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di Valerio Morelli
Appunti del corso di Economia del Settore Agroalimentare tenuto dalla Docente
Prof.ssa Anna Carbone presso l'Università della Tuscia
Sull’asse delle ordinate, di questo grafico, ci sono dati % sull’incidenza di agricoltori con meno di 40 anni.
La colonna blu riguarda l’agricoltura, quella gialla riguarda l’economia. Sull’asse delle ascisse, troviamo gli
occupati in agricoltura in tutte le figure professionali.
Nell’agricoltura italiana, con meno di 40 anni, abbiamo il 37/38%; negli altri settori dell’economia italiana,
l’incidenza è più elevata, poco sotto il 50%. In alcuni grandi paesi europei, nel complesso del sistema
economico, ci sono più giovani di quanti non ce ne siano in agricoltura. C’è una differenza generale nella
struttura demografica, tra un paese industrializzato e un paese meno ricco, con un’incidenza di
popolazione giovane più elevata nei paesi meno industrializzati, rispetto a quelli ricchi in cui c’è una
tendenza all’invecchiamento, perché s’allunga l’età media, si riducono i tassi di natalità. Dopodiché, c’è una
specificità che riguarda il settore agricolo, che è la senilizzazione del settore, ossia l’invecchiamento della
manodopera utilizzata nel settore agricolo, che dipende dalla selettività del processo dell’esodo agricolo,
avvenuto con l’avvento dell’industrializzazione del paese, quando si sviluppano gli altri settori
dell’economia, il settore industriale, dei servizi e c’è uno spostamento selettivo dei lavoratori dal settore
primario agli altri settori, che riguarda lavoratori più giovani, i quali hanno più facilità a riconvertirsi dal
punto di vista professionale, imparare a fare nuove cose, sono più facilitati nel spostarsi sul territorio dove
c’è domanda di lavoro. Pertanto, nel settore primario tendono a rimanere persone adulte, più grandi d’età.
Quindi, c’è un primo cambiamento della struttura demografica, che avviene in modo concentrato, in
particolar modo in Italia, con uno svuotamento della manodopera più giovane. Col passare del tempo, la
struttura demografica del settore resta squilibrata, perché giovani generazioni che s’affacciano al mondo
del lavoro, vanno in via preferenziale verso gli altri settori. Inoltre, si riducono progressivamente nel tempo i
giovani che entrano nel settore primario; una volta finito l’esodo vero e proprio, continua ad esserci un
assottigliamento delle fila di giovani che, quando terminano gli studi e devono entrare nel mondo del lavoro,
scelgono il settore primario, perché le occasioni d’occupazione sono minori, i redditi sono bassi, e quindi c’è
una selezione anche in entrata. In Italia, dagli anni ’50 agli anni ’80, c’è stato un allungamento dell’età
Questo grafico riporta l’incidenza dei lavoratori anziani, molto anziani come lavoratori, in un’età (65 anni)
in cui si va in pensione come lavoratori dipendenti. Le barre gialle, che riguardano l’intera economia, sono
basse, ci sono pochi lavoratori occupati nei paesi europei. Qui è la situazione è completamente diversa. Il
massimo è il 15% dei lavoratori agricoli in Portogallo. I lavoratori, sostanzialmente, sono pochi; ci sono
liberi professionisti, imprenditori, lavoratori autonomi. Mentre, in agricoltura, ce ne sono sempre di più, in
ogni paese. Si nota che, in alcuni paesi, c’è una presenza particolarmente forte, come Portogallo appunto,
Grecia, Italia, Danimarca. Un primo motivo per cui, in agricoltura, la manodopera tende a restare attiva,
anche molto in avanti negli anni, è lo stesso settore che, essendo una struttura d’impresa di tipo familiare, i
lavoratori tendono ad andare in pensione, smettono l’attività, oppure vanno in pensione ma la proseguono
nella loro impresa. In agricoltura c’è una specificità in più, che riguarda la commistione tra la vita
professionale e la vita delle persone; la vita nell’azienda agricola, spesso, è la vita delle persone, in azienda
c’è la residenza di queste persone. Qualora non ci fosse un familiare interessato a subentrare, in maniera
attiva, non avviene successione. Come si valuta questo fenomeno? Fenomeno che presenta dei chiaroscuri:
da una parte, se l’alternativa è l’abbandono totale dei terreni agricoli, è meglio che ci sia qualcuno, per
quanto anziano, che si preoccupi ancora del governo dei terreni; dall’altra parte, la permanenza degli anziani
in azienda tende a irrigidire ulteriormente il mercato fondiario già rigido, riducendo l’offerta di terreni. In
Francia hanno fatto un esperimento, operante già da diversi anni, che è una Banca dei Terreni, una banca
dati dei terreni disponibili o che lo saranno in un certo orizzonte temporale, terreni condotti da imprenditori
agricoli anziani, che non hanno una successione interna alla famiglia, e nel giro di un tot numero di anni,
non saranno più coltivati dall’imprenditore attuale. A fronte di questo, c’è una potenziale domanda di
terreni, un’altra banca dati, domanda e offerta di terreni; da una parte ci sono giovani imprenditori agricoli,
che magari hanno pochi terreni e vorrebbero ingrandirsi, oppure giovani aspiranti imprenditori agricoli. La
domanda di terreni è specificata, segmentata, a seconda dell’ubicazione dei terreni, o di dove gli aspiranti
vorrebbero avviare un’attività.
Banca dati che svolge una funzione di mediazione tra imprenditori agricoli, potenziali uscenti e potenziali
entranti, cerca di assortirli e di facilitare un’attività d’affiancamento nel tempo, ossia un’acquisizione di
Questo grafico è sempre una ripartizione per diverse classi d’età: sotto 44 anni, tra i 45 e 64 anni e sopra i
65; riguarda solo i conduttori aziendali, gli imprenditori agricoli. In questo caso, si mostra come la
situazione demografica, con riferimento ai conduttori aziendali, sia molto più esasperata, i lavoratori
salariati tendono ad essere più giovani degli imprenditori. La situazione dell’invecchiamento del lavoro
agricolo è dovuta proprio all’invecchiamento degli imprenditori stessi. Ulteriore fattore d’invecchiamento
della manodopera, abbastanza recente, che iniziò ad esercitare in Italia i suoi effetti negli anni ’80, è una
sorta di ritorno all’agricoltura.
C’è stato un processo di inversione dei saldi demografici dei lavoratori agricoli, per cui dai 60 anni in su,
ricominciavano ad esserci dei saldi attivi; questo perché, in quel periodo, c’erano pensionamenti anticipati
come età, persone che andavano presto in pensione da altre occupazioni, e invece di non far nulla,
iniziavano un’attività di agricoltori, o essendo di estrazione agricola come famiglia, ossia poteva essere un
ritorno all’agricoltura di persone che, da giovani, erano uscite dal settore primario, oppure persone che non
avevano mai fatto gli agricoltori, ad esempio smettono di lavorare, lasciano la città, vanno a vivere in
campagna e iniziano una loro attività produttiva. L’incidenza forte di agricoltori anziani ha,
tradizionalmente, delle conseguenze negative, perché i giovani sono meglio istruiti, più propensi al rischio,
hanno un orizzonte di vita maggiore davanti a loro, tendono ad essere imprenditori più dinamici. Alcuni
studiosi rappresentano questo fenomeno, raccontandolo come circolo virtuoso, dove nelle aziende più
grandi, meglio dotate, si tende a restare giovani, perché se si è figlio di agricoltore, che ha un’azienda con
buone prospettive di reddito, è probabile che si decida di rimanere attivi in agricoltura; a sua volta, la
presenza di giovane agricoltore darà un contributo positivo alla redditività dell’azienda, possibilità di
investire capitali, ecc. Nelle aziende minori, invece, che sono meno produttive, meno redditizie, c’è
maggiore probabilità di non avere un successore, di restare abbandonate. NUOVO ARGOMENTO.
Valutazione della misura di sostegno all’ingresso di giovani agricoltori, che l’UE ha incluso nell’ambito
della PAC. È una misura di tipo strutturale, che è un aiuto a fondo perduto, per giovani che intendono
iniziare un’attività in agricoltura, e per favorirne l’insediamento. È un tentativo di valutare se questa misura
è stata efficace o meno; la tesi che si sostiene è che, questa misura non poteva avere nessuna efficacia per
come era costruita, rilevandosi come iniqua. Non essendo riuscita a generare nuove imprese condotte da
giovani, è stata considerata come regalo di 30mila € a giovani che erano già insediati in aziende agricole,
oppure a giovani che non sarebbero mai stati imprenditori agricoli ma avevano un familiare coinvolto in tale
settore.
Era un’Italia dove la popolazione era, in grandissima parte, rurale, non urbanizzata, una popolazione che
estraeva il suo sostentamento dal settore primario, soprattutto dall’agricoltura; una popolazione largamente
sott’occupata che, nei contesti rurali, non riusciva ad impiegare la propria capacità lavorativa. Si trattava di
una popolazione non istruita, l’analfabetismo molto diffuso, una popolazione non alimentata
sufficientemente, mal nutrita sia in termini quantitativi, come livello aggregato di assunzione calorica, che in
termini di composizione della dieta. Un’Italia diversa, lontana, rispetto all’Italia che conosciamo oggi. Le
aziende agricole, nell’Italia a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono in
minima parte integrate nel mercato, definite come realtà ancora pre mercantili, realtà economiche di
autoconsumo; in quegli anni c’è il latifondo, la mezzadria, ci sono tante famiglie rurali che sono legate in
quanto famiglia alla terra che lavorano, specie al Sud, ma anche in Toscana e alcune aree dell’Italia
settentrionale come il Veneto. I rapporti sociali erano arcaici, quasi medievali, in termini economico –
sociali; la famiglia contadina era legata al fondo, se si nasceva figlio di contadini, si lavorava poi in
quell’azienda, non si era chiamati a fare individualmente una propria scelta. Con il latifondista c’era un
rapporto di tipo signorile, un rapporto che in alcuni casi non era molto distante dalle gerarchie sociali di tipo
medievale. Il fatto che le aziende agricole erano chiuse in se stesse, poiché realtà di autoconsumo, aveva dei
risvolti rilevanti non solo sul piano sociale, ma anche sul piano tecnologico e delle scelte produttive. In quel
periodo il mercato era perlopiù locale, i trasporti non erano sviluppati, s’avevano piccoli mercati marginali
locali dal punto di vista geografico.
La maggior parte della produzione serviva per il consumo familiare, per la sopravvivenza della famiglia, il
che significa che, il tipo di produzioni che venivano attivate dall’agricoltore, quello che in agricoltura si
chiama l’ordinamento produttivo, le aziende agricole sono aziende multi prodotto. Nel caso di aziende di
autoconsumo, l’esigenza di produrre tante cose è molto forte; l’azienda che produce per autoconsumo deve
attivare tutti i processi produttivi che danno luogo a tutti gli alimenti di cui la famiglia ha bisogno nel corso
dell’anno. È un’azienda dove le dimensioni dei singoli processi produttivi sono minuscole, perché devono
corrispondere al fabbisogno alimentare di un nucleo di persone che difficilmente supera le 15/20 unità.
Processi produttivi, quindi, molto frammentati, parcellizzati. Il vantaggio più importante di tutti
dell’esistenza del mercato è che il mercato attiva degli scambi, e gli scambi permettono la specializzazione,
consentono a ogni soggetto presente nel mercato di produrre solo la cosa per la quale è più produttivo, che
gli riesce meglio, perché i fattori della produzione di cui dispone sono più adatti a produrre una certa cosa, e
tutti gli altri beni di cui ha necessità per vivere li ottiene attraverso il meccanismo dello scambio. Quest’altri
Per quanto riguarda l’azienda agricola italiana del Dopoguerra, possiamo vedere come la necessità di
produrre tante cose per soddisfare i bisogni alimentari della famiglia, parcellizza i processi produttivi e fa si
che, presso qualsiasi zona italiana ci trovassimo, si producesse in quell’azienda un po’ di ogni cosa. In
Piemonte, ad esempio, si trovavano delle piccole limonaie, protette contro i muri, i vasi coi limoni l’inverno
venivano portati al chiuso, perché non c’erano mercati tali da far arrivare i limoni calabresi o siciliani anche
in Piemonte; allo stesso modo, un po’ di latte necessario per i figli dell’agricoltore, nelle zone collinari
interne dell’Italia meridionale, dove le condizioni ambientali non sono invocate per produrre latte in modo
efficiente, si ricavava dalla singola vacca nella stalla che serviva a produrre quel po’ di latte che altrimenti
non sarebbe stato disponibile.
