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Ladri

di Biblioteche
Indice
Dedica
Ringraziamenti
Introduzione
1. Uomini divini nell’antichità greco-romana

Una vita straordinaria

Storia e leggenda di Apollonio


Apollonio e Gesù

Tre modelli di uomini divini

Dèi che diventano temporaneamente umani


Esseri divini nati da un dio e da un mortale
Un uomo che diventa divino

Romolo
Giulio Cesare
Cesare Augusto
Il culto dell’imperatore
Un comune mortale: la morte di Peregrino
Uomini divini in Grecia e a Roma
La piramide divina
Gesù e il regno divino

2. Uomini divini nell’antico giudaismo

Il giudaismo nel mondo antico


Credenze ebraiche predominanti
Uno spettro divino nel giudaismo?
Divinità che assumono sembianze umane

L’Angelo del Signore come dio e uomo


Altri angeli come dèi-uomini
Uomini che diventano angeli

Esseri divini che generano esseri semidivini


Altre figure divine non umane

Il Figlio dell’Uomo
Le due potenze celesti
Ipostasi divine

Sapienza
La Parola
Uomini che diventano divini

Il re d’Israele
Mosè come Dio

Uomini divini ebraici

3. Gesù si credeva Dio?

Il Gesù storico: problemi e metodi

Problematiche dei Vangeli


Metodi

Il contesto socio-culturale di Gesù

Dualismo
Pessimismo
Giudizio
Imminenza

Gesù apocalitticista

Attestazioni indipendenti del messaggio apocalittico di Gesù


Discontinuità e messaggio di Gesù
L’inizio e la fine come chiavi per quanto sta in mezzo

Chi si credeva di essere Gesù?

Il messia ebraico
Gesù come messia

Gesù si credeva il messia?


Gesù sosteneva di essere Dio?

4. La resurrezione di Gesù: cosa non possiamo sapere

Perché gli storici hanno difficoltà a discutere della resurrezione

La resurrezione nei Vangeli


Gli scritti dell’apostolo Paolo
La resurrezione e lo storico

La resurrezione: cosa non possiamo sapere

Gesù ricevette davvero una degna sepoltura?

Considerazioni generali
Pratiche romane di crocifissione
Fosse comuni nell’antichità greco-romana
Il ruolo di Ponzio Pilato

La tomba vuota
Le donne alla tomba: un’invenzione?
La necessità della tomba vuota
5. La resurrezione di Gesù: cosa possiamo sapere

La fede dei discepoli

La resurrezione di un corpo spirituale


La resurrezione dello spirito
La resurrezione del corpo mortale

Le visioni di Gesù

L’importanza delle visioni per la fede nella resurrezione


Terminologia: cosa sono le «visioni»?
Chi ebbe le visioni? La «tradizione del dubbio»
Le visioni: una prospettiva più ampia
Visioni provocate dal lutto
Visioni di alte figure religiose

La Beata Maria Vergine


Le apparizioni di Gesù nel mondo moderno

Le visioni di Gesù avute dai discepoli

La nascita della fede

6. La nascita della cristologia: Cristo esaltato in cielo

Le credenze dei primi cristiani

Le prime fonti cristiane


Le fonti «dietro» le fonti: tradizioni preletterarie

L’esaltazione di Gesù

Romani 1:3-4
I discorsi degli Atti
Luca e le sue tradizioni antiche

Le prime cristologie
Il movimento a ritroso della cristologia

Gesù come Figlio di Dio al battesimo


Gesù come Figlio di Dio alla nascita

7. Gesù come Dio in terra: le prime cristologie dell’incarnazione

Esaltazione e cristologie dell’incarnazione


La cristologia dell’incarnazione in Paolo

Cristo come angelo in Paolo


Il poema a Cristo nella Seconda Lettera ai Filippesi

L’inno dei Filippesi come tradizione pre-paolina


L’inno a Cristo e Adamo
L’inno a Cristo e la cristologia incarnazionale
Altri brani paolini

La cristologia dell’incarnazione in Giovanni

Proclami esaltati su Gesù in Giovanni


Il Prologo di Giovanni

Il Prologo come poema preletterario


L’insegnamento del Prologo
Altre tracce di cristologie incarnazionali

La Lettera ai Colossesi
La Lettera agli Ebrei

Oltre l’incarnazione

8. Dopo il Nuovo Testamento: vicoli ciechi cristologici del secondo e terzo secolo

Ortodossia ed eresia nella Chiesa antica


La negazione della divinità

Gli ebioniti
I monarchiani o adozionisti

La negazione dell’umanità

I docetisti nella Prima Lettera di Giovanni


I docetisti e Ignazio
I marcioniti

La negazione dell’unità

Gnosticismo cristiano
Una cristologia «separazionista»

Antiche etero-ortodossie cristiane

Modalismo
La cristologia di Origene di Alessandria

Vicoli ciechi e ampie strade delle cristologie antiche

9. Orto-paradossi sulla strada per Nicea

Gli orto-paradossi

L’orto-paradosso cristologico
L’orto-paradosso teologico

Giustino martire
Cristo come Angelo di Dio
Cristo come il Logos di Dio

Novaziano
Dionisio di Roma
Ario
Alessandro di Alessandria
La controversia ariana e il concilio di Nicea

Il ruolo di Costantino
Il concilio di Nicea
L’esito del concilio

Epilogo. Gesù come Dio: e poi?

Sviluppi del quarto secolo


Il Dio Cristo e il mondo pagano
Il Dio Cristo e il mondo ebraico
Il Dio Cristo e il mondo cristiano

Marcello di Ancira
Apollinare
Nestorio

Conclusione
E Gesù divenne Dio
L’esaltazione di un predicatore ebreo della Galilea
BART D. EHRMAN

Nessun Dogma
www.nessundogma.it info@nessundogma.it
Nessun Dogma è il progetto editoriale avviato dall’UAAR, l’associazione che rappresenta le istanze degli
atei e degli agnostici italiani, si impegna per affermare il principio costituzionale di laicità dello Stato,
promuove la diffusione del pensiero non religioso.
Maggiori informazioni sull’associazione sul sito www.uaar.it
I edizione Nessun Dogma dicembre 2017
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Roma.
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mezzo sono riservati.

Titolo originale: How Jesus Became God. The Exaltation of a Jewish Preacher from Galilee
Copyright © 2014 by Bart D. Ehrman. Published by arrangement with HarperOne, an imprint of
HarperCollins Publishers.
Traduzione di Michele Piumini
A Sarah
Ringraziamenti
Vorrei innanzitutto ringraziare gli studiosi che hanno letto la prima bozza di
questo libro, offrendomi pareri articolati e utilissimi. Se tutti noi potessimo
contare su amici e colleghi così acuti e generosi, il mondo sarebbe un posto
nettamente migliore. Li presento: Maria Doerfler, straordinaria ed eclettica
studiosa che ha appena esordito come assistant professor di Storia della Chiesa
alla Duke Divinity School; Joel Marcus, professore di Nuovo Testamento alla
Duke Divinity School, che da quasi trent’anni si dedica con passione a rivedere i
miei lavori ricoprendoli sistematicamente d’inchiostro rosso; Dale Martin,
professore di Nuovo Testamento a Yale, l’amico e collega che conosco da più
tempo, le cui analisi critiche rappresentano da tanti anni un modello per la mia
attività accademica; e Michael Peppard, assistant professor di Nuovo
Testamento alla Fordham University, che ho conosciuto solo di recente: un suo
libro, che citerò in queste pagine, ha esercitato un impatto fondamentale sulle
mie riflessioni.
Ringrazio anche l’intera redazione di HarperOne, in particolare l’editore Mark
Tauber, la coeditrice Claudia Boutote, la talentuosa ed energica addetta stampa
Julie Baker e soprattutto Roger Freet, redattore perspicace ed eccezionalmente
premuroso che ha reso migliore questo libro.
E Gesù divenne Dio è dedicato alla mia geniale e luminosa moglie, Sarah
Beckwith. Anni fa le ho dedicato un libro, ma siccome ogni giorno della mia vita
è consacrato a lei, ho pensato fosse tempo di dedicargliene un altro. È la persona
più straordinaria che abbia mai conosciuto.
Introduzione
Un predicatore ebreo di umili origini proveniente dall’entroterra rurale della
Galilea, condannato per attività illegali e crocifisso per crimini contro lo Stato:
ecco chi era Gesù. Eppure, poco dopo la sua morte, i suoi seguaci già lo
acclamavano come essere divino, arrivando infine a riconoscerlo niente meno
che come Dio, Signore del cielo e della terra. Ecco quindi l’interrogativo: cosa
portò un contadino crocifisso a essere ritenuto il Signore creatore di ogni cosa?
Come fece Gesù a diventare Dio?
Sono riuscito a cogliere la natura paradossale di questa domanda soltanto poco
tempo fa, durante una lunga passeggiata con una delle mie migliori amiche.
Chiacchierando, abbiamo toccato un’ampia gamma di argomenti familiari: libri,
film, riflessioni filosofiche. A un certo punto siamo finiti a parlare di religione.
La mia amica, a differenza mia, continua a considerarsi cristiana, perciò le ho
chiesto quale fosse il nucleo della sua fede. La sua risposta mi ha stupito: per lei,
il cuore della religione è l’idea che, in Gesù, Dio si è fatto uomo.
Se quelle parole mi hanno colto alla sprovvista è anche perché, fino a parecchi
anni fa, ne ero convinto io stesso. Ancora al liceo, meditavo a fondo sul «mistero
della fede» che troviamo, per esempio, in Giovanni 1:1-2, 14: «Nel Principio era
la Parola, la parola era con Dio, e la parola era Dio […] E la Parola è diventata
carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi
abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre». Prima
ancora, avevo professato apertamente e convintamente gli articoli del Credo
niceno, vale a dire che Cristo era
unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli,
Dio da Dio, Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza del padre.
Per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza
discese dal cielo;
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria,
e si è fatto uomo.

Con gli anni sono cambiato, però, e oggi, arrivato alla mezza età, non credo più.
Sono invece uno studioso del primo cristianesimo, che da quasi trent’anni
analizza il Nuovo Testamento e l’ascesa della religione cristiana dal punto di
vista storico. La mia domanda di oggi, per certi versi, è speculare a quella della
mia amica. A ossessionarmi non è più il dilemma teologico (come poté Dio farsi
uomo?), ma quello storico: come poté un uomo diventare Dio?
La risposta tradizionale, naturalmente, è che Gesù era davvero Dio, perciò
andava predicando di essere Dio e la gente ci credeva. Eppure, a partire dal tardo
Settecento vari studiosi hanno sostenuto che si tratta di un’interpretazione errata
del Gesù storico, producendo numerosi e persuasivi argomenti a sostegno della
loro tesi. Se hanno ragione, il problema rimane: com’era stato possibile? Come
mai i primi seguaci di Gesù presero a venerarlo come Dio?
In questo libro cercherò di affrontare la questione in maniera utile non solo
agli studiosi laici come me, ma anche ai credenti come la mia amica, tuttora
convinti che Gesù sia veramente Dio. Di conseguenza, non prenderò posizione
riguardo all’interrogativo teologico sulla sua natura divina. Mi interessano
invece le radici storiche dell’equiparazione fra Gesù e Dio, radici delle quali
devono esistere delle tracce. Quanto meno in teoria, le nostre convinzioni
personali su Cristo non dovrebbero influire sulle conclusioni storiche a cui
giungiamo.
L’idea che Gesù sia Dio, inutile dirlo, non è un’invenzione moderna. Come
spiegherò più avanti, era quello che pensavano i primissimi cristiani, appena
dopo la sua morte. Uno degli interrogativi su cui poggia questo studio è cosa
intendessero quei cristiani quando affermavano che «Gesù è Dio»: come
vedremo, la risposta cambia a seconda dei cristiani che prendiamo in
considerazione. Inoltre, per capire l’affermazione in quanto tale, dovremo
scoprire cosa intendeva la gente comune nell’antichità quando sosteneva che un
particolare essere umano era un dio, o che un dio si era fatto uomo. Non era
appannaggio esclusivo dei cristiani: Gesù è l’unico Figlio di Dio provvisto di
capacità miracolose che conosciamo nel nostro mondo, ma numerose erano le
persone, sia pagane che ebree, che si riteneva avessero natura umana e divina.
Già in questa fase iniziale, è importante chiarire un punto storico
fondamentale sul «regno divino» come ce lo immaginiamo. Utilizzando questa
espressione, mi riferisco a un «mondo» popolato da esseri ultraterreni e divini:
Dio, o gli dèi, o altre forze sovrumane. Per la maggior parte delle persone, oggi,
la divinità è una dimensione che non ammette mezze misure: o sei Dio o non lo
sei. Dio è «lassù», nel regno dei cieli, noi «quaggiù» nel nostro regno. Tra i due
esiste una voragine incolmabile. Partendo da una prospettiva simile, e radicata
così saldamente, è molto difficile pensare che una persona possa essere divina e
umana al tempo stesso.
Inoltre, se ragioniamo in termini di «bianco e nero», è relativamente facile
sostenere (come facevo io stesso prima di cominciare le ricerche per questo
libro) che i Vangeli di Matteo, Marco e Luca — nei quali Gesù non si descrive
mai in termini divini — ritraggono Gesù come uomo ma non come Dio, mentre
il successivo Vangelo di Giovanni — nel quale Gesù si descrive in termini divini
— lo ritrae invece come Dio. E tuttavia ci sono studiosi che dissentono
radicalmente e affermano che anche i primi Vangeli ritraggono Gesù come Dio.
Ecco spiegati i numerosi dibattiti tra i fautori della cosiddetta «cristologia alta»,
che vede Gesù come essere divino («alta» perché Gesù avrebbe origine «lassù»,
con Dio; cristologia significa letteralmente «interpretazione di Cristo»), e quelli
della cosiddetta «cristologia bassa» che lo vede come essere umano («bassa»
perché Gesù avrebbe origine «quaggiù», con noi). E dunque, qual è la natura del
Gesù ritratto nei Vangeli, divina o umana?
Col tempo, mi sono convinto che le divergenze fra i due tipi di cristologia
siano parzialmente dovute al fatto che gli studiosi si basano sul paradigma che
ho appena illustrato: il regno divino e quello umano nettamente distinti, separati
da un’enorme voragine. Il problema è che quasi tutte le popolazioni antiche —
cristiane, ebree o pagane che fossero — non la pensavano così. Per loro, il regno
umano non era una categoria assoluta e separata dal regno divino per mezzo di
un varco gigantesco e incolmabile. Viceversa, tra umano e divino esisteva un
continuum che portava le due dimensioni a sovrapporsi.
Nel mondo antico, si riteneva esistessero varie possibilità di incrocio tra
l’umano e il divino. Ecco le due fondamentali, ricavate da fonti cristiane,
ebraiche e pagane (ne presenterò altre più avanti):
Per adozione o esaltazione. Un essere umano (per esempio un grande sovrano, un guerriero o
una persona devota) poteva essere innalzato a un rango divino che prima non possedeva per atto
di Dio o di un dio.
Per natura o incarnazione. Un essere divino (per esempio un angelo o un dio) poteva diventare
umano, per sempre o — più spesso — temporaneamente.

Una delle mie tesi è che un testo cristiano come il Vangelo di Marco interpreta
Gesù nel primo senso, come essere umano diventato divino, mentre il Vangelo di
Giovanni lo interpreta nel secondo senso, come essere divino diventato umano.
Insomma, entrambi ritraggono Gesù come divino, ma in modi diversi.
Ecco perché, prima di discutere le molteplici posizioni dei primi cristiani su
cosa significasse assimilare Gesù a Dio, preparerò il campo illustrando come le
antiche popolazioni concepivano i regni sovrapposti del divino e dell’umano.
Nel capitolo 1 discuto le convinzioni radicate in Grecia e a Roma all’infuori del
giudaismo e del cristianesimo. Vedremo che esisteva sul serio una sorta di
continuum che permetteva una certa sovrapposizione fra esseri umani e divini: il
che non dovrebbe sorprendere i lettori che hanno dimestichezza con antiche
mitologie in cui gli dèi diventavano (temporaneamente) umani e gli umani si
trasformavano (definitivamente) in dèi.
Più sorprendente potrà risultare il capitolo 2, nel quale spiego che idee
analoghe esistevano anche nell’antico giudaismo. Un aspetto particolarmente
importante, dal momento che Gesù e i suoi primi seguaci erano ebrei da ogni
punto di vista. Scopriremo che anche fra gli antichi giudei erano in molti a
credere non solo che gli esseri divini (come gli angeli) potessero diventare
umani, ma che gli umani potessero diventare divini. C’erano addirittura persone
chiamate Dio: ne abbiamo testimonianza non soltanto in documenti extra-biblici,
ma persino — il che è ancora più stupefacente — nella Bibbia.
Dopo aver scoperto i punti di vista di pagani ed ebrei, passeremo al capitolo 3,
dedicato alla vita del Gesù storico e a una questione particolare: Gesù si definiva
Dio? Rispondere è difficile, soprattutto per via delle fonti a nostra disposizione
sulla sua vita e i suoi insegnamenti. Il capitolo si apre con una discussione sui
problemi che tali fonti — specie i Vangeli del Nuovo Testamento — pongono a
chi vuole ricostruire storicamente il ministero di Gesù. Fra le altre cose,
spiegherò come mai da oltre un secolo gli studiosi sostengono che Gesù vada
interpretato come profeta apocalittico dell’imminente fine di un’epoca e del
conseguente intervento di Dio, che avrebbe sgominato le forze del male per
instaurare il suo regno giusto. Una volta delineati i contorni del ministero di
Gesù, discuterò gli eventi che portarono alla sua crocifissione per mano di
Ponzio Pilato, governatore romano della Giudea. Non perderemo mai di vista
l’interrogativo iniziale: come si concepiva e si descriveva Gesù? Parlava di sé in
termini divini? La mia tesi è che non lo facesse. I primi tre capitoli possono
essere visti come scenario della nostra questione fondamentale: perché si arrivò
ad assimilare Gesù a Dio? Risposta breve: perché i suoi seguaci si convinsero
che fosse resuscitato dai morti.
Oggi si versano fiumi d’inchiostro sulla resurrezione: da una parte studiosi
credenti e apologeti, convinti che gli storici possano «dimostrare» che Gesù è
risorto, dall’altra gli scettici che non se la bevono. Si tratta evidentemente di una
questione fondamentale per le nostre riflessioni. Se i primi cristiani non avessero
pensato che Gesù fosse resuscitato, allora non lo avrebbero ritenuto diverso da
qualsiasi altro profeta sventurato e giustiziato per i suoi guai con la legge. Ma i
cristiani lo pensavano, e fu questo, secondo me, a cambiare tutto.
Dal punto di vista storico, sorge un interrogativo immediato: che cosa
possiamo sapere davvero della resurrezione? Toccheremo argomenti che sono
oggetto di accesi dibattiti, su alcuni dei quali ho cambiato idea durante le
ricerche per questo libro. Da anni ero convinto che, quali che siano le nostre
opinioni sulle storie riguardanti la resurrezione, potessimo essere relativamente
sicuri che subito dopo la morte Gesù avesse ricevuto degna sepoltura da parte di
Giuseppe di Arimatea, e che il terzo giorno alcune sue seguaci avessero trovato
la tomba vuota. Oggi non credo più che questi siano dati storici relativamente
certi: al contrario, penso che entrambe le circostanze (la sepoltura e la tomba
vuota) siano improbabili. Nel capitolo 4 discuto ciò che a mio parere noi storici
non possiamo sapere riguardo alle tradizioni sulla resurrezione di Cristo.
Il capitolo 5 è invece dedicato a ciò che ritengo possiamo sapere con certezza
quasi assoluta. La mia tesi è che le prove siano straordinariamente
inequivocabili: alcuni discepoli di Gesù sostenevano di averlo visto vivo dopo la
morte. In quanti, però, avevano avuto queste «visioni»? (Gesù era apparso
veramente oppure si trattava di allucinazioni? Per ragioni che illustrerò nel
capitolo, la questione verrà lasciata aperta.) Quando le avevano avute, e come le
avevano interpretate?
Il mio assunto generale è che questa fede nella resurrezione, fondata su
esperienze visionarie, avesse portato i discepoli (tutti? Solo alcuni?) a credere
che Gesù fosse salito in cielo per sedere alla destra di Dio come suo Figlio
unigenito. Nacquero così le prime cristologie, ovvero le prime interpretazioni di
Cristo come essere divino. Di queste letture delle fonti più antiche a nostra
disposizione, basate sull’«esaltazione», parlerò nel capitolo 6. Nel capitolo 7
esaminerò invece una serie di prospettive cristologiche sviluppatesi più tardi,
secondo le quali Gesù non era semplicemente un uomo esaltato al rango di
divinità, ma un essere divino preesistente in Dio sceso sulla terra in forma
umana. Illustrerò affinità e differenze fondamentali tra la visione del Cristo
«incarnato» e le precedenti cristologie dell’«esaltazione», esaminando inoltre
brani illuminanti per comprendere il punto di vista dei fautori dell’incarnazione
tratti da testi come il Vangelo di Giovanni, l’ultimo dei Vangeli canonici a essere
stato scritto.
Nei capitoli successivi scopriremo che i cristiani vissuti dopo la scrittura del
Nuovo Testamento — nel secondo, terzo e quarto secolo — elaborarono
ulteriormente le posizioni su Cristo: alcune finirono per essere bollate come
«eretiche» (sbagliate), altre vennero accettate come «ortodosse» (giuste). Il
capitolo 8 è dedicato ai «vicoli ciechi» eretici imboccati dai teologi cristiani del
secondo e terzo secolo: alcuni sostenevano che Gesù Cristo fosse pienamente
umano ma non divino; altri che fosse pienamente divino ma non umano; altri
ancora che si trattasse in realtà di due figure, una divina e una umana,
temporaneamente congiunte durante il ministero di Gesù. Tutte credenze che
vennero dichiarate «eresie», al pari di altre professate da figure cristiane che,
ironia della sorte, non cercavano altro che delle idee «ortodosse» a cui affidarsi.
I dibattiti sulla natura di Cristo non trovarono soluzione alla fine del terzo
secolo, ma i nodi vennero al pettine all’inizio del quarto, con la conversione
dell’imperatore Costantino alla fede cristiana. A quel punto la stragrande
maggioranza dei cristiani era fermamente convinta che Gesù fosse Dio, ma il
problema rimaneva: in che senso? È in questo contesto, agli albori del quarto
secolo, che prese vita la «controversia ariana» alla quale è dedicato il capitolo 9.
Ario, un potente teologo di Alessandria d’Egitto, era fautore di
un’interpretazione «subordinazionista» di Cristo: Gesù era sì Dio, ma si trattava
di una divinità secondaria, a un livello di gloria inferiore rispetto a Dio Padre;
inoltre, non era sempre esistito con il Padre. La dottrina alternativa era quella di
Alessandro, vescovo dello stesso Ario: Cristo esisteva da sempre con Dio ed era,
per natura, uguale a Dio. La scomunica di Ario portò alla composizione del
Credo niceno, ancora oggi recitato in chiesa.
Infine, nell’epilogo, discuterò le conseguenze di queste particolari
controversie teologiche. Quando i cristiani di tutto il mondo accettarono l’idea
che Gesù fosse da sempre Dio e uguale al Padre, quali furono le ripercussioni
sulle varie dispute in corso fra i cristiani e — per esempio — i romani che un
tempo li avevano perseguitati e il cui imperatore era diffusamente considerato un
dio? E sulle dispute fra cristiani ed ebrei, ora accusati di aver ucciso non solo
Cristo, ma addirittura Dio? E su quelle interne al cristianesimo sulla natura di
Gesù, destinate a continuare per lungo tempo e a farsi sempre più complesse? Si
tratta di dibattiti affascinanti e cruciali di per sé, ma io sono fermamente
convinto che non possano essere compresi senza conoscere la storia precedente.
Ecco perché nel nostro percorso cristologico rimarremo concentrati sulla
questione fondamentale: cosa portò i seguaci di Gesù ad attribuirgli una natura
divina, in qualunque senso del termine? Cosa li convinse che Gesù, il
predicatore crocifisso arrivato dalla Galilea, fosse Dio?
1. Uomini divini nell’antichità greco-romana
All’inizio del mio corso preliminare sul Nuovo Testamento, spiego agli studenti
che è molto difficile stabilire da dove cominciare. Forse dall’autore più antico,
l’apostolo Paolo, che del Nuovo Testamento scrisse più libri rispetto a chiunque
altro? Oppure dai Vangeli, i quali, seppur composti dopo Paolo, raccontano la
vita di Gesù, vissuto prima che Paolo scrivesse le sue lettere? A conti fatti,
conviene probabilmente cominciare dalla storia di un uomo quanto mai insolito
nato nel primo secolo in una regione remota dell’impero romano, protagonista di
una vita che i suoi seguaci avrebbero descritto come miracolosa. 1

Una vita straordinaria


Prima che fosse nato, un emissario celeste aveva annunciato alla madre che
avrebbe dato alla luce non una creatura mortale, ma un essere divino. La sua
nascita fu accompagnata da segni celesti inconsueti. Da adulto abbandonò la
casa per diventare un predicatore itinerante: spostandosi tra i villaggi e le città, a
tutti coloro che lo ascoltavano spiegava che non dovevano curarsi della vita
terrena e dei beni materiali, ma della spiritualità e di ciò che era eterno. Raccolse
attorno a sé numerosi seguaci, convinti che non fosse un uomo comune, ma il
Figlio di Dio. E lui compiva miracoli per alimentare la loro fede: guariva i
malati, cacciava i demoni, resuscitava i morti. Alla fine della vita si scontrò con
le autorità romane, che lo misero sotto processo, ma non poterono uccidere la
sua anima. Ascese dunque in cielo, dove risiede tuttora. Per dimostrare di essere
sopravvissuto dopo aver lasciato il nostro orbe terrestre, apparve nuovamente ad
almeno uno dei suoi devoti scettici, togliendogli ogni dubbio. In seguito, alcuni
suoi discepoli gli dedicarono dei libri che possiamo leggere ancora oggi, ma è
probabile che pochissimi di voi li abbiano mai visti. Non solo: scommetto che
nessuno di voi o quasi ha idea di chi fosse questo miracoloso Figlio di Dio. Si
tratta di Apollonio, un uomo proveniente dalla città di Tiana. Era un pagano —
vale a dire un politeista che venerava le numerose divinità romane — e un
illustre filosofo. I suoi discepoli lo ritenevano immortale, e uno di loro,
Filostrato (vissuto dopo di lui), scrisse la sua biografia.
Diviso in otto volumi, il libro fu scritto nel terzo secolo, forse attorno al 220-
230 e.v. Filostrato aveva effettuato ricerche approfondite, e le sue storie, ci
spiega, erano ampiamente fondate sui resoconti di un testimone oculare e
compagno dello stesso Apollonio. Quest’ultimo era vissuto qualche anno dopo
un altro miracoloso Figlio di Dio, nato in una regione lontana dell’impero: Gesù
di Nazareth. In seguito, i discepoli dei due uomini divini li misero in
contrapposizione l’uno con l’altro, uno sviluppo che rientrava nella più ampia
disputa fra paganesimo — la stragrande maggioranza dei popoli antichi
professava una varietà di dottrine politeiste — e cristianesimo, una new entry
sulla scena religiosa che asseriva l’esistenza di un solo Dio il cui Figlio era
Gesù. I seguaci cristiani di Gesù che sapevano di Apollonio lo accusavano di
essere un ciarlatano e un impostore, i seguaci pagani di Apollonio dicevano lo
stesso di Gesù. Per avvalorare le proprie tesi, le due fazioni potevano contare su
autorevoli resoconti scritti della vita dei rispettivi maestri.

Storia e leggenda di Apollonio

Gli studiosi hanno dovuto esaminare i Vangeli del Nuovo Testamento con
occhio critico per stabilire quali delle storie su Gesù — e quali loro parti —
siano storicamente accurate e quali frutto di successivi abbellimenti da parte dei
suoi devoti seguaci. Analogamente, gli studiosi della religione nell’antica Roma
hanno dovuto applicare un rigoroso filtro scettico agli scritti di Filostrato per
scartare le fioriture leggendarie e scoprire i dati storici sicuri su Apollonio. È
opinione comune che fosse un filosofo pitagorico, vale a dire un fautore delle
idee di Pitagora, il filosofo greco del quinto secolo a.e.v. Vissuto nella seconda
metà del primo secolo (Gesù era vissuto nella prima), Apollonio attraversò le
regioni orientali dell’impero romano in veste di predicatore morale e religioso.
Soggiornava spesso nei templi e non lesinava consigli alle autorità religiose e
cittadine. Aveva parecchi discepoli, e il più delle volte l’élite romana gli
riservava una calorosa accoglienza. La sua missione principale era convincere il
popolo ad abbandonare il materialismo dilagante per concentrarsi su ciò che
contava davvero, vale a dire la cura dell’anima.
Ai fini della nostra indagine, tuttavia, più che la vita dell’Apollonio storico ci
interessano le leggende emerse su di lui e ampiamente accreditate all’epoca. Le
sue grandi riflessioni filosofiche finirono per convincere molte persone che non
poteva essere stato un semplice mortale, bensì un dio sceso in terra. A poco più
di un secolo dalla sua morte, Apollonio si vide dedicare un santuario nella sua
città natale di Tiana niente meno che da Caracalla, imperatore romano dal 198 al
217 e.v. Le fonti ci dicono che l’imperatore Alessandro Severo (222-235 e.v.)
teneva un’effigie di Apollonio fra i suoi numerosi lari, e anche l’imperatore
Aureliano (270-275 e.v.), fervente adoratore del Dio Sole, lo venerava come
essere divino.
La storia della nascita di Apollonio, raccontata nella Vita di Apollonio di
Tiana di Filostrato, è particolarmente degna di attenzione. L’«annunciazione» è
al contempo simile e diversa da quella che troviamo nel precedente Vangelo di
Luca (1:26-38). Mentre era incinta di Apollonio, la madre aveva avuto una
visione del dio egizio Proteo, noto per la sua grande saggezza. Gli chiese allora
chi sarebbe stato suo figlio, al che il dio rispose: «Io». La nascita fu altrettanto
miracolosa. La donna ricevette istruzioni di recarsi con le sue serve in un campo,
dove si addormentò, per poi svegliarsi al suono di cigni che sbattevano le ali. A
quel punto partorì prematuramente. Secondo la gente del luogo, in quel preciso
momento un fulmine aveva squarciato il cielo, ma appena prima di colpire il
suolo «si sollevò nell’etere e scomparve in alto: volendo gli dèi con ciò indicare
e predire, io credo, l’eccellenza e la superiorità sopra ogni cosa terrestre e la
vicinanza agli dèi, insomma tutto ciò che in quest’uomo concorse» (Vita di
Apollonio di Tiana, 1.5). 2 Un segno chiaramente diverso dalla stella che
conduce i magi da un bambino, ma l’ambito celestiale è lo stesso. La
popolazione locale concluse che Apollonio doveva essere il Figlio di Zeus.
Alla fine della sua vita Apollonio venne arrestato, portato al cospetto
dell’imperatore Domiziano e accusato fra l’altro di essere oggetto di un culto
dovuto esclusivamente agli dèi. Di nuovo, le analogie con la storia di Gesù sono
evidenti: anche quest’ultimo venne arrestato e portato al cospetto dei funzionari
(le autorità ebraiche e poi il governatore romano Pilato), e si diceva fosse un
esaltato che si definiva Figlio di Dio e re dei giudei. In entrambi i casi i
funzionari decretarono che quei proclami costituivano un rischio per la sicurezza
dello Stato, e in entrambi i casi ai lettori viene assicurato che quei proclami
erano del tutto fondati.
Secondo Filostrato, esistevano varie versioni della «morte» di Apollonio.
Stando a una, sarebbe morto sull’isola di Creta. Apollonio si era recato al tempio
di un dio locale, ma al suo arrivo, invece di scatenare l’inferno, i feroci cani da
guardia l’avevano accolto scodinzolando. Convinti che avesse usato la
stregoneria per ammansire i cani, i custodi del tempio lo incatenarono, ma a
mezzanotte Apollonio si liberò e chiamò i suoi carcerieri perché vedessero
quanto sarebbe accaduto. Corse alle porte del tempio, che si aprirono da sole,
quindi entrò, le porte si richiusero e dall’interno del tempio (che era vuoto) si udì
un canto di fanciulle: «Vieni dalla terra, vieni in cielo, vieni». In altre parole,
Apollonio veniva invitato a salire al regno degli dèi: il che fece, a quanto pare,
perché in terra non rimase traccia di lui. Di nuovo, evidenti sono i paralleli con
le storie di Gesù: arrestato e condannato, salito dal regno terrestre a quello dei
cieli, dove vive ancora oggi.
In quanto filosofo, Apollonio sosteneva che l’anima umana è immortale: è la
carne che muore, non la persona. Non tutti gli credevano, ma dopo essere salito
in cielo apparve in visione a un seguace che dubitava di lui. Apollonio lo
convinse che era ancora vivo e presente fra i suoi devoti. Inutile dire che dopo la
resurrezione anche Gesù apparve ai suoi discepoli, convincendo tutti —
compreso lo scettico Tommaso — che non era morto e che esisteva una vita
celeste.

Apollonio e Gesù

Gli studiosi moderni hanno discusso il significato degli evidenti paralleli fra
Gesù e Apollonio, ma non si tratta di un dibattito nato di recente. All’inizio del
quarto secolo e.v., un autore pagano di nome Ierocle scrisse un libello intitolato
Filalete (Amico della verità) che conteneva un raffronto tra i due presunti Figli
di Dio ed esaltava la superiorità della versione pagana. Il testo completo non ci è
arrivato, ma alcuni anni dopo la sua composizione il Filalete venne
esplicitamente confutato dagli scritti di Eusebio di Cesarea (quarto secolo), a
volte indicato come «padre della storia ecclesiastica» perché fu il primo a
produrre una storia del cristianesimo che da Gesù arrivava ai suoi giorni. In un
altro testo, Eusebio attaccava Ierocle e la sua esaltazione di Apollonio.
Fortunatamente per noi lettori odierni, Eusebio cita le parole letterali
dell’avversario. Verso l’inizio del libro, per esempio, Ierocle scriveva:
Vanno dicendo ovunque, per glorificare Gesù, che egli ha reso la vista ai ciechi e compiuto altri
miracoli simili. […] Consideriamo ora in che modo migliore e più intelligente noi accogliamo racconti
di questo genere e che cosa pensiamo degli uomini forniti di poteri straordinari. […] sotto il regno di
Nerone, fiorì Apollonio di Tiana, che […] compì molti miracoli, dei quali ricorderò solamente
qualcuno, tralasciandone la maggior parte. 3

Ierocle sbeffeggia i Vangeli del Nuovo Testamento, accusandoli di contenere


storie su Gesù che furono «raccontate da Pietro e Paolo e da alcuni altri a loro
vicini, bugiardi, ignoranti e ciarlatani». Al contrario, i resoconti su Apollonio
erano opera di autori altamente istruiti — non di vili contadini — e testimoni
oculari. In virtù della sua vita magnifica e delle circostanze della «morte» («egli
salì fisicamente al cielo tra inni e danze»), non possiamo che annoverare
«quest’uomo tra gli dèi». La reazione del cristiano Eusebio fu esplicita e
violenta. Apollonio non era divino né Figlio di Dio, bensì un uomo cattivo
posseduto da un demonio.
Osservando la piccola controversia dal punto di vista storico, è indubbio che
fu Eusebio a uscirne vincitore, ma all’epoca in cui Ierocle scrisse il libro, prima
che il cristianesimo acquisisse tutto il suo potere, l’esito non era scontato.
Apollonio e Gesù erano visti come due figure che si contendevano gli onori
divini: un adoratore pagano di tanti dèi contro un adoratore ebreo dell’unico Dio;
un fautore della filosofia pagana contro il fondatore della religione cristiana.
L’uno e l’altro venivano riconosciuti come dio in terra, benché fossero —
naturalmente — umani. In un certo senso, erano ritenuti uomini divini. 4 Il
punto è che non erano i soli. Oggi non ricordiamo altri figli miracolosi di dio, ma
nell’antichità ce n’erano parecchi. Se definendolo «unico» intendiamo dire che
era il solo umano superiore e diverso dai comuni mortali, un uomo per certi versi
divino, allora Gesù non era unico, perché l’antichità ne era piena. Come chiarirò
più avanti, non intendo prendere posizione in merito al fatto che fossero davvero
divini o no: dico solo che così venivano considerati. Com’era possibile?
Rispondere a questa domanda è il primo passo per comprendere cosa portò Gesù
a essere descritto in tali termini. Vedremo tuttavia che, così come accadde ad
Apollonio, solo dopo la morte Gesù iniziò a essere assimilato a Dio in terra.
Come mai? Per cominciare, scopriremo come altri uomini vissuti nell’antichità
finirono per essere ritenuti divini.

Tre modelli di uomini divini


Il cristianesimo si affermò nell’impero romano appena dopo la morte di Gesù,
attorno al 30 e.v. La parte orientale dell’impero era talmente imbevuta di cultura
greca che la lingua comune, quella in cui fu scritto l’intero Nuovo Testamento,
era proprio il greco. Di conseguenza, per comprendere le idee dei primi cristiani
dobbiamo collocarle nel loro contesto storico-culturale, vale a dire il mondo
greco-romano. Benché nutrissero tutta una serie di convinzioni particolari (si
veda il prossimo capitolo), a modo loro gli ebrei dell’epoca avevano molto in
comune con i loro amici e vicini romani. È importante tenerlo a mente, perché
Gesù era ebreo, così come i suoi seguaci immediati, compresi quelli che per
primi proclamarono che non era un semplice mortale, ma Dio.
Ma com’era possibile che Dio, o un dio, diventasse — o desse l’impressione
di diventare — umano? Una prima risposta ce la dà la storia di Apollonio di
Tiana. Nel suo caso, la madre era stata avvertita che avrebbe messo al mondo
l’incarnazione di un essere divino preesistente, il dio Proteo. Il che ricorda da
vicino le successive interpretazioni teologiche di Gesù in quanto Dio incarnato
nel grembo di Maria. Che io sappia, nel pensiero greco-romano non esistono altri
casi di «dio-uomo», ovvero di un essere divino preesistente partorito da una
donna mortale. Esistono però idee simili: ne prenderemo in esame tre.

Dèi che diventano temporaneamente umani


Contemporaneo e più anziano di Gesù, Ovidio (43 a.e.v.-17 e.v.) era uno dei
maggiori poeti romani. La sua opera più famosa sono le Metamorfosi, un poema
in quindici libri dedicato alle trasformazioni descritte nella mitologia antica. A
volte a trasformarsi sono gli dèi, che assumono sembianze umane per poter
interagire con i mortali.
Fra le narrazioni ovidiane più affascinanti c’è quella di Filemone e Bauci,
un’anziana coppia di contadini della Frigia (una regione dell’odierna Turchia).
Nella breve storia, Giove e Mercurio stanno attraversando la regione travestiti da
mortali, ma nonostante abbiano bussato a mille porte non trovano nessuno che
sia disposto a farli entrare per offrire loro un pasto e un giaciglio. Alla fine
giungono alla misera casupola di Filemone e Bauci, che accettano la loro povertà
«con l’animo sereno di chi non si vergogna di sopportarla». 5 Dopo aver dato il
benvenuto ai viandanti, i due li invitano a entrare, offrono loro il pasto migliore
che sanno preparare e una tinozza d’acqua tiepida per ristorarsi gli stanchi piedi.
Per ricompensarli, gli dèi fanno in modo che il loro boccale di vino non si svuoti
mai: per quanto bevano, rimane sempre pieno.
A questo punto, dopo il trattamento ricevuto in Frigia, Giove e Mercurio
gettano la maschera:
Numi del cielo noi siamo, e i vostri empi vicini avranno la punizione che meritano; a voi invece
d’esserne immuni sarà concesso. 6

Giove domanda a Filemone e Bauci quale sia il loro desiderio più grande. La
coppia ne discute, quindi Filemone chiede al re degli dèi che lui e la moglie
vengano fatti sacerdoti del tempio di Giove e Mercurio, e che quando arriverà la
loro ora possano andarsene insieme:
E poiché in dolce armonia abbiamo trascorso i nostri anni, vorremmo andarcene nello stesso istante,
ch’io mai non veda la tomba di mia moglie e mai lei debba seppellirmi.

