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di Waldemar Bonsels.
I
Vita nell’alveare.
Il sole nasceva dietro la collina, illuminando a
poco a poco tutto l'alveare. La vita si svegliava
e si svegliavano anche le api che da anni ormai
abitavano al limite del prato, vicino al bosco.
L'Uomo aveva costruito un alveare per
assicurarsi ogni anno una buona quantità di
miele, e le api lo rifornivano puntualmente non
solo di ottimo miele ma anche di cera.
L'alveare era molto popolato; organizzato
quasi come una città, ospitava circa 60 mila api.
Ogni ape svolgeva un compito preciso e
determinato, ma tutte lavoravano insieme
aiutandosi a vicenda.
C'erano api operaie che raccoglievano il
nettare dei fiori per trasformarlo in miele, api
che raccoglievano il polline per nutrire tutto il
popolo dell'alveare, api esploratrici che
cercavano nuovi luoghi per fare altri nidi;
c'erano i fuchi guerrieri addetti alla
sorveglianza e alla difesa e i fuchi servitori al
servizio della Regina. Sì, perché come in ogni
alveare c'era una Regina che governava tutte
le api. Ogni anno, all'inizio della stagione, la
Regina deponeva le uova, dalle quali
nascevano nuove api. Ed è proprio a questo
punto che comincia la meravigliosa storia di
Apemaia.
Era un gran giorno per l'alveare: le uova
deposte dalla Regina stavano per aprirsi. Tutti
avevano un gran da fare. Le api più anziane
correvano a destra e a sinistra, chi portando
acqua calda, chi informandosi sul numero delle
nuove nate e sul loro stato di salute, chi
distribuendo preziose cucchiaiate di pappa
reale. Cassandra, la maestra delle api, correva
da una celletta all'altra facendo l'appello. A un
certo punto sentì una vocina: "Buongiorno!
Che succede qui? Perché tutti corrono?". Era
un'ape appena nata che non aveva ancora
messo fuori completamente le ali e già faceva
domande.
"Buongiorno, Apemaia. Tutto bene? Aspetta
un momentino e sarò da te", disse Cassandra
correndo con un'ampolla di miele verso altre
celle. Apemaia era impaziente. Per lei tutto era
una novità. A chiunque passasse vicino alla sua
cella faceva una quantità di domande. "A che
cosa serve questo? Dove vai con quell'arnese?
Come ti chiami? Perché hai cosi fretta?". Ma
nessuno aveva il tempo di risponderle. Fu così
che si decise a uscir fuori, allargò le ali e si sentì
capace di volare.
"Evviva! Mi sollevo! Volo!"; e, facendo alcuni
giretti intorno alla sua cella, sperimentò per la
prima volta l'ebbrezza del volo.
Si accorse che vicino a lei c'era qualcuno che
dormiva ancora, coperto da una minuscola
foglia. "Sveglia! È ora! Cosa fai ancora a
letto?", urlò nelle orecchie di un'ape piccola
quanto lei. "Guarda, ho le ali e riesco a volare.
Prova anche tu". Willi allora aprì gli occhi e vide
le ali di Apemaia. "Accidenti! Chi mi ha
svegliato da questo sogno meraviglioso?",
disse, sottolineando il disappunto con un
solenne sbadiglio. Apemaia si presentò e i due
fecero subito amicizia. Andarono a curiosare
lungo i corridoi, spiarono le api più anziane che
si affannavano presso le nuove nate e, come
due veterane, imboccarono il corridoio che
portava verso l'uscita. Willi aveva spiegato le ali
e, dopo qualche tentativo mal riuscito, prese
anche lui il volo. Com'era bello non dover
usare le gambe per spostarsi ma affidarsi alle
ali, che sollevavano da terra e portavano da
un posto all'altro con la minima fatica!
Apemaia vide una grande porta oltre la quale
si poteva scorgere una cosa tutta azzurra.
"Guarda Willi, forse quello è il cielo! Andiamo
a vedere", e con una bella planata
atterrarono proprio davanti alla grande porta.
"Alto là! Dove andate?", intimò un guerriero
armato di lancia. "Non sapete che non si può
uscire soli alla vostra età, senza essere
accompagnati dalla vostra maestra?".
Willi fece una faccia preoccupata, non aveva
mai sentito parlare di maestra.
Apemaia, che aveva già conosciuto Cassandra,
lo rassicurò: "Willi, non ti preoccupare, la nostra
maestra si chiama Cassandra ed è un tipo
simpatico. Andiamo a cercarla, vedrai che ci
porterà lei a volare nel cielo".
Avevano fretta di imparare tante cose e
Cassandra fu ben felice di essere la loro
maestra. Quella mattina erano nate altre api, e
tutte insieme formarono un'allegra scolaresca,
pronta ad entrare nella già grande famiglia
dell'alveare. Cassandra sapeva come trattare
le novelline, ma non aveva mai trovato tra le
sue alunne dei tipi svegli quanto Apemaia.
Faceva sempre domande, voleva sapere tutto,
voleva ficcare il naso in tutti gli angoli
dell'alveare. Willi invece era un pacioccone. E
dall'alleanza tra i due nasceva una gran
quantità di pasticci.
Apemaia chiese a Cassandra di portarle a fare
una passeggiata all'aria aperta, per conoscere
un po' di mondo. Fu cosi che la prima lezione si
svolse tra i petali di un fiore e il verde di una
foglia.
C'erano tante cose da imparare. Cassandra
iniziò con la spiegazione di tutti i lavori che si
facevano nell'alveare. Ogni ape doveva saper
fare qualsiasi lavoro.
"La mattina appena sveglie", disse Cassandra
alle sue alunne, "dovrete occuparvi della
pulizia della vostra cella. L'alveare deve essere
sempre lindo, e visto che siamo in tante
ognuna dovrà provvedere personalmente a
tenere in ordine le sue cose". Apemaia arricciò
il naso. "Uffa, si comincia proprio bene!",
diceva tra sé, "io con la scopa non vado molto
d'accordo. Speriamo che ci sia qualche cosa di
più interessante da fare".
Cassandra continuò la sua lezione spiegando
che un altro importante compito delle api era
quello di costruire nuovi favi, e di mantenere in
buono stato i favi più vecchi.