Si parla, quindi, di aziende agricole estremamente despecializzate, con tanti processi produttivi, ognuno
attivato a livello infimi; queste aziende, chiuse dal lato degli sbocchi delle proprie produzioni, erano anche
chiuse dal lato dell’acquisizione dei fattori produttivi. Non vi erano mercati per i beni finali, nemmeno per i
fattori della produzione, la tecnologia che s’adottava nell’aziende era semplice, mezzi tecnici pochi e quasi
tutti autoprodotti, la semente era un po’ del raccolto dell’anno precedente trattenuto per attivare la semina
l’anno successivo, il concime era il letame dell’unica vacca che serviva per produrre latte e letame per
concimare i campi, la forza lavoro era familiare come manodopera, la forza meccanica che era bestiame e
attrezzi semplici prodotti in azienda o reperibili dal fabbro o falegname del paese.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, negli anni successivi, l’economia italiana all’inizio
lentamente, e a seguire a ritmi sempre più incalzanti, comincia a crescere moltissimo. Rapidamente vengono
costruite infrastrutture, soprattutto per via dell’intervento pubblico, s’iniziano a costruire tante strade,
potenziare le ferrovie, il sistema dei trasporti pubblici si potenzia molto, nascono le prime grandi industrie,
prima nel triangolo industriale Lombardia – Piemonte – Liguria, qualcosa al Sud quelle che saranno
chiamate cattedrali nel deserto. Le industrie sottraggono braccia all’agricoltura, una parte consistente dei
lavoratori agricoli si sposta dal settore primario all’industria, spostamento che riguarda inizialmente gli
uomini e non le donne, implica uno spostamento di popolazione dal Sud al Nord, dalle campagne alla città,
quindi il fenomeno di inurbamento è dilagante, e selettivo per genere ed età, perché i primi che vanno a
lavorare nella nascente industria sono maschi giovani, mentre nelle campagne rimangono soprattutto donne
anziane. In quegli anni, l’agricoltura è un settore definito come serbatoio di manodopera, proprio perché
non riusciva a dare impiego a tutte le persone che vivevano nei contesti rurali, intrappolate in agricoltura,
da l’assenza di alternative, nonostante il verificarsi delle grandi ondate emigratorie dell’Italia tra la fine
dell’800 e inizi 900, di italiani che non riuscivano ad essere occupati in agricoltura e non avevano reddito.
Italiani che si erano recati verso l’America latina, l’America del Nord. Nel ventennio fascista erano state
bloccate le emigrazioni, ma subito dopo la guerra ripartono verso la Germania, la Francia. In questo periodo,
L’apertura al mercato sul lato dei beni rende possibile la specializzazione dell’aziende che, producendo
per il mercato e iniziando ad esistere mercati più sviluppati, ci si può permettere di non produrre qualcosa,
definire produzioni per le quali le diverse aree sono più richiamate, diversi terreni sono più produttivi, la
cultura che si è stratificata nel tempo rende le persone più abili a produrre. Specializzazione che fa
aumentare la produttività del lavoro e della terra; produttività del lavoro aumenta perché da un lato c’è molta
manodopera che esce, produttività che è il rapporto tra il prodotto e il fattore produttivo, espressa in quantità
o in valore. Si parla di produttività globale quando al numeratore sono contabilizzati i fattori produttivi e si
può misurare solo in valore. La produttività parziale, invece, può essere espressa anche in quantità, come la
produttività del lavoro o della terra, definita come rapporto tra una certa quantità di prodotto ottenuto e il
numero delle ore di lavoro necessarie per ottenerlo. La produzione aumenta perché aumenta moltissimo la
produttività.
In particolar modo aumenta la produttività del lavoro e della terra, per via della meccanizzazione, dove i
mezzi meccanici sono sostituti del lavoro, e per via dell’utilizzazione massiccia di input chimici, sementi
geneticamente migliorati e selezionati, migliori rotazioni agronomiche inserite e processo di
specializzazione selettiva, per cui i terreni sono utilizzati per produrre ciò che sono più invocati a produrre.
Durante questo periodo, si riduce la quantità di lavoro utilizzata, perché ci sono milioni di lavoratori che
passano dal settore primario all’industria e servizi, ma erano lavoratori sott’occupati, il cui contributo
marginale era ridottissimo all’ottenimento della produzione, e si riduce anche la terra usata in agricoltura,
poiché i processi di industrializzazione e di urbanizzazione rubano terra all’agricoltura, perché utilizzano
terreno ed esprimono domanda di terra, cioè la terra di pianura più vicina alle infrastrutture, alla viabilità.
C’è competizione, che inizia in quegli anni e c’è tutt’oggi, tra l’agricoltura e gli altri settori nell’uso della
terra. Effetti competizione fondamentali in un paese come l’Italia, che è un paese strutturalmente povero di
terra e di terreni agricoli: carente di terra perché è un paese piccolo, densamente popolato, e povero di
terreni agricoli perché è un paese montuoso e collinare, dove una parte rilevante di questi terreni che sono
pochi non è soggetta ad essere coltivata, utilizzata in agricoltura o lo è parzialmente con livelli di
produttività ridotti. Nella competizione per l’uso della terra, i settori non agricoli come l’industria, servizi e
In quei tempi, le persone non attraversavano il confine e neppure i prodotti. Era stato un ventennio
autarchico. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e dell’integrazione europea, che sfocia nella costruzione
di un vero e proprio mercato unico, l’Italia s’integra in un sistema di scambi molto intenso, che è un dato
fondamentale per l’agricoltura. Il dato della scarsità dei terreni che caratterizza l’agricoltura italiana è un
dato importante da un punto di vista macroeconomico, dove crescita del reddito e boom demografico fanno
La mezzadria (share cropping) è quell’impresa dove gli imprenditori sono due: c’è un proprietario terriero
che nell’impresa mette la terra e una parte dei capitali fondiari, che servono ad acquisire il bestiame, la
stalla; il mezzadro concorre all’impresa col lavoro suo e della famiglia e coi mezzi tecnici. Il mezzadro non
è un lavoratore alle dipendenze del proprietario terriero, ma è a tutti gli effetti un imprenditore, ovvero
alcune scelte imprenditoriali sulla conduzione dell’impresa, le prendono di comune accordo, ed entrambi
s’accollano il rischio d’impresa. Ognuno riceve, alla fine del ciclo produttivo, una certa quota della
produzione, il che vuol dire che il mezzadro, non essendo semplice lavoratore, è una figura capace di
prendere decisioni, guardare al mercato se una parte della produzione va al mercato, farsi due conti, valutare
il rischio di diverse alternative. Poiché molte piccole imprese industriali della zona dei distretti
dell’industrializzazione diffusa, nascono come piccolissimi laboratori artigianali in capannoni, spazi presenti
nell’impresa agricola della famiglia, la capacità imprenditoriale presente in modo diffuso sul territorio, in
tali zone, è ricondotta alla diffusione della mezzadria. In agricoltura, la diffusione degli assorbimenti di
manodopera, da parte dei processi produttivi, sono molto disformi nel tempo, perché i processi produttivi
agricoli sono caratterizzati da momenti di punta dei lavori nei campi; questo vale meno nelle aziende di
indirizzo zootecnico, perché gli animali hanno la necessità di accudimento costanti nel tempo. I processi
produttivi di tipo culturale sono incostanti: c’è il momento del raccolto che richiede quantità di manodopera
enormi, ci sono momenti della potatura per quanto concerne le culture arboree, per quelle erbacee il
momento dell’aratura e della semina. Ci sono anche lunghi intervalli di tempo nei quali non c’è granché da
fare, e la manodopera familiare è lì che potrebbe lavorare e invece resta perlopiù inoccupata. Le famiglie
mezzadrili di quella zona cominciano a prendere i primi telai, si sviluppano queste imprese familiari che
sono attive in agricoltura e cominciano, anche, a svolgere qualche attività nei settori dell’industria
manifatturiera, nella ceramica, sfruttando figure di lavoratori che sono ai margini del mercato del lavoro,
come gli anziani e le donne che, al di fuori della famiglia, non troverebbero impiego.
Sono imprese competitive, perché utilizzano manodopera familiare in momenti in cui è disoccupata, e
s’accontenta anche di una remunerazione bassa perché ha un costo opportunità molto basso. In molte regioni
meridionali, la pluriattività prendeva la forma di una doppia attività che, avvolte, era una doppia attività
sempre del settore agricolo, l’agricoltore lavorava nella sua azienda, di dimensioni piccole; il problema della
frammentazione aziendale, in alcune regioni del Sud, come Campania, Calabria e anche in alcune aree del
Lazio, assume dei caratteri ancora più accentuati rispetto al dato medio nazionale.
Le dimensioni aziendali, quindi, erano tali da rendere necessario integrare il reddito derivante dall’azienda
con altre fonti, però non c’era uno sviluppo extra agricolo tale da offrire opportunità di lavoro in altri settori.
Gli agricoltori lavoravano come braccianti agricoli per altre aziende, spesso spostandosi per qualche mese
l’anno; avvolte questa pluriattività assumeva anche il carattere di una migrazione temporanea all’interno
dell’annata agraria. In altri casi, assumeva la forma di un’alternativa di lavoro precario e temporaneo nel
settore dell’edilizia.
Negli anni dell’industrializzazione, a ritmi forzati, l’agricoltura era considerata come una serie di
accezioni negative, perché l’agricoltura era il settore della povertà, della fame, dell’ignoranza, dei rapporti
sociali arcaici. Gli agricoltori si vergognavano di essere agricoltori, e i cittadini li consideravano come
villani, cafoni, ignoranti, affamati.
L’agricoltura era anche il luogo dell’arretratezza tecnologica. Con il passaggio dalla prima alla seconda
fase, il modo di guardare all’agricoltura è già cambiato, e non è un caso che, tra la fine degli anni ’70 e i
primi anni ’80, c’è il boom delle iscrizioni nelle facoltà di Agraria in Italia; all’agricoltura si ricomincia a
guardare con interesse, sbiadisce questa negatività, perché cambia la distanza culturale, geografica, la vita
nelle città diventa più difficile, congestionata, c’è l’inquinamento, rapporti sociali anonimi, disumani.
L’agricoltura non è più quel contesto di povertà ed arretratezza, inizia un cambiamento di prospettiva che si
fa più forte negli anni ’90 fino alla fase che viviamo oggi, in cui c’è una riscoperta del settore primario, si
esalta la campagna perché è un buon mondo antico che neanche si conosce bene, nascono le fattorie
didattiche in quanto ci si accorge che i bambini nati e vissuti nelle città, non hanno mai visto una gallina,
una pecora, il grano, una mela attaccata all’albero. C’è una grande rinascita d’interesse per il mondo
agricolo e rurale.
I marchi sono molto diffusi nella vita economica. Nel settore alimentare, sono diffusi marchi del produttore
e marchi del distributore. Il marchio è un segno di riconoscimento che identifica un prodotto o il suo
produttore/distributore, e può essere dato da un nome, un simbolo, può essere associato a immagini, suoni,
colori, elementi distintivi che permettono di distinguere il prodotto dai prodotti simili, consente
l’individuazione, nel tempo, di un bene sul mercato. Marchio che consente di sfuggire a quella situazione di
anonimato, vista all’origine del fallimento del mercato nel modello di Akerlov.