Giove esaudisce i loro desideri. I dintorni vengono distrutti, la casupola si


trasforma in tempio e Filemone e Bauci ne diventano i guardiani. Quando giunge
la loro ora, i due vengono tramutati in alberi che crescono dallo stesso tronco,
cosicché possano essere armoniosamente uniti nella morte come lo erano stati in
vita. I fedeli accorsi al tempio sono convinti non solo che la coppia sia ancora
«in vita», ma che abbia ottenuto il rango divino e pertanto meriti di essere
adorata: «Divino sia chi fu caro agli dèi e abbia onore chi li onorò».
Questa storia d’amore in vita e morte, splendida e commovente, è anche una
storia di dèi che diventano — o sembrano diventare — temporaneamente umani
e di uomini che diventano dèi. Filemone e Bauci non vengono adorati perché
potenti come i sommi Giove e Mercurio: sono divinità di basso livello, mortali
elevati al rango divino. Ma sono comunque divini. È una lezione fondamentale
per noi: la divinità assume forme e dimensioni diverse; il regno divino possiede
numerosi livelli.
Oggigiorno il regno della divinità, il regno di Dio, è visto come qualcosa di
completamente Altro e separato dal regno umano. Dio è lassù in cielo, noi
quaggiù in terra: l’abisso che ci separa è incolmabile. La maggior parte delle
popolazioni antiche, però, non la pensava così. Il regno divino era stratificato:
certi dèi erano più grandi, «più divini» di altri, e capitava che gli uomini fossero
elevati al loro rango. Gli stessi dèi, per giunta, a volte scendevano sulla terra per
interagire con i mortali, con conseguenze che potevano essere interessanti o
catastrofiche, come gli inospitali abitanti della Frigia avevano imparato a loro
spese.
Stando alle pagine del Nuovo Testamento, le successive popolazioni della
Frigia avevano imparato la lezione. Gli Atti degli Apostoli raccontano che Paolo
visitò la regione, in particolare la città di Listra, insieme al suo compagno
Barnaba (Atti 14:8-18). Paolo vede uno zoppo e lo guarisce con il potere di Dio.
La folla che ha assistito al miracolo ne ricava quella che parrebbe la conclusione
più logica: «Gli dèi hanno preso forma umana, e sono scesi fino a noi» (Atti
14:11). Sorprendentemente, chiamano Barnaba Zeus e Paolo — l’unico ad aver
parlato fino a quel momento — Ermes. Un’identificazione che non è casuale,
perché Zeus ed Ermes sono i corrispettivi greci rispettivamente degli dèi romani
Giove e Mercurio. La popolazione di Listra, che conosce la storia di Filemone e
Bauci, pensa che i due dèi siano riapparsi in sembianze mortali. Ne sono
talmente sicuri che il sacerdote di Zeus offre tori e ghirlande in sacrificio ai due
apostoli, i quali faticano a convincerli che in realtà «anche noi siamo esseri
umani come voi». Come d’abitudine, Paolo approfitta dell’occasione per
diffondere il suo messaggio evangelico nella speranza di convertire i presenti,
ma il tentativo non va a segno: «E con queste parole riuscirono a stento a
impedire che la folla offrisse loro un sacrificio» (14:18).
Non stupisce che gli adoratori di Zeus a Listra fossero ansiosi di riconoscere
in Paolo e Barnaba due divinità che avevano temporaneamente assunto forma
umana: ricordavano bene cos’era accaduto a quanti si erano rifiutati di rendere i
dovuti onori a chi li meritava. Che la vicenda narrata negli Atti sia una
ricostruzione storica delle attività missionarie di Paolo o solo un’affascinante
leggenda è irrilevante ai nostri scopi: a noi interessa sapere che nel mondo
romano era opinione comune che gli dèi potessero assumere sembianze umane, e
che di conseguenza fosse possibile incrociare creature divine per strada. La
mitologia greca e romana è piena di storie simili.

Esseri divini nati da un dio e da un mortale


Esseri divini nati da un dio e da un mortale

Sappiamo che Apollonio era considerato un dio preesistente incarnato, ma in


Grecia e a Roma la norma non era questa: l’idea di gran lunga più diffusa era che
gli esseri divini, inesistenti prima di venire al mondo, nascessero da un rapporto
sessuale fra un dio e un mortale, il che per certi versi conferiva alla prole il rango
divino. I miti greci ci raccontano che Zeus indulgeva spesso a queste attività
moralmente dubbie, scendendo dal cielo per accoppiarsi con donne attraenti e
dare così il via a gravidanze quanto mai inconsuete. Ma episodi come quelli di
Zeus e delle sue amanti mortali non appartenevano solo alla mitologia più
divertente: a volte gesta simili erano attribuite a figure storiche come Alessandro
Magno (356-323 a.e.v.).
Secondo lo scrittore greco Plutarco — autore di biografie di numerose grandi
figure dell’antichità greco-romana — erano in molti a credere che Alessandro
fosse figlio di Zeus, quando invece suo padre era il famoso e potente Filippo, re
di Macedonia, innamoratosi di una donna di nome Olimpia. Stando a Plutarco, la
notte prima che il matrimonio venisse consumato Olimpia aveva sognato un
fulmine che scendeva dal cielo e le entrava nel corpo. Si trattava probabilmente
di Zeus che metteva a segno la sua magia. Nel frattempo pare che, vegliando
sulla moglie quella notte, Filippo l’avesse vista appassionatamente avvinghiata a
un serpente. Come sottolinea Plutarco, e come del resto a noi pare
comprensibile, quella vista aveva decisamente raffreddato il trasporto amoroso
di Filippo per la sposa. Nell’antichità Zeus veniva rappresentato spesso come un
serpente, e dunque, per chi ci credeva, il piccolo Alessandro non poteva essere
un semplice mortale: era figlio di un dio.
La mitologia ci ha consegnato storie ancora più sorprendenti, con Zeus e il suo
corrispettivo romano Giove impegnati in simili attività notturne. La più curiosa è
senza dubbio quella della nascita di Ercole. È un racconto che assume varie
forme nell’antichità, ma la più indimenticabile — e spassosa — è forse quella
che troviamo nell’Anfitrione del commediografo romano Plauto. L’opera prende
il nome da uno dei protagonisti, un generale di Tebe sposato con Alcmena,
donna di straordinaria bellezza. Partito per la guerra, Anfitrione ha lasciato a
casa la moglie incinta, ed è allora che dal cielo Giove punta su di lei il suo
sguardo libidinoso. Deve averla a ogni costo, e sa perfettamente come fare.
Travestito da Anfitrione, Giove si presenta da Alcmena e le annuncia che è
tornato dalla battaglia, al che la donna lo accoglie a braccia aperte e lo porta a
letto. Giove è talmente entusiasta che ordina alle costellazioni di rimanere
immobili: in altre parole, ferma il tempo finché il potente dio, che pure è dotato
di una capacità di godimento divina, non ne ha avuto abbastanza. A quel punto le
costellazioni riprendono la loro traiettoria, Giove ritorna alla sua dimora celeste
e Alcmena è prevedibilmente sfinita dalla lunga baldoria.
Tornato quella mattina, il vero Anfitrione rimane sgomento di fronte a una
moglie che non lo accoglie con l’entusiasmo che si sarebbe aspettato dopo
un’assenza così lunga. Dal punto di vista di Alcmena, naturalmente, il
comportamento è del tutto comprensibile, perché la donna è convinta di aver
appena trascorso una lunga nottata fra le braccia del marito. In ogni caso,
l’episodio ha una conseguenza gestazionale interessante: già incinta di
Anfitrione, Alcmena è stata ingravidata una seconda volta da Giove (non sempre
nella mitologia l’accuratezza anatomica e biologica era all’ordine del giorno). 7
Risultato: nascono due gemelli, Ercole e Ificle, il primo un essere divino figlio di
Zeus, il secondo un semplice mortale.
Quello di Anfitrione e Alcmena è ovviamente un mito: non sappiamo se
qualcuno ci «credesse» sul serio. Si tratta di un’eccellente storia, ma ciò non
toglie che l’idea fondamentale, una donna mortale che mette al mondo il figlio di
un dio, fosse plausibile per gran parte delle popolazioni antiche. L’ipotesi che gli
esseri umani più straordinari dell’epoca — grandi conquistatori come
Alessandro, per esempio, se non addirittura grandi filosofi dotati di saggezza
sovrumana come Platone 8 — fossero stati concepiti in modi diversi da noi
mortali doveva essere tutt’altro che peregrina. Forse avevano un genitore divino,
il che rendeva anche loro, per certi versi, divini.
Va sottolineato che la nascita di Ercole, figlio di Giove, non è affatto un caso
di nascita verginale. Alcmena si è già congiunta carnalmente al marito, per non
parlare del «sesso divino» con Giove. Non ci sono donne vergini nei racconti di
unioni fra un dio e una mortale: è una delle differenze fra le storie cristiane di
Gesù e quelle di altri uomini divini del mondo antico. È vero che è Dio (quello
ebraico) a fare in modo che Maria rimanga incinta di Gesù per mezzo dello
Spirito Santo (Luca 1:35), ma i cristiani monoteisti avevano una visione troppo
alta di Dio per pensare che potesse farsi temporaneamente uomo in modo da
soddisfare le sue fantasie sessuali. Insomma, gli dèi greci e romani potevano
anche essersi sollazzati, ma il Dio d’Israele era superiore a tutto ciò.

Un uomo che diventa divino

Il terzo modello di uomo divino nell’antichità greco-romana rappresentava la


cornice concettuale più importante a disposizione dei primi cristiani per accettare
la duplice natura di Gesù. Non si tratta di un’ipotesi su come un dio potesse
diventare umano, tramite un’incarnazione temporanea o un atto sessuale, ma su
come un essere umano potesse diventare divino. In Grecia e a Roma, come
vedremo, si riteneva che questo fosse accaduto numerose volte.

Romolo
Uno degli esempi più sorprendenti è quello di Romolo, il leggendario fondatore
di Roma. Abbiamo vari resoconti della sua vita, compreso quello del grande
storico Tito Livio (59 a.e.v.-17 e.v.), secondo il quale era opinione diffusa che
Romolo fosse un «dio figlio di un dio» (Storia di Roma dalla sua fondazione
1.16). Ma l’episodio che più ci interessa ha a che fare con la fine della sua vita.
Non mancavano voci su un intervento divino nel concepimento di Romolo. La
madre era una Vergine Vestale, una carica sacra che richiedeva — come
suggerisce il nome — l’astensione sessuale, eppure era rimasta incinta. Aveva
pronunciato i voti, ma evidentemente qualcosa era andato storto. La donna
sosteneva che il responsabile fosse il dio Marte, e può darsi che qualcuno le
credesse: ennesima dimostrazione di come un’unione divina-umana potesse
essere addotta a spiegazione della comparsa sulla terra di esseri umani
straordinari. Ancora più stupefacente fu però la scomparsa di Romolo. Alla fine
della sua vita, secondo Livio, Roma era ormai in pieno vigore: il governo
istituito con il Senato e il re Romolo, un esercito nel pieno delle sue funzioni,
ogni cosa pronta per fare di Roma la città più grande della storia. Pochi attimi
prima di andarsene, Romolo stava passando in rassegna le truppe nel Campo
Marzio insieme ad alcuni senatori, quando scoppiò un violento temporale. Fra i
tuoni fragorosi una nube lo avvolse, e quando si fu levata di Romolo non c’era
più traccia. Sulla sua morte circolavano due versioni. Secondo una, quella a cui
sembravano credere Livio e molti altri osservatori scettici, i senatori avevano
colto l’opportunità per sbarazzarsi di un despota, facendolo a pezzi per poi
nascondere i resti. Secondo l’altra, quella a cui credeva il volgo, propagata dagli
stessi senatori, Romolo fu «trascinato verso l’alto dalla tempesta». In altre
parole, era salito in cielo per vivere con gli dèi. Il risultato fu l’immediata
acclamazione del suo rango divino: «Poi, seguendo l’esempio di alcuni di essi,
tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre
di Roma. Con preghiere ne [implorarono] la benevola assistenza e la continua
protezione per i loro figli» (Storia di Roma dalla sua fondazione 1.16). 9
Abbiamo qui un profilo riassuntivo degli uomini divini: un essere umano può
essere onorato dagli dèi venendo trasformato in uno di loro; il che avviene in
virtù dei grandi meriti della persona; in quanto divinità, la persona merita di
essere adorata; nel suo ruolo divino, può proteggere coloro che gli rivolgono le
loro suppliche.
Particolare interessante, Livio racconta che l’ascensione di Romolo venne in
seguito confermata da un uomo di nome Giulio Proculo, il quale dichiarò
all’assemblea dei romani che Romolo gli era apparso vivo dopo la sua morte:
«Alle prime luci dell’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente
sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e
rispetto, l’ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha
risposto: “Va’ e annuncia ai romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia
Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano dell’arte militare
e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di
resistere alle armi romane”. Detto questo [Romolo] è scomparso in cielo» (Storia
di Roma dalla sua fondazione 1.16).
Senza farsi pregare, i romani accettarono con entusiasmo la divinità dell’uomo
Romolo. Nel cuore dell’antica Roma, sul colle del Campidoglio, risiedeva una
triade divina: Giove, Marte e Quirino. In origine Quirino era adorato soltanto dai
Sabini, un popolo annesso allo stato romano agli albori della sua storia, ma
all’epoca in cui Livio scriveva Quirino veniva ormai identificato come il
Romolo divinizzato e venerato insieme al sommo padre degli dèi.

Giulio Cesare
La fondazione di Roma viene tradizionalmente collocata nel 753 a.e.v. Se
facciamo un salto in avanti di sette secoli circa, troviamo ancora uomini che si
ritiene siano stati dèi. Pochi sono più noti di Giulio Cesare, autoproclamatosi
dittatore di Roma e assassinato alle Idi di marzo, nel 44 a.e.v., da un gruppo di
nemici politici che a conti fatti un dittatore non lo volevano. Secondo Svetonio,
che inserì una sua biografia nella Vita dei Cesari pubblicata nel 115 e.v., già in
vita Cesare dichiarava origini divine. Durante un’orazione funebre per la zia,
affermò che un ramo della sua famiglia discendeva dagli antichi re di Roma —
tramite il leggendario Anco Marzio, il quarto re —, e l’altro dagli dèi: l’albero
genealogico poteva addirittura essere ricostruito fino alla dea Venere.
Alla morte di Cesare scoppiò una furibonda lotta di potere tra avversari e
sostenitori. Fra questi ultimi c’era Marco Antonio (quello di Antonio e
Cleopatra) in combutta con Ottaviano, figlio adottivo di Cesare e futuro Cesare
Augusto. Al funerale, invece di pronunciare la consueta orazione funebre,
Antonio ordinò a un araldo di annunciare che il Senato aveva deciso di conferire
a Cesare «simultaneamente onori divini e umani». In altre parole, le autorità
avevano stabilito per decreto che Giulio Cesare fosse elevato al rango di dio. È
un processo noto come deificazione, vale a dire l’affermazione che una persona
si è dimostrata talmente grande da essere accolta fra gli dèi al momento della
morte. Stando a Svetonio, la «gente comune» e persino il cielo sembravano
approvare la deificazione di Cesare: «[Cesare] morì a cinquantasei anni e fu
annoverato tra gli dèi, non per formalità da parte di coloro che lo decisero, ma
per intima convinzione del popolo. In realtà, durante i primi giochi che Augusto,
suo erede, celebrava in suo onore, dopo la consacrazione, una cometa rifulse per
sette giorni di seguito, sorgendo verso l’undicesima ora e si sparse la voce che
fosse l’anima di Cesare accolta in cielo» (Il divino Giulio 88). 10 Osservando la
questione dal punto di vista puramente umano e politico, non c’è dubbio su come
mai l’erede e figlio adottivo Ottaviano volesse che il popolo romano
riconoscesse in Cesare non solo un discendente da stirpe divina, ma anche un
uomo diventato dio. Se Giulio Cesare era un dio, cos’era suo figlio? Come ha
sottolineato di recente Michael Peppard, studioso del Nuovo Testamento, per
quanto ci è dato sapere nell’antichità c’erano soltanto due figure che venivano
chiamate «Figlio di Dio». Certo, non mancavano persone identificate in base al
nome del padre divino: figlio di Zeus, figlio di Apollo e via dicendo. Ma solo
due erano note con il loro nome e con l’appellativo «Figlio di Dio». Una era
l’imperatore romano — a partire da Ottaviano, cioè Cesare Augusto —, l’altra
Gesù. Improbabile che sia un caso. Quando Gesù entrò in scena come uomo
divino, lui e l’imperatore si facevano concorrenza.

Cesare Augusto
Giulio Cesare aveva ottenuto lo status divino dopo la morte, ma il figlio adottivo
Ottaviano (imperatore dal 27 a.e.v. al 14 e.v.) era assimilato a un dio già in vita.
Il fenomeno non era senza precedenti nel mondo antico. Da tempo gli egizi
veneravano i faraoni come emissari terreni delle divinità, mentre al già citato
Alessandro Magno venivano resi omaggi di norma riservati agli dèi. A Roma,
però, non era ancora accaduto che si adorasse l’imperatore.
Narravano le leggende che Ottaviano non fosse nato come un comune
mortale, ma — al pari di altri prima di lui — dall’unione fra una donna mortale e
un dio. Secondo Svetonio, si diceva che la madre Azia fosse stata messa incinta
dal dio Apollo in forma di serpente (evidente richiamo al concepimento di
Alessandro Magno). La donna stava partecipando a una cerimonia nel tempio di
Apollo e quella notte, mentre dormiva sulla sua lettiga, un serpente l’aveva
raggiunta strisciando per poi dileguarsi alla svelta. Appena sveglia, Azia si
purificò come dopo un rapporto sessuale con il marito, e in quel momento la
figura indelebile di un serpente le comparve sul corpo. «Augusto nacque dieci
mesi dopo e per questo fu considerato figlio di Apollo» (Il divino Augusto 94).
Quella stessa notte, inoltre, il marito di Azia, partito per una guerra in Tracia
(Grecia settentrionale), vide in sogno «suo figlio, dotato di una grandezza
sovrumana, che portava il fulmine, lo scettro e gli attributi di Giove Ottimo
Massimo, il capo cinto da una corona raggiante, su un carro coperto di lauro,
trascinato da dodici cavalli di abbagliante bianchezza». I segni erano chiari: quel
bambino era una creatura divina, un grande dio in terra.
A differenza di altri imperatori successivi, durante il suo mandato Augusto
non era entusiasta di essere venerato come dio. Secondo Svetonio, non
ammetteva che venissero eretti templi a lui consacrati nelle province romane a
meno che non fossero dedicati anche alla dea Roma, patrona della città. In
alcune città il divieto imperiale veniva aggirato costruendo templi in onore del
«genio» di Augusto, inteso non come la sua acuta intelligenza, ma come lo
spirito che lo rendeva chi era custodendo la sua famiglia e soprattutto lui, che ne
era a capo. Per certi versi, adorando il genio di Augusto, quelle città lo
veneravano in maniera indiretta ma profondamente divina.
Inoltre, malgrado la riluttanza, Ottaviano veniva acclamato come «Figlio di
Dio» già nel 40 a.e.v., anni prima di essere eletto imperatore: il titolo appare su
monete risalenti addirittura al 38. Un decreto della città greca di Coo identifica
Augusto con il dio Sebastos (termine equivalente al latino Augustus) e sancisce
che «con le sue buone azioni rivolte all’intero popolo ha superato persino gli dèi
dell’Olimpo». Paragone impegnativo per un semplice mortale, ma per i suoi
devoti seguaci Augusto era molto di più. Dopo la morte fu deificato e iniziò a
essere definito «divino», «colui che è stato reso divino» o «colui che viene
annoverato fra gli dèi». Un funzionario romano d’alto rango, racconta Svetonio,
«giurò di aver visto salire al cielo il fantasma di Augusto dopo la sua
cremazione». I romani, imperatori compresi, continuarono a onorarlo come
dio. 11

Il culto dell’imperatore
Per gli storici antichi la parola culto non possedeva le connotazioni negative che
può avere oggi, riferita com’è a religioni settarie ed estreme dedite a credenze e
pratiche bizzarre. Era semplicemente un’abbreviazione di cultus deorum, vale a
dire «cura degli dèi», qualcosa di molto simile al concetto odierno di «religione»
(si pensi all’«agricoltura», ovvero «cura dei campi»). Il culto romano degli
imperatori iniziò con Augusto e proseguì con i suoi successori, molti dei quali
non condividevano la sua reticenza a essere considerati rappresentanti divini in
terra. 12 Il famoso oratore Marco Fabio Quintiliano (35-100 e.v.) ci spiega che
chi parla in pubblico deve innalzare lodi agli dèi: «Per alcuni [dèi] bisogna
celebrare il fatto che sono nati immortali; in altri che, nati mortali, hanno
raggiunto per la loro virtù l’immortalità, argomento questo del quale la pietà del
nostro principe [l’imperatore Domiziano] ha fatto un motivo di onore anche
nell’età attuale» (Istituzione oratoria 3.7.9). 13 Insomma, alcuni dèi sono nati
così (si pensi alle grandi divinità della mitologia greca e romana), altri «hanno
raggiunto per la loro virtù l’immortalità», vale a dire che sono diventati divini
grazie alle loro gesta straordinarie. Quintiliano cita infine coloro ai quali è
accaduto «nell’età attuale», ovvero i due imperatori precedenti: Vespasiano e
Tito, rispettivamente padre e fratello di Domiziano, entrambi deificati.
Di norma, l’imperatore veniva proclamato ufficialmente dio alla sua morte
tramite un voto del Senato romano, un’idea che oggi può apparire curiosa. Forse
è meglio dire che il Senato, più che rendere divina una persona, ne riconosceva
la natura divina sulla base della sua potenza e generosità. E chi mai poteva
essere più potente e generoso dell’imperatore? I cosiddetti cattivi imperatori (ce
ne furono parecchi) non ricevevano gli onori divini alla morte, quelli buoni sì.
Molti di loro, come Ottaviano, venivano adorati come divinità ancora in vita:
ecco perché troviamo nella città di Pergamo un’iscrizione su pietra che rende
onore al «Dio Augusto Cesare», e un’altra a Mileto dedicata a Gaio, meglio noto
con il soprannome Caligola (passato alla storia come pessimo imperatore, ma
l’iscrizione risale a quando era ancora vivo) con le seguenti parole: «Gaio Cesare
Germanico, Figlio di Germanico, Dio Sebastos». Quanto meno da vivo, talvolta
Caligola era considerato divino.
Comprendere lo sviluppo del culto dell’imperatore nell’impero romano, in
particolare l’idea che una persona potesse essere onorata come un dio, è un
problema che per anni ha impegnato gli studiosi. Non lo vedeva la gente che si
trattava di un essere umano come tutti gli altri? Doveva mangiare e bere, non era
esente da altre funzioni corporali e aveva le sue debolezze e i suoi punti di forza:
insomma, era mortale al cento per cento. Possibile che lo ritenessero veramente
un dio?
I primi studiosi tendevano a essere scettici su questo punto: in realtà il popolo
non pensava che l’imperatore fosse un dio, e il conferimento degli onori divini
era più che altro una forma di adulazione. 14 Una posizione fondamentalmente
basata sugli antichi scritti prodotti dall’élite colta, vale a dire la crema della
società. In quest’ottica, il culto dell’imperatore sarebbe stato favorito dalle stesse
autorità come forma di propaganda, per assicurarsi che gli abitanti delle province
romane capissero con chi avevano a che fare quando interagivano con il governo
di Roma: con un dio, insomma. Che l’imperatore e i suoi predecessori fossero
mortali lo sapevano tutti, ovviamente, ma per non uscire dalle grazie di Roma gli
abitanti partecipavano comunque al culto.
Ecco spiegato come mai nelle città spuntavano templi dedicati non solo alle
grandi divinità romane — Giove, la sua sposa Giunone, Marte, Venere, la stessa
«Roma» — ma anche al «dio imperatore», e come mai si offrivano sacrifici non
solo agli dèi ma anche alle immagini dell’imperatore. L’imperatore, tuttavia, era
una divinità di basso rango, e la venerazione di queste divinità umane era
limitata a chi era già stato deificato alla morte.
Questa vecchia ipotesi oggi non è più accreditata. Più che alle riflessioni
dell’élite colta, gli studiosi moderni sono interessati a ciò che i romani — la
stragrande maggioranza dei quali non sapeva leggere, né tanto meno scrivere,
monumentali opere biografiche o storiche — forse pensavano e di sicuro
facevano. Applicare la categoria della «fede» alla religione romana si è
dimostrato piuttosto arduo. A differenza del cristianesimo, le religioni di Roma
non ponevano l’accento sulla fede o sulla «sostanza intellettuale» della dottrina:
il loro culto era fondato sull’azione, su ciò che si faceva in rapporto agli dèi, non
su ciò che si credeva al loro riguardo. Morti o vivi che fossero, gli imperatori
venivano trattati sul serio come dèi, a volte in maniera pressoché identica. 15
Gli studi più recenti non ritengono l’adorazione dell’imperatore una forma di
propaganda imposta dai funzionari romani alla plebe ignorante. Si trattava
invece di movimenti locali promossi dai funzionari cittadini delle province per
alimentare il timore reverenziale nei confronti della potenza dell’impero. Ma il
culto non si limitava alle regioni isolate, era vivo nella stessa Roma. Con ogni
probabilità erano in molti a credere che l’imperatore fosse davvero un dio, ma se
anche non ci credevano lo trattavano di sicuro come tale: i sacrifici venivano
offerti non solo agli (altri) dèi per conto dell’imperatore, ma anche
all’imperatore in quanto dio, o per lo meno al suo genio o «nume», il potere
interiore che lo rendeva chi era, un essere divino.
Ho già illustrato le ragioni che portavano un potente governante a essere
ritenuto divino. Non solo aveva tante capacità, ma ne faceva buon uso,
concedendo benefici ai sudditi. Il mondo romano è pieno di iscrizioni che
sottolineano la «generosità» dei governanti: soprattutto, ma non esclusivamente,
gli imperatori. Una testimonianza diversa ma evidentemente collegata al culto
dell’imperatore proviene da un’iscrizione dedicata ad Antioco III, sovrano
siriaco del secondo secolo a.e.v., che aveva liberato la città di Teo da una
potenza straniera. In cambio la città aveva costruito delle statue di Antioco e
della moglie Laodice III, offrendo loro dei sacrifici durante una cerimonia
pubblica ufficiale. Erette dentro il tempio di Dioniso, dio della città, le due statue
recavano la seguente iscrizione: «Avendo reso sacri la città e il suo territorio
[…] e avendoci liberati dal tributo […] essi devono ricevere da ciascuno gli
onori più alti e, condividendo il tempio e altre cose con Dioniso, devono
diventare i salvatori della comunità cittadina e offrire benefici comuni a tutti
noi» 16 . I benefattori politici diventano eroi «religiosi», con tanto di statue nei
templi e sacrifici in loro onore. In quanto «salvatori» nel senso più letterale del
termine, vengono trattati come tali.
Altrettanto dicasi per gli imperatori. Già con Augusto, la provincia dell’Asia
decise di celebrarne la nascita ogni anno in segno di gratitudine per i «benefici
resi all’umanità» e per essere stato «un salvatore che ha messo fine alla guerra
donandoci la stabilità». Augusto aveva «superato i benefattori nati prima di lui»,
di modo che «la nascita del dio rappresentava per il mondo l’annuncio della
buona novella tramite il suo avvento». 17 Se tutto questo risulta familiare ai
lettori cristiani, non c’è da stupirsi. L’imperatore è un dio la cui nascita va
celebrata perché ha portato la «buona novella» al mondo; è il più grande
benefattore dell’umanità e un «salvatore». Insomma, Gesù non era l’unico «dio
salvatore» dell’antichità.

Un comune mortale: la morte di Peregrino


Fino a questo punto, nella nostra rassegna di uomini che si riteneva fossero
diventati divini, ci siamo concentrati su potenti e governanti. Ma c’erano altri
grandi esseri umani provvisti di questa capacità. Certo, molti di noi sono
ragionevolmente potenti, saggi e virtuosi; altri lo sono straordinariamente, altri
ancora incredibilmente. Se una persona è dotata di potenza, saggezza e virtù
incredibili, potrebbe non essere una forma di vita umile e mortale come noialtri,
bensì un dio con sembianze umane. O almeno così pensavano greci e romani.
Uno dei sistemi più efficaci per esaminare le credenze diffuse in una società è
valutarne la produzione satirica. Per definizione, la satira si prende gioco di
assunti, punti di vista, idee e convinzioni che sono profondamente radicati:
anche per questo è lo strumento ideale per analizzare le credenze di altre culture.
Ebbene, nella letteratura romana troviamo alcune satire eccellenti.
Fra gli autori satirici più divertenti dell’antichità c’è il greco Luciano di
Samosata (secondo secolo e.v.), che con le sue opere denunciava la pretenziosità
filosofica e religiosa. Una delle tante che ci sono pervenute si intitola Della
morte di Peregrino, sedicente filosofo cinico. Il cinismo della filosofia antica
non corrispondeva al significato moderno del termine, ma era una scuola di
pensiero fondata sul non attaccamento alle «belle cose» della vita. Non curarti di
ciò che possiedi, ciò che indossi e ciò che mangi. Non curarti di nulla, in
definitiva, che sia esterno a te e che tu non possa controllare. Se un incendio ti
rade al suolo la casa, non puoi farci nulla, perciò non investire emotivamente
nella tua casa. Se ti licenziano, non puoi farci nulla, perciò non investire
emotivamente nel tuo lavoro. Se tua moglie vuole divorziare o tuo figlio muore
all’improvviso, non puoi farci nulla, perciò non investire emotivamente nella tua
famiglia. Quello che invece puoi controllare sono le tue reazioni agli eventi della
vita: dunque è della tua interiorità, dei tuoi atteggiamenti, che devi curarti.
Chi la vede in questo modo non è interessato alla bella vita (che può venire
meno da un momento all’altro), alle reazioni degli altri (incontrollabili) e alle
convenzioni sociali (chi se ne frega?). I filosofi cinici che mettevano in pratica le
proprie idee non avevano possedimenti personali, non amavano nessuno e spesso
non conoscevano le buone maniere. Erano senza fissa dimora ed espletavano in
pubblico le loro funzioni corporali: ecco perché si chiamavano «cinici», un
termine che deriva dal greco kynikós, «canino». Insomma, vivevano come cani.
Al di fuori della cerchia dei cinici c’era chi nutriva profonda stima nei loro
confronti, e c’era chi, volendo essere considerato un filosofo geniale, diventava
cinico. Era abbastanza facile, per certi versi: bastava rinunciare a tutto e
proclamare virtù una simile scelta.
Luciano, però, era convinto che il cinismo fosse una ridicola messinscena, uno
stratagemma privo di sostanza che mirava solo ad attirare l’attenzione. Ecco
perché prendeva di mira i cinici, e a farne le spese fu soprattutto il nostro
Peregrino. In Della morte di Peregrino Luciano narra la vera storia del famoso
filosofo cinico, il cui pensiero alcuni ritenevano così profondo da sospettare che
fosse un essere divino: il che, secondo Luciano, era esattamente ciò che
Peregrino voleva. La ricostruzione della sua vita è esilarante, ma qui ci
interessano le circostanze della morte. In un certo senso, l’intero libro è un
preludio alla morte di questo egocentrico fautore dell’auto-umiliazione.
Pare che Peregrino si dichiarasse il dio Proteo incarnato, e in quanto tale
avesse voluto dimostrare le proprie virtù divine nel momento della morte. Da
cinico proclamava — ipocritamente, secondo Luciano — l’astinenza da ogni
piacere e gioia della vita. Per sottolineare le sue convinzioni decise di sottoporsi
volontariamente a una morte violenta e dolorosa, emblematica di come riteneva
che la gente dovesse vivere. Annunciò quindi la sua volontà di immolarsi, e
secondo Luciano lo fece davvero, al cospetto di una folla numerosa.
Dopo aver proclamato le sue intenzioni e promosso l’evento in lungo e in
largo (Luciano la descrive come l’ennesima manifestazione di egocentrismo),
all’ora prestabilita, verso mezzanotte, vicino ai Giochi olimpici (dove era sicuro
di trovare un folto pubblico), insieme ai suoi seguaci Peregrino costruì
un’enorme pira e la accese. Secondo Luciano si augurava di essere fermato da
qualcuno che non sopportava di vederlo abbandonare l’esistenza umana, ma
quando fu il momento, rendendosi conto che non aveva scelta, Peregrino si gettò
tra le fiamme e pose fine alla propria vita.
Luciano, che afferma di aver assistito alla scena, la definisce ridicola e
assurda. Sulla strada del ritorno, incontrò delle persone arrivate troppo tardi per
vedere il grand’uomo sfoggiare un coraggio e una resistenza degni di un dio.
Purtroppo si erano persi lo spettacolo, ma Luciano glielo raccontò come se lui
stesso fosse stato un seguace di Peregrino:
[…] ma se mi capitavano dei gonzi e che m’udivano a bocca aperta, io ci
mettevo un po’ di frangia, e dicevo che quando la catasta bruciava, e Proteo vi si
gettò, s’intese un gran terremoto con un rombo sotterraneo, ed un avvoltoio
volando dal mezzo della fiamma verso il cielo aveva proferito con una gran voce
umana queste parole:
«Lascio la terra, e me ne salgo al cielo». (Della morte di Peregrino 39) 18

Si presume dunque che Peregrino, in forma d’uccello (non la nobile aquila, ma il


saprofago avvoltoio), fosse asceso al Monte Olimpo, dimora degli dèi, per
stabilirvisi in quanto uomo divino. Senza reprimere in alcun modo lo spasso,
Luciano dice che a quel punto Peregrino incontrò un altro uomo che stava
raccontando lo stesso episodio. Costui sosteneva, quando tutto era finito, di
essersi imbattuto nel «morto» Peregrino, che indossava una veste bianca e una
ghirlanda d’olivo selvatico. L’uomo, inoltre, affermava che quando Peregrino
aveva incontrato il suo atroce destino un avvoltoio si era levato dalle fiamme per
volare in cielo: era l’avvoltoio inventato da Luciano! E così le storie, inventate e
tramandate con il passaparola, finiscono per essere prese come verità sacrosanta.
Luciano, inutile dirlo, si faceva beffe dell’intera vicenda e concludeva il
racconto parlando non della divinità di Peregrino, ma della sua assoluta — e
piuttosto squallida — umanità: «Questa fu la fine dello sciagurato Proteo, uomo,
a dirne in breve, che non guardò mai alla verità, ma soltanto per aver gloria e
lode dal volgo disse e fece sempre ogni cosa, fino a perire nel fuoco per aver
quelle lodi, delle quali non doveva godere perché non più le sentiva» (Della
morte di Peregrino 42). 19

Uomini divini in Grecia e a Roma


Questi esempi ci presentano una serie di modi in cui gli esseri divini potevano
essere considerati umani o viceversa nell’antichità. Di nuovo, si tratta di una
prospettiva nettamente diversa dalla concezione odierna del rapporto fra umano
e divino, almeno per quanto riguarda le tradizioni religiose occidentali
(giudaismo, cristianesimo, islam). Come abbiamo già detto, nel nostro mondo è
opinione comune che un abisso incolmabile separi il regno divino da quello
umano. Dio è una cosa, l’uomo un’altra e i due non si incontreranno mai. Be’,
quasi mai: secondo la dottrina cristiana si sono incontrati una volta, nella
persona di Gesù. La domanda è come si riteneva che fosse stato possibile. Alla
radice dell’idea c’è una diversa sensibilità riguardo al mondo, secondo la quale
divinità e umanità sarebbero separate in senso non assoluto, ma relativo.
Questa prospettiva antica colloca umanità e divinità lungo un continuum
verticale che ammette il contatto fra le due dimensioni.
Viceversa, quanto meno in Occidente, le popolazioni moderne tendono a
pensare che Dio sia infinitamente superiore a noi in ogni senso, completamente
Altro. In Dio, inoltre, non esiste alcun continuum. Per cominciare, non ci sono
altri dèi: Dio è unico, e non è solo relativamente migliore di noi da ogni punto di
vista, ma incommensurabilmente al di sopra della nostra intelligenza. Certo, non
mancano uomini «più divini» di altri, e alcune tradizioni contemplano una certa
intersezione con il livello divino (si pensi ai santi cattolici romani). Ma anche in
quel caso, a ben vedere, Dio è assolutamente Altro da chiunque altro e
qualunque altra cosa, su un piano tutto suo.
Per gran parte delle popolazioni antiche, tuttavia, non era così. Fatta eccezione
per gli ebrei, ai quali è dedicato il prossimo capitolo, erano tutti politeisti.
Esistevano moltissimi dèi e livelli diversi di divinità. Lo si vede nel modo in cui
gli antichi si riferivano agli esseri divini. Un’iscrizione in onore del dio
imperatore rinvenuta nella città di Mitilene parla di uomini che «hanno
conquistato la gloria divina e possiedono la nobiltà e il potere degli dèi» 20 ,
specificando però che lo status divino può essere accresciuto nel caso
dell’imperatore: «Se d’ora innanzi ci offrirà qualcosa di più glorioso di queste
disposizioni, l’entusiasmo e la devozione della città non mancheranno in nulla
che possa innalzarne ulteriormente il rango divino». Le parole più importanti
sono queste ultime: com’è possibile innalzare ulteriormente il rango divino di
chi è già una divinità? Se essere un uomo divino significa possedere un grado
fisso e immutabile di divinità, non è possibile. Lo è invece se essere un uomo
divino significa collocarsi su un continuum, per esempio alla base. Si può
sempre salire, ma come? L’iscrizione è molto chiara: l’imperatore viene
considerato divino in virtù di ciò che ha fatto per il popolo di Mitilene, delle sue
«disposizioni» in loro favore. Se continuerà con i benefici, diventerà ancora più
divino.
Quando gli antichi immaginavano l’imperatore — o qualsiasi individuo —
come un dio, non significava che l’imperatore fosse Zeus o uno degli altri
abitanti del Monte Olimpo. Era sì un essere divino, ma di rango molto inferiore.