"Ma che cos'è un favo?", domandò Willi
saltando sul suo fiore. "È la casa in cui sei
nato", spiegò Cassandra, "e che domani
servirà per mettervi il miele. Sai Willi, il favo è
fatto con la cera, e anche questo è un risultato
del nostro lavoro". "Ma con che cosa si fa il
miele", s'interessò Apemaia, "e con che cosa si
fa la cera?". Cassandra rispondeva
pazientemente a tutte quelle domande.
"Quando sarete più grandi, andrete a
raccogliere quella goccia di acqua dolce che
c'è nel cuore del fiore. Si chiama nettare, e
serve per fare il miele. Ma prima...". "Ecco!
Sempre quando saremo grandi! Possibile che
adesso non possiamo fare nient'altro che
venire a scuola? Uffa, io mi annoio". Inutile
dire che era Apemaia a protestare. Non le
piaceva l'idea di aspettare tanto tempo, prima
di fare qualcosa di concreto. Vedeva le altre
api andare e venire con le loro ampolle piene
di nettare e moriva dalla voglia di provare
anche lei.
Ma non tanto per lavorare, quanto per
scoprire com'era il mondo. Cassandra capì
questo desiderio e incominciò a parlare degli
amici delle api... ma anche dei loro nemici.
"Intorno all'alveare ci sono i prati e c'è il bosco.
Non siamo solo noi ad abitare qui. Ci sono
tanti altri animali. Prima di andare ad esplorare
il mondo dovete imparare a comportarvi bene
con coloro che incontrerete". L'idea di
incontrare altra gente piaceva molto ad
Apemaia, e anche Willi era attento alle
spiegazioni di Cassandra.
"Gli animali non sono cattivi, e neanche
l'Uomo è cattivo", continuò Cassandra, "ma
bisogna saperci fare. Non serve litigare, non
serve dire sempre e solo tutto quello che non
ci piace o non ci va. Quando incontrerete altri
animali, cercate di vedere in loro anche i lati
buoni. Curt, per esempio, è grande e grosso e
non si può certo dire che sia bello. Ma ha un
cuore d'oro, e difende sempre i più deboli.
Max, il verme, vede sempre tutto nero, si lagna
di molte cose, ma è disposto a farsi in quattro
quando gli si chiede aiuto. E cosi è l'Uomo. Se
non gli andate tanto vicino e non lo molestate
con il vostro ronzio, l'Uomo vi sarà d'aiuto.
L'inverno, quando i fiori non ci sono, è lui che ci
porta la melassa per nutrirci. È lui che costruisce
altri alveari per ospitare il nuovo sciame".
Nessuno della scolaresca osava fiatare.
Certo, Cassandra ne sapeva di cose! Peccato
però che non si potesse cominciare subito a
cercare gli amici del bosco.
Cassandra infatti aveva riportato le api
all'alveare per il pranzo, e aveva deciso di
dimostrare loro come si costruisce un favo.
Apemaia avrebbe voluto restare all'aria
aperta ancora un po', ma anche l'idea di
andare a tavola non era male. Quanto alla
costruzione del favo... avrebbe cercato di
trasformare quel lavoro in un gioco. La cera
infatti era morbida e ci si poteva giocare bene.
Ci si potevano modellare delle statuine, la si
poteva spalmare sul pavimento rendendolo
lucido e scivoloso. "Scivoloso... che idea!",
pensò Apemaia, e rovesciò tutta la cera per
terra cercando di spalmarla il più possibile con
l'aiuto di uno spazzolone. Poi si nascose dietro
l'angolo e... aspettò. Il primo a cadere nella
trappola fu Willi. Arrivava di corsa, non si
accorse del pavimento lucido e scivol...
"Bum!!!". Era finito gambe all'aria, le ali
accartocciate, un gran
bernoccolo sulla testa. Dietro di lui Apemaia
rideva a crepapelle. "Che buffo sei, Willi, non
sai più camminare!", esclamò divertita alle
spalle dell'amico.
Cassandra, che aveva visto la scena, andò su
tutte le furie. "Apemaia, ti sembra bello quello
che hai fatto? Willi è tuo amico, e avrebbe
potuto farsi male! ".
"Ma io... ", si giustificò Apemaia, "non volevo
fargli male, volevo divertirmi".
"Scherzi sciocchi!", tuonò Cassandra, "non
vedo cosa ci trovi di divertente in uno che
rischia l'osso del collo". Intanto Willi giaceva
con il sedere per aria, lamentandosi
debolmente. "Ohi, mamma, vedo le stelle!".
Cassandra, molto seria, intimò ad Apemaia di
ripulire il pavimento dalla cera e di presentarsi
subito dopo in classe. Aveva intenzione di
darle una punizione; ma in quel momento non
sapeva ancora quale. Poi si ricordò che quella
mattina erano state usate molte ampolle per
la raccolta del nettare e che non erano ancora
state pulite. Così, quando Apemaia arrivò in
classe, la spedì a pulire le ampolle. Era un
lavoro ingrato. Il nettare è appiccicoso, non è
facile toglierlo per bene. Bisognava strofinare
e strofinare ancora, e non si finiva mai di pulire
a fondo ogni ampolla.
Era già sera quando Apemaia finì di lustrare
quelle stramaledette pentole.
Ma la lezione era servita. Adesso, prima di fare
un altro scherzo, ci avrebbe pensato due
volte. L'indomani Cassandra riprese le sue
lezioni all'aperto. Voleva insegnare alle api a
orientarsi servendosi del sole.
"Guardate il sole. Nasce a Oriente e cala a
Occidente. A Oriente dell'alveare ci sono la
grande quercia, il tiglio e il bosco. A Occidente
c'è la casa dell'Uomo. Noi stiamo proprio in
mezzo". "Anche di notte c'è il sole?",
domandò Willi, senza pensare troppo a quello
che diceva. "Che sciocco!", disse Cassandra,
"di notte è tutto buio, proprio perché il sole
non c'è. Ma ci si può orientare con le stelle. È
un po' più difficile, ma ci si riesce. Comunque, le
api non escono di notte". Quel giorno
Cassandra aveva deciso di restare a pranzare
all'aria aperta.
Ogni tanto il sole andava a nascondersi dietro
qualche nuvola, ma non c'era ancora il pericolo
della pioggia.
Apemaia e Willi erano così contenti.