Se un prodotto non è più anonimo, è possibile conoscerlo, identificarlo sul mercato, anche nel corso del
tempo, quel bene o produttore possono costruirsi una reputazione sul mercato, far associare questo segno
distintivo, con l’idea che partner commerciali, clienti finali si fanno di quel bene. Il marchio è una sorta di
nome e cognome del prodotto sul mercato, consente a tutti i soggetti che devono entrare in contatto con
quel bene o produttore, di farsene un’idea. Il marchio diventa caratteristica del bene; due prodotti
potrebbero essere identici, in tutto e per tutto, e differenziarsi solo per il marchio. Il marchio ha un suo
valore aggiuntivo, una sua capacità distintiva in sé. Facilita la differenziazione sul mercato di un bene, aiuta
l’impresa ad affermare la sua reputazione, creare una fidelizzazione nel tempo di consumatori soddisfatti di
quella qualità, e ad assumere un maggior grado di controllo del mercato, il potere di mercato dell’impresa
aumenta, come conseguenza dell’aumentata differenziazione. Il marchio aiuta a far stringere un rapporto
più costante nel tempo, tra chi vende e chi compra, e permette all’impresa di ottenere un vantaggio, sia in
termini di costanza dei suoi sbocchi, che un premio di qualità sul prezzo.
L’impresa, che afferma la propria reputazione sul mercato, attraverso un segno distintivo, sta promettendo ai
consumatori di non imbrogliarli. Potrebbe, perché questi non conoscono la qualità del bene, ma non lo fa, e
quindi rinuncia a lucrare quella differenza tra il costo di produzione di una qualità più bassa e il prezzo che
chiede. La rinuncia a lucrare questa differenza, ha un valore commerciale che è il premio di prezzo. I
consumatori, che acquistano un prodotto di marca, nonostante che il prezzo sia più elevato rispetto a un
altro, stanno comprando il mancato imbroglio. L’impresa rinuncia ad approfittare dell’asimmetria
informativa che l’avvantaggia, rispetto ai consumatori che ne sanno di meno. Il marchio, quindi, segno di
qualità, è un elemento che le imprese utilizzano per costruirsi la reputazione.
Nella letteratura sociologica, si usa la terminologia market status, lo status di un’impresa sul mercato è la
sua reputazione. Il marchio funziona nel caso delle caratteristiche experience, mentre in quelle fiducia, il
marchio da solo non può operare, perché manca la prova all’atto del consumo; il consumatore non può, con
il suo ripetere un acquisto o meno, premiare l’impresa che ha mantenuto fede alla sua promessa di qualità,
perché la promessa di qualità per una caratteristica fiducia non è verificabile. La situazione degli acquisti
Per le caratteristiche fiducia, il marchio non funziona, soprattutto nelle imprese piccole. Perché le piccole
imprese non possono utilizzare i marchi, per farsi riconoscere sul mercato? Le piccole quantità non fanno
massa critica sufficiente, affinchè il prodotto sia reperibile sul mercato, per dare visibilità all’impresa. C’è
un problema dimensionale sui quantitativi, che giungono sul mercato. Far conoscere un marchio, è
un’attività molto costosa e i costi sono, in buona parte, di tipo fisso, creandosi una barriera all’entrata per le
piccole imprese. Non hanno scala produttiva sufficiente per utilizzare questi strumenti. E i marchi non
rappresentano una soluzione che vada bene in tutti i frangenti. Altra forma di rimedio diffusa, è la
conoscenza diretta. I consumatori finali e gli operatori lungo le filiere, stabiliscono delle forme
consuetudinarie nei loro comportamenti d’acquisto, in risposta all’esigenza di avere maggiori informazioni
sulla qualità del bene, e di poter premiare o punire chi non si mantiene leale rispetto alla promessa di qualità
che ha fatto. Gli elementi consuetudinari di conoscenza diretta, funzionano bene nei casi di beni ripetuti con
frequenza. Si diffondono le filiere corte, e le forme di relazione più diretta possibile tra consumatore e
produttore; sono un modo per raggirare il problema del marchio, la difficoltà d’accesso da parte dei
produttori, per ridurre la scala operativa delle imprese, renderle meno piccole rispetto al mercato di
riferimento.
Se un’impresa vuole interagire direttamente con un gruppo di consumatori, segmenta il mercato al quale si
rivolge, il suo target, di conseguenza le sue dimensioni saranno meno piccole. La conoscenza diretta
I marchi collettivi rappresentano una soluzione analoga a quella del marchio d’impresa, nel caso in cui le
dimensioni delle imprese non consentano a queste di far affermare un proprio marchio individuale sul
mercato. Il marchio collettivo individua il prodotto, non solo di un’impresa, ma di un gruppo di imprese.
Esempi di marchi collettivi sono, ad esempio, Melinda e Marlene.
Il marchio Melinda, tuttavia, non è più collettivo, perché è diventato una denominazione d’origine, ma è
nato ed è stato marchio collettivo di successo per molti anni. Melinda identificò, per vent’anni, le mele di
un gruppo di produttori, concentrati in una zona di produzione, il Trentino; questi vendevano le proprie mele
tramite questo bollino, che le identificava e le distingueva dalle altre. Marlene, invece, arriva dopo, nasce
sulla scia imitativa di Melinda.
Altro esempio di marchio collettivo era la pura lana vergine, un marchio che non è più diffuso sul
mercato. Fu adoperato per parecchio tempo, era utilizzato da tante imprese, si riferiva alla materia prima,
con cui erano fatti i capi del settore tessile, e comunicava ai consumatori la natura della materia prima di
quei capi.
Altro marchio è Qualità Tuscia. Logo che richiama una simbologia etrusca, che vuole creare un aggancio
col territorio della Tuscia. Marchio che riguarda prodotti merceologici diversi, prodotti alimentari,
artigianali, del territorio, servizi come ristoranti e agriturismi. Riferimento ampio alla qualità, che comunica
il nome, legata al territorio. Ultimo esempio è il commercio equo solidale, che riguarda prodotti di
provenienze geografiche differenti, prodotti di paesi poveri in via di sviluppo, non solo alimentari, anche
artigianato, cuoio, e il minimo comune denominatore sono le condizioni a cui avvengono gli scambi lungo la
Il marchio collettivo crea la premessa per una reputazione comune alle imprese, condividono una
reputazione unica che, tanto più è unica, tanto meno sono presenti altri elementi distintivi, oltre al marchio
collettivo. La creazione di questa reputazione comune, dipende dall’esperienza che si fa del bene col
marchio collettivo. Se si ha un marchio collettivo, nel quale c’è una certa visibilità del singolo produttore,
in tal caso s’inizierà ad utilizzare anche l’informazione del marchio individuale. La reputazione associata al
marchio collettivo, consiste in una media ponderata delle diverse esperienze di qualità che si fanno con i
diversi prodotti, all’interno di quel nome comune. Tutte le imprese che stanno sotto il marchio collettivo,
influenza la reputazione del segno stesso. Se ci sono imprese di diverse dimensioni, all’interno del marchio
collettivo, chi produce di più, chi arriva con quantitativi superiori sul mercato, avrà la capacità di
influenzare di più l’idea che di quel marchio si fanno i consumatori. La differenza fondamentale tra
marchio individuale e collettivo è che, nel primo c’è una promessa di qualità e una strategia di
comportamento d’impresa, benefici o controindicazioni di un uso corretto o scorretto del marchio, ricadono
su un unico soggetto; nel secondo, non è così, perché la comunicazione è una ed è tanto più unica, tanto più
il marchio collettivo è l’unico o più forte elemento di riconoscimento dei prodotti sul mercato, ma le
imprese mantengono un’autonomia decisionale sulla qualità, sulle decisioni del livello del prezzo a cui
vendere il prodotto, mentre c’è questo vincolo fortissimo in termini di reputazione. Il free rider è
quell’agente economico che adotta un comportamento opportunistico, beneficiando a suo vantaggio
esclusivo di una situazione determinata da altri, in questo caso la buona reputazione del marchio collettivo
che l’impresa contribuisce a costruire, sostenendone i costi, mentre il free rider se ne approfitta. Tutte le
volte che le imprese decidono di mettersi insieme ad altre imprese per fare un marchio collettivo, devono
partire dalla consapevolezza del rischio della convenienza che si viene a creare di adottare questi
comportamenti. Il marchio collettivo, creando elemento comune nella reputazione delle imprese, intensifica
la competizione tra le imprese, perché genera una segmentazione tra prodotti del marchio collettivo e gli
altri, aumentandone la competizione interna.
Affinchè un marchio collettivo sia efficace, come strumento di comunicazione, sia dal punto di vista dei
consumatori, che devono utilizzare quell’informazione e hanno bisogno che questa sia credibile, sia dal
anto più le imprese che decidono di mettersi sotto un stesso marchio collettivo, sono eterogenee da un
punto di vista strutturale e funzionale, tanto più è difficile che trovino un accordo soddisfacente per tutte,
perché se le imprese sono diverse da un punto di vista dimensionale, tanto più i processi produttivi che
seguono saranno differenti, stessa cosa per i costi di produzione. Capita, spesso, che imprese di differente
dimensione, quando devono operare, non trovino accordi oppure trovano accordi generici, come disciplinari
di produzione, e la promessa di qualità che si porta dietro il marchio collettivo, si sostanzia in prodotti
diversi. Inoltre, un sistema di regole così vago, lascia spazio per situazioni di conflittualità, ossia ci si mette
insieme, si fa il marchio collettivo, poi non si è d’accordo su nulla, situazioni dove le imprese più grandi
tendono ad averla vinta, perché godono di un maggiore potere contrattuale.
Le imprese minori, invece, avrebbero più bisogno del marchio collettivo, perché hanno minore visibilità
sul mercato, più problemi d’accesso alla domanda, ecc. Quindi, le condizioni di funzionamento di un
marchio collettivo, devono essere verificate attentamente, al momento in cui si decide di formare il
marchio collettivo e di lanciarlo sul mercato.
Abbiamo i prodotti di agricoltura biologica, che si basano su un regolamento UE, un primo regolamento
dell’91 che ha sostituito corpi legislativi nazionali, uniformando il sistema delle norme, rispettando le quali i
produttori hanno titolo di immettere il proprio prodotto sul mercato, come prodotto di agricoltura biologica
, ed è stato recentemente sostituito con il regolamento 834 del 2007. Altro esempio è la responsabilità
sociale dell’impresa nei confronti dei lavoratori, SA 8000, che si concentra su vari aspetti, legati alle
condizioni di lavoro nelle imprese. Esempio interessante è l’agricoltura a lotta integrata, dove c’è un
abbattimento nell’uso di sostanze chimiche di sintesi, ma non la totale eliminazione come l’agricoltura
biologica. Questa certificazione introduce l’importanza della ridondanza di sistemi di certificazione, che
dicono ai consumatori cose non identiche, ma molto simili, mandando messaggi difficili da distinguere, che
non sono decodificabili e creano un rumore di fondo, che rende difficile capire qual è l’informazione più
importante, tra la gran massa dell’informazione che è presente sui mercati, veicolata ai consumatori. Questa
certificazione dei prodotti a lotta integrata, fu pensata dal legislatore europeo come modo per far avvicinare
gli agricoltori a tecniche produttive a minore impatto ambientale. Mentre il regolamento sulle produzioni
biologiche, il disciplinare produttivo che sta dietro al regolamento, è uguale in tutti i territori, per tutti i
produttori europei e si declina secondo le produzioni, così non è per i prodotti a lotta integrata, perché
esistono dei disciplinari a livello regionale, a seconda di come sono divise le regioni, nei diversi paesi
europei, il disciplinare cambia, e l’intensità ammessa nell’uso di alcune categorie di sostanze, può essere
molto differente. Questo tipo di certificazione è troppo sovrapposta con quella dei prodotti di agricoltura
biologica, generando un danno che si riflette anche sulle altre forme di comunicazione. Tra le caratteristiche
delle certificazioni, c’è la possibilità che ci sia un regolamento emanato da un’autorità pubblica, ma non
sempre è così; invece, è sempre vero che è accessibile una certificazione, a tutti coloro che decidano di
Sono rilevanti per i prodotti agroalimentari, interessanti di per sé e mostrano molte delle insidie presenti nel
funzionamento di segni di qualità complessi. Le denominazioni d’origine sono dei segni di qualità,
complessi nella loro stessa concezione, perché sono sia marchi collettivi che certificazioni. Esse esistono da
quasi cent’anni, in Europa, ma fino all’92 ogni paese europeo aveva la propria legislazione nazionale.