La piramide divina
In alternativa al continuum, può essere utile interpretare l’antica concezione del
regno divino come una sorta di piramide di potere, splendore e divinità. 21
Alcune persone — per esempio quelle più inclini alla riflessione filosofica —
credevano che il vertice del regno divino fosse occupato dalla prima divinità, un
dio superiore a tutto, dotato di un potere infinito o quasi e a volte ritenuto la
fonte di ogni cosa. Questo dio — si trattasse di Zeus (Giove) o di un dio
sconosciuto — si trovava al culmine di quella che potremmo definire piramide
divina.
Sotto questo dio, al livello immediatamente inferiore, c’erano i grandi dèi
delle storie e tradizioni antiche, per esempi I dodici dèi del Monte Olimpo
descritti nella mitologia e nell’Iliade e nell’Odissea di Omero: Zeus, Era,
Apollo, Atena, Mercurio e così via. Questi dèi avevano una forza straordinaria e
per noi inimmaginabile. I miti che li riguardavano erano storie piacevoli, ma
erano in molti a pensare che fossero — per l’appunto — semplici storie, non
ricostruzioni storiche di episodi reali. I filosofi cercavano di «smitizzare» i miti,
vale a dire di andare oltre il significato letterale per portare a galla le verità
profonde che raccontavano sul mondo e sulla realtà. Ciò non impediva agli dèi di
essere venerati come le creature più potenti dell’universo. Molti venivano
adottati dalle città come protettori, alcuni erano onorati ufficialmente dallo Stato,
che aveva ovvie ragioni per volersi ingraziare i potenti dèi in tempo di guerra
come in pace.
Ma non erano gli unici esseri divini. Al livello inferiore della piramide ce
n’erano moltissimi altri. Ogni città aveva le proprie divinità locali, che la
difendevano e la aiutavano. Esistevano dèi della guerra, dell’amore, del clima,
della salute, della nascita e chi più ne ha più ne metta. Esistevano dèi per ogni
elemento del paesaggio: foreste, prati, montagne, fiumi. Il mondo pullulava di
dèi: ecco perché per gli antichi — ebrei a parte — non avrebbe avuto senso
credere in un solo Dio: ce n’erano a bizzeffe, e ognuno meritava di essere
onorato. Se decidevi di cominciare a venerare un dio — magari dopo esserti
trasferito in un nuovo villaggio, con la sua divinità locale — nulla ti costringeva
a smettere di venerare gli altri. Se decidevi di offrire un sacrificio ad Apollo,
nulla ti costringeva a smettere di offrire sacrifici ad Atena, Zeus o Era. Era un
mondo pieno di dèi, all’insegna di quella che potremmo chiamare tolleranza
religiosa.
La piramide aveva livelli ancora inferiori, occupati da esseri divini noti come
dáimones. A volte il sostantivo viene tradotto come «demoni», ma la
connotazione moderna del termine è fuorviante. Tra questi esseri potevano
essercene di cattivi, certo, ma non tutti lo erano. Inoltre, non si trattava di angeli
caduti o spiriti maligni che potevano possedere gli uomini e costringerli a
mettersi in pericolo, ruotare la testa di trecentosessanta gradi o spruzzare vomito
come nell’Esorcista. I dáimones erano esseri divini di livello inferiore,
nettamente meno potenti delle divinità locali e a maggior ragione dei grandi dèi.
In quanto entità spirituali erano superiori agli uomini, ma essendo più vicini a
loro in termini di potenza interagivano con gli esseri umani più spesso rispetto ai
grandi dèi dell’Olimpo, e non di rado li aiutavano nella vita: si pensi al dáimon
che — a suo dire — guidava le azioni del filosofo greco Socrate. Se erano
contrariati potevano reagire male e diventare pericolosi, perciò era importante
tenerseli buoni rendendo loro i dovuti onori.
Alla base della piramide, o appena sopra, si trovavano gli uomini divini. A
questo livello, tuttavia, l’analogia con la piramide viene meno, perché potrebbe
indurci a pensare che gli uomini divini fossero più numerosi delle divinità a loro
superiori. Al contrario, era relativamente raro incontrare persone così potenti,
sagge o splendide da essere considerate divine. Ma a volte capitava: un grande
generale, un re, un imperatore, un illustre filosofo o una persona di straordinaria
bellezza potevano essere sovrumani, insomma divini. Forse erano figli di un dio,
oppure dèi temporaneamente incarnati in un corpo umano. Forse, grazie alla loro
virtù, potenza o caratteristiche fisiche, si pensava che fossero stati accolti nel
regno divino. In ogni caso, erano diversi da noialtri poveri mortali.
Anche noi, come abbiamo visto, facciamo parte di un continuum. Alcuni di
noi sono decisamente modesti, quelli che scrittori come Luciano di Samosata
definirebbero la feccia della terra. Altri rientrano nella media da ogni punto di
vista. Altri sono convinti che le loro famiglie siano ben al di sopra della media.
C’è chi riconosce l’esistenza di individui straordinariamente superiori: per gli
antichi, certe persone lo erano al punto da sconfinare nel regno divino.

Gesù e il regno divino


Questa visione del regno divino non cambiò in maniera significativa fino
all’intervento dei cristiani. È difficile dire esattamente quando, ma che il
cambiamento avvenne è fuor di dubbio, perché nel quarto secolo e.v. —
all’incirca trecento anni dopo Gesù, mentre l’impero si stava convertendo dal
paganesimo al cristianesimo — diversi grandi pensatori romani erano ormai
convinti che i regni divino e umano fossero separati da un enorme abisso. Dio
era «lassù», era l’Onnipotente ed era il solo Dio. Non essendoci altri dèi, non
esisteva alcun continuum: c’eravamo solo noi umili peccatori quaggiù e Dio
lassù, sovrano eccelso di ogni cosa.
Lo stesso Gesù finì per essere collocato non quaggiù con noi, ma lassù con
Dio. Anzi, Gesù era Dio, con la D maiuscola.
Ma come poteva essere Dio, se Dio era uno e non esistevano dèi all’infuori di
lui, nemmeno due? Com’era possibile che Gesù fosse Dio e Dio fosse Dio, ma al
tempo stesso che esistesse un solo Dio? È uno degli interrogativi alla base di
questo libro, ma la questione più immediata e urgente riguarda l’origine di
questa idea. Come poteva l’uomo Gesù diventare Dio, in un qualunque senso?
L’importanza delle ultime parole è cruciale. Uno degli errori più frequenti
nell’affrontare la questione è presumere che l’idea diffusa nel quarto secolo e.v.
— i regni umano e divino separati da un abisso — fosse già in voga agli albori
del movimento cristiano. Un errore che non viene commesso solo dai profani,
ma anche da parecchi teologi professionisti. E non solo dai teologi, ma anche da
studiosi di ogni sorta, ivi compresi — o forse soprattutto — biblisti e storici del
primo cristianesimo. Quando costoro si domandano come fece Gesù a diventare
Dio, alludono a un passaggio dal regno puramente umano, popolato da milioni di
persone, con vari livelli di talento, forza, bellezza e virtù, al regno di Dio, il solo
Dio, Creatore Onnipotente e Signore di ogni cosa. Insomma, come fece Gesù a
diventare DIO? 22
La domanda è indubbiamente interessante, perché è proprio ciò che accadde:
Gesù diventò Dio nell’accezione diffusa nel quarto secolo. Il punto è che già in
precedenza era stato visto come Dio, da persone che concepivano diversamente
il rapporto fra i regni umano e divino. I cristiani assimilavano Gesù a Dio?
Se applicata al primo cristianesimo, la domanda va lievemente riformulata: in
che senso i cristiani assimilavano Gesù a Dio? Se il regno divino è un continuum
e non un assoluto, una piramide e non un singolo punto, allora l’interrogativo
fondamentale è proprio in che senso Gesù diventò Dio.
Come vedremo nei prossimi capitoli, in principio Gesù non veniva affatto
assimilato a Dio. Furono i suoi seguaci, in un secondo momento, ad attribuirgli
un certo grado di divinità, ma non ancora pari a Dio Onnipotente in senso
assoluto. Insomma, fu un processo graduale.
Tra le scoperte più rilevanti degli ultimi duecento anni di studi sul Nuovo
Testamento e sul primo cristianesimo c’è il fatto che finché rimase in vita Gesù
venne considerato assolutamente umano, e non Dio, dai suoi seguaci. La gente lo
vedeva come un maestro, un rabbino e persino un profeta, oppure come
l’umanissimo messia, ma Gesù era nato come tutti gli altri ed era «come» tutti
gli altri. Cresciuto a Nazareth, da giovane non si era distinto in modo particolare.
Da adulto — forse già da bambino — si era convinto, come molti altri ebrei suoi
contemporanei, che la fine di un’epoca fosse vicina, che Dio stesse per
sgominare le forze del male e istituire un regno del bene sulla terra. Sentendosi
chiamato ad annunciare l’apocalisse imminente, Gesù dedicò alla missione il suo
intero ministero pubblico.
Durante un viaggio a Gerusalemme finì per inimicarsi le autorità locali, che lo
arrestarono. Condotto al cospetto di Ponzio Pilato, governatore della Giudea,
dopo un breve processo venne condannato per insurrezione: si proclamava re dei
giudei quando in Palestina e nel resto del Mediterraneo soltanto i grandi
feudatari romani potevano nominare i sovrani. In quanto agitatore politico, fu
condannato a una morte particolarmente ignominiosa: la crocifissione. Dal punto
di vista dei romani, la storia di Gesù finisce qui.
Noi però sappiamo che la storia non finisce qui, il che ci riporta alla domanda
iniziale: come mai un profeta dell’apocalisse arrivato dalla rurale Galilea,
crocifisso per reati contro lo Stato, finì per essere assimilato al solo Dio
Onnipotente, creatore dell’universo? Come poté Gesù — nella mente e nel cuore
dei suoi devoti successivi — diventare Dio?
Il punto di partenza più logico per cercare una risposta sembrerebbero la vita e
gli insegnamenti di Gesù, ma prima dobbiamo prendere in esame la cornice
religiosa e culturale del giudaismo del primo secolo, entro la quale Gesù visse e
annunciò il suo messaggio. Come vedremo, per quanto la loro convinzione che
esistesse un solo Dio da venerare e servire li separasse dal mondo pagano
circostante, gli ebrei condividevano con esso l’idea del rapporto fra i regni
divino e umano. Pensavano, inoltre, che le divinità potessero assumere
sembianze umane e che gli uomini potessero diventare divini.

1. Chi ha letto i miei altri testi riconoscerà la storia. Si veda Bart D. Ehrman (2012), The New
Testament: A Historical Introduction to the Early Christian Writings, 5a ed., Oxford University
Press, New York, pp. 32-34.←
2. Filostrato (2011), Vita di Apollonio di Tiana, a cura di Dario Del Corno, Adelphi, Milano, p.
65.←
3. Eusebio di Cesarea (1997), Contro Ierocle, a cura di Alberto Traverso, Città Nuova, Roma, p.
37.←
4. Poiché scriveva quando i Vangeli erano già in circolazione, è del tutto possibile — come hanno
sottolineato diversi critici — che Filostrato fosse influenzato dal loro ritratto di Gesù, e che di
conseguenza le analogie fra il suo resoconto su Apollonio e le storie evangeliche fossero opera
sua. Non è affatto escluso, ma il punto è che i per i suoi lettori non doveva essere difficile
accettare l’idea che Apollonio fosse un «uomo divino» come altri, ben noti all’epoca.←
5. Publio Ovidio Nasone (1992), Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano, p.
363.←
6. Ivi, p. 367.←
7. Il mio amico Michael Penn, professore di studi religiosi al Mount Holyoke College, mi ha
spiegato che esistono casi di gemelli con padri diversi — un fenomeno noto come
superfecondazione eteropaternale —, ma gli ovuli della donna devono essere stati fecondati
entro un intervallo temporale relativamente breve. Si presume che la guerra avesse tenuto
Anfitrione lontano da casa per diversi mesi.←
8. Secondo Diogene Laerzio, biografo dei filosofi greci, talvolta Platone era identificato come
figlio del dio Apollo (Vite dei filosofi, 3.1-2, 45).←
9. Livio (2003), Storia di Roma dalla sua fondazione, traduzione di Mario Scandola, Biblioteca
Universale Rizzoli, Milano.←
10. In Svetonio (2004), Vita dei Cesari, traduzione di Edoardo Noseda, Garzanti, Milano.←
11. La fonte di questo paragrafo è John Collins, in Adela Yarbro Collins e John J. Collins (2008),
King and Messiah as Son of God: Divine, Human, and Angelic Messianic Figures in Biblical
and Related Literature, Eerdmans, Grand Rapids, MI, p. 53.←
12. Esistono numerosi studi pregevoli sul culto degli imperatori. È ormai diventato un piccolo
classico S.R.F. Price (1984), Rituals and Power: The Roman Imperial Cult in Asia Minor,
Cambridge University Press, Cambridge. Per un lavoro più recente, si veda Jeffrey Brodd e
Jonathan Reed (2011), Rome and Religion: A Cross-Disciplinary Dialogue on the Imperial Cult,
Society of Biblical Literature, Atlanta. Fra gli studi del rapporto tra il culto imperiale e il primo
cristianesimo, questi due sono particolarmente validi: Steven J. Friesen (2001), Imperial Cults
and the Apocalypse of John: Reading Revelation in the Ruins, Oxford University Press, New
York; Michael Peppard (2011), The Son of God in the Roman World: Divine Sonship in Its
Social and Political Context, Oxford University Press, New York.←
13. Quintiliano (1982), Istituzione oratoria, a cura di Orazio Frilli, Zanichelli, Bologna, p. 77.←
14. Per approfondire si veda il classico studio Lily Ross Taylor (1931), The Divinity of the Roman
Emperor, American Philological Association, Middletown, CT.←
15. Si vedano le discussioni nei testi citati alla nota 10.←
16. Price 1984:31.←
17. Ivi, p. 54.←
18. In Luciano di Samosata (2007), Tutti gli scritti, a cura di Diego Fusaro, traduzione di Luigi
Settembrini, Bompiani, Milano, p. 1729.←
19. Ivi, p. 1731.←
20. Price 1984:55.←
21. Si veda Ramsay MacMullen (1983), Paganism in the Roman Empire, Yale University Press,
New Haven, CT.←
22. Per una discussione su questa prospettiva, e sul perché è un errore applicarla all’antichità, si
veda in particolare Peppard 2011:9-49.←
2. Uomini divini nell’antico giudaismo
Ho cominciato a insegnare a metà degli anni Ottanta, quando la Rutgers
University mi offrì un posto da professore aggregato. Siccome i docenti part-
time tendono a non guadagnare molto, per sbarcare il lunario facevo altri lavori,
compreso uno all’Institute for Advanced Study di Princeton. L’ateneo aveva
avviato il Princeton Epigraphy Project, un progetto a lungo termine consistente
nel raccogliere, catalogare e inserire in un database informatico tutte le iscrizioni
greche rinvenute nei grandi centri urbani dell’antico Mediterraneo, per poi
pubblicarle in volumi separati, uno per ogni località. A me toccavano le
interminabili ricerche per il responsabile del progetto, che a differenza mia aveva
alle spalle un prestigioso curriculum di studi classici e sapeva leggere le
iscrizioni come fossero il giornale. Il mio compito era batterle al computer e
rivederle. Fra le città antiche che mi avevano affidato c’era Priene, sulla costa
occidentale della Turchia. Non ne avevo mai sentito parlare, ma mi toccò
raccogliere e catalogare tutte le iscrizioni di Priene pubblicate fino a quel
momento.
Facciamo un salto avanti, fino al 2009. La mia vita era nettamente cambiata.
In quanto professore di ruolo alla University of North Carolina avevo la
possibilità di viaggiare in lungo e in largo, e ne approfittavo. Quell’estate avevo
deciso di andare in Turchia con il mio caro amico Dale Martin, professore di
Nuovo Testamento a Yale, per visitare vari siti archeologici. Il soggiorno durò
due settimane, non avevamo pianificato nulla o quasi. Fu meraviglioso.
Uno dei momenti più indimenticabili fu la visita alle rovine dell’antica Priene.
Il sito è incredibile, così come il paesaggio montano che lo circonda. Negli anni
gli archeologi tedeschi vi hanno effettuato scavi importanti, ma perlopiù rimane
intatto. Ci sono rovine di templi, case, botteghe e strade, persino un teatro con
cinquemila posti. Interessante il bouleutérion — sede delle assemblee del
consiglio comunale — che ancora si erge, di pianta quadrata, con i sedili su tre
lati. Domina le rovine la struttura del tempio di Atena Poliade, con le colonne
cadute e i tamburi che le componevano sparsi per terra. E poi le iscrizioni greche
disseminate qui e là, in attesa di essere lette. Quel pomeriggio, osservando una
delle iscrizioni, fui folgorato da un’illuminazione, un’idea quanto mai banale —
gli studiosi ne discutevano da anni — che però non mi si era mai manifestata in
tutta la sua forza. Com’era possibile? Perché non ci ero ancora arrivato? Prima di
continuare la visita dovetti sedermi a pensarci su per un quarto d’ora.
All’epoca avevo già buttato giù qualche appunto preliminare per questo libro,
ma intendevo affrontare la trasformazione di Gesù in Dio come processo interno
al cristianesimo, conseguenza logica degli insegnamenti di Gesù emersi allorché
certi suoi seguaci si convinsero che fosse resuscitato dai morti (ci torneremo nei
prossimi capitoli). In altre parole, non mi sfiorava nemmeno l’idea di mettere
quel processo in rapporto con quanto stava avvenendo oltre i confini della
tradizione cristiana. E poi, fuori da un tempio di Priene, lessi quell’iscrizione
dedicata al Dio (Cesare) Augusto.
In quel momento ci arrivai: l’ascesa del cristianesimo, con i suoi proclami
esaltati su Gesù, aveva coinciso con l’ascesa del culto dell’imperatore. I cristiani
chiamavano Gesù «Dio» subito dopo che i romani avevano iniziato a chiamare
«Dio» l’imperatore. Una coincidenza storica? Nemmeno per sogno. Non si
trattava di semplici sviluppi paralleli, ma di una competizione: chi era il vero
uomo-dio, l’imperatore o Gesù? Mi resi conto che i cristiani non avevano
attribuito un certo grado di divinità a Gesù di loro spontanea iniziativa, ma sotto
l’influenza dell’ambiente in cui vivevano. Sapevo che altri studiosi ci avevano
già pensato, ma solo in quell’istante l’idea mi colpì come un fulmine.
Decisi seduta stante di rivedere l’impianto concettuale del libro, ma subito un
problema si impose alla mia attenzione. I primi cristiani a parlare di Gesù in
termini divini non erano pagani di Priene, ma ebrei palestinesi: ebrei che
naturalmente conoscevano il culto dell’imperatore, praticato in alcune della città
«più greche» della Palestina nel primo secolo. E tuttavia i primi seguaci di Gesù
non erano particolarmente imbevuti di cultura greca, bensì ebrei provenienti
dalla campagna e dai villaggi della Galilea. Può darsi che in seguito, una volta
che la Chiesa cristiana assunse un profilo più “gentile”, a maggioranza di pagani
convertiti, l’enfasi su Gesù come Dio (a scapito dell’imperatore come Dio)
avesse una sua logica, ma che dire delle origini?
Iniziai così a pensare agli uomini divini nel giudaismo, ma mi scontrai
immediatamente con un rompicapo. A differenza dei vicini pagani, gli ebrei
erano monoteisti: e allora come potevano dire da un lato che Gesù era Dio e
dall’altro che di Dio ce n’era solo uno? Se Dio era Dio e Gesù era Dio, non
facevano due Dèi in totale? La questione andava approfondita.

Il giudaismo nel mondo antico


Il primo passo, ovviamente, è spiegare per sommi capi cos’era il giudaismo
nell’antichità, all’epoca di Gesù. Mi concentrerò in particolare su ciò che gli
ebrei «credevano», perché la questione che più mi interessa è in che modo
l’equiparazione di Gesù a Dio potesse rientrare nel pensiero ebraico
complessivamente inteso. Occorre sottolineare che il giudaismo non era fondato
sulla fede in quanto tale: per molti ebrei si trattava di un sistema di pratiche, più
che di credenze. Essere giudei significava vivere in un certo modo, dedicarsi ad
attività «religiose» come i sacrifici, le preghiere e l’ascolto delle letture dai testi
sacri; rispettare le restrizioni alimentari e osservare lo Shabbat; praticare riti
come la circoncisione dei bambini e la celebrazione delle festività ebraiche;
attenersi a codici etici come quelli illustrati nei Dieci Comandamenti. Questo e
molto altro significava essere giudei nell’antichità, ma a noi interessa soprattutto
cosa pensavano di Dio e del regno divino, perché sono queste convinzioni a
permetterci di capire com’era possibile che l’uomo Gesù fosse assimilato a Dio.
Ricostruire le idee degli ebrei è di per sé un’impresa, perché non tutti la
pensavano allo stesso modo. Sarebbe come condurre un sondaggio su qual è
l’opinione dei cristiani di oggi: ci sarà chi dice che i cristiani considerano Gesù
pienamente divino e pienamente umano, il che potrebbe anche essere vero, ma
non per chi continua a credere che Gesù fosse veramente Dio in sembianze
umane, oppure per chi è convinto che fosse un uomo smoderatamente religioso,
ma non Dio. In quasi tutte le confessioni cristiane troveremo un gran numero di
persone che si definiscono cristiane pur avendo idee diverse da quelle di altri
cristiani. Viene in mente quello che alcuni episcopaliani odierni dicono di se
stessi: se ne metti quattro in una stanza, avrai cinque opinioni diverse.
Altrettanto vale per gli antichi ebrei.

Credenze ebraiche predominanti


Tutto ciò premesso, possiamo tentare di illustrare le probabili credenze della
maggior parte degli ebrei all’epoca di Gesù. (Inutile dire che una trattazione
completa richiederebbe un corposo volume a sé. 1 ) Nel complesso, gli ebrei
erano monoteisti. Sapevano che i pagani adoravano numerosi dèi, ma per loro
c’era un solo Dio: il loro Dio, il Dio d’Israele, creatore del mondo e di tutto ciò
che conteneva. Inoltre, Dio aveva promesso ai padri d’Israele una vasta
discendenza, aveva scelto gli israeliti come suo popolo e aveva stretto con loro
un patto solenne, una sorta di trattato di pace: sarebbe stato il loro Dio se loro
fossero stati il suo popolo. Essere il suo popolo significava rispettare la legge che
lui aveva dato loro: la legge di Mosè, oggi contenuta nei primi cinque libri della
Bibbia ebraica — Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio —, ovvero
la cosiddetta Torah («legge» in ebraico).
Si trattava della legge che Dio aveva rivelato al profeta Mosè dopo che questi
aveva salvato il popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto, come narrato nel libro
dell’Esodo. La legge comprendeva istruzioni su come onorare Dio (per esempio
tramite i sacrifici), su come distinguersi dagli altri popoli (per esempio tramite il
regime alimentare kosher) e su come convivere collettivamente (per esempio
tramite i precetti etici dei Dieci Comandamenti). Al cuore della legge ebraica
c’era il comandamento che ordinava di onorare soltanto il Dio d’Israele. Così
recita l’inizio dei Dieci Comandamenti: «Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a
me» (Esodo 20:2-3).
All’epoca di Gesù, la maggior parte degli ebrei (ma non tutti) riconosceva altri
testi sacri oltre alla Torah. C’erano gli scritti dei profeti (per esempio Amos,
Isaia e Geremia) che raccontavano la storia antica di Israele e annunciavano la
parola di Dio a chi si trovava in difficoltà. C’erano altri scritti, come il Libro dei
Salmi e quello dei Proverbi, ai quali veniva attribuita un’autorevolezza divina
particolare. Alcuni di questi libri riaffermavano gli insegnamenti della Torah,
applicando le parole della legge a situazioni nuove. Isaia, per esempio, è
perentorio nelle sue asserzioni monoteistiche: «Io sono il Signore, e non ce n’è
alcun altro; fuori di me non c’è altro Dio!» (Isaia 45:5). Poco più avanti, dichiara
il profeta:
Volgetevi a me e siate salvati,
voi tutte le estremità della terra!
Poiché io sono Dio, e non ce n’è alcun altro.
Per me stesso io l’ho giurato;
è uscita dalla mia bocca una parola di giustizia, e non sarà revocata:
Ogni ginocchio si piegherà davanti a me,
ogni lingua mi presterà giuramento. (Isaia 45:22-23)

Isaia illustra qui un concetto che diventerà importante nella successiva storia del
giudaismo: non solo esiste un solo Dio, ma col tempo tutti se ne renderanno
conto. Tutti i popoli della terra, in futuro, si inchineranno di fronte a lui e ne
proclameranno il nome.

Uno spettro divino nel giudaismo?


Se dunque i testi sacri sottolineano l’unicità di Dio, com’è possibile immaginare
che gli ebrei credessero in qualcosa di simile a una piramide divina? Il sistema
pagano ammetteva non solo che gli dèi diventassero temporaneamente umani,
ma anche che gli uomini, in un certo senso, potessero essere divini. Se però il
Dio è uno solo?
La tesi di questo capitolo è che anche gli ebrei pensavano che esistessero
uomini divini, ma prima di illustrare come fosse possibile ci sono due questioni
generali sul monoteismo giudaico che vanno chiarite. La prima è che non tutti gli
antichi israeliti erano monoteisti, come dimostra il versetto della Torah citato
sopra, il primo comandamento. Prestiamo attenzione alle parole esatte: «Non
avere altri dèi oltre a me», non «Credi in un solo Dio». Così formulato, il
comandamento presuppone che esistano altri dèi, ma nessuno di loro dev’essere
onorato prima, o invece, del Dio d’Israele. Secondo l’interpretazione corrente, il
comandamento implicava inoltre che questi altri dèi non dovessero essere adorati
nemmeno insieme o dopo il Dio d’Israele, ma questo non significa che non
esistessero: semplicemente, non andavano onorati.
Gli studiosi hanno definito enoteismo questa posizione, per distinguerla da
quello che finora abbiamo chiamato monoteismo.
Il monoteismo sostiene che esiste un solo Dio; l’enoteismo sostiene che
esistono altri dèi, ma c’è solo un Dio che dobbiamo onorare. Ebbene, i Dieci
Comandamenti, così come quasi tutta la Bibbia ebraica, esprimono una visione
enoteistica. Affermando che «io sono il Signore, e non ce n’è alcun altro» Isaia
si pone in un’ottica monoteistica, che però è minoritaria nel testo sacro.
Ai tempi di Gesù molti ebrei (se non la maggior parte) si erano ormai
convertiti al monoteismo, ma questo non avrebbe dovuto precludere la
possibilità che il regno divino fosso popolato da altri dèi? La mia ipotesi — è la
seconda questione generale — è che la risposta sia no. Può darsi che non tutti i
giudei chiamassero «Dio» o «dèi» le altre divinità sovrumane, ma questo non
significa che non esistessero. In altre parole, il regno celeste era popolato da
entità che avevano facoltà divine e sovrumane, benché non pari a quelle del Dio
supremo. Nella Bibbia ebraica, per esempio, troviamo angeli, cherubini e
serafini, figure vicine a Dio che lo adorano e ne attuano la volontà (si veda per
esempio Isaia 6:1-6). Si tratta di esseri dotati di un potere incredibile, nettamente
superiori agli uomini: divinità di rango inferiore. All’epoca del Nuovo
Testamento, gli autori ebrei li identificano come «principati», «dominazioni»,
«potestà» e «autorità», esseri divini anonimi che dimorano nel regno divino ma
sono attivi anche sulla terra (Efesini 6:12; Colossesi 1:16) e si collocano lungo
una scala gerarchica, un continuum di potere. Alcuni esseri cosmici sono più
potenti di altri: ecco perché i testi ebraici parlano dei grandi angeli Michele,
Gabriele e Raffaele, potenze divine nettamente superiori agli uomini ma inferiori
a Dio.
Il punto, dunque, è che anche il giudaismo contemplava un continuum di
entità e potenze divine, per molti versi paragonabile a quello del paganesimo.
Questo vale anche per gli autori strettamente monoteisti, i quali forse erano
convinti che esistesse un solo essere supremo meritevole del titolo di Dio
Onnipotente, proprio come certi filosofi pagani pensavano che al vertice della
«piramide» ci fosse un solo vero dio superiore a tutti gli altri. Alcuni ebrei, forse
molti, sostenevano che soltanto quel Dio andasse onorato, ma sappiamo di altri
che ritenevano assolutamente accettabile e giusto venerare creature divine come
gli angeli. Se era giusto inchinarsi davanti a un grande re in segno di omaggio,
ancora più giusto doveva essere inchinarsi davanti a una figura persino più
grande, un angelo.
Se sappiamo che alcuni ebrei ritenevano giusto venerare gli angeli è
soprattutto perché molti dei testi che ci sono pervenuti vietano di farlo. 2 Le
leggi non proibiscono comportamenti che nessuno mette in atto. Se tutti i pedoni
attraversassero la strada con attenzione e tutti gli autisti guidassero con
prudenza, non esisterebbero le strisce e i limiti di velocità. Gli autori antichi
prescrivevano di non venerare gli angeli proprio perché c’era chi lo faceva. E
può anche darsi che non la ritenessero una trasgressione ai Dieci Comandamenti:
Dio era l’origine di tutto quanto era divino, certo, ma esistevano pure divinità
inferiori, persino nel monoteismo giudaico.
È in questo contesto che intendo affrontare la questione fondamentale:
creature divine che diventavano umane ed esseri umani che diventavano divini
nel giudaismo. Prenderemo in esame tre categorie, grosso modo corrispondenti a
quelle del mondo pagano. Nel giudaismo troviamo divinità che assumono
sembianze umane, semidivinità nate dall’unione fra un dio e una donna mortale
e uomini che sono o diventano divini.

Divinità che assumono sembianze umane


Gli angeli dell’antico giudaismo erano considerati messaggeri sovrumani di Dio
che attuavano la sua volontà sulla terra. Il numero di quelli che assumevano
forma umana è sorprendente. Non solo: in alcuni testi ebraici antichi compare il
cosiddetto «Angelo del Signore», vale a dire il «primo» angelo. Quale grado di
divinità gli viene attribuito? In certi passi è identificato con lo stesso Dio, eppure
a volte si manifesta come essere umano. È il corrispettivo ebraico dell’idea
pagana secondo la quale gli dèi potevano scendere sulla terra in forma umana.

L’Angelo del Signore come dio e uomo

Un primo esempio nelle scritture è Genesi 16. La storia è questa. Dio ha


promesso ad Abramo che avrà numerosi discendenti, anzi, che diventerà padre
del popolo d’Israele. Il problema è che non ha figli. Sarai, la moglie sterile, gli
offre la sua serva Agar perché concepisca un figlio con lei. Abramo è ben lieto di
approfittarne, ma poi Sarai diventa gelosa di Agar e la maltratta. La serva fugge
via.
A quel punto l’Angelo del Signore trova Agar nel deserto (Genesi 16:7) e le
ordina di tornare dalla padrona, annunciandole inoltre che lei, Agar, avrà un
figlio destinato a diventare progenitore di un (altro) grande popolo. Senonché,
dopo aver chiamato «Angelo del Signore» l’emissario celeste, il testo ci dice che
in realtà è stato «il SIGNORE» a parlare con lei (16:13). Inoltre, rendendosi
conto di aver rivolto la parola direttamente a Dio, Agar si meraviglia di essere
«riuscita ancora a vedere, dopo la mia visione». Il brano genera ambiguità e
confusione: è il Signore che si manifesta come angelo in forma umana oppure
l’Angelo del Signore è il Signore stesso, Dio con le sembianze di un uomo?
Ritroviamo un’ambiguità simile due capitoli dopo, stavolta con Abramo.
Genesi 18:1 ci dice che «il SIGNORE apparve ad Abramo alle querce di
Mamre», ma subito dopo scopriamo che «tre uomini stavano davanti a lui»
(18:2). Da buon ospite, Abramo li intrattiene e prepara un lauto pasto, che tutti e
tre consumano. Quando però gli rivolgono la parola, uno dei tre viene
identificato esplicitamente come «il SIGNORE» (18:13), mentre alla fine
veniamo a sapere che gli altri due sono «angeli» (19:1). Abbiamo quindi due
angeli e il Signore Dio che assumono sembianze umane, appaiono ad Abramo
come tre uomini e mangiano il cibo che lui ha preparato.
L’esempio più noto di questa ambiguità è la storia di Mosè e del pruno in
fiamme (Esodo 3:1-22). Retroscena: figlio di israeliti, Mosè è stato cresciuto in
Egitto dalla figlia del faraone, ma dopo aver ucciso un uomo ha dovuto fuggire
ed è ricercato dal faraone in persona. Si reca allora nel paese di Madian, dove si
sposa e diventa pastore al servizio del suocero. Un giorno, portate le greggi sul
monte Oreb (vale a dire il monte Sinai, dove riceverà le tavole della legge dopo
l’esodo), ha una visione straordinaria: «L’angelo del SIGNORE gli apparve in
una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno» (3:2). Mosè non crede ai suoi occhi,
perché pur essendo in fiamme il pruno non si consuma. Inoltre, per quanto ad
apparirgli sia stato l’Angelo del Signore, è «il Signore» a vedere Mosè che si
avvicina al pruno ed è «Dio» a chiamarlo. Per giunta, l’Angelo del Signore gli
dice: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di
Giacobbe» (3:6). Nel seguito, è il Signore Dio che continua a parlare a Mosè, e
Mosè a Dio. È dunque stato l’Angelo del Signore ad apparirgli? Vale la pena di
citare un’utile nota della HarperCollins Study Bible: «Benché sia un angelo ad
apparire nel v. 2, non esistono differenze sostanziali fra la divinità e i suoi
agenti». 3 Oppure, per dirla con lo studioso neotestamentario Charles Gieschen,
o questo «Angelo del Signore» è «indistinguibile da Dio in quanto sua
manifestazione visibile», oppure è una figura separata da Dio ma investita della
sua autorità. 4

Altri angeli come dèi-uomini

La Bibbia e altri testi ebraici contengono vari brani con angeli descritti come Dio
e — particolare altrettanto importante — come uomini. Fra i più interessanti c’è
il Salmo 82, uno splendido appello alla giustizia per i deboli e i bisognosi. Recita
il versetto 1: «Dio sta nell’assemblea divina; egli giudica in mezzo agli dèi».
Troviamo dunque il Dio Onnipotente insieme alle creature angeliche con cui è
solito consultarsi, come altrove nella Bibbia. L’esempio più noto è Giobbe 1,
dove del consesso divino fa parte anche Satana. 5 Le creature che lo
compongono sono «figli di Dio» (1:6), mentre nel Salmo 82 vengono chiamate
«figli dell’Altissimo» (82:6) e addirittura «Elohim» nella Bibbia ebraica, ovvero
«Dio» (è un sostantivo plurale: quando non è riferito a Dio, di norma viene
tradotto «dèi»). Questi angeli sono «dèi», e nel salmo vengono rimproverati
perché non si preoccupano degli umili, dei deboli e dei derelitti. Poiché hanno
fallito, Dio infligge loro il castigo supremo: li trasforma in mortali, cosicché
moriranno e cesseranno di esistere (82:7).
Dunque gli angeli, figli di Dio, possono essere chiamati dèi, e in vari testi
scopriamo che diventano umani. Vediamo qualche esempio extra-biblico. Nella
Preghiera di Giuseppe, un testo ebraico che probabilmente risale al primo secolo
e.v., il padre dell’ebraismo Giacobbe si presenta in questo modo: «Io Giacobbe e
Israele, che parlo a voi, sono un angelo di Dio […] il primogenito di ogni essere
vivente, vivificato da Dio. […] Uriele, l’angelo di Dio, […] disse che [io ero]
disceso sulla terra e [abitavo] tra gli uomini e [fui] chiamato Giacobbe». 6 Più
avanti viene definito «angelo primo della potenza del Signore» e «capo delle
schiere tra i figli di Dio». Di nuovo, vediamo il primo angelo apparire sulla terra
in forma umana, in questo caso nelle vesti del patriarca Giacobbe, che
conosciamo grazie al libro della Genesi.
Il secondo esempio è tratto da un altro testo giudaico grosso modo
contemporaneo, l’Apocalisse di Abramo, che narra di una visione avuta dal
patriarca dell’ebraismo. Abramo sente una voce, ma non vede nessuno:
sbalordito, crolla a terra, come privo di vita (10.1-2). Steso a faccia in giù, sente
Dio che ordina a un angelo di nome Yahoel di restituirgli le forze. Yahoel appare
dunque ad Abramo in forma d’uomo (10.4), lo aiuta a rialzarsi e si presenta
come l’angelo che dona la pace alle fazioni nemiche in cielo ed è in grado di fare
miracoli non solo sulla terra, ma anche nell’Ade, il regno dei morti.
Guardandolo, Abramo nota che ha il corpo blu zaffiro, il volto color crisolito,
capelli bianchi come neve, un arcobaleno sopra la testa, regali vesti purpuree e
un bastone d’oro in mano (11.2-3). Abbiamo dunque un potente angelo,
temporaneamente incarnato allo scopo di attuare la volontà di Dio sulla terra, in
questo caso assistere Abramo nelle sue molteplici attività.

Uomini che diventano angeli

Altri testi non parlano solo di angeli (o dello stesso Dio) che diventano umani,
ma anche di uomini che diventano angeli. Oggi sono in molti a pensare che dopo
la morte le persone si trasformino in angeli (quanto meno se sono stati «buoni»
in vita), ma si tratta di una credenza antichissima. Nel testo noto come 2 Baruc,
una delle grandi apocalissi del primo giudaismo (l’apocalisse è una rivelazione
divina sui destini dell’umanità e del mondo), scopriamo che i veri fedeli
verranno tramutati «nello splendore degli angeli […] Dimoreranno infatti sulle
altezze di quel mondo e saranno simili agli angeli e paragonabili alle stelle […]
E allora l’eccellenza sarà nei giusti più che negli angeli». (2 Baruc 51.3-10). 7 I
giusti diventano quindi angeli superiori ad altri angeli, persino alle stelle, che
nell’antichità erano diffusamente considerate angeli straordinariamente grandi.
Esistono antichi testi ebraici che raccontano di individui trasformati in angeli
alla morte. Tra le figure più misteriose della Bibbia ebraica c’è Enoch, citato
soprattutto in Genesi 5, ma gli scarni versetti non ci dicono granché su di lui.
Sappiamo che era padre di Matusalemme, l’uomo più vecchio mai vissuto
secondo le sacre scritture (novecentosessantanove anni, stando a Genesi 5:27) e
bisnonno di Noè. Il particolare più sorprendente, tuttavia, è che a
trecentosessantacinque anni Enoch abbandonò la terra, ma senza morire: «Enoch
camminò con Dio; poi scomparve, perché Dio lo prese» (5:24), un laconico
proclama che generò congetture e dibattiti a non finire nell’antico giudaismo.
Numerose antiche apocalissi vengono attribuite a Enoch: chi poteva conoscere il
futuro della storia o del regno celeste meglio di colui che era salito in cielo senza
morire?
Il Secondo libro di Enoch, forse scritto all’epoca di Gesù, formula un’ipotesi
sul destino di Enoch dopo che fu accolto nel regno divino (22.1-10). Giunto al
cospetto del Signore, Enoch si prostra ai suoi piedi. Dio lo invita ad alzarsi e
dice ai suoi angeli: «Enoch salga per stare davanti al mio volto nei secoli». 8
Quindi, all’angelo Michele: «Prendi Enoch e spoglialo delle vesti terrene e
ungilo di olio benedetto e rivestilo di vesti di gloria». Michele ubbidisce, ed
Enoch riflette in prima persona sulla propria trasformazione: «Guardai me stesso
e fui come uno dei Gloriosi e non c’era differenza d’aspetto». In seguito
all’«angelificazione», se così possiamo chiamarla, il volto di Enoch si fece così
luminoso che nessuno poteva guardarlo (37.2) e lui non ebbe più bisogno di
mangiare e dormire (23.3; 56.2): in altre parole, era diventato identico a un
angelo.
Qualcosa di simile si dice che fosse accaduto a Mosè, la cui morte è descritta
in termini criptici nella Bibbia. Sappiamo che morì solo e che nessuno scoprì
mai l’ubicazione della sua tomba (Deuteronomio 34:5-6). Secondo autori ebraici
successivi, anche Mosè salì in cielo. L’apocrifo Libro del Siracide, per esempio,
racconta che Dio lo fece «glorioso come i santi e lo rese grande a timore dei
nemici» (45.1-5): uguale agli angeli, insomma. Addirittura superiore agli angeli
viene descritto in un testo attribuito a un autore noto come Ezechiele tragico,
secondo il quale Mosè venne munito di uno scettro e chiamato a sedersi su un
trono con un diadema sul capo, cosicché le «stelle» si inchinassero al suo
cospetto. Non dimentichiamo che le stelle venivano considerate angeli superiori,
ma qui le vediamo rendere omaggio a Mosè, trasformato in un essere superiore
persino a loro.
Riassumendo: l’Angelo del Signore a volte viene descritto nella Bibbia come
lo stesso Signore Dio, e a volte appare sulla terra in forma umana. Altri angeli —
membri dell’assemblea divina — vengono chiamati dèi e diventano mortali, e
altri ancora si manifestano sulla terra con sembianze umane. Ma soprattutto,
alcuni testi ebraici parlano di uomini che si trasformano in angeli alla morte, se
non addirittura in esseri superiori agli angeli e degni di adorazione. L’importanza
di queste scoperte per il nostro interrogativo iniziale (cosa portò Gesù a essere
considerato divino?) dovrebbe già apparire chiara. In un prezioso saggio
sull’antica cristologia cristiana, lo studioso del Nuovo Testamento Larry Hurtado
espone una tesi cruciale: «Le grandi discussioni sugli angeli e altre forme di
riflessione sull’operato divino […] offrirono ai primi cristiani uno schema di
base per collocare il Cristo risorto accanto a Dio senza dover rinunciare alla
propria tradizione monoteistica». 9 In altre parole, se gli uomini potevano
essere angeli (e viceversa), se gli angeli potevano essere dèi e se il primo angelo
poteva addirittura essere il Signore, allora per rendere Gesù divino basta vederlo
come un angelo con sembianze umane.