Gironzolavano qua e là chiamandosi a
vicenda: "Willi, guarda questo fiore!",
"Apemaia, guarda questo buco nella terra:
chissà chi ci abita".
Ad un tratto sentirono un rumore strano:
"Tong... tong... tong... ", qualcuno si stava
avvicinando saltando da un fiore all'altro.
"Buongiorno, mie care api. Già al lavoro?".
"Buongiorno Flip", rispose Cassandra, "questa
è la nuova scolaresca. Sono api nate ieri, ma
sono già in gamba. Questa è Apemaia, questo
è Willi, questa è... ", e presentò tutta la classe a
Flip, che si tolse il cilindro e salutò con un
inchino.
"Chi sei tu?", domandò Apemaia curiosa.
"Sono Flip, professore di spettacolo, amico
delle api, e gran girovago". "Conosci anche
l'Uomo?", continuò Apemaia con molto
interesse. "Io con l'Uomo non ho mai avuto
molto a che fare però sì, lo conosco; cioè,
voglio dire che l'ho visto un paio di volte. È così
grande e grosso rispetto a noi... ha due occhi
così grandi, e due gambe così lunghe... ".
Apemaia ascoltava estasiata. Possibile che
l'Uomo fosse proprio così grande come diceva
Flip? Chissà quando ne avrebbe incontrato
uno? Stava ancora fantasticando sulla
grandezza dell'Uomo quando arrivò Willi di
corsa.
"Apemaia!!! Vieni subito! Ho trovato un altro
buco, ma dentro c'è qualcuno, perché si sente
fare crac-crac, e si vede un pezzo di coda. Può
essere... ". "Willi, calma. Dov'è questo buco?";
e insieme volarono su un grosso tronco forato
da tanti piccoli buchini. "Sssst, fai piano... non
sappiamo se è un amico o un nemico".
Apemaia camminava in punta di piedi, seguita
da Willi, che aveva davvero un bel po' di fifa.
"Speriamo che non mangi le api, quel coso lì...
speriamo che... Mamma! Il mostro!".
L'urlo di Willi fece accorrere Cassandra; ma
non si trattava di un mostro, bensì di un tarlo,
che scavava la sua galleria nella corteccia del
vecchio tronco. "Calma, non urlare così", disse
Cassandra prendendo per mano il povero Willi
tremante di paura, "non ci sono mostri.
Questo è il signor Tarlo, saluta... ".
"Ehm... buongiorno, cosa ci fa dentro quel
buco?", domandò Willi con un filo di voce.
"Care api, faccio il mio lavoro: scavo gallerie
nel legno, mi costruisco una casa bella e
comoda per l'inverno". Il tarlo aveva proprio
un'aria inoffensiva. Chiacchierarono un po' del
più e del meno, tanto per fare amicizia, e poi
Cassandra invitò le api a tornare a casa. Forse
per lo spavento, forse per la giornata all'aria
aperta, rientrarono tutti volentieri nell'alveare.
Willi aveva tanta fame e si precipitò verso un
vaso di miele per fare un'abbondante
merenda. Era proprio buono il miele, dolce,
filante, gustoso. Willi non avrebbe smesso
mai... ma anche le api possono fare
indigestione e lui sapeva che troppo miele fa
venire il mal di pancia. "Per ora basta così",
pensò, "più tardi verrò a prendermi
l'aperitivo... ". Mentre riponeva il vaso al suo
posto sopra la grande mensola, si ricordò che il
giorno prima Apemaia gli aveva fatto lo
scherzo della cera sul pavimento. "Devo
trovare il modo di fargliela pagare... ", disse
tra sé, "chi la fa l'aspetti!". E se ne andò in
cerca di uno scherzo geniale da giocare
all'amica.
Ma di genio Willi ne aveva un po' poco.
Nonostante cercasse dentro la sua testolina
qualcosa di divertente, non riusciva a trovare
altro che vecchi scherzi fatti e rifatti.
"Vediamo... potrei cucirle le maniche del
pigiama... potrei appenderle un campanello
sotto il letto, così quando va a dormire, eh
eh!, ogni volta che si muove, il campanello
suona... potrei mettere un catino d'acqua
sopra la porta della sua celletta, che bagno
ragazzi! Potrei... ", e continuava a spremersi le
meningi.
Era quasi sera, quando Apemaia si sentì
chiamare: "Apemaia, vieni a giocare a
nascondino?", domandò Willi con un'aria
sorniona.
"A nascondino? Ma è un gioco da piccoli, e poi
è quasi buio".
"Proprio qui sta il bello", obiettò Willi, "al buio
il gioco è ancora più difficile!".
Corsero verso l'uscita dell'alveare e
cominciarono a giocare.
"Mi nascondo io", propose Willi, "e tu mi
cerchi". Apemaia contò fino a cento e poi
andò a cercare Willi. C'era un gran silenzio, e di
Willi nemmeno l'ombra. Apemaia guardò
dietro la porta, sotto il tavolo, fece un rapido
giro fuori. Le sembrò di sentire un fruscio. "Lo
sento, ma non lo vedo", diceva tra sé. "Eppure
non mi scapperà!".
Mentre ritornava verso l'alveare, vide davanti
a sé una cosa tutta bianca. Si muoveva
lentamente e, quel che è peggio, si muoveva
verso di lei. Apemaia ebbe paura. Quella cosa
strana faceva un verso tenebroso: "Uuhh!
Uuhh! Uuhh!". Non aveva mai visto animali di
quel genere; era bianco dalla testa ai piedi e
non aveva una forma precisa; era come se
fosse ricoperto da un gran lenzuolo.
Cercò di scappare, ma la cosa strana le andava
dietro. Cercò di tornare in fretta all'alveare,
ma la cosa strana le tagliò la strada e dovette
correre da un'altra parte. Non sapeva più che
cosa fare.
Aveva veramente paura. Ce l'aveva fatta ad
arrivare fin sulla terrazza dell'alveare ma non
le riusciva di infilare la porta d'entrata.
La cosa bianca era lì, davanti a lei, e le si
avvicinava lentamente. Apemaia incominciò a
camminare all'indietro, passo dopo passo.
Senza accorgersene, arrivò fino al bordo
estremo della terrazza.
