie attività. Per cui, alcuni membri della famiglia restano
attivi in agricoltura, altri cercano lavoro fuori dall’azienda agricola, dal settore agricolo. Questa pluriattività
prende la forma di un partime del conduttore stesso dell’azienda. Pluriattività che prende forme diverse nelle
diverse parti dell’Italia, sia perché il tipo di sviluppo extra agricolo è molto diverso nelle diverse parti del
Paese, le possibilità occupazionali nei settori non agricoli sono differenti nelle diverse aree. Nel Lazio, ad
esempio, una vasta area intorno a Roma, che prende porzioni della regione non irrilevanti, è caratterizzata da
una forma di pluriattività, nella quale all’agricoltura s’affiancano attività terziarie, specie nella PA e anche
nel commercio. Nel Nord – Est del Paese, nelle zone caratterizzate da uno sviluppo industriale diffuso, come
i distretti industriali, modelli di sviluppo a piccola e piccolissima industrializzazione diffusa sul territorio
che caratterizza il Nord – Est – Centro (NEC), la dorsale adriatica dal Veneto fino a Umbria, Toscana e
Puglia. La nascita dei distretti è stata messa in contrapposizione con la prima fase di grande crisi
dell’industria fordista, verticalmente integrata. I primi processi di esternalizzazione delle funzioni delle
grandi industrie, hanno dato luogo a nuclei di piccole imprese che nascevano come subappaltatrici delle
grandi imprese, e si sono sviluppate secondo loro logiche autonome. Queste imprese del modello
distrettuale, secondo alcuni economisti, hanno tratto linfa dalle capacità imprenditoriali che si erano

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sviluppate in agricoltura nelle imprese mezzadrili, diffuse in Toscana, Umbria, Marche e piccola parte in
Emilia Romagna.

La mezzadria (share cropping) è quell’impresa dove gli imprenditori sono due: c’è un proprietario terriero
che nell’impresa mette la terra e una parte dei capitali fondiari, che servono ad acquisire il bestiame, la
stalla; il mezzadro concorre all’impresa col lavoro suo e della famiglia e coi mezzi tecnici. Il mezzadro non
è un lavoratore alle dipendenze del proprietario terriero, ma è a tutti gli effetti un imprenditore, ovvero
alcune scelte imprenditoriali sulla conduzione dell’impresa, le prendono di comune accordo, ed entrambi
s’accollano il rischio d’impresa. Ognuno riceve, alla fine del ciclo produttivo, una certa quota della
produzione, il che vuol dire che il mezzadro, non essendo semplice lavoratore, è una figura capace di
prendere decisioni, guardare al mercato se una parte della produzione va al mercato, farsi due conti, valutare
il rischio di diverse alternative. Poiché molte piccole imprese industriali della zona dei distretti
dell’industrializzazione diffusa, nascono come piccolissimi laboratori artigianali in capannoni, spazi presenti
nell’impresa agricola della famiglia, la capacità imprenditoriale presente in modo diffuso sul territorio, in
tali zone, è ricondotta alla diffusione della mezzadria. In agricoltura, la diffusione degli assorbimenti di
manodopera, da parte dei processi produttivi, sono molto disformi nel tempo, perché i processi produttivi
agricoli sono caratterizzati da momenti di punta dei lavori nei campi; questo vale meno nelle aziende di
indirizzo zootecnico, perché gli animali hanno la necessità di accudimento costanti nel tempo. I processi
produttivi di tipo culturale sono incostanti: c’è il momento del raccolto che richiede quantità di manodopera
enormi, ci sono momenti della potatura per quanto concerne le culture arboree, per quelle erbacee il
momento dell’aratura e della semina. Ci sono anche lunghi intervalli di tempo nei quali non c’è granché da
fare, e la manodopera familiare è lì che potrebbe lavorare e invece resta perlopiù inoccupata. Le famiglie
mezzadrili di quella zona cominciano a prendere i primi telai, si sviluppano queste imprese familiari che
sono attive in agricoltura e cominciano, anche, a svolgere qualche attività nei settori dell’industria
manifatturiera, nella ceramica, sfruttando figure di lavoratori che sono ai margini del mercato del lavoro,
come gli anziani e le donne che, al di fuori della famiglia, non troverebbero impiego.
Sono imprese competitive, perché utilizzano manodopera familiare in momenti in cui è disoccupata, e
s’accontenta anche di una remunerazione bassa perché ha un costo opportunità molto basso. In molte regioni
meridionali, la pluriattività prendeva la forma di una doppia attività che, avvolte, era una doppia attività
sempre del settore agricolo, l’agricoltore lavorava nella sua azienda, di dimensioni piccole; il problema della
frammentazione aziendale, in alcune regioni del Sud, come Campania, Calabria e anche in alcune aree del
Lazio, assume dei caratteri ancora più accentuati rispetto al dato medio nazionale.

Le dimensioni aziendali, quindi, erano tali da rendere necessario integrare il reddito derivante dall’azienda
con altre fonti, però non c’era uno sviluppo extra agricolo tale da offrire opportunità di lavoro in altri settori.
Gli agricoltori lavoravano come braccianti agricoli per altre aziende, spesso spostandosi per qualche mese
l’anno; avvolte questa pluriattività assumeva anche il carattere di una migrazione temporanea all’interno
dell’annata agraria. In altri casi, assumeva la forma di un’alternativa di lavoro precario e temporaneo nel
settore dell’edilizia.

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Spesso gli agricoltori partime delle aree più povere, più marginali del Sud Italia, erano anche stagionali nel
settore dell’edilizia. Questo fenomeno della pluriattività ha diversi ordini di conseguenze sull’agricoltura.
Questa pluriattività, inizialmente era considerata come fenomeno transitorio, cioè si riteneva che la
pluriattività era diventata una nuova forma più graduale di esodo agricolo, si pensava che era l’anticamera
alla fuoriuscita del settore perché, siccome le opportunità di lavoro in altri settori erano meno esplosive, gli
agricoltori che intendevano uscire dal settore primario, passavano un periodo intermedio in cui sondavano le
possibilità d’impiego e di reddito negli altri settori, e poi avrebbero lasciato. Ma così non è stato, e ciò è vero
in Italia e negli altri paesi europei. La pluriattività ha assunto il carattere di un fenomeno permanente. Il
dato strutturale che il nostro è un paese piccolo, gioca un ruolo anche in tal caso, perché se il paese è
piccolo, gli spostamenti da un luogo all’altro per le diverse attività, sono piccoli; per una famiglia, è fattibile
risiedere in un luogo, magari la sede aziendale dove si svolge una parte dell’attività, e poi spostarsi nel
piccolo comune vicino o nella città di medio/grandi dimensioni più vicine, per svolgere un impiego
ministeriale, un’attività nel settore del commercio che si gestisce in più persone, ecc.
Conseguenze sull’agricoltura. Si ha una conseguenza in termini di scelte produttive, perché ci sono alcuni
tipi di produzioni che lasciano del tempo libero dalle attività agricole, consentono di svolgere anche altre
attività al di fuori dell’azienda; altre produzioni no, non danno tale possibilità, perché richiedono continuità
ed entità d’impegno che non si può fare altro. Solo alcuni tipi d’aziende permettono questa doppia attività, e
questo è vero all’inizio della storia, quando l’agricoltore valuta se può fare qualcos’altro, ed è vero in senso
dinamico, che gli ordinamenti produttivi possono e vengono trasformati nel corso del tempo, se l’agricoltore
inizia un’altra attività all’esterno. La pluriattività ha comportato, in molti casi, una estensivizzazione degli
ordinamenti produttivi, cioè la selezione di quei processi che consentono la doppia attività. Questa è stata la
ragione per cui, fino a tempi recenti, la pluriattività è stata vista con diffidenza, con aperto atteggiamento di
critica, da parte di coloro che consideravano la pluriattività, una causa di perdita di produttività del settore.
Se queste aziende fossero condotte a tempo pieno, con canoni di professionalità, potrebbero fare molto di
più, invece sono estensivizzate perché l’agricoltore si è messo a fare altro. A livello aggregato di paese,
questo è un fenomeno negativo che va ostacolato, magari con una normativa che può disincentivare questa
forma di scelta. Tale ragionamento ha un errore che è la scelta dell’alternativa. Ogni scelta razionale deve
essere frutto del confronto tra le diverse alternative, tra costi e benefici associati ad ogni alternativa; l’errore
è che l’alternativa considerata, quella dell’agricoltura a tempo pieno professionale, non è l’alternativa
realistica di molte aziende. L’alternativa realistica sarebbe stato l’abbandono totale di quei terreni, perché
l’attività extra agricola di questi agricoltori pluriattivi diventa, quasi sempre, l’attività economicamente più
importante. La pluriattività ha avuto altri due ruoli importanti, rispetto all’attività agricola. I redditi extra
agricoli sono stati spesso fonte di finanziamento per le attività agricole, investimenti fatti per cambiamenti
all’interno dell’azienda agricola, grazie a risparmi familiari realizzati con l’attività extra agricola. Le
capacità professionali, la conoscenza del mondo, sviluppata dall’agricoltore nell’attività extra agricola, è
stata travasata nella sua attività di agricoltore, accrescendo le sue capacità imprenditoriali.
Capacità, ad esempio, di trovare sbocchi e canali commerciali per le produzioni, la sua capacità di capire
cosa il mercato chiedeva in quella fase, un certo canale o cliente. Anche la capacità professionale
dell’imprenditore ha giovato di questa commistione di attività. Verso la fine degli anni ’80, ci troviamo di

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fronte a situazioni di pluriattività che sono in ingresso in agricoltura, cioè di occupati in altri settori o
giovani pensionati di altri settori, che sono entrati in agricoltura, hanno diversificato in agricoltura
provenendo da altri settori, una pluriattività dove il farmacista, il medico, il costruttore, il pubblicitario,
s’innamora della campagna, dell’agricoltura, o l’imprenditore industriale che, per esigenze d’immagine o
per diversificare il proprio portafoglio di attività in un settore spesso anticiclico, con caratteristiche che
possono complementare attività in altri settori, inizia un’attività in agricoltura.
Un tipo di pluriattività che apporta all’agricoltura competenze, capitali e reti di relazioni più ampie. In
alcuni casi, si è trattato di un ritorno all’agricoltura, di quei giovani che erano usciti negli anni dell’esodo, e
hanno mantenuto un senso di radicamento, di attaccamento alla terra. Questo è un aspetto che, tornando al
discorso dell’immobilità fondiaria italiana, è importante; una motivazione extraeconomica alla scarsa
mobilità fondiaria in Italia è proprio l’attaccamento alla terra, perché la terra sono le proprie radici, la
propria identità e alla terra è legato lo status familiare, ci sono ragioni di prestigio sociale legate alla
proprietà terriera che fanno si che, l’azienda di famiglia non si vende anche se non viene coltivata, utilizzata,
se ci si va una volta all’anno. Situazioni di questo tipo hanno dato luogo a un ritorno decenni dopo, persone
avanti nella propria vita lavorativa o che vanno in pensione relativamente giovani, e sono tornate all’
agricoltura, iniziando attività aperte o riaperte di aziende agricole. Ciò è stato reso possibile da un
cambiamento rilevante del posto occupato dall’agricoltura e dalla campagna, nell’immaginario collettivo,
nel modo che si è diffuso nella società di considerare l’agricoltura.

Negli anni dell’industrializzazione, a ritmi forzati, l’agricoltura era considerata come una serie di
accezioni negative, perché l’agricoltura era il settore della povertà, della fame, dell’ignoranza, dei rapporti
sociali arcaici. Gli agricoltori si vergognavano di essere agricoltori, e i cittadini li consideravano come
villani, cafoni, ignoranti, affamati.
L’agricoltura era anche il luogo dell’arretratezza tecnologica. Con il passaggio dalla prima alla seconda
fase, il modo di guardare all’agricoltura è già cambiato, e non è un caso che, tra la fine degli anni ’70 e i
primi anni ’80, c’è il boom delle iscrizioni nelle facoltà di Agraria in Italia; all’agricoltura si ricomincia a
guardare con interesse, sbiadisce questa negatività, perché cambia la distanza culturale, geografica, la vita
nelle città diventa più difficile, congestionata, c’è l’inquinamento, rapporti sociali anonimi, disumani.
L’agricoltura non è più quel contesto di povertà ed arretratezza, inizia un cambiamento di prospettiva che si
fa più forte negli anni ’90 fino alla fase che viviamo oggi, in cui c’è una riscoperta del settore primario, si
esalta la campagna perché è un buon mondo antico che neanche si conosce bene, nascono le fattorie
didattiche in quanto ci si accorge che i bambini nati e vissuti nelle città, non hanno mai visto una gallina,
una pecora, il grano, una mela attaccata all’albero. C’è una grande rinascita d’interesse per il mondo
agricolo e rurale.

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4. Il marchio nel settore alimentare


Possibili rimedi del fallimento del mercato, per ripristinare un corretto funzionamento degli scambi. Alcuni
di questi, sono idonei nel caso di caratteristiche experience, altri invece sono adatti per le caratteristiche
fiducia, ma nessuno di questi rimedi è perfetto, nessuno funziona in modo efficiente, garantendo le parti
circa la qualità dei beni. Uno dei rimedi è il marchio d’impresa, funziona bene sia per le caratteristiche
experience, che nei beni durevoli e beni ad acquisto ripetuto.

I marchi sono molto diffusi nella vita economica. Nel settore alimentare, sono diffusi marchi del produttore
e marchi del distributore. Il marchio è un segno di riconoscimento che identifica un prodotto o il suo
produttore/distributore, e può essere dato da un nome, un simbolo, può essere associato a immagini, suoni,
colori, elementi distintivi che permettono di distinguere il prodotto dai prodotti simili, consente
l’individuazione, nel tempo, di un bene sul mercato. Marchio che consente di sfuggire a quella situazione di
anonimato, vista all’origine del fallimento del mercato nel modello di Akerlov.
Se un prodotto non è più anonimo, è possibile conoscerlo, identificarlo sul mercato, anche nel corso del
tempo, quel bene o produttore possono costruirsi una reputazione sul mercato, far associare questo segno
distintivo, con l’idea che partner commerciali, clienti finali si fanno di quel bene. Il marchio è una sorta di
nome e cognome del prodotto sul mercato, consente a tutti i soggetti che devono entrare in contatto con
quel bene o produttore, di farsene un’idea. Il marchio diventa caratteristica del bene; due prodotti
potrebbero essere identici, in tutto e per tutto, e differenziarsi solo per il marchio. Il marchio ha un suo
valore aggiuntivo, una sua capacità distintiva in sé. Facilita la differenziazione sul mercato di un bene, aiuta
l’impresa ad affermare la sua reputazione, creare una fidelizzazione nel tempo di consumatori soddisfatti di
quella qualità, e ad assumere un maggior grado di controllo del mercato, il potere di mercato dell’impresa
aumenta, come conseguenza dell’aumentata differenziazione. Il marchio aiuta a far stringere un rapporto
più costante nel tempo, tra chi vende e chi compra, e permette all’impresa di ottenere un vantaggio, sia in
termini di costanza dei suoi sbocchi, che un premio di qualità sul prezzo.
L’impresa, che afferma la propria reputazione sul mercato, attraverso un segno distintivo, sta promettendo ai
consumatori di non imbrogliarli. Potrebbe, perché questi non conoscono la qualità del bene, ma non lo fa, e
quindi rinuncia a lucrare quella differenza tra il costo di produzione di una qualità più bassa e il prezzo che
chiede. La rinuncia a lucrare questa differenza, ha un valore commerciale che è il premio di prezzo. I
consumatori, che acquistano un prodotto di marca, nonostante che il prezzo sia più elevato rispetto a un
altro, stanno comprando il mancato imbroglio. L’impresa rinuncia ad approfittare dell’asimmetria
informativa che l’avvantaggia, rispetto ai consumatori che ne sanno di meno. Il marchio, quindi, segno di
qualità, è un elemento che le imprese utilizzano per costruirsi la reputazione.
Nella letteratura sociologica, si usa la terminologia market status, lo status di un’impresa sul mercato è la
sua reputazione. Il marchio funziona nel caso delle caratteristiche experience, mentre in quelle fiducia, il
marchio da solo non può operare, perché manca la prova all’atto del consumo; il consumatore non può, con
il suo ripetere un acquisto o meno, premiare l’impresa che ha mantenuto fede alla sua promessa di qualità,
perché la promessa di qualità per una caratteristica fiducia non è verificabile. La situazione degli acquisti

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ripetuti non vale per tante tipologie di beni. In alcuni mercati, funzionano bene le catene, che rendono
ripetuto l’acquisto. Ad esempio, il ristorante, il parrucchiere, l’agente immobiliare che lavora in franchising,
che si da un marchio insieme ad altri piccoli operatori di quel settore, risponde all’esigenza di riportare il
funzionamento del mercato sulla base di consuetudine, così possono costruirsi nel tempo e nello spazio una
reputazione. Questo è il motivo per cui hanno avuto successo, si sono diffusi in luoghi dove le persone
vanno una volta sola, esercizi commerciali in franchising o in forma di catene; tipici esempi sono aeroporti,
stazione dei treni, luoghi dove le persone capitano una volta e mai più, e sarebbero esposti alla trappola del
turista, situazione in cui si capita una sola volta e non vi è possibilità di premiare l’impresa per un
comportamento corretto. Si è esposti, quindi, a un comportamento scorretto. Se si va, invece, in una catena,
da qualcuno che ti promette una cosa identica a quella già sperimentata in altri contesti, si evita di esporsi a
un comportamento scorretto.
La diffusione di questi tipi di esercizi, risponde a un’esigenza di standardizzazione del servizio, e di garanzia
di non andare al di sotto di un certo livello della qualità. Altra situazione ricorrente sono le imprese “fly by
night”, quelle imprese che non hanno interesse a far affermare una propria reputazione sul mercato. Esistono
oggi, ti imbrogliano, perché ti vendono a un prezzo che non corrisponde alla qualità di quello che ti danno,
poi si trasformano o cessano di esistere, vanno a operare altrove, quindi corrispondono alla situazione di
massima esposizione a un imbroglio. Tutte le volte che ci si trova di fronte, anche a piccoli esercizi
commerciali che si riuniscono in catene, sistemi di franchising, ci troviamo di fronte a una strategia che
cerca di offrire una garanzia sulla qualità, di funzionare in uno schema che riproduce la situazione di
acquisti ripetuti e costanza di rapporto nel tempo, in modo che attraverso la scelta di riacquistare il bene, il
consumatore possa premiare l’impresa che mantiene fede alla sua promessa di qualità.

Per le caratteristiche fiducia, il marchio non funziona, soprattutto nelle imprese piccole. Perché le piccole
imprese non possono utilizzare i marchi, per farsi riconoscere sul mercato? Le piccole quantità non fanno
massa critica sufficiente, affinchè il prodotto sia reperibile sul mercato, per dare visibilità all’impresa. C’è
un problema dimensionale sui quantitativi, che giungono sul mercato. Far conoscere un marchio, è
un’attività molto costosa e i costi sono, in buona parte, di tipo fisso, creandosi una barriera all’entrata per le
piccole imprese. Non hanno scala produttiva sufficiente per utilizzare questi strumenti. E i marchi non
rappresentano una soluzione che vada bene in tutti i frangenti. Altra forma di rimedio diffusa, è la
conoscenza diretta. I consumatori finali e gli operatori lungo le filiere, stabiliscono delle forme
consuetudinarie nei loro comportamenti d’acquisto, in risposta all’esigenza di avere maggiori informazioni
sulla qualità del bene, e di poter premiare o punire chi non si mantiene leale rispetto alla promessa di qualità
che ha fatto. Gli elementi consuetudinari di conoscenza diretta, funzionano bene nei casi di beni ripetuti con
frequenza. Si diffondono le filiere corte, e le forme di relazione più diretta possibile tra consumatore e
produttore; sono un modo per raggirare il problema del marchio, la difficoltà d’accesso da parte dei
produttori, per ridurre la scala operativa delle imprese, renderle meno piccole rispetto al mercato di
riferimento.
Se un’impresa vuole interagire direttamente con un gruppo di consumatori, segmenta il mercato al quale si
rivolge, il suo target, di conseguenza le sue dimensioni saranno meno piccole. La conoscenza diretta

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rappresenta, anche, una strategia di comunicazione della qualità e della fidelizzazione dei clienti. La filiera
corta non è strumento perfetto di aggiramento dell’asimmetria informativa. Filiera corta che funziona meglio
per le caratteristiche di tipo experience, meno bene per quelle fiducia, perché le caratteristiche fiducia sono
le più nascoste, meno determinabili e causano seri problemi di funzionamento dei mercati. Altro strumento
di rimedio è la garanzia. Il sistema della garanzia non vale per i prodotti alimentari, perché la garanzia
presuppone che se il prodotto è difettoso, si può riportare al produttore ed essere rimborsato, risarcito. Far
valere le condizioni di garanzia di un bene alimentare, implica elevati costi di transazione, ma il valore di
questi beni non giustifica il sostenimento di tali costi. Garanzia che vale solo per beni durevoli, di valore
unitario maggiore. Diverso è il caso di una situazione business to business, cioè se le due controparti sono
due imprese, la capacità di far valere il rispetto delle condizioni riportate nella garanzia può essere diverso.
Liability. Sistema presente nel diritto statunitense, che prevede un insieme normativo snello, ossia il corpo
delle norme che cerca di prevedere le casistiche a priori, quasi non esiste. Vi sono delle leggi quadro che
definiscono dei principi generali, ma vale il principio che l’impresa è responsabile nei riguardi dei propri
clienti. Se l’utilizzatore di un bene o servizio viene danneggiato, in condizioni di uso ragionevole, l’impresa
dovrà risponderne. Questo sistema legale americano, basato sulla giurisprudenza, è preferito perché, non è
possibile creare una casistica esaustiva delle condizioni rilevanti che deve rispettare il bene, ed è molto
costoso farlo. Si preferisce, quindi, lasciare alle imprese di adeguarsi.

I marchi collettivi rappresentano una soluzione analoga a quella del marchio d’impresa, nel caso in cui le
dimensioni delle imprese non consentano a queste di far affermare un proprio marchio individuale sul
mercato. Il marchio collettivo individua il prodotto, non solo di un’impresa, ma di un gruppo di imprese.
Esempi di marchi collettivi sono, ad esempio, Melinda e Marlene.
Il marchio Melinda, tuttavia, non è più collettivo, perché è diventato una denominazione d’origine, ma è
nato ed è stato marchio collettivo di successo per molti anni. Melinda identificò, per vent’anni, le mele di
un gruppo di produttori, concentrati in una zona di produzione, il Trentino; questi vendevano le proprie mele
tramite questo bollino, che le identificava e le distingueva dalle altre. Marlene, invece, arriva dopo, nasce
sulla scia imitativa di Melinda.

Altro esempio di marchio collettivo era la pura lana vergine, un marchio che non è più diffuso sul
mercato. Fu adoperato per parecchio tempo, era utilizzato da tante imprese, si riferiva alla materia prima,
con cui erano fatti i capi del settore tessile, e comunicava ai consumatori la natura della materia prima di
quei capi.

Altro marchio è Qualità Tuscia. Logo che richiama una simbologia etrusca, che vuole creare un aggancio
col territorio della Tuscia. Marchio che riguarda prodotti merceologici diversi, prodotti alimentari,
artigianali, del territorio, servizi come ristoranti e agriturismi. Riferimento ampio alla qualità, che comunica
il nome, legata al territorio. Ultimo esempio è il commercio equo solidale, che riguarda prodotti di
provenienze geografiche differenti, prodotti di paesi poveri in via di sviluppo, non solo alimentari, anche
artigianato, cuoio, e il minimo comune denominatore sono le condizioni a cui avvengono gli scambi lungo la

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filiera, c’è una comunicazione che riguarda l’equità degli scambi. In generale, i marchi collettivi sono
diversi anche nel livello di visibilità del segno stesso che, in alcuni casi, è molto evidente come caratteristica
del prodotto. In altre situazioni, il marchio collettivo coesiste con quello individuale, il prodotto presenta
entrambi tali segni di riconoscimento. Il marchio collettivo si distingue da quello individuale, per una
disgiunzione tra il titolare del marchio e l’utilizzatore del marchio; gli utilizzatori sono tanti, mentre la
proprietà del marchio è di un soggetto distinto dagli utilizzatori. Aspetto fondamentale per capire il
funzionamento dei marchi, e i problemi che causano, è che quando più imprese decidono di vendere i propri
prodotti con un elemento comune, come il marchio, stanno mandando un messaggio ai consumatori, che
crea un vincolo tra le imprese che stanno inviando quello stesso messaggio. Questo vincolo è tanto più forte,
quanto più il marchio collettivo è visibile per i consumatori, e tanto meno sono presenti elementi
individuali.

Il marchio collettivo crea la premessa per una reputazione comune alle imprese, condividono una
reputazione unica che, tanto più è unica, tanto meno sono presenti altri elementi distintivi, oltre al marchio
collettivo. La creazione di questa reputazione comune, dipende dall’esperienza che si fa del bene col
marchio collettivo. Se si ha un marchio collettivo, nel quale c’è una certa visibilità del singolo produttore,
in tal caso s’inizierà ad utilizzare anche l’informazione del marchio individuale. La reputazione associata al
marchio collettivo, consiste in una media ponderata delle diverse esperienze di qualità che si fanno con i
diversi prodotti, all’interno di quel nome comune. Tutte le imprese che stanno sotto il marchio collettivo,
influenza la reputazione del segno stesso. Se ci sono imprese di diverse dimensioni, all’interno del marchio
collettivo, chi produce di più, chi arriva con quantitativi superiori sul mercato, avrà la capacità di
influenzare di più l’idea che di quel marchio si fanno i consumatori. La differenza fondamentale tra
marchio individuale e collettivo è che, nel primo c’è una promessa di qualità e una strategia di
comportamento d’impresa, benefici o controindicazioni di un uso corretto o scorretto del marchio, ricadono
su un unico soggetto; nel secondo, non è così, perché la comunicazione è una ed è tanto più unica, tanto più
il marchio collettivo è l’unico o più forte elemento di riconoscimento dei prodotti sul mercato, ma le
imprese mantengono un’autonomia decisionale sulla qualità, sulle decisioni del livello del prezzo a cui
vendere il prodotto, mentre c’è questo vincolo fortissimo in termini di reputazione. Il free rider è
quell’agente economico che adotta un comportamento opportunistico, beneficiando a suo vantaggio
esclusivo di una situazione determinata da altri, in questo caso la buona reputazione del marchio collettivo
che l’impresa contribuisce a costruire, sostenendone i costi, mentre il free rider se ne approfitta. Tutte le
volte che le imprese decidono di mettersi insieme ad altre imprese per fare un marchio collettivo, devono
partire dalla consapevolezza del rischio della convenienza che si viene a creare di adottare questi
comportamenti. Il marchio collettivo, creando elemento comune nella reputazione delle imprese, intensifica
la competizione tra le imprese, perché genera una segmentazione tra prodotti del marchio collettivo e gli
altri, aumentandone la competizione interna.

Affinchè un marchio collettivo sia efficace, come strumento di comunicazione, sia dal punto di vista dei
consumatori, che devono utilizzare quell’informazione e hanno bisogno che questa sia credibile, sia dal

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punto di vista delle imprese, che vogliono adottare questo strumento di comunicazione per affermarsi sul
mercato, occorre che si verifichino una serie di condizioni, la prima delle quali è mettere in atto dei
meccanismi di funzionamento del marchio, che prevengano comportamenti di free riding; una serie di
regole alle quali tutte le imprese che partecipano al marchio collettivo devono attenersi, regole definite in
maniera esplicita, devono riguardare sia il processo produttivo, che le caratteristiche finali del prodotto.
Regole definite in modo oggettivo, ove le imprese si devono impegnare a rispettarle. Qualora le imprese non
le rispettino, bisogna adottare un sistema di controlli per verificare che le imprese rispettino tali regole, e
anche un sistema di sanzioni per penalizzare quelle imprese che, eventualmente, non l’hanno rispettate. In
mancanza di questa cornice di accordi, un marchio collettivo non può funzionare. È necessario, quindi, che
le imprese concludano una forma di organismo, che definisca le regole, gestendo e amministrando il
marchio collettivo. T

anto più le imprese che decidono di mettersi sotto un stesso marchio collettivo, sono eterogenee da un
punto di vista strutturale e funzionale, tanto più è difficile che trovino un accordo soddisfacente per tutte,
perché se le imprese sono diverse da un punto di vista dimensionale, tanto più i processi produttivi che
seguono saranno differenti, stessa cosa per i costi di produzione. Capita, spesso, che imprese di differente
dimensione, quando devono operare, non trovino accordi oppure trovano accordi generici, come disciplinari
di produzione, e la promessa di qualità che si porta dietro il marchio collettivo, si sostanzia in prodotti
diversi. Inoltre, un sistema di regole così vago, lascia spazio per situazioni di conflittualità, ossia ci si mette
insieme, si fa il marchio collettivo, poi non si è d’accordo su nulla, situazioni dove le imprese più grandi
tendono ad averla vinta, perché godono di un maggiore potere contrattuale.