Regolamento che fu sostituito, nel 2006, da un regolamento più aggiornato. Questo regolamento sulle
denominazioni d’origine, vale per tutti i prodotti agroalimentari, esclusi i vini. Per i vini, le legislazioni
nazionali sono rimaste valide, a causa dell’opposizione della Francia, che rinunciò al proprio schema
nazionale, perché i francesi hanno una tradizione molto forte, sono i produttori più forti a livello mondiale
dei vini, e la Francia fu il primo paese ad adottare uno schema di certificazione dell’origine dei vini. Che
senso aveva, uniformare la legislazione dei diversi paesi? Ci sono due grandi obiettivi.
Semplificare l’informazione che arriva ai consumatori, e porre i produttori delle diverse aree in condizioni di
concorrenza uniforme, perché se in un paese c’è una legislazione più restrittiva, rispetto a un altro, i
produttori di quel paese dove la legislazione è più restrittiva, si trovano svantaggiati quando competono con
produttori di altri paesi. Le varie sigle evidenziano la complessità della comunicazione verso i consumatori,
relativa all’unico aspetto della qualità agroalimentare che è l’origine geografica dei prodotti; a livello
europeo, per i prodotti diversi da vini, ci sono le sigle DOP (denominazione di origine protetta) e IGP
(indicazione geografica protetta), le attestazioni di specificità o specialità tradizionali garantite. Per i vini, a
livello nazionale, ci sono DOC, IGT. Perché le denominazioni d’origine, in generale, hanno questa doppia
natura, di marchi collettivi e certificazioni? Sono certificazioni, perché, come i prodotti di agricoltura
biologica, hanno un regolamento che definisce alcuni elementi che devono essere, obbligatoriamente,
presenti nel processo produttivo e, obbligatoriamente, questi elementi devono essere certificati da organismi
terzi accreditati dal soggetto pubblico. Diversamente dalla certificazione dell’agricoltura biologica, le
Per quanto riguarda l’Italia, l’Istat è la fonte più interessante, perché è estremamente disaggregata, presenta
flussi commerciali molto disaggregati a livello di prodotto, ma ha il limite fondamentale che contiene solo l’
Italia come paese dichiarante, di origine o destinazione dei flussi, possiede l’esportazione italiana verso
tutti i paesi e le importazioni italiane da tutti i paesi, ma nulla ci dice ad esempio su quanto la Francia
esporta, per quanto riguarda i vini, nei paesi dove anche l’Italia esporta. Se alcuni dati non sono reperibili
sull’Istat, sarà necessario ricorrere a banche dati come l’Eurostat e la FAO, che hanno l’intero quadro del
commercio internazionale; c’è anche quella delle Nazioni Unite, che hanno una banca dati online libera
molto dettagliata chiamata Contred.
Utilizzo degli indicatori. Il saldo commerciale di un paese con l’estero (S = X – M) è la differenza tra le
esportazioni e le importazioni; la somma di importazioni ed esportazioni si chiama volume di
commercio (V = X + M); il rapporto tra il saldo commerciale e il volume di commercio è il saldo
normalizzato (SN = S/V 100).
Si tratta di una misura relativa della posizione commerciale di un paese col resto del mondo. Perché
relativa? Mentre il saldo commerciale ha un valore che dipende dall’unità di misura che sto utilizzando (si
esprime in $, €, ecc.), il saldo normalizzato, rapportando due valori (es. $/$), è una misura relativa, si può
esprimere in % ed è più utile del saldo commerciale per fare confronti, sia quando l’unità di misura è diversa
con cui si misurano le posizioni commerciali di due paesi, che nella posizione commerciale quando gli
aggregati hanno ordini di grandezza differenti. Se si confronta la posizione commerciale della Repubblica
Dominicana con quella degli USA, emerge un problema di scala che rende difficile poter capire la posizione
commerciale dei due paesi, se è migliore l’uno rispetto all’altro. Usando il SN, è possibile confrontare paesi
grandi, piccoli, dati passati con quelli attuali, il comparto dello zafferano col grano.
Un altro di quei processi che prende avvio negli anni ‘70/’80 è l’integrazione forte dell’agricoltura nel
cosiddetto agribusiness. In quel periodo le singole filiere di produzione sono composite, lunghe, fatte di
tanti soggetti che intervengono, filiere che oggi definiamo opache, poco trasparenti, molto complesse. I
percorsi che intraprendono le materie prime, i semilavorati, fino ad arrivare al prodotto finito, sono tortuosi e
poco efficienti, perché quando tanti operatori e intermediari commerciali intervengono nella formazione di
un prodotto, ognuno trattiene un pezzettino di valore aggiunto, e il prodotto finito ha un prezzo più elevato
di quello che potrebbe avere se, a parità di tutte le altre condizioni, ci fosse quella che si chiama una
razionalizzazione del processo della filiera. Questo processo d’integrazione dell’agricoltura, nell’
agribusiness, sia a causa della grande frammentazione delle imprese agricole e del settore manifatturiero
alimentare, che a causa dello scarso sviluppo della cooperazione, è un po’ incompleto e non sofisticato.
È un’integrazione che non si sviluppa secondo i canoni di modernità che assume in altri paesi, come Francia
e Olanda; negli altri paesi europei, invece, l’integrazione dell’agricoltura nell’agribusiness è stata
governata, dominata dall’industria, il principale cliente dell’agricoltura che, in quel periodo, produce sempre
più materie prime agricole, sempre meno beni per il consumo finale. Industria che ha dimensioni sufficienti
e capacità organizzative, competenze tecniche sul fronte dell’innovazione, e diventa un cliente che con
l’agricoltore stabilisce rapporti stabili nel tempo, con contratti pluriennali di fornitura, impartisce direttive,
esprime una domanda relativa alle caratteristiche del prodotto finito ma anche del processo produttivo,
puntuali e determinate, perché la materia prima agricola che deve essere lavorata dall’industria, è una
materia prima che deve avere caratteristiche specifiche: pezzatura dei prodotti, grado di maturazione,
consistenza del prodotto, tempi di consegna, garanzia di fornire almeno certi quantitativi, sono aspetti
fondamentali per l’industria.
Negli altri paesi europei, agricoltura e industria di trasformazione si connettono stabilmente e sulla base di
contratti che esplicitano dettagliatamente le condizioni che prodotti e processi devono rispecchiare. Ciò da
garanzia di sbocco dell’agricoltura, imbriglia l’agricoltore in un’attività all’interno della quale l’agricoltore
ha meno margini di manovra per operare, non è un imprenditore che genera un prodotto finito e cerca di
venderlo sul mercato perché l’ha prodotto al suo meglio, ma l’ha prodotto secondo quanto la sua capacità
imprenditoriale gli diceva che in quel momento era meglio fare. Industria definita anche agricoltura
industrializzata, ossia diventa un pezzettino di un processo più complesso e deterministico, come avviene
in una catena di montaggio nell’industria. Entrano certe componenti con certe caratteristiche, trasformate in
modo preordinati e pre certificati, e quello che esce si sa già ciò che sarà. Quelli sono gli anni dell’
Industrializzazione dell’agricoltura
Il termine di multifunzionalità dell’agricoltura nasce da tale cambiamento d’ottica con cui si guarda al
settore primario, si chiedono tante cose nuove esplicitamente all’agricoltore, laddove all’alba del processo di
industrializzazione dell’agricoltura, il settore svolgeva implicitamente alcune funzioni. Assieme a tante
virtù o conseguenze positive che il processo di mercantilizzazione dell’agricoltura ha comportato, ci sono
state distorsioni generate e che si tenta di recuperare tramite l’intervento regolatore del soggetto pubblico.
C’è una riscoperta di quello che l’agricoltura può dare in termini di qualità della vita, attraverso servizi
ricreativi, come l’agriturismo, attività connesse al tempo libero, attività sportive oppure servizi di natura
sociale, attività d’inserimento lavorativo che avviene in alcune aziende agricole di soggetti svantaggiati a
vario titolo per problemi di salute o disagio sociale, l’inserimento in attività di anziani, fattorie didattiche e
funzioni di conservazione di elementi della cultura tradizionale dei luoghi. Elementi fondamentali in un
paese come l’Italia, che offre una varietà straordinaria di ambienti fisici, culturali, storici, le diverse
tradizioni contadine e gastronomiche. L’agricoltura è vista come guardiana del paesaggio, custode della
biodiversità, funzioni delle quali non si parlava fino a un decennio fa e attualmente sono sotto gli occhi dei
cittadini, consumatori e amministratori; ciò ha cambiato e sta continuando a cambiare il ruolo affidato
all’agricoltura, le funzioni che le aziende agricole possono svolgere e dalla quali possono trarre fonti di
reddito. Un elemento forte di generalità, riguardo a questa parte introduttiva storica, è il declino dell’
agricoltura che accompagna lo sviluppo economico. Questo accade sempre, in qualsiasi paese. Se c’è
crescita economica, pensando a un fenomeno di lungo periodo, c’è declino dell’agricoltura. Se si pensa ad
un’economia, al suo momento, zero, andando indietro di un paio di secoli, si trova un’economia
sostanzialmente agricola, quelle economie dove c’è poca crescita economica e c’è poco altro oltre
all’agricoltura. Il momento del decollo della crescita economica è un momento in cui, le risorse presenti in
L’ultima riga esprime la ragione di scambio, ossia il rapporto tra i prezzi agricoli e l’indice dei prezzi
generale dell’economia. Tale rapporto era superiore a 100 alla prima scadenza temporale, i prezzi agricoli
era più elevati anche di un’entità non irrilevante dei prezzi non agricoli. La ragione di scambio si è erosa:
prezzi scesi a 89 nell’67 e si sono appena ridotti nel 2002. Il -20 nel 1992 indica che si sta riducendo la
ragione di scambio a un ritmo molto rilevante.
Il 1992 fu il primo anno dell’applicazione della riforma McSharry della PAC, il primo momento in cui si è
applicato uno schema d’aiuto all’agricoltura che non passava per il sostegno dei prezzi, bensì per uno
sostegno accordato all’agricoltore, e questo ci dice due cose: la ragione di scambio agricola stava
peggiorando fortemente, anche in anni in cui i prezzi agricoli erano sostenuti. Il sostegno della PAC è stato
un argine al deterioramento della ragione di scambio, ma non è riuscita né a bloccarla, né a invertire la
tendenza. Ci dice anche che, l’inizio dello smantellamento di quel sistema di sostegno ha avuto degli effetti
in termini di prezzo, poiché quell’argine iniziava a venir meno. Seconda tab. con meno indicatori, che fa dei
confronti per alcuni paesi europei. Paesi che hanno medio – alto reddito, in cui si nota una diversificazione
di situazioni; paesi ordinati in ordine decrescente di PIL pro capite: primo è il Regno Unito che nel triennio
2005-2007 aveva il PIL pro capite più alto (40mila € di reddito pro capite), rispetti ai cinque membri
dell’UE. A seguire gli altri paesi con i 37mila della Francia, 36mila della Germania, 32 mila dell’Italia e
28mila della Spagna. L’ordinamento di questi paesi, in termini di PIL pro capite, corrisponde all’ordine
temporale in cui si sono industrializzati tali paesi. Quello che vogliamo vedere è la relazione tra il PIL pro
Ci sono tanti fattori da cui dipende quanto consumiamo che cosa: primo fra tutti, il prezzo del bene è tanto
importante che, nell’analisi classica della domanda, si mette in rapporto la quantità domandata col prezzo
del bene; si disegna il consumo in uno spazio cartesiano, dove la variabile che esplicitamente compare è il
prezzo. Altro fattore è il gusto delle persone, oppure le aspettative delle persone, l’idea che si sono fatti di
come andranno le variabili economiche nel futuro. Parametro fondamentale è il reddito di cui disponiamo.