Esseri divini che generano esseri semidivini


Nel capitolo 1 abbiamo introdotto un tema diffuso nella mitologia pagana:
uomini divini nati dall’unione fra una donna mortale e un dio (per esempio
l’incontenibile Zeus). Negli antichi testi ebraici non troviamo nulla di
esattamente uguale, probabilmente perché passioni umane come il desiderio
sessuale venivano giudicate del tutto incompatibili con il Dio d’Israele. Rabbia e
collera, sì; l’amore fisico, specie se degenerava in atti vergognosi come lo
stupro, no.
Eppure, persino la tradizione giudaica contiene episodi grosso modo analoghi.
Il protagonista non è Dio, naturalmente, ma alcuni dei suoi servi divini, i figli di
Dio, gli angeli: in certi brani si narra che avessero rapporti sessuali con donne
mortali, mettendole incinte dei loro figli sovrumani. Il primo cenno in questo
senso si trova nei primi capitoli della Genesi.
In un passo sorprendentemente esplicito di Genesi 6, scopriamo che i «figli di
Dio» videro sulla terra splendide donne che alimentarono il loro desiderio: «E
presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte» (6:2). Più specificamente, «i
figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli» (6:4).
Contrariato, Dio decise di limitare la vita a umana a centovent’anni, e subito
dopo di sbarazzarsi dell’umanità intera scatenando il Diluvio, al quale
sopravvissero soltanto Noè e la sua famiglia. Ma chi nacque dall’unione tra i
figli di Dio e le donne mortali? I «Nephilim» (un termine che significa «i
caduti»), vale a dire «gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati
famosi» (6:4). Nel libro dei Numeri si narra che fossero giganti originari del
paese di Canaan (13:3). In sintesi, gli esseri divini — i figli di Dio — avevano
avuto rapporti sessuali con le donne mortali, generando figli semidivini che
erano giganti. Li chiamo «semidivini» sia perché sono nati dall’unione fra dèi e
donne umane, sia perché non dimorano nel regno celeste come le altre divinità.
Sono però superiori agli altri uomini, e in quanto giganti, per ragioni evidenti,
guerrieri eccezionali. A latere, credo sia presumibile che per fare di quelle donne
le loro mogli i figli di Dio dovessero assumere sembianze umane: e dunque, ecco
di nuovo esseri divini che si manifestano in forma umana, e per giunta generano
altri esseri sovrumani. Una versione giudaica dei miti pagani.
Un’esposizione più dettagliata di questo racconto della Genesi è reperibile in
un’altra apocalisse ebraica attribuita a una misteriosa figura biblica che abbiamo
già incontrato. L’apocrifo Libro di Enoch è un’articolata raccolta di testi
variegati messi insieme da curatori successivi. I primi trentasei capitoli formano
il cosiddetto «Libro dei Vigilanti», che si ritiene fosse nato indipendentemente
dal Libro di Enoch: gli studiosi lo fanno risalire al terzo secolo a.e.v. Buona
parte del Libro dei Vigilanti è dedicata al breve ma suggestivo episodio narrato
in Genesi 6, con la differenza che qui i «figli di Dio» vengono chiamati Vigilanti
(capp. 6-16) e definiti esplicitamente «angeli».
Esistono duecento angeli erranti come questi, i cui capi vengono citati per
nome: Semeyaza, Ramuel, Tamiel. Stando a questa versione, tutti insieme
scendono sul monte Hermon, dove ciascuno si sceglie una moglie e si congiunge
a lei. I frutti delle unioni sono letteralmente giganti — centotrentacinque metri
d’altezza, specifica Enoch —, e in quanto tali hanno un appetito vorace, tale che
una volta esaurite le provviste iniziano a cibarsi degli uomini. Non c’è da
meravigliarsi che Dio sia contrariato.
Ma gli esseri angelici, i Vigilanti, compiono altre attività illecite. Insegnano al
popolo la magia, la medicina, l’astrologia — arti proibite — e anche la
metallurgia, in modo che possa fabbricarsi gioielli e armi. Osservando la
situazione dal cielo, gli angeli Michele, Suriele e Gabriele fanno rapporto a Dio,
il quale risponde scatenando il Diluvio per annientare i giganti (insieme a tutti
gli altri). I Vigilanti vengono allora legati e gettati in una buca nel deserto, dove
saranno costretti a vivere al buio per settanta generazioni prima di essere dati
alle fiamme eterne nel Giorno del giudizio. Enoch riceve dal Signore l’ordine di
redarguire i Vigilanti in questo modo: «Sebbene siate santi, spirituali, viventi di
vita eterna, avete profanato voi stessi con il sangue delle donne, e avete generato
bambini con il sangue della carne: e, come i figli degli uomini, avete desiderato
la carne e il sangue» (15.4). 10 In questa versione ebraica, gli esseri divini
vengono condannati per essersi comportati come Zeus nella tradizione pagana.
Più avanti il testo afferma: «Ora i giganti, che sono stati generati dagli spiriti e
dalla carne, saranno chiamati spiriti maligni […] Dai loro corpi provengono
spiriti malvagi» (15.8-9). Sembrerebbe una spiegazione dell’origine degli esseri
successivamente chiamati demoni. Abbiamo quindi una visione ancora più
vicina ai miti pagani: i frutti dell’unione tra divinità e donne mortali sono altri
esseri divini, nello specifico le forze demoniache che affliggono il mondo.

Altre figure divine non umane


Dio a parte, troviamo altre figure talvolta descritte come divine nelle antiche
fonti ebraiche, sia nella Bibbia che in testi più tardi, grosso modo risalenti
all’epoca di Gesù e dei suoi seguaci. La prima prende a modello il cosiddetto
«Figlio dell’Uomo», figura introdotta in un passo enigmatico delle scritture, il
settimo capitolo del Libro di Daniele.

Il Figlio dell’Uomo

Il Libro di Daniele è una sorta di versione ebraica dell’Apocalisse, un testo che


secondo i fondamentalisti odierni racchiude in sé l’intera storia umana fino ai
giorni nostri. Gli studiosi, al contrario, la ritengono un’opera del suo tempo. Per
quanto sembri ambientato nel sesto secolo a.e.v., è opinione ormai radicata che il
libro sia stato scritto circa quattrocento anni dopo. Daniele vi viene ritratto come
un prigioniero giudeo portato in esilio a Babilonia, il cui impero globale ha
distrutto la sua madrepatria nel 586 a.e.v. Nel capitolo 7 Daniele racconta di aver
avuto una visione in cui quattro bestie escono dal mare, una dopo l’altra,
impressionanti e terribili, e seminano lo scompiglio sulla terra. A quel punto,
«ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo» (7:13), una
figura umana e non bestiale che invece di emergere dal turbolento mare del caos
arriva dal regno di Dio. Le bestie responsabili di tanta distruzione vengono
condannate e private del loro potere, mentre il regno della terra viene affidato a
colui che è «simile a un figlio d’uomo».
Daniele è incapace di interpretare la visione, ma per fortuna — come accade
di consueto nei testi apocalittici che dischiudono sublimi verità celesti — ha al
suo fianco un angelo che lo aiuta. Le quattro bestie rappresentano altrettanti
regni destinati a dominare la terra, uno dopo l’altro. In conclusione, dopo
l’avvento della quarta bestia, il governo della terra finirà nelle mani di una
creatura dalle sembianze umane. Secondo l’angelo, la visione significa che a
ottenere il potere sarà il «popolo dei santi dell’Altissimo» (7:27), il che potrebbe
voler dire che, così come le quattro bestie, anche l’essere «simile a un figlio
d’uomo» rappresenta un regno. Le bestie sono i successivi regni di Babilonia,
Media, Persia e Grecia, tutti destinati a governare il mondo; il «simile a un figlio
d’uomo» sarebbe allora il regno d’Israele, al quale verrà reso il posto che gli
spetta e conferita l’autorità sull’intero pianeta. A parere di alcuni, le bestie
potrebbero anche rappresentare dei re (alla testa dei rispettivi regni), e altrettanto
il «simile a un figlio d’uomo», forse un essere angelico che guida la nazione
d’Israele. 11
Comunque si voglia interpretare Daniele nel suo contesto originario del
secondo secolo a.e.v., sta di fatto che in certi ambienti ebraici si finì per credere
che il «simile a un figlio d’uomo» fosse davvero un liberatore, un giudice
cosmico della terra che avrebbe scatenato la vendetta di Dio contro i nemici e
offerto ricompense celesti a coloro che gli erano rimasti fedeli. Questa figura,
che diverrà nota come «Figlio dell’Uomo», è descritta in modo particolarmente
dettagliato nel già citato Libro di Enoch (1-36): non nel Libro dei Vigilanti, ma
in una sezione diversa solitamente chiamata Libro delle Parabole (capitoli 37-
71).
Non c’è consenso sulla data di composizione del Libro delle Parabole. Alcuni
studiosi la collocano verso la fine del primo secolo e.v.; un numero
probabilmente superiore ritiene invece che sia stato scritto prima, attorno
all’epoca dello stesso Gesù. 12 Ciò che più conta ai nostri scopi, tuttavia, non è
la data esatta, ma il carattere esaltato del Figlio dell’Uomo. Il Libro delle
Parabole dedica parole splendide e gloriose a questa figura, oggi interpretata
come essere divino e non — per esempio — come la nazione d’Israele.
Scopriamo che ha avuto un nome «prima ancora che il sole e la luna fossero
creati, prima che le stelle fossero create» (48.2-3), e che la terra intera si
prostrerà ai suoi piedi. Prima della creazione era rimasto nascosto davanti a Dio,
ma era lui il prescelto, ed è lui che ha rivelato la sapienza di Dio ai santi e ai
giusti, che verranno «salvati nel suo nome», poiché «hanno ricevuto il suo
beneplacito per la loro vita» (48.2-7).
Alla fine del tempo, quando tutti i morti saranno risorti, sarà lui, l’«Eletto», a
sedere sul trono di Dio (51.3). Da questo «trono di gloria […] giudicherà l’opera
dei santi nel cielo, soppesando le loro azioni». Lui stesso è eterno: «Non perirà
mai né scomparirà dalla faccia della terra» e «ogni male svanirà di fronte al suo
volto» (69.79). Il Figlio dell’Uomo scalzerà «i re e i potenti dai loro troni, e
allenterà la schiavitù dei forti spaccando i denti dei peccatori. Perché loro non Lo
esaltano e non Lo lodano, né umilmente riconoscono che è stato Lui a donare
loro il regno» (46.2-6).
A un certo punto questo giudice cosmico della terra viene chiamato «messia»,
un termine sul quale ci soffermeremo nel prossimo capitolo: per ora basti dire
che deriva dal sostantivo ebraico mashīaḥ, «unto», e che fu usato per la prima
volta per il re d’Israele, l’unto di Dio (cioè il suo prescelto e prediletto). Il
governante unto da Dio non è un semplice mortale, bensì un essere divino che
esiste da sempre, siede accanto a Dio sul suo trono e giudicherà buoni e cattivi
alla fine del tempo. In altre parole, viene elevato al rango e alle funzioni di Dio
in quanto essere divino che attua il suo giudizio sulla terra. Una figura
indubbiamente esaltata, quanto si può esserlo senza essere il Signore Dio
Onnipotente stesso. Sorprendentemente, un’aggiunta successiva al Libro delle
Parabole — capitoli 70-71 — identifica il Figlio dell’Uomo niente meno che con
Enoch: in questa prospettiva più tarda, è un umile mortale a essere esaltato alla
posizione suprema accanto a Dio. 13 In quanto essere esaltato, il Figlio
dell’Uomo è venerato e glorificato dai giusti.

Le due potenze celesti

Abbiamo già osservato che le ingiunzioni contro l’adorazione degli angeli


disseminate negli antichi testi ebraici dimostrano che gli angeli venivano adorati,
altrimenti non avrebbero avuto ragione d’essere. Ora sappiamo che anche il
Figlio dell’Uomo veniva adorato. Si potrebbe obiettare che qualsiasi essere
seduto accanto a Dio su un trono celeste merita di essere adorato. Se hai
intenzione di prostrarti al cospetto di un re terreno, è certamente consigliabile
farlo alla presenza del giudice cosmico della terra.
In un saggio interessante e avvincente, lo studioso dell’antico giudaismo Alan
Segal sostiene che i primi rabbini fossero particolarmente attenti all’idea,
chiaramente diffusa in certi settori del giudaismo, che un secondo essere divino
sedesse sul trono celeste accanto a Dio. Sulla scia di queste fonti ebraiche, Segal
li definisce — Dio e l’altro — le «due potenze celesti». 14 Il Figlio dell’Uomo
di cui ci siamo appena occupati sembrerebbe corrispondere a questo profilo,
poiché condivide rango e potere di Dio, ma esistevano indubbiamente altri
candidati a tale onore celeste. Ansiosi di irreggimentare pensieri e credenze degli
ebrei, i rabbini erano talmente innervositi da queste idee che decisero di
combatterle. E ci riuscirono, perché coloro che le professavano vennero
pressoché ridotti al silenzio.
Nella sua attenta analisi, Segal spiega che chi credeva all’idea «eretica» delle
due potenze era convinto che la seconda fosse una sorta di angelo oppure una
manifestazione mistica di una caratteristica divina che in un certo senso veniva
ritenuta uguale a Dio (ci torneremo). Alla base c’erano particolari interpretazioni
di certi passi biblici, come quelli in cui il nome divino stesso viene attribuito
all’Angelo del Signore, o come il settimo capitolo del Libro di Daniele, con il
suo riferimento a «uno simile a un figlio d’uomo», figura indipendente da Dio
ma depositaria di potenza e dominio eterni. Esistono però altri brani che
sembrerebbero avvalorare la dottrina delle «due potenze», per esempio Genesi
1:26, con Dio che così parla mentre crea l’umanità: «Facciamo l’uomo a nostra
immagine, conforme alla nostra somiglianza». Perché usa il plurale? Secondo
l’eresia delle due potenze, era perché aveva un’altra figura divina accanto a sé.
Potrebbe trattarsi della stessa persona che gli «anziani d’Israele» vedono seduta
sul trono divino in Esodo 24:9-10: per quanto venga definito «Dio d’Israele», la
gente lo vede. Altrove, anche nello stesso Esodo, si dice esplicitamente che chi
vede Dio non può sopravvivere (33:20). Eppure gli anziani l’hanno visto e sono
ancora vivi: di conseguenza, devono aver visto non Dio, ma la seconda potenza.
A partire dal secondo secolo e.v. i rabbini iniziarono a bollare simili idee
come eretiche, ma, di nuovo, ciò dimostra che altri ebrei — probabilmente molti,
a giudicare dalla veemenza con cui venivano condannati — a quelle idee ci
credevano. Secondo Segal, è possibile far risalire l’origine dell’eresia al primo
secolo e.v. e alla stessa Palestina: tra i primi sospettati di professarla c’erano i
cristiani, che — come vedremo — elevarono Gesù al livello di Dio, ma non
erano gli unici. Tra i fautori delle due potenze c’erano anche gli ebrei non
cristiani, sulla base della loro interpretazione di alcuni brani della Bibbia ebraica.

Ipostasi divine
A volte gli studiosi utilizzano termini tecnici senza alcuna ragione se non il fatto
che sono tecnici. Durante la scuola di specializzazione, io e i miei compagni
domandavamo ironicamente come mai dovessimo usare una comprensibilissima
parola inglese quando avevamo un oscuro vocabolo latino o germanico che
significava la stessa cosa. Esistono però rari casi di termini che mancano di un
corrispettivo soddisfacente: ipostasi è uno di quelli. Un’approssimazione
grossolana nel linguaggio corrente potrebbe essere personificazione, ma non è
del tutto adeguata, e comunque non è una di quelle parole che capita di sentire in
fila al supermercato.
Ipostasi viene dal greco, e in generale indica l’essenza o sostanza di qualcosa.
Nel nostro contesto, si riferisce in particolare a una caratteristica o attributo di
Dio che finisce per assumere una propria esistenza indipendente. Diciamo per
esempio che Dio è sapiente. Questo significa che ha la sapienza, ovvero che la
sapienza è qualcosa che Dio «ha»: in altre parole, è qualcosa di indipendente da
Dio, di cui si dà il caso che lui sia in possesso. Se è così, possiamo immaginare
la «sapienza» come un’entità distinta da Dio; e poiché è la sapienza di Dio,
allora si tratta di una sorta di essere divino che sta a fianco ma anche all’interno
di Dio, come parte della sua essenza, di ciò che è.
Ebbene, secondo alcuni pensatori ebraici la Sapienza era esattamente questo,
un’ipostasi di Dio, un elemento del suo essere che per un verso era distinto da
lui, ma per l’altro era completamente suo. La Sapienza era con Dio in quanto
entità divina, ma al tempo stesso poteva essere assimilata a Dio proprio perché
era la sua sapienza. Negli antichi testi ebraici vengono discusse altre ipostasi, ma
qui mi limiterò a prenderne in considerazione due: in primo luogo la Sapienza, in
secondo luogo quella che talvolta veniva ritenuta la manifestazione esteriore
della Sapienza, la Parola o Verbo (Logos in greco) di Dio.

Sapienza
L’idea che la Sapienza potesse essere un’ipostasi divina — un attributo di Dio
che è distinto da Dio ma al contempo è Dio — affonda le radici in un
affascinante brano della Bibbia ebraica, Proverbi 8, dove viene ritratta come
essere parlante che si proclama la prima creatura di Dio:
Il SIGNORE mi ebbe con sé al principio dei suoi atti,
prima di fare alcuna delle sue opere più antiche.
Fui stabilita fin dall’eternità,
dal principio, prima che la terra fosse […]
Fui generata prima che i monti fossero fondati,
prima che esistessero le colline […] (8:22-23, 25)
Quindi, una volta creata la Sapienza, Dio fece il cielo e la terra. Anzi, creò ogni
cosa con la Sapienza, che lo aiutava al suo fianco:
Quand’egli disponeva i cieli io ero là;
quando tracciava un circolo sulla superficie dell’abisso,
quando condensava le nuvole in alto,
quando rafforzava le fonti dell’abisso […]
io ero presso di lui come un artefice;
ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno,
mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra,
trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini. (8:27-28, 30-31)

Dio creò tutte le cose con la sua Sapienza, al punto che essa è vista come una
sorta di co-creatrice. Inoltre, proprio come Dio ha dato vita al creato, così la vita
passa attraverso la Sapienza:
Chi mi trova infatti trova la vita
e ottiene il favore del SIGNORE.
Ma chi pecca contro di me, fa torto a se stesso;
tutti quelli che mi odiano, amano la morte. (8:35-36)

Il brano, naturalmente, può essere letto senza vedere nella Sapienza una qualche
personificazione di un aspetto di Dio che esiste indipendentemente da lui e al
suo fianco. Potrebbe essere una semplice metafora: il mondo è un luogo
stupefacente la cui creazione è radicata nella saggia lungimiranza di Dio, che ha
fatto ogni cosa proprio come doveva essere. Inoltre, chi comprende la sapienza
del modo in cui le cose sono fatte e vive di conseguenza avrà una vita ricca e
felice. Alcuni lettori ebrei, tuttavia, prendevano il passo più alla lettera: la
Sapienza era un vero e proprio essere parlante, situato al fianco di Dio e sua
espressione.
Questa interpretazione portò alcuni pensatori giudei a innalzare la Sapienza al
rango di ipostasi divina, come dimostra un libro degli apocrifi giudaici intitolato
Sapienza di Salomone. Il libro è attribuito allo stesso re Salomone — descritto
nella Bibbia come l’uomo più saggio di tutti i tempi —, ma in realtà venne
scritto parecchi secoli dopo la sua morte. I capitoli 7-9 in particolare sono un
inno alla Sapienza, «un’emanazione della potenza di Dio […] un riflesso della
luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine
della sua bontà» (Sapienza 7:25-26); «Essa infatti è iniziata alla scienza di Dio e
sceglie le opere sue» (8:4).
La Sapienza era presente quando Dio creava il mondo (9:9), ma soprattutto
siede accanto a Dio sul suo trono (9:10). È stata la Sapienza a salvare Israele
durante l’esodo e per l’intera storia della nazione (capitoli 10-11). È interessante
notare che alla Sapienza viene attribuito non solo ciò che la Bibbia ebraica
sostiene abbia fatto Dio (la creazione, l’esodo), ma anche ciò che ha fatto
l’«angelo» di Dio, per esempio salvare Lot, nipote di Abramo, dalle fiamme che
distruggono Sodoma e Gomorra in Genesi 19 (10:6).
In un certo senso, quindi, la Sapienza potrebbe essere vista come un angelo,
persino un angelo esaltato, o addirittura l’Angelo del Signore, ma in quanto
ipostasi è qualcosa di diverso. È un aspetto di Dio che si ritiene esista accanto a
Dio e sia degno dell’onore e della stima riservati a Dio stesso.

La Parola
Per certi versi, l’ipostasi più complessa è la Parola, Logos in greco. La ragione è
la sua lunga e articolata storia nella filosofia greca, all’infuori dell’ambito
giudaico. Una trattazione esauriente delle riflessioni filosofiche sul Logos
richiederebbe un intero studio 15 : mi limiterò qui a un’introduzione sufficiente a
comprenderne l’utilizzo nei circoli filosofici giudaici, con particolare riferimento
al filosofo ebreo più famoso dell’antichità, Filone di Alessandria (20 a.e.v.-50
e.v.).
Gli antichi filosofi greci noti come Stoici discutevano a fondo sul Logos
divino. Il sostantivo greco significa sì «parola», ma possiede connotazioni e
sfumature assai più ricche e profonde. Da logos deriva naturalmente «logica»,
perché un altro significato del termine è «ragione» («c’è una ragione per
questo», «è un’idea decisamente ragionevole»). Secondo gli Stoici, il Logos —
la ragione — era un elemento divino che permeava l’intera esistenza. Esiste una
logica nello stato delle cose, e chi vuole capire il mondo — ma soprattutto chi
vuole capire come viverci al meglio — deve cercare di comprenderne la logica
sottostante. Ebbene, ciò è possibile perché il Logos non è intrinseco solo alla
natura, ma anche agli esseri umani. Anche noi disponiamo di una certa quota di
Logos, e se ci sforziamo di interpretare il mondo riusciamo a capirlo. Se
capiamo il mondo impariamo a viverci, e se agiamo in maniera conforme alla
nostra comprensione avremo una vita armoniosa, pacifica e appagante. Se però
non capiamo il mondo e come funziona, se non viviamo in armonia con esso,
saremo condannati a una misera vita da bestie.
I pensatori che si ritenevano epigoni di Platone, il grande filosofo del quinto
secolo a.e.v., svilupparono l’idea del Logos in maniera diversa. Nel pensiero
platonico esiste una netta cesura fra le realtà spirituali e il mondo materiale. Dio
è puro spirito, ma come può il puro spirito entrare in contatto con ciò che è pura
materia? Occorre un legame, un anello di congiunzione fra spirito e materia.
Secondo i platonici, quell’anello è il Logos, l’elemento che consente
l’interazione fra divino e non divino, fra spirito e materia.
Essendo provvisti del Logos nel nostro corpo mortale, seppur completamente
radicati nel mondo materiale anche noi possiamo entrare in contatto con il
divino. Da un certo punto di vista, per ottenere felicità e appagamento è
necessario abbandonare l’attaccamento alle cose materiali per raggiungere le
vette spirituali. Il che significa, fra l’altro, che non dobbiamo legarci troppo al
corpo che abitiamo godendo dei piaceri fisici e individuando nel piacere il bene
ultimo. Non lo è, perché il piacere genera dipendenza e alimenta l’attaccamento
alla materia. Per trovare il vero senso e la ricchezza della vita bisogna
trascendere la materia, interagendo con il Logos dell’universo tramite quella
parte di Logos che è già in noi.
Per certi versi, ai pensatori ebraici che conoscevano a menadito i loro testi
sacri veniva naturale associarli a queste idee stoiche e platoniche. Nella Bibbia
ebraica, Dio crea ogni cosa pronunciando una parola: «Dio disse: “Sia Luce!” E
luce fu». La creazione avviene per mezzo del Logos di Dio, e poiché proviene da
Dio, in un certo senso il Logos è Dio. Tuttavia, una volta pronunciato, si afferma
come entità a se stante, a volte interpretata come una figura distinta da Dio. Ecco
perché in alcuni ambienti ebraici il Logos finì per essere considerato un’ipostasi.
Già nella Bibbia ebraica la «parola del Signore» veniva talvolta identificata
con il Signore stesso (si veda per esempio 1 Samuele 3:1, 6). Nelle mani di
Filone di Alessandria, profondamente influenzato com’era dalla tradizione
platonica, il Logos diventò un fattore essenziale per comprendere Dio e il
mondo.
Secondo Filone il Logos era l’essere supremo, l’immagine di Dio che stava
alla base dell’ordine universale. In particolare, il Logos di Dio era il paradigma
della creazione dell’umanità. In altre parole, il Logos assumeva le stesse
funzioni della Sapienza, alla quale venivano attribuiti la creazione e
l’ordinamento di ogni cosa. Di più: per certi versi il Logos «nasce» dalla
Sapienza. Se la sapienza è qualcosa che noi mortali possediamo, allora il Logos
ne è la manifestazione esteriore quando parliamo. Dunque la Sapienza genera il
Logos, il che è esattamente quanto pensava Filone. La mente sta al corpo come il
Logos sta al mondo.
In quanto Logos di Dio, il Logos è di per sé divino e può essere identificato
con nomi divini. Ecco dunque che Filone lo chiama «immagine di Dio», «Nome
di Dio» e «primogenito» (per esempio in L’agricoltura 51). 16 Altrove afferma
che «il testo sacro chiama Dio il suo Logos più antico» (I sogni sono mandati da
Dio 1.230). 17 Poiché il Logos è Dio, e Dio è Dio, talvolta Filone parla di «due
dèi» oppure definisce il Logos «il secondo Dio» (Quaestiones et solutiones in
Genesim 2.62). C’è però una differenza tra «il Dio» e «un dio» («o theós» e
«theós» in greco). Il Logos è quest’ultimo.
In qualità di essere divino distinto da Dio, il Logos ricorda da vicino l’Angelo
del Signore di cui ci siamo occupati all’inizio del capitolo. Ebbene, a volte
Filone sostiene che il Logos sia proprio l’Angelo del Signore (per esempio nel
Mutamento dei nomi 87 e ne I sogni sono mandati da Dio 239). Quando Dio si
manifesta agli uomini, è il suo Logos ad apparire. Vediamo quindi che
l’impostazione platonica di Filone si intreccia con la sua conoscenza dei testi
sacri. I contatti di Dio con il mondo della materia non sono diretti, bensì mediati
dal suo Logos. Dio non si rivolge direttamente a noi, ci parla tramite il Logos.
Riassumendo: per Filone il Logos è un essere incorporeo che esiste
indipendentemente da Dio ma rappresenta la sua facoltà di pensiero. A volte si
manifesta in sembianze umane affinché gli uomini possano rilevarne la presenza
e interagire con lui. Insomma, un altro essere divino che per certi versi è distinto
da Dio, ma per altri è Dio.

Uomini che diventano divini


Se vogliamo scoprire come fece Gesù a diventare Dio in una religione
rigidamente monoteista, ancora più importanti sono i testi ebraici secondo i quali
potevano essere chiamati Dio non solo gli angeli, le ipostasi e altri esseri divini,
ma anche gli uomini. Si tratta di brani che troviamo anche nella Bibbia. Proprio
come negli ambienti pagani l’imperatore era ritenuto figlio di dio e al contempo,
in un certo senso, dio egli stesso, così nell’antico giudaismo il re d’Israele era
considerato insieme Figlio di Dio e — sorprendentemente — Dio.

Il re d’Israele

Che il re d’Israele fosse in stretto ed esclusivo contatto con Dio e pertanto Figlio
di Dio è un’idea assodata e ribadita in vari punti della Bibbia ebraica. Tra i passi
chiave c’è 2 Samuele 7. A questo punto della narrazione, Israele ha già due re: il
primo è Saul, ritratto con notevole ambivalenza, il secondo è Davide, il grande re
dell’età dell’oro d’Israele. Davide possiede molteplici virtù ma anche numerosi
vizi, ed è per questo che Dio non gli concede di costruire un tempio in suo onore.
Il retroscena è che sin dai tempi dell’esodo, oltre due secoli prima, Israele ha
onorato Dio in una struttura provvisoria: il tabernacolo, ovvero un tendone. Ora
che Israele ha preso possesso del territorio, re Davide vorrebbe costruirvi una
casa di Dio permanente, ma Dio si oppone. Sarà invece lui a costruire una
«casa» (metaforica) per il re. Davide avrà un figlio (Salomone) che realizzerà il
tempio di Dio e a partire da lui Dio costruirà una casa — una dinastia — per
Davide. Inoltre, il figlio di Davide verrà scelto da Dio (adottato, per così dire)
come proprio figlio: «Io innalzerò al trono dopo di te la tua discendenza, il figlio
che sarà uscito da te, e stabilirò saldamente il suo regno. Egli costruirà una casa
al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io sarò per lui
un padre ed egli mi sarà figlio» (2 Samuele 7:12-14).
L’idea di Dio che adotta il re come figlio proprio è compatibile con altre
occorrenze dell’espressione «Figlio di Dio» nella Bibbia ebraica. Abbiamo già
visto che gli esseri angelici, i membri dell’assemblea divina, venivano chiamati
figli di Dio. In quanto suoi consiglieri, servi e ministri godevano di un rapporto
particolarmente stretto con lui, benché a volte indulgessero al peccato, come nel
breve episodio narrato in Genesi 6. A volte è la stessa nazione d’Israele a essere
identificata come Figlio di Dio, per esempio in Osea 11:1: «Chiamai mio figlio
fuori d’Egitto». Di nuovo, Israele è il Figlio di Dio perché è a contatto
ravvicinato con Dio e quindi oggetto del suo amore e favore; inoltre, è tramite
Israele che Dio attua la sua volontà sulla terra. Altrettanto vale per il re, che
trovandosi alla testa di Israele è «il» Figlio di Dio in un senso ancora più
specifico. Nel Salmo 89 Davide viene unto da Dio (letteralmente unto con l’olio,
come segno del favore esclusivo di Dio, v. 20) e definito il suo «primogenito, il
più eccelso dei re della terra» (v. 27). Ancora più sorprendente è Dio che si
rivolge al re nel Salmo 2, probabilmente alla cerimonia d’incoronazione (quando
Davide riceve l’unzione): «Tu sei mio figlio, oggi io t’ho generato» (v. 7). In
questo caso il re non è semplicemente adottato, ma nato da Dio: è Dio ad averlo
dato alla luce.
Se il figlio di un uomo è un uomo, il figlio di un cane è un cane e il figlio di
un gatto è un gatto, cos’è il figlio di Dio? Con grande sorpresa di parecchi lettori
superficiali, la Bibbia contiene brani in cui il re d’Israele viene identificato come
divino, come Dio. John Collins, studioso della Bibbia ebraica, sottolinea che
l’idea sembra derivare dalla concezione egizia del faraone come essere
divino. 18 Persino in Egitto, dove il re era un dio, questo non significava che il
re fosse sullo stesso piano dei grandi dèi, proprio come l’imperatore romano non
era alla pari di Giove o Marte. Ma era comunque un dio. Come abbiamo visto, in
Egitto e a Roma esistevano vari livelli di divinità, e lo stesso valeva per gli
ambienti ebraici. Ecco perché troviamo termini profondamente esaltati riferiti al
re d’Israele, termini che potrebbero sorprendere i lettori convinti — sulla base
del pensiero sviluppatosi nel quarto secolo e.v. — che esista un abisso
incolmabile fra Dio e gli uomini. Ciononostante, nella stessa Bibbia il re viene
chiamato «Signore» e «Dio».
Prendiamo Salmi 110:1: «Il SIGNORE ha detto al mio Signore: “Siedi alla
mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi”».
«SIGNORE», tradizionalmente scritto in maiuscolo, è il nome ebraico del Dio
YHWH, spesso scritto Yahweh. Nel giudaismo tradizionale quelle lettere
ebraiche venivano considerate così sacre che si evitava (e si evita tuttora) di
pronunciarle. Talvolta sono chiamate «tetragramma» («quattro lettere» in greco).
Il secondo «Signore» è una parola diversa: adn (pronunciato adonai o adoni),
ovvero un appellativo comune del Signore Dio ma anche un termine con cui —
per esempio — lo schiavo si riferiva al padrone. A sorprendere qui è il fatto che
YHWH si rivolge al «mio Signore» per invitarlo a sedersi «alla mia destra».
Condividere il trono con Dio significa condividerne gloria, stato e onori. Non ci
sono questioni di identità o parità assoluta: il re, seduto alla destra di Dio, non è
Dio Onnipotente. Lo si evince da quanto viene detto subito dopo: Dio
sconfiggerà i nemici del re e glieli metterà sotto i piedi. Ma l’oggetto di un
simile trattamento di favore è qualcuno che Dio ha esaltato al livello del proprio
trono. Il re, insomma, è un essere divino che vive alla presenza di Dio, sopra
tutte le altre creature.
Ancora più esplicito è Salmi 45:6-7, dove il re viene chiamato Dio in termini
straordinariamente esaltati:
Il tuo trono, o Dio, dura in eterno;
lo scettro del tuo regno è uno scettro di giustizia.
Tu ami la giustizia e detesti l’empietà.
Perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto d’olio di letizia; ti ha preferito ai tuoi compagni.

Che l’oggetto dell’invocazione «o Dio» (Elohim) non sia Dio Onnipotente ma il


re lo dimostra quanto viene detto subito dopo: Dio Onnipotente è il Dio del re e
lo ha «unto», un rito comune durante la cerimonia d’incoronazione regale
nell’antico Israele. Insomma, Dio ha unto ed esaltato il re sopra tutti gli altri,
conferendogli una certa divinità. Il re è Dio, se vogliamo: non uguale a Dio
Onnipotente — la differenza viene sottolineata anche qui ma comunque Dio.
Un esempio ancora più stupefacente arriva dal profeta Isaia, quando celebra
un nuovo re che viene dato al popolo (capitolo 9). Chiunque conosca il Messiah
di Händel troverà familiari le parole, ma c’è una differenza: nel contesto
originale, sembrano riferirsi non alla nascita del re nel senso letterale del
termine, bensì alla sua nascita come Figlio di Dio, ovvero all’incoronazione. Un
«bambino» viene dato al popolo: vale a dire che il re è stato reso «Figlio di Dio».
Ma davvero straordinario è quanto viene detto del re:
Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato,
e il dominio riposerà sulle sue spalle;
sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente,
sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente,
Padre eterno, Principe della pace,
per dare incremento all’impero
e una pace senza fine al trono di Davide e al suo regno. (Isaia 9:5-6)

L’ultimo versetto dimostra al di là di ogni dubbio che il brano si riferisce al re


d’Israele, un discendente di Davide: la maggior parte degli studiosi lo identifica
con re Ezechia, sovrano all’epoca della profezia di Isaia. È acclamato come
«figlio» di Dio, dotato di grande autorità e foriero di una pace infinita.
Evidentemente non può trattarsi dello stesso Dio Onnipotente, perché la sua
autorità viene descritta come soggetta a «incremento», ed è impossibile
immaginare che Dio non eserciti da sempre un’autorità suprema e completa.
Ciononostante, gli epiteti attribuiti al re sono sbalorditivi: «Dio potente», «Padre
eterno». In quanto Figlio di Dio, è esaltato al livello di Dio e ne condivide rango,
autorità e potere, al punto da essere chiamato Dio.

Mosè come Dio

È interessante notare che lo status divino e persino l’appellativo «Dio» non


vengono attribuiti solo all’umanissimo re d’Israele, ma — negli antichi testi
ebraici — anche al grande salvatore e legislatore del popolo, Mosè. È una
tradizione che affonda le radici nella stessa Torah, per la precisione in un
affascinante brano di Esodo 4. Dio incarica Mosè di recarsi dal faraone egizio
per chiedergli di liberare dalla schiavitù il popolo d’Israele. Mosè esita,
dichiarandosi un oratore poco capace, «lento di parola e di lingua» (Esodo 4:10).
Dio non accetta la scusa, perché è stato lui a donare la parola all’uomo. Mosè
però continua a titubare, al che Dio trova un compromesso: lo accompagnerà il
fratello Aronne, e sarà quest’ultimo a parlare, sulla base delle istruzioni di Mosè.
A questo punto, Dio emette un proclama eccezionale: «Egli [Aronne] parlerà per
te al popolo; così ti servirà da bocca e tu sarai per lui come Dio» (4:16). Qui non
si dice che Mosè è Dio, ma che agisce come Dio: comunicando ad Aronne il
messaggio da recapitare al faraone, sarà «per lui come Dio».
In seguito, alcuni lettori ebraici si spinsero oltre e arrivarono a sostenere che
Mosè fosse divino. L’espressione più chiara di questo punto di vista si trova
nelle opere del già citato Filone di Alessandria. Profondamente imbevuto di
filosofia greca, Filone era particolarmente ansioso di dimostrare che i testi sacri
ebraici — se compresi a dovere per mezzo di strumenti esegetici allegorici o
metaforici — illustravano e professavano gli insegnamenti dei grandi filosofi
ellenici (o meglio, che la Bibbia ebraica conteneva già i loro insegnamenti). Agli
occhi di Filone, il giudaismo racchiudeva in sé i risultati migliori dei più grandi
filosofi del mondo.
Filone era un autore prolifico: ci sono arrivati numerosi suoi scritti, compresa
una biografia di Mosè che ritrae il grande legislatore degli ebrei come uomo
profondamente colto e acuto. In queste e altre opere, Filone esalta sia Mosè che
la legge profondamente filosofica da lui annunciata: Mosè era «l’uomo più
grande e perfetto mai vissuto» (Vita di Mosè 1.1) 19 . Interpretando il passo
prima citato, Filone sostiene che Mosè apparisse come un dio, ma che in realtà
non fosse Dio in essenza (Quod deterius potiori insidiari soleat 161-62). Qui
Filone accarezza l’idea dei livelli di divinità: nel corso della sua vita, Mosè
«diventava poco alla volta divino» (I sacrifici di Abele e di Caino 9-10) 20 .
Poiché Mosè era profeta e amico di Dio, «ne consegue che condividesse
spontaneamente la natura di Dio e tutti i suoi possedimenti per quanto gli
occorreva» (Vita di Mosè 1.156). Ecco perché alcuni si domandavano se Mosè,
più che di una mente umana, fosse dotato di «un intelletto divino» (1.27)
Nella Bibbia ebraica, Mosè riceve la legge direttamente dalla mano di Dio
dopo essere salito sul monte Sinai per comunicare con lui (Esodo 19-20).
Secondo Filone, avendo contemplato Dio, Mosè «godette di una comunione
ancora più profonda con il Padre e Creatore dell’universo» (Vita di Mosè 1.158).
Di conseguenza, era destinato a ricevere in eredità da Dio «il mondo intero»
(1.157). Inoltre, pur non essendo Dio Onnipotente in prima persona, Mosè «era
chiamato dio e re dell’intera nazione» (1.158). Vediamo dunque che a Mosè
viene attribuito lo stesso appellativo del re d’Israele e — in un contesto diverso
— dell’imperatore romano: «dio».
Come altri uomini privilegiati che erano in stretto contatto con Dio —
talmente stretto che per certi versi Mosè poteva essere considerato divino —,
alla fine della sua vita Mosè fu esaltato da Dio e reso immortale: «Era in
procinto di salire in cielo, di prendere dimora lassù e di lasciare questa vita
mortale per diventare immortale, essendo stato chiamato dal Padre, che ora lo
tramutò da essere duplice formato da anima e corpo nella natura di un corpo
singolo, trasformandolo completamente e assolutamente in una mente simile al
sole» (Vita di Mosè 2.228).
Altrove, Filone è ancora più esplicito: «Avendo abbandonato tutte le creature
mortali, egli viene reso divino, così come uomini del genere diventano affini a
Dio e veramente divini» (Quaestiones et solutiones in Exodus 3.29). Abbiamo
quindi un analogo ebraico di quanto già trovato nelle fonti pagane: un uomo
grande, potente e saggio che alla morte viene ricompensato con il rango divino.
In certi casi, Filone si spinge addirittura a immaginare Mosè come una sorta di
divinità preesistente scesa in terra per un certo periodo: «Ma anche quando [Dio]
lo diede in prestito alle realtà terrene e gli concesse di familiarizzarsi con esse,
certo non gli attribuì una qualche autorità pari a quella di un capo o di un re, […]
ma lo nominò dio, dichiarando sudditi e schiavi suoi l’intero paese del corpo e
l’intelletto che lo governa» (Sacrifici 8-10).