Le imprese minori, invece, avrebbero più bisogno del marchio collettivo, perché hanno minore visibilità
sul mercato, più problemi d’accesso alla domanda, ecc. Quindi, le condizioni di funzionamento di un
marchio collettivo, devono essere verificate attentamente, al momento in cui si decide di formare il
marchio collettivo e di lanciarlo sul mercato.

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5. Certificazioni e denominazioni d’origine


Tra i punti di forza, c’è il fatto che è accessibile alle piccole imprese, anche a imprese che, su base
individuale, non riuscirebbero a adottare una strategia di comunicazione della propria identità con i
consumatori, ma possono farlo con l’ausilio del marchio collettivo. La necessità di definire un insieme di
regole produttive, chiamato disciplinare di produzione, ammesso che le imprese siano sufficientemente
omogenee e riescano a definirlo, può diventare un punto di forza per il marchio collettivo, perché, siccome il
disciplinare rappresenta l’oggettivazione dell’accordo sulle regole di produzione che hanno preso i
produttori, sulla base dei quali si controllano l’uno con l’altro, ed eventualmente si sanzionano, il
disciplinare diventa una garanzia molto puntuale anche per i clienti. Dietro il marchio collettivo, chi ci
vende il prodotto, ci sta dicendo qualcosa di molto preciso, dando una serie di informazioni, mettendo in
piedi un sistema di controlli, che offre un’informazione e una garanzia della veridicità delle informazioni
stesse più accurate. Tra le debolezze, il funzionamento del marchio collettivo è più complesso da un punto di
vista gestionale, imparagonabile rispetto al marchio individuale. Altra debolezza è l’ambiguità delle
relazioni tra partecipanti, c’è il rischio di comportamenti scorretti di free riding. Standard di qualità e
certificazioni. Standard delle certificazioni utilizzati in modo massiccio nel settore agroalimentare, validi nel
caso delle caratteristiche fiducia, non determinabili dai consumatori, né prima né dopo il consumo.

Abbiamo i prodotti di agricoltura biologica, che si basano su un regolamento UE, un primo regolamento
dell’91 che ha sostituito corpi legislativi nazionali, uniformando il sistema delle norme, rispettando le quali i
produttori hanno titolo di immettere il proprio prodotto sul mercato, come prodotto di agricoltura biologica
, ed è stato recentemente sostituito con il regolamento 834 del 2007. Altro esempio è la responsabilità
sociale dell’impresa nei confronti dei lavoratori, SA 8000, che si concentra su vari aspetti, legati alle
condizioni di lavoro nelle imprese. Esempio interessante è l’agricoltura a lotta integrata, dove c’è un
abbattimento nell’uso di sostanze chimiche di sintesi, ma non la totale eliminazione come l’agricoltura
biologica. Questa certificazione introduce l’importanza della ridondanza di sistemi di certificazione, che
dicono ai consumatori cose non identiche, ma molto simili, mandando messaggi difficili da distinguere, che
non sono decodificabili e creano un rumore di fondo, che rende difficile capire qual è l’informazione più
importante, tra la gran massa dell’informazione che è presente sui mercati, veicolata ai consumatori. Questa
certificazione dei prodotti a lotta integrata, fu pensata dal legislatore europeo come modo per far avvicinare
gli agricoltori a tecniche produttive a minore impatto ambientale. Mentre il regolamento sulle produzioni
biologiche, il disciplinare produttivo che sta dietro al regolamento, è uguale in tutti i territori, per tutti i
produttori europei e si declina secondo le produzioni, così non è per i prodotti a lotta integrata, perché
esistono dei disciplinari a livello regionale, a seconda di come sono divise le regioni, nei diversi paesi
europei, il disciplinare cambia, e l’intensità ammessa nell’uso di alcune categorie di sostanze, può essere
molto differente. Questo tipo di certificazione è troppo sovrapposta con quella dei prodotti di agricoltura
biologica, generando un danno che si riflette anche sulle altre forme di comunicazione. Tra le caratteristiche
delle certificazioni, c’è la possibilità che ci sia un regolamento emanato da un’autorità pubblica, ma non
sempre è così; invece, è sempre vero che è accessibile una certificazione, a tutti coloro che decidano di

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adeguarsi agli standard previsti da quello schema di certificazione. Obbligatoriamente, nel caso di una
certificazione basata su un regolamento pubblico, la certificazione a garanzia dell’informazione, deve
essere fornita da un ente indipendente. Gli standard delle certificazioni, possono essere pubblici e privati; se
pubblici, possono essere obbligatori o volontari, se privati, sono sempre volontari, possono avere come
target una collettività di soggetti, oppure essere mirati ai rapporti business to business specifici, tra imprese
legate da rapporti di fornitura. Nel caso della certificazione terza, c’è una società di certificazione
indipendente; nei primi due casi, la certificazione può essere fatta dall’impresa che autocertifica la
corrispondenza a uno standard, oppure da un’altra impresa che opera su mandato dell’impresa certificata.
Anche nel caso della certificazione, è utile impostare la valutazione che se ne fa, in termini di punti di
forza e di debolezza. Un obiettivo della certificazione, può essere quello di definire e misurare la presenza
di attributi che, altrimenti, clienti e partner commerciali non potrebbero rilevare. La certificazione rende
ricerca, una caratteristica che sarebbe fiducia, perché se non ci fosse l’informazione che accompagna il
prodotto e che è certificata, la caratteristica non sarebbe rilevabile dai partner commerciali. Proprio per
questo, la certificazione consente una valorizzazione commerciale della caratteristica presente, una verifica
della qualità, e permette all’impresa di differenziare il suo prodotto da quello dei concorrenti, consentendo di
chiedere un premio di prezzo per questa caratteristica, e di attivare strategie difensive da comportamenti
sleali. La certificazione, quindi, anche nelle caratteristiche fiducia, è uno strumento per aumentare la
trasparenza, l’informazione presente sul mercato, e stabilire rapporti fiduciari, rendere la promessa di qualità
dell’impresa credibile agli occhi dei partner. Per quanto riguarda i possibili problemi, la certificazione non
sempre rappresenta correttamente il contenuto qualitativo rilevante per i consumatori; ciò può accadere per
diverse ragioni, non solo può essere causato dalla cattiva fede di chi certifica il proprio prodotto. Pensiamo,
ad esempio, a uno schema di certificazione delle condizioni di salute dei lavoratori di un’impresa, dei livelli
di remunerazione e dei limiti posti all’uso di lavoro minorile. Cosa deve certificare un’impresa, che voglia
comunicare ai propri clienti, che non sta sfruttando lavoro minorile. Potrebbe certificare che non sta
sfruttando lavoratori minorenni. Ma siamo sicuri che si tratta della caratteristica qualitativa “giusta” da
comunicare? Siamo certi che è questo che i consumatori vogliono? È molto complesso fare questa
certificazione, trovare un accordo sul valore di questi parametri. Per trovare un accordo, quindi, nella
convinzione che una qualche certificazione sia meglio di nessuna, anche perché l’informazione crea un
incremento di attenzione da parte dei consumatori, le certificazioni vengono adottate, ma sono vaghe in
alcuni casi. Anche scontando la buona fede dell’impresa e del soggetto pubblico, alcuni aspetti della qualità
sono molto difficili da definire oggettivamente, e gli schemi di certificazione possono essere inadeguati per
definire correttamente la qualità del bene per quelli aspetti.
Ci può essere, inoltre, il vasto ambito della cattiva fede, adottare una definizione della qualità per alcuni
attributi non rilevante. Sia nel caso di buona, che cattiva fede, il risultato di uno schema di certificazione,
ove la qualità è definita inadeguatamente, è che si crea disorientamento dei consumatori e si può generare
una disponibilità a pagare esagerata, perché il contenuto qualitativo non è oggettivamente misurabile. Si
possono, quindi, verificare effetti negativi in termini di efficienza, di funzionamento del mercato, oppure lo
schema di certificazione è utilizzato impropriamente, in modo sleale, o per aumentare potere di mercato,
creare una barriera all’ingresso di potenziali concorrenti, che possono avere difficoltà nell’adeguarsi a quei

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schemi di certificazione.
Diffusione di sistemi ibridi pubblico/privato di co-regolazione, si rifà alla reciproca influenza che hanno i
sistemi di regolazione pubblico e privato. Dopo le emergenze alimentari della BSE che si sono ripetute per
più anni, stroncando consumi di carne bovina e mettendo in ginocchio l’intero settore italiano ed europeo, la
Commissione dell’UE ha deciso di implementare il sistema di tracciabilità delle produzioni bovine, al fine di
consentire ai consumatori finali di stabilire con certezza l’origine del prodotto, in termini di paese e di
singolo allevamento, e creare anche un’immediata separabilità del prodotto che arriva sul mercato, in base
alla provenienza, in caso di emergenza. Da una parte, informazione per far avvenire scelte d’acquisto dei
singoli operatori, sulla base di parametri ritenuti importanti; dall’altra, in caso di emergenza, se si fosse
generato un allarme, che potevano giungere sul mercato casi sospetti di carne potenziale dannosa, di isolare
la filiera, quelle aree di produzione ritenute responsabili dell’emergenza, e circoscrivere meglio il potenziale
danno, evitando che esternalità negative s’abbattessero su soggetti estranei alla BSE. Nell’attesa che questo
regolamento, venisse definito e poi operativo, alcune imprese hanno concluso il loro regolamento di
tracciabilità, su base privata, definendo standard, in termini di tracciabilità, che si sono certificati, e ne hanno
fatto elemento di comunicazione con i clienti. L’aspettativa di una regolamentazione pubblica, ha generato
un’iniziativa di certificazione su base privata, una sorta di rincorsa tra le due categorie di soggetti.

Sono rilevanti per i prodotti agroalimentari, interessanti di per sé e mostrano molte delle insidie presenti nel
funzionamento di segni di qualità complessi. Le denominazioni d’origine sono dei segni di qualità,
complessi nella loro stessa concezione, perché sono sia marchi collettivi che certificazioni. Esse esistono da
quasi cent’anni, in Europa, ma fino all’92 ogni paese europeo aveva la propria legislazione nazionale.
Regolamento che fu sostituito, nel 2006, da un regolamento più aggiornato. Questo regolamento sulle
denominazioni d’origine, vale per tutti i prodotti agroalimentari, esclusi i vini. Per i vini, le legislazioni
nazionali sono rimaste valide, a causa dell’opposizione della Francia, che rinunciò al proprio schema
nazionale, perché i francesi hanno una tradizione molto forte, sono i produttori più forti a livello mondiale
dei vini, e la Francia fu il primo paese ad adottare uno schema di certificazione dell’origine dei vini. Che
senso aveva, uniformare la legislazione dei diversi paesi? Ci sono due grandi obiettivi.
Semplificare l’informazione che arriva ai consumatori, e porre i produttori delle diverse aree in condizioni di
concorrenza uniforme, perché se in un paese c’è una legislazione più restrittiva, rispetto a un altro, i
produttori di quel paese dove la legislazione è più restrittiva, si trovano svantaggiati quando competono con
produttori di altri paesi. Le varie sigle evidenziano la complessità della comunicazione verso i consumatori,
relativa all’unico aspetto della qualità agroalimentare che è l’origine geografica dei prodotti; a livello
europeo, per i prodotti diversi da vini, ci sono le sigle DOP (denominazione di origine protetta) e IGP
(indicazione geografica protetta), le attestazioni di specificità o specialità tradizionali garantite. Per i vini, a
livello nazionale, ci sono DOC, IGT. Perché le denominazioni d’origine, in generale, hanno questa doppia
natura, di marchi collettivi e certificazioni? Sono certificazioni, perché, come i prodotti di agricoltura
biologica, hanno un regolamento che definisce alcuni elementi che devono essere, obbligatoriamente,
presenti nel processo produttivo e, obbligatoriamente, questi elementi devono essere certificati da organismi
terzi accreditati dal soggetto pubblico. Diversamente dalla certificazione dell’agricoltura biologica, le

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denominazioni d’origine includono una differenziazione interna.
Mentre il prodotto di agricoltura biologica è completamente prodotto dall’agricoltura biologica, le
denominazioni d’origine sono una famiglia di identificativi di qualità, sono prodotti con nome e cognome
diversi, con riferimento all’origine, come fanno proprio i marchi collettivi. Tutti i produttori di una certa
zona, che rispecchiano i dettami del disciplinare, possono chiedere di avere la certificazione della
denominazione d’origine, ma la loro denominazione d’origine è un nome e cognome. L’origine, ossia il
luogo fisico dove un prodotto viene realizzato, in alcuni casi può determinare la qualità di quel prodotto, e
chiamando il prodotto con il nome del luogo, dove è stato realizzato, si passa un’informazione sulla natura
del prodotto. Le caratteristiche del territorio, dell’ambiente naturale, del luogo di produzione, possono essere
così importanti da creare un’identificazione, un rapporto biunivoco tra il nome e la qualità.

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6. Certificazioni e denominazioni d’origine


La bilancia agroalimentare (BAA) è una componente, una sezione della bilancia commerciale di un paese;
le voci che vengono classificate all’interno della BAA non sono sempre le stesse. A seconda del paese,
alcune voci vi sono incluse o meno e, alcune di queste, possono essere importanti da un punto di vista delle
quantità e dei valori. Ad esempio, il commercio di legname, fa parte del settore primario, ma non è
strettamente pertinente col settore agricolo; i tabacchi greggi spesso ci sono, poiché si tratta di una
produzione prettamente agricola; i tabacchi lavorati fanno parte dell’industria tabacchiera, che non fa parte
dell’industria alimentare. Caso opposto sono le bevande, che possono essere incluse all’interno della BAA o
meno, in quanto hanno una destinazione alimentare, ma hanno poco o nulla a che vedere col settore
primario.
La BAA consiste nella registrazione dei flussi in entrata e in uscita, da un paese verso il resto del mondo,
anche con una disaggregazione per aree geografiche di tutte le voci incluse, che possono essere espresse in
quantità o in valori; se sono valori, questi sono correnti o costanti nelle diverse unità di misura. Le fonti sono
diverse.

Per quanto riguarda l’Italia, l’Istat è la fonte più interessante, perché è estremamente disaggregata, presenta
flussi commerciali molto disaggregati a livello di prodotto, ma ha il limite fondamentale che contiene solo l’
Italia come paese dichiarante, di origine o destinazione dei flussi, possiede l’esportazione italiana verso
tutti i paesi e le importazioni italiane da tutti i paesi, ma nulla ci dice ad esempio su quanto la Francia
esporta, per quanto riguarda i vini, nei paesi dove anche l’Italia esporta. Se alcuni dati non sono reperibili
sull’Istat, sarà necessario ricorrere a banche dati come l’Eurostat e la FAO, che hanno l’intero quadro del
commercio internazionale; c’è anche quella delle Nazioni Unite, che hanno una banca dati online libera
molto dettagliata chiamata Contred.

Utilizzo degli indicatori. Il saldo commerciale di un paese con l’estero (S = X – M) è la differenza tra le
esportazioni e le importazioni; la somma di importazioni ed esportazioni si chiama volume di
commercio (V = X + M); il rapporto tra il saldo commerciale e il volume di commercio è il saldo
normalizzato (SN = S/V 100).
Si tratta di una misura relativa della posizione commerciale di un paese col resto del mondo. Perché
relativa? Mentre il saldo commerciale ha un valore che dipende dall’unità di misura che sto utilizzando (si
esprime in $, €, ecc.), il saldo normalizzato, rapportando due valori (es. $/$), è una misura relativa, si può
esprimere in % ed è più utile del saldo commerciale per fare confronti, sia quando l’unità di misura è diversa
con cui si misurano le posizioni commerciali di due paesi, che nella posizione commerciale quando gli
aggregati hanno ordini di grandezza differenti. Se si confronta la posizione commerciale della Repubblica
Dominicana con quella degli USA, emerge un problema di scala che rende difficile poter capire la posizione
commerciale dei due paesi, se è migliore l’uno rispetto all’altro. Usando il SN, è possibile confrontare paesi
grandi, piccoli, dati passati con quelli attuali, il comparto dello zafferano col grano.

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Il SN è fondamentale nelle analisi commerciali. Quando è espresso in %, può variare tra 100 e -100. -100
indica una condizione di esclusiva importazione; se un paese importa solo ed esporta 0, il suo SN sarà pari a
-100. Viceversa, 100 indica un prodotto di esclusiva esportazione, con le importazioni nulle. Tutte le volte
che, il SN di un paese, di un prodotto, assume valori positivi, maggiori di 0, significa che le esportazioni
superano le importazioni, e si dice che quel paese o comparto è un esportatore netto; invece, se il SN assume
valore negativo (non necessariamente -100), quel paese o comparto è definito importatore netto, perché le
importazioni superano le esportazioni. Il SN, pur essendo adimensionale, si costruisce sempre a partire da
dati in valore, poiché dati in valore permettono aggregazione di prodotti nei quali le unità di misura sono
diverse. Il SN vale 0 quando esportazioni e importazioni sono perfettamente bilanciate, e quindi un SN
nullo vuol dire che un paese non è né importatore netto, né esportatore netto. Quando si analizza il
commercio di un paese, il valore del SN dell’intera bilancia commerciale, è un indicatore macroeconomico
importante, perché fa capire se il paese, nel suo complesso, s’indebita con l’estero o meno. Un saldo attivo o
passivo della bilancia commerciale di un paese, è un dato macroeconomico notevole, da cui dipende anche
l’apprezzamento/deprezzamento della valuta di quel paese.
L’equilibrio commerciale, complessivo, di un paese ha sviluppi macroeconomici d’importanza cruciale, che
può essere determinato da saldi parziali, di pezzi dell’economia, che possono essere in attivo o in passivo,
senza che ciò pregiudichi la solidità dei fondamentali dell’economia, e questo dipende da una scelta di
specializzazione produttiva del paese. Il SN viene utilizzato anche come indicatore di vantaggi comparati,
relativi del paese. Se un paese ha un SN commerciale inattivo per un settore/comparto, vuol dire che ha un
vantaggio più efficiente nella produzione di beni che stanno in quel comparto, rispetto agli altri con cui
commercia, ma avrà uno svantaggio in qualche altro comparto con saldo commerciale negativo.
Miglioramento del SN nel corso del tempo, evoluzione di un comparto con SN prossimo a 0, a una certa
scadenza temporale, e dopo 10 anni vede il valore del SN crescere a 20. Che cosa è successo? Il
miglioramento del SN è un fatto positivo, le esportazioni del paese o la produzione interna sono più
competitive, rispetto altri paesi. Miglioramento dovuto a una crescita delle esportazioni, maggiore rispetto
all’incremento delle importazioni. Oppure, le esportazioni sono state ferme, ma le importazioni si sono
ridotte, perché la produzione interna è aumentata e, invece di essere stata destinata ai mercati esteri, è stata
indirizzata al mercato interno; una parte del fabbisogno interno del paese è stata coperta con la produzione
interna. O ancora, la domanda interna per quel bene si è ridotta, e di conseguenza si sono ridotte anche le
importazioni. Addirittura, si sono ridotte importazioni ed esportazioni, ma le importazioni di più, poiché il
SN è migliorato. Spiegazione dati imp/exp BAA dell’Italia. Tra il 1991 e il 2003 le esportazioni italiane
sono passate da 6.3 mld di € a 18.6, si sono triplicate; le importazioni sono molto più alte e sono passate da
17 mld a 26 mld, sono aumentate di 9 mld, che rappresentano un aumento. In termini assoluti, le
esportazioni sono aumentate di più (12 mld), sia guardando il valore del flusso, che la variazione %. Le
importazioni aumentano leggermente di meno, come valore assoluto del flusso, e sono meno che
raddoppiate in termini %. Per effetto di tali variazioni, vediamo che il saldo commerciale era (e rimane)
negativo, e si è ridotto da -11 mld a -7 mld. Il SN scende da -46 a -16; -13 nell’2007/08. Miglioramento
partito da lontano e continua nel tempo. Risultato non indifferente per un paese strutturalmente deficitario di
beni agroalimentari, che ha poca terra agricola, poche risorse da destinare a tale settore. L’Italia, alcune

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produzioni agricole, le importerà sempre, non potrà non importarle. Le importerà perché c’è una grande
domanda interna per il consumo degli italiani, e perché il nostro Paese nel settore agroalimentare e in altri
reparti dell’industria manifatturiera, è deficitario di materie prime e si è specializzato nella trasformazione.
L’importazione di alcune materie prime è necessaria per alimentare l’industria che trasforma i prodotti e poi
riesporta. Uno dei comparti per cui questo è vero, è quello del caffè; l’Italia è un grande importatore di caffè
greggio, e anche uno dei maggiori esportatori al mondo di caffè lavorato, perché storicamente è
specializzato nella torrefazione. L’Italia importa cacao greggio ed esporta prodotti a base di cioccolata.
All’inizio degli anni ’60, il valore del SN era -23, è peggiorato moltissimo negli anni ’70; gli anni ’80 sono
stati un periodo di difficoltà, ed è iniziato un cammino non ancora terminato verso il miglioramento del SN.
Gli anni ’90 hanno rappresentato un momento di svolta del settore agroalimentare italiano, con l’impatto
fortissimo del vino. Il vino rappresenta quasi un ¼ delle esportazioni; le esportazioni di vino italiano nel
mondo, negli anni ’80, andarono malissimo. Il nostro Paese iniziò, con ritardo, il processo di adeguamento
della propria produzione agroalimentare alle nuove tendenze della domanda. Una delle peculiarità della
produzione agroalimentare è data dai tempi lunghi di realizzazione dell’offerta; l’offerta di beni alimentari
non può prescindere dai tempi biologici della produzione delle materie prime. Il vino ne è un buon esempio.
Proviene da una pianta arborea, che richiede anni per sviluppare il suo potenziale produttivo. Anche nel
campo della zootecnia, gli animali hanno dei loro cicli pluriennali. L’offerta agricola ha dei tempi lunghi per
realizzarsi, un fattore d’inerzia rilevante. La domanda è capricciosa, cambia da un momento all’altro, e c’è
sempre questa difficoltà a stare dietro alle sue tendenze. Alcuni indicatori ci aiutano a capire qual è
l’importanza dei mercati esteri per un settore produttivo; semplici indicatori che confrontano dati interni,
produzione interna con imp/exp, oppure produzione interna con i consumi, e permettono di valutare quanto
sono fondamentali i mercati esteri per il comparto all’interno del paese.
Ad esempio, il grado di autoapproviggionamento confronta il valore della produzione interna, aggregata o
fatta per un prodotto specifico, con il valore dei consumi. È la capacità della produzione di coprire i consumi
interni. La propensione a importare è il rapporto tra importazioni e consumi; viceversa, la propensione a
esportare è il rapporto tra esportazioni e produzione interna. Il grado di apertura commerciale confronta il
volume di commercio, con produzione e consumi interni. Ci dice quanto un sistema produttivo, un comparto
o un settore di un paese, è aperto rispetto all’esterno. I dati interni di produzione e consumo sono messi in
relazione con i dati di scambio (esportazione e importazione). Queste grandezze derivano da dati di
contabilità nazionale, e consentono di fare confronti indicativi che vanno presi con le molle. Confronti che
danno indicazioni affidabili quando guardiamo come varia il valore di ciascun indicatore nel tempo. Il
valore dei consumi alimentari è calcolato su quello che le famiglie spendono, quando fanno la spesa di beni
alimentari. La produzione è calcolata ai prezzi di base, come valore che, dalle imprese del settore primario,
arriva sul mercato all’ingrosso. C’è sempre una differenza tra questi due valori, perché di mezzo c’è
l’intermediazione commerciale. Esistono alcuni comparti, all’interno del settore agroalimentare, che sono di
forte esportazione per l’Italia; altri comparti, invece, sono forti importatori. Concetto chiave è il livello di
competitività di un prodotto del nostro sistema paese: possiamo essere più competitivi? Possiamo fare
meglio di quello che stiamo facendo? Possiamo produrre a costi più bassi di quanto fanno i nostri
concorrenti? Possiamo migliorare la qualità? Possiamo allargare le nostre quote di mercato? Possiamo

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spuntare dei premi di prezzo significativi che remunerino meglio le nostre risorse? Il comportamento delle
diverse voci che compongono la BAA. La disaggregazione all’interno della BAA, può essere fatta con
diversi criteri. Uno di questi è quello merceologico, come si comportano singoli prodotti; si può adottare
anche un criterio industriale, che guarda al comparto, all’insieme delle imprese che concorrono a produrre
certi beni, aggregare le fasi che compongono un’intera filiera, e vedere in che misura quella filiera importa
ed esporta materie prime, semilavorati, prodotti finiti. Altro criterio è isolare il Made in Italy
dell’agroalimentare italiano, ossia individuare i prodotti importanti per le esportazioni italiane.
Altro criterio è la bilancia rigida. Consiste nell’insieme dei flussi commerciali di tutti quei prodotti, che non
possono essere prodotti nel paese; è difficile agire su quelle voci, poiché non c’è possibilità di sostituire un
prodotto importato con un prodotto realizzato in Italia (es. caffè greggio o legname). Qual è il senso di
isolare tutte queste diverse componenti, aggregare insieme singole voci? Capire come si determina un certo
andamento del saldo di tutta la BAA in aggregato. Il criterio del Made in Italy, applicato per le prime volte
negli anni ’90, analizzando l’andamento del commercio agroalimentare negli anni ’80, ha evidenziato per la
prima volta che, il peggioramento della BAA negli anni ’80 era dovuto al fatto che stavano andando male le
esportazioni dei prodotti per i quali avremo dovuto essere più competitivi, quelli del Made in Italy.