A quel punto la cosa bianca cacciò un urlo
feroce: "Uuaauuhh!", e Apemaia cadde
all'indietro, precipitando nel prato. Stava là,
con le antenne abbassate, la lingua penzoloni
e le gambe che tremavano: stentava a
riprendersi dallo spavento. Sopra la sua testa
invece c'era qualcuno che rideva a più non
posso. "Ah, ah, ah, che scherzo geniale! Che
volo!". Willi si teneva la pancia per il troppo
ridere. "Un fantasma, il fantasma della
notte!". A quel punto Apemaia capì tutto.
Altro che cosa bianca, quello non era altro che
Willi travestito da fantasma. E lei, che non
aveva capito! "Accidenti, Willi, sei diventato
matto? Ti sembrano scherzi da fare a
quest'ora?". Willi continuava a ridere e
Apemaia ad inveire contro di lui, quando
arrivò Cassandra.
"Che fate voi due lì fuori? È un'ora che vi
cerco! Cosa avete combinato?", domandò
con aria di rimprovero. Willi era tanto ingenuo
da non saper nemmeno nascondere le sue
malefatte. Fu così che raccontò a Cassandra lo
scherzo del fantasma, il capitombolo di
Apemaia e tutto il resto. Cassandra andò su
tutte le furie. "Ve la faccio vedere io... altro
che fantasma, voi due filate a letto
immediatamente", e indicò la direzione delle
loro celle. Più tardi li raggiunse e fece loro una
bella predica: "Ieri vi avevo avvisato: niente
scherzi di cattivo gusto. E oggi ci risiamo! Che
razza di amici siete? Possibile che dobbiate
sempre combinare guai?". Non fu facile
addormentarsi quella sera. Apemaia pensava:
"Se non avessi cominciato io, forse Willi non
avrebbe fatto il fantasma oggi... ". E Willi
diceva tra se: "Avrei anche potuto lasciar
perdere. Apemaia si è così spaventata... ".
Entrambi fecero il buon proposito di non
architettare altri scherzi, e solo allora
riuscirono a prendere sonno.
Il giorno dopo, Cassandra lavorò alacremente.
Stava costruendo nuovi favi per raccogliere il
miele, e lo faceva con molto impegno.
Era ancora così infastidita da quello che era
successo la sera prima. che non rivolse una
parola ne a Willi né ad Apemaia. I due le
giravano intorno con un fare servizievole per
farsi perdonare i loro misfatti. Portavano le
scaglie di cera per rendere più solido il nuovo
favo, raccoglievano i pezzi caduti, portavano
le ampolle di miele da travasare, passavano a
Cassandra tutti gli attrezzi necessari. Avevano
capito la lezione e si impegnavano ad essere
delle brave api. Il pomeriggio andarono a
lezione e fecero i compiti con molta
attenzione. Era bello imparare a diventare una
vera ape, ed erano contenti di far parte di una
così laboriosa famiglia.
Cassandra spiegava come l'alveare
funzionasse a perfezione grazie al lavoro di
tutti quanti. Durante le altre lezioni Apemaia e
Willi avevano conosciuto le varie mansioni di
un'ape: la nutrice che si cura dei piccoli,
l'esploratrice che indica il luogo dove trovare
nuovi fiori, la bottinatrice che raccoglie il
nettare e il polline rifornendo di cibo l'alveare,
la costruttrice che fabbrica i favi, l'ape della
pulizia che prepara le celle vuote per il
deposito delle uova e le pulisce con una
sostanza simile alla lacca, l'ape guardiana che
sorveglia l'entrata dell'arnia. Ogni ape,
secondo la sua età, svolgeva ognuna di queste
mansioni: prima una, poi l'altra, poi l'altra
ancora.
"Ma", disse Cassandra, "non è tutto qui. Ci
sono delle api che, specie d'estate, si occupano
del raffreddamento dell'alveare".
"Raffreddamento?", domandò Willi, "che
cosa vuol dire?". "Vuol dire", rispose
Cassandra, "far circolare l'aria fresca dentro
l'alveare, altrimenti con il caldo la cera si
scioglie. Per questo alcune api agitano
rapidamente le ali per raffreddare l'aria e, se
questo non basta, vanno a prendere l'acqua".
"L'acqua? E cosa ci fanno con l'acqua?",
domandò Apemaia incuriosita. "Vedi,
Apemaia", continuò Cassandra, "l'acqua con il
caldo evapora, e rinfresca l'ambiente. Hai mai
visto le api spruzzatrici? Ecco, proprio loro
spruzzano l'acqua portata all'alveare dalle più
anziane, e in questo modo la cera non si
scioglie".
"Senti, Cassandra", intervenne Willi, "non ci hai
mai parlato delle api guerriere".
"È vero", disse Cassandra, "ma aspettavo il
momento giusto. L'ape guerriera è colei che ci
difende, quando veniamo attaccate da un
nemico. È un'ape eroica. Dà la sua vita per
proteggere quella di tutte noi. Conosce tutti i
trucchi del nemico: la rapidità della lingua del
rospo, lo scricchiolio del tarlo della cera, il passo
dell'orso, il verso dell'uccello tiranno che
succhia il nettare dall'alveare, il passo felpato
della moffetta, che non riuscendo ad entrare
nell'alveare ci disturba per farci uscire e poi ci
assale". "E con che cosa combatte",
domandò Apemaia, "dove tiene le sue armi?".
"Ecco il punto. Ognuna di noi ha un'arma, e
anche voi presto l'avrete. Ma bisogna saperla
usare bene. L'ape guerriera combatte con il
suo pungiglione. È un'arma formidabile. Punge
il nemico, a volte in modo mortale. Ma punge
una volta sola perché, dopo aver sferrato il
colpo, l'ape muore. Per questo vi ho detto che
l'ape guerriera è eroica". "E noi, quando
avremo il nostro pungiglione", domandò Willi,
"e quando potremo combattere come le api
guerriere?".
"Calma, Willi", rispose Cassandra, "prima o poi
spunterà anche a te. Ma ricorda: dovrai usarlo
solo per difenderti e mai per attaccare".
Quella sera, Apemaia andò a dormire
pensando al suo pungiglione. Non era ancora
spuntato, e non c'era proprio alcun segno che
potesse anticiparne la comparsa.