Uomini divini ebraici


Forse non stupisce più di tanto scoprire che i pagani, devoti di una varietà di
religioni politeiste, potessero immaginare gli uomini come esseri divini. Di
norma, è più sorprendente scoprire che altrettanto vale per il giudaismo. È
praticamente certo che all’epoca di Gesù e dei suoi seguaci quasi tutti gli ebrei
fossero monoteisti, ma se da un lato credevano in un solo Dio Onnipotente,
dall’altro era convinzione diffusa che ci fossero altri esseri divini: angeli,
cherubini, serafini, principati, dominazioni, ipostasi. Fra il regno divino e quello
umano si percepiva inoltre una certa continuità, ed esisteva una sorta di spettro
della divinità: l’Angelo del Signore, già presente nei testi sacri, poteva essere sia
angelo che Dio. Gli angeli erano divini e potevano essere adorati, ma potevano
anche assumere sembianze umane. Quanto agli uomini, potevano diventare
angeli, essere chiamati Figli di Dio e addirittura Dio. Questo non significa che
fossero il solo Dio creatore del cielo e della terra, ma che potevano condividerne
parzialmente autorità, rango e potere.
Anche un rigido monoteismo, insomma, poteva contemplare l’esistenza di
altri esseri divini e di una scala della divinità.
Nemmeno i giudei all’epoca di Gesù percepivano una cesura netta, un abisso
incolmabile fra il divino e l’umano. Di conseguenza, c’è una domanda
preliminare che deve porsi chi vuole scoprire se un angelo poteva essere
assimilato a un dio: in che senso? Lo stesso vale per gli uomini. Se il re, Mosè,
Enoch (il Figlio dell’Uomo) o chiunque altro viene chiamato Dio, occorre
chiarire cosa si intende esattamente. Dio lo ha adottato come proprio figlio? È
nato da una donna mortale in seguito a intervento divino? È stato trasformato in
angelo? Esaltato al trono di Dio per condividerne l’autorità? Oppure
qualcos’altro ancora?
Sono interrogativi che dovremo affrontare mentre esaminiamo i punti di vista
dei primi cristiani su Gesù. La mia tesi è che poco dopo la sua morte alcuni
seguaci, credendo alla resurrezione, avessero cominciato a chiamarlo Dio: in che
senso, però? O meglio, in quali sensi? Come vedremo, assimilare Gesù a Dio
significava cose diverse per cristiani diversi.
Prima, però, dobbiamo occuparci dell’uomo Gesù, il cosiddetto Gesù storico.
Quando ancora calcava le polverose stradicciole della Galilea, i suoi seguaci lo
ritenevano già divino? E lui pensava di esserlo?

1. Per un’autorevole disamina si veda E.P. Sanders (1999), Il giudaismo: fede e prassi, 63 a.C-66
d.C., Morcelliana, Brescia (ed. orig. Judaism: Practice and Belief, 63 BCE-66 CE, 1992).←
2. Si vedano le discussioni in Loren T. Stuckenbruck (1995), Angel Veneration and Christology,
Mohr Siebeck, Tubinga e Charles A. Gieschen (1998), Angelomorphic Christology: Antecedents
and Early Evidence, E.J. Brill, Leida.←
3. Harold W. Attridge (cur., 2006), The HarperCollins Study Bible, HarperOne, San Francisco, p.
88.←
4. Gieschen 1998:68.←
5. Va però sottolineato che in Giobbe 1 e 2 «Satana» non è un nome proprio, ma un sostantivo che
significa «accusatore» (nel tribunale divino).←
6. Citato in Giorgio Agamben e Emanuele Coccia (cur., 2009), Angeli: Giudaismo, Islam,
Cristianesimo, Neri Pozza, Torino.←
7. In Esther Neumann (cur., 2014), Apocalissi apocrife e visioni esoteriche, LA CASE Books, Los
Angeles.←
8. In Esther Neumann (cur., 2015), Il libro di Enoch: il più affascinante e oscuro dei testi apocrifi,
LA CASE Books, Los Angeles.←
9. Larry W. Hurtado (1988), One God, One Lord: Early Christian Devotion and Ancient Jewish
Monotheism, SCM Press, Londra, p. 82.←
10. Neumann 2015.←
11. Si veda John J. Collins (2007), Pre-Christian Jewish Messianism: An Overview, in Magnus
Zetterholm (cur.), The Messiah in Early Judaism and Christianity, Fortress, Minneapolis, p.
16.←
12. Michael A. Knibb (2010), Enoch, Similitudes of (1 Enoch 37-71), in John C. Collins e Daniel C.
Harlow, The Eerdmans Dictionary of Early Judaism, Eerdmans, Grand Rapids, MI, p. 587.←
13. Knibb 2010:587.←
14. Alan F. Segal (1977), Two Powers in Heaven: Early Rabbinic Reports About Christianity and
Gnosticism, E.J. Brill, Leida.←
15. Per un approfondimento e una bibliografia più completi si veda Thomas Tobin (1992), Logos, in
David Noel Freedman (cur.), The Anchor Bible Dictionary, vol. 4., Doubleday, New York.←
16. In Filone di Alessandria (2005), Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, a cura di
Roberto Radice, Bompiani, Milano.←
17. In Filone di Alessandria (1986), L’uomo e Dio, a cura di Clara Kraus Reggiani, Rusconi,
Milano, p. 506.←
18. John J. Collins, The King as Son of God, in Yarbro Collins e Collins 2008:1-24.←
19. Filone di Alessandria (1999), La vita di Mosè, a cura di Paola Graffigna, Rusconi, Milano.←
20. In Filone di Alessandria (1984), Le origini del male, a cura di Claudio Mazzarelli e Roberto
Radice, Rusconi, Milano.←
3. Gesù si credeva Dio?
A metà degli anni Settanta, ogni semestre, gli allievi del Moody Bible Institute
erano tenuti a svolgere una qualche opera di sacerdozio cristiano. Come la
maggior parte dei miei compagni io ero completamente privo dell’addestramento
e delle qualifiche necessarie, ma presumo che il Moody credesse nella
formazione sul lavoro. E fu così che un semestre ci toccò dedicare due o tre ore
alla settimana all’«evangelizzazione porta a porta», ovvero il tentativo di
convertire la gente di punto in bianco: una versione fondamentalista del
missionariato mormone, come questo condotta a coppie. Un altro semestre mi
ritrovai a dispensare consigli radiofonici a tarda sera sull’emittente dell’istituto.
La gente telefonava per pormi quesiti sulla Bibbia o confidarmi i suoi problemi
personali, e io, be’, ero pronto a dare «tutte le risposte». Avevo già diciott’anni.
Un altro semestre ancora, senza esserne minimamente all’altezza, feci il
cappellano al Cook County Hospital un pomeriggio alla settimana.
L’ultimo anno, io e il mio compagno di stanza Bill decidemmo di svolgere il
nostro sacerdozio come giovani pastori. Attraverso il Moody entrammo in
contatto con una meravigliosa chiesa di Oak Lawn, un sobborgo meridionale di
Chicago: la Trinity Evangelical Covenant Church, che professava una piccola
confessione nata come movimento pietista svedese separatosi dai luterani.
Il mercoledì sera, il sabato sera e l’intera domenica io e Bill li passavamo in
chiesa per le nostre mansioni da giovani pastori: conduzione di gruppi di
preghiera, studi biblici, eventi sociali, ritiri e via dicendo. Bill andò avanti per un
anno, io continuai anche durante gli ultimi due anni di college a Wheaton, per un
totale di tre anni. I ragazzi (liceali e universitari) erano fantastici, ancora oggi ho
splendidi ricordi di quei giorni.
Il sacerdote della Trinity Church era un uomo devoto, saggio ed energico, un
predicatore dinamico e un autentico pastore d’anime. Si chiamava Evan
Goranson, per tre anni fu il mio mentore e mi insegnò i trucchi del mestiere.
L’unico problema era che lo trovavo di vedute appena troppo larghe. (All’epoca
persino le vedute di Billy Graham 1 erano troppo larghe per me.) Ma in quanto
ministro, padre Goranson era una delle persone più amorevoli del pianeta, assai
più concentrato sull’assistenza ai bisognosi (che abbondano sempre, in qualsiasi
chiesa) che sulle elucubrazioni dottrinarie. Sta di fatto che — oggi me ne rendo
conto — la sua impostazione teologica era decisamente tradizionale e
conservatrice.
Anni dopo, durante il dottorato di ricerca al Princeton Theological Seminary,
questa forma di teologia tradizionale mi pareva meno convincente, perché avevo
cominciato a nutrire dubbi su aspetti fondamentali della fede, compresa la
questione della divinità di Gesù. Mi ero reso conto che Gesù non viene chiamato
Dio praticamente mai nel Nuovo Testamento: i brani in cui sostiene di essere
Dio appartengono solo al Vangelo di Giovanni, il più tardo e teologicamente
schierato. Se davvero Gesù andava proclamandosi Dio, perché gli altri Vangeli
non ne parlano? I loro autori avevano deciso di omettere il particolare?
Angosciato dai miei dubbi, tornai da padre Goranson a Chicago. Ho un ricordo
vivido di quel momento. Eravamo nella sua macchina, e io iniziai a esporgli le
mie perplessità sulla Bibbia e su ciò che un tempo avevo ritenuto sacrosanto.
Uomo di chiesa aperto e non dottrinario, mi rispose con paziente comprensione
che dovevamo attenerci ai fondamentali e ricordare le parole di Gesù: «Io sono
la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me»
(Giovanni 14:6). Non contava altro. «E se Gesù non l’avesse mai detto?»
replicai. Padre Goranson rimase di stucco e, da bravo pastore qual era, i suoi
occhi si gonfiarono di lacrime. Vederlo fu doloroso, ma cosa potevo farci? Non
puoi credere a qualcosa solo perché altri vogliono disperatamente che tu ci
creda.
Eccolo, l’interrogativo fondamentale di questo capitolo: è vero che Gesù
pronunciò quelle parole e altre che gli vengono attribuite? E che affermava di
essere sceso dal cielo per ricondurre gli uomini al Padre? E che sosteneva di
esistere da sempre e di essere uguale a Dio? Se è vero, allora i suoi seguaci
avevano un’ottima ragione per fare altrettanto: era Gesù ad averglielo insegnato.
Se invece non è vero, occorre trovare una spiegazione alternativa al fatto che
anni dopo la sua morte i suoi seguaci andavano dicendo che Gesù era Dio.

Il Gesù storico: problemi e metodi


Per una disamina esauriente del Gesù storico servirebbero non un libro intero,
ma una serie di libri: per esempio Un ebreo marginale, monumentale opera in
cinque volumi 2 di John Meier, studioso del Nuovo Testamento e professore
alla University of Notre Dame. Chi preferisce una lettura più rapida può
consultare il mio Jesus: Apocalyptic Prophet of the New Millennium, oppure
trattazioni magistrali di illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale
Allison, Paula Fredriksen e tanti altri. 3 Sono libri molto diversi, anche e
soprattutto perché i loro autori differiscono profondamente quanto a confessione
religiosa (o mancata tale), personalità, formazione e curriculum. Ma su un punto
concordano tutti: Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
Se abbiamo bisogno di libri come questi è perché non possiamo fidarci dei
Vangeli in quanto resoconti storicamente accurati delle gesta e delle parole di
Gesù. Se fossero biografie fedeli alla realtà, non avrebbe ragione d’esistere la
tradizione accademica che sottolinea la necessità di imparare le antiche lingue
bibliche (ebraico e greco) e l’importanza di collocare Gesù nel contesto storico
della Palestina del primo secolo, e che sostiene che una piena comprensione
della vera natura dei Vangeli come fonti storiche sia fondamentale per
qualsivoglia tentativo di appurare ciò che Gesù fece e disse davvero. Basterebbe
leggere la Bibbia e accettarla come verità. Inutile dire che questo è l’approccio
fondamentalista, ed è una delle ragioni per cui non troverete fondamentalisti tra
gli studiosi di punta.
In pochi paragrafi cercherò di spiegare come mai gli studiosi hanno opinioni
divergenti e quali sono gli approcci ai Vangeli che propongono, a fronte del fatto
che il Nuovo Testamento non contiene trascrizioni stenografiche delle parole di
Gesù né ricostruzioni perfette della sua vita.

Problematiche dei Vangeli

Il primo punto da sottolineare è che per studiare una qualsiasi figura del passato
abbiamo bisogno di fonti. Parrebbe un’ovvietà, ma per qualche ragione, quando
si tratta di Gesù, la gente sembra convinta di sapere spontaneamente chi era,
cosa diceva e cosa faceva, neanche avesse assorbito queste informazioni
dall’ambiente per osmosi. Di fatto, però, tutto ciò che sappiamo o crediamo di
sapere su Gesù deriva da una fonte: o ce l’ha detto qualcuno o abbiamo letto ciò
che ha scritto qualcun altro. Ma dove hanno preso queste informazioni, cosa le
rende affidabili e perché dovremmo crederci? Le storie su Gesù — come su ogni
altra figura storica — possono essere storicamente accurate (testimonianze fedeli
di quanto diceva o faceva), inventate o una via di mezzo. L’unico modo per
appurare la veridicità di un dettaglio è esaminare le fonti, e le fonti che io, voi e
gli insegnanti di catechismo abbiamo a disposizione sono le stesse. Le storie su
Gesù iniziarono a circolare in forma orale o scritta già quando era in vita e dopo
la sua morte. Inutile dire che quelle spuntate l’anno scorso — ma anche il secolo
scorso — non possono che essere inventate: se cerchiamo ricostruzioni
storicamente affidabili, ci servono quindi fonti risalenti all’epoca di Gesù, cioè
antiche.
Non che le fonti antiche manchino, ovviamente, il problema è che sono meno
antiche di quanto vorremmo. Il primissimo autore cristiano è l’apostolo Paolo,
che scriveva venti-trent’anni dopo la morte di Gesù. Può darsi che esistano opere
precedenti, ma nessuna ci è pervenuta. Per nostra sfortuna, Paolo non conosceva
Gesù di persona e non ci racconta granché riguardo ai suoi insegnamenti, attività
ed esperienze. A volte do questo compito ai miei studenti: leggi gli scritti di
Paolo ed elenca tutti i resoconti di ciò che Gesù diceva e faceva. Con loro grande
sorpresa, si accorgono che basta mezzo foglio. (A proposito, Paolo non dice mai
che Gesù si proclamava divino.)
Escluso Paolo, le nostre fonti più antiche sul Gesù storico sono i Vangeli del
Nuovo Testamento. A conti fatti, si tratta delle fonti migliori: non perché si dà il
caso che facciano parte del Nuovo Testamento, ma perché sono i primi resoconti
biografici su Gesù giunti fino a noi. Il che non significa che siano fonti ideali,
per diversi motivi.
In primo luogo, gli autori non sono testimoni oculari. Matteo, Marco, Luca e
Giovanni: questi libri prendono il nome da due dei primi discepoli di Gesù
(Matteo, l’esattore delle tasse, e l’amato Giovanni) e da due figure vicine ad altri
apostoli (Marco, il «segretario» di Pietro, e Luca, compagno di viaggio di
Paolo), ma di fatto sono scritti in forma anonima — gli autori non si identificano
mai — e circolarono per decenni prima che qualcuno li attribuisse ai quattro
discepoli: la prima attribuzione certa risale a un secolo dopo la loro produzione.
Esistono ragioni fondate per ritenere che nessuno di questi Vangeli sia opera
dell’autore a esso tradizionalmente associato.
Per cominciare, come ci dice lo stesso Nuovo Testamento, i seguaci di Gesù
erano umili e incolti ebrei palestinesi di lingua aramaica, mentre gli autori di
questi testi sono cristiani altamente istruiti di lingua greca appartenenti a una
generazione successiva. È probabile che li avessero scritti quando tutti o quasi i
discepoli di Gesù erano già morti, senza contare che furono composti in altre
parti del mondo, in una lingua diversa e in epoca successiva. Non è difficile
capire come mai i cristiani venuti dopo Gesù sostenessero che gli autori erano
suoi compagni, o quanto meno persone legate agli apostoli: per conferire ai testi
un’autorevolezza quanto mai necessaria agli occhi di chi voleva scoprire chi era
stato davvero Gesù.
Di norma, gli studiosi fanno risalire i Vangeli del Nuovo Testamento
all’ultima parte del primo secolo. Quasi tutti concordano nel collocare attorno al
30 e.v. la morte di Gesù. Il primo Vangelo a essere scritto fu Marco,
probabilmente nel 65-70 e.v.; quindici-vent’anni dopo seguirono Matteo e Luca,
diciamo nell’80-85 e.v.; infine arrivò Giovanni, attorno al 90-95 e.v. L’aspetto
più rilevante è il lasso di tempo: la prima ricostruzione della vita di Gesù arrivata
fino a noi fu scritta trentacinque-quarant’anni dopo la sua morte, l’ultimo
Vangelo canonico sessanta-sessantacinque anni dopo la sua morte. Un bel po’ di
tempo, insomma.
Se gli autori non erano testimoni oculari, non erano palestinesi e non
parlavano nemmeno la lingua di Gesù, da dove presero le loro informazioni? Di
nuovo, gli studiosi tendono a concordare al riguardo. Dopo la morte di Gesù, i
suoi seguaci iniziarono a credere che fosse resuscitato dai morti e si assegnarono
la missione di convincere il popolo che la morte e la resurrezione di Gesù
fossero la morte e la resurrezione del messia di Dio, e che così credendo
avrebbero ottenuto la vita eterna. Dovendo persuadere gli altri che Gesù era
veramente il messia, i suoi primi «testimoni» cristiani avevano bisogno di
raccontare storie su di lui, e così fecero: storie sulla fine della sua vita — la
crocifissione, la tomba vuota, le apparizioni — e storie sulla sua vita: gli
insegnamenti, i miracoli, gli scontri con le autorità ebraiche, l’arresto, il processo
e così via. Le storie presero a circolare, ulteriormente diffuse dai nuovi
convertiti. Un uomo le raccontava alla moglie; se questa ci credeva, le
raccontava alla vicina; se questa ci credeva, le raccontava al marito; se questo ci
credeva, le raccontava a un collega; se questo ci credeva, le raccontava a un
socio in affari durante una trasferta in un’altra città; se questo ci credeva, le
raccontava alla moglie; se questa ci credeva, le raccontava alla vicina… Prima
dell’avvento della comunicazione di massa, dei media nazionali e persino di un
tasso di alfabetizzazione rilevante (all’epoca soltanto il dieci per cento circa della
popolazione sapeva leggere e scrivere), raccontare storie era l’unica possibilità.
Ma chi era, di preciso, a raccontare le storie su Gesù? Solo gli apostoli? No, non
erano solo gli apostoli. Solo le persone autorizzate dagli apostoli? Impossibile.
Soltanto persone che verificavano i fatti per assicurarsi di riportare gli eventi
esattamente come si erano verificati? E come avrebbero potuto? Erano storie che
circolavano con il passaparola anno dopo anno, decennio dopo decennio, in
diverse parti del mondo e in lingue diverse: come controllare ciò che una
persona riferiva all’altra riguardo a parole e atti di Gesù? Sappiamo
perfettamente cosa accade alle storie tramandate in questo modo: dettagli che
cambiano, episodi inventati o drammatizzati, resoconti sensazionali che
diventano ancora più sensazionali…
A un certo punto capitò che uno scrittore — diciamo «Marco», nella città di
Roma — ascoltasse le storie in chiesa e ne scrivesse una propria versione. Dieci
o quindici anni più tardi, in un’altra città, un altro scrittore la lesse e decise di
scrivere la propria versione, basandosi da un lato su Marco, dall’altro sulle storie
che già circolavano nella propria comunità. Nacquero così i Vangeli. Da trecento
anni gli studiosi analizzano i Vangeli nei minimi dettagli, e uno dei risultati delle
ricerche è la scoperta di numerose e innegabili discrepanze, contraddizioni e
problematiche storiche. 4 Com’è possibile? La domanda è un’altra: come
sarebbe possibile il contrario? Naturalmente i Vangeli contengono informazioni
e ricostruzioni non storiche, modificate, esagerate e romanzate col tempo: non
sono certo opera di persone che stavano sedute a prendere appunti ai piedi di
Gesù. Sono libri nati per portare la «buona novella» di Gesù (proprio questo
significa euangélion, il sostantivo greco da cui deriva «Vangelo»). In altre
parole, i loro autori avevano un interesse personale in ciò che andavano
raccontando e in come lo raccontavano: il loro scopo era predicare la parola di
Gesù, non certo offrire informazioni biografiche capaci di reggere al vaglio di
criteri storiografici completamente diversi elaborati duemila anni dopo dagli
studiosi. Insomma, scrivevano per i loro contemporanei, nel tentativo di
convincerli a credere a quella che ritenevano la verità su Gesù. Le storie si
fondavano su ciò che avevano sentito e letto, e ciò che avevano letto era basato
su ciò che altri autori avevano sentito: il punto di partenza era sempre e
comunque la tradizione orale.
Oggigiorno, c’è chi sostiene che le culture fondate sull’oralità siano
particolarmente attente a evitare che le tradizioni subiscano cambiamenti
profondi via via che vengono tramandate. Alla prova dei fatti, questo si rivela un
mito. Gli antropologi che studiano l’oralità ci dicono che semmai è vero il
contrario: solo le culture letterarie badano a riproporre i fatti esattamente come si
sono svolti, perché ci permettono di consultare le fonti e verificare se qualcuno
ha modificato le storie. Nelle culture orali il cambiamento è la norma, perché
ogni volta che vengono raccontate in un contesto diverso le storie si trasformano,
o — detto altrimenti — nuovi contesti richiedono nuove modalità di racconto.
Ecco perché nelle culture orali alterare le versioni delle storie non è mai stato
visto come un problema. 5
Insomma, è inevitabile che i Vangeli contengano discrepanze, abbellimenti,
invenzioni e problematiche storiche, perciò non possiamo contare sulla loro
accuratezza storica. Questo significa che dobbiamo scartarli come fonti? No,
significa che abbiamo bisogno di metodi storici rigorosi che ci consentano di
esaminare libri scritti a uno scopo — proclamare la «buona novella» — per
raggiungere uno scopo diverso: scoprire cosa faceva e diceva veramente Gesù.

Metodi

Quella che segue è una carrellata necessariamente breve dei metodi elaborati
dagli studiosi del Nuovo Testamento per affrontare fonti del genere. Va detto
che in pratica i Vangeli sono le uniche fonti a nostra disposizione 6 : le fonti
(pagane) greche e romane del primo secolo non contengono resoconti su Gesù, il
cui nome non viene nemmeno citato fino a oltre ottant’anni dopo la sua morte.
Nelle fonti ebraiche non cristiane troviamo solo due brevi accenni dello storico
Giuseppe Flavio. Certo, ci sono i Vangeli non appartenenti al Nuovo
Testamento, ma furono scritti più tardi e di norma sono di carattere nettamente
leggendario. Ritrovati in epoca moderna, i Vangeli di Tommaso e di Pietro ci
dicono qualcosa, ma a conti fatti non molto. Il che, in sostanza, ci lascia con i
quattro Vangeli del Nuovo Testamento.
Quasi tutti concordano che, sebbene presentino seri problemi in quanto fonti
storiche, nei Vangeli canonici — tra abbellimenti e alterazioni — non mancano
ricostruzioni accurate di ciò che Gesù disse, fece e sperimentò. Il problema è
come distinguerle da modifiche e invenzioni successive.
Gli studiosi hanno stabilito che certe narrazioni scritte sono indipendenti l’una
dall’altra, vale a dire che hanno ereditato tutte o qualcuna delle loro storie da
linee di trasmissione orale separate. È convinzione diffusa, per esempio, che il
Vangelo di Giovanni non avesse attinto agli altri tre. Essendo molto simili fra
loro, Matteo, Marco e Luca vengono chiamati «vangeli sinottici», ovvero «visti
insieme»: è infatti possibile disporli su colonne parallele e leggerli
contemporaneamente, perché molti episodi sono gli stessi, nella stessa sequenza
e spesso narrati con le stesse parole. La ragione è che quasi certamente gli autori
si copiarono a vicenda, o meglio — come ritengono quasi tutti gli studiosi —
che Matteo e Luca presero molte storie dal precedente Marco. Altri brani non
provengono da Marco, però, e sono quasi tutti detti di Gesù. Sin dall’Ottocento,
gli studiosi hanno dimostrato con un eccezionale corpo di prove che Matteo e
Luca avevano un’altra fonte dalla quale ricavare i passi non presenti in Marco.
Poiché era perlopiù formata da detti, questi studiosi (tedeschi) la chiamarono
«fonte dei detti». Oggi si parla di «Q» (da Quelle, «fonte» in tedesco), la fonte
perduta da cui Matteo e Luca avrebbero attinto gran parte dei loro detti.
Matteo contiene episodi assenti in tutti gli altri Vangeli: siccome deve averli
presi da qualche parte, gli studiosi parlano di una fonte «M». Altrettanto dicasi
per «L», la fonte di Luca. M e L potevano essere documenti scritti singoli o
multipli, oppure una combinazione di fonti scritte e orali, ma per semplicità
vengono semplicemente chiamati M e L.
Di conseguenza, non solo abbiamo i Vangeli di Matteo, Marco, Luca e
Giovanni (più Tommaso e Pietro), ma abbiamo ricostruito anche Q, M e L. È
probabile che gli ultimi tre fossero indipendenti fra loro e da Marco, mentre
Giovanni era indipendente da tutti gli altri.
In altre parole, abbiamo numerose tradizioni che, in maniera indipendente,
risalgono tutte alla vita di Gesù. Alla luce di questo — quasi tutti gli studiosi lo
considerano un dato di fatto — siamo in grado di valutare l’autenticità degli
episodi evangelici. Se una storia ricorre in varie tradizioni indipendenti, è molto
più probabile che sia nata dalla fonte prima, la vita di Gesù. È il cosiddetto
criterio della molteplice attestazione. Viceversa, se una storia — un detto o un
atto di Gesù, per esempio — compare in una sola fonte, significa che non può
ottenere conferme indipendenti e pertanto è meno probabile che sia autentica.
Vediamo un paio di esempi. Marco, Giovanni e Q, indipendentemente fra
loro, contengono un riferimento che associa Giovanni Battista, impetuoso
predicatore apocalittico, a Gesù. Conclusione? È probabile che Gesù fosse legato
a Giovanni Battista, impetuoso predicatore apocalittico. Altro esempio più
familiare: Marco e Giovanni raccontano che Gesù fu crocifisso sotto Ponzio
Pilato, con aspetti dell’episodio fra loro indipendenti rintracciabili in M e L.
Probabilmente andò proprio così: Gesù fu crocifisso per ordine del governatore
romano Pilato. Prendiamo invece un controesempio. M (tramite Matteo) ci
racconta che quando Gesù nacque i magi seguirono una stella per andare a
rendergli omaggio. Sfortunatamente, non troviamo conferma all’episodio in
Marco, Q, L, Giovanni o altrove. Potrebbe essere vero, ma è impossibile
stabilirne l’autenticità con il criterio della molteplice attestazione.
Un secondo criterio poggia sul fatto che le ricostruzioni fornite da tutte queste
fonti indipendenti avevano origine nella tradizione orale, che le alterava
nell’interesse di narratori il cui scopo era convertire gli altri o insegnare ai
convertiti il punto di vista «corretto». Se è così, ne consegue che tutti gli episodi
evangelici non coincidenti con ciò che i primi cristiani erano ansiosi di dire
riguardo a Dio — o che sembrano scontrarsi con gli interessi dei narratori
cristiani — hanno forti probabilità di essere autentici. Il ragionamento dovrebbe
essere chiaro: perché mai i cristiani avrebbero dovuto inventare storie che
andavano contro i propri interessi? Se lo facevano, era perché si trattava di
episodi veri. È il principio metodologico che alcuni chiamano criterio della
discontinuità: se una tradizione su Gesù si discosta da quanto i primi cristiani
avevano interesse a dire su di lui, è più probabile che sia storicamente accurata.
Proviamo a chiarire. Marco, M, L e Giovanni affermano che Gesù crebbe a
Nazareth: molteplice attestazione. Allo stesso tempo, è una storia che nessun
cristiano si sarebbe mai sognato di inventare, se consideriamo quanto si sarebbe
rivelata imbarazzante in seguito. Nazareth era un minuscolo villaggio di cui
nessuno aveva mai sentito parlare: a chi mai sarebbe venuto in mente di
inventarsi che il Figlio di Dio veniva da là? È difficile trovare una sola ragione,
perciò è probabile che Gesù venisse davvero da Nazareth. Altro esempio: l’idea
che Gesù fosse stato battezzato da Giovanni Battista non andava giù ai cristiani,
perché i battesimi impartiti da Giovanni sancivano il perdono dei peccati («per la
remissione dei peccati», dice il Nuovo Testamento). Agli albori della Chiesa,
inoltre, lo sapevano tutti che il battezzante era spiritualmente superiore al
battezzato. Chi mai si sarebbe inventato una storia in cui il Figlio di Dio viene
battezzato per espiare i suoi peccati, per giunta da qualcuno di superiore a lui?
Nessuno, ma allora perché la storia esiste?
Semplice, perché Gesù fu veramente battezzato da Giovanni. Vediamo un
controesempio. In Marco, Gesù predice per tre volte che andrà a Gerusalemme,
verrà respinto e crocifisso e poi resusciterà. Riuscite a immaginare una ragione
che avrebbe potuto portare un narratore cristiano ad affermare che Gesù aveva
detto queste cose prima della passione? Ovviamente sì: i cristiani successivi non
volevano certo diffondere l’idea che Gesù fosse stato colto alla sprovvista
quando l’avevano arrestato e messo in croce, molto meglio credere che avesse
previsto il proprio destino. Queste previsioni dimostrerebbero da un lato che
resuscitò davvero (come credevano i cristiani), dall’altro che sapeva di essere
destinato a resuscitare (di nuovo, come credevano i cristiani). È esattamente il
tipo di invenzione che ci aspetteremmo da un cristiano, il che ci impedisce di
appurare se quelle previsioni Gesù le fece davvero. Può darsi, ma se applichiamo
il criterio della discontinuità non lo possiamo dimostrare.
Infine, gli studiosi sono particolarmente attenti a valutare se le tradizioni su
Gesù sono compatibili con il contesto ebraico della Palestina nel primo secolo.
Alcuni degli ultimi Vangeli, non appartenenti al Nuovo Testamento, lo
descrivono intento a impartire insegnamenti nettamente diversi da quelli che
potremmo collocare nella cornice storico-culturale di Gesù. È il cosiddetto
criterio della credibilità contestuale. Se vogliamo comprendere parole e atti di
Gesù dobbiamo esaminarne il contesto storico: se estrapoliamo qualcosa dal suo
contesto, lo fraintendiamo. È un aspetto fondamentale per inquadrare i
personaggi storici. E dunque, prima di procedere, dovremo soffermarci sul
contesto di Gesù, verificando cosa possiamo scoprire a proposito del suo
messaggio e dei suoi proclami a partire da quel contesto, applicando i metodi
appena illustrati, per capire se parlasse di sé in termini divini.

Il contesto socio-culturale di Gesù


In termini generali, Gesù va studiato come un ebreo del primo secolo. Nel
capitolo 2 abbiamo discusso le convinzioni religiose fondamentali del giudaismo
dell’epoca. Come la maggior parte degli ebrei, Gesù doveva credere che
esistesse un solo Dio, creatore del cielo e della terra, che aveva scelto Israele
come suo popolo eletto e depositario della sua legge. Custodire la legge di Mosè
doveva rivestire un’importanza suprema per lui come per tutti gli ebrei suoi
contemporanei. I Vangeli narrano di controversie sorte quando Gesù violò leggi
come quella dello Shabbat, ma in realtà è molto difficile trovare esempi di
comportamenti proibiti. Ciò che aveva violato era l’interpretazione che della
legge davano altre autorità giudaiche, specie i farisei, che avevano elaborato un
complesso sistema di regole da adottare per garantirne il rispetto. Pochi ebrei
osservavano queste regole aggiuntive, e Gesù non era fra loro: da questo punto
di vista, era probabilmente un ebreo tipico. (Quella dei farisei non era ipocrisia:
convinti che si dovesse fare tutto il possibile per rispettare la volontà di Dio,
avevano semplicemente istituito delle norme in questo senso. 7 )
Tra gli aspetti più importanti per la comprensione del Gesù storico c’è quello
che gli studiosi chiamano apocalitticismo, una concezione diffusa fra gli ebrei
dell’epoca. Come abbiamo visto, apocalisse significa «rivelazione»: gli ebrei
pensavano che Dio avesse rivelato loro i segreti celesti necessari a interpretare le
realtà terrene. In particolare, credevano che Dio fosse sul punto di intervenire in
questo mondo di dolore e sofferenza per sconfiggere le forze del male dominanti
e instaurare un regno del bene senza più miseria né ingiustizia. Questa visione
apocalittica è ampiamente attestata nelle fonti ebraiche dell’epoca di Gesù: per
esempio nei Manoscritti del Mar Morto — una raccolta di scritti scoperta nel
1947 e prodotta da autori ebrei del tempo di Gesù, non lontano da dove abitava
— e in altri testi giudaici non appartenenti alla Bibbia. La professavano
Giovanni Battista, i farisei e più in generale il mondo di Gesù. Illustrerò ora
quattro suoi principi fondamentali, prima di dimostrare che quasi certamente la
professava Gesù stesso.

Dualismo

Gli apocalitticisti ebrei erano dualisti, ovvero convinti che la realtà fosse
composta da due elementi fondamentali: le forze del bene e le forze del male.
Inutile dire che Dio era responsabile di tutto quanto era buono, ma secondo gli
ebrei aveva un rivale: il diavolo, signore del male. Dio poteva contare sul
sostegno degli angeli, il diavolo su quello degli spiriti maligni. Dio aveva la
facoltà di dare la vita e promuovere la rettitudine, il diavolo quella di dispensare
la morte e alimentare il peccato. Le forze del bene e del male erano impegnate in
una battaglia cosmica nella quale tutti dovevano schierarsi. Non esisteva
territorio neutrale: o stavi con il bene e con Dio, o stavi con il male e con il
diavolo.
Un dualismo cosmico che si inseriva in uno scenario storico. La storia del
mondo era divisa in due fasi: il presente, dominato dalle forze del male, e il
futuro, in cui Dio avrebbe regnato supremo. Che il presente fosse un’epoca
dominata dal male era evidente: guerre, carestie, siccità, uragani, terremoti,
difetti congeniti, odio, oppressione e ingiustizia. Le forze del male
spadroneggiavano ed erano sono sempre più potenti, ma Dio le avrebbe
rovesciate con un giudizio cataclismico per istituire il suo regno del bene.
Pessimismo

Gli apocalitticisti ebrei erano pessimisti riguardo alla possibilità di migliorare le


cose nel presente. Le forze del male erano nettamente più potenti dei mortali,
che al massimo potevano resistere, ma non sconfiggerle. In definitiva, nessuno
era in grado di rendere il mondo un posto migliore, per quante buone azioni e
scelte politiche sagge venissero intraprese e per quante utili innovazioni
tecnologiche venissero sviluppate. Le cose andavano male, e non avrebbero fatto
che peggiorare fino alla fine, quando sarebbe scoppiato — letteralmente —
l’inferno.

Giudizio

Tuttavia gli apocalitticisti erano convinti che, quando avessimo toccato il fondo,
Dio sarebbe intervenuto con un poderoso atto di giudizio. Come abbiamo visto
nel capitolo precedente, il Libro di Enoch descrive il Figlio dell’Uomo come
futuro giudice cosmico della terra. È una visione apocalittica: verrà un giorno in
cui Dio giudicherà le forze del male sulla terra e in cielo per mezzo del suo
emissario, il Figlio dell’Uomo. Anche altri apocalitticisti ritenevano che il
giudizio fosse imminente e che Dio avrebbe distrutto le forze del male schierate
contro di lui e il suo popolo, ricompensando chi aveva deciso di sostenerlo e ne
aveva subito le conseguenze. Un salvatore sarebbe arrivato dal cielo per
costruire un nuovo regno che rimpiazzasse l’attuale regno del male. Questo
regno di Dio non avrebbe conosciuto dolore, miseria o sofferenza: chi vi entrava
avrebbe goduto di un’esistenza eterna e utopica.
Il giudizio divino non avrebbe interessato solo chi era vivo all’epoca, ma
anche i morti. Gli apocalitticisti si erano fatti l’idea che in quel momento
cruciale della storia, con la fine di un’epoca, i morti sarebbero risorti per
rientrare nel proprio corpo e affrontare il giudizio, positivo o negativo che fosse.
Un’idea rassicurante per chi, essendosi schierato con Dio, era oppresso dalle
forze del male e dai loro emissari terreni: c’era una ricompensa in arrivo. Inoltre,
nessuno doveva credere di potersi schierare con il male, opprimere gli altri,
diventare forte e potente e poi morire e farla franca. Che lo volessero o no, Dio
avrebbe resuscitato tutti per giudicarli.
Già, ma quando sarebbe finito il regno del male? Molto presto.