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7. Agricoltura, industria ed economia


Altro aspetto che si sviluppa in questo periodo, soprattutto negli anni ’80, è il conto terzismo. È la pratica di
utilizzare, nelle aziende agricole, macchinari che non sono di proprietà, non fanno parte stabilmente e
strutturalmente del capitale investito nell’azienda, non sono di proprietà di una cooperativa se,
eventualmente, l’impresa agricola di cui si parla, è associata ad una cooperativa che eroga anche servizi, ma
sono macchinari di proprietà o di altre aziende agricole o di imprese specializzate nel conto terzismo, ossia
imprese che posseggono macchinari che utilizzano su terreni di terzi. Il conto terzismo è stata una vera e
propria innovazione, di tipo organizzativo, nell’agricoltura italiana, la cui ragion d’essere sta nelle piccole
e piccolissime dimensioni della maggior parte delle imprese agricole, che non operano una scala adeguata
per potersi permettere di utilizzare, immobilizzare capitali consistenti, che possono raggiungere facilmente
l’ordine di grandezza di alcune centinaia di migliaia di €uro, e sarebbero impiegate in maniera molto
inefficiente perché, su imprese di pochi ettari di terreno, questi macchinari lavorerebbero per poche
ore/giorni all’anno, avrebbero un’incidenza sproporzionata sui costi di produzione di queste imprese, in
termini di costi unitari. Questi capitali verrebbero ammortizzati in un orizzonte temporale talmente lungo, da
non consentire una adeguata modernità del parco macchine dell’aziende. Il conto terzismo, quindi, nato
sotto la spinta di questa forte esigenza, meccanizzare i processi produttivi anche nelle imprese molto piccole,
ha consentito un recupero forte di efficienza e di competitività di queste imprese, ed ha permesso un ritmo di
adozione dei macchinari che, con caratteristiche nuove e migliori, via via venivano introdotti sul mercato
italiano, ha un ritmo maggiore di quello che avrebbe avuto in assenza di questa modalità. Il conto terzismo,
oltre a utilizzare macchine in conto terzi, ha un vantaggio per le imprese in termini di trasformazione di un
costo fisso (possesso della macchina) in un costo variabile, la macchina in conto terzi prevede una tariffa di
noleggio.
L’agricoltura è un settore fortemente esposto all’alea climatica, così come il settore turistico.
Si tratta di un aspetto di peculiarità e di fragilità dell’agricoltura, che s’aggiunge all’alea che riguarda tutte
le imprese economiche, cioè l’alea di come va il mercato. Le imprese agricole temono fortemente gli
elementi dai quali può derivare una variabilità dei propri risultati economici, in particolare è importante la
trasformazione da costo fisso in costo variabile. Il conto terzismo ha consentito di aggirare queste
limitazioni strutturali delle imprese di piccole dimensioni, sotto diversi aspetti: abbattere i costi unitari di
produzione, ridurre il rischio di incorrere in perdite (trasformando il costo fisso in variabile), dare un
elemento di maggiore flessibilità e riuscire ad utilizzare, riducendo i tempi dell’ammortamento, macchine
più moderne. Mediamente il parco macchine, operante nell’agricoltura italiana, ha subito un’accelerazione
nel processo di rinnovo grazie al conto terzismo. Il conto terzismo è stato un’innovazione importante, si è
esteso moltissimo ed ha assunto anche tante facce, a seconda delle specificità dei singoli settori e dei diversi
territori. In alcuni casi, si è trasformato così tanto da diventare una forma alternativa di gestione delle
imprese agricole in toto; l’evoluzione estrema del conto terzismo è l’agricoltura per telefono, dove il
vincolo dimensionale delle piccole imprese agisce sia sul parco macchine che su altri aspetti della vita
dell’impresa, limitandone l’efficienza e la competitività. Elemento importante è il modo di stare sul mercato:
un’impresa piccola sta sul mercato in condizioni di debolezza contrattuale, se interagisce con partner

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commerciali più concentrati, né subisce il potere di mercato. Quando le imprese sono tante in un mercato,
l’equilibrio di mercato, cioè le condizioni alle quali avvengono gli scambi, le condizioni di prezzo e
quantità, sono determinate dal agire simultaneo degli agenti economici; non c’è nessuno che in termini
individuali, singoli, riesca ad esercitare un’influenza quando il mercato è perfettamente concorrenziale.
Viceversa, quando ci sono pochi agenti sul mercato, dove non si può dire a priori quanti sono pochi o tanti, e
ciò dipende dalla numerosità e dimensioni relative delle due controparti, quando una delle due controparti è
più concentrata, quest’impresa nella contrattazione ha più possibilità di influenzare, a proprio vantaggio, le
condizioni dello scambio, per effetto della ridotta concorrenza, meno operatori che cercano di aggiudicarsi
un certo spazio di mercato.
Le piccole e piccolissime dimensioni delle imprese agricole sono un fattore di estrema debolezza, anche
quando queste imprese si pongono sul mercato per acquistare fattori della produzione, interfacciandosi con i
settori a monte, così come quando si pongono sul mercato finale delle loro materie prime, dei prodotti che
vendono. Sono un fattore di debolezza anche nella gestione dei processi, nei rapporti della PA, nell’adozione
di progresso tecnico. Il conto terzista, in alcune realtà importanti, ha ben presto esteso la sua partecipazione
al processo produttivo, al di là della semplice gestione di alcune operazioni meccanizzate; il conto terzista,
ad esempio, entra in azienda per fare la mietitrebbiatura del grano, lo sfalcio dei prati che devono dare
foraggio per l’allevamento o per fare l’aratura, alcune operazioni che sono fortemente meccanizzate. Entra
in azienda ma, in virtù del fatto che opera in tante aziende di una certa zona, ha una conoscenza per esempio
delle diverse varietà di sementi che vengono utilizzate al momento della semina, o di una modalità di aratura
più adatta per un tipo di terreno che si trova in certi appezzamenti di quella zona, conosce meglio le
condizioni del mercato per un certo concime. Proprio perché entra contemporaneamente in più aziende, ha
uno sguardo più ampio, più dall’alto dei processi produttivi, così come del mercato. Comincia col dare
qualche dritta all’agricoltore, ma ben presto comincia ad entrare in azienda in più momenti del processo
produttivo nel corso dell’anno. Può succedere che, il proprietario dell’azienda è un partimers, sta lavorando
anche in un altro settore e può avere difficoltà a trovarsi sempre presente in azienda, quando c’è bisogno di
fare qualcosa. Comincia a delegare il terzista, una persona nota, della quale può raccogliere preferenze in
giro, può capire se c’è da fidarsi o meno; cresce rapidamente nel corso degli anni ‘80 la figura del terzista
che diventa quasi un imprenditore puro, perché gestisce l’intero processo produttivo, assumendosi insieme al
proprietario terriero il rischio d’impresa poiché va a commercializzare anche il prodotto. Svolge una serie di
funzioni sempre più ampie, avvolte presta capitali all’imprenditore, sino al caso estremo dell’agricoltura
per telefono. Il proprietario terriero abbandona le funzioni d’imprenditore agricolo e diventa un puro
percettore di rendita, la quale è legata alla terra e al fondo, gestita dal terzista, realizzando quelle economie
di scala che, se si guarda solo alla struttura proprietaria, gli aspetti fondiari della nostra agricoltura, non
vediamo.
Questo è stato un modo per aggirare, in parte, questo terribile vincolo strutturale. Conto terzista che nasce
come uso di macchine non di proprietà, ma si sviluppa velocemente in questa varietà di forme. In alcuni
casi, il terzista fa da consulente per quanto riguarda i rapporti con la PA, aiuta l’imprenditore a fare le
pratiche. Il terzista sopperisce anche a una funzione d’azione collettiva che, in Italia, svolgono poco rispetto
ad altri paesi, le cooperative. Quest’ultime, in particolare nei settori agricoli, nascono con l’obiettivo di fare

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aggregazione di piccole imprese, per accrescere la scala produttiva, svolgere con più efficienza fasi del
processo produttivo che all’interno dell’azienda avvengono in modo inefficiente oppure non possono
avvenire, rafforzare la posizione sul mercato degli agricoltori sul fronte dell’acquisizione dei fattori
produttivi o vendita dei prodotti, acquisire quote maggiori del valore aggiunto del prodotto finale, fare la
trasformazione del prodotto. Le cooperative sono cantine sociali, nel settore vitivinicolo, latterie sociali che
raccolgono il latte, hanno il caseificio e lo trasformano, frantoi sociali, e cooperative nel settore
dell’ortofrutta. In Italia, contrariamente ad altri paesi europei, la cooperazione si sviluppa poco.

Un altro di quei processi che prende avvio negli anni ‘70/’80 è l’integrazione forte dell’agricoltura nel
cosiddetto agribusiness. In quel periodo le singole filiere di produzione sono composite, lunghe, fatte di
tanti soggetti che intervengono, filiere che oggi definiamo opache, poco trasparenti, molto complesse. I
percorsi che intraprendono le materie prime, i semilavorati, fino ad arrivare al prodotto finito, sono tortuosi e
poco efficienti, perché quando tanti operatori e intermediari commerciali intervengono nella formazione di
un prodotto, ognuno trattiene un pezzettino di valore aggiunto, e il prodotto finito ha un prezzo più elevato
di quello che potrebbe avere se, a parità di tutte le altre condizioni, ci fosse quella che si chiama una
razionalizzazione del processo della filiera. Questo processo d’integrazione dell’agricoltura, nell’
agribusiness, sia a causa della grande frammentazione delle imprese agricole e del settore manifatturiero
alimentare, che a causa dello scarso sviluppo della cooperazione, è un po’ incompleto e non sofisticato.
È un’integrazione che non si sviluppa secondo i canoni di modernità che assume in altri paesi, come Francia
e Olanda; negli altri paesi europei, invece, l’integrazione dell’agricoltura nell’agribusiness è stata
governata, dominata dall’industria, il principale cliente dell’agricoltura che, in quel periodo, produce sempre
più materie prime agricole, sempre meno beni per il consumo finale. Industria che ha dimensioni sufficienti
e capacità organizzative, competenze tecniche sul fronte dell’innovazione, e diventa un cliente che con
l’agricoltore stabilisce rapporti stabili nel tempo, con contratti pluriennali di fornitura, impartisce direttive,
esprime una domanda relativa alle caratteristiche del prodotto finito ma anche del processo produttivo,
puntuali e determinate, perché la materia prima agricola che deve essere lavorata dall’industria, è una
materia prima che deve avere caratteristiche specifiche: pezzatura dei prodotti, grado di maturazione,
consistenza del prodotto, tempi di consegna, garanzia di fornire almeno certi quantitativi, sono aspetti
fondamentali per l’industria.

Negli altri paesi europei, agricoltura e industria di trasformazione si connettono stabilmente e sulla base di
contratti che esplicitano dettagliatamente le condizioni che prodotti e processi devono rispecchiare. Ciò da
garanzia di sbocco dell’agricoltura, imbriglia l’agricoltore in un’attività all’interno della quale l’agricoltore
ha meno margini di manovra per operare, non è un imprenditore che genera un prodotto finito e cerca di
venderlo sul mercato perché l’ha prodotto al suo meglio, ma l’ha prodotto secondo quanto la sua capacità
imprenditoriale gli diceva che in quel momento era meglio fare. Industria definita anche agricoltura
industrializzata, ossia diventa un pezzettino di un processo più complesso e deterministico, come avviene
in una catena di montaggio nell’industria. Entrano certe componenti con certe caratteristiche, trasformate in
modo preordinati e pre certificati, e quello che esce si sa già ciò che sarà. Quelli sono gli anni dell’

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industrializzazione forte dei processi; l’agricoltura perde le sue prerogative d’imprenditore, perde parte
della propria autonomia, ma l’essere inserito in questo contesto d’integrazione forte, al tempo stesso, da
garanzia di sbocchi per la produzioni. Il fatto che l’agricoltura italiana resti un po’ ai margini, o persegua dei
modelli d’integrazione parziali, implica che i sbocchi non sono sicuri, a meno dei settori fortemente protetti
dalla PAC che, in quegli anni, per la cerealicoltura e prodotti zootecnici continentali (es. zootecnia bovina),
forniva garanzia di sbocchi, garantiti sul piano politico, tanto è vero che tutte le eccedenze venivano ritirate
dal mercato e stoccate.
Sbocchi di mercato soprattutto per i settori dell’agricoltura italiana (es. l’ortofrutta), dove questa garanzia
degli sbocchi non c’era, e una parte importante dei possibili sbocchi di mercato per i nostri prodotti veniva
spiazzata dalla concorrenza dell’agricoltura di altri paesi, che meglio della nostra agricoltura era in grado
di integrarsi con le esigenze della fase industriale. Si sviluppano i primi semi di debolezza della nostra
competitività internazionale, debolezza sui mercati esteri e su quello interno, perché alcuni settori dell’
industria alimentare italiana sono andati a cercare rifornimenti di materie prime in altri paesi, perché negli
altri paesi la minore frammentazione metteva l’agricoltura in condizione di corrispondere meglio a quella
esigenza contrattuale. Nella seconda fase, comincia ad avviarsi in modo consistente un processo forte di
diversificazione dei consumi alimentari; nel periodo precedente c’è un aumento dei consumi in termini
quantitativi e un cambiamento d’importanza nelle diverse categorie di alimenti, la dieta cambia e inizia a
cambiare già in quel periodo, ma s’accentua molto negli anni ‘70/’80, cambia la natura degli alimentari
perché, con il cambiare degli stili di vita e il ridursi del tempo a disposizione per la preparazione e consumo
dei cibi, c’è forte domanda di incorporare servizi negli alimenti. L’agricoltura, da settore produttore di
alimenti, diventa nettamente settore produttore di materie prime, e c’è bisogno della trasformazione
industriale di fasi successive di lavorazione affinchè queste materie prime agricole, diventano alimenti
semilavorati o pronti per il consumo, conservabili e trasportabili. Dal canto suo, l’industria alimentare
cresce enormemente d’importanza, diversifica le proprie produzioni e c’è un’esplosione nella varietà dei
consumi alimentari. Si delinea l’ultimo periodo a partire dai consumi alimentari. Nel frattempo sta
cambiando la composizione della popolazione italiana, di cui buona parte sono utilizzatori finali di questi
prodotti, una parte importante dei prodotti viene esportata ma la maggior parte della produzione è consumata
all’interno dei confini nazionali. Il boom demografico diventa un ricordo antico e s’assiste ad un
invecchiamento progressivo della popolazione.
Il reddito continua a crescere lentamente, l’Italia è diventata a tutti gli effetti un’economia industriale
matura e, a seguire, un’economia post industriale, dove i servizi hanno un ruolo importante, gran parte
della popolazione è attiva nel settore dei servizi, una popolazione con livelli d’istruzione elevati, la durata
dell’istruzione s’allunga progressivamente, cresce il numero di coloro che fanno studi universitari, le donne
entrano nel mercato del lavoro, e questo porta a forti conseguenze in termini di consumi alimentari. In
quest’ultimo ventennio, i consumi fuori casa sono alti e i consumi alimentari si frammentano moltissimo;
non solo fasce diverse della popolazione hanno abitudini alimentari diverse, ma ognuno di noi in momenti
diversi della propria vita, ha esigenze fisiologiche e stili di vita che comportano necessità di consumare cose
diverse. Ciascuno di noi, ad esempio, durante le vacanze ha un modo di alimentarsi diverso rispetto ai
momenti di lavoro. Si apre un mercato potenziale enorme per chi si occupa di produrre alimenti, c’è una

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dialettica tra tipico e globale, tra tradizionale e innovativo, che rende molto complesso il compito di
corrispondere a una domanda ricca e varia, piena di istanze non prive di contraddizioni, spesso
inconsapevoli da parte di ognuno di noi. In quest’ultima fase temporale, l’agricoltura cambia ulteriormente
il ruolo all’interno della società italiana, acquisisce più visibilità rispetto ai decenni precedenti, ed è caricata
di tutta una serie di valenze positive importanti. Ciò avviene per una serie di motivi: abbiamo le
trasformazioni della società di natura economica, che hanno a che fare con la struttura urbana del nostro
paese, perché gli elementi di congestione iniziale nel periodo precedente si fanno più forti, e cresce la
consapevolezza delle persone di tali problemi, già iniziati negli anni ‘70/’80, ma la loro percezione era
appannaggio di limitate frange della popolazione. In quest’ultimi vent’anni, invece, diventa patrimonio
comune di tutti, i problemi ambientali, l’inquinamento di congestione e sovraccarico ambientale, al settore
primario nel suo insieme (agricoltura e spazi verdi ricreativi) è assegnato il ruolo fondamentale di assorbire
tutte le valenze negative, rendere alle persone che vivono nell’ambiente condizioni di maggiore vivibilità.
Primo aspetto importante accompagnato, in Italia e in Europa, dal radicale cambiamento d’orientamento
delle politiche a sostegno del settore, riducendo il canale del mercato come modo per sostenere il settore
primario, e si orienta sempre più nel valorizzare e compensare economicamente l’agricoltura per servizi di
tipo sociale e ambientale.

Industrializzazione dell’agricoltura
Il termine di multifunzionalità dell’agricoltura nasce da tale cambiamento d’ottica con cui si guarda al
settore primario, si chiedono tante cose nuove esplicitamente all’agricoltore, laddove all’alba del processo di
industrializzazione dell’agricoltura, il settore svolgeva implicitamente alcune funzioni. Assieme a tante
virtù o conseguenze positive che il processo di mercantilizzazione dell’agricoltura ha comportato, ci sono
state distorsioni generate e che si tenta di recuperare tramite l’intervento regolatore del soggetto pubblico.
C’è una riscoperta di quello che l’agricoltura può dare in termini di qualità della vita, attraverso servizi
ricreativi, come l’agriturismo, attività connesse al tempo libero, attività sportive oppure servizi di natura
sociale, attività d’inserimento lavorativo che avviene in alcune aziende agricole di soggetti svantaggiati a
vario titolo per problemi di salute o disagio sociale, l’inserimento in attività di anziani, fattorie didattiche e
funzioni di conservazione di elementi della cultura tradizionale dei luoghi. Elementi fondamentali in un
paese come l’Italia, che offre una varietà straordinaria di ambienti fisici, culturali, storici, le diverse
tradizioni contadine e gastronomiche. L’agricoltura è vista come guardiana del paesaggio, custode della
biodiversità, funzioni delle quali non si parlava fino a un decennio fa e attualmente sono sotto gli occhi dei
cittadini, consumatori e amministratori; ciò ha cambiato e sta continuando a cambiare il ruolo affidato
all’agricoltura, le funzioni che le aziende agricole possono svolgere e dalla quali possono trarre fonti di
reddito. Un elemento forte di generalità, riguardo a questa parte introduttiva storica, è il declino dell’
agricoltura che accompagna lo sviluppo economico. Questo accade sempre, in qualsiasi paese. Se c’è
crescita economica, pensando a un fenomeno di lungo periodo, c’è declino dell’agricoltura. Se si pensa ad
un’economia, al suo momento, zero, andando indietro di un paio di secoli, si trova un’economia
sostanzialmente agricola, quelle economie dove c’è poca crescita economica e c’è poco altro oltre
all’agricoltura. Il momento del decollo della crescita economica è un momento in cui, le risorse presenti in

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un paese sono sufficienti a sfamare tutte le bocche delle persone presenti in quel paese, e una parte può
essere distolta dall’agricoltura e investita in altri settori.
Cresce l’industria, i servizi e, per definizione, declina l’agricoltura, laddove questo declino è relativo, l’
agricoltura non si riduce in senso assoluto, bensì si riduce in termini di importanza relativa. Quando
un’economia cresce, l’importanza del settore primario si riduce, nonostante la crescita economica porti con
sé anche una crescita in senso assoluto della produzione primaria. Si definisce la crescita economica come la
crescita del PIL pro capite nel corso del tempo; il PIL è la misura della ricchezza prodotta in un arco di
tempo, in un ciclo produttivo convenzionalmente di un anno, all’interno di un Paese. È il reddito generato da
tutti i processi produttivi attivati nel Paese, e può essere distribuito per remunerare tutte le risorse che hanno
contribuito alla generazione di questo reddito. Si misura in termini pro capite, riferito alla popolazione
presente, dividendo il PIL generato nel Paese sulla popolazione. Quando si guardano archi temporali lunghi
o brevi, ma il sistema dei prezzi non è stabile, perché siamo in presenza di inflazione, il sistema dei prezzi è
l’unità di misura che permette di sommare insieme le infinite e diverse cose che si producono in
un’economia, largamente imperfetta poiché cambia di valore, e per minimizzare gli effetti di tali
cambiamenti quando si guarda alle variazioni del PIL nel corso del tempo, si vuole depurare questa misura
dall’effetto di variazione dei prezzi dell’economia, utilizzando un sistema dei prezzi fittizio, si mantiene
costante. Si cambiano le quantità, ma il valore unitario rimane fermo. La crescita economica è misurata dalla
variazione in due momenti di tempo del PIL pro capite misurato a prezzi costanti. Come si misura il ruolo
dell’agricoltura all’interno di un’economia? Solitamente è misurato in diversi modi, ma il più importante è
la quota di reddito del sistema economico, generata nel settore agricolo.

Quanto è importante il settore agricolo nell’economia italiana?


Genera il 5% del PIL.
PLV indica il Prodotto Lordo Vendibile, misura semilabile al fatturato del settore; in alternativa è
utilizzato il Valore Aggiunto (VA), il confronto tra il VA e il PIL. Questo è l’indicatore più corretto, perché
il PIL è la somma di valori aggiunti dei processi produttivi, generati in agricoltura, soltanto che in
agricoltura non sempre è disponibile il dato sul valore aggiunto.
Qual è la differenza tra produzione lorda vendibile e VA? Il VA è depurato dal valore dei consumi
intermedi; è uguale alla produzione lorda vendibile, al valore della completa produzione generata
dall’agricoltura al netto dei consumi intermedi, delle spese per i mezzi tecnici di produzione, per tutti i
fattori variabili acquisibili dalle aziende agricole sul mercato (es. concimi, antiparassitari, acqua, energia
elettrica). Altro modo per misurare il peso dell’agricoltura all’interno dell’economia, è farlo in termini di
tutti gli occupati dell’economia italiana. Quanti sono impiegati in agricoltura? I due 2 indicatori si possono
utilizzare insieme, non sono identici a causa della diversa produttività del lavoro in agricoltura e negli altri
settori. Il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è maggiore rispetto al peso dell’agricoltura, che si
ottiene facendo il rapporto della ricchezza prodotta (agricoltura e totale dell’economia), perché la
produttività dei lavoratori agricoli è minore della produttività degli occupati negli altri settori. Dalla
combinazione di questi 2 indicatori, si ricava il terzo indicatore che è un rapporto tra le produttività,
produttività del lavoro in agricoltura su produttività del lavoro negli altri settori; indicatore usato per

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valutare l’importanza dell’agricoltura rispetto al resto dell’economia. Altro indicatore è il rapporto tra i
prezzi agricoli e non agricoli, definito Ragione di scambio o Forbice dei prezzi. Perché questo rapporto ci
dice qualcosa del rapporto che c’è in un’economia, tra l’agricoltura e gli altri settori dell’economia? I prezzi
agricoli tendono a declinare in termini relativi, crescono meno dei prezzi degli altri settori. C’è un
peggioramento della ragione di scambio, e ciò è dovuto a diversi fattori: la produttività e le condizioni di
maggiore frammentazione, concorrenza che esistono all’interno del settore agricolo rispetto ai settori
fornitori di input per l’agricoltura e ai settori acquirenti, fa si che i prezzi agricoli sono più bassi, sono più
schiacciati sul livello del costo di produzione. Nel settore agricolo non si fanno profitti, le imprese sono
piccole, non hanno potere di mercato e subiscono le condizioni di prezzo delle controparti. Altro motivo è
che il settore agricolo, man mano che l’economia si sviluppa e il reddito delle persone cresce, è un settore
che produce materie prime e non beni finali, e i prezzi dei beni finali hanno una maggiore disponibilità a
pagare del consumatore finale.
Questo perché, anche il consumatore finale è atomizzato, un partner commerciale piccolo, non ha potere di
mercato come l’agricoltore. Spiegazione grafico slyde. Le osservazioni sono disposte ad angolo retto lungo
gli assi. Sull’asse dell’ascisse, si misura l’importanza relativa dell’agricoltura rispetto all’intera economia
nei diversi Paesi del mondo; si misura il VAagr sul PIL (in inglese GDP). Sull’asse dell’ordinate c’è il PIL
pro capite. Sulla destra abbiamo alti valore di GDP generati dall’agricoltura, sono paesi molto agricoli (es.
Etiopia, Sudan, Paraguay, ecc.). I paesi che si trovano a destra dell’asse, stanno molto in basso lungo l’asse
dell’ordinate, che misura la ricchezza del paese. Ci sono paesi meno poveri, a medio reddito, come Egitto,
Argentina, Brasile, Grecia, Spagna, ecc. Ci sono paesi più ricchi del mondo, dove in termini % l’agricoltura
conta pochissimo, e questo non ha niente a che vedere con il ruolo in termini assoluti dell’agricoltura. Ad
esempio, l’agricoltura USA è una delle più importanti del mondo e lo è ancor di più, in termini di valore
della produzione, rispetto all’agricoltura del Congo. Tale grafico mi fa vedere, a un dato momento di tempo,
la situazione di paesi a diverso livello di sviluppo e come cambia il ruolo dell’agricoltura.

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8. Il ruolo dell’agricoltura all’interno dell’economia italiana


Tabella riferita all’Italia, che mostra come è cambiato il ruolo dell’agricoltura all’interno dell’economia
italiana, in un arco di tempo di circa 50 anni. L’ultima riga della tab. evidenzia il tasso di crescita dell’
economia nelle diverse tappe temporali. All’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale (1949), il
tasso di crescita dell’economia, il tasso di variazione media annua del PIL pro capite, era ancora debole,
mentre quasi vent’anni dopo (1967) l’economia italiana era già cresciuta consistentemente ed era ancora in
fase espansiva significativa. S’assiste, 25 anni dopo (1992), ad una crescita più moderata, fino nei primi anni
2000 ad una riduzione ulteriore di questo tasso di crescita. L’incidenza della PLVagr sul PIL era ancora alto,
27% nel 1949, ma pochi decenni prima, più del 60% della ricchezza nazionale era di derivazione agricola e,
quindi, già qualcosa si era mosso nell’economia italiana. Il 27%, nel 1967, si era più che dimezzato,
arrivando al 12%; tale incidenza si è ulteriormente ridotta, quasi a 1/3 del valore dell’67 nell’92, e si è
ancora ridotta 10 anni dopo (2002) fino ad arrivare ad un valore del 3,7%. In termini di incidenza
dell’occupazione, il trend è stato analogo. Nel 1949, ancora 1 occupato su 2 nell’economia italiana era
scrivibile al settore agricolo. L’incidenza del lavoro agricolo sull’occupazione totale, che riguardava quasi
1 lavoratore su 2, nel 1967 si riduce al 23%, al 6,5% nei primi anni ’90 e poco più del 5% agli inizi degli
anni 2000. Notiamo che i valori di incidenza % del settore agricolo, sul totale dell’economia, in termini di
lavoro anziché di ricchezza prodotta, si mantengono più elevati. Questo perché, i livelli di produttività, in
agricoltura, sono inferiori rispetto al resto dell’economia, e ciò si può vedere nella terza riga che esprime il
rapporto tra la produttività del lavoro in agricoltura e gli altri settori.

L’ultima riga esprime la ragione di scambio, ossia il rapporto tra i prezzi agricoli e l’indice dei prezzi
generale dell’economia. Tale rapporto era superiore a 100 alla prima scadenza temporale, i prezzi agricoli
era più elevati anche di un’entità non irrilevante dei prezzi non agricoli. La ragione di scambio si è erosa:
prezzi scesi a 89 nell’67 e si sono appena ridotti nel 2002. Il -20 nel 1992 indica che si sta riducendo la
ragione di scambio a un ritmo molto rilevante.
Il 1992 fu il primo anno dell’applicazione della riforma McSharry della PAC, il primo momento in cui si è
applicato uno schema d’aiuto all’agricoltura che non passava per il sostegno dei prezzi, bensì per uno
sostegno accordato all’agricoltore, e questo ci dice due cose: la ragione di scambio agricola stava
peggiorando fortemente, anche in anni in cui i prezzi agricoli erano sostenuti. Il sostegno della PAC è stato
un argine al deterioramento della ragione di scambio, ma non è riuscita né a bloccarla, né a invertire la
tendenza. Ci dice anche che, l’inizio dello smantellamento di quel sistema di sostegno ha avuto degli effetti
in termini di prezzo, poiché quell’argine iniziava a venir meno. Seconda tab. con meno indicatori, che fa dei
confronti per alcuni paesi europei. Paesi che hanno medio – alto reddito, in cui si nota una diversificazione
di situazioni; paesi ordinati in ordine decrescente di PIL pro capite: primo è il Regno Unito che nel triennio
2005-2007 aveva il PIL pro capite più alto (40mila € di reddito pro capite), rispetti ai cinque membri
dell’UE. A seguire gli altri paesi con i 37mila della Francia, 36mila della Germania, 32 mila dell’Italia e
28mila della Spagna. L’ordinamento di questi paesi, in termini di PIL pro capite, corrisponde all’ordine
temporale in cui si sono industrializzati tali paesi. Quello che vogliamo vedere è la relazione tra il PIL pro

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capite e il peso dell’agricoltura sull’economia, calcolata in termini di VAagr e di occupazione. C’è una
relazione stretta inversa, più alto il PIL pro capite, più bassa l’incidenza del VAagr sul PIL nazionale. Nel
Regno Unito, ad esempio, l’agricoltura contribuisce al reddito nazionale per meno dell’1%; Francia 2,17,
Germania 0,97, Italia 2,13 e Spagna 3,20. Tutti paesi in crescita, con l’inversione tra Francia e Germania,
dovuta a due fattori speculari: la potenza industriale della Germania che, in termini relativi, fa abbassare la
quota del contributo agricolo, e il fatto che la Francia è un grandissimo paese agricolo. In agricoltura,
siccome un fattore produttivo fondamentale è la terra, conta molto nel valutare quanto pesa il settore
agricolo, la dotazione delle risorse naturali di quel paese e questo spiega il ruolo che ha l’agricoltura nella
Francia. Per gli occupati agricoli, c’è un gradiente in crescita, in senso inverso, rispetto al PIL, per cui
Regno Unito è 1,4%, Francia 3,8, Germania 2,4, Italia 4,20 e Spagna ancor di più. C’è l’inversione Francia –
Germania.
I valori dell’ultima colonna sono sempre più alti, e questo conferma il fatto che gli occupati, in agricoltura,
sono meno produttivi degli occupati in altri settori. Spiegazione formula slyde VAagr/PIL = VAagr/Cal *
Cal/PIL: in quest’identità, il termine a sinistra dell’uguale è l’incidenza dell’agricoltura sull’economia, in
termini di VA; tale rapporto è stato scomposto in due rapporti, dividendo e moltiplicando i due termini del
rapporto per uno stesso numero, dato dai consumi alimentari (Cal). Abbiamo preso il VAagr, l’abbiamo
diviso per i Cal, abbiamo preso il PIL che è al denominatore dell’uguaglianza e l’abbiamo moltiplicato per i
Cal. Si tratta di uno stratagemma analitico, semplice ed efficace, che riesce a mettere in evidenza con una
serie di scomposizioni successive, come se fosse un gioco di scatole cinesi, entrano dentro, fanno delle
zoomate sui singoli termini, e ci aiutano a capire cosa succede. Qual’era l’interpretazione canonica più
accreditata dei fattori di declino dell’agricoltura nel corso dello sviluppo economico? L’interpretazione, che
si dava per scontata, era l’operare della Legge di Engel, quella legge empirica che dice che, al crescere del
reddito delle persone, la quota di reddito spesa per i consumi alimentari si riduce, perché i consumi
alimentari sono consumi di prima necessità e hanno una elasticità al reddito inferiore ad 1. Tutti i beni
possono essere classificati in funzione di come varia il consumo, l’acquisto di questi beni, al variare del
reddito.