Fece un sogno strano. Difendeva l'alveare da
un'invasione di calabroni e per combatterli
usava tutti i mezzi che poteva: scope, cera sul
pavimento per fare scivolare il nemico, reti
davanti alle porte e alle finestre, così che non
potessero entrare. Alla fine il nemico se ne
andò in tutta fretta, ma quanta fatica per
fargli fronte. Apemaia si svegliò con le ossa
tutte rotte; aveva l'impressione di averla
combattuta veramente quella battaglia, e non
riusciva a spiegarsi il perché di tanta
stanchezza, visto che si trattava solo di un
sogno. Si alzò con fatica dal suo letto, fece
qualche passo e andò a specchiarsi.
"E questo che cos'è?", disse, guardando
quella cosa nera che non s'era mai vista. "Vuoi
vedere che... ma sì, evviva! Sono diventata
grande! Mi è spuntato il pungiglione! ".
Con il pungiglione nuovo, Apemaia era
davvero un'ape adulta. Poteva volare verso le
avventure più belle.
II
Gli amici del bosco.
III
Una nuova conquista.
L'estate stava ormai per arrivare e l'alveare
era affollato dalle api che si affaccendavano
nella raccolta del nettare, nella costruzione di
nuovi favi e nell'istruzione delle nuove nate.
Apemaia e Willi, amici inseparabili, cercavano di
rendersi utili. Non erano ancora abbastanza
grandi per uscire con le api operaie a
raccogliere il polline e il nettare dei fiori, non
erano ancora abbastanza grandi per montare
la guardia all'ingresso dell'alveare, non erano
ancora abbastanza grandi per aiutare il dottor
Bua nella ricerca di nuove medicine. Insomma,
erano due api in attesa di diventare vere api.
Passavano la maggior parte del loro tempo
insieme con le compagne, nella scuola di
Cassandra, e quando non erano a scuola
gironzolavano per il bosco in cerca di
avventure, di amici e, a volte, anche di guai.
"Uffa, Willi, io mi annoio", disse Apemaia
all'amico, "cerchiamo di inventare qualcosa
per divertirci". Ma divertirsi non era una cosa
facile, perché nell'alveare non era permesso
giocare liberamente. Se si correva per i
corridoi, c'era sempre qualche operaia che
protestava perché si intralciava il suo lavoro; se
si chiudevano le porte per giocare a
nascondino, erano le api ventilatrici a
protestare perché le porte chiuse impedivano
all'aria fresca di circolare e di raffreddare i favi
dell'arnia. L'unica soluzione era quella di
andare a giocare nel prato.
Apemaia si alzò in volo e con un'ampia
giravolta andò a posarsi ai piedi di un fiore che
aveva gli stami lunghi lunghi. Si fermò ad
osservare pensierosa la forma di quei fili che
pendevano dall'alto e ad un tratto esclamò:
"Ci sono! Facciamo la giostra!". Willi dovette
farsi spiegare più volte il progetto e alla fine
provò a mettere in pratica l'idea dell'amica.
Apemaia aveva pensato di utilizzare gli stami
del fiore proprio come delle liane. Bastava una
leggera spinta, e il gioco era fatto.
Sedute sull'estremità dello stame, le api
giravano vorticosamente: "Vooomm! Dài, più
forte!
Vooommm!", gridava Apemaia, felice della
sua trovata.
Ma, come si sa, dei giochi ci si stanca presto.
Bisognava inventare qualcos'altro.
Willi era sdraiato con la pancia in aria a
guardare le nuvole. "Guarda, Apemaia, quella
nuvola sembra un barboncino!".
"Un barboncino? Ma no, Willi, sembra una
pecora!", rispose Apemaia con il naso per aria.
"E io dico che è un barboncino!", replicò Willi.
"E io dico che è una pecora", insistette
Apemaia. Ben presto tutte le api stavano con il
naso per aria a guardare la nuvola che ad
alcuni sembrava un barboncino, per altri
somigliava ad una pecora.
"Andiamo a vedere da vicino", propose
Apemaia, "se voliamo in alto in alto forse
riusciamo a stabilire chi ha ragione".
Partirono tutti insieme e volarono in direzione
della nuvola. Salirono sempre più in alto, ma
alla nuvola non si arrivava mai.
"Apemaia, guarda giù! Mamma, come è
diventato piccolo il mondo", disse Willi che
incominciava ad avere paura. Da quell'altezza
la farfalla dalle grandi ali, che si riposava su un
fiore, non sembrava più grande di un
moscerino, e l'alveare somigliava alla casetta
dei nani. La nuvola, al contrario, diventava
sempre più grande. Non aveva né la forma di
una pecora né quella di un barboncino. Vista
da vicino sembrava una grande montagna
tutta di latte e miele.
Ritornarono sulla terra lasciandosi portare dal
vento e quando atterrarono sul prato tutti si
accorsero della faccia verde di Willi. Il poverino
soffriva di vertigini, e quell'escursione verso la
nuvola gli aveva fatto venire un bel capogiro.
Camminava barcollando a destra e a sinistra e
non riusciva a stare in equilibrio; inciampava
nell'erba, urtava i fiori, sembrava un ubriaco.
Apemaia lo guardava stupita. Non aveva mai
visto nessuno ridotto in quelle condizioni.
"Vedo doppio", gemeva Willi, "mi manca la
terra sotto i piedi!". Lo fecero sdraiare
all'ombra di una grande foglia, e cercarono di
coprirlo con i petali di un fiore.
"Povero amico mio", lo confortò Apemaia,
"stai proprio male!". Le altre api sventolavano
delle foglie di menta sotto il naso del
poveretto, cercando di fargli riprendere i sensi.
Qualcuno era andato allo stagno a prendere
un po' d'acqua; ma anche gli impacchi con il
muschio non servirono a rianimare il
malcapitato.
Apemaia allora decise di andare all'alveare a
chiamare il dottor Bua, che certamente
avrebbe saputo come curare il mal di vertigini.
Stava dando le ultime istruzioni alle amiche
quando vide arrivare Flip.
"Flip, presto, vieni qui!", gridò. "Willi sta molto
male, dobbiamo correre a chiamare il dottor
Bua".
"Vieni, sali sulla mia schiena", rispose Flip, "in
tre salti saremo all'alveare".
E, così dicendo, spiccò un balzo sulle sue agili
zampe e partì alla volta dell'arnia.