Imminenza
Secondo gli apocalitticisti ebrei, peggio di così il mondo non sarebbe potuto
andare. Le forze del male continuavano a rendere la vita uno strazio agli uomini
giusti che si erano schierati con Dio. Ma avevano i giorni contati: l’umanità
doveva soltanto avere fede e resistere un altro poco, finché Dio non avesse
istituito il suo regno del bene. Quanto ancora c’era da aspettare, però? «In verità
vi dico che alcuni di coloro che sono qui presenti non gusteranno la morte,
finché non abbiano visto il regno di Dio venuto con potenza» ci dice Marco in
9:1, evidentemente convinto che la fine apocalittica sarebbe arrivata presto,
prima che tutti i discepoli morissero. Altrove ribadisce: «In verità vi dico che
questa generazione non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute»
(13:30).
I vangeli sinottici, ovvero i più antichi, ritraggono Gesù come predicatore
apocalittico che annunciava l’imminente fine di un’epoca e l’avvento del regno
di Dio, ma possiamo fidarci? Se i Vangeli contengono tradizioni inventate o
alterate nel corso della trasmissione orale, come escludere che fossero stati i
seguaci di Gesù ad attribuirgli un profilo apocalittico dopo la sua morte?
Ebbene, esistono fondate ragioni per ritenere che Gesù stesso, e non i suoi
seguaci, professasse una visione pienamente apocalittica.
Non dimentichiamo che per valutare l’accuratezza storica dei Vangeli
dobbiamo applicare i nostri rigorosi principi metodologici, alla luce dei quali
appare evidente che Gesù fosse un convinto fautore della concezione apocalittica
e che il messaggio apocalittico fosse al centro dei suoi proclami terreni. È un
aspetto cruciale per capire se si ritenesse divino o no. Soffermiamoci su alcune
delle prove. 8

Gesù apocalitticista
Come abbiamo visto, per sancire l’accuratezza storica delle tradizioni
evangeliche occorre trovare numerose attestazioni indipendenti di detti e gesta.
In particolare, quelle che cerchiamo sono tradizioni attestate indipendentemente
nelle fonti più antiche. Poiché le storie venivano modificate col tempo, più ne
trascorreva fra la vita di Gesù e le fonti che la narravano, più era probabile che le
tradizioni fossero state alterate se non inventate. Ecco perché prediligiamo le
prime fonti. Giovanni è il Vangelo più tardo, risalente a sessanta-sessantacinque
anni dopo Gesù. I vangeli sinottici sono precedenti, e ancora precedenti sono le
loro fonti. Se trovassimo attestazioni coincidenti in — per esempio — Marco (il
Vangelo più antico), Q (fonte di parti di Matteo e Luca), M e L (le due fonti — o
gruppi di fonti — utilizzate dagli altri due Vangeli), allora potremmo parlare di
tradizioni antiche e indipendenti. È il massimo a cui possiamo aspirare.

Attestazioni indipendenti del messaggio apocalittico di Gesù

Ebbene, nel caso delle dichiarazioni apocalittiche di Gesù le cose stanno


esattamente così: tutte le fonti più antiche le attestano in maniera indipendente.
Da Marco. Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo
splendore; le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno scrollate. Allora si vedrà
il Figlio dell’Uomo venire sulle nuvole con grande potenza e gloria. Ed egli allora manderà gli angeli a
raccogliere i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremo della terra all’estremo del cielo. […] In verità vi
dico che questa generazione non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute. (Marco 13:24-27,
30)
Da Q. Perché com’è il lampo che balenando risplende da una estremità all’altra del cielo, così sarà il
Figlio dell’Uomo nel suo giorno. […] Come avvenne ai giorni di Noè, così pure avverrà ai giorni del
Figlio dell’Uomo. Si mangiava, si beveva, si prendeva moglie, si andava a marito, fino al giorno che
Noè entrò nell’arca, e venne il diluvio che li fece perire tutti. […] Lo stesso avverrà nel giorno in cui il
Figlio dell’Uomo sarà manifestato. (Luca 17:24, 26-27, 30; vedi Matteo 24:27, 37-39)
Da M. Come dunque si raccolgono le zizzanie e si bruciano con il fuoco, così avverrà alla fine dell’età
presente. Il Figlio dell’Uomo manderà i suoi angeli che raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e
tutti quelli che commettono l’iniquità, e li getteranno nella fornace ardente. Lì sarà il pianto e lo stridor
dei denti. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro. (Matteo 13:40-43)
Da L. Badate a voi stessi, perché i vostri cuori non siano intorpiditi da stravizio, da ubriachezza, dalle
ansiose preoccupazioni di questa vita e che quel giorno non vi venga addosso all’improvviso come un
laccio; perché verrà sopra tutti quelli che abitano su tutta la terra. Vegliate dunque, pregando in ogni
momento, affinché siate in grado di scampare a tutte queste cose che stanno per venire, e di comparire
davanti al Figlio dell’Uomo. (Luca 21:34-36)

Sono soltanto esempi, e voglio sottolineare che non ho scelto i versetti solo
perché erano i più utili a dimostrare la mia tesi.
Quello che cerco è un messaggio attestato indipendentemente in tutte le fonti
più antiche a nostra disposizione, il che è proprio quanto accade con i proclami
apocalittici di Gesù.
Particolare sorprendente e degno di nota, il messaggio apocalittico verrà
attenuato, praticamente eliminato e infine contraddetto (pare dallo stesso Gesù!)
nelle fonti successive. Non è difficile capire perché. Se Gesù aveva predetto
l’arrivo dell’apocalisse durante la sua generazione, prima che tutti i suoi
discepoli morissero, cosa doveva concludere chi, una generazione dopo, stava
ancora aspettando? Forse che Gesù si era sbagliato, ma volendo rimanergli
fedele poteva invece modificarne il messaggio in modo tale da eliminare i
riferimenti all’apocalisse imminente. Non è dunque un caso se in Giovanni —
l’ultimo Vangelo canonico, scritto dopo quella prima generazione — Gesù ha
smesso di annunciare il messaggio apocalittico per predicare qualcosa di
completamente diverso. Ancora più tardi, in un testo come il Vangelo di
Tommaso, lo troviamo impegnato a predicare esplicitamente contro la
concezione apocalittica (detti 2 e 113). Col passare del tempo il messaggio
apocalittico finì per essere giudicato fuorviante e addirittura pericoloso, il che
spiega i cambiamenti alle tradizioni della predicazione di Gesù. Ma le molteplici
attestazioni nelle fonti più antiche parlano chiaro: che Gesù avesse annunciato
un messaggio del genere è pressoché certo. Come vedremo, si tratta di un
elemento chiave per capire chi credeva di essere Gesù: non Dio, ma qualcun
altro.
Ancora una volta, va ribadita l’importanza di collocare qualsiasi tradizione su
Gesù in un plausibile contesto ebraico palestinese del primo secolo, requisito che
questi detti soddisfano senza alcun dubbio. L’apocalitticismo era nell’aria, come
dimostrano i Manoscritti del Mar Morto e testi ebraici quali il Libro di Enoch e
altre apocalissi giunte fino a noi. Insomma, il messaggio di Gesù era tutto
fuorché insolito, perché altri predicatori ebraici andavano dichiarando cose
simili.
E tuttavia, questo messaggio apocalittico supera il vaglio del criterio della
discontinuità? Alcuni studiosi sostengono di no: si tratterebbe di parole messe in
bocca a Gesù da seguaci successivi che, a differenza sua, ritenevano la storia del
mondo prossima a una fine sensazionale. Secondo me sbagliano della grossa, per
due ragioni. La prima è che alcuni dei detti apocalittici soddisfano in pieno il
criterio della discontinuità; la seconda — appena più complessa — è che la
natura apocalittica dei proclami di Gesù può essere dimostrata prendendo in
considerazione da un lato l’inizio del suo ministero, dall’altro ciò che accadde
sulla sua scia.

Discontinuità e messaggio di Gesù

Parecchi detti apocalittici contenuti nelle fonti sinottiche sono parole che nessun
antico cristiano si sarebbe mai sognato di mettere in bocca a Gesù. Facciamo tre
esempi.
Per cominciare, i detti sul «Figlio dell’Uomo» sopra citati mostrano una
particolarità sulla quale in molti sorvolano senza rifletterci. È un po’ complicato,
ma si tratta di questo. I primi cristiani, compresi gli autori dei Vangeli,
credevano che Gesù fosse il Figlio dell’Uomo, il giudice cosmico della terra che
a breve sarebbe ridisceso dal cielo. In vari punti dei Vangeli, infatti, Gesù viene
assimilato al Figlio dell’Uomo. Queste identificazioni rispettano il criterio della
discontinuità? Evidentemente no: se sei convinto che Gesù sia il giudice
cosmico, non avrai difficoltà a inventare detti nei quali Gesù viene assimilato al
Figlio dell’Uomo. E se invece avessimo dei detti nei quali Gesù non viene
assimilato al Figlio dell’Uomo? Meglio ancora: se avessimo dei detti nei quali
Gesù dà l’impressione di assimilare qualcun altro al Figlio dell’Uomo?
Rileggiamo i detti citati sopra: da nessuno si evince che Gesù stia parlando di
sé quando annuncia l’arrivo del Figlio dell’Uomo sulla terra. I lettori danno
spontaneamente per scontato che si riferisca a se stesso, perché sono convinti
che Gesù sia il Figlio dell’Uomo o perché sanno che altrove i Vangeli lo
identificano come tale. E tuttavia, in questi detti non c’è nulla che giustifichi
l’identificazione. Per come sono formulati, se fossero farina del sacco dei primi
cristiani e non di Gesù, nessuno di loro se li sarebbe mai inventati così.
Prendiamo un altro detto, facendo attenzione alle parole esatte: «Perché se uno
si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e
peccatrice, anche il Figlio dell’Uomo si vergognerà di lui quando verrà nella
gloria del Padre suo con i santi angeli» (Marco 8:38). Chi è già convinto che
Gesù sia il Figlio dell’Uomo potrà dare per scontato che qui stia parlando di se
stesso: chiunque si vergogni di Gesù, Gesù si vergognerà di lui (cioè lo
giudicherà) quando scenderà dal cielo. Il brano, però, dice un’altra cosa:
chiunque si vergogni di Gesù, il Figlio dell’Uomo si vergognerà di quella
persona quando lui (il Figlio dell’Uomo) scenderà dal cielo. Nulla lascia pensare
che Gesù stia parlando di sé, si tratta di un’interpretazione data al testo (e non
ricavata dal testo) da chi ritiene che Gesù parli di sé come del Figlio dell’Uomo.
Insomma, è improbabile che un antico cristiano si sarebbe inventato un detto
del genere sul Figlio dell’Uomo invece di uno in cui Gesù si identifica
inequivocabilmente con lui, tipo: «Se tu fai questo a me, allora io, il Figlio
dell’Uomo, farò quello a te». Difficile immaginare un cristiano che inventa un
detto nel quale Gesù e il Figlio dell’Uomo sembrano distinti, il che ne rende più
probabile l’autenticità.
Il secondo esempio è tratto da uno dei miei passi preferiti dell’intera Bibbia, la
storia del giudizio finale delle pecore e dei capri (Matteo 25:31-46, tratto da M).
Il Figlio dell’Uomo, sceso sulla terra per giudicare alla presenza degli angeli,
siede sul suo trono. Riunite davanti a sé tutte le genti, separa gli uni dagli altri
«come il pastore separa le pecore dai capri» (25:32). Le «pecore» sono alla sua
destra, i «capri» alla sua sinistra. Per cominciare, si rivolge alle pecore e le
accoglie nel regno di Dio preparato appositamente per loro. E come mai hanno
ottenuto l’accesso a questo regno glorioso? «Perché ebbi fame e mi deste da
mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e
mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi»
(25:35-36). I giusti sono colti alla sprovvista: non hanno mai fatto nulla di simile
per lui, anzi, non l’hanno mai visto prima. Replica il giudice: «In verità vi dico
che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a
me» (25:40). Quindi si rivolge ai «capri» per spedirli «nel fuoco eterno,
preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (25:41). Come mai? «Perché ebbi
fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui straniero
e non m’accoglieste; nudo e non mi vestiste; malato e in prigione, e non mi
visitaste» (25:42-43). Nemmeno loro capiscono: come possono essersi rifiutati di
aiutarlo, se è la prima volta che lo vedono? «In verità vi dico che in quanto non
l’avete fatto a uno di questi minimi, non l’avete fatto neppure a me» (25:45).
Morale: i peccatori sono destinati alla punizione eterna, i giusti alla vita eterna.
È un brano spettacolare ed è quasi certamente molto vicino a ciò che Gesù
disse davvero. Perché? Perché non corrisponde affatto alle convinzioni dei primi
cristiani su come si conquistava la vita eterna. La Chiesa antica insegnava che la
salvezza si ottiene credendo alla morte e alla resurrezione di Gesù. L’apostolo
Paolo, per esempio, asseriva categoricamente che la salvezza non potesse essere
ottenuta facendo le cose prescritte dalla legge, anzi, facendo qualsiasi cosa. In
caso contrario, Cristo non avrebbe avuto ragione di morire (si veda per esempio
Galati 2:15-16, 21). Persino il Vangelo di Matteo si concentra sulla salvezza
portata da Gesù con la sua morte e resurrezione. Il detto sopra citato, tuttavia,
spiega che la vita eterna non si conquista credendo in Cristo (il popolo non ha
mai visto né sentito parlare del Figlio dell’Uomo), ma compiendo buone azioni
in favore dei bisognosi. Questa non è un’invenzione dei primi cristiani: sono le
idee di Gesù. Il Figlio dell’Uomo giudicherà la terra, e chi ha aiutato i bisognosi
verrà ricompensato con la vita eterna.
Il terzo detto che quasi certamente supera il criterio della discontinuità è un
proclama apocalittico che si rivelerà importante nel seguito del capitolo. Grazie a
Q, sappiamo che Gesù annunciò ai suoi discepoli che «nella nuova creazione,
quando il Figlio dell’Uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, anche voi, che
mi avete seguito, sarete seduti su dodici troni a giudicare le dodici tribù
d’Israele» (Matteo 19:28; vedi Luca 22:30). Non è difficile rendersi conto che si
tratta di parole probabilmente pronunciate da Gesù e non attribuitegli in epoca
successiva. Dopo la sua morte, lo sapevano tutti che era stato tradito da uno dei
discepoli, Giuda Iscariota. (L’episodio è sicuro, perché attestato
indipendentemente in tutte le fonti e perché rispetta il criterio della discontinuità.
Chi mai avrebbe potuto inventarsi una storia in cui Gesù ha così poca autorità su
uno dei suoi seguaci?) Ma a chi si rivolge Gesù in questo detto? Ai dodici
discepoli, nessuno escluso: tutti loro, Giuda compreso, saranno sovrani nel
futuro regno di Dio. Nessun cristiano si sarebbe sognato di scrivere di suo pugno
un detto in cui il traditore di Gesù, Giuda Iscariota, appare destinato a un trono
nel regno divino. Possiamo quindi dedurre con certezza quasi assoluta che quelle
parole risalgono al Gesù storico.

L’inizio e la fine come chiavi per quanto sta in mezzo

Da oltre un secolo, gli argomenti che ho illustrato portano la maggioranza degli


studiosi del Nuovo Testamento a concludere che Gesù era un profeta
apocalittico. Vediamo ora l’ultimo argomento, quello che a mio parere è il più
convincente di tutti, tanto che avrei voluto arrivarci io stesso. 9 Il punto è
questo: ci sono due cose che sappiamo con relativa certezza, come Gesù diede
inizio al suo ministero e cosa accadde nel periodo immediatamente successivo. E
l’unica linea che congiunge l’inizio e la fine è quanto sta in mezzo, ovvero il
ministero stesso di Gesù.
Mi spiego. Come sappiamo, esistono valide testimonianze — molteplici
attestazioni e discontinuità — su come Gesù diede inizio alla sua vita pubblica:
con il battesimo ricevuto da Giovanni Battista. E chi era Giovanni Battista? Un
impetuoso predicatore apocalittico che andava proclamando l’imminente fine di
un’epoca, per prepararsi alla quale la gente doveva pentirsi. La migliore
testimonianza delle parole di Giovanni è un passo di Q: «Chi vi ha insegnato a
sfuggire l’ira futura? Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento […] Ormai
la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero dunque che non fa buon
frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Luca 3:7-9). Un messaggio apocalittico
bello e buono. L’ira è alle porte e la gente deve prepararsi (facendo «frutti degni
del ravvedimento»), in caso contrario verrà tagliata come un albero e gettata nel
fuoco. E quando accadrà tutto questo? Da un momento all’altro, perché la scure
è già posta alla radice degli alberi, pronta a fare il suo lavoro.
All’inizio del suo ministero, dunque, Gesù era legato a Giovanni Battista.
Quasi tutti gli studiosi ritengono che fosse un suo discepolo o seguace prima di
mettersi in proprio. In un mondo religiosamente variegato come quello del
giudaismo del primo secolo, Gesù aveva a disposizione varie alternative:
avrebbe potuto unirsi ai farisei, per esempio, oppure trasferirsi a Gerusalemme
per frequentare il Tempio Santo, o ancora associarsi a un’altra guida religiosa.
Se invece scelse un predicatore della distruzione imminente doveva essere
perché ne condivideva il messaggio: insomma, all’inizio del suo ministero Gesù
era un apocalitticista.
Ma il punto fondamentale è l’immediato strascico del ministero di Gesù. Cosa
accadde dopo la sua morte? Nacque la Chiesa cristiana e i discepoli iniziarono a
convertire il popolo alla fede in Gesù. E cosa credevano quei primi cristiani?
Tutte le prove ci indicano che anche loro erano sicuri che presto Gesù sarebbe
tornato dal cielo per giudicare la terra. Il primo autore cristiano, come già detto,
è Paolo, un apocalitticista talmente convinto della fine imminente da pensare che
sarebbe stato ancora vivo il Giorno del giudizio (1 Tessalonicesi 4:1; 1 Corinzi
15:51-53). Riassumendo: Gesù iniziò il ministero legandosi a un impetuoso
predicatore apocalittico, e subito dopo la sua morte sorsero comunità di seguaci
fervidamente apocalittici. Se l’inizio e la fine erano apocalittici, come poteva
non esserlo anche quanto stava in mezzo? Se solo l’inizio lo fosse stato,
potremmo ipotizzare che Gesù, e quindi i suoi seguaci, si fossero allontanati dal
messaggio apocalittico di Giovanni Battista. Il problema è che i suoi seguaci
sposavano in pieno la visione apocalittica. Se solo la fine lo fosse stata,
potremmo ipotizzare che Gesù non professava quelle idee, ma che i suoi seguaci,
avendole maturate successivamente, gliele avessero attribuite. Il problema è che
l’esordio del ministero di Gesù fu profondamente apocalittico. Insomma, poiché
Gesù era inizialmente legato a Giovanni e poiché sulla scia del suo ministero
spuntarono subito le comunità apocalittiche, dobbiamo concludere che il
ministero stesso era caratterizzato da proclami apocalittici dell’imminente arrivo
del Figlio dell’Uomo, che avrebbe giudicato la terra e istituito il regno di Dio.

Chi si credeva di essere Gesù?


Finora mi sono concentrato sulla natura del suo messaggio, ma così facendo non
intendo in alcun modo affermare che sia questo l’unico aspetto rilevante per il
Gesù storico e per gli studiosi impegnati a ricostruirne la vita. Si potrebbe però
obiettare che le varie gesta di Gesù, le controversie che lo interessarono e gli
eventi che condussero alla sua morte si inseriscono in una cornice apocalittica
particolare, come hanno dimostrato studi più esaurienti.
L’obiettivo di questo libro, tuttavia, è affrontare 10 la questione
teologica/religiosa di come (e quando) Gesù finì per essere identificato con Dio.
La mia tesi è che, durante il suo ministero, Gesù non andasse affatto predicando
di essere Dio. Al contrario, il suo messaggio era incentrato su un proclama
apocalittico: la distruzione e la salvezza erano imminenti, il Figlio dell’Uomo
sarebbe sceso presto dal cielo per giudicare la terra e la gente doveva prepararsi
a questo cataclisma storico, perché nel nuovo regno i giusti sarebbero stati
ricompensati per essere rimasti fedeli a Dio e aver rispettato la sua volontà,
anche se questo li aveva fatti soffrire.
Ma che dire di Gesù stesso, il messaggero? Quale ruolo avrebbe ricoperto nel
regno venturo? Per rispondere, prenderemo in esame ciò che sappiamo riguardo
a quanto dicevano di lui i suoi primi seguaci.
Il titolo attribuito più spesso a Gesù nei primi anni del cristianesimo è Cristo.
A volte mi ritrovo a spiegare ai miei studenti che non si trattava del cognome di
Gesù. All’epoca, fatta eccezione per l’élite romana, quasi nessuno aveva un
cognome: Gesù non era figlio di Maria e Giuseppe Cristo. «Cristo» è un titolo,
per l’esattezza la traduzione greca dell’ebraico mašīaḥ. Insomma, «Gesù Cristo»
significa «Gesù il messia».
Abbiamo ragioni per credere che alcuni dei suoi seguaci lo vedessero come il
messia quando ancora era in vita, e anche che Gesù stesso si proclamasse tale.
Prima di arrivarci, però, dobbiamo discutere brevemente di cosa significava il
termine messia per gli ebrei palestinesi del primo secolo.

Il messia ebraico

I testi ebraici ci spiegano che la parola messia veniva interpretata in parecchi


modi diversi. 11 Per cominciare, ricordiamo che mašīaḥ significa «l’unto», vale
a dire, in questo contesto, «prescelto e favorito da Dio». Con una postilla, di
solito: «Allo scopo di compiere la missione di Dio e attuare la sua volontà sulla
terra». Come abbiamo visto, il Libro di Enoch presenta il Figlio dell’Uomo come
l’unto. Si tratta di un’interpretazione inconsueta nella misura in cui il termine
viene applicato al futuro giudice cosmico della terra, ma è comprensibile che
alcuni ebrei la vedessero così. Chi meglio dell’essere divino e forse angelico
destinato a distruggere le forze del male e instaurare il regno del bene poteva
essere descritto come il prescelto di Dio? Grazie al Libro di Enoch sappiamo che
alcuni ebrei assimilano davvero il futuro giudice — che fosse chiamato Figlio
dell’Uomo o in altro modo — al messia di Dio.
Più spesso, tuttavia, il termine veniva applicato a un essere non angelico,
bensì umano. I manoscritti del Mar Morto, per esempio, ci dicono che alcuni
ebrei — specie quelli particolarmente fedeli alle leggi rituali enunciate nella
Torah — pensavano che un futuro sovrano d’Israele sarebbe stato un grande e
potente sacerdote: nei manoscritti, questa figura è identificata con un messia,
l’unto del Signore, che avrebbe interpretato i testi sacri con autorevolezza
spiegando al popolo le leggi di Dio e applicandole rigorosamente. Questa lettura
del termine messia è giustificata anche dal fatto che talvolta la Bibbia ebraica
presenta i sacerdoti come unti da Dio.
Secondo un’interpretazione assai più diffusa, tuttavia, il messia non era un
giudice angelico né un sacerdote autorevole, ma un sovrano d’altro genere.
Come abbiamo già visto, l’«unto» per eccellenza era il re d’Israele: il primo,
Saul, era salito al trono mediante il rituale dell’unzione, (1 Samuele 10:1), e
altrettanto il secondo, il grande Davide (1 Samuele 16:13), e i suoi discendenti.
La chiave di questa accezione di «messia» è la promessa — sulla quale ci
siamo già soffermati — che Dio fa a Davide in 2 Samuele 7: diventare un padre
per suo figlio Salomone. In questo senso il re era «Figlio di Dio», ma Dio
formula una seconda promessa, altrettanto importante: «La tua casa e il tuo
regno saranno saldi per sempre davanti a te e il tuo trono sarà reso stabile per
sempre» (2 Samuele 7:16). Più chiaro di così! Davide avrà sempre un
discendente sul trono, parola di Dio.
Sta di fatto che i discendenti di Davide occuparono il trono molto a lungo, per
quattro secoli circa, ma a volte capita che la storia si metta di traverso. Per
esempio nel 586 a.e.v., quando Babilonia, forte del suo crescente potere politico,
distrusse la Giudea — compresa la capitale Gerusalemme e il tempio di Dio
costruito da Salomone — e depose dal trono il re davidico.
In seguito, gli ebrei presero a domandarsi come una simile catastrofe fosse
stata possibile. Dio aveva promesso che, se anche il «figlio» di Davide gli avesse
disobbedito, lui lo avrebbe comunque onorato, e che la stirpe di Davide avrebbe
ereditato per sempre il trono di Israele. Si era dunque rimangiato la parola?
Alcuni pensatori ebrei finirono per convincersi non che la promessa di Dio fosse
nulla, ma che avrebbe trovato compimento in un’epoca futura. Il re davidico era
stato temporaneamente spodestato, ma Dio si sarebbe ricordato della promessa:
un altro unto era destinato ad arrivare — un re come Davide, uno dei suoi
discendenti — per rifare di Israele un grande Stato glorioso e indipendente,
invidia di tutte le altre nazioni. Il nuovo unto, il messia, sarebbe stato come il suo
illustre progenitore, un politico abile e un potente guerriero capace di
sconfiggere gli oppressori che si erano impadroniti della terra promessa e
restaurare la monarchia e la nazione, aprendo le porte a un’epoca di splendore.
Fra gli ebrei che attendevano l’arrivo del messia, pare ce ne fossero alcuni che
ne interpretavano il ruolo in termini politici: un re grande e potente in grado di
ricostruire il regno con l’uso della forza militare, impugnando la spada per
liberarsi dei nemici. Altri, specie quelli di tendenze apocalittiche, si aspettavano
invece qualcosa di più simile a un miracolo: un intervento diretto di Dio sul
corso della storia per ritrasformare Israele in un regno governato dal suo messia.
Gli apocalitticisti più radicali, invece, vedevano il regno futuro non come un
sistema politico dominato da burocrazia e corruzione uguale a tutti gli altri, ma
come il regno di Dio, uno Stato utopico privo di male, dolore e sofferenza di
qualsivoglia genere.

Gesù come messia

Abbiamo ogni ragione di credere che, durante la sua vita, i seguaci di Gesù
vedessero in lui proprio l’unto di Dio sceso sulla terra. Due dati ci sostengono in
questo senso. Il primo, come già detto, è che «Cristo» (vale a dire l’unto e il
messia) era di gran lunga l’appellativo più attribuito a Gesù dai primi cristiani, al
punto che spesso lo chiamavano Cristo e non Gesù: quella sul cognome era una
battuta, ma di fatto sembrava proprio che lo fosse. Il che è sorprendente se
consideriamo che, a quanto ci è dato sapere, Gesù non aveva mai fatto nulla per
presentarsi come l’unto: non era sceso dal cielo per giudicare i vivi e i morti, non
era un sacerdote, non si era messo alla testa di un esercito per cacciare i romani
dalla terra promessa e restaurare lo stato sovrano d’Israele. E allora come mai i
suoi seguaci gli attribuivano un titolo che suggeriva che avesse fatto almeno una
di queste cose?
La domanda ci porta al secondo dato. Secondo molti cristiani odierni, i primi
seguaci di Gesù finirono per identificarlo come il messia per via della
resurrezione: se era morto per i nostri peccati e poi resuscitato dai morti, non
poteva non essere il messia. Il problema è che, per ragioni intuibili sulla base di
quanto abbiamo detto finora, si tratta di un’idea profondamente sbagliata. Gli
antichi ebrei non si aspettavano affatto che il futuro messia sarebbe morto e
risorto. Potevano esserci convinzioni diverse su come si sarebbe presentato
(giudice cosmico, sacerdote, guerriero invincibile), ma tutti quanti erano sicuri
che il messia sarebbe stato una figura grandiosa e un potente sovrano d’Israele,
un profilo al quale Gesù non corrispondeva di certo. Altro che distruggere il
nemico, era stato distrutto dal nemico: arrestato, torturato e crocifisso, la morte
più dolorosa e umiliante nota ai romani. In poche parole, Gesù era il contrario
del messia.
In seguito, fra cristiani ed ebrei scoppiarono lunghe e violente controversie al
riguardo. I primi sostenevano che la Bibbia ebraica avesse predetto la morte e la
resurrezione del futuro messia in brani — come Isaia 53 e il Salmo 22 — che
parlano di una persona che soffre e viene ricompensata. Gli ebrei rispondevano
che quei brani non parlavano del messia. Potete verificare voi stessi: la parola
«messia» non compare una sola volta.
Che li interpretiamo o no come riferiti al messia (per quanto non venga mai
citato esplicitamente) non è rilevante in questa fase della discussione. Il punto è
che, prima del cristianesimo, nessun ebreo li aveva mai associati al messia. Il
messia doveva essere una figura di grande potenza, capace di sconfiggere il
nemico e instaurare il regno di Dio. Invece Gesù era stato sconfitto dal nemico, e
questo agli ebrei bastava: per definizione o quasi, Gesù non era il messia.
Il che però ci pone un problema. Se il fatto che fosse morto per i nostri peccati
e poi risorto non portava gli ebrei a identificarlo con il messia, come mai i
cristiani iniziarono da subito — non malgrado la sua morte, ma per via della sua
morte — a proclamarlo tale? Esiste un’unica spiegazione possibile: lo facevano
già prima della sua morte.
Ecco dunque quello che molti studiosi ritengono lo scenario più ragionevole.
In vita Gesù aveva lasciato credere di poter essere il messia e i suoi discepoli si
aspettavano grandi cose da lui. Forse avrebbe formato un esercito. Forse avrebbe
scatenato l’ira di Dio contro il nemico. Qualcosa avrebbe fatto di sicuro e
sarebbe diventato re d’Israele. La crocifissione smentì rovinosamente l’idea,
dimostrando ai discepoli che si sbagliavano della grossa. Gesù era stato ucciso
dai suoi nemici, perciò non poteva essere il messia. A quel punto però i discepoli
si convinsero che fosse risorto, il che li fece tornare sui loro passi: allora era
davvero il messia, ma in un altro senso!
Approfondiremo l’argomento nei prossimi due capitoli, esaminando la fede
nella resurrezione. Qui mi limiterò a esporre la tesi. I seguaci di Gesù dovevano
averlo identificato con il messia mentre era in vita, perché la morte e la
resurrezione non potevano giustificare una simile conclusione: non era previsto
che il messia morisse e risorgesse.

Gesù si credeva il messia?


Ciò premesso, cosa possiamo dire riguardo all’idea che Gesù probabilmente
aveva di se stesso? Si credeva il messia? In che senso, nel caso? E si credeva
Dio? La mia posizione è netta: messia, sì; Dio, no.
A mio avviso, esistono eccellenti ragioni per ritenere che Gesù si vedesse
come il messia, in un senso molto specifico e particolare. Il messia era il futuro
sovrano del popolo d’Israele, ma in quanto apocalitticista Gesù pensava che il
nuovo regno sarebbe stato istituito non per mezzo di un conflitto politico o
militare, bensì grazie al Figlio dell’Uomo, destinato a scendere sulla terra per
giudicare chiunque si opponesse a Dio. È mia convinzione che Gesù si
considerasse il futuro re di quel regno.
Le ragioni sono varie. Per cominciare, torniamo al ragionamento precedente
sui discepoli. Sappiamo che, nel corso della vita terrena di Gesù, i discepoli lo
ritenevano il messia e ne parlavano come tale. Senonché, lui non faceva nulla
per giustificare una simile idea. Aveva anzi tutta l’aria di un pacifista («ama il
tuo nemico», «porgi l’altra guancia», «beati quelli che si adoperano per la
pace»), il che non lo rendeva certo il candidato ideale alla carica di generale
delle forze armate ebraiche. Non predicava l’annientamento dell’esercito romano
con la violenza, e quando nominava il Figlio dell’Uomo si riferiva a qualcun
altro, non a se stesso. Se dunque nessuno dei suoi atti dava adito al sospetto che
nutrisse ambizioni messianiche, perché i suoi seguaci quasi certamente lo
ritenevano il messia e così lo chiamavano durante il suo ministero pubblico? La
spiegazione più semplice è che fosse Gesù a proclamarsi tale.
La sua concezione del termine «messia», però, va inquadrata nel contesto più
ampio del messaggio apocalittico che andava proclamando. È qui che entra in
gioco uno dei detti che in precedenza abbiamo valutato come quasi sicuramente
autentici. Gesù annuncia ai discepoli — Giuda Iscariota compreso — che
siederanno su dodici troni per governare le dodici tribù d’Israele nel regno
futuro. Bene, ma chi sarà il primo re? Se Gesù è il loro maestro (= signore) ora,
non rimarrà il loro maestro (= Signore) anche allora? È stato lui a convocarli,
istruirli, nominarli e promettere loro i troni: è pressoché inconcepibile che non
immagini un ruolo nel regno anche per se stesso, ma se già adesso è la guida dei
discepoli, non potrà non continuare a esserlo. Insomma, Gesù doveva vedersi
come il sovrano del regno di Dio che di lì a poco il Figlio dell’Uomo avrebbe
instaurato. E qual è il titolo tipicamente attribuito al futuro re d’Israele? Messia.
È in questo senso, dunque, che Gesù doveva essersi presentato ai suoi discepoli
come messia.
Altre due riflessioni rafforzano ulteriormente questa ipotesi. La prima riguarda
nuovamente Giuda Iscariota, l’ebreo cattivo dei Vangeli; la seconda Ponzio
Pilato, il romano cattivo. Cominciamo da Giuda. Si è discusso all’infinito su chi
fosse, su cosa significhi «Iscariota» e sul perché abbia tradito Gesù. 12 Come
abbiamo visto, è indubbio che l’abbia fatto (il tradimento supera tutti i criteri), il
punto è come mai. Esistono svariate teorie al riguardo, ma l’interrogativo più
pertinente alla nostra discussione è un altro: in cosa consistette, esattamente, il
tradimento di Giuda?
Secondo i Vangeli, la storia è molto semplice. Arrivato a Gerusalemme pochi
giorni prima di morire per consumare la cena della Pasqua ebraica, da bravo
predicatore apocalittico Gesù si recò al Tempio Santo per annunciarne
l’imminente distruzione nel Giorno del giudizio. Il suo comportamento attirò
l’attenzione delle autorità locali. I custodi del tempio erano aristocratici ebrei
noti come Sadducei, molti dei quali erano sacerdoti incaricati di compiere i
sacrifici sotto la guida del «sommo sacerdote». I Sadducei erano anche tutori
dell’ordine, soprattutto perché le autorità romane permettevano all’aristocrazia di
condurre liberamente i propri affari a patto di non turbare la quiete pubblica. La
Pasqua ebraica era però un momento delicatissimo che notoriamente alimentava
sentimenti nazionalisti e tendenze ribelli.
La ragione è che la cena rituale serviva a commemorare l’episodio della
Bibbia ebraica in cui Dio libera il popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto per
mezzo di Mosè. Ogni anno arrivavano ebrei da tutto il mondo per ricordare
l’intervento divino che li aveva salvati dal dominio straniero. La festività
culminava nella cena e non rispondeva semplicemente a intenti celebrativi: molti
giudei speravano e addirittura prevedevano che quanto Dio aveva fatto tanto
tempo prima, con Mosè, lo avrebbe rifatto di lì a poco con uno dei loro capi.
Quando le passioni nazionalistiche toccavano l’apice, le sommosse erano
all’ordine del giorno: ecco perché in quel periodo il governatore romano della
Giudea, che viveva nella città litoranea di Cesarea, arrivava a Gerusalemme
munito di truppe per sedare ogni focolaio ribelle. Altrettanto interessati a
mantenere l’ordine erano i Sadducei, disposti a collaborare con i romani in
cambio del permesso di venerare Dio nel Tempio Santo secondo i dettami della
Torah.
E dunque cosa dovettero pensare di Gesù di Nazareth, arrivato dalla Galilea a
proclamare a gran voce che l’esercito romano e l’adorato Tempio Santo di
Gerusalemme erano destinati a una distruzione violenta come tutto ciò che si
opponeva a Dio? Di sicuro non presero in simpatia il messaggio e il messaggero,
anzi, cominciarono a tenerlo d’occhio.
Stando a tutte le testimonianze, Gesù passò la settimana precedente la cena
rituale a predicare il suo messaggio apocalittico di distruzione imminente (si
veda Marco 13 e Matteo 24-25). Le folle si radunavano attorno a lui, la gente lo
ascoltava e alcuni gli credevano. Il movimento si allargava, perciò le autorità
decisero di agire.
È qui che entra in scena Giuda Iscariota. Secondo i Vangeli, le autorità lo
assoldarono perché le conducesse da Gesù quando non era attorniato dalla folla.
Questa versione non mi ha mai convinto. Se volevano arrestarlo senza clamore,
perché non farlo seguire? Che bisogno c’era di una talpa?
Esistono motivi per ritenere che in realtà il tradimento di Giuda si consumò in
modo diverso. Teniamo a mente due elementi. Il primo è che, per quanto ne
sappiamo, Gesù non si proclamava futuro re dei giudei, cioè messia, in pubblico.
Il suo messaggio era incentrato sul futuro regno instaurato dal Figlio dell’Uomo,
ma lui se ne teneva fuori. Il secondo è che, quando le autorità lo arrestarono e lo
consegnarono a Ponzio Pilato, tutte le testimonianze ci dicono che venne
accusato di proclamarsi re dei giudei. Insomma, da un lato Gesù non si
presentava mai in pubblico come futuro re, ma dall’altro questa è esattamente
l’accusa che gli venne rivolta al processo: com’è possibile? 13 La risposta più
plausibile è che l’avessero saputo da Giuda: in questo consistette il tradimento.
Giuda era uno dei dodici apostoli a cui Gesù aveva rivelato la propria visione
del futuro, uno dei futuri sovrani del regno che avrebbe avuto lo stesso Gesù
come primo re. Per qualche ragione — non la scopriremo mai — diventò un
voltagabbana e tradì la causa e il suo maestro, 14 riferendo alle autorità ebraiche
ciò che Gesù andava predicando in forma privata. Non servì altro: fu arrestato e
consegnato al governatore in quanto uomo che si dichiarava re.
E ora una parola su Ponzio Pilato. In quanto governatore della Giudea, Pilato
aveva il potere di vita e di morte. L’impero romano non possedeva nulla di
simile a un moderno codice penale. I governatori erano incaricati del governo
delle province e avevano due compiti fondamentali: riscuotere le tasse per Roma
e garantire la pace, con qualsiasi mezzo. Di conseguenza, chiunque fosse
giudicato un piantagrane poteva essere neutralizzato immediatamente e senza
pietà. Se il governatore ne decretava la morte, la sentenza veniva eseguita
all’istante. Niente giusti processi, giurie o appelli: in tempi problematici, ai
soggetti problematici veniva applicata una «giustizia» rapida, implacabile e di
norma violenta.
Stando alle testimonianze, il processo a Gesù di fronte a Pilato fu breve e
sommario. Il governatore gli domandò se fosse veramente il re dei giudei.
L’accusa formulata contro Gesù fu quasi certamente questa: abbiamo molteplici
attestazioni indipendenti da parte di testimoni che l’avevano sentita al processo o
letta sulla tavoletta fissata alla croce (si veda per esempio Marco 15:2, 26).
Inoltre, non è un’accusa che i cristiani avrebbero potuto inventare, per una
ragione forse sorprendente. Benché avessero finito per identificarlo con il
messia, a quanto ci è dato sapere i cristiani non gli attribuivano il titolo di «re dei
giudei». Se avessero dovuto inventare un’accusa da mettere sulle labbra di
Pilato, sarebbe stata un’altra: «Sei tu il messia?». Ma non è questo che
raccontano i Vangeli: l’accusa specifica era essersi definito «re dei giudei».
La prova che Gesù si credeva davvero il re dei giudei sta nel fatto stesso che
venne ucciso. Avrebbe potuto negare, giurando di non voler creare problemi e di
non nutrire ambizioni regali, il che avrebbe posto fine alla vicenda. Invece no: o
lo ammise esplicitamente, o si rifiutò di negarlo. A quel punto Pilato fece ciò che
facevano di norma i governatori in circostanze simili: condannarlo a morte in
quanto agitatore politico. Gesù venne accusato di insurrezione, e i ribelli
venivano crocifissi.
Gesù non poteva negare l’accusa perché era vero che si proclamava re dei
giudei, ma in senso strettamente apocalittico: quando il regno fosse arrivato, lui
sarebbe diventato re. A Pilato però non interessavano le sottigliezze teologiche. I
re erano solo quelli nominati dai romani, chiunque altro pretendesse di esserlo
era un ribelle contro lo Stato.
Dunque Pilato ordinò che Gesù fosse crocifisso all’istante. Secondo le
testimonianze, assolutamente credibili su questo punto, i soldati lo aggredirono,
lo sbeffeggiarono, lo frustarono e poi lo portarono alla croce. A quanto pare,
quella mattina furono decretate altre due crocifissioni, forse un altro paio
l’indomani e il giorno dopo ancora. Arrivati sul luogo pubblico dell’esecuzione,
Gesù e gli altri due condannati vennero inchiodati alle croci. Stando alla prima
ricostruzione, Gesù morì in sei ore.