Ci sono tanti fattori da cui dipende quanto consumiamo che cosa: primo fra tutti, il prezzo del bene è tanto
importante che, nell’analisi classica della domanda, si mette in rapporto la quantità domandata col prezzo
del bene; si disegna il consumo in uno spazio cartesiano, dove la variabile che esplicitamente compare è il
prezzo. Altro fattore è il gusto delle persone, oppure le aspettative delle persone, l’idea che si sono fatti di
come andranno le variabili economiche nel futuro. Parametro fondamentale è il reddito di cui disponiamo.
La domanda espressa dai consumatori, di acquisto di beni per consumarli, varia al variare del reddito ma
diversamente per alcune categorie di beni. Ci sono i beni di lusso, per i quali la domanda aumenta più che
proporzionalmente al crescere del reddito. All’altro estremo, come comportamento opposto, troviamo i beni
inferiori, quei beni dove il consumo si riduce al crescere del reddito, beni consumati di tanto in tanto poiché
non si ha sufficiente disponibilità per fare una cosa che preferiremmo.
C’è il vincolo di bilancio che agisce in maniera strettamente vincolante in quel caso. Un esempio potrebbe
essere i biglietti dell’autobus; si prende l’autobus perché non ci piace guidare o non vogliamo inquinare

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l’ambiente. Il consumo di questi beni è correlato negativamente con il reddito, aumenta il reddito,
l’elasticità è negativa. I beni di prima necessità sono beni che, anche a livello di reddito basso, vengono
consumati a un livello molto vicino alla soddisfazione del bisogno, perché è un bisogno fisiologico ma non
necessariamente. Se cresce il reddito, aumenta un po’ il consumo di questi beni, ma meno
proporzionalmente, elasticità positiva ma inferiore all’unità. Tale categorizzazione non vale in assoluto a
qualsiasi livello del reddito, ma è relativa, cioè a diversi valori di reddito, un bene si può comportare come
di prima necessità, e poi come inferiore. Ad esempio, l’istruzione universitaria può essere un bene di lusso a
livelli più bassi di reddito, e può diventare di prima necessità a livelli di reddito più elevati. In base ai livelli
di reddito che consideriamo, il comportamento di consumo che adottiamo, quando varia il reddito, può
essere differente. I consumi alimentari variano molto meno di altre categorie di consumi, al variare del
reddito, e per questo si dicono anticiclici, funzionano da stabilizzatori del ciclo economico. La spesa per
consumi alimentari incide poco sulla spesa per consumi complessivi, in un paese con medio – alto reddito.
La crisi economica degli anni scorsi ha fatto tanti danni nel mondo industrializzato, ha messo persone alle
porte, ma nessuno è morto di fame; invece, nei paesi poveri l’esito di una congiuntura economica negativa,
può essere devastante, perché i livelli di reddito sono così bassi che, contrarre consumi a quei livelli, può
significare restare con la pancia vuota. I consumi alimentari hanno questo ruolo anticiclico, tendono a
stabilizzare la congiuntura, perché l’elasticità dei consumi è minore di 1, e se il reddito si riduce di 100, i
consumi alimentari si ridurranno a 50. Questa scomposizione, quindi, ci dice che al crescere del PIL pro
capite, la quota di VAagr sul PIL si riduce; quel primo indicatore che è a sinistra dell’uguale, è un rapporto
che tende a ridursi. Rapporto che si scompone in due rapporti: il primo, VAagr/Cal, ci dice quanta parte, che
quota del valore di ciò che consumiamo, in un paese, trova corrispettivo nella produzione agricola.
Quanto parte del nostro bisogno di alimentarci, viene soddisfatto dalla produzione agricola del paese. Il
secondo rapporto, Cal/PIL, ci dice quanta parte del reddito generato dall’economia di un paese viene
destinato a soddisfare il bisogno di alimentarsi. La variazione del peso dell’agricoltura sull’economia,
tramite questa scomposizione, identifica due grandi ordini di fenomeni: il primo, riguarda il tipo di
destinazione che si da al reddito nazionale prodotto, ciò che accade dal lato della domanda (Cal/PIL); il
secondo (VAagr/Cal), invece, misura cambiamenti che avvengono a carico del settore che non è più solo
agricoltura, ma è agribusiness del settore a cui la società affida il compito di soddisfare il bisogno di
alimentarsi. Spiegazione altra tabella relativa all’Italia: nella prima riga troviamo il VAagr/PIL, nella
seconda riga il VAagr/Cal e nella terza Cal/PIL; nel 1949, l’agricoltura contribuiva a generare quasi 2/3 del
valore di ciò che le persone consumavano come alimenti. I valori che non riguardano l’agricoltura, sono
aumentati moltissimo negli anni: si è passati dal 62% di quota agricola sui CA al 37, al 28 e al 26. In media,
è circa ¼ l’apporto agricolo del valore di ciò che noi consumiamo. Nel corso del tempo, quindi, il rapporto
VAagr/Cal si è ridotto. Cosa succede all’altro indicatore, Cal/PIL? Anche questo si riduce, ossia la quota di
reddito prodotta nel paese, destinata ai consumi alimentari, nel 1949 era il 43%, ossia ogni euro prodotto
dall’economia italiana, nel 1949, di ogni euro 43 centesimi venivano spesi per mangiare. Dal 43% si è
passati a 33, a 9 e così via. Anche le modificazioni, dal lato di destinazione del reddito, influenzano su come
cambia il ruolo dell’agricoltura nell’economia man mano questa cresce. Entrambi i termini, in cui
abbiamo scomposto il rapporto VAagr/PIL, si riducono vistosamente. Dal lato della domanda, Cal/PIL:

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come cambia il modo che abbiamo di utilizzare il reddito che produciamo. Questo rapporto è scomponibile
in 3 fattori: il primo è la Legge di Engel, Cal/CTOT, all’aumentare del reddito consumiamo di più di altre
cose e la quota dei Cal/CTOT si riduce. Consumi totali divisi per il reddito disponibile, ciò che ci rimane
dopo aver pagato le tasse. Si divide il PIL per il PIL totale. I consumi alimentari si riducono perché i
consumi totali sul PIL disponibile, all’aumentare del PIL pro capite, si riducono: più siamo ricchi e più ci
possiamo permettere di destinare una parte maggiore del nostro reddito, a quella forma di consumo di lusso
che è il risparmio.
Al crescere del reddito, l’incidenza della fiscalità aumenta; il reddito disponibile, che in valore assoluto
aumenta, come quota del PIL si riduce. C’è un fenomeno economico importante che è la crescita del PIL pro
capite, cresce l’economia di un paese, questo è un fatto; poi c’è una domanda, legata a questo fatto: cosa
succede all’agricoltura? In termini assoluti, cresce, si espande il settore perché, con la crescita economica
c’è un aumento della produttività, aumenta la domanda. Che succede in termini relativi? La domanda è la
variazione del VAagr che è positiva, e il ruolo dell’agricoltura nell’economia si riduce. Primo elemento
classico di spiegazione è che, il ruolo dell’agricoltura si riduce perché opera la legge di Engel; la crescita di
un’economia sta nel diversificare, a partire dall’attività prima, universale, che è l’agricoltura. Un’economia
cresce perché sta sviluppando attività diverse dall’agricoltura. Legge di Engel che è il modo stesso in cui si
comportano le persone che causa questo ridimensionamento, poiché le persone anche quando sono ad un
livello di reddito basso, la pancia se la devono riempire, i consumi alimentari sono di prima necessità. Man
mano che cresce il reddito, orientano una parte di questo maggiore reddito verso altri consumi. La domanda
è il motore dell’economia, perché se non c’è domanda di un certo bene, non c’è convenienza che ci sia
un’offerta; se al crescere del reddito, ci sembra ragionevole immaginare che, le persone si comportano in
modo tale da consumare meno alimenti e, in termini relativi, più cinema, libri, champagne, parrucchiere,
allora il settore agricolo cresce meno degli altri, perché le persone domandano relativamente meno beni
agricoli e alimentari, rispetto ad altri beni. L’incidenza dei consumi alimentari, della spesa che le persone
fanno per alimentarsi, su tutto il reddito che riescono a produrre, si riduce al crescere del reddito per tre
ordini di ragioni: la legge di Engel, il modo in cui le persone allocano il reddito tra presente e futuro, cioè se
sono più ricche possono permettersi di mettere in sicurezza il loro futuro, risparmiano un po’ di più, e ciò
implica che consumano un po’ di meno. Questo secondo rapporto, CTOT/PIL, man mano che diventiamo
più ricchi, assume un valore più basso, o il reddito lo consumiamo o lo risparmiamo. L’ultimo termine
riguarda la leva fiscale.
Di tutto il reddito prodotto, in Italia, rapportato alla singola persona, non possiamo decidere noi liberamente
di tutto quel valore, quanto risparmiare e quanto destinare agli alimenti e altri consumi, perché c’è una quota
che diamo allo Stato, quota che cresce all’aumentare del reddito. Il rapporto tra reddito disponibile e reddito
generato si riduce, al crescere del reddito.

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9. Differenze tra le denominazioni DOP e IGP


Un prodotto per essere riconosciuto DOP, deve essere il risultato di un processo produttivo, indicato
all’interno del disciplinare. Nel caso del prodotto IGP, una o più fasi, come materie prime o una fase del
processo di lavorazione (es. confezionamento), può avvenire anche fuori zona, provenire dall’esterno. Un
prodotto DOP, per il regolamento, si definisce come prodotto, la cui qualità è interamente determinata dalla
zona dove viene prodotto, e ciò può essere dovuto sia a caratteristiche naturali, ambientali della zona, sia a
un processo produttivo tipico di quella zona; altrove, si utilizzano accorgimenti tecnici differenti. Può essere
l’uno o l’altro elemento, o la combinazione dei due: il risultato è l’unicità delle caratteristiche del prodotto,
che sono conseguenza di qualcosa di unico che accade in quel territorio. Per i prodotti IGP, il regolamento
dice che, il territorio d’origine è importante e determinante per la qualità del prodotto, ma non del tutto. Ci
possono essere uno o più attributi della qualità del prodotto, non tutti necessariamente, che sono il frutto di
caratteristiche del territorio. C’è una graduazione del rapporto tra qualità e territorio, riportata nel
regolamento, e la denominazione d’origine rappresenta il vertice del legame tra i due elementi, ma non così
forte. La definizione dei due casi, apre lo spazio a qualche margine di complessità, nel definire la scala
gerarchica del rapporto tra qualità e origine. Esistono tanti prodotti sul mercato, certificati ai sensi del
regolamento CE 510/06, che non rispettano la lettera di tale regolamento. Caso emblematico è il pecorino
romano (DOP), prodotto interamente in Sardegna. La legislazione europea era arrivata nel 1992, dopo molti
decenni nei quali, in alcuni paesi europei, esistevano già delle legislazioni nazionali diverse tra di loro, e
diverse da come è oggi la legislazione europea. Ai sensi delle legislazioni precedenti, esempio l’Italia,
poteva esistere un prodotto chiamato pecorino romano, ove erano ammessi per la sua produzione tutti i
territori del Lazio, la provincia di Grosseto e, inizialmente, 2/3 provincie della Sardegna. Quando la
legislazione europea ha sostituito quelle nazionali, è entrata in vigore, recependo tutto quello che al
momento esisteva nelle legislazioni nazionali.
Quei prodotti che, a quella data, avevano una certificazione equivalente a quella europea, venivano
automaticamente riconosciuti come denominazione d’origine europea. Il risultato finale è che,
l’informazione che arriva ai consumatori è molto complessa e un po’ confusa. Nonostante il grande interesse
da parte dei consumatori finali, operatori e mass media, c’è tanta confusione, non solo sul contenuto
dell’informazione, anche sulla sua affidabilità. Obiettivi della normativa. Abbiamo visto che l’intento era
quello di uniformare le legislazioni. A favore delle imprese del settore agroalimentare, si vogliono
raggiungere due grandi obiettivi; da una parte, aiutare i consumatori a fare le loro scelte, dare più e una
migliore informazione, più affidabile, certificata da un ente terzo. Dall’altra, dare uno strumento che aiuti le
imprese medio – piccole, del sistema agroalimentare europeo, a stare sul mercato, le aiuti a colmare quel gap
di competitività che deriva dal fatto che queste imprese sono piccole: di avere minore visibilità perché le
produzioni sono marginali, i costi di produzione sono sfavorevoli, non hanno risorse per fare comunicazione
e promozione. Dare, inoltre, uno strumento che aiuti gli agricoltori, il primo anello delle filiere, il più
svantaggiato, tramite una valorizzazione della tipicità, della materia prima, a ottenere una porzione maggiore
del valore aggiunto che si realizza sul mercato. Operare, quindi, una redistribuzione del valore aggiunto, a
favore degli anelli a monte della catena. In generale, s’affida il compito alle denominazioni di essere uno

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degli strumenti per la valorizzazione dei territori rurali, per promuovere l’identità, lo sviluppo economico
delle aree rurali. Il regolamento europeo, da quando è entrato in vigore (operativo dal 2006), ha dato un forte
impulso, non solo in termini generali, anche per la creazione di nuove denominazioni. Almeno la metà
dell’intero paniere delle denominazioni esistenti, è nato dopo l’entrata in vigore del regolamento, rispetto
all’altra metà che esisteva già prima. Nel febbraio 2009, in Italia, ci sono state 177 denominazioni d’origine,
attualmente sono sotto i 200. Sempre nel nostro Paese, salumi e formaggi sono i comparti produttivi che più
fanno uso di questi strumenti, anche l’olio d’oliva. C’è una diversificazione territoriale molto spinta, la
maggior parte delle denominazioni si trovano nel Nord d’Italia.

Ripartizione del numero di DOP e IGP per settore in UE


Le % si basano sul numero delle DOP, anche a livello europeo, formaggi e salumi sono tra i più importanti,
così come ortofrutta e cereali. In Francia, le carni fresche sono certificate per l’origine, un comparto meno
rilevante in Italia.

Ripartizione del numero di DOP e IGP per nazione


I due paesi leader sono Italia e Francia, ripartizione del 2007, l’anno in cui il nostro Paese superò i francesi.
Il grafico riporta i canali commerciali utilizzati, per la vendita dei prodotti DOP. La maggior parte dei
prodotti riferiti alla tab. 5 (vedi slyde) vengono venduti attraverso la distribuzione. Sono prodotti che hanno
una forte connotazione geografica, vengono esportati moltissimo, ad esempio l’80% del pecorino romano
viene esportato, in Italia se ne consuma ben poco.

La tabella raccoglie dati per comparti, i prodotti riportati sono i principali: formaggi, salumi, ortofrutta e olio
d’oliva. La prima colonna indica il fatturato alla produzione, in valore assoluto, dell’intero comparto, dei
formaggi prodotti in Italia; la seconda colonna evidenzia il dato di quale porzione del fatturato dei formaggi,
è da iscriversi ai formaggi DOP. Terza e quarta colonna sono delle quote, calcolate sulla base delle prime
due colonne. Il primo valore della terza colonna, riporta la quota del segmento DOP sul comparto, è % di
riga (es. 18.7% è il risultato del rapporto tra 2.460 e 13.135). L’ultima colonna è la quota calcolata sulla
colonna, cioè mostra che 2.460 sono i 2/3 dell’intero valore del fatturato di tutti i prodotti DOP, qualunque
sia il comparto. Nel complesso, formaggi e salumi sono i prodotti più considerevoli.
Il fatto che esistano tante denominazioni, che poi non hanno una loro realtà di mercato, è rischioso per
l’affidabilità stessa della denominazione. Se una denominazione funziona male, il danno si genera, non solo
con riferimento ai produttori o potenziali produttori di quella denominazione e ai consumatori interessati a
quel prodotto, ma si crea un’esternalità più ampia, perché una denominazione che funziona in modo
scorretto, danneggia agli occhi dei consumatori interessati la credibilità del sistema delle denominazioni.
Una denominazione d’origine, come qualsiasi strumento di valorizzazione commerciale di un prodotto o
marchio, è un pezzo di una strategia complessiva di marketing. C’è necessità di considerare diversi aspetti:
bisogna capire se la qualità che si certifica, è quella che i consumatori vogliono; se si sta mirando a un target
di consumatori, al quale si riesce ad arrivare; se c’è coerenza tra un target di consumatori e il paniere di

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caratteristiche che si sta costruendo, intorno al prodotto; se ci si affida ai canali commerciali giusti; se la
politica di prezzo è corretta, efficace. Spesso, in Italia, le denominazioni sono nate e stanno nascendo, non
per volontà delle imprese, bensì per volontà politica delle amministrazioni locali. Queste dovrebbero
svolgere un altro mestiere, non sanno valutare le potenzialità di mercato di un prodotto, non sanno valutare
come costruire il disciplinare, in base ai mercati di riferimento; spesso lo fanno con buone intenzioni, con
l’idea di aiutare le piccole/piccolissime imprese, a dotarsi di uno strumento che le permetta di stare sul
mercato. Succede, però, che tali imprese non sono coinvolte in questo processo, e non viene eseguita
nemmeno una minima ricognizione. Quindi, prima di capire se fare una denominazione può essere una
strategia utile, bisogna capire quali sono le prospettive di mercato concrete dei prodotti.

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10. Teoria del commercio internazionale


È una branca dell’economia molto vasta. Perché i paesi commerciano tra di loro, e quali sono gli effetti di
tale commercio, da dove si originano. Si parte da un’analisi grafica. Modello standard di mercato domanda
– offerta.

I mercati che guardiamo sono chiusi, vediamo come s’analizza l’apertura al commercio in termini di analisi
standard dell’equilibrio di mercato; cosa succede a un paese quando si apre al commercio internazionale:
succede che si specializza, ci sono vantaggi di efficienza economica. Si osserva quel lato della storia, tramite
il concetto di vantaggio comparato, il cardine di questa impostazione ideologica, e cerchiamo di allargare lo
sguardo ad altre determinanti del commercio tra paesi. L’analisi grafica si basa sull’utilizzo dei grafici a
spalla, come se ci fosse un specchio sull’asse delle y. I due mercati, nella rappresentazione grafica, hanno in
comune la retta del prezzo (P).
Il P si misura su entrambi i mercati, sullo stesso asse. Le quantità (Q) sono misurate a specchio. Nel mercato
italiano (paese), la rappresentazione è quella tipo: le Q crescono, andando da sinistra verso destra. Nell’altro
caso (mondo), è il contrario: origine a destra e le Q crescono, andando verso sinistra. Sul mercato interno del
paese che consideriamo (es. Italia), domanda e offerta sono rappresentate nel modo usuale, nell’ipotesi che il
paese sia chiuso agli scambi internazionali. Immaginando che, nel mezzo ci sia una barriera commerciale
insormontabile, delle tasse proibitive o una norma che chiude in autarchia il paese, il mercato
internazionale non comunica col mercato interno. In questo caso, l’offerta è crescente nel prezzo,
rappresentata a specchio, e la domanda è decrescente. Sul mercato internazionale, il P d’equilibrio è dato
dalla coincidenza tra domanda e offerta, indicato con Pw. Mentre, Pi è dato dall’equilibrio interno tra
domanda e offerta. Date le condizioni diverse sui diversi mercati, i prezzi d’equilibrio sono differenti; ad
esempio, il prezzo interno italiano è più alto. Se rimuoviamo la barriera che isola il mercato italiano da
quello mondiale, e lasciamo che avvengano degli scambi, se ci sono operatori interessati a scambiare, cosa
accade? Consumatori italiani preferiscono il prodotto estero, che costa di meno, rispetto all’interno. Siccome
il prodotto che viene dall’estero è più economico, una parte dei consumatori si rivolgerà al mercato
internazionale. Il prezzo interno, quindi, non sarà più piccolo, ma scenderà fino a incontrare Pw,
nell’ipotesi in cui, il paese che si apre al commercio, è di dimensioni piccole, rispetto al mercato
internazionale. La domanda aggiuntiva che si scarica sul mercato internazionale, non è così tanto
consistente da far crescere Pw. Se il paese è grande, anche Pw salirebbe un po’, perché la domanda
internazionale, a cui s’aggiunge quella del paese che entra negli scambi, salirebbe di un significativo. Il
mercato interno s’assesta su un equilibrio di Pw, e cosa succede quando nel mercato interno vige Pw e non
Pi? I consumatori comprano di più, il prezzo è minore di prima, e lungo la loro funzione di domanda, al
prezzo Pw c’è la scelta di comprare questa quantità (vedi linea rossa). Il consumo dentro il mercato del
paese si espande; i produttori interni, poiché il prezzo sul mercato è più basso di prima, offrono di meno
(vedi linea verde).

Cosa succede al benessere dei produttori e dei consumatori, al loro surplus? Dal lato dei consumatori,

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prima dell’apertura al commercio, il benessere/surplus dei consumatori era misurato da questo triangolo
(giallo); adesso i consumatori stanno meglio, consumano di più a un prezzo più basso, e il loro surplus è
aumentato ed è pari al triangolo più grande (arancione). I consumatori, perciò, hanno ottenuto un vantaggio
di benessere pari al trapezio (blu). Dal lato dei produttori, prima dell’apertura, il loro surplus era uguale a
questo triangolo (arancione, blu e triangolino con il +); ora vendono a un prezzo più basso, e il loro surplus
è pari al triangolino con il +, perdendo la parte del trapezio (blu). Il + esprime il vantaggio netto
dell’apertura al commercio. Triangolino di benessere generato dall’apertura agli scambi internazionali, che
si prendono i consumatori. Secondo caso: se il paese che si andava ad aprire al commercio, era un paese
dove le condizioni interne determinavano un prezzo di equilibrio più basso del prezzo internazionale, con
l’apertura agli scambi ci sarebbe stato un flusso in senso opposto, cioè i produttori interni sarebbero
diventati esportatori sui mercati internazionali. I guadagni di benessere sarebbero stati opposti, ossia i
consumatori italiani avrebbero consumato di meno e pagato di più, il loro benessere si sarebbero ridotto; i
produttori c’avrebbero guadagnato, perché producevano di più e vendevano a un prezzo maggiore. Al netto
si verifica uno speculare triangolino netto di benessere che si va a generare, beneficiando i produttori. Il
mercato, attraverso il sistema degli scambi, genera un aumento di specializzazione. Un sistema di scambi
genera vantaggi in quanto, le persone si specializzano, ogni agente economico si specializza a fare qualcosa,
e specializzandosi riesce a farla meglio, si organizza meglio, diventa più bravo, ottimizza i tempi di gestione
di tutti gli input. Qualcosa di simile accade anche quando paesi scambiano tra di loro. Se gli italiani
decidono di scambiare vino coi cittadini del Costarica, e in cambio del vino che gli italiani esportano,
importano dal Costarica chicchi di caffè, alla fine siccome noi siamo più bravi ed efficienti a produrre vino,
e loro bravi ed efficienti a produrre chicchi di caffè, noi possiamo consumare anche caffè (che non potremo
consumare se non ci apriamo al commercio) e loro anche vino, cosa che non potrebbero fare se non
scambiassero con noi.

I vantaggi degli scambi, in questa visione del commercio internazionale, derivano dalla specializzazione;
concettualmente, non succede niente di diverso, rispetto a quando guardiamo degli scambi che s’instaurano
tra persone. Fino a un certo punto gli economisti, che studiavano il fenomeno del commercio tra paesi,
credevano che i paesi commerciassero sulla base di un meccanismo molto semplice, come l’esempio di
Italia – Costarica, ossia un paese è più efficiente nella produzione di un bene rispetto a un altro; l’altro è più
efficiente nella produzione di un altro bene, e si specializzano ognuno a produrre beni di cui è più efficiente
e poi scambiano. Questa semplice condizione si chiama vantaggio assoluto: nel nostro esempio, l’Italia ha
un vantaggio assoluto nella produzione di vino, il Costarica ha vantaggio assoluto nella produzione di caffè.
Ad un certo punto, gli economisti si sono accorti che, frequentemente, i paesi commerciano tra di loro anche
in assenza di vantaggi assoluti. In molti casi, non sempre, si sono accorti che, c’è un’altra molla per il
commercio, riassunta nel concetto di vantaggio comparato. Per cui, due paesi scambiano convenientemente
tra di loro, anche se uno dei due è più efficiente in tutte le produzioni, rispetto all’altro, basta che quello
meno efficiente, per tutte le produzioni, abbia un vantaggio di tipo relativo nel produrre un bene piuttosto
che un altro. Immaginiamo due paesi, A e B, due beni, grano e tessuto; immaginiamo che, per produrre
questi due beni, occorra solo lavoro come fattore produttivo. Nel paese A, per produrre tessuto, servono 3

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ore di lavoro, mentre per produrre grano, ne servono 12; nel paese B, per produrre tessuto, servono 2 ore di
lavoro, e per produrre grano, ne occorrono 4. Questo esempio mostra il caso di un paese, B, più efficiente
nel produrre grano e tessuto. A è meno efficiente, perché gli servono più ore di lavoro per produrre tessuto, e
molte di più per il grano (12 contro 4). Quindi, nella teoria del vantaggio assoluto, nell’esempio del vino e
caffè, non ci sarebbe convenienza a scambiare; in questo caso, invece, B è più efficiente in tutto, si tiene
grano e tessuto, e A s’attacca. Ma non è così. Perché, nel primo paese, A, produrre grano è 4 volte più
oneroso che produrre tessuto, perché servono 12 ore di lavoro contro le 3 per il tessuto. Invece, in B,
produrre grano è solo 2 volte più oneroso, che produrre tessuto.

In termini relativi, quindi, produrre tessuto è molto più conveniente in A, rispetto a B. A ha un vantaggio
comparato, in senso di relativo, nel produrre tessuto rispetto a grano, rispetto a quanto avviene in B. Mentre
in A, il rapporto di scambio (unità di un prodotto al quale devo rinunciare, se voglio aumentare la
produzione dell’altro) tra grano e tessuto è 4, e in B è uguale a 2, se in A voglio aumentare la produzione di
una unità di grano, devo rinunciare a ben 4 unità di tessuto, e il rapporto di scambio è pari a 1:4. In B il
rapporto di scambio è 1:2. Rapporto di scambio che viene spesso chiamato Ragione di Scambio; 1:4 e
1:2 sono le due ragioni di scambio interne a ciascun paese. Se il paese non scambia con l’esterno, ha un suo
set infinito di risorse, se vuole produrre più di una cosa, deve rinunciare all’altra in funzione dei fabbisogni
di input di ciascuno dei due processi. Ora supponiamo di far scambiare merci a questi due paesi, di fargli
fare una semplice economia di baratto, scambiano grano contro tessuto ad una ragione di scambio
intermedia fra le due interne dei paesi, ad esempio 1:3. Cosa succede? A esporta 3 unità di tessuto, le vende
a B che, in cambio, gli da un’unità di grano. Per produrre 3 unità di tessuto, impiega 9 unità di lavoro. Il
grano non gli serve più perché lo importa, e si liberano 12 unità di lavoro. Gli avanzano 3 unità di lavoro
rispetto a prima. B deve produrre un’unità di grano e gli occorrono 4 ore di lavoro. Il tessuto non lo produce
più perché lo importa (prima per produrre 3 unità di tessuto, a 2 ore di lavoro l’una, impiegava 6 unità di
lavoro), e gli avanzano 2 unità di lavoro. A e B stanno meglio. Entrambi i paesi riescono a consumare quello
che consumavano prima, utilizzando meno risorse, avanzano delle ore di lavoro. Questo concetto di
vantaggio comparato ci aiuta a capire perché i paesi commerciano tra di loro convenientemente, traendone
ognuno un vantaggio, anche nel caso in cui un paese sia, in termini assoluti, più efficiente nella produzione
di tutti i beni. Alcune condizioni del processo produttivo non sono state considerate; i prodotti, ad esempio,
devono viaggiare per andare da un paese all’altro. Ci sono costi di trasporto che possono incidere molto sul
valore unitario della merce. Nell’esempio del grano e del tessuto, abbiamo immaginato che, il lavoratore che
produceva grano, è capace anche di produrre tessuto e viceversa; che c’è una flessibilità totale della
produzione. La riconversione dei fattori produttivi, da un processo all’altro, non è istantanea e non è
possibile.
Altra ipotesi è che, le tecnologie e le funzioni di produzione e di domanda, quindi la struttura delle
preferenze tra consumatori di diversi paesi, siano uguali, ma non è così; non sono uguali né tra paesi né
all’interno di ciascun paese, per via della segmentazione della domanda che porta a specializzazioni
incomplete. L’unico elemento che resta alla base come origine di vantaggi comparati dei paesi, è la
differente dotazione di risorse naturali. L’Italia produce meglio il vino, perché c’è un certo territorio, clima,

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e stesso discorso dicasi per il caffè nel Costarica. Altro elemento che si trascura è che i mercati, che non si
aprono al commercio, possono operare in condizioni diverse da quelle concorrenziali.

Se un mercato che si apre al commercio è un oligopolio o monopolio, le conseguenze in termini di


benessere possono essere differenti. Ad esempio, il monopolio è un mercato che opera in condizioni meno
efficienti, rispetto alla concorrenza perfetta, e l’impresa monopolista che gestisce l’offerta, non solo
produce quantità diverse da quelle ottimali del bene in questione, ma s’appropria anche di una parte del
surplus del consumatore. Se un mercato di questo tipo, si apre al commercio internazionale, esporta il bene
commerciato e le limitazioni, in termini di efficienza e di distribuzione dei vantaggi, relative alle condizioni
di monopolio. Altro aspetto è l’esistenza di economie o diseconomie di scala; nel caso di economie di scala,
l’apertura al commercio può portare vantaggi maggiori, perché cresce il mercato di quel bene. Al crescere
del volume della produzione, i costi unitari di produzione si riducono, e il fatto che cresce la domanda per
quel bene, genera vantaggi aggiuntivi. L’opposto si ha nel caso di diseconomie di scala. Se all’ampliarsi del
mercato, perché il paese si apre al commercio, il processo produttivo entra in un intervallo della produzione,
dove ci sono delle diseconomie di scala, l’apertura al commercio porta a una riduzione di efficienza, per via
dell’incremento dei costi unitari di produzione. Poiché economie e diseconomie di scala possono essere
ingenti, un fenomeno che altera molto il livello dei costi di produzione, tale aspetto è molto rilevante nella
realtà, una delle principali ragioni per le quali abbiamo osservato, negli ultimi decenni, una crescita enorme
degli scambi, e le imprese hanno realizzato guadagni d’efficienza negli impianti notevoli.