La domanda espressa dai consumatori, di acquisto di beni per consumarli, varia al variare del reddito ma
diversamente per alcune categorie di beni. Ci sono i beni di lusso, per i quali la domanda aumenta più che
proporzionalmente al crescere del reddito. All’altro estremo, come comportamento opposto, troviamo i beni
inferiori, quei beni dove il consumo si riduce al crescere del reddito, beni consumati di tanto in tanto poiché
non si ha sufficiente disponibilità per fare una cosa che preferiremmo.
C’è il vincolo di bilancio che agisce in maniera strettamente vincolante in quel caso. Un esempio potrebbe
essere i biglietti dell’autobus; si prende l’autobus perché non ci piace guidare o non vogliamo inquinare
La tabella raccoglie dati per comparti, i prodotti riportati sono i principali: formaggi, salumi, ortofrutta e olio
d’oliva. La prima colonna indica il fatturato alla produzione, in valore assoluto, dell’intero comparto, dei
formaggi prodotti in Italia; la seconda colonna evidenzia il dato di quale porzione del fatturato dei formaggi,
è da iscriversi ai formaggi DOP. Terza e quarta colonna sono delle quote, calcolate sulla base delle prime
due colonne. Il primo valore della terza colonna, riporta la quota del segmento DOP sul comparto, è % di
riga (es. 18.7% è il risultato del rapporto tra 2.460 e 13.135). L’ultima colonna è la quota calcolata sulla
colonna, cioè mostra che 2.460 sono i 2/3 dell’intero valore del fatturato di tutti i prodotti DOP, qualunque
sia il comparto. Nel complesso, formaggi e salumi sono i prodotti più considerevoli.
Il fatto che esistano tante denominazioni, che poi non hanno una loro realtà di mercato, è rischioso per
l’affidabilità stessa della denominazione. Se una denominazione funziona male, il danno si genera, non solo
con riferimento ai produttori o potenziali produttori di quella denominazione e ai consumatori interessati a
quel prodotto, ma si crea un’esternalità più ampia, perché una denominazione che funziona in modo
scorretto, danneggia agli occhi dei consumatori interessati la credibilità del sistema delle denominazioni.
Una denominazione d’origine, come qualsiasi strumento di valorizzazione commerciale di un prodotto o
marchio, è un pezzo di una strategia complessiva di marketing. C’è necessità di considerare diversi aspetti:
bisogna capire se la qualità che si certifica, è quella che i consumatori vogliono; se si sta mirando a un target
di consumatori, al quale si riesce ad arrivare; se c’è coerenza tra un target di consumatori e il paniere di
I mercati che guardiamo sono chiusi, vediamo come s’analizza l’apertura al commercio in termini di analisi
standard dell’equilibrio di mercato; cosa succede a un paese quando si apre al commercio internazionale:
succede che si specializza, ci sono vantaggi di efficienza economica. Si osserva quel lato della storia, tramite
il concetto di vantaggio comparato, il cardine di questa impostazione ideologica, e cerchiamo di allargare lo
sguardo ad altre determinanti del commercio tra paesi. L’analisi grafica si basa sull’utilizzo dei grafici a
spalla, come se ci fosse un specchio sull’asse delle y. I due mercati, nella rappresentazione grafica, hanno in
comune la retta del prezzo (P).
Il P si misura su entrambi i mercati, sullo stesso asse. Le quantità (Q) sono misurate a specchio. Nel mercato
italiano (paese), la rappresentazione è quella tipo: le Q crescono, andando da sinistra verso destra. Nell’altro
caso (mondo), è il contrario: origine a destra e le Q crescono, andando verso sinistra. Sul mercato interno del
paese che consideriamo (es. Italia), domanda e offerta sono rappresentate nel modo usuale, nell’ipotesi che il
paese sia chiuso agli scambi internazionali. Immaginando che, nel mezzo ci sia una barriera commerciale
insormontabile, delle tasse proibitive o una norma che chiude in autarchia il paese, il mercato
internazionale non comunica col mercato interno. In questo caso, l’offerta è crescente nel prezzo,
rappresentata a specchio, e la domanda è decrescente. Sul mercato internazionale, il P d’equilibrio è dato
dalla coincidenza tra domanda e offerta, indicato con Pw. Mentre, Pi è dato dall’equilibrio interno tra
domanda e offerta. Date le condizioni diverse sui diversi mercati, i prezzi d’equilibrio sono differenti; ad
esempio, il prezzo interno italiano è più alto. Se rimuoviamo la barriera che isola il mercato italiano da
quello mondiale, e lasciamo che avvengano degli scambi, se ci sono operatori interessati a scambiare, cosa
accade? Consumatori italiani preferiscono il prodotto estero, che costa di meno, rispetto all’interno. Siccome
il prodotto che viene dall’estero è più economico, una parte dei consumatori si rivolgerà al mercato
internazionale. Il prezzo interno, quindi, non sarà più piccolo, ma scenderà fino a incontrare Pw,
nell’ipotesi in cui, il paese che si apre al commercio, è di dimensioni piccole, rispetto al mercato
internazionale. La domanda aggiuntiva che si scarica sul mercato internazionale, non è così tanto
consistente da far crescere Pw. Se il paese è grande, anche Pw salirebbe un po’, perché la domanda
internazionale, a cui s’aggiunge quella del paese che entra negli scambi, salirebbe di un significativo. Il
mercato interno s’assesta su un equilibrio di Pw, e cosa succede quando nel mercato interno vige Pw e non
Pi? I consumatori comprano di più, il prezzo è minore di prima, e lungo la loro funzione di domanda, al
prezzo Pw c’è la scelta di comprare questa quantità (vedi linea rossa). Il consumo dentro il mercato del
paese si espande; i produttori interni, poiché il prezzo sul mercato è più basso di prima, offrono di meno
(vedi linea verde).
Cosa succede al benessere dei produttori e dei consumatori, al loro surplus? Dal lato dei consumatori,
I vantaggi degli scambi, in questa visione del commercio internazionale, derivano dalla specializzazione;
concettualmente, non succede niente di diverso, rispetto a quando guardiamo degli scambi che s’instaurano
tra persone. Fino a un certo punto gli economisti, che studiavano il fenomeno del commercio tra paesi,
credevano che i paesi commerciassero sulla base di un meccanismo molto semplice, come l’esempio di
Italia – Costarica, ossia un paese è più efficiente nella produzione di un bene rispetto a un altro; l’altro è più
efficiente nella produzione di un altro bene, e si specializzano ognuno a produrre beni di cui è più efficiente
e poi scambiano. Questa semplice condizione si chiama vantaggio assoluto: nel nostro esempio, l’Italia ha
un vantaggio assoluto nella produzione di vino, il Costarica ha vantaggio assoluto nella produzione di caffè.
Ad un certo punto, gli economisti si sono accorti che, frequentemente, i paesi commerciano tra di loro anche
in assenza di vantaggi assoluti. In molti casi, non sempre, si sono accorti che, c’è un’altra molla per il
commercio, riassunta nel concetto di vantaggio comparato. Per cui, due paesi scambiano convenientemente
tra di loro, anche se uno dei due è più efficiente in tutte le produzioni, rispetto all’altro, basta che quello
meno efficiente, per tutte le produzioni, abbia un vantaggio di tipo relativo nel produrre un bene piuttosto
che un altro. Immaginiamo due paesi, A e B, due beni, grano e tessuto; immaginiamo che, per produrre
questi due beni, occorra solo lavoro come fattore produttivo. Nel paese A, per produrre tessuto, servono 3
In termini relativi, quindi, produrre tessuto è molto più conveniente in A, rispetto a B. A ha un vantaggio
comparato, in senso di relativo, nel produrre tessuto rispetto a grano, rispetto a quanto avviene in B. Mentre
in A, il rapporto di scambio (unità di un prodotto al quale devo rinunciare, se voglio aumentare la
produzione dell’altro) tra grano e tessuto è 4, e in B è uguale a 2, se in A voglio aumentare la produzione di
una unità di grano, devo rinunciare a ben 4 unità di tessuto, e il rapporto di scambio è pari a 1:4. In B il
rapporto di scambio è 1:2. Rapporto di scambio che viene spesso chiamato Ragione di Scambio; 1:4 e
1:2 sono le due ragioni di scambio interne a ciascun paese. Se il paese non scambia con l’esterno, ha un suo
set infinito di risorse, se vuole produrre più di una cosa, deve rinunciare all’altra in funzione dei fabbisogni
di input di ciascuno dei due processi. Ora supponiamo di far scambiare merci a questi due paesi, di fargli
fare una semplice economia di baratto, scambiano grano contro tessuto ad una ragione di scambio
intermedia fra le due interne dei paesi, ad esempio 1:3. Cosa succede? A esporta 3 unità di tessuto, le vende
a B che, in cambio, gli da un’unità di grano. Per produrre 3 unità di tessuto, impiega 9 unità di lavoro. Il
grano non gli serve più perché lo importa, e si liberano 12 unità di lavoro. Gli avanzano 3 unità di lavoro
rispetto a prima. B deve produrre un’unità di grano e gli occorrono 4 ore di lavoro. Il tessuto non lo produce
più perché lo importa (prima per produrre 3 unità di tessuto, a 2 ore di lavoro l’una, impiegava 6 unità di
lavoro), e gli avanzano 2 unità di lavoro. A e B stanno meglio. Entrambi i paesi riescono a consumare quello
che consumavano prima, utilizzando meno risorse, avanzano delle ore di lavoro. Questo concetto di
vantaggio comparato ci aiuta a capire perché i paesi commerciano tra di loro convenientemente, traendone
ognuno un vantaggio, anche nel caso in cui un paese sia, in termini assoluti, più efficiente nella produzione
di tutti i beni. Alcune condizioni del processo produttivo non sono state considerate; i prodotti, ad esempio,
devono viaggiare per andare da un paese all’altro. Ci sono costi di trasporto che possono incidere molto sul
valore unitario della merce. Nell’esempio del grano e del tessuto, abbiamo immaginato che, il lavoratore che
produceva grano, è capace anche di produrre tessuto e viceversa; che c’è una flessibilità totale della
produzione. La riconversione dei fattori produttivi, da un processo all’altro, non è istantanea e non è
possibile.
Altra ipotesi è che, le tecnologie e le funzioni di produzione e di domanda, quindi la struttura delle
preferenze tra consumatori di diversi paesi, siano uguali, ma non è così; non sono uguali né tra paesi né
all’interno di ciascun paese, per via della segmentazione della domanda che porta a specializzazioni
incomplete. L’unico elemento che resta alla base come origine di vantaggi comparati dei paesi, è la
differente dotazione di risorse naturali. L’Italia produce meglio il vino, perché c’è un certo territorio, clima,
Per quanto riguarda la mobilità dei fattori, questi sono perfettamente riconvertibili all’interno del paese. I
paesi non scambiano solo merci, beni finali tra di loro, anche fattori della produzione, lavoro compreso.
Sono mobili anche gli input, che possono cambiare moltissimo le condizioni di efficienza nei diversi paesi.
Se i fattori produttivi si spostano con tanta facilità, cosa ci resta per capire perché un paese è più
competitivo di un altro in una certa produzione sui mercati internazionali? Possiamo rispondere in base a
chi è arrivato per prima a produrre qualcosa, se quel processo produttivo manifesta delle economie di scala,
e l’impresa collocata in un certo paese è cresciuta, ha un vantaggio sulle altre e le ha cacciate dal mercato,
perché essendo cresciuta ha abbattuto i costi unitari di produzione, è più competitiva. Ci sono altri elementi,
oltre alla dotazione di risorse naturali, come la manodopera che si sposta con grande facilità. Quando
diciamo manodopera o forza lavoro, si fa riferimento a un fattore della produzione differenziato al suo
interno, e non tutte le diverse componenti della forza lavoro, sono mobili, riproducibili e riconvertibili.