Il dottor Bua ascoltò il racconto di Apemaia e,
presa la borsa dei suoi arnesi, volò da Willi.
"Altro che mal di vertigini", sentenziò dopo
aver visitato il malato, "questo è un classico
caso di mal di fifa. Una buona iniezione di
coraggio sistemerà tutto!".
Alla parola "iniezione", Willi aprì gli occhi,
scattò in piedi e urlò ai quattro venti: "Sto
benissimo, sono guarito, mi è passato tutto". E
approfittando dello stupore dei presenti si
allontanò in fretta e furia dalla siringa del
dottor Bua.
"Meno male", disse Apemaia, "quel buffone ci
aveva fatto prendere uno spavento!".
Ritornarono tutti insieme all'alveare,
commentando le avventure di quella mattina.
Cassandra aveva rimproverato Apemaia
perché non avrebbe dovuto portare Willi così
in alto: "Oggi resterete qui vicino, non voglio
che corriate altri rischi".
Infatti quel pomeriggio Apemaia e Willi si
dedicarono all'esplorazione dello stagno.
Descrissero sul loro quaderno tutte le piante
che nascevano nell'acqua, disegnarono i fiori
delle ninfee, si divertirono a far rimbalzare
sulla superficie dello stagno alcuni sassolini
larghi e piatti.
"Il mio ha fatto quattro salti", diceva Willi.
"Guarda questo", rispondeva Apemaia
facendo rimbalzare un sassolino sull'acqua
cinque volte.
Lo stagno affascinava i due amici. Con una
foglia, un rametto e un guscio di noce
Apemaia aveva costruito una barchetta che
galleggiava dolcemente. Willi la spingeva verso
il largo e Apemaia volava a riprenderla e la
riportava verso la riva.
Faceva caldo quel giorno, e la superficie
dell'acqua dello stagno era liscia e splendente
come uno specchio. I due amici incominciarono
a scherzare: "Io sono l'ape più bella! Guarda
come l'acqua riflette la mia immagine!",
diceva Apemaia sfilando davanti a Willi e
imitando il passo di una perfetta indossatrice.
"Io sono il mostro delle acque!", rispondeva
Willi, facendo le boccacce che l'acqua, appena
increspata, rendeva ancora più comiche.
Ad un tratto, un'ombra scura scivolò sotto di
loro. Era un pesce che da tempo studiava i
movimenti delle due api. Aveva intenzione di
farsi un bel pranzetto e quelle due sciocchine
capitavano a proposito.
"Cosa sarà", domandò Willi un po'
preoccupato, "l'hai visto anche tu?".
"Ma dài, fifone, oggi basta con gli scherzi",
rispose Apemaia. "Sarà l'ombra di... ".
Ma mentre parlava, il pesce saltò fuori
dall'acqua e aprì la sua grande bocca cercando
di catturarla.
Fu questione di un momento: Apemaia si
aggrappò con tutte le forze alla foglia di una
canna, che la rilanciò per aria. Il pesce era
ritornato nell'acqua con la pancia vuota.
"Che paura!", esclamò Apemaia. "Io non
sapevo che i pesci mangiassero le api... Willi,
andiamo via, questo non è un posto per noi".
L'amico era ben felice di allontanarsi dallo
stagno; l'idea di finire nella pancia di un pesce
non gli piaceva affatto. Quella sera preferirono
non raccontare a nessuno quello che era
successo.
Temevano un altro rimprovero di Cassandra e
non volevano rischiare di finire subito a letto
senza la cena.
"Domani saremo più prudenti", disse
Apemaia, "è ora di renderci utili. Vedrai, Willi,
troveremo il modo di dimostrare che non
siamo più soltanto degli scolari".
Si dice che la notte porti consiglio ma di consigli
Apemaia, quella notte, non ne aveva trovati. Il
giorno dopo decise di andare a trovare Curt,
lo scarabeo della rosa, per chiedergli qualche
idea in prestito. "Non sappiamo come fare per
dimostrare che siamo cresciuti", disse Apemaia
a Curt, "ci trattano sempre come neonati... ".
Curt aggrottò la fronte, ci pensò un
momentino e poi rispose: "Potreste rendervi
utili segnalando i pericoli che ci sono. Voi
andate sempre in giro... ecco, ho trovato!
Potreste annotare tutti i posti che vi sembrano
pericolosi e riferire alle api operaie di fare
attenzione... ".
"Ottima idea", esclamò Apemaia, "partiamo
subito!".
Era un compito rischioso: per segnalare i
pericoli bisognava andarli a cercare. Sarebbero
stati abbastanza prudenti quei due?
Curt era grande e grosso e sapeva difendersi,
ma Apemaia e Willi erano così distratti!
Quando Flip seppe che le due api volevano
ficcarsi nei guai, decise di andare con loro, per
evitare il peggio.
Arrivò al momento giusto. Apemaia aveva
trovato, tesa tra due rami, una vecchia
ragnatela abbandonata dal suo padrone, e si
divertiva a saltarvi sopra. "Guarda Flip, è
meglio di un tappeto elastico, rimbalza che è
un piacere!", esclamò quando vide l'amico.
Fece un salto, poi ancora un salto, finché un
filo della ragnatela non si ruppe e cominciò ad
imprigionarle le ali. Apemaia non riusciva a
districarsi da quel groviglio. Ci volle l'aiuto di
Willi e di Flip per liberarla. "Accidenti", esclamò,
"non riuscivo più a muovermi!".
Allora Flip le spiegò che il ragno tesseva la sua
tela proprio allo scopo di catturare le prede.
"Sei stata fortunata, perché questa ragnatela
non è abitata. Se ci fosse stato il ragno, avresti
fatto una brutta fine!".
Flip stava concludendo la sua predica quando
videro avvicinarsi di gran corsa un topo con gli
occhiali. Arrivava tutto trafelato e si
proteggeva con il cappello di un fungo.
"A-a-a-aiuto! I ne-ne-nemici!", gridava
balbettando, "di-di-dicono che c'è la-la-
l'attacco!". Apemaia lo fermò e volle sapere
chi erano i nemici che attaccavano.