Per quanto riguarda la mobilità dei fattori, questi sono perfettamente riconvertibili all’interno del paese. I
paesi non scambiano solo merci, beni finali tra di loro, anche fattori della produzione, lavoro compreso.
Sono mobili anche gli input, che possono cambiare moltissimo le condizioni di efficienza nei diversi paesi.
Se i fattori produttivi si spostano con tanta facilità, cosa ci resta per capire perché un paese è più
competitivo di un altro in una certa produzione sui mercati internazionali? Possiamo rispondere in base a
chi è arrivato per prima a produrre qualcosa, se quel processo produttivo manifesta delle economie di scala,
e l’impresa collocata in un certo paese è cresciuta, ha un vantaggio sulle altre e le ha cacciate dal mercato,
perché essendo cresciuta ha abbattuto i costi unitari di produzione, è più competitiva. Ci sono altri elementi,
oltre alla dotazione di risorse naturali, come la manodopera che si sposta con grande facilità. Quando
diciamo manodopera o forza lavoro, si fa riferimento a un fattore della produzione differenziato al suo
interno, e non tutte le diverse componenti della forza lavoro, sono mobili, riproducibili e riconvertibili.
Quando ci riferiamo alla forza lavoro, in termini di capitale umano, dove non c’è solo la forza muscolare,
capacità di esercitare mansioni manuali, ma c’è anche acquisizione di professionalità, competenze, ecco che
la dotazione dei diversi paesi diventa un elemento dirimente dei livelli di competitività. Le differenze in
termini di professionalità e capitale umano, sono un fattore cruciale nel determinare i flussi di commercio.
Altro elemento importante è il livello tecnologico di un paese, collegato alla qualità del capitale umano. I
ricercatori spostano la frontiera tecnologica, quel segmento dei lavoratori che hanno fatto lunghissimi
investimenti di addestramento, competenze e possono spostare in avanti la frontiera tecnologica, non solo se
c’è dotazione di capitale umano adeguata, anche se nel paese si sono fatti investimenti in macchinari,

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laboratori, in attività di ricerca. Le infrastrutture non sono investimenti specifici, di singole imprese, ma
sono del investimenti del settore pubblico, ad esempio nel sistema delle comunicazioni, della legalità, tutta
l’infrastruttura materiale e non, che serve a far funzionare bene le singole imprese. Il modello del gap
tecnologico spiega la competitività di un paese, in termini di quanto sta avanti da un punto di vista
tecnologico rispetto ai concorrenti.
Modello dinamico che mette in luce il fatto che, c’è un gap, un vantaggio che si può erodere nel corso del
tempo; il vantaggio competitivo dato dal miglior livello tecnologico di un paese, che fa si che le produzioni
derivanti da processi della frontiera, siano inizialmente collocate in questi paesi, Man mano che la
tecnologia diventa matura e altri paesi riescono ad emularla, la produzione è delocalizzata nei paesi che
hanno imitato gli innovatori, paesi che godono di un vantaggio in termini di minor costo del lavoro. Un
aspetto fondamentale nel settore agroalimentare, è la specializzazione produttiva e i flussi determinati dalla
domanda. La componente agricola risente molto, più di altri settori, dei vantaggi localizzativi dovuti alle
condizioni climatiche. La produzione di materie prime è fortemente determinata dalle condizioni ambientali.
Storicamente, siccome l’industria di trasformazione si sviluppa vicino a dove si sviluppa la materia prima, la
stessa industria di trasformazione ha seguito i vantaggi competitivi dovuti alle condizioni ambientali. In
questo settore, è importante la determinazione della domanda, perché il partner dei consumi, di ogni
consumatore, dipende da un fattore chiamato abitudine, ossia si tende a fare cose già fatte in passato, e solo
parzialmente sperimentiamo nuovi comportamenti. Questo è vero nei consumi alimentari, perché il gusto
degli alimenti si forma molto nei primi anni dell’infanzia. La domanda dei consumi alimentari tende ad
avere una componente inerziale forte; un settore produttivo di un paese nasce, prima di tutto, per
corrispondere a una domanda che si determina in loco. Una delle determinanti della competitività
internazionale di un certo settore, è la presenza di una domanda interna. L’agroalimentare italiano si presta
bene all’esempio delle eccellenze del Made in Italy: la pasta italiana è la più buona del mondo, perché i
consumatori italiani, tradizionalmente abituati a consumare pasta di un certo tipo, sono esigenti, acquistando
pasta con certe caratteristiche qualitative. Sui mercati esteri, la pasta italiana non teme concorrenza, se non
altro, da un punto di vista qualitativo. Gli sviluppi più recenti delle teorie del commercio internazionale, si
sono concentrati molto sull’importanza dell’esistenza della domanda, con certe esigenze qualitative, che
allenano le imprese di quel paese a corrispondere al meglio a quella domanda.

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11. Filiera agroalimentare


La filiera agroalimentare consiste nell’insieme di tutte le imprese, anche entità istituzionali, che
concorrono a un qualche titolo nella produzione di un bene finale. Si parte dalle materie prime, dagli input e
si arriva fino alla consegna del prodotto al consumatore finale. Stakeholders della filiera, letteralmente sono
i portatori d’interesse; ci sono agenti economici di natura diversa, che intervengono direttamente o
indirettamente nelle filiere. Ci sono imprese, consumatori, consulenti, rappresentanze di categoria come
associazioni sindacali, dove i lavoratori sono coinvolti nelle filiere. Tutte queste figure, quindi, sono a vario
titolo interessate in quello che accade nella filiera, in un obiettivo comune che è il collocamento sul mercato
del prodotto finale. Ci sono tanti attributi per qualificare una filiera: ci possono essere filiere lunghe, corte,
regionali, nazionali, globalizzate, incomplete, filiere con diversi livelli di concentrazione ai diversi stadi di
produzione, filiere a composizione stabile o variabile a seconda della solidità delle relazioni tra stakeholders.
Diverse categorie di stakeholders che possono entrare a far parte di una filiera. Abbiamo i produttori
agricoli, di materie prime (vegetali o animali); commercianti/grossisti che raccordano tra di loro diverse
aziende agricole, e aziende agricole con livello successivo della trasformazione; possono intervenire altre
figure di commercianti che trasferiscono il prodotto, da imprese di trasformazione a imprese di
trasformazione che stoccano il prodotto, trasferendolo nel tempo e nello spazio; imprese di trasformazione di
vari livelli; grossisti, importatori, esportatori, esclusivisti, agenti commerciali che agiscono nello stadio
finale, imprese di consulenza e servizio trasversali a tutti gli stadi, imprese specializzate nelle attività di
logistica e la vendita al dettaglio. Sono imprese che fanno parte delle filiere e, trasversalmente, troviamo il
mondo delle istituzioni, amministrazioni a livello locale o nazionale a seconda di come s’articola la filiera,
intervengono a sostegno, a regolamentare le attività della filiera, creare tavoli di confronto delle diverse
categorie di imprese. Le imprese della filiera possono avere diversa natura giuridica; ci possono essere
imprese private, società di capitali, cooperative, imprese di tipo familiare.

Quando si utilizza il termine filiera, è come se si usasse il termine impresa; la filiera non è né buona, né
cattiva, né efficiente, né inefficiente. Né genera valore aggiunto, né non lo genera. La filiera definisce tutti i
soggetti che intervengono in un dato processo produttivo, che non è verticalmente integrato in una sola
impresa, nel caso in cui la filiera s’identificherebbe con una sola impresa. Filiera è un termine molto
ricorrente; nella comunicazione pubblicitaria, s’adotta a diversi livelli, tra operatori del settore e nella
comunicazione con i consumatori finali. S’attribuisce al termine filiera un’accezione positiva, s’avvicina
questo termine al concetto di tracciabilità. Un conto è dire che la filiera è tracciata, conosciuta, controllata;
un altro conto è dire semplicemente filiera, come un prodotto che viene da un’azienda agricola.

Nella definizione di filiera lunga, in opposizione a quella corta, c’è un po’ di confusione. Con lungo e
corto s’indicano due aspetti: numero di operatori, ove all’aumentare del numero di operatori si dice che la
filiera s’allunga, minore il numero di operatori, la filiera si accorcia. Corto e lungo è utilizzato in
un’accezione spaziale, con riferimento al numero di chilometri che il bene o semilavorati percorrono. Si dice
che una filiera è lunga se, la somma dei km percorsi da materie prime, semilavorati, bene finale sono tanti.

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Invece, la filiera è corta se il prodotto è a km zero. Si tende a identificare il corto anche in termini di km, il
lungo nell’accezione di numero di operatori col numero di km. Questo non è vero. L’accezione di filiera,
corta o lunga, in termini di numero di passaggi e di km percorsi, possono andare in due direzioni opposte.
Posso avere una filiera molto corta, in termini di numero di passaggi, ma lunga in termini di km percorsi. Il
fare pochi km delle materie prime, che è un elemento utilizzato nella comunicazione tra imprese e
consumatori, per indicare che il processo produttivo ha basso impatto ambientale negativo, per mancanza di
trasporto, non è detto che quel prodotto abbia un impatto ambientale migliore di un altro che ha fatto più km.
Anche le dimensioni delle imprese, laddove i processi produttivi manifestino una scala ottimale efficiente
per dimensioni delle imprese ampie, rispetto a quelle presenti in una certa zona, implicano che il prodotto
che viene da lontano è stato realizzato con miglior livello d’efficienza.
Filiera lunga e corta si definiscono in termini relativi. Una filiera può essere più lunga o corta di
un’altra. Generalmente, all’interno della galassia della filiera corta, sono ricompresi sia la vendita per
corrispondenza, dove il produttore s’incarica direttamente, su ordinazione, di consegnare il prodotto al
consumatore, che gli spacci aziendali, la partecipazione ai mercati dei produttori, punti venditi aziendali nei
centri abitati, sistemi di consegna tramite gruppi d’acquisto. Ci sono esempi più innovativi, che spiazzano
gli operatori delle filiere corte, come il dispenser del latte sfuso nei centri commerciali, gestito direttamente
dal produttore e si trova nella grande distribuzione. Grande distribuzione, che essendo filiera lunga, negli
ultimi anni sta operando alcuni tentativi di accorciamento delle filiere di approvvigionamento dei suoi beni.

Filiere nazionali e regionali si riferisce al contenimento geografico della filiera; pensando alla nostra
regione, il Lazio, si può notare come, per l’agroalimentare, non vi siano filiere auto contenute nella
regione. Le presunte filiere regionali, nel Lazio, sono sempre monche, hanno bisogno di una dimensione
maggiore, per arrivare a completarsi. Esempio: il kiwi. Il Lazio è una regione molto importante, su base
nazionale e mondiale, perché l’Italia è uno dei primi produttori al mondo di kiwi. Il kiwi è un prodotto che si
esporta molto, c’è un’incidenza delle esportazioni sulla produzione interna elevata. Il Lazio non riesce a
confezionare il prodotto, e connettersi coi mercati esteri. Il prodotto laziale viene, in gran parte, trasportato
come prodotto a sfuso a Cesena e nelle centrali frutticole romagnole, dove viene calibrato, confezionato e
avviato all’esportazione. Filiere globali e delocalizzate. La delocalizzazione può essere un modo in cui la
natura globale della filiera viene declinata; impresa globale con molte articolazioni locali, con imprese
dislocate in varie parti del mondo, che si connettono in una rete in cui i diversi nodi sono lontani tra di loro.
Filiere con livelli di concentrazione variabili ai diversi stadi. Se i livelli di concentrazione sono molto
differenti ai diversi stadi, le transazioni che avvengono tra soggetti ai diversi stadi sono transazioni dove le
condizioni sono asimmetriche, ossia c’è un gruppo di soggetti che ha più potere di mercato. Poiché la
concentrazione aumenta, andando più a valle, sono le aziende agricole che hanno da perderci nei termini
stabiliti per gli scambi.
La presenza di soggetti più concentrati, indica che saranno quei soggetti a fungere da protagonisti della
governance della filiera. Chi è più concentrato, ha più potere, più influenza, non solo userà questa maggiore
possibilità di influenzare la filiera, per definire termini di scambio vantaggiosi per sé, ma sarà il soggetto
che si farà carico di coordinare tutte le attività della filiera. Filiere a composizione stabile e relazioni

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variabili. Se i diversi soggetti che stanno in una filiera, sono tra loro connessi da relazioni stock sul mercato,
la filiera è molto instabile, possono entrare e uscire in ogni momento nuovi soggetti, l’industria di
trasformazione può decidere di non approvvigionarsi più da certi agricoltori, ma cambiare partner
commerciali. Stessa cosa possono fare le imprese, rispetto ai consulenti, ai laboratori che fanno le analisi.
Se, invece, le imprese sono tra loro connesse da altri tipi di relazioni, ad esempio le aziende agricole
possono connettersi in cooperative che, a loro volta, offrono servizi alle aziende agricole stesse, servizi per
l’acquisto degli input o servizi di assistenza tecnica, di consulenza. Possono formare consorzi per tutelare la
tipicità del prodotto; connettersi verticalmente con accordi di produzione, che abbracciano un arco
temporale di più anni. La filiera si qualifica, prende vita, se c’è relazione tra soggetti, non basta definirne un
insieme, anche il modo in cui questi scambiano flussi di merci, informazioni. Dal lato della domanda, il
successo del termine filiera è strettamente connesso al bisogno di aver maggiori informazioni, maggior
grado di controllo sui beni alimentari acquistati e consumati, e sul processo produttivo in sé, e in quanto la
natura del processo produttivo influenza le caratteristiche qualitative del bene in sé. Il successo del termine
filiera è caratterizzato dal bisogno di conoscere le filiere, ciò che gli operatori delle filiere fanno, e poter
specificare il più esattamente possibile l’attribuzione delle responsabilità; ciascuno degli stakeholders è
responsabile per il pezzetto di processo produttivo, per il contributo che da al completamento del bene
finale.

Dal lato della produzione, il termine filiera viene utilizzato come categoria concettuale, perché in contesti
produttivi come quello italiano, dove le imprese sono piccole e si realizzano, a livello di singola impresa,
molte inefficienze produttive, la dimensione collettiva della filiera è fondamentale per recuperare margini di
efficienza.
Ciò che piccole imprese non possono fare efficientemente o, in alcuni casi, non possono fare affatto,
possono cercare di farlo, tramite la costituzione di reti, catene organizzate, stabili di relazioni, in senso
orizzontale (imprese che svolgono la stessa fase del processo produttivo) o verticale (connessioni tra fase
agricola, trasformazione e commercializzazione). La dimensione della filiera è rilevante per valutare la
competitività dei prodotti e dei sistemi produttivi che ci stanno dietro. Ragionare in termini di filiera, ci può
aiutare a capire le debolezze del sistema produttivo, che si realizzano all’interno delle imprese. Ci sono
eventi, modi, in cui le imprese si raccordano tra di loro, che possono determinare maggiore o minore
efficienza delle produzioni finali. Tendere a completare le filiere, significa acquisire maggiori quote del
valore aggiunto complessivo del prodotto finale. Alla frammentazione dimensionale del sistema
agroalimentare italiano, s’aggiunge una configurazione poco coesa delle filiere, ossia le relazioni che
legano i diversi operatori tendono ad essere instabili sul mercato, rispetto a quello che accade in altri paesi
come la Francia. Quando si parla di depressione dei livelli di competitività, ci si riferisce sia alla
competitività in termini di prezzo, all’efficienza dei processi produttivi, sia alla competitività in termini
quantitativi, perché se i soggetti che concorrono a generare un prodotto finale sono tanti, e la qualità del
prodotto finale è importante per i consumatori, è evidente che questa qualità è il frutto di tutto quello che
fanno gli operatori che intervengono a generare quel bene. Solo un’azione coordinata di quello che fanno gli
operatori, può conferire al prodotto finale quella qualità che è indicata dai consumatori. Il coordinamento

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degli operatori delle filiere è fondamentale, sia per l’efficienza, che per definire correttamente la qualità del
prodotto. Coordinamento essenziale, anche, per limitare l’asimmetria nel potere di mercato tra diversi
operatori.

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12. Evoluzione dell’agricoltura e dell’agribusiness


VAagr/Cal = VAagr/PVA * PVA/PVAalim * PVAalim/Cal. Rapporto VAagr/Cal: guardiamo, tramite tale
scomposizione, a cosa succede alla capacità del settore agricolo di dare una risposta ai bisogni alimentari
delle persone, man mano che lo sviluppo economico procede, l’economia s’industrializza e i bisogni delle
persone, per quanto riguarda l’alimentazione, si trasformano. Scomposizione di VAagr/Cal in tre rapporti;
moltiplicando e dividendo per la produzione vendibile agricola (PVA), successivamente moltiplicando e
dividendo PVAalim, dove alim è una quota di PVA che riguarda la produzione di materie prime, destinate
all’alimentazione. Una differenza tra PVAalim e PVA è che, in PVAalim non c’è la produzione di fiori,
piante destinate ai consumi non alimentari (es. tabacco, piante, fibre, ecc.). Sono produzioni agricole non
destinate all’alimentazione, direttamente o indirettamente. Nella scomposizione iniziale, il rapporto
VAagr/Cal si riduce all’aumentare del reddito pro capite. Il primo dei rapporti, in cui abbiamo scomposto il
rapporto originario, VAagr/PVA, si riduce perché cresce il valore dei consumi intermedi dell’agricoltura.
Così come, la produzione totale di un qualsiasi settore si distingue dal VA per il valore dei consumi
intermedi, questo succede anche nel caso del settore agricolo. La differenza tra il VAagr e PVA è data dai
consumi intermedi. Poiché il valore del consumi intermedi aumenta, col crescere del PIL pro capite, cresce
tale differenza e il rapporto VAagr/PVA diminuisce perché aumenta la forbice che c’è tra le due grandezze.
Per ogni €uro prodotto dall’agricoltura, crescono gli acquisti che il settore agricolo fa da altri settori, per
l’acquisizione di mezzi tecnici. Cosa succede al secondo rapporto, PVA/PVAalim? Questo rapporto può
variare, aumentare o diminuire, a seconda di fattori specifici che riguardano ciascun paese. Siccome i
bisogni dei beni dell’agricoltura, non utilizzati per l’alimentazione, crescono con l’aumentare del reddito pro
capite e dei bisogni non alimentari rivolti ad altri settori, la domanda di tali beni cresce di più della domanda
di beni non agricoli; ma non è detto che, all’interno di ciascun paese, cresce la quota di produzione agricola
destinata a queste produzioni.
Ciò dipende dalla vocazione produttiva del paese, dalle condizioni ambientali, possibilità di importare
prodotti da altri paesi. Questo rapporto non varia in una direzione univoca, può variare in direzioni diverse a
seconda dei diversi paesi. Questo rapporto è l’unico che non è detto che il valore si riduca col progredire
dello sviluppo economico. Può sia ridurre che aumentare, poiché dipende da condizioni specifiche del
singolo paese. Il rapporto PVAalim/Cal è l’indicatore che misura la capacità del settore agricolo di
corrispondere direttamente ai bisogni alimentari. Capacità che si riduce, al crescere del reddito delle
persone. I consumi alimentari si trasformano, diventano più sofisticati, ed includono una serie di servizi che
le materie agricole non danno al consumatore. La forbice tra il valore dei consumi alimentari (denominatore)
e il valore delle materie prime agricole (numeratore), è una forbice che tende a crescere progressivamente,
perché una quota crescente di quel valore finale dei consumi alimentari va a remunerare trasformazioni del
prodotto, servizi che via via s’aggiungono al prodotto, e che sono sempre più il frutto di operazioni svolte al
di fuori del settore agricolo, svolte soprattutto dall’industria di trasformazione, dalle intermediazioni
commerciali e distribuzione finale. L’indicatore si riduce notevolmente di valore, per effetto dello sviluppo
di filiere di produzione complesse.

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Il progresso tecnico è una delle grandi forze che spingono i sistemi economici al cambiamento, alla
trasformazione, è una delle forze che governano i singoli settore delle economie nel lungo periodo. Gli
assetti del settore agricolo e dell’agribusiness, dell’intero settore agroalimentare sviluppato attorno all’
agricoltura, dal secondo Dopoguerra ad oggi, è in gran parte determinato dal sentiero intrapreso dallo
sviluppo tecnologico di questo periodo. Sviluppo che riguarda le tecnologie produttive, dei trasporti, del
consumo ossia il modo di consumare i prodotti. L’economista che, per primo, ha capito l’importanza del
progresso tecnico nel determinare i sentieri evolutivi dei sistemi economici e la competitività delle imprese,
fu Joseph Schumpeter. L’innovazione è l’unità elementare del progresso tecnico. Progresso tecnico
determinato dall’adozione, all’interno delle imprese, di nuove idee; l’innovazione è una nuova idea
applicata a un processo produttivo.
Schumpeter è stato l’economista che ha inquadrato l’analisi del progresso tecnico, come la forza creativa dei
sistemi economici. Il succo della competizione tra imprese sta proprio nell’innovare il processo produttivo
e/o il prodotto. Un’economia statica è condannata alla stagnazione. L’innovazione gioca un ruolo
fondamentale, le innovazioni sono cambiamenti del processo produttivo, o sono innovazioni radicali che
generano veri e propri prodotti nuovi, che non esistevano sul mercato. Le ragioni per cui un’impresa decide
di adottare un’innovazione, di cambiare il modo in cui produce qualcosa, sono riconducibili a due categorie
di motivi: produrre una maggiore quantità di prodotto, a parità di risorse produttive utilizzate o, che è la
stessa cosa, ridurre la quantità di risorse produttive per produrre una data quantità di prodotto, oppure
modificare la qualità di ciò che si produce, produrre un bene di qualità migliore, meglio adatto a soddisfare
il bisogno che sta dietro la domanda che i consumatori esprimono di quel bene.

La funzione di produzione è la relazione tecnica tra output e input, tra un fattore della produzione
variabile, le cui quantità sono misurate sull’ascisse, e la quantità dell’output misurata sull’ordinate.
La funzione di produzione disegnata in blu, nel grafico, è relativa a una certa tecnologia; la funzione rossa,
più alta della blu in tutti i punti, è relativa a una tecnologia migliore di quella blu. Data una certa quantità di
input, la prima tecnologia consente di ottenere una quantità di prodotto inferiore a quella che permette di
ottenere la tecnologia rossa. Viceversa, una certa quantità di output richiede meno input con la tecnologia
rossa, più input con quella blu. Relazione tra input e output definita produttività, il rapporto tra la quantità di
output ottenuta in un dato processo produttivo, e l’input necessario; può essere misurata in quantità (se si
tratta di una misura parziale di produttività, la relazione che esiste tra la quantità di output che s’ottiene in un
certo processo produttivo, e una categoria di fattori, come lavoro, terra) o in valore (per avere una misura
globale di produttività, mettere in relazione l’output con tutti gli input che occorrono per generare quel dato
output, per poter aggregare tutti gli input fisicamente diversi tra loro, si ricorre a un’unità di misura comune,
cioè al valore dei singoli input). La produzione è un valore assoluto, la produttività è un indicatore che
relaziona una data produzione coi fattori produttivi necessari per ottenere quella produzione. Il progresso
tecnico, l’introduzione di un’innovazione all’interno del processo produttivo, fa variare la produttività
globale dei fattori; la produttività parziale può variare anche in assenza di progresso tecnico, per effetto di
una sostituzione tra un fattore e un altro. Funzione di produzione a più fattori variabili, rappresentata
graficamente dalla mappa degli isoquanti. Prendendo due diverse categorie di fattori, ad esempio capitale e

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lavoro, l’isoquanto raccoglie le diverse combinazioni di capitale e lavoro, che consentono di ottenere una
data quantità di prodotto. L’isoquanto, graficamente, è quella curva dove tutti i punti, lungo la curva, godono
della proprietà di corrispondere a una stessa quantità invariata di prodotto. La differenza tra il punto A e il
punto B, entrambi corrispondenti ad esempio a 100 quintali di grano, è che in A si sta ottenendo un certo
prodotto, utilizzano più capitale e meno lavoro, in B si sostituisce parte del capitale col lavoro e si utilizza
più lavoro e meno capitale. A e B rappresentano due tecniche produttive, leggermente diverse l’una
dall’altro, che se esiste l’isoquanto, esistono entrambe le due tecniche in un certo momento di tempo.

Si può scegliere l’una o l’altra, ma il passaggio dall’una all’altra non rappresenta l’introduzione di
un’innovazione, bensì sono due alternative disponibili per i produttori. In un dato momento, una delle due
sarà quella economicamente efficiente. Si ha progresso tecnico, non se si passa da A a B, ma se si salta su un
isoquanto diverso, cioè se i 100 quintali di grano si possono produrre, utilizzando, ad esempio, la stessa
quantità di lavoro e una minore quantità di capitale, o minore quantità di entrambi, o stessa quantità di
capitale e minore quantità di lavoro. Solo se aumenta la misura della produttività globale. Progresso tecnico:
aumenta la produttività globale dei fattori.

In termini di costo di produzione, ciò che interessa a imprese e consumatori, lo spostamento verso l’alto
della funzione di produzione implica che, la funzione del costo marginale si sposta verso il basso. La
funzione di costo totale di un’impresa è la funzione di produzione, dove per ogni unità di input utilizzata,
per ottenere un certo livello di output, s’aggiunge informazione di quanto costa quell’input in termini unitari,
aggiungere informazione sul prezzo. Quello che interessa alle imprese, nel momento in cui introducono
un’innovazione, non è tanto aumentare la produttività, quanto ridurre i costi. Se si può ottenere una quantità
di prodotto come prima, utilizzando meno fattori della produzione, si spenderà meno di prima e i costi di
produzione s’abbasseranno. Per ogni livello produttivo, che misuriamo sull’asse dell’ascisse, il costo
marginale di produzione si riduce dopo l’introduzione dell’innovazione tecnica.

Siccome la funzione del costo marginale, nel tratto crescente che si trova al di sopra del punto minimo della
funzione del costo medio, altro non è che la funzione di offerta dell’impresa, e la funzione di offerta del
mercato deriva dall’aggregazione delle singole funzioni di offerta delle imprese presenti sul mercato, il
progresso tecnico, facendo abbassare la funzione del costo marginale, fa abbassare la funzione di offerta, la
fa espandere verso il basso e verso destra. Questa è la conseguenza dell’introduzione di un’innovazione,
all’interno di un processo produttivo, in termini di funzione d’offerta del mercato di quel bene.

Agronomiche: sono innovazioni come la messa a punto di una rotazione, che aumenta la fertilità del
terreno; la rotazione agronomica è la successione di diverse culture su uno stesso appezzamento di terreno;
oppure un nuovo modo di potare (albero di frutto o vite); sistemazione terreni, che determina un modo
migliore per le macchine di entrare nel campo.
Meccaniche: riguardano le macchine utilizzate nei processi produttivi agricoli; possono essere macchine per
la mungitura delle vacche/pecore, caratteristiche macchine motrici che portano in campo le macchine

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operatrici (es. l’aratro) per fare semina o raccolta, possono riguardare materiali, motore, forma attrezzi, ecc.
Biologiche: riguardano soprattutto componente genetica e includono le biotecnologie.
Chimiche: scoperta e costruzione di nuove molecole, e diversi dosaggi, miscelazioni di molecole esistenti.
Organizzative: contoterzismo e agricoltura per telefono; nuovo modo di mettere insieme fattori della
produzione che, nella loro natura, non sono cambiati.
Una caratteristica consolidata, da molti decenni, è la forma che assume il progresso tecnico che va avanti per
pacchetti; un’innovazione esplica i suoi vantaggi, in termini di efficienza di progresso tecnico, solo se viene
adottata insieme a tutta una serie di innovazioni complementari a questa. Il caso delle biotecnologie è
emblematico. Le varietà geneticamente modificate esplicano il loro enorme potenziale produttivo, solo se
sono utilizzate in associazione con alcuni antiparassitari o concimi, con innovazioni di tipo chimico. Un’
innovazione biologica richiede un’innovazione agronomico o meccanica, o entrambe le cose, perché una
nuova varietà richiede accorgimenti in campo diversi da varietà di tipo differente. Il progresso tecnico, col
procedere di questo processo chiamato industrializzazione dell’agricoltura, tende a procedere per pacchetti,
e questo spiega la ragione per cui i consumi intermedi crescono con l’industrializzarsi dell’agricoltura,
perché c’è necessità di acquisire diverse categorie di mezzi tecnici assieme, affinchè si estrinsechi il
massimo vantaggio in termini di produttività delle innovazioni tecnologiche. Questa classificazione delle
innovazioni aiuta a mettere in risalto alcune caratteristiche generali delle innovazioni, in particolare la
brevettabilità o meno delle innovazioni. La conoscenza è il più tipico dei beni pubblici, dando luogo ad un
fallimento del mercato.
I benefici della generazione di nuova conoscenza non sono privatizzabili, ma sono benefici che restano a
disposizione di chiunque. Non c’è incentivo affinchè il mercato, spontaneamente affidato alle sole
dinamiche, generi innovazione, nuova conoscenza in quantità ottimale. Non tutti i beni pubblici sono
privatizzabili, non tutta la nuova conoscenza è brevettabile. La brevettabilità di un’innovazione dipende da
condizioni operative, relative alla natura intrinseca della innovazione e di come funziona il passaggio
dell’informazione, affinchè gli utilizzatori dell’innovazione abbiano libero accesso all’innovazione stessa.
Le innovazioni agronomiche non sono brevettabili, poiché sarebbe difficile e costoso rendere rivali ed
escludibili le caratteristiche di quelle innovazioni. Come si rende escludibile l’innovazione che si
concretizza nella messa a punto di una nuova rotazione agronomica? Avrebbe dei costi di controllo che
supererebbero di gran lunga i benefici. Le innovazioni meccaniche, invece, sono più facili da brevettare.
Brevetti soggetti a forme di controllo praticabili, anche se non c’è una brevettabilità completa, perfetta. Un
materiale si può brevettare, difficile da brevettare la forma di un aratro. Innovazioni biologiche possono
essere brevettate, ma c’è dibattito su profili etici, su quanto sia giusto o meno farlo. Innovazioni chimiche
sono ben brevettabili, per le molecole; meno brevettabili in caso di dosaggi o miscelazioni di sostanze
precedentemente esistenti. Non sono brevettabili le innovazioni organizzative.