Gesù sosteneva di essere Dio?


Ecco dunque un riassunto di ciò che a mio parere possiamo dire riguardo al Gesù
storico e alla sua idea di se stesso. Gesù si considerava un profeta della fine
dell’età del male e il re d’Israele nell’età ventura. Ma si proclamava Dio?
È vero che in Giovanni, il più tardo dei Vangeli canonici, Gesù sostiene di
essere divino. Approfondiremo i relativi brani nel capitolo 7, per il momento
basti osservare che in quel Vangelo Gesù si lancia in proclami sensazionali
riguardo a se stesso. Parlando di Abramo, il padre degli ebrei vissuto
milleottocento anni prima, ecco come si rivolge ai suoi oppositori: «In verità, in
verità vi dico: prima che Abramo fosse nato, io sono» (Giovanni 8:58). Le
ultime parole, «io sono», suonano familiari a chi conosce la Bibbia ebraica. Nel
libro dell’Esodo, nella storia del pruno in fiamme che abbiamo esaminato nel
capitolo 2, Mosè chiede a Dio quale sia il suo nome, e Dio risponde che il suo
nome è «io sono». Gesù sembra affermare non solo di essere esistito prima di
Abramo, ma di aver ricevuto il nome da Dio stesso. I suoi avversari giudei,
cogliendo esattamente il senso di quelle parole, lo prendono a sassate.
In seguito, Gesù è ancora più esplicito: «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni
10:30). I giudei prendono altre pietre e gliele scagliano addosso. Ancora dopo,
mentre parla ai discepoli durante l’ultima cena, Filippo gli chiede di mostrare
loro chi è il Padre. Risposta: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (14:9). Quindi,
mentre prega Dio, Gesù afferma che Dio lo ha «mandato» nel mondo e allude
alla «gloria che tu mi hai data […] prima della fondazione del mondo» (17:24).
È evidente che qui Gesù non sostiene di essere il Padre: quando prega, non sta
certo parlando con se stesso. Non dice di essere Dio, ma di essere uguale a Dio
sin da prima della creazione. Si tratta di proclami straordinariamente esaltati.
E tuttavia non possiamo attribuirli al Gesù storico, perché non superano
nessuno dei nostri criteri. Non hanno molteplici attestazioni nelle fonti: appaiono
solo in Giovanni, il Vangelo più tardo e teologicamente schierato. Di sicuro non
superano il criterio della discontinuità, perché la visione di Gesù che esprimono
è la stessa dell’autore del Vangelo di Giovanni. Infine, non possiedono alcuna
credibilità contestuale. Nessun documento ci parla di ebrei palestinesi che
andavano dicendo cose simili di se stessi. Insomma, questi proclami divini
appartengono alla teologia di Giovanni, non al repertorio del Gesù storico.
Proviamo a inquadrare la questione da un altro punto di vista. Come già detto,
abbiamo a disposizione numerose fonti antiche sul Gesù storico: qualche
commento in Paolo (comprese parecchie citazioni dagli insegnamenti di Gesù),
Marco, Q, M, e L, per non parlare degli interi Vangeli di Matteo e Luca. Ebbene,
in nessuno di essi troviamo dichiarazioni esaltate di questo tenore. Se Gesù
avesse attraversato la Galilea proclamandosi un essere divino mandato da Dio —
preesistente alla creazione del mondo, di fatto pari a Dio —, quale altro suo
messaggio avrebbe potuto essere ugualmente sensazionale e fondamentale?
Eppure, nessuna delle prime fonti afferma nulla del genere al suo riguardo.
Possibile che tutti avessero deciso di omettere l’aspetto più fondamentale in
assoluto?
Siamo quasi certi che i proclami divini in Giovanni non risalgano al Gesù
storico, ma è possibile che Gesù si considerasse divino in un altro senso? Come
abbiamo già visto non si considerava il Figlio dell’Uomo, vale a dire l’entità
angelica celeste destinata a giudicare la terra. Si credeva però il futuro sovrano
del regno, il messia, e nel capitolo precedente abbiamo scoperto che alcuni brani
delle scritture descrivono il re come essere divino e non mortale. Possibile che
Gesù si ritenesse divino in questo senso?
Naturalmente sì, ma io lo ritengo assai improbabile, per il seguente motivo.
Nella Bibbia ebraica, e più in generale nella tradizione giudaica, troviamo
esempi di mortali — un re, oppure Mosè, o ancora Enoch — che sono
considerati esseri divini in un qualche senso. Il punto è che sono sempre altri ad
attribuire loro questa natura: nessuno di loro, stando alle testimonianze, andava
proclamandosi divino. Una situazione nettamente diversa — per esempio —
dall’Egitto, dove i faraoni dichiaravano di appartenere a una stirpe divina; o da
Alessandro Magno, che accettava di essere oggetto di culto; o da certi imperatori
romani, che si adoperavano perché il popolo li credesse divini. Il che, per quanto
ne sappiamo, non accade mai nel giudaismo. Forse l’idea di un re divino era
venuta ai seguaci di Gesù in un’epoca successiva, quando cominciarono a
riflettere su importanza e significato della sua figura, sta di fatto che non
conosciamo esempi di re giudei che si dichiaravano divini.
Possibile che Gesù fosse un’eccezione? Certo, le eccezioni esistono sempre,
ma per poterlo affermare occorrerebbero prove numerose e solide, che non
abbiamo. A dire che Gesù si proclamava divino è solo l’ultimo Vangelo del
Nuovo Testamento, ma nessuna delle fonti precedenti lo conferma.
Si potrebbe obiettare che, proclami espliciti a parte, esistono altre ragioni per
sospettare che Gesù si credesse divino. Per esempio i suoi straordinari miracoli,
certamente non attribuibili che a una figura divina; il perdono dei peccati,
prerogativa esclusiva di Dio; e il culto di cui è oggetto, con la gente che si
inchina davanti a lui, segno che non disprezza affatto gli onori divini.
Due aspetti vanno sottolineati a proposito di queste caratteristiche. Il primo è
che sono tutte compatibili con un’autorità umana e non necessariamente divina.
Nella Bibbia ebraica i profeti Elia ed Eliseo compiono miracoli eccezionali —
compresa la guarigione dei malati e la resurrezione dei morti — grazie al potere
di Dio, e altrettanto fanno gli apostoli Pietro e Paolo nel Nuovo Testamento, ma
questo non li rende divini. Gesù non dice mai «io ti perdono», ma «i tuoi peccati
sono perdonati», vale a dire che è Dio a concedere il perdono: una prerogativa
riservata anche ai sacerdoti giudei a fronte dei sacrifici compiuti dai fedeli al
Tempio Santo. Insomma, quella che Gesù si attribuisce è al massimo una
prerogativa sacerdotale, ma non divina. Inoltre, i re erano adorati e obbediti —
anche nella Bibbia (Matteo 18:26) — proprio come Dio: può dunque darsi che
Gesù stia accettando la venerazione a lui dovuta in quanto futuro re. Insomma,
nessuna di queste caratteristiche, di per sé, dimostra chiaramente la natura divina
di Gesù.
Ma soprattutto, queste attività potrebbero non risalire nemmeno al Gesù
storico ed essergli state attribuite da narratori successivi per accrescerne la
preminenza. Non dimentichiamo che parecchie tradizioni evangeliche non
provengono dalla vita di Gesù, ma sono creazioni dei suoi seguaci allo scopo di
convertire gli altri e istruire i già convertiti. Queste tradizioni non superano il
criterio della discontinuità, ed è altamente probabile che siano abbellimenti
successivi delle storie che circolavano sul suo conto, raccontati da persone che
dopo la resurrezione si erano convinte che in un certo senso Gesù fosse divino.
Ciò che sappiamo con relativa certezza è che il ministero pubblico e i
proclami di Gesù non erano incentrati sulla sua divinità, anzi, non la sfioravano
nemmeno. Erano invece fondati su Dio, sul regno che Dio avrebbe instaurato e
sul Figlio dell’Uomo che presto avrebbe giudicato la terra. A quel punto i
malvagi sarebbero stati annientati e ai giusti si sarebbero spalancate le porte del
regno, un regno senza più dolore, miseria né sofferenza. I sovrani designati del
futuro regno erano i dodici discepoli di Gesù, che a sua volta era destinato a
governare su di loro. Gesù non si proclamava Dio: credeva e dichiarava di essere
il re del prossimo regno di Dio, il messia non ancora rivelato. Era questo il
messaggio che impartiva ai suoi discepoli, e che in definitiva lo portò sulla
croce. Soltanto in seguito, convintisi che il loro maestro crocifisso fosse risorto, i
discepoli iniziarono a pensare che in un certo senso Gesù fosse Dio.

1. Scrittore e predicatore battista statunitense nato nel 1918, consigliere spirituale di vari presidenti
degli Stati Uniti. (NdT)←
2. Il quinto è uscito quest’anno, non ancora pubblicato in Italia [N.d.T.]←
3. Dale Allison (1998), Jesus of Nazareth: Millenarian Prophet, Fortress, Minneapolis; Bart D.
Ehrman (1999), Jesus: Apocalyptic Prophet of the New Millennium, Oxford University Press,
New York; Paula Fredriksen (1999), Jesus of Nazareth: King of the Jews, Vintage, New York;
John P. Meier (2001-2009), Un ebreo marginale: ripensare il Gesù storico, 4 volumi,
Queriniana, Brescia (ed. orig. A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus, 5 volumi, 1991-
2016); E.P. Sanders (1999), Gesù, la verità storica, Mondadori, Milano (ed. orig. The Historical
Figure of Jesus, 1993); Geza Vermes (2001), Gesù l’ebreo, Borla, Roma (ed. orig. Jesus the
Jew: A Historian’s Reading of the Gospels, 1973).←
4. Ne discuto approfonditamente in Bart D. Ehrman (2009) Jesus, Interrupted, HarperOne, San
Francisco.←
5. Due studi classici sull’argomento: Albert B. Lord (2005), Il cantore di storie, Argo, Lecce (ed.
orig. The Singer of Tales, 1960) e Walter Ong (2014), Oralità e scrittura: le tecnologie della
parola, (ed. orig. Orality and Literacy: The Technologizing of the Word, 1982). Per una recente
rassegna degli studi più importanti si veda Stephen E. Young (2011), Jesus Tradition in the
Apostolic Fathers, Mohr Siebeck, Tubinga.←
6. Si veda la mia discussione in Bart D. Ehrman (1999), Jesus: Apocalyptic Prophet of the New
Millennium, Oxford University Press, New York o, per una trattazione più esauriente, il primo
volume di Meier 2001-2009.←
7. Si veda la discussione sui farisei in Sanders 1999.←
8. Per una discussione più approfondita si veda Bart D. Ehrman (1999), Jesus: Apocalyptic
Prophet of the New Millennium, Oxford University Press, New York.←
9. Pur avendo trovato l’argomento illustrato in varie forme nel corso degli anni, devo ammettere
che ignoro chi ne sia il primo artefice.←
10. Si veda veda Bart D. Ehrman (1999), Jesus: Apocalyptic Prophet of the New Millennium,
Oxford University Press, New York.←
11. Si veda John J. Collins (1995), The Scepter and the Star: The Messiahs of the Dead Sea Scrolls
and Other Ancient Literature, Doubleday, New York.←
12. Si veda il mio libro Bart D. Ehrman (2011), Il Vangelo del traditore: una nuova lettura del
Vangelo di Giuda, Mondadori, Milano (ed. orig. The Lost Gospel of Judas Iscariot, 2006).←
13. Non ritengo verosimile la tradizione dell’«ingresso trionfale», Gesù che entra in Gerusalemme
al grido della folla che lo acclama come il messia. Se fosse accaduto sul serio, lo avrebbero
arrestato seduta stante.←
14. Si veda il testo citato nella nota 11.←
4. La resurrezione di Gesù: cosa non possiamo sapere
Ogni anno tengo numerose conferenze in tutto il paese, non solo nei college e
nelle università, ma anche per organizzazioni civiche, seminari e chiese. Quando
a invitarmi è una scuola o chiesa evangelica, quasi sempre è per un dibattito
pubblico con uno studioso conservatore su un tema di comune interesse: «Gli
storici possono dimostrare la resurrezione di Gesù?», «Abbiamo il testo originale
del Nuovo Testamento?», «La Bibbia dà spiegazioni adeguate all’esistenza del
dolore?». Per ovvi motivi, in queste occasioni gli spettatori tendono a
concentrarsi non su quanto ho da dire io, ma sulle obiezioni alle mie tesi
formulate da uno studioso la cui impostazione teologica condividono. Io lo
capisco, e a dire il vero mi diverto anche: i dibattiti sono generalmente vivaci e il
pubblico quasi sempre attento e cortese, anche quando mi ritengono un
pericoloso portavoce del lato oscuro.
Nelle chiese di vedute più ampie e in contesti laici di solito ho carta bianca e
trovo un pubblico impaziente di ascoltare il punto di vista di uno storico sul
primo cristianesimo e il Nuovo Testamento. Parlo spesso del Gesù storico,
delineando il quadro illustrato nel capitolo precedente: con ogni probabilità,
Gesù era un profeta apocalittico che andava annunciando l’imminente intervento
di Dio per sbaragliare le forze del male e istituire un regno del bene sulla terra. A
esserne convinto non era solo Gesù, come abbiamo visto, ma anche altri
apocalitticisti ebrei dell’epoca.
Ci sono due domande che il pubblico delle conferenze mi rivolge
sistematicamente. La prima: se questa è la tesi prevalente fra gli studiosi, come
mai non ne ho mai sentito parlare? La risposta, purtroppo, è semplice quanto
preoccupante. Nella maggior parte dei casi, la mia visione di Gesù è analoga a
quella insegnata — salvo qualche variante, ovvio — ai seminaristi delle
principali confessioni: presbiteriani, luterani, metodisti, episcopaliani e via
dicendo. E allora perché i parrocchiani non la conoscono? Perché i loro sacerdoti
non gliel’hanno mai spiegata. E perché non gliel’hanno mai spiegata? Non lo so
con certezza, ma a giudicare dalle mie conversazioni con ex seminaristi, parecchi
sacerdoti preferiscono evitare di suscitare scalpore, oppure pensano che i fedeli
non siano «pronti» ad ascoltare il punto di vista degli studiosi, o che i fedeli non
vogliano ascoltarlo.
La seconda domanda è intellettualmente più impegnativa: se Gesù non era
l’unico profeta apocalittico della sua epoca, allora… perché proprio lui? Come
mai Gesù diede vita al cristianesimo, la religione più diffusa al mondo, mentre
altri predicatori finirono nel dimenticatoio della storia? Perché Gesù riuscì
laddove altri fallirono?
È un’ottima domanda. A volte chi la formula pensa che la risposta sia ovvia:
Gesù doveva essere unico e completamente diverso da tutti coloro che
proclamavano lo stesso messaggio. Lui era Dio, gli altri esseri umani, è naturale
che solo lui avesse fondato una nuova religione.
Il problema è che una risposta del genere ignora le altre grandi religioni del
mondo. Vogliamo forse dire che tutte le religioni più importanti e diffuse
vennero fondate da «Dio»? Mosè era Dio? E Maometto? Budda? Confucio?
Inoltre, la rapida espansione del cristianesimo nell’antico mondo romano non
implica necessariamente che Dio fosse dalla sua parte. Di nuovo, chi lo sostiene
dovrebbe allargare lo sguardo alle altre religioni. Solo un esempio. Il sociologo
Rodney Stark ha dimostrato che nei suoi primi tre secoli di vita il cristianesimo
crebbe a un ritmo del quaranta per cento ogni dieci anni: nato come movimento
relativamente ridotto nel primo secolo, all’inizio del quarto contava tre milioni di
fedeli. Il fattore sorprendente evidenziato da Stark è che si tratta dello stesso
tasso di crescita della Chiesa mormone fondata nell’Ottocento. Chi sostiene che
la diffusione del cristianesimo non avrebbe potuto essere così rapida senza
l’intervento di Dio è pronto a dire altrettanto del mormonismo, una confessione
che viceversa i cristiani tendono a rifiutare?
Rieccoci dunque al punto di partenza: cosa rendeva Gesù tanto speciale? Non
il suo messaggio, come vedremo, che se mai lo aiutò a finire sulla croce.
Tutt’altro che un successo spettacolare. A differenziare Gesù dagli altri profeti a
lui analoghi era l’idea che fosse risorto: la fede nella sua resurrezione cambiò
assolutamente tutto. Di nessun altro profeta apocalittico dell’epoca si diceva
alcunché di simile, il che rendeva Gesù unico. Senza la fede nella sua
resurrezione dai morti, Gesù sarebbe rimasto una postilla negli annali della storia
ebraica e i suoi seguaci non si sarebbero impegnati a promuoverlo a entità
sovrumana. In breve, senza la fede nella resurrezione nessuno avrebbe mai
affermato che Gesù era Dio.
Rileggete l’ultimo paragrafo. Non ho detto che la resurrezione trasformò Gesù
in Dio, ma che la fede nella resurrezione portò alcuni seguaci ad affermare che
fosse Dio. La ragione è che, da storico, ritengo sia impossibile dimostrare che
Gesù tornò veramente dall’aldilà. Chiariamo subito un punto: non intendo
sostenere nemmeno il contrario, che cioè gli storici possano usare la loro
disciplina per dimostrare che Gesù non è risorto. Dico solo che, quando si tratta
di miracoli come la resurrezione, le scienze storiche non possono aiutarci a
ricostruire esattamente quanto accadde.
La fede religiosa e la conoscenza storica sono due modi diversi di «sapere».
Quando studiavo al Moody Bible Institute, recitavamo con trasporto le parole del
Messiah di Händel (prese dal libro di Giobbe nella Bibbia ebraica): «Io so che il
mio Redentore vive». A farcelo sapere non era un’analisi storica, tuttavia, ma la
nostra fede. Essendo risorto, Gesù è vivo ancora oggi? Miracoli del genere
accadevano sul serio? Non possiamo «saperlo» mediante lo studio storico, ma
solo tramite un atto di fede. Non perché gli storici siano tenuti a partire da
«presupposti scettici» o «assunti laici e ostili alla religione»: come cercherò di
spiegare in questo capitolo, è semplicemente la natura della ricerca storica, che a
intraprenderla sia un credente o un non credente.
Al tempo stesso, gli storici sono in grado di occuparsi di episodi non
miracolosi che per essere compresi non richiedono un atto di fede, per esempio il
fatto che alcuni seguaci di Gesù (la maggior parte? Tutti?) finirono per credere
che fosse stato fisicamente prelevato dall’aldilà. La credenza è un fatto storico,
ma altri aspetti delle testimonianze sulla morte di Gesù presentano alcune
problematiche. In questo capitolo e nel prossimo ci soffermeremo sui fatti che
possiamo appurare e sulle affermazioni che non possiamo verificare
storicamente. Cominceremo da ciò che non siamo in grado di dire, in assoluto o
con relativa certezza, riguardo ai primi cristiani e alla loro fede nella
resurrezione.

Perché gli storici hanno difficoltà a discutere della


resurrezione
Abbiamo detto che per studiare il passato gli storici non possono che basarsi
sulle fonti oggi disponibili. Poiché esistono fonti che descrivono le circostanze
della resurrezione di Gesù, il primo passo per ricostruire l’ascesa della fede
cristiana originaria è esaminarle. Le più importanti sono i Vangeli del Nuovo
Testamento, vale a dire le testimonianze più antiche sulla scoperta della tomba
vuota e sulle apparizioni di Gesù ai discepoli come Signore vivente, dopo la
crocifissione. Fondamentali sono anche gli scritti di Paolo, convinto assertore
che Gesù fu letteralmente prelevato dall’aldilà.

La resurrezione nei Vangeli

Abbiamo già spiegato quali problemi pongono i Vangeli agli storici che
vogliono ricostruire gli eventi per come si verificarono davvero. Il che è ancor
più vero nel caso dei brani evangelici che narrano la resurrezione di Gesù. È
questo il tipo di fonte più adatto a studiare un episodio passato? Anche a
prescindere dal fatto che furono scritti tra i quaranta e i sessantacinque anni dopo
i fatti, da persone che non erano testimoni oculari, parlavano lingue diverse e
vissero in epoche e aree del mondo diverse, i Vangeli sono pieni di discrepanze,
alcune delle quali clamorose. Quanto alla resurrezione, i Vangeli dissentono su
ogni dettaglio o quasi.
I brani in questione sono Matteo 28, Marco 16, Luca 24 e Giovanni 20-21.
Leggeteli e provate a rispondere ad alcune semplici domande. Chi furono i primi
a recarsi alla tomba? Soltanto Maria Maddalena (Giovanni)? Maria
accompagnata da un’altra Maria (Matteo)? Maria accompagnata da un’altra
Maria e da Salomè (Marco)? Maria, Maria, Giovanna e varie altre donne (Luca)?
La pietra era già stata rotolata via quando arrivarono alla tomba (Marco, Luca e
Giovanni) oppure no (Matteo)? Chi vi trovarono? Un angelo (Matteo), un uomo
(Marco) o due uomini (Luca)? Corsero immediatamente a riferire agli altri
discepoli quanto avevano visto (Giovanni) oppure no (Matteo, Marco e Luca)?
Cosa disse/ro alle donne la/e figura/e che incontrarono alla tomba? Di informare
i discepoli che Gesù li avrebbe aspettati in Galilea (Matteo e Marco)? Oppure di
ricordare quanto Gesù aveva detto loro in precedenza, quando si trovava in
Galilea (Luca)? A quel punto le donne andarono a ragguagliare i discepoli
(Matteo e Luca) oppure no (Marco)? I discepoli videro sul serio Gesù (Matteo,
Luca e Giovanni) oppure no (Marco)? 1 E dove, soltanto in Galilea (Matteo) o
soltanto a Gerusalemme (Luca)?
Ci sono altre discrepanze, ma queste dovrebbero bastare. Va detto che, a meno
di prodursi in spericolate acrobazie esegetiche, alcune differenze sono davvero
incompatibili fra loro. Prendiamo il fatto che le donne sembrano incontrare
figure diverse alla tomba, in Marco un uomo, in Luca due uomini e in Matteo un
angelo. Alcuni, incapaci di rassegnarsi all’idea che esista una vera e propria
discrepanza fra i testi, tentano di giustificarla sostenendo che in realtà le donne
incontrarono due angeli: Matteo ne nomina uno solo, ma non nega la presenza
del secondo; gli angeli hanno assunto sembianze umane, perciò Luca li prende
per uomini; altrettanto fa Marco, che ne cita uno, ma senza negare che fossero in
due. Insomma, problema risolto! Una soluzione alquanto curiosa, perché di fatto
vorrebbe farci credere che quanto accadde veramente non viene narrato da
nessuno dei Vangeli, perché nessuno parla di due angeli. Questa linea
interpretativa immagina un nuovo testo, diverso dagli altri quattro ma capace di
renderli compatibili l’uno con l’altro. Ognuno è libero di costruirsi il proprio
Vangelo, naturalmente, ma dubito sia il metodo migliore per interpretare i
Vangeli che già abbiamo.
Prendiamo un secondo esempio, ancora più lampante. Matteo dice
esplicitamente che i discepoli ricevono l’ordine di recarsi in Galilea, perché è qui
che incontreranno Gesù (28:7). I discepoli obbediscono (28:16), e in Galilea
Gesù comunica loro le sue ultime volontà (28:17-20). Un racconto chiarissimo
quanto diametralmente opposto a Luca, dove ai discepoli non viene detto di
recarsi in Galilea: giunte alla tomba vuota, le donne apprendono da due uomini
che Gesù aveva annunciato la propria resurrezione quando era stato in Galilea.
Non avendo ricevuto ordini in tal senso i discepoli non partono per la Galilea,
ma rimangono a Gerusalemme, in terra giudaica, dove Gesù li incontra «in
quello stesso giorno» (24:13). Gesù li diffida categoricamente dal lasciare la città
prima di aver ricevuto la potenza dello Spirito, il che secondo Atti 1-2 avviene
oltre quaranta giorni dopo (insomma, non devono recarsi in Galilea: 24:49). È lui
a condurli fuori da Gerusalemme, fino alla vicina Betania, per impartire le sue
ultime istruzioni e congedarsi da loro (24:50-51). I discepoli obbediscono,
rimanendo in città a pregare Dio nel Tempio Santo. Negli Atti degli Apostoli,
scritti dallo stesso autore del Vangelo di Luca, scopriamo che si trattengono a
Gerusalemme per oltre un mese, fino al giorno della Pentecoste (Atti 1-2).
La discrepanza è evidente. In un Vangelo i discepoli vanno immediatamente
in Galilea, nell’altro no. Sottolinea Raymond Brown, studioso del Nuovo
Testamento e prete cattolico: «Va quindi respinta la tesi che i Vangeli possano
essere armonizzati mediante una risistemazione in virtù della quale Gesù appare
varie volte ai Dodici, prima a Gerusalemme, poi in Galilea. […] A livello
sostanziale, i diversi resoconti evangelici narrano la stessa apparizione ai Dodici,
che la collochino a Gerusalemme o in Galilea». 2
Approfondiremo più avanti le ripercussioni di questa discrepanza sulla
ricostruzione degli eventi storici, per il momento è sufficiente osservare che
secondo i primi Vangeli i discepoli se la diedero a gambe quando Gesù venne
arrestato (Marco 14; Matteo 24:26). Le prime narrazioni, inoltre, lasciano
intendere che dopo la crocifissione Gesù apparve loro in Galilea (suggerito in
Marco 14:28; dichiarato in Matteo 24). La spiegazione più plausibile è che per
paura di essere arrestati i discepoli se ne andarono di corsa da Gerusalemme e
tornarono a casa, in Galilea. Fu qui che perlomeno alcuni di loro affermarono di
aver visto Gesù risorto.
C’è chi ha sostenuto che, di fronte a un evento sensazionale come la
resurrezione, era inevitabile che i testimoni sovreccitati riportassero qualche
dettaglio in maniera imprecisa. Ho già risposto a un’ipotesi del genere. In primo
luogo, non abbiamo a che fare con testimoni oculari, ma con autori vissuti
decine d’anni dopo in territori diversi, che parlavano lingue diverse e basavano i
loro racconti su storie che nel frattempo avevano preso a circolare oralmente. In
secondo luogo, non si tratta di piccole discrepanze su un paio di dettagli, ma di
un’evidente incompatibilità complessiva che riguarda ogni elemento della storia.
Insomma, non sono certo queste le fonti ideali per ricostruire un episodio
passato. Ma che dire della testimonianza di Paolo?

Gli scritti dell’apostolo Paolo

Paolo parla continuamente della resurrezione nelle sette lettere che gli studiosi
gli attribuiscono con certezza. 3 Nessun brano esprime le sue idee al riguardo
più chiaramente e solennemente di 1 Corinzi 15, il cosiddetto capitolo della
resurrezione. Qui Paolo non intende «dimostrare» che Gesù fosse davvero
resuscitato dai morti, come a volte si dice erroneamente. Lo dà invece per
assodato, insieme ai suoi lettori, e lo usa come presupposto per enunciare la sua
tesi fondamentale: poiché Gesù viene prelevato fisicamente dall’aldilà, è chiaro
che i suoi seguaci — checché ne dicano gli oppositori cristiani di Paolo — non
hanno ancora sperimentato la loro resurrezione. A differenza di alcuni suoi
oppositori, Paolo non riteneva la resurrezione un fatto puramente spirituale: sarà
proprio il corpo a essere reso immortale l’ultimo giorno, quando Gesù farà il suo
ritorno trionfale dal cielo. Di conseguenza, i cristiani di Corinto non stanno
sperimentando qui e ora la gloria della vita risorta: lo faranno solo quando i loro
corpi verranno recuperati dall’aldilà.
Paolo apre la discussione sulla resurrezione di Gesù e dei fedeli citando una
confessione cristiana tradizionale — o credo (professione di fede) — che era già
nota ai lettori, come lui stesso sottolinea:
3
Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati,
secondo le Scritture; 4 che fu seppellito; che è stato resuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; 5
che apparve a Cefa, poi ai dodici. 6 Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la
maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti. 7 Poi apparve a Giacomo, poi a tutti gli
apostoli; 8 e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all’aborto. (1 Corinzi 15:3-8)

Le lettere di Paolo sono i testi cristiani più antichi che ci sono pervenuti, scritti
quasi tutti negli anni Cinquanta dell’era volgare, vale a dire dieci-quindici anni
prima di Marco, il Vangelo più antico a nostra disposizione. È difficile datare
con precisione la Prima Lettera ai Corinzi: collocandola a metà della produzione
epistolare di Paolo, possiamo ipotizzare un periodo attorno al 55 e.v.,
venticinque anni circa dopo la morte di Gesù.
L’aspetto più sorprendente è che questa professione di fede viene presentata
come qualcosa che Paolo ha già insegnato ai cristiani di Corinto,
presumibilmente quando li ha convertiti, e in quanto tale deve risalire alla
fondazione della comunità, forse quattro o cinque anni prima. Inoltre — ecco il
particolare più importante — Paolo sottolinea di averla «ricevuta» da altri, non
formulata in prima persona. Un concetto che ritroviamo altrove in 1 Corinzi
(11:22-25): secondo gli specialisti del Nuovo Testamento, Paolo intende dire che
si tratta di una tradizione già diffusa e trasmessagli dai maestri cristiani, forse
persino dai primi apostoli. È quella che gli studiosi chiamano tradizione pre-
paolina, ovvero circolante prima che Paolo la mettesse per iscritto, prima che la
illustrasse ai Corinzi per convertirli alla fede in Gesù… magari addirittura prima
che Paolo entrasse nel movimento, attorno al 33 e.v., tre anni circa dopo la morte
di Gesù? 4 Se così fosse, sarebbe veramente antica!
La natura pre-paolina del brano, o almeno di una sua parte, trova conferma nel
brano stesso, e inoltre è possibile stabilire quali sue parti appartengono alla
formulazione originale. Come vedremo più approfonditamente nel capitolo 6, gli
scritti di Paolo e gli Atti degli Apostoli contengono numerose tradizioni
«preletterarie», ossia professioni di fede, poesie e forse persino inni che
circolavano prima di essere citati nei testi letterari giunti fino a noi. Gli studiosi
hanno elaborato una serie di strategie per individuarle. In primo luogo, tendono a
presentare una certa essenzialità strutturale, con dichiarazioni concise formate da
parole e costruzioni grammaticali non altrimenti attestate nell’autore. È proprio
quanto avviene nel caso di Paolo: in nessun altro dei suoi scritti troviamo
l’espressione «secondo le Scritture», il verbo «apparve» e riferimenti ai
«dodici».
Quasi certamente il brano contiene una confessione o credo pre-paolino, ma
ne fanno parte tutti i versetti, dal 3 all’8? La seconda metà del versetto 6 («dei
quali la maggior parte rimane ancora in vita…») e l’intero 8 («e, ultimo di tutti,
apparve anche a me…») sono commenti di Paolo sulla tradizione, perciò non
possono appartenere al credo originario: abbiamo ottimi motivi per ritenere che
la prima formulazione coincida con i versetti 3-5, ai quali Paolo aggiunse
osservazioni personali basate su quanto sapeva. Uno sta nel fatto che in questo
modo otterremmo una professione di fede concisa e lineare: due sezioni
composte da quattro asserzioni l’una che mostrano evidenti parallelismi fra loro
(la prima asserzione della prima sezione corrisponde alla prima asserzione della
seconda sezione, e così via). Ecco dunque quella che sarebbe la forma originale
del credo:
1a Cristo morì
2a per i nostri peccati
3a secondo le Scritture
4a [e] fu seppellito;
1b [Cristo] è stato resuscitato
2b il terzo giorno
3b secondo le Scritture;
4b [e] apparve a Cefa
La prima sezione riguarda la morte di Gesù, la seconda la resurrezione. La
struttura parallela si articola come segue: prima abbiamo l’enunciazione di un
«fatto» (1a: Cristo morì; 1b: Cristo è stato resuscitato); poi l’interpretazione
teologica del fatto (2a: morì per i nostri peccati; 2b: è stato resuscitato il terzo
giorno); poi l’asserzione che ciò avvenne «secondo le Scritture» (3a e 3b,
identica formulazione in greco); infine una sorta di prova materiale dell’accaduto
(4a: fu seppellito, a dimostrazione che era morto davvero; 4b: apparve a Cefa —
cioè il discepolo Pietro —, a dimostrazione che era resuscitato davvero).
Ecco dunque l’antichissima tradizione pre-paolina citata in 1 Corinzi 15 e
arricchita con ulteriori «testimonianze» della resurrezione, compresa quella dello
stesso Paolo, l’ultimo ad aver visto Gesù risorto (due o tre anni dopo la morte).
Alcuni studiosi sostengono che questa professione di fede fosse nata in
aramaico, il che la farebbe risalire ai seguaci palestinesi di Gesù nei primi anni
dopo la sua morte. Altri ne dubitano, ma in ogni caso si tratta di una
dichiarazione efficace, concisa e abilmente costruita.
Se questa ricostruzione della forma originaria del credo è corretta, possiamo
ricavarne una serie di riflessioni importanti. In primo luogo, se è vero che la
seconda asserzione di ogni sezione è un’«interpretazione teologica» del «fatto»
che la precede, allora l’idea che Gesù fosse risorto il terzo giorno non è
necessariamente un’indicazione storica del momento in cui avvenne la
resurrezione, ma una valutazione teologica sul suo significato. Va detto che non
sappiamo in quale giorno Gesù resuscitò: le donne trovano la tomba vuota il
terzo giorno, ma nessuno dei Vangeli ci dice che era tornato in vita quella
mattina stessa. Avrebbe potuto essere risorto il giorno prima, o quello prima
ancora, magari appena un’ora dopo la sepoltura. I Vangeli non lo chiariscono.
Se dunque quella di Paolo è un’interpretazione teologica e non
un’affermazione storica, dobbiamo capirne il significato.
Si ritiene che il particolare del «terzo giorno» concordasse con le scritture, che
per gli antichi autori cristiani non potevano essere il Nuovo Testamento (non
ancora scritto), ma la Bibbia ebraica. Secondo parecchi studiosi, l’autore di
questo proclama lascia intendere che resuscitando il terzo giorno Gesù avrebbe
realizzato la profezia di Osea: «In due giorni ci ridarà la vita; il terzo giorno ci
rimetterà in piedi, e noi vivremo alla sua presenza» (Osea 6:2). Secondo altri —
una minoranza, per quanto io trovi affascinante la loro posizione — il
riferimento è invece al libro di Giona, che passò tre giorni e tre notti nel ventre
del grande pesce prima di essere liberato e — simbolicamente — riportato in
vita (Giona 2). Nei Vangeli, lo stesso Gesù paragona la sua imminente morte e
resurrezione al «segno del profeta Giona» (Matteo 12:39-41). Osea o Giona che
fosse, perché specificare che Gesù resuscitò il terzo giorno? Perché è quanto
viene predetto nelle scritture. Si tratta di una valutazione teologica: Gesù morì e
risorse nei modi previsti. È un punto che si rivelerà importante quando
cercheremo di scoprire in quale momento i primi seguaci di Gesù si convinsero
che fosse resuscitato dai morti, e su quali basi.
In secondo luogo, va evidenziato che le asserzioni nelle due sezioni del credo
sono parallele fra loro da ogni punto di vista tranne uno. Nella seconda sezione
troviamo un nome come elemento della prova concreta che Gesù era risorto:
«Apparve a [letteralmente: “fu visto da”] Cefa». La quarta asserzione della
prima sezione, invece, non contiene nomi: sappiamo semplicemente che Gesù
«fu seppellito», non da chi. Se consideriamo con quanto impegno l’autore del
credo aveva fatto in modo che ogni asserzione della prima sezione
corrispondesse a una della seconda, c’è da chiedersi il perché. Sarebbe stato
molto facile rendere il parallelo più preciso: «fu seppellito da Giuseppe [di
Arimatea]». Perché l’autore non lo fece? Il mio sospetto è che non ne sapesse
nulla. In nessun altro dei suoi testi Paolo cita mai Giuseppe di Arimatea, né si
sofferma sulle circostanze della sepoltura di Gesù: non in questo credo, né nel
resto della Prima Lettera ai Corinzi o in altre lettere. La tradizione secondo cui
Gesù sarebbe stato seppellito da una persona specifica sembra essere successiva,
e come vedremo esistono ragioni per dubitare della sua accuratezza storica.
Un altro aspetto di questo credo — e delle chiose nei versetti 5-8 — che viene
spesso sottolineato è che Paolo sembra offrire una rassegna completa delle
persone a cui Gesù apparve dopo essere risorto. Dopo aver elencato le altre, si
presenta come l’«ultimo di tutti»: l’interpretazione prevalente — e corretta, a
mio parere — è che Paolo sta cercando di non dimenticare nessuno, ma rimane
un fatto sorprendente: l’assenza di donne. In tutti i Vangeli sono delle donne a
scoprire la tomba vuota, e in due di essi — Matteo e Giovanni — sono delle
donne a vedere per prime Gesù risorto. Solo che Paolo non parla mai, qui o in
altri scritti, della scoperta della tomba vuota e delle apparizioni alle donne dopo
la resurrezione.
Quanto al primo punto, da anni gli studiosi ritengono cruciale che Paolo, il
primo «testimone» della resurrezione, non dica nulla sulla scoperta della tomba
vuota. Il resoconto più antico della resurrezione di Gesù (1 Corinzi 15:3-5) cita
le apparizioni senza parlare di una tomba vuota, mentre il Vangelo più antico,
Marco, narra la scoperta della tomba vuota senza nominare alcuna apparizione
(Marco 16:1-8). Alcuni studiosi neotestamentari, come Daniel Smith, ne hanno
dedotto che probabilmente queste due tradizioni — la tomba vuota e le
apparizioni di Gesù dopo la morte — nacquero indipendentemente l’una
dall’altra per essere poi fuse in una sola, per esempio nei Vangeli di Matteo e
Luca. 5 Se è così, allora è vero che le storie sulla resurrezione di Gesù venivano
allungate, abbellite, modificate e forse persino inventate nel corso della
trasmissione orale.
Ma quali sono le basi di queste storie? Cosa possiamo dire dal punto di vista
storico sull’episodio della resurrezione, ammesso che dire qualcosa sia
possibile? A questo punto occorre chiarire che gli storici, finché operano in
quanto tali, non possono sfruttare la loro disciplina per affermare che Gesù tornò
veramente e fisicamente dall’aldilà, nemmeno se ci credono. È mia convinzione
che se uno storico — o chiunque altro — ci crede, lo fa in virtù della sua fede,
non delle sue ricerche. È altrettanto vero che i non credenti (come me) non
possono dimostrare che Gesù non resuscitò: la ragione è che credere alla
resurrezione è questione di fede, non di conoscenza storica.