Quando ci riferiamo alla forza lavoro, in termini di capitale umano, dove non c’è solo la forza muscolare,
capacità di esercitare mansioni manuali, ma c’è anche acquisizione di professionalità, competenze, ecco che
la dotazione dei diversi paesi diventa un elemento dirimente dei livelli di competitività. Le differenze in
termini di professionalità e capitale umano, sono un fattore cruciale nel determinare i flussi di commercio.
Altro elemento importante è il livello tecnologico di un paese, collegato alla qualità del capitale umano. I
ricercatori spostano la frontiera tecnologica, quel segmento dei lavoratori che hanno fatto lunghissimi
investimenti di addestramento, competenze e possono spostare in avanti la frontiera tecnologica, non solo se
c’è dotazione di capitale umano adeguata, anche se nel paese si sono fatti investimenti in macchinari,
Quando si utilizza il termine filiera, è come se si usasse il termine impresa; la filiera non è né buona, né
cattiva, né efficiente, né inefficiente. Né genera valore aggiunto, né non lo genera. La filiera definisce tutti i
soggetti che intervengono in un dato processo produttivo, che non è verticalmente integrato in una sola
impresa, nel caso in cui la filiera s’identificherebbe con una sola impresa. Filiera è un termine molto
ricorrente; nella comunicazione pubblicitaria, s’adotta a diversi livelli, tra operatori del settore e nella
comunicazione con i consumatori finali. S’attribuisce al termine filiera un’accezione positiva, s’avvicina
questo termine al concetto di tracciabilità. Un conto è dire che la filiera è tracciata, conosciuta, controllata;
un altro conto è dire semplicemente filiera, come un prodotto che viene da un’azienda agricola.
Nella definizione di filiera lunga, in opposizione a quella corta, c’è un po’ di confusione. Con lungo e
corto s’indicano due aspetti: numero di operatori, ove all’aumentare del numero di operatori si dice che la
filiera s’allunga, minore il numero di operatori, la filiera si accorcia. Corto e lungo è utilizzato in
un’accezione spaziale, con riferimento al numero di chilometri che il bene o semilavorati percorrono. Si dice
che una filiera è lunga se, la somma dei km percorsi da materie prime, semilavorati, bene finale sono tanti.
Filiere nazionali e regionali si riferisce al contenimento geografico della filiera; pensando alla nostra
regione, il Lazio, si può notare come, per l’agroalimentare, non vi siano filiere auto contenute nella
regione. Le presunte filiere regionali, nel Lazio, sono sempre monche, hanno bisogno di una dimensione
maggiore, per arrivare a completarsi. Esempio: il kiwi. Il Lazio è una regione molto importante, su base
nazionale e mondiale, perché l’Italia è uno dei primi produttori al mondo di kiwi. Il kiwi è un prodotto che si
esporta molto, c’è un’incidenza delle esportazioni sulla produzione interna elevata. Il Lazio non riesce a
confezionare il prodotto, e connettersi coi mercati esteri. Il prodotto laziale viene, in gran parte, trasportato
come prodotto a sfuso a Cesena e nelle centrali frutticole romagnole, dove viene calibrato, confezionato e
avviato all’esportazione. Filiere globali e delocalizzate. La delocalizzazione può essere un modo in cui la
natura globale della filiera viene declinata; impresa globale con molte articolazioni locali, con imprese
dislocate in varie parti del mondo, che si connettono in una rete in cui i diversi nodi sono lontani tra di loro.
Filiere con livelli di concentrazione variabili ai diversi stadi. Se i livelli di concentrazione sono molto
differenti ai diversi stadi, le transazioni che avvengono tra soggetti ai diversi stadi sono transazioni dove le
condizioni sono asimmetriche, ossia c’è un gruppo di soggetti che ha più potere di mercato. Poiché la
concentrazione aumenta, andando più a valle, sono le aziende agricole che hanno da perderci nei termini
stabiliti per gli scambi.
La presenza di soggetti più concentrati, indica che saranno quei soggetti a fungere da protagonisti della
governance della filiera. Chi è più concentrato, ha più potere, più influenza, non solo userà questa maggiore
possibilità di influenzare la filiera, per definire termini di scambio vantaggiosi per sé, ma sarà il soggetto
che si farà carico di coordinare tutte le attività della filiera. Filiere a composizione stabile e relazioni
Dal lato della produzione, il termine filiera viene utilizzato come categoria concettuale, perché in contesti
produttivi come quello italiano, dove le imprese sono piccole e si realizzano, a livello di singola impresa,
molte inefficienze produttive, la dimensione collettiva della filiera è fondamentale per recuperare margini di
efficienza.
Ciò che piccole imprese non possono fare efficientemente o, in alcuni casi, non possono fare affatto,
possono cercare di farlo, tramite la costituzione di reti, catene organizzate, stabili di relazioni, in senso
orizzontale (imprese che svolgono la stessa fase del processo produttivo) o verticale (connessioni tra fase
agricola, trasformazione e commercializzazione). La dimensione della filiera è rilevante per valutare la
competitività dei prodotti e dei sistemi produttivi che ci stanno dietro. Ragionare in termini di filiera, ci può
aiutare a capire le debolezze del sistema produttivo, che si realizzano all’interno delle imprese. Ci sono
eventi, modi, in cui le imprese si raccordano tra di loro, che possono determinare maggiore o minore
efficienza delle produzioni finali. Tendere a completare le filiere, significa acquisire maggiori quote del
valore aggiunto complessivo del prodotto finale. Alla frammentazione dimensionale del sistema
agroalimentare italiano, s’aggiunge una configurazione poco coesa delle filiere, ossia le relazioni che
legano i diversi operatori tendono ad essere instabili sul mercato, rispetto a quello che accade in altri paesi
come la Francia. Quando si parla di depressione dei livelli di competitività, ci si riferisce sia alla
competitività in termini di prezzo, all’efficienza dei processi produttivi, sia alla competitività in termini
quantitativi, perché se i soggetti che concorrono a generare un prodotto finale sono tanti, e la qualità del
prodotto finale è importante per i consumatori, è evidente che questa qualità è il frutto di tutto quello che
fanno gli operatori che intervengono a generare quel bene. Solo un’azione coordinata di quello che fanno gli
operatori, può conferire al prodotto finale quella qualità che è indicata dai consumatori. Il coordinamento
La funzione di produzione è la relazione tecnica tra output e input, tra un fattore della produzione
variabile, le cui quantità sono misurate sull’ascisse, e la quantità dell’output misurata sull’ordinate.
La funzione di produzione disegnata in blu, nel grafico, è relativa a una certa tecnologia; la funzione rossa,
più alta della blu in tutti i punti, è relativa a una tecnologia migliore di quella blu. Data una certa quantità di
input, la prima tecnologia consente di ottenere una quantità di prodotto inferiore a quella che permette di
ottenere la tecnologia rossa. Viceversa, una certa quantità di output richiede meno input con la tecnologia
rossa, più input con quella blu. Relazione tra input e output definita produttività, il rapporto tra la quantità di
output ottenuta in un dato processo produttivo, e l’input necessario; può essere misurata in quantità (se si
tratta di una misura parziale di produttività, la relazione che esiste tra la quantità di output che s’ottiene in un
certo processo produttivo, e una categoria di fattori, come lavoro, terra) o in valore (per avere una misura
globale di produttività, mettere in relazione l’output con tutti gli input che occorrono per generare quel dato
output, per poter aggregare tutti gli input fisicamente diversi tra loro, si ricorre a un’unità di misura comune,
cioè al valore dei singoli input). La produzione è un valore assoluto, la produttività è un indicatore che
relaziona una data produzione coi fattori produttivi necessari per ottenere quella produzione. Il progresso
tecnico, l’introduzione di un’innovazione all’interno del processo produttivo, fa variare la produttività
globale dei fattori; la produttività parziale può variare anche in assenza di progresso tecnico, per effetto di
una sostituzione tra un fattore e un altro. Funzione di produzione a più fattori variabili, rappresentata
graficamente dalla mappa degli isoquanti. Prendendo due diverse categorie di fattori, ad esempio capitale e
Si può scegliere l’una o l’altra, ma il passaggio dall’una all’altra non rappresenta l’introduzione di
un’innovazione, bensì sono due alternative disponibili per i produttori. In un dato momento, una delle due
sarà quella economicamente efficiente. Si ha progresso tecnico, non se si passa da A a B, ma se si salta su un
isoquanto diverso, cioè se i 100 quintali di grano si possono produrre, utilizzando, ad esempio, la stessa
quantità di lavoro e una minore quantità di capitale, o minore quantità di entrambi, o stessa quantità di
capitale e minore quantità di lavoro. Solo se aumenta la misura della produttività globale. Progresso tecnico:
aumenta la produttività globale dei fattori.
In termini di costo di produzione, ciò che interessa a imprese e consumatori, lo spostamento verso l’alto
della funzione di produzione implica che, la funzione del costo marginale si sposta verso il basso. La
funzione di costo totale di un’impresa è la funzione di produzione, dove per ogni unità di input utilizzata,
per ottenere un certo livello di output, s’aggiunge informazione di quanto costa quell’input in termini unitari,
aggiungere informazione sul prezzo. Quello che interessa alle imprese, nel momento in cui introducono
un’innovazione, non è tanto aumentare la produttività, quanto ridurre i costi. Se si può ottenere una quantità
di prodotto come prima, utilizzando meno fattori della produzione, si spenderà meno di prima e i costi di
produzione s’abbasseranno. Per ogni livello produttivo, che misuriamo sull’asse dell’ascisse, il costo
marginale di produzione si riduce dopo l’introduzione dell’innovazione tecnica.
Siccome la funzione del costo marginale, nel tratto crescente che si trova al di sopra del punto minimo della
funzione del costo medio, altro non è che la funzione di offerta dell’impresa, e la funzione di offerta del
mercato deriva dall’aggregazione delle singole funzioni di offerta delle imprese presenti sul mercato, il
progresso tecnico, facendo abbassare la funzione del costo marginale, fa abbassare la funzione di offerta, la
fa espandere verso il basso e verso destra. Questa è la conseguenza dell’introduzione di un’innovazione,
all’interno di un processo produttivo, in termini di funzione d’offerta del mercato di quel bene.
Agronomiche: sono innovazioni come la messa a punto di una rotazione, che aumenta la fertilità del
terreno; la rotazione agronomica è la successione di diverse culture su uno stesso appezzamento di terreno;
oppure un nuovo modo di potare (albero di frutto o vite); sistemazione terreni, che determina un modo
migliore per le macchine di entrare nel campo.
Meccaniche: riguardano le macchine utilizzate nei processi produttivi agricoli; possono essere macchine per
la mungitura delle vacche/pecore, caratteristiche macchine motrici che portano in campo le macchine
Come è cambiato tale equilibrio? Si scambia una maggiore quantità di prodotto, dove l’incremento è dato
dalla distanza tra Y0 e Y1 sull’asse delle ascisse, a un prezzo più basso rispetto a prima, da P0 a P1. I
consumatori saranno più contenti, comprano più di prima a un prezzo più basso, il loro surplus è maggiore
dell’area verde (vedi grafico), perché prima il loro surplus era l’area compresa tra la funzione di domanda e
la retta del prezzo P0, e adesso si è espanso perché è aumentata la quantità che acquistano e si è ridotto il
prezzo. Sui produttori che effetto ha questo cambiamento? Un elemento è l’impatto della nuova tecnologia
sui costi di produzione, ma un altro elemento da cui dipende il risultato netto dell’introduzione di un’
innovazione tecnologica per i produttori, è il cambiamento della domanda, come reagiranno i consumatori;
dipende da quanto si sposta la funzione d’offerta, come impatta l’innovazione sui costi. Ma se, a parità di
cambiamento tecnologico, di spostamento della funzione d’offerta, i consumatori si comportassero
diversamente, il loro comportamento fosse descritto da una funzione di domanda più rigida, il punto di
equilibrio si sposta, il prezzo scende più di prima e la domanda si espande molto di meno. Il comportamento
dei consumatori determina l’effetto netto alla fine dei conti, e i consumatori stessi saranno gli unici veri
Cosa succede nel mercato se consideriamo il passare del tempo, quello che succede in momenti diversi.