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13. Creazione e adozione dell’innovazione nel settore


agroalimentare
Qual è il processo che porta alla definizione di innovazione, soprattutto alla sua adozione? Quali sono le
dinamiche dell’adozione di un’innovazione, i motivi per cui le imprese adottano un’innovazione, le
aspettative delle imprese e le conseguenze sugli equilibri di mercato dell’adozione dell’innovazione? Tutte
le transazioni, i processi produttivi, gli eventi rilevanti ai fini del funzionamento del mercato, avvengono
istantaneamente. Tale ipotesi serve a rilevare alcuni nodi topici del funzionamento del mercato, mentre nel
caso del progresso tecnico è un’adozione insostenibile, perché il tempo è una variabile cruciale.
Introducendo il tempo come variabile importante per capire le dinamiche dell’adozione del progresso
tecnico, possiamo distinguere due momenti: la creazione dell’innovazione e l’adozione dell’innovazione
da parte delle imprese. Tempo fondamentale per capire anche come gli agenti economici si aggiustano sul
mercato, una volta che un’innovazione è stata generata e adottata. Se possiamo distinguere questi due eventi,
generazione e adozione, i soggetti protagonisti di questi due momenti, possono essere anche soggetti distinti;
non necessariamente, chi genera innovazione, sarà anche colui che l’adotterà. Il progresso tecnico,
migliorando la produttività dei fattori produttivi, fa spostare la funzione di costo marginale verso il basso e
fa espandere la funzione d’offerta. Questa è la conseguenza dell’adozione di un’innovazione in un dato
mercato, in termini d’offerta di quel bene.
Se sul mercato facciamo incontrare i produttori con i consumatori, riproduciamo la funzione d’offerta che si
è espansa, passa da Y0 (blu) a Y1 (rossa); la funzione rossa è la nuova funzione d’offerta di mercato, dopo l’
introduzione dell’innovazione. Gli apici 0 e 1 indicano due distinti momenti nel tempo. La funzione di
domanda (disegnata in verde nel grafico) è ferma, non è successo niente dal lato del comportamento dei
consumatori, che ne determini uno spostamento. Il nuovo equilibrio sarà determinato dall’unica coppia di
prezzo e quantità, che rende compatibile la nuova funzione d’offerta di mercato con la funzione di domanda.

Come è cambiato tale equilibrio? Si scambia una maggiore quantità di prodotto, dove l’incremento è dato
dalla distanza tra Y0 e Y1 sull’asse delle ascisse, a un prezzo più basso rispetto a prima, da P0 a P1. I
consumatori saranno più contenti, comprano più di prima a un prezzo più basso, il loro surplus è maggiore
dell’area verde (vedi grafico), perché prima il loro surplus era l’area compresa tra la funzione di domanda e
la retta del prezzo P0, e adesso si è espanso perché è aumentata la quantità che acquistano e si è ridotto il
prezzo. Sui produttori che effetto ha questo cambiamento? Un elemento è l’impatto della nuova tecnologia
sui costi di produzione, ma un altro elemento da cui dipende il risultato netto dell’introduzione di un’
innovazione tecnologica per i produttori, è il cambiamento della domanda, come reagiranno i consumatori;
dipende da quanto si sposta la funzione d’offerta, come impatta l’innovazione sui costi. Ma se, a parità di
cambiamento tecnologico, di spostamento della funzione d’offerta, i consumatori si comportassero
diversamente, il loro comportamento fosse descritto da una funzione di domanda più rigida, il punto di
equilibrio si sposta, il prezzo scende più di prima e la domanda si espande molto di meno. Il comportamento
dei consumatori determina l’effetto netto alla fine dei conti, e i consumatori stessi saranno gli unici veri

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beneficiari ultimi dell’innovazione tecnologica. Ma c’è qualcosa che non funziona. Ad esempio, ci possono
essere forme di limitazione della concorrenza, e ci possono essere motivi estranei al progresso tecnico, il
quale può generare limitazioni alla concorrenza, perché può innalzare barriere all’ingresso nel settore. Altro
motivo è che non si sta considerando esplicitamente la variabile tempo. Si sta facendo un confronto statico,
si considerano due situazioni alternative in cui si guarda il prima e il dopo, non capendo cosa succede nel
mezzo.

Cosa succede nel mercato se consideriamo il passare del tempo, quello che succede in momenti diversi.
Prima cosa che accade è che gli imprenditori non si comportano tutti allo stesso modo rispetto alle
innovazioni; ci sono alcuni più pronti a innovare, altri che formano le retrovie dell’innovazione, sono un po’
ritardatari a prendere il treno dell’innovazione. Se consideriamo tutte le imprese di un certo settore,
guardando alla loro prontezza ad adottare innovazioni, il loro comportamento è più o meno di questo tipo
qui (vedi grafico). Sull’asse delle ascisse lo scorrere del tempo, sulle ordinate la % cumulata delle imprese
che adottano l’innovazione. Se si va all’estrema destra del grafico, c’è un momento in cui tutte le imprese
del settore hanno innovato, e questo accade sempre, non c’è ne più nessuna che non innova, per quanto
ritardataria possa essere, arriva un momento che, se sta ancora sul mercato, l’impresa ha innovato. Il punto
d’arrivo è il 100% delle imprese che hanno innovato, ma questo ritmo d’adesione all’innovazione è
incostante. All’inizio la curva cresce lentamente, le imprese che innovano sono poche e la % cresce piano
piano; questo ritmo inizia, ad un certo punto, ad accelerare, dove la funzione è più pendente, il momento in
cui le imprese stanno saltando sul carro dell’innovazione, hanno capito che l’innovazione è buona,
innovare conviene e, quindi, c’è un picco nel ritmo d’adozione dell’innovazione. Dopodiché questo ritmo
rallenta nuovamente, dove rimangono solo i ritardatari.

In questo grafico, invece, sulle ordinate abbiamo il numero di imprese che adottano innovazione, sulle
ascisse il tempo. Inizialmente, sono poche le imprese che adottano (innovatrici), le prime che capiscono che
l’innovazione può convenire. Seguono le imitatrici e le ritardatarie. In entrambi i grafici, la variabile
rilevante è il tempo, perché innovare prima o dopo non è indifferente. Sempre conviene innovare prima?
Dipende. Se l’innovazione cambia la natura del prodotto finito, in base alle indagini di mercato effettuate,
può succedere che, alla resa dei conti, quel prodotto sul mercato non ha il successo che si pensava, o non c’è
la immediatamente, ossia il prodotto può avere anche successo, ma il fatto che tale successo non sia subito,
c’è la dopo un po’ di tempo, diventa un problema per le imprese che hanno innovato per prime. Perché
questo? Perché per innovare, le imprese hanno sostenuto degli investimenti. Può essere vero che la struttura
dei costi di lungo periodo diventi favorevole con l’innovazione, ma c’è un momento in cui l’impresa
investe. Se l’impresa investe oggi, non è indifferente che, ai fini dei suoi risultati economici, i benefici
iniziano ad arrivare tra 5 o 10 anni.

Innovare, pertanto, implica situazioni d’incertezza, accollarsi dei rischi, perché quando s’innova, si sostiene
con certezza dei costi oggi, e non si sa con certezza se e quando arriveranno i benefici. Innovano per prime
le imprese che hanno una struttura finanziaria abbastanza solida, perché possono permettersi di accollarsi dei

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rischi, ma anche le imprese gestite da imprenditori. Quali sono i vantaggi ad innovare per primi? Se si
genera per primi un nuovo prodotto, si ha il vantaggio in termini di reputazione, il nome dell’impresa è
associato a quel prodotto, e per gli altri sarà difficile scavalcare questa barriera.
Anche in termini di aumento della produttività dei fattori, c’è un vantaggio ad innovare per primi. Vantaggio
che si nota, se si confronta l’equilibrio della singola impresa con l’equilibrio di mercato.
Situazione iniziale qualsiasi, dall’equilibrio di mercato ci prendiamo il prezzo P0, dato esogeno per la
singola impresa. Abbiamo un equilibrio di breve periodo, l’impresa realizza dei profitti positivi (area verde
grafico).
Ma se l’impresa introduce un’innovazione, la sua struttura dei costi si sposta verso il basso, non è più
quella blu riportata nel grafico, ma è quella rossa. Però, siccome sul mercato le imprese che innovano sono
poche, la funzione d’offerta dell’intero mercato risente poco dell’introduzione dell’innovazione, si sposta
poco da S0 (blu) a S1 (rossa). Il prezzo scende appena. L’impresa che ha innovato, ha costi ridotti e vende
ad un prezzo abbastanza vicino al prezzo di partenza (prima dell’innovazione). Le imprese che non hanno
innovato, hanno la struttura dei costi blu. Ora, che la funzione di mercato è quella rossa, stanno meno bene
di prima, hanno meno profitti; sono stimolate a copiare quello che hanno fatto le prime imprese.
Alcune imprese s’aggiungono alla schiera degli innovatori, li copiano. La situazione cambia ancora, c’è un
ulteriore spostamento verso il basso della funzione d’offerta. Man mano che il prezzo di mercato si riduce, i
risultati economici delle imprese che non hanno innovato peggiorano, fino a che arriva un punto nel quale,
queste imprese o innovano o escono dal mercato. Questo è l’equilibrio di lungo periodo. O prima o poi,
s’arriva a una situazione di equilibrio di lungo periodo, dove tutte le imprese che restano sul mercato hanno
innovato. Questo nuovo equilibrio, per i produttori, può essere maggiore, minore o uguale, in termini di
surplus. Alla fine del processo d’introduzione dell’innovazione, non sappiamo se i produttori stanno
meglio o peggio di prima.
I consumatori stanno meglio di prima, ma c’è tutto un arco temporale tra la situazione iniziale e quella
finale, nella quale solo le imprese che si sono sbrigate ad innovare, hanno realizzato dei profitti positivi.
Arriva un momento in cui, questo vantaggio può venire a mancare, se non ci sono limitazioni concorrenziali,
barriere all’entrata, altrimenti può diventare una posizione di vantaggio che permane nel tempo. Questa
conclusione ci dice che, la rincorsa al progresso tecnico non si può fermare mai, perché i vantaggi che ne
derivano sono strutturalmente transitori, arriva un momento in cui s’annullano, e se il mercato è
concorrenziale i profitti tornano nulli. Per le imprese, le strade sono due: associare alle innovazioni delle
forme di barriere all’entrata, oppure non smettere mai di innovare. La distinzione tra il momento della
generazione dell’innovazione, e il momento della sua adozione, è una distinzione temporale e concettuale
che ci porta a chiederci come siano connessi questi due momenti, e se tale connessione possa essere
problematica. Gli economisti analizzano il rapporto tra questi due momenti, attraverso il concetto di
mercato, in termini di domanda e offerta di innovazioni, dove chi genera un’innovazione e la detiene in
qualche misura, è in grado di offrirla sul mercato, mentre le imprese interessate ad adottare innovazioni, a
modificare i processi produttivi, esprimono la domanda d’innovazione. Questo modo in cui si connettono
generazione ed adozione è piuttosto utile, perché mette in evidenza alcuni possibili problemi che si
generano. La generazione delle innovazioni è un’attività costosa, perché la ricerca, sia di base che applicata,

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è un’attività che richiede tempo, investire capitali, competenze, ma intrinsecamente è una strada piena di
incertezze, perché si ricerca qualcosa che non si conosce. Tanto più un settore è caratterizzato da imprese di
piccole dimensioni, con tutte le conseguenze del caso, ossia scarsa disponibilità di competenze qualificate
all’interno, di capitali da investire, tanto più le imprese del settore stanno dal lato della domanda delle
innovazioni, non sono imprese generatrici di innovazioni, ma imprese che possono adottare innovazioni
generate da altri. Tanto più un settore è dominato da imprese fatte in questo modo, tanto più sarà un settore
che, nel suo insieme, dipende da innovazioni generate al di fuori del settore. Il processo di generazione del
progresso tecnico è esterno all’impresa, ma interno al settore.
Questi settori, come quello agroalimentare, che adottano innovazioni generate in altri settori, si trovano
spesso ad adottare innovazioni adattate, a partire da innovazioni generate con altre finalità. In un paese
come l’Italia dove, come sappiamo, la frammentazione del tessuto produttivo, in particolare agricoltura e
settore agroalimentare, è così tanto spinta, questa condizione di dipendenza è molto forte e si traduce in
una dipendenza da innovazioni generate al di fuori delle imprese e del settore, ma anche al di fuori del
paese, ossia innovazioni generate da imprese di altri settori che si trovano in altri paesi, e che hanno in
mente una domanda di innovazioni che risponde ad esigenze che, non necessariamente, coincidono con le
esigenze degli agricoltori prevalenti, date le condizioni strutturali dell’agricoltura nel paese che importa la
tecnologia. E questo è accaduto, in parte, nel nostro paese, dove si sono importate molte innovazioni
tecnologiche dagli Stati Uniti, dove c’è un’agricoltura che opera su una scala più ampia di quella italiana,
c’è un rapporto tra popolazione e superficie coltivabile incomparabile col nostro. Queste imprese hanno
avuto, da subito, l’esigenza di aumentare la produttività del lavoro, rispetto a quella della terra; il progresso
tecnico, che domandavano le imprese agricole statunitensi, doveva migliorare l’efficienza di imprese
capitalistiche, per le quali la manodopera era un costo esplicito e la spinta sulla produttività della terra era
meno importante. Le innovazioni di questo tipo sono soprattutto meccaniche, ma anche chimiche che
consentono di risparmiare lavoro, abbattere costi di manodopera. Queste innovazioni sono brevettabili, e
si è sviluppato un mercato per tali innovazioni, grosse imprese come l’industria meccanica, chimica,
generano innovazioni, le brevetta e le vende agli acquirenti. Ciò ha spinto il sentiero tecnologico, intrapreso
e dominante sino ad oggi, in una direzione favorevole a massimizzare l’efficienza dei settori
agroalimentari in alcuni contesti, meno in un contesto come quello italiano, dove la terra è poca ed è questo
il fattore limitante del quale bisogna massimizzare la produttività per migliorare consistentemente
l’efficienza del settore, imprese piccole di natura contadina, che utilizzano buona parte di manodopera
familiare, che rappresenta un costo implicito per l’impresa, cioè all’imprenditore agricolo interessa profitto
e remunerazione del lavoro.

Risparmiare sul lavoro non era la strategia più adatta a rendere più competitive le imprese dell’
agroalimentare italiano. 50/60 anni fa, le famiglie contadine erano estremamente numerose, c’erano
situazioni di esuberi di manodopera, sottoccupazione nelle campagne, salario basso e imprese non
capitalistiche. Ciò non vuol dire che, le imprese non utilizzavano il progresso tecnico disponibile, anzi, tutti
hanno meccanizzato, adottato fertilizzanti e antiparassitari chimici; guardando al processo, nelle sue
conseguenze di lungo periodo, il sentiero del progresso tecnico non è stato neutrale a determinare maggiore

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o minore competitività di un tipo di agricoltura o di un altro. Che cosa avrebbe potuto complementare
questo tipo di mercato dell’innovazione? Ci poteva essere un soggetto per complementare questo tipo di
percorso del sentiero tecnologico. È il soggetto pubblico, nel campo dell’innovazione, ha un ruolo
fondamentale, perché si deve fare carico di risolvere il problema del fallimento del mercato, dovuto alla
natura di bene pubblico dell’innovazione, e lo può risolvere con un intervento di tipo minimale, offrendo un
frame regolativo che privatizzi quel bene pubblico tutte le volte che è privatizzabile. Ma non tutti i beni
pubblici, rappresentati dall’innovazione, sono privatizzabili. Inoltre, si deve fare carico, in prima persona, di
compiere ricerche e generare innovazioni in tutti gli ambiti in cui, l’innovazione resta come bene pubblico e
non si può privatizzare, altrimenti quelle innovazioni nessuno le genererebbe. Tra quelle innovazioni, ci
sono le agronomiche, che hanno un impatto fortissimo sulla produttività della terra, e sarebbero state
innovazioni fondamentali per aumentare l’efficienza e la competitività del settore agroalimentare in Italia.
Perché sarebbero state? La ricerca pubblica, in Italia, è stata molto depotenziata e questo ha un grosso
impatto, nel lungo periodo, sullo spostamento della frontiera tecnologica e su come s’orienta tale frontiera,
sul tipo di percorso intrapreso dal sentiero. Quando un settore è caratterizzato in questo modo, cioè le
imprese sono piccole, la dotazione in termini di capitale umano è scarsa, l’incontro tra domanda e offerta d’
innovazione è difficoltoso. L’interazione tra domanda e offerta, quando il bene è oggetto di scambio, è
complesso come l’innovazione, richiede il passaggio di un sacco di informazioni. Affinchè gli scambi
avvengano, c’è bisogno che offerenti e compratori si scambino tanta informazione.

I potenziali offerenti devono farsi un’idea di quali innovazioni potrebbero essere utili per le imprese, per
quali innovazioni ci potrebbe essere un mercato. I potenziali compratori, invece, devono capire in cosa
consiste l’innovazione, come potrebbe essere utilizzata, come potrebbe essere applicata e adattata alle
specifiche condizioni produttive dell’impresa. Si sviluppa poi la distinzione che gli economisti chiamano la
domanda effettiva e la domanda latente di progresso tecnico. La domanda latente è la domanda che,
teoricamente, le imprese esprimerebbero, se fossero in grado di capire su quale sentiero tecnologico a loro
converrebbe mettersi, per migliorare la propria efficienza ed essere più competitive; implica la capacità di
fare un’analisi critica della tecnologia che adottano, e di quali bisogni in termini di nuova tecnologia
avrebbero per comparare i propri livelli d’efficienza con quelli dei concorrenti, di trovare i punti deboli e
immaginare possibili soluzioni. Per quanto riguarda il settore agricolo, ma non solo, il soggetto pubblico è
sempre dotato di servizi di assistenza tecnica. I tecnici pubblici dovrebbero aiutare le imprese, a trasformare
la loro domanda latente d’innovazione in domanda effettiva, aiutarle a comunicare con le imprese che
generano progresso tecnico oppure con le università, gli istituti di ricerca pubblica. Una volta che l’
innovazione esiste, devono aiutare le imprese a capire che quell’innovazione può essere conveniente, e se
l’adottano come adottarla. Quando esistono i brevetti, e si può pensare che abbiamo privatizzato l’
innovazione e il mercato funziona bene da sé, in realtà non è proprio così ed è necessario l’intervento del
settore pubblico; quando si fa un brevetto, si sta generando un monopolio, e da un fallimento di mercato, si
ricade in un’altra situazione in cui l’efficienza si riduce. Il diritto di monopolio, la protezione data dal
brevetto all’innovazione, per mantenersi nell’ambito di efficienza economica, l’estensione del diritto di
brevetto va commisurata in maniera proporzionata ai costi che sostengono le imprese per generare l’

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innovazione. Brevetto che deve consentire di coprire i costi, più un tasso di profitto ragionevole, che copre
il rischio.

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14. Filiera cerealicola


Dato 100 che è il valore del prodotto finale della filiera della pasta, acquistata dai consumatori, il 91% di
tale valore copre ciò che avviene a valle della componente agricola della filiera, mentre il 9% copre il costo
del grano; grano considerato come materia prima, input per i successivi processi che avvengono nella filiera
(es. la molitura del grano che diventa farina, miscelazione delle diverse farine, produzione e
commercializzazione della pasta).
Il grafico ci dice cosa avviene nella filiera cerealicola italiana, tutte le figure dei diversi stakeholders che
giocano un ruolo nella filiera.
Ci sono le imprese agricole che producono cereali, che possono vendere a intermediari, a commercianti;
possono essere riunite in cooperative/consorzi, che raccolgono il prodotto, oppure possono vendere
direttamente alle imprese di molitura. Questi canali, a loro volta, sono in comunicazione con le imprese a
valle, come panifici/pastifici industriali e panetterie, ma sono anche in comunicazione tra di loro. Le
cooperative non acquisiscono granella di cereali solo da imprese cerealicole, ma possono acquistare sul
mercato anche da intermediari, possono agire da collettori di prodotto e venderlo a molini e altre categorie di
trasformatori. Una volta ottenuto il prodotto finito, subentra il dettaglio, la vendita del prodotto finito, che
può avvenire attraverso canali di diverso tipo, che diffondono il prodotto al consumatore finale.

In Italia, a fronte di una frammentazione spinta di tutte le fasi della filiera, agricola e non solo, si riscontra
uno scarso livello di coesione degli agenti che operano nelle filiere. Mentre una grande impresa può
integrare verticalmente al suo interno tante funzioni, escludendo rapporti con partner commerciali,
l’acquisizione di consulenti o semilavorati, per le imprese piccole, invece, la coesione con le altre imprese
che concorrono insieme a portare a compimento un processo produttivo, a definire un prodotto che arriva sul
mercato, è un aspetto essenziale. I rapporti tra stakeholders sulla filiera possono essere di natura differente:
possono essere semplici rapporti stock sul mercato, possono derivare da contratti pluriennali, contratti che
possono essere specificati con un grado di maggiore o minore dettaglio, prevedere rapporti di collaborazione
stretti con l’acquirente che offre servizi o svolge controlli su imprese che forniscono materie prime o
semilavorati, offrire assistenza tecnica. Come avviene nei distretti industriali, si possono realizzare rapporti
stabili nel tempo, seppur non formalizzati da contratti, di tipo consuetudinario. Tutto questo, in Italia, accade
molto poco. Le filiere sono composte di un gran numero di imprese, perché ad ogni livello del processo
produttivo, le imprese sono di piccole dimensioni, e perché c’è anche una frammentazione molto spinta del
processo stesso, con elevato numero di intermediari.
Il grado di frammentazione di un processo produttivo, la separabilità dell’insieme di azioni che vanno
adottate per portare materie prime, input, a combinarsi tra di loro e divenire output, questa scomponibilità è
un elemento cruciale nel capire la complessità di una filiera, quanto una filiera può scomposta in singole
fasi. C’è un dato tecnico, che fa capo alla tecnologia di produzione, da cui dipende quanto una singola
impresa si specializzi in un solo pezzetto del processo produttivo.

Altro elemento da cui dipende il grado di scomposizione effettiva del processo, e la configurazione della

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filiera più o meno suddivisa in stadi, è l’incidenza del costo di trasporto. Costa molto trasportare,
rimuovere un semilavorato da un luogo, e ci sono vincoli di tempo entro i quali questo trasferimento deve
avvenire? E quali sono i costi connessi? All’aumentare dei costi di trasporto e dei vincoli che la natura del
processo impone sulle possibilità di trasportare il prodotto, possono determinare o una riduzione della
scomposizione del processo stesso, oppure una concentrazione territoriale delle diverse imprese che
concorrono a completare il processo produttivo. Si potrebbe avere un processo produttivo scomposto in
diverse fasi, ma le diverse imprese sono obbligate a localizzarsi in un’area ristretta. Economie di scala:
giocano nei termini di favorire la concentrazione. Consistono in una riduzione del costo unitario di
produzione, man mano che cresce la scala produttiva, ossia la dimensione dell’intero processo. Qualsiasi
processo produttivo manifesta diversi livelli dei costi unitari di produzione, in corrispondenza di diverse
dimensioni del processo stesso. I diversi processi manifestano economie o diseconomie di scala (crescita dei
costi unitari di produzione), per dimensioni del processo stesso che possono essere variabili. Una delle
ragioni per cui le imprese agricole tendono ad essere più piccole delle dimensioni prevalenti delle imprese in
altri settori, è che in agricoltura subentrano presto, al crescere delle dimensioni produttive, dei fattori che
determinano diseconomie di scala, degli attriti organizzativi. Impossibile dire, in assoluto, a quale
dimensione dei processi produttivi, si ha una scala produttiva ottimale, tale per cui si è beneficiato di tutte le
possibili economie di scala per quel processo, e se si cresce un po’ si entra nel tratto delle diseconomie di
scala. Per ogni specifico processo produttivo, c’è una dimensione ottimale della scala su cui avviene quel
processo.
Se la scala ottimale, con riferimento al minimo costo di produzione, sia piccola o grande, è una rilevazione
che si può fare in termini relativi, confrontando la dimensione ottimale di quel processo con le dimensioni
del mercato di quel prodotto, generato da quel processo. Le economie di scala si realizzano in un intervallo
dimensionale del processo produttivo. La dimensione ottimale di un’impresa è grande, se lo è rispetto alle
dimensioni complessive del mercato; quella stessa dimensione potrebbe essere piccola su un altro mercato.
Economie di scala, quindi, giocano un ruolo fondamentale nel valutare quale sarà la configurazione di una
filiera, e un altro elemento rilevante è quanto incidono le economie che si possono ottenere, collocandosi
sulla scala produttiva ottimale. Costi di transazione. Quando ragioniamo di come funziona un mercato,
ipotizziamo che gli scambi avvengano automaticamente e senza problemi. Non c’è alcun costo connesso alla
decisione di vendere o di acquistare, e all’implementazione effettiva della transazione. Questa è una
conseguenza del fatto che abbiamo, per ipotesi, escluso dalla realtà virtuale del mercato, l’incertezza e
l’incompletezza delle informazioni a disposizione degli agenti. Ipotizziamo che siano tutti perfettamente
informati sulle condizioni rilevanti per gli scambi, immaginiamo che ogni acquirente/cliente potenziale
sappia come è fatto il prodotto di un’impresa, ma anche delle altre, sappia qual è il prezzo di un’impresa, ma
anche delle altre, ecc. Immaginiamo che siano tutti omogenei questi beni. Per ipotesi, abbiamo eliminato la
componente temporale, si fa tutto istantaneamente. Il tempo ha un valore nella vita delle persone. Con i costi
di transazione, quindi, includiamo tutti i costi monetari e non, come il tempo che impiego per valutare se
quel bene è veramente il bene che voglio, raccolta delle informazioni, confronto delle alternative,
valutazione di quanto un bene corrisponde alle proprie necessità.
Ogni transazione tra gli operatori è associato ad un costo, che non è solo il costo vivo, pulito di acquisizione

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del bene, ma si tratta di un costo complessivo al quale s’aggiungono altri addendi, tra cui i margini di
incertezza, il trasporto. Se alcune voci dei costi di transazione sono molto elevati, questo spinge verso un
compattamento delle filiere.
Se i margini di incertezza sono forti, di avere il prodotto nelle condizioni in cui si erano pattuite tra le
controparti, questo genera una convenienza per le imprese a internalizzare la funzione dell’impresa, invece
di acquisire sul mercato un servizio o un semilavorato, la stessa impresa si organizza al suo interno per
saltare il mercato, e creare una funzione dell’impresa dedicata all’acquisizione di quel semilavorato o
materia prima, oppure spinge verso forme di coordinamento forte, non si va sul mercato a cercare solo ciò di
cui abbiamo bisogno, ma si fa un contratto pluriennale col fornitore, specificando che se il cliente non riceve
la fornitura entro tot giorni dopo la scadenza pattuita, il cliente può rescindere il contratto, applicare una
penale; o ancora, le controparti concordano che il fornitore si farà seguire da una ditta di certificazione che,
periodicamente, procura un report al cliente e così via. In questo modo, le controparti riducono il margine di
incertezza, e stabiliscono alcuni parametri nel momento in cui stipulano il contratto e, per tutta la durata del
contratto, resta ferma la validità di ciò che hanno concordato.