Il topo non era certo veloce nelle sue
spiegazioni. Balbettava così tanto che gli ci
voleva un'eternità a mettere insieme un'intera
frase. Ma il succo era chiaro. Aveva sentito
qualcuno nel bosco dire che fra breve l'alveare
sarebbe stato rapinato. Non era riuscito a
sapere chi fosse l'artefice di un simile piano ma
aveva sentito chiaramente la parola "rapina".
"L'alveare è in pericolo", esclamò Apemaia.
"Willi, corriamo ad avvisare le api guerriere!".
E spiccarono il volo alla volta dell'alveare. Non
fu facile convincere le api guerriere, sempre
prudenti, che l'alveare era in pericolo.
Nessuno voleva credere a quei due mocciosi
perditempo che se ne stavano tutto il giorno a
zonzo. "Su, tornate a giocare, piccine, a
difendere l'alveare ci pensiamo noi!", risposero
le api guerriere.
Apemaia insisteva. Non voleva andarsene e
così dovettero usare la minaccia delle loro
lance per togliere di mezzo quella piccola
peste. Willi convinse l'amica che non c'era altro
da fare che tornare nel bosco dove avrebbero
cercato di sapere qualcosa di più preciso.
Se il topo aveva sentito parlare di una rapina
all'alveare, forse c'era qualche altro animale
che sapeva qualcosa.
Andarono a casa di Flip e studiarono bene il da
farsi. Innanzitutto bisognava interrogare più
gente possibile, ma non a caso; bisognava
consultare animali della terra e animali del cielo
per stabilire da dove potessero provenire
questi nemici.
pemaia si recò a trovare due signorine
scarabee note per la loro arte nel pettegolare.
"Sapete nulla riguardo a una rapina
all'alveare?", domandò Apemaia ansiosa di
scoprire la verità. "Rapina?", fecero quelle in
coro. "Ma non si tratta di rapina, mia cara,
circola voce che si prepari un attentato alla
vostra Regina". "Un attentato? E chi ve lo ha
detto?", indagò Apemaia.
"Oh, nessuno in particolare, mia cara. È una
voce, e le voci circolano, ma non si sa mai da
dove vengano".
Era troppo. Prima una rapina, ora un
attentato.
A questo punto la cosa era grossa per
davvero.
"Potete indicarmi qualcuno che possa darci
altre informazioni?", domandò Apemaia alle
signorine scarabee. "Forse Puch, la mosca, ma
non prendete per oro colato tutto quello che
dice. Quelle lenti che porta sugli occhi le fanno
vedere le cose un po' deformate...". Chissà
dov'era Puch in quel momento.
Apemaia sapeva che Puch passava la maggior
parte del suo tempo nella casa dell'Uomo a
curiosare. E, se non era là, poteva essere
dappertutto. Come fare a rintracciarla?
Tornò da Flip e da Willi, che nel frattempo
avevano indagato presso alcune lucciole.
"Si dice", raccontò Flip, "che qualcuno voglia
incendiare l'alveare".
"Incredibile", disse Apemaia, "a me hanno
detto che vogliono fare un attentato alla
Regina. Ma chi ha intenzione di disfarsi delle
api?". Willi, che fino a quel momento era
rimasto in disparte, espose i suoi dubbi:
"Questa storia puzza! Prima la rapina, poi
l'attentato, adesso l'incendio. C'è qualcuno
che si diverte alle nostre spalle". "Sarà",
rispose Apemaia, "comunque è uno scherzo di
cattivo gusto. E poi non si può mai sapere;
potrebbe essere tutto vero... ".
Decisero di andare a cercare Max e di sentire
se nelle viscere della terra, dove lui abitava, si
raccontasse qualcosa del genere.
Ma, mentre volavano verso la tana di Max, dal
cielo incominciarono a scendere alcune gocce
di pioggia. "Impossibile volare con questo
tempo", disse Apemaia, "come facciamo?".
Flip aveva una soluzione per tutto. Fece
riparare gli amici sotto il calice di un fiore in
attesa che il tempo tornasse bello.
Che strana la natura quando piove! Apemaia
osservava il verde dell'erba, che sotto la
pioggia era diventato ancora più brillante.
I petali dei fiori ricevevano le goccioline
d'acqua e le facevano rotolare dentro il calice,
come se fossero preziose perle da raccogliere.
La terra profumava di pulito e tutt'intorno
risuonava una musica lieve. "Din-din-din",
facevano le gocce di pioggia dentro lo stagno.
"Flap, flap, flap", suonavano al contatto con le
foglie della grande quercia. Com'era bella la
natura! "È proprio un bel regalo", pensava
Apemaia sotto il suo fiore, "deve essere
proprio buono chi ha fatto tutto questo!".
Non era possibile credere che in un mondo
così bello ci fosse qualcuno che progettasse
rapine, attentati, incendi. Eppure, quel giorno
non aveva sentito parlare d'altro.
Appena la pioggia cessò, Flip, Willi e Apemaia
andarono alla tana di Max. Anche lui aveva
sentito parlare di qualcosa ma non aveva
capito bene e non sapeva spiegare se si
trattasse di una rapina piuttosto che di un
attentato o di un incendio.
Non restava che andare a cercare Puch, per
sapere da lei qualcosa di più preciso. L'aria era
ancora umida e Apemaia non riusciva a volare
bene. "Attaccati alla mia coda", disse Max, "ti
porterò io". Apemaia non era mai andata a
cavallo di un lombrico e trovava il viaggio
abbastanza piacevole, anche se gli scossoni
non mancavano.
Nessuno aveva visto Puch quel giorno.
"Forse, a causa della pioggia", pensò
Apemaia, "sarà rimasta nella casa dell'Uomo.
Dovremo rinunciare a sapere qualcosa da lei".
Era quasi buio, e Willi insisteva per fare ritorno
all'alveare. Gli amici si diedero appuntamento
per il giorno dopo e si salutarono. Quando
Apemaia entrò nell'alveare incontrò due api
operaie che parlavano tra loro. "Eppure li ho
sentiti con le mie orecchie", diceva una,
"raccoglievo il nettare da una rosa e ho
sentito che parlavano proprio di noi,
dell'alveare. Dicevano che molto presto ci sarà
una rapina".
Apemaia allora andò a cercare Cassandra.
Voleva parlarle di tutta questa storia piena di
rapine e attentati, e chiederle consiglio.