Prima cosa che accade è che gli imprenditori non si comportano tutti allo stesso modo rispetto alle
innovazioni; ci sono alcuni più pronti a innovare, altri che formano le retrovie dell’innovazione, sono un po’
ritardatari a prendere il treno dell’innovazione. Se consideriamo tutte le imprese di un certo settore,
guardando alla loro prontezza ad adottare innovazioni, il loro comportamento è più o meno di questo tipo
qui (vedi grafico). Sull’asse delle ascisse lo scorrere del tempo, sulle ordinate la % cumulata delle imprese
che adottano l’innovazione. Se si va all’estrema destra del grafico, c’è un momento in cui tutte le imprese
del settore hanno innovato, e questo accade sempre, non c’è ne più nessuna che non innova, per quanto
ritardataria possa essere, arriva un momento che, se sta ancora sul mercato, l’impresa ha innovato. Il punto
d’arrivo è il 100% delle imprese che hanno innovato, ma questo ritmo d’adesione all’innovazione è
incostante. All’inizio la curva cresce lentamente, le imprese che innovano sono poche e la % cresce piano
piano; questo ritmo inizia, ad un certo punto, ad accelerare, dove la funzione è più pendente, il momento in
cui le imprese stanno saltando sul carro dell’innovazione, hanno capito che l’innovazione è buona,
innovare conviene e, quindi, c’è un picco nel ritmo d’adozione dell’innovazione. Dopodiché questo ritmo
rallenta nuovamente, dove rimangono solo i ritardatari.
In questo grafico, invece, sulle ordinate abbiamo il numero di imprese che adottano innovazione, sulle
ascisse il tempo. Inizialmente, sono poche le imprese che adottano (innovatrici), le prime che capiscono che
l’innovazione può convenire. Seguono le imitatrici e le ritardatarie. In entrambi i grafici, la variabile
rilevante è il tempo, perché innovare prima o dopo non è indifferente. Sempre conviene innovare prima?
Dipende. Se l’innovazione cambia la natura del prodotto finito, in base alle indagini di mercato effettuate,
può succedere che, alla resa dei conti, quel prodotto sul mercato non ha il successo che si pensava, o non c’è
la immediatamente, ossia il prodotto può avere anche successo, ma il fatto che tale successo non sia subito,
c’è la dopo un po’ di tempo, diventa un problema per le imprese che hanno innovato per prime. Perché
questo? Perché per innovare, le imprese hanno sostenuto degli investimenti. Può essere vero che la struttura
dei costi di lungo periodo diventi favorevole con l’innovazione, ma c’è un momento in cui l’impresa
investe. Se l’impresa investe oggi, non è indifferente che, ai fini dei suoi risultati economici, i benefici
iniziano ad arrivare tra 5 o 10 anni.
Innovare, pertanto, implica situazioni d’incertezza, accollarsi dei rischi, perché quando s’innova, si sostiene
con certezza dei costi oggi, e non si sa con certezza se e quando arriveranno i benefici. Innovano per prime
le imprese che hanno una struttura finanziaria abbastanza solida, perché possono permettersi di accollarsi dei
Risparmiare sul lavoro non era la strategia più adatta a rendere più competitive le imprese dell’
agroalimentare italiano. 50/60 anni fa, le famiglie contadine erano estremamente numerose, c’erano
situazioni di esuberi di manodopera, sottoccupazione nelle campagne, salario basso e imprese non
capitalistiche. Ciò non vuol dire che, le imprese non utilizzavano il progresso tecnico disponibile, anzi, tutti
hanno meccanizzato, adottato fertilizzanti e antiparassitari chimici; guardando al processo, nelle sue
conseguenze di lungo periodo, il sentiero del progresso tecnico non è stato neutrale a determinare maggiore
I potenziali offerenti devono farsi un’idea di quali innovazioni potrebbero essere utili per le imprese, per
quali innovazioni ci potrebbe essere un mercato. I potenziali compratori, invece, devono capire in cosa
consiste l’innovazione, come potrebbe essere utilizzata, come potrebbe essere applicata e adattata alle
specifiche condizioni produttive dell’impresa. Si sviluppa poi la distinzione che gli economisti chiamano la
domanda effettiva e la domanda latente di progresso tecnico. La domanda latente è la domanda che,
teoricamente, le imprese esprimerebbero, se fossero in grado di capire su quale sentiero tecnologico a loro
converrebbe mettersi, per migliorare la propria efficienza ed essere più competitive; implica la capacità di
fare un’analisi critica della tecnologia che adottano, e di quali bisogni in termini di nuova tecnologia
avrebbero per comparare i propri livelli d’efficienza con quelli dei concorrenti, di trovare i punti deboli e
immaginare possibili soluzioni. Per quanto riguarda il settore agricolo, ma non solo, il soggetto pubblico è
sempre dotato di servizi di assistenza tecnica. I tecnici pubblici dovrebbero aiutare le imprese, a trasformare
la loro domanda latente d’innovazione in domanda effettiva, aiutarle a comunicare con le imprese che
generano progresso tecnico oppure con le università, gli istituti di ricerca pubblica. Una volta che l’
innovazione esiste, devono aiutare le imprese a capire che quell’innovazione può essere conveniente, e se
l’adottano come adottarla. Quando esistono i brevetti, e si può pensare che abbiamo privatizzato l’
innovazione e il mercato funziona bene da sé, in realtà non è proprio così ed è necessario l’intervento del
settore pubblico; quando si fa un brevetto, si sta generando un monopolio, e da un fallimento di mercato, si
ricade in un’altra situazione in cui l’efficienza si riduce. Il diritto di monopolio, la protezione data dal
brevetto all’innovazione, per mantenersi nell’ambito di efficienza economica, l’estensione del diritto di
brevetto va commisurata in maniera proporzionata ai costi che sostengono le imprese per generare l’
In Italia, a fronte di una frammentazione spinta di tutte le fasi della filiera, agricola e non solo, si riscontra
uno scarso livello di coesione degli agenti che operano nelle filiere. Mentre una grande impresa può
integrare verticalmente al suo interno tante funzioni, escludendo rapporti con partner commerciali,
l’acquisizione di consulenti o semilavorati, per le imprese piccole, invece, la coesione con le altre imprese
che concorrono insieme a portare a compimento un processo produttivo, a definire un prodotto che arriva sul
mercato, è un aspetto essenziale. I rapporti tra stakeholders sulla filiera possono essere di natura differente:
possono essere semplici rapporti stock sul mercato, possono derivare da contratti pluriennali, contratti che
possono essere specificati con un grado di maggiore o minore dettaglio, prevedere rapporti di collaborazione
stretti con l’acquirente che offre servizi o svolge controlli su imprese che forniscono materie prime o
semilavorati, offrire assistenza tecnica. Come avviene nei distretti industriali, si possono realizzare rapporti
stabili nel tempo, seppur non formalizzati da contratti, di tipo consuetudinario. Tutto questo, in Italia, accade
molto poco. Le filiere sono composte di un gran numero di imprese, perché ad ogni livello del processo
produttivo, le imprese sono di piccole dimensioni, e perché c’è anche una frammentazione molto spinta del
processo stesso, con elevato numero di intermediari.
Il grado di frammentazione di un processo produttivo, la separabilità dell’insieme di azioni che vanno
adottate per portare materie prime, input, a combinarsi tra di loro e divenire output, questa scomponibilità è
un elemento cruciale nel capire la complessità di una filiera, quanto una filiera può scomposta in singole
fasi. C’è un dato tecnico, che fa capo alla tecnologia di produzione, da cui dipende quanto una singola
impresa si specializzi in un solo pezzetto del processo produttivo.
Altro elemento da cui dipende il grado di scomposizione effettiva del processo, e la configurazione della
Le caratteristiche della domanda, quello che i consumatori chiedono, vogliono, desiderano, è un aspetto
essenziale per capire come si organizza il tessuto delle imprese. Una domanda standardizzata gioca in
favore di filiere più coese, una minore segmentazione e diversificazione del mercato. Radicamento
territoriale forte delle produzioni che, in agricoltura, è un elemento importante, perché cambiano le
condizioni ambientali, naturali, c’è una diffusione di alcune specie o varietà limitata ad alcuni territori. La
differenziazione, su base territoriale, delle produzioni e il radicamento territoriale di queste, che certe
produzioni sono localizzate in un territorio, è dato da fattori storici e dal fatto che, quella produzione può
avvenire lì e non altrove. Ci sono tante filiere diversificate, a livello territoriale. Anche il quadro normativo
esercita un’influenza rilevante nella configurazione di una filiera. Le piccole imprese, se non sono inserite
in un sistema relazionale, soffrono particolarmente del livello non favorevole dei costi unitari di produzione
e della struttura degli stessi costi, dove la rigidità della componente fissa incide molto. Si potrebbe far
riferimento a una contrapposizione tra altre due categorie di costi, costi espliciti e impliciti.
Una delle ragioni per cui le imprese agricole resistono nel tempo, nonostante una struttura dei costi e una
posizione di mercato sfavorevole, è che hanno una struttura dei costi dove la componente implicita è molto
elevata rispetto a quella esplicita, perché utilizzano manodopera familiare. Lavorando nella mia impresa,
accetto una remunerazione inferiore al costo opportunità. Sono imprese familiari con capitali e terreni
propri.
Altro elemento che sfavorisce le piccole imprese è la mancanza di potere di mercato, subendo il potere di
mercato delle controparti; il fatto che queste imprese non sono inserite in una filiera, dove c’è
coordinamento, le espone a subire le condizioni di mercato della controparte. Anche la capacità
d’investimento rappresenta un elemento di fragilità delle piccole imprese, le quali operano su base
individuale, non sono connesse a un network di altre imprese, in una cooperativa/consorzio che s’interfaccia,
ad esempio, col sistema bancario, dove ha difficoltà nell’accesso al credito, e può essere penalizzata dalla
Una delle penalizzazioni principali sui mercati globalizzati. Ottenere visibilità presso i clienti finali, per
poter costruire nel tempo una propria reputazione d’impresa, è uno dei fattori limitanti, che rappresenta una
spinta alle imprese a mettersi insieme, su basi diverse, per aumentare la propria visibilità. Marchi collettivi,
diverse forme di certificazione sono un modo per fare massa e ottenere visibilità presso i consumatori.
Soluzioni per le piccole imprese per superare queste limitazioni. La più banale è crescere, dove le imprese
possono adottare diverse strategie, come fusioni, acquisizioni, joint venture, integrarsi verticalmente o
orizzontalmente. La crescita può avvenire tramite una diversificazione interna della produzione, e per
crescere servono capitali e capacità. Altro ostacolo forte sono le nicchie di mercato, i mercati si segmentano,
ci sono nicchie di domanda colte bene da piccole imprese d’eccellenza, specializzate nel fare bene
qualcosa.
A queste quattro scadenze temporali, sono stati riportati i dati in termini di numero d’aziende (prima riga),
variazioni % per le ultime colonne, nelle altre righe troviamo la superficie agricola utilizzata e totale. Le
ultime due righe riportano le dimensioni medie delle aziende agricole italiane, in termini di superficie
agricola utilizzata e totale. Un’azienda agricola è un’unità tecnico – economica, anche se composta su
appezzamenti di terreno non contigui, gestita in modo unitario e può includere impianti; se si tratta di
un’azienda zootecnica, può includere stalla e sala di mungitura, se è un’azienda vitivinicola include cantina
e attrezzature del caso, nella quale vi è una persona fisica o giuridica che gestisce i fattori della produzione,
assumendosi il rischio d’impresa. La superficie agricola utilizzata è una quota della superficie agricola
totale, in particolare è la quota coltivata, utilizzata, a seminativi o a culture arboree o legnose/agrarie,
oppure a pascoli e orti familiari, o anche a castagneti da frutto. Altre categorie di coltivazioni legnose, non
da frutto, non fanno parte della superficie agricola utilizzata, come i boschi. Se, ad esempio, un castagneto
viene utilizzato per produrre legno, e non frutto, non sta dentro la SAU. Inclusi anche i terreni a riposo, quei
terreni che un anno sono coltivati, e un anno no, oppure più anni sono coltivati e un anno no, nella rotazione
agronomica. Questa pratica serve a mantenere la fertilità del terreno, a preservarla nel tempo; anche se quei
terreni, in un dato anno, sono a riposo, non sono coltivati, fanno parte della SAU.