Le caratteristiche della domanda, quello che i consumatori chiedono, vogliono, desiderano, è un aspetto
essenziale per capire come si organizza il tessuto delle imprese. Una domanda standardizzata gioca in
favore di filiere più coese, una minore segmentazione e diversificazione del mercato. Radicamento
territoriale forte delle produzioni che, in agricoltura, è un elemento importante, perché cambiano le
condizioni ambientali, naturali, c’è una diffusione di alcune specie o varietà limitata ad alcuni territori. La
differenziazione, su base territoriale, delle produzioni e il radicamento territoriale di queste, che certe
produzioni sono localizzate in un territorio, è dato da fattori storici e dal fatto che, quella produzione può
avvenire lì e non altrove. Ci sono tante filiere diversificate, a livello territoriale. Anche il quadro normativo
esercita un’influenza rilevante nella configurazione di una filiera. Le piccole imprese, se non sono inserite
in un sistema relazionale, soffrono particolarmente del livello non favorevole dei costi unitari di produzione
e della struttura degli stessi costi, dove la rigidità della componente fissa incide molto. Si potrebbe far
riferimento a una contrapposizione tra altre due categorie di costi, costi espliciti e impliciti.
Una delle ragioni per cui le imprese agricole resistono nel tempo, nonostante una struttura dei costi e una
posizione di mercato sfavorevole, è che hanno una struttura dei costi dove la componente implicita è molto
elevata rispetto a quella esplicita, perché utilizzano manodopera familiare. Lavorando nella mia impresa,
accetto una remunerazione inferiore al costo opportunità. Sono imprese familiari con capitali e terreni
propri.

Altro elemento che sfavorisce le piccole imprese è la mancanza di potere di mercato, subendo il potere di
mercato delle controparti; il fatto che queste imprese non sono inserite in una filiera, dove c’è
coordinamento, le espone a subire le condizioni di mercato della controparte. Anche la capacità
d’investimento rappresenta un elemento di fragilità delle piccole imprese, le quali operano su base
individuale, non sono connesse a un network di altre imprese, in una cooperativa/consorzio che s’interfaccia,
ad esempio, col sistema bancario, dove ha difficoltà nell’accesso al credito, e può essere penalizzata dalla

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impossibilità di fare investimenti di tipo sunk cost, irrecuperabili. La capacità innovativa penalizza le
piccole imprese che non sono coordinate orizzontalmente e verticalmente con altre imprese della stessa
filiera, perché non solo il processo di generazione delle innovazioni è costellato di beni pubblici, collettivi,
esternalità, ma si realizzano anche molte complementarità. Il processo innovativo avviene attraverso
l’esplicarsi di attività complementari, svolte da diversi soggetti che si devono coordinare tra di loro.

Una delle penalizzazioni principali sui mercati globalizzati. Ottenere visibilità presso i clienti finali, per
poter costruire nel tempo una propria reputazione d’impresa, è uno dei fattori limitanti, che rappresenta una
spinta alle imprese a mettersi insieme, su basi diverse, per aumentare la propria visibilità. Marchi collettivi,
diverse forme di certificazione sono un modo per fare massa e ottenere visibilità presso i consumatori.
Soluzioni per le piccole imprese per superare queste limitazioni. La più banale è crescere, dove le imprese
possono adottare diverse strategie, come fusioni, acquisizioni, joint venture, integrarsi verticalmente o
orizzontalmente. La crescita può avvenire tramite una diversificazione interna della produzione, e per
crescere servono capitali e capacità. Altro ostacolo forte sono le nicchie di mercato, i mercati si segmentano,
ci sono nicchie di domanda colte bene da piccole imprese d’eccellenza, specializzate nel fare bene
qualcosa.

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15. Piccole imprese del settore agroalimentare


Quali sono gli obiettivi che le piccole imprese delle filiere riescono a raggiungere, le cose che possono fare
o possono fare meglio, che in una situazione di scarso coordinamento non riescono a fare. Quando le
imprese si mettono insieme per fare qualcosa, possono raggiungere delle economie di scala, decidere di fare
unitamente delle cose che, da soli, farebbero a un costo più alto. Possono ottenere anche delle economie di
scopo, quelle economie che si realizzano quando un certo fattore fisso può essere utilizzato per diversi
processi produttivi, e ciascuno dei processi produttivi che utilizza quel fattore fisso viene realizzato a un
costo unitario di produzione più basso. Economie di scopo che hanno alcuni punti in comune con quelle
scala, ma si differenziano da quest’ultime perché i processi produttivi che adottano quel fattore sono diversi.
Economie localizzative hanno a che fare con la localizzazione geografica delle imprese, il fatto di stare
vicine tra di loro, come i distretti ad esempio. Uno degli elementi di competitività dei distretti è che si
realizzano, per la concentrazione elevata di imprese che partecipano a questa filiera, economie localizzative.
Esistono altri tipi di economie localizzative; ad esempio, per un’impresa trovarsi vicino al suo mercato di
sbocco è una fonte di economia localizzativa, perché ci sono meno costi di trasporto per arrivare al mercato
finale, i rapporti coi distributori sono più facili e meno costosi, si potrebbero aprire nuovi canali di sbocco
perché, se si è vicini alla propria domanda finale, si può decidere di provare a fare la vendita diretta ai
consumatori, capire meglio cosa i consumatori vogliono. Alcuni studiosi inquadrano la categoria delle
economie localizzative, all’interno della categoria delle economie esterne, le esternalità, che possono essere
negative (se generano un costo o riducono un vantaggio) o positive (se generano un beneficio, abbattimento
dei costi). Sono economie che definiscono le conseguenze di un processo produttivo o di un atto di
consumo, che ricadono su un soggetto o più soggetti, estranei a quel mercato al quale si riferisce quell’atto
di produzione o di consumo. L’inquinamento è il classico esempio di esternalità negativa. Aggregandosi,
mettendosi insieme, le imprese possono migliorare la posizione di mercato.
Le cooperative, ad esempio, e altre forme di aggregazione lo possono fare, sia per vendere i prodotti che per
acquisire fattori produttivi. In Italia, questa metodologia è poco diffusa, rispetto alla Francia dove vige la
regola che, gli agricoltori acquistano input chimici e mezzi meccanici attraverso le cooperative, ottenendo
abbattimenti sui prezzi di listino del 40/50%. Anche nei rapporti con le banche, con l’accesso al credito,
funzionano bene le forme di aggregazione, in quanto gli agricoltori si possono dare garanzie reciproche, e
hanno la possibilità di investire nella ricerca per fare innovazione, ricerca tecnologica e di mercato per
capire come stanno evolvendo alcuni mercati di sbocco. Per quanto riguarda la visibilità, in relazione al tipo
e alla dimensione del mercato ove si pone l’impresa, un’impresa piccola, arrivando con quantitativi scarsi
sul mercato, può avere il problema ad essere riconoscibile da parte degli acquirenti, sia clienti finali sia
imprese che acquistano il prodotto. Essere visibile con quantitativi adeguati, con costanza nel tempo, è
fondamentale; infatti, le imprese che se lo possono permettere, si fanno pubblicità per farsi riconoscere. La
prima cosa è far sapere che esisti come impresa, è la premessa per costruirsi una buona reputazione. Questi
quantitativi adeguati, sufficienti, sono molto diversi come valori, se il mercato di riferimento di un’impresa è
locale, oppure se è un mercato più ampio. La preparazione professionale, di coloro che lavorano nelle
piccole imprese, spesso è un problema, perché nelle piccole imprese ci sono meno competenze,

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specializzazione (es. imprese familiari). Ci si aggrega, quindi, ci si mette insieme, per acquisire, aggiornare
capacità.
Cosa vuol dire, per le imprese, aggregarsi? Le forme più blande, definite come coordinamento/integrazione
verticale e orizzontale, si hanno quando le imprese stipulano contratti di diversa durata, dove si dettagliano
una serie di condizioni che riguardano l’oggetto della transazione. Ci possono essere forme di accordi
informali, verbali, ecc. Le imprese si riuniscono in forme consortili, consorzi temporanei o permanenti, si
mettono insieme nel gestire una risorsa, tutelare o valorizzare un prodotto comune. Si possono associare
anche in cooperative, ci sono distretti e sistemi agricoli locali, che sono forme di coordinamento informale,
forti, stabili nel tempo.
Comportamento delle grandi imprese, quando s’aggregano. Strategia di integrazione orizzontale. Si
evidenzia come le grandi imprese fanno integrazione orizzontale, producono cose simili a loro, per
rafforzare la posizione sul mercato. Un’impresa può pensare di perseguire una posizione dominante sul
mercato, se cresce ancora di dimensioni, può crescere tramite un processo di acquisizione di altre imprese
simili, può ridurre la concorrenza, diventare un monopolista, un oligopolista più importante degli altri. Le
motivazioni possono essere di vario tipo: vanificare un concorrente fastidioso, raggiungere il volume critico
per ottenere economie di scala, beneficiare della complementarietà della gamma di prodotti (economie di
scopo), avere accesso a reti di distribuzione o segmenti di acquirenti, ecc. Strategia di integrazione verticale
a monte e a valle. L’impresa, che vuole integrarsi verticalmente, si trova più a valle delle imprese che
integra a monte; il motore dell’integrazione si trova a valle, e risale all’indietro lungo la filiera. Queste
strategie possono essere messe in atto, ad esempio, se il controllo della materia prima è un elemento
strategico per l’impresa. Un elemento legato a tali strategie sottolinea l’importanza della complementarietà
nelle tecnologie. Se io voglio acquisire una maggiore competenza in una data tecnologia, il modo migliore
per farlo in una grande impresa è acquisire l’impresa che ha creato quella tecnologia, la padroneggia. La
strategia di integrazione a valle, invece, parte da un’impresa che si trova più a monte nella filiera, e che si
vuole avvicinare ai mercati di sbocco. La motivazione prevalente di una strategia di questo tipo è avvicinarsi
di più al mercato finale. Capire meglio che cosa vogliono i consumatori, acquisire maggiori quote di valore
aggiunto. Nella letteratura economica, che si occupa delle forme d’aggregazione delle imprese, c’è una
sottovalutazione degli inconvenienti, analizza poco gli svantaggi e le difficoltà. Se gli agricoltori capissero
che gli conviene mettersi insieme, potrebbero beneficiare di alcuni vantaggi. Distinguiamo svantaggi e
difficoltà. Primo svantaggio oggettivo è la perdita di autonomia decisionale. Quando un’impresa si aggrega
con altre imprese per fare qualcosa insieme, perde un po’ la sua autonomia decisionale. Una delle grandi
lezioni dell’economia è imparare a capire che, ogni decisione umana presa deve essere il risultato di
un’analisi costi – benefici.
La perdita di autonomia decisionale si decide nel momento in cui si decide di fare la cooperativa, ma poi si
verificherà per tutto il tempo in cui la cooperativa esiste. La complessità dei rapporti e del meccanismo a cui
si perviene alle decisioni, si collega molto alla perdita di autonomia decisionale. Nel momento in cui non
sono io più a decidere, non solo devo accettare delle decisioni di compromesso, ma quanto è difficile
arrivare a quel compromesso. Ogni decisione è una fatica, richiede tempo, pazienza ed è un’attività
complessa. Altro elemento è la natura ambigua dei rapporti tra imprese che si mettono insieme per fare una

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cosa. È una natura non limpida, c’è sempre interesse a cooperare ma, allo stesso tempo, interesse di tipo
concorrenziale. Una grande ambiguità che è un elemento di difficoltà nel prendere decisioni, crea diffidenza.
Questa ambiguità e la difficoltà ad giungere a decisioni condivise che siano di beneficio un po’ a tutti, scelte
di compromesso che vadano bene a tutti, peggiorano al crescere della disomogeneità strutturale tra imprese,
cioè tanto più a un accordo, un’attività di coordinamento, partecipano imprese diverse tra di loro, perché
alcune sono più grandi e altre più piccole, alcune sono familiari, una è multinazionale e le altre sono radicate
sul territorio, tanto più saranno divergenti con i loro interessi, strategie commerciali, aspettative, ed è
difficile che queste trovino un accordo vantaggioso per tutti, e sarà più probabile che le imprese più grandi
riescano ad avere più potere decisionale all’interno dell’accordo, più capacità di negoziare l’accordo. Le
imprese più piccole, che beneficerebbero di più dei vantaggi dell’integrazione, sono quelle che in caso di
disomogeneità, hanno più difficoltà ad ottenere decisioni che siano a loro favorevoli.

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16. Censimento generalo dell’agricoltura


Prima tabella slyde. Ci sono alcuni dati a diverse scadenze temporali. Le prime 3 colonne della tab. si
riferiscono alle date quando sono stati fatti i censimenti generali dell’agricoltura, gli ultimi disponibili. A
novembre il prossimo censimento. I dati riportati nella tab. non sono di natura censuaria, ma sono riferiti ad
un campione di aziende, stratificato con criteri statici, in modo da rendere al meglio comparabili i dati
raccolti con quelli dei censimenti. Questa rilevazione si chiama indagine sulle strutture agricole, effettuata
nell’intervallo tra due censimenti, in tutti i paesi europei. Anche se è un campione, permette di fare
confronti tra paesi europei, perché c’è un problema di confrontabilità dei dati tra paesi nei censimenti.

A queste quattro scadenze temporali, sono stati riportati i dati in termini di numero d’aziende (prima riga),
variazioni % per le ultime colonne, nelle altre righe troviamo la superficie agricola utilizzata e totale. Le
ultime due righe riportano le dimensioni medie delle aziende agricole italiane, in termini di superficie
agricola utilizzata e totale. Un’azienda agricola è un’unità tecnico – economica, anche se composta su
appezzamenti di terreno non contigui, gestita in modo unitario e può includere impianti; se si tratta di
un’azienda zootecnica, può includere stalla e sala di mungitura, se è un’azienda vitivinicola include cantina
e attrezzature del caso, nella quale vi è una persona fisica o giuridica che gestisce i fattori della produzione,
assumendosi il rischio d’impresa. La superficie agricola utilizzata è una quota della superficie agricola
totale, in particolare è la quota coltivata, utilizzata, a seminativi o a culture arboree o legnose/agrarie,
oppure a pascoli e orti familiari, o anche a castagneti da frutto. Altre categorie di coltivazioni legnose, non
da frutto, non fanno parte della superficie agricola utilizzata, come i boschi. Se, ad esempio, un castagneto
viene utilizzato per produrre legno, e non frutto, non sta dentro la SAU. Inclusi anche i terreni a riposo, quei
terreni che un anno sono coltivati, e un anno no, oppure più anni sono coltivati e un anno no, nella rotazione
agronomica. Questa pratica serve a mantenere la fertilità del terreno, a preservarla nel tempo; anche se quei
terreni, in un dato anno, sono a riposo, non sono coltivati, fanno parte della SAU.
Nella superficie agricola totale, tutta la superficie inclusa nelle aziende agricole, oltre alla SAU, ci sono le
superfici a boschi, ad arboricoltura da legno, terreni incolti e le superfici aziendali per le recensioni, la
viabilità, che sono superfici di servizio. Un ettaro di terreno è una superficie di 10mila m2, un quadrato di
100 mt di lato. Quante aziende agricole ci sono oggi in Italia? Nel 2005 ci sono circa 1 mln e 800 mila
aziende agricole. Erano molte di più nel passato, si sono ridotte ad un ritmo notevole. Se guardassimo oggi,
nel 2010, il dato del 2005, questo sarebbe ancora più ridotto. Mediamente, più del 10% ogni decennio, 1.5%
all’anno. Un trend di riduzione analogo, leggermente meno accentuato, ha riguardato i terreni coltivati. La
SAU è -29%, la SAT è -25%. Di quali sono i valori assoluti di questi dati? 11 mln di ettari nel 2005, erano
15 mln nell’82. Stiamo parlando di un periodo nel quale il grosso della contrazione del settore, insieme
all’esodo agricolo avvenuto negli anni ‘50/’60, dove la superficie agricola era ancora maggiore,
s’avvicinava ai 25 mln di ettari. Se vedessimo il dato al 2010, ci sarebbe un ulteriore riduzione. Un settore,
quindi, in fortissima contrazione, non soltanto in termini di contributo all’economia nazionale, anche nella
base produttiva. Cosa è successo alla dimensione delle aziende agricole? Erano, mediamente, 7.3 ettari
nell’82 e 9.7 nel 2005. C’è stato un incremento delle dimensioni medie delle aziende, ma non si è trattato di

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un incremento eclatante; se si pensa che c’è stata una moria di aziende che ha fatto si che, quasi 1 azienda su
2 di quelle operanti nell’82, oggi non esistono più. Un processo di aggiustamento strutturale molto forte che,
per un settore, le cui dimensioni delle unità produttive sono così piccole, inadeguate; a fronte di una
modificazione del settore, in termini aggregati, così intensa, non c’è stato un cambiamento negli assetti
proprietari, tale da determinare una crescita significativa delle dimensioni di queste aziende. In termini di
SAU, la situazione è ancora peggiore e la crescita è stata minore. Seconda tabella slyde. Altro dato
fondamentale è la ripartizione delle aziende agricole della superficie coltivata per zona altimetrica, in Italia.
Nella prima parte della tabella ci sono dati assoluti, nella seconda parte dati %. Di questi 11 mln di ettari di
SAU, poco meno di 6 mln di ettari, pari al 44%, si trovano in collina.
Solo 1/3 in pianura e poco meno di ¼ in montagna. Il 52% delle aziende agricole si trova in collina,
percentuale superiore a quella della superficie, e che testimonia della particolare gravità del problema delle
dimensioni aziendali, nella zona del paese dove c’è la maggior parte della superficie. Terza tabella slyde.
Questa tabella, con riferimento al 2003, mostra la ripartizione della superficie agricola coltivata per grandi
circoscrizioni geografiche e grandi categorie di utilizzo della superficie. I seminativi, incluse le culture
cerealicole, foraggiere avvicendate (coltivate su base annuale), culture industriali, oleaginose ed ortive, tutte
le coltivazioni di piante erbacee; mentre le culture permanenti sono tutte le coltivazioni di piante arboree,
come vite, olivo, frutticoltura, ecc. Prati permanenti e pascoli sono superfici coltivate in modo estensivo per
il pascolo del bestiame, lo sfalcio estivo del prato per l’alimentazione del bestiame. Ci sono anche boschi,
arboricoltura da legno, superficie inutilizzata le altre tare, e abbiamo la ripartizione: dei 12 mln di SAU
registrati nel 2003, 7 mln a seminativi, quasi 2.5 mln prati permanenti e pascoli, 2.5 mln di ettari per le
culture permanenti. Quarta tabella slyde. Tabella più complessa che ci dice cosa c’è dietro il dato medio
dimensionale delle aziende agricole italiane, in base alla disponibilità del terreno. Oltre al numero d’aziende,
si guarda ad un altro parametro che riguarda il fattore produttivo del lavoro, ed entriamo dentro il dato
medio, dividendo le aziende agricole italiane per classi di dimensione. La prima colonna, ad esempio, riporta
il numero di aziende con meno di 5 ettari di superficie, la seconda colonna tra 5 e 10 ettari di superficie e
così via. Dei 2.5 mln di aziende presenti nel 2000, nell’agricoltura italiana, ben 2 mln ricadevano nella
classe dimensionale minore (< 5), quasi l’82%. Queste aziende, così piccole e numerose, concentravano a se
solo il 19% della superficie agricola italiana, meno di 1/5. Divengono erogate la metà delle giornate di
lavoro erogate in tutto il settore agricolo italiano. Sono aziende, rispetto alle altre classi, che utilizzano meno
terra e più lavoro. La classe successiva, tra 5 e 10 ettari, è meno rappresentata come le altre, solo l’8.5% di
numerosità d’aziende, e il dato si riduce via via progressivamente, fino all’1.4% dell’ultima classe (> 50). Le
aziende, tra 10 e 20 ettari, col 5%, in altri paesi sarebbero definite aziende piccole, nel nostro paese sono di
medie dimensioni.
Se guardiamo le % che esprimono l’importanza degli altri parametri della superficie, ci rendiamo conto che
c’è un’inversione del trend, perché la % di superficie detenuta è crescente, fino all’ultima classe del 36%,
più di 1/3 della superficie totale dell’agricoltura italiana, posseduta solo dall’1.4% di aziende. Quando si
parla della struttura dell’agricoltura italiana, si parla di polarizzazione, ossia l’agricoltura italiana è fatta di
un numero esageratissimo di microaziende, e sommando le ultime tre classi dimensionali, s’arriva al 10% di
numero d’aziende, chiamato il decimo eminente, nel senso di importanza produttiva. Per quanto riguarda le

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giornate di lavoro, si riducono progressivamente. Giornate di lavoro intese in termini assoluti, erogate nelle
diverse categorie, si riducono costantemente, passando da una classe all’altra. Le aziende molto grandi, che
si trovano nell’ultima classe, lavorano il 36% della superficie agricola italiana, utilizzando meno del 10%
della forza lavoro utilizzata in agricoltura, e ciò vuol dire che sono aziende che si comportano in modo
diverso quelle che si trovano a sinistra e a destra della distribuzione. Guardando i dati medi vediamo che, se
le giornate mediamente lavorate in un anno, a livello aziendale, crescono progressivamente, in termini
unitari, quando si va a dividere le giornate lavorate per gli ettari, le cose si ribaltano. Sono 64 giornate
annue, in media, nelle aziende più piccole, fino ad arrivare a 6 giornate all’anno per ogni ettaro coltivato.
Questo si spiega con tre ordini di ragioni: due delle quali riguardano una strategia messa in atto dalle piccole
imprese, per superare questa strettoia data dalla poca disponibilità di terra. Il loro fattore illimitante, che
vincola la possibilità di generare più reddito, di produrre di più, è la terra.

Come fanno queste imprese molto piccole, per cercare di superare questo vincolo? Fanno due cose: adottano
ordinamenti produttivi più intensivi, che valorizzano al massimo ogni ettaro di terreno, ad es
ordinamenti produttivi dove incide di più la presenza di culture arboree. Ordinamenti produttivi che
utilizzano più lavoro e meno terra. Anche la tecnologia produttiva utilizzata, a parità di produzione, nelle
piccole aziende, sarà più intensiva di lavoro, di manodopera; nelle aziende grandi, sarà una tecnologia meno
intensiva di manodopera, perché la manodopera è un costo esplicito e le aziende grandi hanno il vantaggio
in termini di capacità di investire.
Dietro a questa diversa intensività di uso dei fattori, terra e lavoro, ci sono innanzitutto questi due fattori:
ordinamenti produttivi differenti e tecnologie diverse. Terzo motivo di natura demografica, dove
l’agricoltura italiana, in particolar modo la componente delle piccole aziende gestite direttamente
dall’imprenditore, sono gestite perlopiù da persone anziane, la cui produttività del lavoro, è molto diversa
rispetto agli operai salariati che lavorano nelle grandi aziende. Il dato statistico sovrastima il lavoro erogato
nelle piccole aziende, perché una giornata di lavoro viene misurata uguale per tutti, ma 8 ore lavorate da un
imprenditore 70enne o più anziano, pensionato e sta lì nella sua azienda, perché gli piace, è la sua vita, non
ha altro da fare, sono molto diverse da 8 ore lavorate da un operaio salariato in una grande azienda. Quinta
tabella slyde. Un altro fattore della produzione molto importante è la componente zootecnica dell’agricoltura
italiana. Sono dati aggregati e un po’ grezzi, che riguardano il numero di capi presenti nell’agricoltura
italiana, divisi per specie: bovini, suini e ovicaprini. La specie di gran lunga più importante sia quella
bovina, dove abbiamo sia gli allevamenti bovini da carne che da latte. Un bovino vale circa come 6 suini e
10 capi ovini. Al 2004 abbiamo poco più di 6 mln di capi bovini, 8.5 mln di capi suini e 9 di capi ovini.
L’allevamento bovino ha subito un vero e proprio tracollo nel corso del tempo, si è ridimensionato
moltissimo l’importanza di questa produzione. Invece, la produzione di ovicaprini è in ascesa ed è
fortemente concentrata in 3 regioni: Sardegna, e pari merito d’importanza, Sicilia e Lazio.

L’ovinicoltura
L’ovinicoltura laziale è fondamentale per l’ovinicoltura italiana, in generale, e per la nostra regione, non
solo perché lo è come contributo alla formazione del valore aggiunto agricolo regionale, ma anche perché gli

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allevamenti ovicaprini adottano delle risorse che non sarebbero utilizzabili in altri processi produttivi. I
terreni non sono solo un bene scarso nel nostro Paese, non è un fattore produttivo indifferenziato, ma è
fortemente specifico; ci sono, quindi, possibilità si sostituire processi produttivi differenti tra di loro, molto
limitati, perché le condizioni ambientali, pedologiche del terreno, rendono possibili alcuni usi e non altri. Il
settore produttivo, soprattutto nella componente primaria, agricola, che ha il compito di soddisfare la
domanda dei consumatori, si scontra con delle rigidità notevoli.
Ciò giustifica, in parte, l’attenzione particolare che la PA, la Regione, lo Stato, l’UE ho storicamente
riservato al settore agricolo, soggetto non solo alle alee climatiche, ma anche a delle difficoltà a riconvertire
fattori produttivi da un uso a un altro. Un altro aspetto, riguardo il tracollo della zootecnia bovina in Italia, è
la forte contrazione drastica che segue il processo d’espansione, piuttosto veloce nel nostro Paese, avvenuto
per effetto della PAC, che aveva incentivato molto generosamente le produzioni bovine da carne e da latte.
Produzioni importanti in Francia, Olanda, Germania, Danimarca e, in via secondaria, nel Regno Unito; una
porzione ampia degli Stati membri, politicamente molto forte, che erano riusciti ad esercitare un’azione di
pressione, fin dalla nascita della PAC, molto importante per proteggere quelle produzioni che, nelle
agricolture nazionali dei loro paesi, erano molto diffuse in tutte le aziende.
La PAC, per tutti gli anni ’60, ’70 e ’80, ha protetto fortemente, con misure d’intervento di mercato, le
produzioni cerealicole e la zootecnia bovina, e l’aiuto era concesso a tutti gli agricoltori dei paesi membri.
Anche l’Italia che, dal punto di vista delle condizioni produttive, non ha un vantaggio comparato in queste
produzioni di zootecnia bovina, ma sotto l’effetto di questi aiuti dati agli agricoltori, ha visto un’espansione
notevole di tali settori. Alcuni sostengono che questa espansione è stata un male per l’Italia, perché ha
sottratto risorse produttive, terra soprattutto, a produzioni per le quali il nostro Paese aveva una maggiore
vocazione, produzioni per le quali l’Italia avrebbe potuto sfruttare un vantaggio comparato rispetto agli altri
partner europei e, beneficiando della creazione del mercato unico, avrebbe potuto specializzarsi nelle tipiche
produzioni mediterranee (ortofrutta, vite e olivo). E invece, sotto l’effetto distorsivo di questi incentivi,
avrebbe riorientato una parte dei fattori produttivi verso la zootecnia bovina. Progressivamente, questo
sostegno si è andato a ridurre fino ai giorni nostri, si è smantellato per effetto del lungo processo di riforma
della PAC. Sono entrate in vigore, nella prima metà degli anni ’90, delle direttive in materia socio – sanitaria
sulla produzione del latte, che ha tagliato fuori tutte le aziende con bovini più piccoli, perché dovevano fare
degli investimenti per poter corrispondere a nuovi obblighi, ma che non hanno potuto fare.
Sul settore si sono abbattute le due tornate d’emergenza di BSE; la prima negli anni ‘96/’97, la seconda 7/8
anni dopo circa, determinando un calo dei consumi, un crollo del mercato per alcuni anni, dando il colpo di
grazia alla nostra zootecnia. Sesta tabella slyde. Anche nel caso della zootecnia, la tabella mostra dei dati
sulle dimensioni delle aziende, evidenziandoli sempre per classe dimensionale, dove la dimensione è data
dal numero di capi allevati. < 10 significa allevamenti con meno di 10 capi in stalla, 10 – 50 sono
allevamenti tra 10 e 50 capi, fino a < 100. Dati riferiti al 2000. Le aziende con capi bovini erano 171mila, un
piccolo gruppo rispetto alle aziende agricole totali in Italia; di queste 171mila, il 45%, poco meno di 1 su 2
aveva meno di 10 capi in stalla. Aziende molto piccole. 64mila, pari al 37%, aveva tra 10 e 50 capi, e così
via. Se andiamo ad analizzare il numero medio di capi per azienda, la situazione si fa ancora più polarizzata.
Abbiamo il 7% delle aziende che possiede più della metà dei capi presenti in tutte le aziende bovine italiane,

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il 52%, mentre le 78mila aziende che ricadono nella classe dimensionale minore, hanno solo il 5.2% dei
capi, e in media ne hanno solo 4. All’estremo opposto, quelle grandi, le pochissime che hanno più di 100
capi, ne hanno 236 in stalla. C’è poi una distinzione, in cui vengono enucleate le vacche da latte, dove si può
notare come la polarizzazione è ancora maggiore. Meno del 4% hanno più di 100 vacche da latte in stalla,
raccolgono il 30% di tutte le vacche da latte presenti nella zootecnia italiana. E anche qui c’è una
concentrazione geografica molto forte, di bovini da latte, in primis la Pianura Padana che concentra circa il
90% della produzione. I produttori di latte hanno beneficiato, a lungo, di produttori di altri settori, del
sostegno dei prezzi sul mercato, grazie alla loro capacità di organizzarsi molto bene in difesa dei propri
interessi. è stato sviluppato un modo per misurare le dimensioni aziendali, in termini di valore della
produzione che realizzano. Il valore della produzione che realizzano è chiamato dimensione economica delle
aziende, che permette di sommare le diverse produzioni che si fanno nelle aziende agricole, che sono
imprese multi prodotto, a differenza dei settori industriali ove succede meno frequentemente, perché c’è
meno differenziazione. Non è difficile trovare un’azienda agricola, che attivi contemporaneamente 4, 5, 6
processi produttivi differenti. Verso la fine degli anni ’80, l’UE ha definito un parametro che è il Reddito
Lordo Standard (RLS), una metodologia unificata a livello europeo, che consente di fare confronti sulle
dimensione delle imprese nei diversi paesi europei. Il RLS, oltre a misurare in termini economici le
dimensioni dell’impresa agricola, consente di misurarne sinteticamente la specializzazione produttiva, di
capire tra i tanti processi produttivi attivati in un’azienda, qual è quello prevalente in termini economici.

