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Questo nuovo logo ha una storia: uno di Voi attraverso una mail anonima me lo ha inviato, facendomene dono.
Inaspettatamente. E proponendolo al posto dell’anonima tazzina di prima. Lo ringrazio attraverso questa nota e con piacere lo inserisco come nuovo logo!
Qualcuno di Voi, dopo la lezione di giovedì, mi ha posto interessanti questioni, sia sulla “miglior domanda”
sia sugli spazi “infiniti” dell’universo.
L’idea di infinito è in effetti una delle più affascinanti della scienza e della matematica, che affiora nel
dibattito scientifico sin dai tempi di Euclide. Per questo scelgo di dedicare, seppur in modo
necessariamente limitato, questo caffè all’infinito.
Occorre riconoscere che, specie negli ultimi due secoli, si è compiuta molta strada verso l’ “indomabile
concetto di infinito” (studierete in analisi, ad esempio, le serie numeriche o di funzioni, che sono un
“correlativo” rigoroso ed assai avanzato delle somme infinite di Zenone).
Nonostante i risultati promettenti, tuttavia, i paradossi (reali o apparenti) cui si giunge quando si trattano
quantità o operazioni “infinite”, utilizzando le regole che ci sono familiari nel “finito”, restano. Si tratta di
circostanze a cavallo tra il ragionevole e il paradossale. Tra l’in_definito e l’in_determinato, tra l’abbaglio e
la vertigine. Nell’un caso o nell’altro, che sicuramente sollecitano e provocano il nostro desiderio di
conoscenza. D’altra parte un concetto come l’infinito che ammetta, come corrispondente temporale,
l’eterno, potrebbe effettivamente apparire, per la matematica o per la fisica, un azzardo eccessivo.
Secondo De Giorgi non è così: “Il matematico si accorge che per riuscire a trattare alcuni problemi pratici
occorre immergerli in un quadro ideale molto vasto. Un semplice esempio ci viene dall’aritmetica: nessun
calcolo numerico utilizzerà numeri con un milione di cifre, in realtà tutti i calcoli si arrestano molto prima;
tuttavia è impossibile fare una teoria dell’aritmetica semplice, pratica e coerente in cui non vale il teorema
‘esistono infiniti numeri primi’. La matematica è in un certo senso costretta a immergere la realtà finita e
visibile in un quadro infinito sempre più esteso; l’ordine delle cose può essere concepito solo come un
intreccio di relazioni tra enti materiali ed ideali che nel loro complesso formano una rete infinita”. (Da Ennio
De Giorgi, Dizionario interdisciplinare, vol I, pp. 843-844) Dunque l’infinito matematico, secondo il grande
maestro, è una necessità obbligata. Non un azzardo filosofico. Spostando la prospettiva, ci si potrebbe
domandare – dato per buono l’infinito dei numeri - che cosa possa mai c’entrare in una lezione di
matematica la sonda Voyager 1 alla deriva nello spazio cosmico. La mia risposta è: c’entra, perché lo spazio
cosmico è la realtà fisica che, più di ogni altra, offre un correlativo oggettivo all’idea di infinito matematico.
Come Vi ho detto la V1 si trova – in questo preciso istante - nello spazio interstellare ad una distanza di 19
miliardi di km dal Sole con una velocità di allontanamento di 17 Km/sec (circa 60mila Km/h), in un viaggio
che fra 30.000 anni la vedrà uscire dalla Nube di Oort ed entrare nel campo di attrazione gravitazionale di
un’altra stella. L’immagine è quella di una bottiglia nell’”oceano siderale” lanciata dall’uomo del XX secolo.
La sonda Voyager 1 è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più lontano (di sempre) da noi e per il quale è più
verosimile la frase: “…ad una distanza infinitamente grande”.
Domanda: ma potremmo avventurarci, invece che nell’infinitamente grande, nell’infinitamente piccolo, con
la stessa sensazione di inadeguatezza? La risposta, a mio avviso è, sì. Direi, se vogliamo collocarla nel nostro
orizzonte tematico, le idee di infinito e di infinitesimo sono due facce della stessa medaglia, che rimandano
al nostro essere limitati. L’uomo è limitato dal suo essere mortale, ma anche dai suoi strumenti di
rilevazione, dunque zero ed infinito dovrebbero essere banditi dalla sua quotidianità. Sembrerebbero,
infinito (infinitamente grande) ed infinitesimo (infinitamente piccolo) astrazioni sterili. In realtà, ancora una
1
volta, non è così. Ogni equazione fisica, ad esempio, ha limiti matematici che di solito affiorano proprio
all’apparire di “inattesi infiniti”. Sono gli infiniti matematici che impongono la crisi e la revisione di una
teoria. E’ stato così nel rapporto tra fisica newtoniana e meccanica relativistica. E’ stato così per i quanti di
Planck, introdotti proprio per evitare gli infiniti che apparivano nella teoria della radiazione del corpo nero.
Oppure nella legge di gravitazione universale secondo la quale potremmo ricavare energia infinita dal
collasso di una massa entro un raggio nullo. E’ così negli infiniti che riappaiono (in altra forma) nella teoria
dei campi. Oppure ancora nell’irraggiungibilità dello “zero assoluto”.
Ed è (quasi) sempre la rimozione matematica di questi “infiniti” a condurre a progressi straordinari.
L’infinito che, con disinvoltura utilizziamo durante le lezioni di analisi, è il concetto direi più esoterico e
lontano dalla nostra esperienza quotidiana. Eppure ha una potenza teorica straordinaria. Che senso
potrebbero mai avere tempi dell’ordine del miliardo di anni per “attraversare” la nostra galassia? Oppure
distanze di 100 mila anni luce? Per non parlare di entità quali gli ammassi di galassie. Oppure tempi di
secondi ?
Il concetto di infinito per come è stato pensato, e nonostante moltissimo resti da scoprire, offre significato
e persistenza alle idee che trattiamo. Sancisce la superiorità della logica rispetto ad una visione
solo“sensibile” delle cose, stabilisce un nesso prezioso tra il visibile e l’invisibile.
Ancora una volta la matematica, nell’implacabilità del suo argomentare, rende (almeno un po’) decifrabile
ciò che, al nostro cospetto, sarebbe del tutto indecifrabile. Offre fondatezza al nostro anelito di conoscenza,
poichè l’infinito, comunque lo si intenda, sospinge il pensiero oltre. Rendendoci, di fatto, esseri intelligenti i
quali, con una speranza di vita di 80 anni, sono riusciti a fare previsioni e ad avanzare ipotesi su distanze e
tempi “siderali” che trattano, nel loro attendibile dispiegarsi, i miliardi di anni e i miliardi di km. E questo a
me sembra straordinario.
“Conoscere è resistere al tempo” perchè è nascere alle cose e far nascere in noi le cose medesime. Anche
quelle invisibili allo sguardo feriale. Anche quelle che ci sovrastano infinitamente e ci provocano vertigine,
smarrimento o fascino assoluto
PC
Breve post:
Personalmente, come vi dicevo in aula, mi emoziona sempre guardare la foto che arriva da 6 miliardi di km
da noi. Una fotografia scattata (tra il 14 febbraio e il 6 giugno del 1990) proprio dalla Voyager 1, oltre
l’orbita di Plutone. Una fotografia nella quale The Pale Blue Dot è la nostra TERRA.
Carl Sagan, uno dei più famosi astrofisici del XX secolo, dopo aver visto la foto reale (che Vi riporto sotto),
ha lasciato una pagina tra le più intense dI quelle scritte nella sua vita. Merita di essere letta.