Nella superficie agricola totale, tutta la superficie inclusa nelle aziende agricole, oltre alla SAU, ci sono le
superfici a boschi, ad arboricoltura da legno, terreni incolti e le superfici aziendali per le recensioni, la
viabilità, che sono superfici di servizio. Un ettaro di terreno è una superficie di 10mila m2, un quadrato di
100 mt di lato. Quante aziende agricole ci sono oggi in Italia? Nel 2005 ci sono circa 1 mln e 800 mila
aziende agricole. Erano molte di più nel passato, si sono ridotte ad un ritmo notevole. Se guardassimo oggi,
nel 2010, il dato del 2005, questo sarebbe ancora più ridotto. Mediamente, più del 10% ogni decennio, 1.5%
all’anno. Un trend di riduzione analogo, leggermente meno accentuato, ha riguardato i terreni coltivati. La
SAU è -29%, la SAT è -25%. Di quali sono i valori assoluti di questi dati? 11 mln di ettari nel 2005, erano
15 mln nell’82. Stiamo parlando di un periodo nel quale il grosso della contrazione del settore, insieme
all’esodo agricolo avvenuto negli anni ‘50/’60, dove la superficie agricola era ancora maggiore,
s’avvicinava ai 25 mln di ettari. Se vedessimo il dato al 2010, ci sarebbe un ulteriore riduzione. Un settore,
quindi, in fortissima contrazione, non soltanto in termini di contributo all’economia nazionale, anche nella
base produttiva. Cosa è successo alla dimensione delle aziende agricole? Erano, mediamente, 7.3 ettari
nell’82 e 9.7 nel 2005. C’è stato un incremento delle dimensioni medie delle aziende, ma non si è trattato di
Come fanno queste imprese molto piccole, per cercare di superare questo vincolo? Fanno due cose: adottano
ordinamenti produttivi più intensivi, che valorizzano al massimo ogni ettaro di terreno, ad es
ordinamenti produttivi dove incide di più la presenza di culture arboree. Ordinamenti produttivi che
utilizzano più lavoro e meno terra. Anche la tecnologia produttiva utilizzata, a parità di produzione, nelle
piccole aziende, sarà più intensiva di lavoro, di manodopera; nelle aziende grandi, sarà una tecnologia meno
intensiva di manodopera, perché la manodopera è un costo esplicito e le aziende grandi hanno il vantaggio
in termini di capacità di investire.
Dietro a questa diversa intensività di uso dei fattori, terra e lavoro, ci sono innanzitutto questi due fattori:
ordinamenti produttivi differenti e tecnologie diverse. Terzo motivo di natura demografica, dove
l’agricoltura italiana, in particolar modo la componente delle piccole aziende gestite direttamente
dall’imprenditore, sono gestite perlopiù da persone anziane, la cui produttività del lavoro, è molto diversa
rispetto agli operai salariati che lavorano nelle grandi aziende. Il dato statistico sovrastima il lavoro erogato
nelle piccole aziende, perché una giornata di lavoro viene misurata uguale per tutti, ma 8 ore lavorate da un
imprenditore 70enne o più anziano, pensionato e sta lì nella sua azienda, perché gli piace, è la sua vita, non
ha altro da fare, sono molto diverse da 8 ore lavorate da un operaio salariato in una grande azienda. Quinta
tabella slyde. Un altro fattore della produzione molto importante è la componente zootecnica dell’agricoltura
italiana. Sono dati aggregati e un po’ grezzi, che riguardano il numero di capi presenti nell’agricoltura
italiana, divisi per specie: bovini, suini e ovicaprini. La specie di gran lunga più importante sia quella
bovina, dove abbiamo sia gli allevamenti bovini da carne che da latte. Un bovino vale circa come 6 suini e
10 capi ovini. Al 2004 abbiamo poco più di 6 mln di capi bovini, 8.5 mln di capi suini e 9 di capi ovini.
L’allevamento bovino ha subito un vero e proprio tracollo nel corso del tempo, si è ridimensionato
moltissimo l’importanza di questa produzione. Invece, la produzione di ovicaprini è in ascesa ed è
fortemente concentrata in 3 regioni: Sardegna, e pari merito d’importanza, Sicilia e Lazio.
L’ovinicoltura
L’ovinicoltura laziale è fondamentale per l’ovinicoltura italiana, in generale, e per la nostra regione, non
solo perché lo è come contributo alla formazione del valore aggiunto agricolo regionale, ma anche perché gli
Studio della domanda del consumatore, attraverso l’approccio di Lancaster. Lancaster, economista degli
anni ’60, ha proposto un’analisi della domanda secondo basi diverse da quelle che conosciamo noi, perché
l’interesse dei consumatori non si rivolge ai beni in quanto tali, ma alle caratteristiche che definiscono i
beni. Il bene ci interessa solo come strumento per arrivare a certe caratteristiche, perché il bene è descritto
come paniere di caratteristiche. Ad esempio, se usciamo con gli amici e ci vogliamo rilassare, la birra non ci
interessa in quanto tale, ma ci attira perché è una bevanda, con certo contenuto alcolico e che ci rilassa. Se
non c’è la birra, ci accontentiamo di un’altra bevanda che abbia caratteristiche simili, dal punto di vista del
Il grafico dell’impresa in concorrenza perfetta, mostra un’elasticità infinita, è una funzione di domanda
orizzontale, il che significa che l’impresa assume il prezzo determinato dall’equilibrio di mercato.
Nella concorrenza imperfetta, in funzione dei diversi livelli del prezzo che l’impresa può decidere di
applicare, la quantità che può vendere varia, ma c’è ne vuole prima che s’annulli. Vale il trade off, la
relazione negativa tra quantità e prezzo per il singolo produttore, che non è price taker. Non è price maker
con potere di mercato illimitato, ma può avere un margine decisionale.
L’equilibrio sul mercato di concorrenza imperfetta, tra domanda e offerta, implica che il livello del prezzo
a cui l’impresa riesce a vendere il prodotto, è superiore al costo marginale e l’impresa può realizzare profitti
positivi. La differenza tra ricavi totali di vendita e costi totali di produzione è positiva nel breve periodo. Nel
lungo periodo, invece, non ci sono barriere all’entrata e all’uscita, nuove imprese possono entrare in un
settore/mercato di un prodotto differenziato, dove osservano profitti positivi dei concorrenti. Una delle
proprietà principali del mercato concorrenziale, è realizzare la massima efficienza economica possibile.
Questa proprietà è una conseguenza del fatto che, tutti gli scambi avvengono ad un valore che corrisponde al
costo marginale di produzione, e questo vale sia per materie prime, che per beni, se tutti i mercati sono
concorrenziali. Si ha un’allocazione efficiente delle risorse produttive e dei beni. Se il mercato non è
concorrenziale, e le imprese detengono un certo potere di mercato, e il prezzo di vendita è maggiore del
costo marginale di produzione, tanto che realizzano profitti positivi, si ha una perdita di benessere e la
quantità prodotta in quel mercato, è subottimale. Tuttavia, se nella struttura delle preferenze dei
consumatori, la varietà dei beni consumati è importante, il fatto che su quel mercato siano presenti tante
varietà di beni, genera un vantaggio in termini di benessere. S’arriva a formare un oligopolio quando i
processi produttivi manifestano rilevanti economie di scala, c’è una tendenza alla concentrazione, le imprese
sono poche o, perlomeno, c’è ne sono poche che detengono la maggior parte del mercato. Un mercato di
questo tipo può persistere nel tempo, se vi sono forti barriere all’entrata. Mentre nel mercato concorrenziale,
le imprese sono price taker, le uniche decisioni che le imprese devono prendere, riguardano le quantità da
La scelta d’acquisto, anche nel caso delle caratteristiche ricerca, implica dei costi che nel mercato
perfettamente concorrenziale non esistono, e possono essere dei costi rilevanti. Nelle caratteristiche
esperienza, oltre al costo di ricerca, c’è anche il costo di acquisizione di informazioni. Visto che al momento
di effettuare l’acquisto, una parte rilevante dell’informazione manca, bisogna sostituire questa informazione
mancante, ricorrendo ad esperienze passate nostre o di altri, a consigli, ma resta tuttavia un margine
d’incertezza, rischiando di non acquistare ciò che veramente si sta cercando d’acquistare. Viceversa, nelle
caratteristiche fiducia, una sorta di atto di fede, ci si deve credere o no che quel bene ha quel tipo di
attributo. Per far si che, i consumatori effettuino le proprie scelte in mercati, dove la differenziazione è
rilevante, e riguarda caratteristiche per cui non c’è libera circolazione di informazioni, occorre generare
l’informazione, informare i consumatori e che questi la ritengano attendibile. Altrimenti, i mercati
funzionano male, possono fallire.
Questa schematizzazione mostra la complessità del processo che, nei consumatori, porta alle scelte
d’acquisto, quando i beni non sono omogenei, e l’informazione a disposizione dei consumatori, è parziale,
il grado di affidabilità dell’informazione non è sempre rilevante. Se rimuoviamo le ipotesi base del
comportamento dei consumatori in concorrenza perfetta, dove la scelta d’acquisto è una determinante
automatica della struttura delle preferenze dei consumatori, data e immodificabile nel tempo, e del vincolo
di bilancio. Questo agisce nella scelta dei consumatori. Se, invece, rimuoviamo questi aspetti
semplificatrici, la struttura delle preferenze dei consumatori dipende dal profilo socioeconomico di ciascun
consumatore, da una serie di parametri che ne determinano la tipologia di persona, come il reddito, il livello
d’istruzione, ecc.
Dal livello d’istruzione, ad esempio, dipende un senso di appartenenza a un gruppo sociale, una certa
struttura di preferenze, il bisogno di affermare un certo sistema valoriale, tramite le proprie azioni di
consumo, oppure dipende anche la capacità di decodificare, comprendere l’informazione sulla qualità dei
beni. I consumatori sono caratterizzati dalle abitudini d’acquisto, da una certa inerzia nei consumi;
spesso si consuma un qualcosa, già consumato in passato. Questo vale per i consumi alimentari, dove il
gusto, la struttura delle preferenze ha una componente innata, soggettiva, però possiede anche una
componente legata all’abitudine, molto forte. Abitudine che influenza la capacità di acquisire e comprendere
l’informazione rilevante, rispetto agli acquisti. Altro elemento importante nella formazione delle preferenze,
e del bagaglio conoscitivo sulla qualità dei beni, è l’informazione che circola sul mercato; informazione che
le imprese rilasciano sui beni, attraverso campagne informative, pubblicità, politiche di marchio, infinita
serie di segni di qualità. Akerlov, attraverso l’articolo “Il mercato dei bidoni”, ha mostrato come si giunge al
fallimento del mercato, costruendo un modello che riguarda un bene, dove la caratteristica qualitativa
rilevante è di tipo experience. Il mercato riguarda prodotti differenziati, i costi di produzione, come spesso
accade, sono funzione diretta della qualità, ossia produrre un bene di qualità superiore (differenziazione
verticale) costa di più, rispetto a quanto costa produrre un bene di qualità inferiore. Quindi, in mancanza di
informazioni aggiuntive sulla qualità del bene, i consumatori, osservando il prezzo di vendita del bene, si
fanno un’idea di quale sia il suo livello qualitativo. Prezzo utilizzato come indicatore di qualità. Questo è un
mercato con acquisti ripetuti nel tempo di quel bene. In questo mercato, i produttori producono beni di