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17. La concorrenza nel settore agroalimentare


Qualità intrinseca è la qualità che fa parte della natura del prodotto in sé. Qualità estrinseca può essere
qualcosa che riguarda il processo produttivo, e che può o non può riflettersi nelle caratteristiche del
prodotto. La qualità, sempre più importante oggi sui mercati, non è solo intrinseca, ma è anche qualità di
una serie di condizioni, intorno al prodotto e che possono fare la differenza del suo successo o meno sul
mercato. A noi interessano entrambe le tipologie di qualità, perché la qualità che ci fa vendere sul
mercato, è molto composita, nella quale devono rientrare una quantità di attributi che formano una serie
lunga che non finisce più. Un prodotto di massa standardizzato ha dei canoni di qualità che deve rispettare.
La qualità non è solo eccellenza, ma qualità è definire un segmento di mercato, una tipologia di prodotto, e
attenersi a quella. Analisi storica. Nel passaggio dagli anni ’50/’60 ai decenni successivi, c’è stato un
cambiamento nei consumi alimentari, e nel modo di considerare l’agricoltura, la vita in campagna, il tipo di
sguardo che le persone rivolgono al settore primario. Un settore fondamentale, perché si riflette anche nella
domanda di beni alimentari, nelle aspettative che hanno i consumatori, quando decidono di rivolgersi a un
prodotto industriale, standardizzato, oppure decidono di acquistare prodotti che hanno stretto legame con le
campagne, le aziende agricole che li hanno generati. Mentre nel periodo dell’industrializzazione e
dell’urbanizzazione, i prodotti agricoli in quanto tali, erano considerati negativamente, perché erano
prodotti mancanti di una serie di servizi incorporati, a differenza dei prodotti industriali, nel senso di
standardizzazione delle caratteristiche. Se, ad esempio, si compra un prodotto agricolo, può risultare acerbo,
maturo, saporito: ci sono molti più margini d’incertezza, è un prodotto meno standardizzato. Questa
standardizzazione, questa maggiore certezza di quello che si compra, era in quella fase, e ancora oggi, un
elemento prevalente di apprezzamento nei confronti di prodotti industriali, che sono confezionati, più
conservabili, velocemente preparabili nella lavorazione domestica. Tutto ciò che era agricolo aveva una
connotazione sociale negativa, di arretratezza, povertà, c’era un profilo di affermazione di uno status
positivo, legato alla modernità.
In quel periodo, con la crescita del reddito, si è assistito ad un cambiamento importante nelle categorie
merceologiche di beni alimentari consumati. Nella seconda fase, negli anni più vicini a noi, con una decisa
accelerazione negli ultimi vent’anni, il modo di considerare l’agricoltura è molto cambiato: è mutato il modo
di vivere delle persone, si è verificato un parziale controesodo dalle città verso le campagne, riscoprendo
alcuni valori positivi della vita in campagna, alcune condizioni economico – sociali più favorevoli,
trascinando con sé una serie di valenze positive anche negli stili di consumi alimentari. Non è, infatti, un
caso che oggi si parla di filiera corta; i consumatori sono interessati ad accorciare le filiere, riaccostarsi alla
natura dei processi produttivi in agricoltura, per acquisire prodotti la cui genuinità è ridiventata un valore. In
passato, alcuni aspetti negativi, insidie dei prodotti alimentari trasformati industrialmente, hanno iniziato a
venire a galla, e si è diffusa la conoscenza, ad esempio uso di conservanti e coloranti. Negli anni ’60/’70 non
c’era consapevolezza che alcuni elementi dei processi produttivi di tipo industriale, potevano comportare
una riduzione del valore nutrizionale degli alimenti, o causarne un impatto negativo sulla salute. Tale
consapevolezza è emersa nel corso del tempo, perché nel caso di problemi di tipo cronico, serve del tempo
affinché si manifestino gli effetti, gli studi epidemiologici vengano fatti, confermati, alcune evidenze

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diventino certezze effettive e poi conosciute dal pubblico dei consumatori. Pensiamo all’emergenza di
ossina e BSE che hanno contribuito a cambiare il tipo di considerazione da parte del grande pubblico dei
consumatori, rispetto all’industrializzazione spinta dei processi produttivi degli alimenti. Consapevolezza
che si è diffusa molto, e nel frattempo si diffondeva una domanda opposta di salubrità degli alimenti, di
sicurezza igienico – sanitario degli alimenti, che è positivamente correlata con il reddito. Le persone sono
più ricche e domandano più salute, che è un bene di lusso, molto elastica rispetto al reddito, poiché col
reddito aumentano le aspettative di vita, migliora il livello di salute determinando l’aumento della domanda.
Col reddito aumenta il livello di istruzione, la capacità delle persone di comprendere relazioni complesse,
come le relazioni tra uno stile alimentare e lo stato di salute delle persone.
In generale, in questa fase, aumenta la domanda di contatto con la natura, perché la vita nelle città della
maggior parte della popolazione, si carica di connotazioni negative, una vita avulsa dall’ambiente naturale
dove avvengono i processi produttivi primari. Questo cambiamento di consapevolezza si traduce in una serie
di domande, che le persone esprimono al settore primario e ai beni e servizi prodotti dal settore stesso.
All’agricoltura, la società non domanda solo di produrre materie prime agricole, ma i cittadini domandano di
produrre salubrità, paesaggio, preservare tradizioni, biodiversità, stili di vita diversi. L’agricoltura ha un po’
la funzione di museo del passato, di una società preindustriale, di garantire anche diversità sociale, modelli
di vita diversi alternativi. In questa fase, che coincide con la fase apicale di sviluppo dei livelli di ricchezza,
avviene in modo spinto quel processo di moltiplicazione dei modelli di consumo, che ha iniziato a portare a
quella differenziazione spinta dei mercati dei prodotti. Questa diversificazione è così tanto spinta, che
taglia trasversalmente anche le singole persone. Ciascuno di noi, in diverse situazioni della propria vita, ove
la varietà delle situazioni della vita di ciascuno di noi è molto aumentata, perché è aumentata la mobilità
sociale e nello spazio, ci muoviamo più di prima, si cambia ruolo all’interno dei gruppi sociali di
riferimento, ognuno di noi esprime bisogni diversi, e con riferimento a una categoria merceologica ci
comportiamo diversamente. I modelli di consumo si frammentano e tagliano trasversalmente le nostre vite, e
le diverse occasioni di consumo. Anche i bisogni alimentari, che potrebbero avere base oggettiva più solida,
tanto è vero che sono direttamente collegati al concetto di sazietà, si sono incredibilmente smaterializzati; ai
livelli di reddito medi, diffusi nei paesi ricchi, sono bisogni sganciati dalla base materiale del bisogno. Se, ad
esempio, decidiamo di passare una serata con amici, andando a mangiare una pizza, in quel momento stiamo
esprimendo un bisogno di convivialità. Si riempie di esigenze che riguardano la sfera della segnalazione
dello status, dire qualcosa di noi stessi agli altri; consumando, si raccontano anche delle storie, a noi stessi e
agli altri. Ad esempio, quando decidiamo di privilegiare l’acquisto di un pacchetto di cacao di una marca,
rispetto ad un’altra, stiamo dicendo qualcosa agli altri dei nostri valori, ma al tempo stesso diamo a noi stessi
un’immagine di persone che ci gratifica di più.
Movimenti del consumo critico: sono movimenti di consumatori che, tramite scelte positive o negative,
esprimono una loro idea del mondo, della società, e decidono di selezionare i prodotti in base al loro grado
di apprezzamento su quello che fanno le imprese. Tutta la sfera valoriale riguarda la segnalazione di status, o
la soddisfazione morale, dove l’acquisto di un prodotto porta all’acquisto di una sensazione di benessere
morale, perché si pensa di aver fatto una cosa giusta. Riguardo alla contraddittorietà, quando gli acquisti
rispondono a bisogni, desideri, che sono anche largamente immateriali, dentro ci finisce tutta quella

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componente di irrazionalità, e di contraddittorietà, che si trova nelle menti umane. La nostra razionalità di
consumatori è molto lontana dall’essere completa, perfetta; si tratta di una razionalità limitata, piena di
elementi contraddittori. Se, per i consumatori, gli attributi di qualità sono così fondamentali, lo diventano
anche per le imprese, perché la capacità di stare sul mercato dipende dalla capacità di soddisfare i bisogni.
Conferire, quindi, al prodotto che vogliamo vendere, la qualità giusta per il segmento di mercato che è il
target da noi individuato, è importante almeno tanto quanto risultare competitivi in termini di prezzo, e in
alcuni casi lo è anche di più. Per un tessuto produttivo, come l’agroalimentare italiano, che per condizioni
ambientali e per caratteristiche dell’unità di produzione, non è competitivo sul fronte dei costi di produzione,
noi abbiamo uno svantaggio in termini di costi di produzione, rispetto alla maggior parte dei nostri
competitor sui mercati internazionali, ma abbiamo molti potenziali vantaggi in termini di qualità, perché
abbiamo una reputazione affermata, tanta varietà di produzioni, molte produzioni rispondono a segmenti in
forte espansione della domanda internazionale. Interessante è la nicchia della qualità elevata, dove si fa
riferimento all’eccellenza, che non è solo il prodotto artigianale, può essere anche un prodotto di tipo
industriale per un mercato più ampio, però nel suo segmento deve essere il top della gamma. La concorrenza
perfetta è il mercato dove la qualità non è rilevante, perché per ipotesi il prodotto di tutte le imprese che
stanno su quel mercato, è identico, così come i processi produttivi, qualità intrinseche ed estrinseche, e i
prodotti non sono nemmeno distinguibili sul mercato.
Due prodotti, invece, possono essere considerati distinti, o come due varianti di un prodotto differenziato, a
seconda di come la vedono i consumatori, i quali in una certa coordinata spazio – temporale, la possono
vedere in un modo diverso rispetto a un altro gruppo di consumatori. L’elasticità incrociata è la misura di
quanto siano correlati, agli occhi dei consumatori, due beni: Exy=dQx/dPy. L’elasticità incrociata, tanto più
è elevata, tanto più ci dice che due prodotti sono due buoni sostituti; tanto migliori sostituti sono questi
prodotti, tanto più i due mercati sono interconnessi, al limite sono un mercato solo. Se il valore
dell’elasticità s’avvicina allo zero, tanto più quei prodotti sono distinti. La qualità può dar luogo a un tipo
di differenziazione verticale oppure orizzontale. Nel caso di differenziazione verticale, tutti i consumatori
hanno le stesse preferenze, una variante di prodotto è preferita, rispetto ad un’altra, da tutti quanti; in tal
caso, si potrebbe fare un’affermazione della serie che, il prodotto A è migliore del prodotto B, che è migliore
del prodotto C. Il fatto che l’ordinamento delle preferenze sia univoco, non vuol dire che gli acquisti siano
univoci. Nel caso della differenziazione orizzontale, non tutti i consumatori la pensano nello stesso modo,
non si può dire che un prodotto sia migliore di un altro, in termini oggettivi, perché i clienti la vedano in
modo differente.

Studio della domanda del consumatore, attraverso l’approccio di Lancaster. Lancaster, economista degli
anni ’60, ha proposto un’analisi della domanda secondo basi diverse da quelle che conosciamo noi, perché
l’interesse dei consumatori non si rivolge ai beni in quanto tali, ma alle caratteristiche che definiscono i
beni. Il bene ci interessa solo come strumento per arrivare a certe caratteristiche, perché il bene è descritto
come paniere di caratteristiche. Ad esempio, se usciamo con gli amici e ci vogliamo rilassare, la birra non ci
interessa in quanto tale, ma ci attira perché è una bevanda, con certo contenuto alcolico e che ci rilassa. Se
non c’è la birra, ci accontentiamo di un’altra bevanda che abbia caratteristiche simili, dal punto di vista del

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contenuto alcolico. Secondo Lancaster, ciò che è rilevante nell’analisi dei beni, è lo spazio delle
caratteristiche, ogni bene è definito da un certo vettore di caratteristiche.
Primo esempio rapporto tra caratteristiche e beni. Sull’asse delle ordinate, abbiamo la gradazione alcolica,
sulle asse delle ascisse troviamo il contenuto calorico. Vicino l’origine c’è l’acqua, che ha zero gradazione
alcolica e zero calorie; vicino l’acqua, c’è l’acqua tonica, che è zero alcolica, ma un po’ zuccherata (spostata
vs destra). A seguire, la birra analcolica, con zero alcol e più calorie. La Coca cola ancora più a destra, molto
più calorica. Il gruppo di prodotti disposto orizzontalmente, si discosta molto dal secondo gruppo di
prodotti (vino, birra, ecc.), che delinea una correlazione positiva, molto forte, tra il contenuto calorico e
quello alcolico. Come tecnologia produttiva, non è possibile avere un prodotto che sia più alcolico e meno
calorico.
Secondo esempio rapporto tra caratteristiche e beni. Sull’asse delle ordinate, abbiamo il contenuto
zuccherino, sulle ascisse l’effervescenza. La grappa, ad esempio, è zero effervescenza e zero contenuto
zuccherino, è attaccata all’acqua. Anche per la Coca cola la differenziazione è cambiata.

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18. La concorrenza nel settore agroalimentare


Le forme di mercato che descrivono i casi più frequenti di differenziazione del prodotto, sono due: la
concorrenza monopolistica e l’oligopolio. Entrambe sono forme rilevanti nella realtà, la maggior parte dei
mercati risponde ai caratteri di tali forme. Per quanto riguarda il settore agroalimentare, la concorrenza
monopolistica ricopre un ruolo maggiore rispetto all’oligopolio. Questi due modelli sono famiglie di
modelli, perché sia la concorrenza monopolistica, sia l’oligopolio possono essere configurati in diversi
modi. Nella concorrenza monopolistica, le imprese, come nella concorrenza perfetta, sono molte e piccole,
e c’è libertà di entrare e uscire dal mercato, le barriere all’entrata e all’uscita sono poco rilevanti. I prodotti,
rispetto alla concorrenza perfetta, sono disomogenei, differenziati, tra loro sostituibili. Ciò significa che, la
singola impresa, in concorrenza perfetta, è l’unica produttrice di quel bene di quella specifica qualità. La
funzione di domanda che l’impresa si trova a corrispondere, è una funzione di domanda inclinata
negativamente. La sostituibilità tra la variante del bene che quell’impresa offre, è elevata con le varianti di
quel bene che offrono le altre imprese.

Il grafico dell’impresa in concorrenza perfetta, mostra un’elasticità infinita, è una funzione di domanda
orizzontale, il che significa che l’impresa assume il prezzo determinato dall’equilibrio di mercato.
Nella concorrenza imperfetta, in funzione dei diversi livelli del prezzo che l’impresa può decidere di
applicare, la quantità che può vendere varia, ma c’è ne vuole prima che s’annulli. Vale il trade off, la
relazione negativa tra quantità e prezzo per il singolo produttore, che non è price taker. Non è price maker
con potere di mercato illimitato, ma può avere un margine decisionale.
L’equilibrio sul mercato di concorrenza imperfetta, tra domanda e offerta, implica che il livello del prezzo
a cui l’impresa riesce a vendere il prodotto, è superiore al costo marginale e l’impresa può realizzare profitti
positivi. La differenza tra ricavi totali di vendita e costi totali di produzione è positiva nel breve periodo. Nel
lungo periodo, invece, non ci sono barriere all’entrata e all’uscita, nuove imprese possono entrare in un
settore/mercato di un prodotto differenziato, dove osservano profitti positivi dei concorrenti. Una delle
proprietà principali del mercato concorrenziale, è realizzare la massima efficienza economica possibile.
Questa proprietà è una conseguenza del fatto che, tutti gli scambi avvengono ad un valore che corrisponde al
costo marginale di produzione, e questo vale sia per materie prime, che per beni, se tutti i mercati sono
concorrenziali. Si ha un’allocazione efficiente delle risorse produttive e dei beni. Se il mercato non è
concorrenziale, e le imprese detengono un certo potere di mercato, e il prezzo di vendita è maggiore del
costo marginale di produzione, tanto che realizzano profitti positivi, si ha una perdita di benessere e la
quantità prodotta in quel mercato, è subottimale. Tuttavia, se nella struttura delle preferenze dei
consumatori, la varietà dei beni consumati è importante, il fatto che su quel mercato siano presenti tante
varietà di beni, genera un vantaggio in termini di benessere. S’arriva a formare un oligopolio quando i
processi produttivi manifestano rilevanti economie di scala, c’è una tendenza alla concentrazione, le imprese
sono poche o, perlomeno, c’è ne sono poche che detengono la maggior parte del mercato. Un mercato di
questo tipo può persistere nel tempo, se vi sono forti barriere all’entrata. Mentre nel mercato concorrenziale,
le imprese sono price taker, le uniche decisioni che le imprese devono prendere, riguardano le quantità da

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produrre, la combinazione degli input da usare, l’impresa ha un semplice comportamento di tipo adattativo,
ossia assume il prezzo e a quel prezzo ci deve stare, invece, nella concorrenza imperfetta e nell’oligopolio
, quando l’impresa ha un certo potere di mercato, ha la possibilità di decidere se vendere a un prezzo o a un
altro, in certi intervalli, il comportamento delle imprese viene definito di tipo strategico, perché la leva del
prezzo è strategica per il livello di competitività dell’impresa, per il suo piazzamento sul mercato, nel
determinare che quota di mercato avrà oppure no.
Anche le decisioni sul prezzo, come quelle sul tipo di attributi qualitativi, sulla base dei quali impegnare il
proprio prodotto, fanno parte della strategia competitiva dell’impresa, la quale cercherà di determinare
qualità e prezzo a proprio vantaggio, per massimizzare i propri profitti e sfrutterà questa leva come
deterrente rispetto all’entrata di nuovi concorrenti; l’entrata di nuovi concorrenti, nel lungo periodo, può
compromettere i propri profitti. Le decisioni che l’impresa deve prendere su qualità e prezzo, non sono
banali, perché oltre a considerare la situazioni in termini statici, l’impresa dovrà studiare una serie di ipotesi,
su come i concorrenti, le altre imprese che vendono il prodotto per il mercato differenziato, per i quali c’è
sostituibilità, deve immaginare come quelle imprese reagiranno alle sue azioni. La vita di un’impresa, che
deve vivere in un ambiente, dove la qualità è importante, c’è un margine per catturare il proprio segmento di
mercato, riducendo la pressione dei concorrenti, è molto complessa. Ciononostante, qualsiasi imprenditore
ha l’obiettivo di sfuggire da una posizione di concorrenza perfetta. Se le caratteristiche sono così tanto
importanti per le imprese, sono la chiave per sfuggire dalla condanna della concorrenza perfetta, per
l’impresa è rilevante capire qual è la natura delle caratteristiche dei prodotti, rispetto alla possibilità degli
agenti di fare le proprie scelte, sulla base delle diverse caratteristiche dei beni. Primo aspetto da considerare
è: come prendono consapevolezza gli agenti economici della natura del bene, come capiscono qual è il
contenuto di qualità delle diverse varianti di un bene, presente sul mercato? Questo riguarda il modo in cui
un bene svela la propria natura, connotazione qualitativa; alcuni attributi sono determinabili, altri lo sono
meno oppure o non lo sono per niente. Nelson è stato il primo economista che si è occupato di ragionare in
tali termini, e di capire le implicazioni che derivano dalla natura diversa degli attributi qualitativi.
Ricostruzione del grado di visibilità delle caratteristiche, da parte degli agenti. Alcune caratteristiche non
sono conoscibili alle imprese; il consumatore non è sempre il consumatore finale, ma può essere un cliente
della filiera che acquista materie prime o semilavorato, potrebbe essere un’impresa che deve reclutare nuova
manodopera e non è in grado di conoscere da subito le qualità dei diversi candidati. Al punto zero della scala
di visibilità, le caratteristiche completamente invisibili, come il tipo di manodopera o contratto che è stato
fatto, oppure l’aver usato sostanze OGM nel processo produttivo di un certo bene. Altre caratteristiche,
come i nippoli su un golfino, sono determinabili con l’utilizzo del bene, dopo che l’acquisto è stato
effettuato. Altre caratteristiche ancora, invece, sono determinabili prima d’acquisire il bene,
immediatamente. Su alcuni attributi si può effettuare la propria scelta, su altri no, e non è detto che gli
attributi invisibili siano meno rilevanti di quelli visibili. In generale è vero che, tutti gli attributi qualitativi
che rientrano nella sfera della salubrità, tendono ad essere invisibili e sono di importanza cruciale. Le
caratteristiche immediatamente visibili, sono definite caratteristiche ricerca, perché anche nel caso di
caratteristiche immediatamente visibili, per le quali sembrerebbe che, la scelta dei consumatori avviene
facilmente senza problemi, in realtà c’è un costo di ricerca che, nei prodotti indifferenziati, non c’è.

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La scelta d’acquisto, anche nel caso delle caratteristiche ricerca, implica dei costi che nel mercato
perfettamente concorrenziale non esistono, e possono essere dei costi rilevanti. Nelle caratteristiche
esperienza, oltre al costo di ricerca, c’è anche il costo di acquisizione di informazioni. Visto che al momento
di effettuare l’acquisto, una parte rilevante dell’informazione manca, bisogna sostituire questa informazione
mancante, ricorrendo ad esperienze passate nostre o di altri, a consigli, ma resta tuttavia un margine
d’incertezza, rischiando di non acquistare ciò che veramente si sta cercando d’acquistare. Viceversa, nelle
caratteristiche fiducia, una sorta di atto di fede, ci si deve credere o no che quel bene ha quel tipo di
attributo. Per far si che, i consumatori effettuino le proprie scelte in mercati, dove la differenziazione è
rilevante, e riguarda caratteristiche per cui non c’è libera circolazione di informazioni, occorre generare
l’informazione, informare i consumatori e che questi la ritengano attendibile. Altrimenti, i mercati
funzionano male, possono fallire.
Questa schematizzazione mostra la complessità del processo che, nei consumatori, porta alle scelte
d’acquisto, quando i beni non sono omogenei, e l’informazione a disposizione dei consumatori, è parziale,
il grado di affidabilità dell’informazione non è sempre rilevante. Se rimuoviamo le ipotesi base del
comportamento dei consumatori in concorrenza perfetta, dove la scelta d’acquisto è una determinante
automatica della struttura delle preferenze dei consumatori, data e immodificabile nel tempo, e del vincolo
di bilancio. Questo agisce nella scelta dei consumatori. Se, invece, rimuoviamo questi aspetti
semplificatrici, la struttura delle preferenze dei consumatori dipende dal profilo socioeconomico di ciascun
consumatore, da una serie di parametri che ne determinano la tipologia di persona, come il reddito, il livello
d’istruzione, ecc.
Dal livello d’istruzione, ad esempio, dipende un senso di appartenenza a un gruppo sociale, una certa
struttura di preferenze, il bisogno di affermare un certo sistema valoriale, tramite le proprie azioni di
consumo, oppure dipende anche la capacità di decodificare, comprendere l’informazione sulla qualità dei
beni. I consumatori sono caratterizzati dalle abitudini d’acquisto, da una certa inerzia nei consumi;
spesso si consuma un qualcosa, già consumato in passato. Questo vale per i consumi alimentari, dove il
gusto, la struttura delle preferenze ha una componente innata, soggettiva, però possiede anche una
componente legata all’abitudine, molto forte. Abitudine che influenza la capacità di acquisire e comprendere
l’informazione rilevante, rispetto agli acquisti. Altro elemento importante nella formazione delle preferenze,
e del bagaglio conoscitivo sulla qualità dei beni, è l’informazione che circola sul mercato; informazione che
le imprese rilasciano sui beni, attraverso campagne informative, pubblicità, politiche di marchio, infinita
serie di segni di qualità. Akerlov, attraverso l’articolo “Il mercato dei bidoni”, ha mostrato come si giunge al
fallimento del mercato, costruendo un modello che riguarda un bene, dove la caratteristica qualitativa
rilevante è di tipo experience. Il mercato riguarda prodotti differenziati, i costi di produzione, come spesso
accade, sono funzione diretta della qualità, ossia produrre un bene di qualità superiore (differenziazione
verticale) costa di più, rispetto a quanto costa produrre un bene di qualità inferiore. Quindi, in mancanza di
informazioni aggiuntive sulla qualità del bene, i consumatori, osservando il prezzo di vendita del bene, si
fanno un’idea di quale sia il suo livello qualitativo. Prezzo utilizzato come indicatore di qualità. Questo è un
mercato con acquisti ripetuti nel tempo di quel bene. In questo mercato, i produttori producono beni di

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qualità differenziata, ma hanno un incentivo economico a produrre un bene di un certo livello qualitativo, e
venderlo a un prezzo maggiore, perché se lo vendono a un prezzo elevato, i consumatori fanno inferenza
sulla qualità, ritenendo che sia di un livello di qualità superiore e sono disposti a pagare quel prezzo. I
consumatori, inoltre, per i quali i prodotti delle diverse imprese sono indistinguibili, osservano i prezzi e si
fanno l’idea che, la qualità media presente sul mercato è un po’ testimoniata dal livello medio dei prezzi
osservato.
Quando hanno fatto le proprie scelte d’acquisto, al momento 1, i consumatori verificano con l’uso la qualità
effettiva del bene, che è più bassa. Le loro aspettative qualitative, quando riandranno sul mercato per
acquistare, saranno più basse, come la loro disponibilità a pagare. Le imprese, pertanto, per rimanere sul
mercato, devono diminuire il prezzo, non trovano nessuno disposto a pagare un prezzo più alto.
Paradossalmente, se anche ci fosse stato un produttore che offriva un prodotto di qualità elevata, a un suo
prezzo, nessuno sarebbe più disposto ad acquistare, perché le aspettative qualitative si sono abbassate e il
prodotto delle diverse imprese non è più distribuibile sul mercato. Tutti i produttori devono abbassare il
prezzo, e diminuendolo, dovranno abbassare anche la qualità, per continuare a guadagnare quel margine tra
costo di produzione e prezzo. Prende avvio un meccanismo perverso, di progressiva erosione della qualità
dei beni presenti sul mercato. Meccanismo che può essere così intenso, da far cessare l’esistenza del mercato
stesso, perché si può arrivare a un livello del prezzo, al quale i consumatori sono talmente scettici sulla
qualità del bene, che non più disposti ad acquistarlo. Questo risultato del fallimento del mercato, è la
conseguenza dell’asimmetria con la quale l’informazione sulla qualità del bene è distribuita tra gli agenti,
nel senso che l’informazione non è completa, è carente, e questa informazione è distribuita anche in un
modo asimmetrico, perché le imprese che gestiscono il processo produttivo e sanno quanto stanno
spendendo per produrre quel bene, utilizzano il margine di conoscenza in più che hanno per adottare un
comportamento scorretto (azzardo morale) ai danni dei consumatori. S’innesca un meccanismo di selezione
avversa, che è il concretizzarsi del proverbio “la mela marcia scaccia la mela buona”, perché un
imprenditore, seppur avesse voluto produrre un bene di elevata qualità, o un bene di qualità corrispondente
al prezzo che chiedeva, viene scacciato dal mercato, in quanto non trova nessuno disposto a pagare quella
qualità. Vengono danneggiati sia consumatori, sia produttori onesti che non riescono più a stare sul
mercato.

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Indice
1. La manodopera nel settore agricolo 1
2. Evoluzione storica del settore agricolo italiano dal Dopoguerra ad oggi 5
3. Aspetti strutturali dell’agricoltura italiana 10
4. Il marchio nel settore alimentare 16
5. Certificazioni e denominazioni d’origine 21
6. Certificazioni e denominazioni d’origine 25
7. Agricoltura, industria ed economia 29
8. Il ruolo dell’agricoltura all’interno dell’economia italiana 36
9. Differenze tra le denominazioni DOP e IGP 40
10. Teoria del commercio internazionale 43
11. Filiera agroalimentare 48
12. Evoluzione dell’agricoltura e dell’agribusiness 52
13. Creazione e adozione dell’innovazione nel settore agroalimentare 56
14. Filiera cerealicola 62
15. Piccole imprese del settore agroalimentare 66
16. Censimento generalo dell’agricoltura 69
17. La concorrenza nel settore agroalimentare 74
18. La concorrenza nel settore agroalimentare 78

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