La trovò che parlava con un'ancella della
Regina, a bassa voce per non farsi sentire dal
resto della scolaresca. Anche se non era una
cosa molto educata, Apemaia si nascose dietro
alla porta e stette ad origliare. Cassandra
diceva che nel bosco aveva inteso parlare di un
incendio. "Capirai, se appiccano il fuoco
all'alveare è la fine". "Bisogna informare la
Regina", rispose l'ancella. "Ma no, forse è
meglio aspettare", la rassicurò Cassandra con
prudenza. "Dunque i sospetti non sono solo
miei", pensava Apemaia.
Prima di andare a letto si accorse che davanti
ad ogni porta e dietro ogni finestra era stato
rafforzato il numero delle guardie. Erano tutte
molto nervose, camminavano avanti e
indietro, attente ad ogni rumore sospetto, ad
ogni ombra e ad ogni spostamento d'aria.
Nessuno dormì bene, quella notte: Willi per
paura dei ladri, Cassandra per paura
dell'incendio, Apemaia per paura che qualcuno
potesse far del male alla Regina. E le api
guerriere non dormirono affatto.
La mattina dopo ognuno riprese il suo lavoro e
Apemaia e Willi si recarono all'appuntamento
con Flip e Max. Anche loro non erano riusciti a
dormire quella notte.
Max, in particolare, si era arrotolato nella sua
tana senza riuscire a prendere sonno e aveva
continuato a pensare a quelle strane storie. Si
era ricordato che da un paio di giorni non
aveva più visto Tecla, un losco personaggio
sempre avido di bottino e desideroso di
prendere nella sua rete anche Apemaia. "Ci
siamo", esclamò Flip, "quando quella
scompare, nessuno riesce più a dormire
tranquillo!".
Come fare a scovarla? Apemaia era decisa a
tutto. "Muoviamoci, chiederemo notizie a tutti
gli animali del bosco", disse col solito
entusiasmo.
E si diresse verso lo stagno.
Quando arrivarono sulla riva videro uno
spettacolo strano: tutte le rane scappavano a
gran velocità. Uscivano dall'acqua e si
nascondevano dentro i cespugli tutt'attorno
allo stagno, gracidando a perdifiato.
"Che cosa succede?", domandò Flip ad una
rana che gli passava accanto. "Qualcuno dice",
rispose quella affannata, "che l'acqua dello
stagno è stata avvelenata!".
"Povere noi", gemeva la più anziana, "come
faremo senz'acqua?".
"Anche questa è una storia che puzza",
esclamò Willi, "se l'acqua fosse avvelenata i
pesci sarebbero morti già da un pezzo. Invece
non c'è alcun segno di pesce morto!".
"Bravo Willi, questo è vero", ammise Apemaia,
"ma chi può avere interesse a far scappare le
rane dallo stagno?".
Flip era pensieroso. Tutta quella storia non gli
piaceva. C'era qualcuno che voleva
allontanare gli animali del bosco per restarne
l'unico proprietario. "Mi sembra di conoscerlo
questo tipo", disse Flip preoccupato, "di certo
a mettere in piedi tutta questa storia è stata
Tecla. Ma come possiamo fare per
smascherarla? ".
Apemaia pensava. Willi pensava, Max pensava,
Flip pensava. Ma tanti pensatori non riuscivano
a produrre tutt'insieme neanche una mezza
idea. Ad un certo punto Flip parlò. Era calmo e
aveva l'aria di un vecchio saggio. "Sentite",
disse agli amici, "quello che ha fatto Tecla non
è bello ma noi non possiamo proprio agire allo
stesso modo. Non servirebbe. Dobbiamo
cercarla e parlarle, con molta semplicità,
facendole capire che non le serbiamo rancore
per il suo misfatto".
Apemaia era d'accordo con Flip. Bisognava
andare a cercare Tecla e dimostrarle che si
può essere buoni con chi ha sbagliato.
Dove poteva essersi rifugiato un vecchio
ragno, in attesa che il suo malvagio progetto si
realizzasse fino in fondo?
Certo, in un posto da cui si potesse dominare la
situazione e tenere sott'occhio tutti i vari
spostamenti.
"Dalla grande quercia", disse Max, "si può
vedere tutto il prato, il bosco e l'alveare. Io lo
so perché quando sono triste striscio fin lassù e
cerco di guardare la vita sotto un'altra
prospettiva...". Sicuro, Tecla non poteva essere
che lassù. Si affrettarono a raggiungere la
grande quercia e senza fare rumore salirono
fin sulla cima.
Tecla dormiva dentro un nido abbandonato,
con il vecchio cappello in testa e il naso tutto
rosso come al solito. "Povera vecchia", pensò
Apemaia, "come dev'essere triste vivere così
soli, senza nessun amico".
Flip chiamò Tecla e le disse che alcuni amici le
volevano parlare. Fu davvero molto
conciliante. "Amici? Io non ho amici! Presto
sarò la padrona di tutto il bosco...".
"Lo sappiamo", rispose Apemaia, "hai cercato
di spaventarci perché volevi restare sola. Volevi
prenderti tutto il nostro miele, tutti i moscerini
dello stagno, e avere il bosco tutto per te".
"Ma", interruppe Flip, "non ce l'abbiamo con
te per quello che hai fatto. Noi vogliamo
esserti amici".
"Se tutti se ne fossero andati come volevi tu",
disse Willi con fare commovente, "nel bosco
non ci sarebbero più il grillo che canta, gli
uccellini al mattino, le lucciole la notte. Come
faresti a vivere così da sola?".
Tecla guardava quei quattro e cominciava a
sentirsi dentro qualcosa di strano.
Era vero quello che diceva Apemaia: lei aveva
messo in giro quelle voci perché voleva restare
l'unica padrona del bosco. Ma era vero anche
quello che diceva Willi: la vita senza gli altri
animali sarebbe stata ben triste. Quella povera
vecchia, in fondo, aveva il cuore buono. Era
stata la solitudine della sua vita a ridurla così.
Chiese perdono agli amici per quello che aveva
fatto, e pregò Apemaia di aiutarla ad essere
come loro, una di loro. "Ma certo", esclamò
Apemaia, "coraggio, vieni con noi!". E salì sulle
sue spalle, felice di aver riportato l'armonia
nella vita del bosco e di aver conquistato un
amico in più.
IV
La festa.