La resurrezione e lo storico

Il motivo per cui gli storici non possono dimostrare o smentire i miracoli di Dio
— per esempio la resurrezione di Gesù — non è che gli storici devono essere
necessariamente umanisti laici e prevenuti verso il soprannaturale. Lo sottolineo
perché è quanto affermano spesso gli apologeti cristiani conservatori per tirare
l’acqua al loro mulino. Ai loro occhi, se non avessero pregiudizi anti-
soprannaturali, gli storici sarebbero in grado di riconoscere le «prove» storiche
della resurrezione di Gesù. Questi apologeti cristiani, tuttavia, non prendono
quasi mai in considerazione miracoli che possono contare su «prove» almeno
altrettanto convincenti. Pensiamo alle decine di senatori romani che sostenevano
di aver visto il re Romolo «trascinato verso l’alto dalla tempesta». O alle
migliaia di devoti cattolici che giurano di aver visto la Beata Maria Vergine,
affermazioni che i fondamentalisti evangelici ignorano bellamente malgrado le
corpose «prove». È facile gridare al pregiudizio anti-soprannaturale se qualcuno
non ritiene storicamente verificabili i miracoli della nostra tradizione; molto
meno ammettere che i miracoli delle altre tradizioni sono altrettanto
«dimostrabili».
La mia tesi, però, è che nessun miracolo divino può essere appurato
storicamente. Gli apologeti evangelici hanno ragione a dire che questo dipende
dai presupposti degli studiosi, ma per una ragione diversa da quella che pensano.
Per cominciare, va detto che ognuno di noi ha i propri presupposti: vivere,
riflettere, avere esperienze religiose o condurre ricerche storiche senza
presupposti sarebbe impossibile. La mente non ne può prescindere. La domanda,
tuttavia, è questa: quali sono i presupposti opportuni per l’attività in cui sono
impegnato? I presupposti di un cattolico che va a messa differiscono dai
presupposti di una scienziata che studia il Big Bang, che a loro volta differiscono
dai presupposti di uno storico dell’Inquisizione. Insomma, anche gli storici, in
quanto tali, hanno i loro presupposti. Dobbiamo quindi riflettere sul tipo di
presupposti che mettono in campo quando cercano di ricostruire episodi passati.
Un presupposto necessario — quasi tutti gli storici concorderebbero al
riguardo — è che il passato ha avuto luogo davvero. Inutile dire che non
possiamo dimostrarlo come se si trattasse di un esperimento scientifico: gli
esperimenti sono ripetibili e ci permettono di stabilire cosa succederà quasi
certamente la prossima volta che lo effettuiamo. Il passato però è irripetibile,
ecco perché gli storici hanno elaborato metodi diversi. Le prove che cercano non
sono scientifiche, ma permettono comunque di scoprire cos’è accaduto in un
momento precedente. Ma l’assunto di base, a sua volta indimostrabile, è che
qualcosa sia successo davvero.
Inoltre, gli storici presuppongono che sia possibile accertare, con un certo
grado di probabilità, cos’è accaduto in altre epoche. Possiamo stabilire se è
probabilmente vero o falso che l’Olocausto abbia avuto luogo (vero), che Giulio
Cesare abbia passato il Rubicone (vero) e che Gesù di Nazareth sia esistito
(vero). Gli storici ci dicono che alcune cose sono successe (quasi) sicuramente,
altre molto probabilmente, altre con una certa probabilità, altre forse, altre
probabilmente no, altre quasi sicuramente no e così via. È (praticamente) sicuro
che i Tar Heels, la squadra di basket della University of North Carolina, abbiano
vinto il campionato nazionale nel 2009. È altrettanto (praticamente) sicuro che
nel 2013 i Kansas Jayhawks li abbiano sbattuti fuori dal torneo della NCAA. (È
assolutamente sicuro che sia stata una tragedia immane, ma questo è un giudizio
di merito, non un’affermazione storica.)
Legato al presupposto che sia possibile appurare cos’è avvenuto in passato
(con più o meno probabilità) è l’assunto che esistano «prove» degli eventi
storici, e che pertanto ricostruirli non sia solo questione di tirare a indovinare.
Gli storici, inoltre, presuppongono che alcune prove siano migliori di altre. Di
norma, le testimonianze oculari sono superiori alle dicerie risalenti ad anni,
decenni o secoli prima. Abbondanti coincidenze tra fonti molteplici che non
mostrano contatti reciproci sono prove nettamente più attendibili rispetto a fonti
che sono in contatto tra loro o si smentiscono a vicenda. Una fonte che offre
commenti disinteressati e spontanei su una persona o un evento è migliore di una
fonte che fa affermazioni interessate e ideologiche. Ciò che cercano gli storici, in
breve, sono testimoni cronologicamente vicini agli episodi, privi di preconcetti e
in grado di confermarsi a vicenda senza essere in contatto tra loro. Magari ne
avessimo per tutti i grandi eventi storici!
Ecco dunque alcuni dei presupposti che gli storici tendono ad avere.
Naturalmente, ne esistono anche di assolutamente inopportuni.
Non è opportuno, per esempio, che uno storico si formi una tesi preconcetta e
cerchi solo le prove che la confermano. La ricerca va condotta senza preconcetti
sul suo esito, all’unico scopo di scoprire cosa accadde davvero. Analogamente, è
inopportuno che uno storico consideri irrilevanti prove incompatibili con le sue
convinzioni personali.
Inoltre — ed è qui che i nodi vengono al pettine — è inopportuno che uno
storico dia per assodata una teoria che non è comunemente accettata. Gli
«storici» che pretendono di spiegare la nascita degli Stati Uniti o l’esito della
Prima guerra mondiale invocando l’intervento dei marziani come fattore causale
decisivo non otterranno grande attenzione da parte degli altri storici e non
verranno presi sul serio. Una simile teoria presuppone idee che non sono
universalmente accettate: che esistano forme di vita avanzata a noi sconosciute,
che alcune di loro vivano su un altro pianeta del nostro sistema solare, che
abbiano visitato la terra e che la loro visita abbia determinato l’esito di
importanti eventi storici. Tutti questi presupposti potrebbero anche essere veri —
gli storici non possono smentirli utilizzando gli strumenti a loro disposizione —,
ma poiché non sono condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione la
ricostruzione storica non può basarsi su di essi. Chiunque li nutra li deve
ignorare o quanto meno tenere a bada quando si dedica alla ricerca storica.
Altrettanto vale per le posizioni religiose e teologiche, che non essendo
universalmente condivise non devono influire sull’esito delle ricerche. Gli storici
non possono accertare se l’angelo Moroni apparve davvero a Joseph Smith,
come vuole la tradizione mormonica, perché simili credenze presuppongono che
gli angeli esistano, che Moroni fosse un angelo e che Joseph Smith fosse stato
prescelto per ricevere una rivelazione dall’alto. Queste sono convinzioni
teologiche, non fondate su elementi storici. Forse esiste davvero l’angelo
Moroni, forse rivelò davvero delle verità segrete a Joseph Smith, ma gli storici
non possono appurarlo, perché dovrebbero accettare presupposti non condivisi
dalla maggioranza dei loro colleghi: per esempio dai cattolici, dagli ebrei
riformati, dai buddisti e dagli atei irriducibili. Le prove storiche devono poter
essere vagliate da tutti, a prescindere dall’orientamento religioso. La fede nei
miracoli cristiani — come in quelli ebraici, islamici, induisti, ecc. — nasce da un
particolare sistema di credenze teologiche, senza le quali è impossibile affermare
che si sono verificati. Non potendo condividerle, gli storici non possono
dimostrare l’autenticità dei miracoli.
Allo stesso tempo, per quanto i miracoli compiuti da Dio non siano
verificabili storicamente (la ricerca storica preclude l’adozione di qualsiasi
impostazione religiosa), le loro narrazioni possono contenere elementi passibili
di analisi storica. Mi spiego. Mia nonna era fermamente convinta che
l’evangelista pentecostale Oral Roberts fosse in grado di guarire malati e disabili
con la preghiera e l’imposizione delle mani. In linea teorica, uno storico
potrebbe anche esaminare casi di persone affette da sintomi improvvisamente
scomparsi dopo un incontro con Roberts. Sì: le persone non sembravano più
malate, ma uno storico serio non può affermare che Roberts le aveva guarite
tramite il potere di Dio. Esistono altre spiegazioni passibili di analisi da parte di
storici che non condividono i presupposti teologici impliciti nella «soluzione
divina»: forse si trattava di guarigioni psicosomatiche (le persone ci credevano a
tal punto da indurre una sorta di effetto placebo), forse non erano guarite sul
serio (l’indomani stavano peggio di prima), forse non erano malate sul serio,
forse era tutta una messinscena, forse… «Spiegazioni» alternative ma applicabili
agli stessi dati. La spiegazione soprannaturale, viceversa, non ha valore storico
perché (1) gli storici non hanno accesso al regno del soprannaturale e (2)
presuppone un insieme di credenze teologiche che non sono universalmente
accettate dagli storici.
Altrettanto vale per la resurrezione di Gesù. Gli storici, in teoria, possono
analizzarne degli aspetti: per esempio se è vero che Gesù fu seppellito in una
tomba particolare e che tre giorni dopo la tomba fu trovata vuota. Non possono
tuttavia dedurre che era stato Dio a prendere il corpo e portarlo in cielo, perché
non hanno accesso a informazioni del genere e non condividono i presupposti
necessari a trarre questa conclusione. Inoltre, è possibile ipotizzare spiegazioni
alternative e assolutamente verosimili al rinvenimento di una tomba vuota:
qualcuno poteva aver trafugato il corpo; qualcuno poteva aver deciso di
spostarlo in un’altra tomba; oppure l’intera storia non era che una leggenda,
inventata a posteriori dai cristiani per convincere la gente che Gesù era davvero
risorto.
Anche le presunte apparizioni di Gesù ai suoi discepoli possono essere
studiate dallo storico. Di visioni ne abbiamo in continuazione: a volte vediamo
cose che ci sono, altre volte cose che non ci sono (approfondiremo la questione
nel prossimo capitolo). Ma gli storici non possono affermare che i discepoli
videro Gesù vivo dopo che Dio lo aveva resuscitato dai morti. Di nuovo, sarebbe
una conclusione fondata su presupposti non condivisi da tutti.
Teoricamente parlando, potremmo addirittura sostenere che Gesù fu
crocifisso, seppellito e poi visto vivo senza invocare la causalità divina, cioè
senza che Dio l’avesse fatto risorgere. Abbiamo numerosi esempi di esperienze
di pre-morte, ovvero di persone che muoiono apparentemente (o sul serio?) per
poi svegliarsi e raccontare tutto. Non serve credere al soprannaturale per
riconoscerlo. Certo, sarebbe un altro paio di maniche se qualcuno si svegliasse
novantacinque anni dopo la morte, ma non stiamo parlando di questo. Parliamo
di persone che sembrano morire (qualunque cosa intendiamo con questo verbo)
ma poco dopo tornano in vita. Gesù ebbe un’esperienza simile? Ne dubito, ma
dal punto di vista storico è quanto meno plausibile. Non è invece storicamente
plausibile affermare che Dio donò l’immortalità a Gesù e lo mise alla sua destra
sul trono celeste. Farlo significherebbe partire da presupposti teologici non
accettati da tutti gli storici: in altre parole, compiere un atto di fede.
Va ora sottolineato un punto fondamentale. Per gli storici, «storia» non è
sinonimo di «passato». Il passato è tutto ciò che è accaduto prima d’ora; la storia
sono gli eventi di cui possiamo stabilire l’autenticità con gli strumenti a nostra
disposizione. Le prove storiche non sono e non possono essere fondate su
posizioni teologiche accettate solo da alcuni. Ci sono una miriade di episodi
passati che non possiamo ricostruire. A volte è per la scarsità delle fonti (non
scopriremo mai cosa mio nonno mangiò a pranzo il 15 maggio 1954), a volte
perché la storia si basa solo su presupposti condivisi. Questi ultimi non
comprendono le convinzioni religiose e teologiche che rendono possibile
concludere che Gesù fu esaltato in cielo dopo la morte, ammesso a sedere alla
destra di Dio e reso immortale. È quanto credono i cristiani, ma in virtù della
loro fede, non di prove storiche. Per lo stesso motivo, gli storici non possono
confermare che anche il ladro crocifisso insieme a Gesù fu esaltato e fu il primo
uomo a salire in cielo dopo la morte, come sostiene un Vangelo noto come
Dichiarazione di Giuseppe di Arimatea; o che la Beata Maria Vergine apparve a
migliaia di seguaci, come riportano numerose testimonianze oculari; o che
Apollonio di Tiana si manifestò a un seguace dopo essere salito in cielo, come
riferiscono resoconti successivi. Tutte queste affermazioni sottintendono
credenze religiose che non possono appartenere all’arsenale dei presupposti
storici.
Tutto ciò premesso, cosa possiamo dire — storicamente — sulle tradizioni
della resurrezione di Gesù? Se gli storici non possono accertare che Dio lo
prelevò fisicamente dall’aldilà, cosa possiamo sapere? E cosa non possiamo
sapere? Come vedremo, una cosa che possiamo appurare con relativa certezza è
che la fede nella resurrezione di Gesù è la chiave per capire come mai i cristiani
iniziarono a identificarlo con Dio. Ma prima veniamo a ciò che non possiamo
sapere.

La resurrezione: cosa non possiamo sapere


Oltre alla resurrezione — l’atto con cui Dio fece resuscitare Gesù dai morti —
esistono varie altre tradizioni che sono soggette a dubbi storici. Le due di cui mi
occuperò ora sorprenderanno parecchi lettori. A mio parere, non possiamo essere
sicuri che Gesù ricevette una degna sepoltura e che la sua tomba fu
successivamente trovata vuota.
Inutile dire che le due tradizioni sono collegate: se la prima non è
storicamente vera, la seconda cade. Se Gesù non fosse stato seppellito in una
tomba, nessuno l’avrebbe mai trovata vuota (ma non vale necessariamente il
contrario: se Gesù avesse ricevuto una degna sepoltura, non è detto che la tomba
sarebbe stata trovata vuota). Ecco perché mi concentrerò maggiormente sulla
prima affermazione, nel tentativo di dimostrare che non esistono basi storiche
per appurare se, come dicono i Vangeli, Giuseppe di Arimatea seppellì davvero
Gesù.

Gesù ricevette davvero una degna sepoltura?

Secondo la narrazione più antica, il Vangelo di Marco, Gesù fu seppellito da una


figura sconosciuta e mai nominata prima: Giuseppe di Arimatea, «illustre
membro del Consiglio» (Marco 15:43), ovvero un aristocratico ebreo
appartenente al Sinedrio, un organo formato dai «capi dei sacerdoti, gli anziani e
gli scribi» (14:53). Stando a 15:43, Giuseppe trovò il coraggio di chiedere a
Pilato il corpo di Gesù. Il governatore esaudì il desiderio, così Giuseppe tolse il
corpo dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo di lino, «lo pose in una tomba
scavata nella roccia; poi rotolò una pietra contro l’apertura del sepolcro» (15:44-
47). Maria Maddalena e un’altra donna di nome Maria videro qual era il luogo
(15:47).
Va detto che tutto questo — o qualcosa di molto simile — deve
necessariamente avvenire in vista di quanto Marco narra dopo, ovvero che il
giorno dopo il sabato Maria Maddalena e altre due donne si recano alla tomba e
la trovano vuota. Se Gesù non fosse stato seppellito in una tomba, oppure se
nessuno avesse visto dove si trovava, sarebbe stato impossibile proclamare la sua
resurrezione. Insomma, c’era bisogno di una tomba ben precisa.
Ma c’era sul serio, questa tomba? È proprio vero che Giuseppe di Arimatea
seppellì Gesù?

Considerazioni generali
Ci sono varie ragioni per dubitare della tradizione della sepoltura di Gesù per
mano di Giuseppe. Innanzitutto, è difficile considerarla storicamente attendibile
nel contesto della narrazione di Marco. L’identificazione di Giuseppe come
illustre membro del Sinedrio solleva immediatamente una serie di interrogativi.
Marco stesso dice che al processo di Gesù, la sera precedente, «tutto il Sinedrio»
(non quindi alcuni suoi membri, e nemmeno la maggior parte: tutto) cercava
testimonianze «contro Gesù per farlo morire» (14:55). Al termine del processo,
poiché Gesù si era proclamato Figlio di Dio (14:62), «tutti lo condannarono
come reo di morte» (14:64). In altre parole, secondo Marco, lo sconosciuto
Giuseppe era tra coloro che avevano condannato Gesù a morte la sera prima che
fosse crocifisso. E allora come mai, dopo l’esecuzione della sentenza, si sarebbe
assunto improvvisamente il grosso rischio (implicito nel fatto che deve farsi
coraggio) di compiere un atto di clemenza e offrire a Gesù una degna sepoltura?
Marco non ce lo spiega.
La mia ipotesi è che le narrazioni 6 del processo e della sepoltura provengano
da tradizioni diverse. O forse Marco ne aveva inventata una trascurando
l’apparente discrepanza?
In ogni caso, la sepoltura per mano di Giuseppe rappresenta un evidente
problema storico alla luce di altri brani neotestamentari.
Come già detto, Paolo non mostra di sapere alcunché riguardo a un certo
Giuseppe di Arimatea, né alla sepoltura di Gesù da parte di un «illustre membro
del Consiglio». È un particolare che non troviamo nell’antico credo citato da
Paolo in 1 Corinzi 15:3-5: se il suo autore l’avesse saputo lo avrebbe certamente
specificato, perché l’omissione del nome di chi aveva seppellito Gesù — come
abbiamo visto — spezza il parallelismo con la seconda sezione del credo, quella
in cui viene nominata la persona a cui Gesù è apparso (Cefa). Morale: l’antico
credo non sa nulla di Giuseppe, e nemmeno Paolo dà segni di conoscerlo.
Ma questa non è l’unica tradizione della sepoltura di Gesù priva di riferimenti
a Giuseppe di Arimatea. Come già detto, gli Atti degli Apostoli sono opera dello
stesso autore del Vangelo di Luca. Per scrivere il Vangelo, l’ignoto autore (lo
chiamiamo Luca per convenzione, ma in realtà non sappiamo chi fosse) si era
servito di varie fonti scritte e orali, come specifica lui stesso (Luca 1:1-4). Oggi
gli studiosi ritengono che tra le sue fonti ci fosse il Vangelo di Marco, il che
spiega come mai Luca inserisce la storia di Giuseppe di Arimatea nella propria
versione della morte e resurrezione di Gesù. Gli Atti degli Apostoli risalgono a
un momento successivo, perciò Luca aveva a disposizione ulteriori fonti. Gli
Atti però non parlano di vita, morte e resurrezione di Gesù, ma della successiva
diffusione del cristianesimo nell’impero romano: un quarto circa del libro è
formato da discorsi di protagonisti come Pietro e Paolo, volti per esempio a
convertire la popolazione alla fede in Gesù o a istruire i già convertiti. Da tempo
gli studiosi sostengono che questi non siano discorsi autentici dei discepoli, ma
creazioni di Luca risalenti a decenni dopo i fatti (all’epoca dei quali non c’era
nessuno che prendesse appunti). Per gli storici antichi era prassi comune
inventare i discorsi dei loro protagonisti, come ci spiega chiaramente uno storico
rigoroso quale il greco Tucidide (Guerra del Peloponneso 1.22.1-2). Che
alternativa avevano?
Nel caso di Luca, tuttavia, è probabile che si fosse basato almeno in parte su
fonti precedenti, proprio come enunciando gli insegnamenti di Gesù nel Vangelo
aveva attinto a fonti come Marco. Se però tradizioni diverse (per esempio i
discorsi) provengono da fonti diverse, non c’è garanzia che siano perfettamente
coerenti tra loro, e se non lo sono è quasi sempre perché qualcuno ha alterato o
inventato gli episodi.
Il che rende particolarmente interessante il discorso di Paolo in Atti 13.
Durante una funzione in una sinagoga ad Antiochia di Pisidia, Paolo coglie
l’occasione per avvertire i fedeli che le autorità giudaiche di Gerusalemme
hanno commesso un grave peccato contro Dio facendo uccidere Gesù: «Benché
non trovassero in lui nulla che fosse degno di morte, chiesero a Pilato che fosse
ucciso. Dopo aver compiuto tutte le cose che erano scritte di lui, lo trassero giù
dal legno, e lo deposero in un sepolcro» (Atti 13:28-29).
Il brano potrebbe sembrare complessivamente coerente con quanto dicono i
Vangeli a proposito della morte e sepoltura di Gesù, senonché qui Gesù non
viene seppellito da un solo membro del Sinedrio, ma dal consiglio nella sua
interezza. È una tradizione diversa, e Giuseppe non è nominato più di quanto lo
sia nelle lettere di Paolo. Questa tradizione pre-lucana è dunque più antica
rispetto a quanto leggiamo in Marco a proposito di Giuseppe di Arimatea? La
prima tradizione sulla sepoltura giunta fino a noi dice che Gesù fu seppellito da
un gruppo di giudei?
Sarebbe logico se la tradizione più antica delle due fosse questa. Qualsiasi
tradizione che parli di tombe vuote deve prima prevedere una degna sepoltura
per Gesù, in una tomba. Ma chi poteva occuparsi della sepoltura? Secondo tutte
le tradizioni, Gesù non aveva parenti a Gerusalemme, perciò non potevano
esserci una tomba di famiglia né congiunti che provvedessero a seppellirlo. Le
testimonianze concordano inoltre sul fatto che tutti i suoi seguaci erano fuggiti,
perciò non potevano pensarci nemmeno loro. Per ragioni che verranno chiarite
più avanti, vanno esclusi anche i romani. Rimane una sola alternativa. Se i
seguaci sapevano che Gesù «doveva» essere stato seppellito in una tomba
(altrimenti non ci sarebbero state storie sulla tomba vuota) e dovevano quindi
inventare un resoconto della sepoltura, allora gli unici candidati plausibili a
essersene occupati erano le stesse autorità giudaiche. E dunque questa (Atti
13:29) è la tradizione più antica che abbiamo, forse la stessa su cui si basa 1
Corinzi 15:4: «Fu seppellito».
Man mano che veniva tramandata, forse la tradizione venne abbellita e resa
più concreta: i narratori erano abituati ad arricchire di dettagli storie vaghe, dare
nomi a personaggi che non li avevano, inserire figure con un nome in storie che
citavano solo individui anonimi o gruppi indistinti di persone. Questa tradizione
sopravvisse a lungo dopo il periodo del Nuovo Testamento, come il mio maestro
Bruce Metzger spiega elegantemente nell’articolo Names for the Nameless, 7
rassegna completa delle tradizioni neotestamentarie con figure anonime che
ricevettero un nome in seguito, per esempio i magi e i sacerdoti membri del
Sinedrio al momento della condanna alla crocifissione di Gesù e dei due ladri.
La storia di Giuseppe di Arimatea potrebbe essere un primo esempio del
fenomeno: un vago accenno alle autorità giudaiche che seppelliscono Gesù
diventa la storia di uno di loro in particolare, con tanto di nome.
Inoltre, le tradizioni evangeliche dimostrano ampiamente che, con il passare
del tempo e via via che le storie venivano arricchite, c’era la tendenza a trovare
dei «buoni» anche fra i «cattivi». Esempio: nel Vangelo di Marco entrambi i
criminali crocifissi con Gesù lo insultano e lo scherniscono; in Luca (scritto in
seguito) solo uno dei due lo fa, mentre l’altro dichiara la sua fede in Gesù e gli
chiede di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo regno (Luca 23:39-43). In
Giovanni troviamo fra i cattivi del Sinedrio un altro buono che vuole contribuire
alla sepoltura, mentre Nicodemo accompagna Giuseppe a preparare il corpo di
Gesù (Giovanni 19:38-42). Ma il caso più eclatante è quello di Ponzio Pilato,
che in Marco, il Vangelo più antico, condanna a morte Gesù da vero cattivo. In
Matteo, tuttavia, lo fa con grande riluttanza; in Luca e Giovanni soltanto dopo
averlo espressamente dichiarato innocente per tre volte. Nei Vangeli successivi,
non appartenenti al Nuovo Testamento, Pilato appare sempre più come un
brav’uomo innocente, tanto da convertirsi e diventare seguace di Gesù. La
riabilitazione di Pilato punta fra l’altro a indicare chi sono i veri colpevoli della
morte immeritata di Gesù. Per questi autori, vissuti molto tempo dopo i fatti, la
colpa è della ostinazione dei giudei. Il fenomeno, però, rientra anche nel
tentativo di trovare qualche buono nel mucchio degli ignobili rivali di Gesù:
citare Giuseppe di Arimatea come una sorta di ammiratore o persino seguace
segreto potrebbe far parte dello stesso processo.
Queste considerazioni generali ci portano a mettere in discussione l’idea che
Gesù fosse stato seppellito da Giuseppe, ma esistono tre ragioni specifiche per
dubitare persino che avesse ricevuto degna sepoltura in una tomba.

Pratiche romane di crocifissione


Secondo alcuni apologeti cristiani, Gesù dovette essere tolto dalla croce il
venerdì prima del tramonto perché l’indomani era il sabato, e lasciare una
persona sulla croce il sabato andava contro la legge (o quanto meno la
sensibilità) ebraica. Sfortunatamente, le testimonianze storiche ci dicono l’esatto
contrario. Non essendo stati i giudei a uccidere Gesù, non avevano voce in
capitolo riguardo al momento in cui doveva essere tolto dalla croce. I romani che
lo giustiziarono non si preoccupavano di obbedire alle leggi ebraiche né di
rispettare la sensibilità dei giudei. Tutt’altro: quando si trattava di crocifiggere i
malfattori — in questo caso, un uomo accusato di crimini contro lo Stato —
l’assenza di pietà era la regola. Lo scopo della crocifissione era torturare e
umiliare la vittima per mostrare alla collettività che fine faceva chi veniva
giudicato un piantagrane dalle autorità romane. Un’umiliazione che arrivava a
lasciare il corpo sulla croce dopo la morte, alla mercé degli animali.
John Dominic Crossan è autore della famigerata ipotesi secondo cui il corpo
di Gesù non sarebbe stato riportato in vita, ma dilaniato dai cani. 8 La prima
volta che l’ho sentita non ero più credente perciò non mi sono scandalizzato, ma
l’ho comunque trovata eccessiva e sensazionalistica. È pur vero che non avevo
ancora effettuato ricerche serie sull’argomento. Oggi la mia opinione è che non
sappiamo, e non possiamo sapere, quale fu la vera sorte del corpo di Gesù. È
tuttavia indiscutibile che, stando a tutte le prove, di norma i cadaveri dei
criminali venivano lasciati a decomporre per la gioia degli animali famelici. La
crocifissione era un deterrente pubblico alle attività politicamente sovversive, ma
non si esauriva con il dolore e la morte: continuava con lo strazio del cadavere.
Abbiamo un’ampia gamma di prove in questo senso. Un’antica iscrizione
rinvenuta sulla lapide di un uomo ucciso dal suo schiavo nella polis greca di
Amyzon ci dice che l’assassino fu «impiccato […] vivo e lasciato alle bestie
feroci e ai rapaci». 9 In una lettera del poeta romano Orazio, così replica il
padrone a uno schiavo che proclama la sua innocenza: «Non sarai messo sulla
croce come pranzo ai corvi» (Epistole 1.16.46-48). 10 Nelle sue Satire,
Giovenale descrive «l’avvoltoio [che] lasciate le carogne di giumenti, cani e
criminali, si affretta alla nidiata e porta un brandello di cadavere» (Satire 14.77-
78). 11 Il più famoso interprete dei sogni del mondo antico, il «Sigmund Freud
greco» Artemidoro da Efeso, scrive che per i poveri «sognare [di] venire
crocifisso, gloria e ricchezze significa: gloria veramente, che i crocifissi sono più
alti degli altri; ricchezze, ché egli nutre molti uccelli» (Dell’interpretatione de’
sogni 2.53). 12 Senza dimenticare l’umorismo macabro nel Satyricon di
Petronio, ex consigliere dell’imperatore Nerone, riguardo a un cadavere lasciato
per giorni sulla croce (capitoli 11-12).
Non essendoci purtroppo giunte descrizioni letterarie del processo di
crocifissione, non possiamo che immaginarne i dettagli, ma vari riferimenti ci
permettono di concludere che parte del calvario consisteva nell’essere
abbandonati alla mercé degli animali dopo la morte. Osserva Martin Hengel, un
cristiano conservatore: «La crocifissione era resa ancora più straziante dal fatto
che molto spesso le vittime non venivano seppellite. Era consuetudine che la
vittima crocifissa servisse da banchetto per bestie selvagge e rapaci. In questo
modo l’umiliazione era completa». 13
Va detto che secondo altri cristiani conservatori esistevano eccezioni alla
regola, come scrive Filone di Alessandria, e che a volte ai giudei veniva
consentito di seppellire chi era morto sulla croce. La realtà è che basta leggere il
testo di Filone per rendersi conto che si tratta di un fraintendimento:
Per i sovrani che governano come si conviene e non fingono di onorare ma onorano veramente i loro
benefattori è prassi non punire i condannati finché le solenni celebrazioni in onore dei compleanni
della gloriosa casa di Augusto non sono giunte al termine. […] So di casi in cui, alla vigilia di una
festività di tale genere, i corpi di persone morte sulla croce venivano consegnati ai loro congiunti,
poiché si riteneva giusto concedere loro la sepoltura e i riti consueti. Era infatti opportuno, in
occasione del compleanno dell’imperatore, da un lato che anche i morti godessero di un qualche
trattamento preferenziale, dall’altro che la sacralità della celebrazione venisse tutelata. 14

Leggendo l’intero brano, appare chiaro che si tratta di un’eccezione alla regola.
Se Filone cita una prassi così eccezionale è proprio perché va contro la
consuetudine. Due punti vanno sottolineati. Il primo, meno rilevante, è che nei
casi descritti da Filone i corpi venivano tolti dalla croce e consegnati ai parenti
perché offrissero loro degna sepoltura: in altre parole, si trattava di un privilegio
concesso solo ad alcune famiglie, probabilmente le più altolocate e provviste
delle conoscenze giuste. Un profilo nel quale non rientrava certo la famiglia di
Gesù, che non aveva i mezzi per far seppellire qualcuno a Gerusalemme, non era
nemmeno di Gerusalemme e non conosceva autorità giudaiche locali a cui
chiedere il corpo. Per giunta, stando alle prime testimonianze, nessuno di loro,
nemmeno la madre di Gesù, aveva assistito alla crocifissione.
Il punto fondamentale riguarda invece le circostanze delle eccezioni illustrate
da Filone, che avevano luogo quando un governatore romano decideva di
festeggiare il compleanno del suo imperatore: in altre parole, di istituire una
festività romana per rendere onore a un’autorità romana. Nulla a che fare con la
crocifissione di Gesù, che non avvenne il giorno del compleanno
dell’imperatore, ma durante la cena della Pasqua ebraica, una ricorrenza semmai
nota come focolaio di sentimenti anti-romani. Insomma, circostanze opposte a
quelle descritte da Filone. E non esistono testimonianze — nemmeno una — di
governatori che facessero eccezioni in casi del genere.
Morale: la prassi romana era lasciare i cadaveri sulla croce a mo’ di
deterrente, perché si decomponessero e diventassero cibo per gli animali. In
nessuna fonte antica ho mai trovato testimonianze in senso contrario. Certo, le
eccezioni sono sempre possibili, ma non dimentichiamo che i narratori cristiani
avevano una ragione impellente per raccontare che Gesù aveva ricevuto un
trattamento di favore: niente sepoltura, niente tomba vuota.

Fosse comuni nell’antichità greco-romana


La seconda ragione che mi porta a dubitare della degna sepoltura ricevuta da
Gesù è che all’epoca, di norma, i criminali di ogni sorta venivano gettati nelle
fosse comuni. Di nuovo, abbiamo un’ampia gamma di testimonianze, di varie
epoche e provenienze. Diodoro Siculo, storico greco del primo secolo a.e.v.,
parla di una guerra in cui Filippo II di Macedonia (padre di Alessandro Magno)
perse venti uomini per mano dei nemici locresi. Filippo li pregò di consegnargli i
corpi per poterli seppellire, ma i locresi rifiutarono, poiché «la legge comune
voleva che ai predoni dei templi non fosse data sepoltura» (Biblioteca storica
16.25.2). 15 Attorno al 100 e.v. Dione Crisostomo scrisse che ad Atene, a
chiunque venisse «punito dallo Stato per un crimine», veniva «negata la
sepoltura, per eliminare ogni traccia di un uomo malvagio» (Orazioni 31.85). Sul
fronte romano, sappiamo che dopo una battaglia combattuta da Ottaviano (il
futuro Cesare Augusto, imperatore quando nacque Gesù) uno dei prigionieri lo
supplicò di essere seppellito, al che Ottaviano rispose che «sarebbe stato affare
degli uccelli» (Svetonio, Augusto 13). Lo storico Tacito racconta di un uomo che
si suicidò per evitare l’esecuzione, poiché «i condannati a condanna capitale non
avevano sepoltura ed i loro beni erano confiscati» (Annali 6.29h). 16
Di nuovo, non è escluso che Gesù rappresentasse un’eccezione, ma le prove in
questo senso sono indiscutibilmente scarse. La norma era che i corpi dei
condannati per crimini infamanti rimanessero sulla croce in balia degli animali,
per essere poi gettati in una fossa comune dove, ormai decomposti, non
tardavano a diventare irriconoscibili. Inutile dire che nelle tradizioni su Gesù
bisognava che il corpo venisse riconosciuto, altrimenti sarebbe stato impossibile
dimostrarne la resurrezione fisica.

Il ruolo di Ponzio Pilato


La terza ragione per dubitare della sepoltura ha a che fare con il dominio romano
sulla Giudea all’epoca. Per gli storici dell’antico cristianesimo è motivo di
grande rammarico la scarsità di informazioni su Ponzio Pilato, governatore della
Giudea dal 26 al 36 e.v., colui che fra l’altro condannò Gesù alla croce. Da quel
poco che sappiamo, tuttavia, emerge un quadro preciso: Pilato era un uomo
spietato e violento che governava senza un minimo di compassione e non
mostrava alcun rispetto per la sensibilità dei giudei.
I reperti archeologici sono avari di testimonianze su Pilato: qualche moneta
coniata durate il suo governatorato, un’iscrizione rinvenuta in epoca moderna a
Cesarea. Per ragioni già illustrate, il Nuovo Testamento non offre resoconti
coerenti: col passare del tempo gli autori cristiani, compresi quelli dei Vangeli,
presero a ritrarlo come una figura sempre più compassionevole verso Gesù e
sempre più ostile ai giudei riluttanti che ne reclamavano la morte. La mia ipotesi
— ribadisco — è che la graduale riabilitazione di Pilato sia da leggere in chiave
palesemente antiebraica, il che ci costringe a prendere le ricostruzioni del
processo a Gesù negli ultimi Vangeli (Matteo, Luca e Giovanni) cum grano salis.
In una precedente tradizione di Luca troviamo un vago riferimento che traccia un
quadro più chiaro: «In quello stesso tempo vennero alcuni a riferirgli il fatto dei
Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici» (Luca 13:1).
L’impressione è che Pilato avesse fatto uccidere dei giudei mentre erano intenti
alle loro cerimonie religiose: una scena inquietante ma coerente con ciò che ci
dicono altre fonti letterarie. In particolare lo storico ebraico del primo secolo
Giuseppe Flavio, che narra due episodi di quando Pilato era governatore della
Giudea. Il primo risale a quando entrò in carica. Arrivato a Gerusalemme dopo il
tramonto, con il favore delle tenebre Pilato aveva posizionato in tutta la città i
vessilli romani raffiguranti l’imperatore. Vedendoli l’indomani mattina, i giudei
rimasero scandalizzati: la legge di Mosè vietava le immagini nella città santa,
tanto più quelle di un governante straniero che altrove veniva adorato come un
dio. Una folla di giudei si presentò dunque al palazzo di Pilato a Cesarea per
chiedergli di rimuovere i vessilli, ingaggiando con lui uno scontro che durò
cinque giorni. Il governatore non si sognava nemmeno di piegarsi alle richieste
dei giudei (tutto il contrario del processo a Gesù raccontato nei Vangeli!). Al
contrario, passati i cinque giorni ordinò alle sue truppe di formare tre cerchi
attorno ai contestatori e ridurli a brandelli. Per tutta risposta, i giudei si
denudarono il collo e dissero ai soldati che preferivano morire piuttosto che
cedere. Rendendosi conto che non poteva sterminare una massa di cittadini a
sangue freddo e «stupito dalla forza della loro devozione alle leggi», Pilato
ordinò che gli stendardi fossero rimossi (Antichità giudaiche 18.3.1). 17
Davvero sanguinoso fu invece l’epilogo del secondo episodio. Pilato voleva
costruire un acquedotto per portare l’acqua a Gerusalemme. Nulla di male, se per
finanziare l’opera il governatore non avesse saccheggiato il tesoro del Tempio
Santo. Indignati, le autorità e i cittadini protestarono con veemenza, al che Pilato
ordinò ai soldati di mescolarsi alla folla armati di bastoni. Molti giudei vennero
massacrati a randellate, molti altri morirono calpestati nella sommossa (Antichità
giudaiche 18:3-2).
Pilato non era dunque un prefetto magnanimo e abituato ad ascoltare le
proteste del popolo. È plausibile che, a fronte della gentile richiesta di un
membro del Consiglio giudeo, avesse violato la tradizione e la prassi per offrire
degna sepoltura a un uomo morto sulla croce? Stando a quanto ci è dato sapere,
la risposta è no. Crossan non usa mezzi termini: «[Pilato] era un mediocre
governatore romano come tanti che non aveva riguardo per la sensibilità
religiosa dei giudei e ricorreva sistematicamente alla forza bruta per reprimere le
contestazioni, anche quando la folla era disarmata». 18 Ancora più esplicito è
Filone di Alessandria, vissuto all’epoca di Pilato, la cui amministrazione
descrive come contraddistinta da «venalità, violenza, furti, aggressioni,
comportamenti illeciti, frequenti esecuzioni di prigionieri senza processo e una
sconfinata e barbara ferocia» (Legatio ad Gaium 302).
Come abbiamo già detto, ci sono cose riguardanti le tradizioni sulla
resurrezione di Gesù che proprio non possiamo sapere. Una di queste costituisce
un presupposto della resurrezione stessa: la degna sepoltura ricevuta da Gesù, da
parte del Sinedrio collettivamente inteso o di uno dei suoi membri più illustri,
Giuseppe di Arimatea. In quanto storico non posso escludere categoricamente
che questa tradizione non sia falsa, ma ritengo eccessivo affermare altrettanto
categoricamente che Gesù fu dilaniato dai cani. È tuttavia indimostrabile che
questa tradizione sia vera, e anzi esistono ottime ragioni per dubitarne. Se i
romani seguirono la loro prassi consueta, e se Pilato era l’uomo descritto da tutte
le fonti, allora è altamente improbabile che Gesù fosse stato seppellito il giorno
stesso della sua esecuzione in una tomba successivamente identificabile.

La tomba vuota

La scoperta della tomba vuota presuppone naturalmente che una tomba ci fosse e
che fosse stata identificata, ma se l’esistenza della tomba è messa in discussione
allora lo sono anche le narrazioni della sua scoperta. Gli apologeti cristiani
affermano spesso che la scoperta della tomba vuota è uno dei dati storici più
sicuri della storia del primo cristianesimo. Un tempo ne ero convinto anch’io, ma
oggi so che non è vero. Abbiamo ogni ragione di dubitarne, considerati i nostri
sospetti sulla tradizione della sepoltura.
Di conseguenza, gli storici che non credono alla resurrezione di Gesù non
sono tenuti a offrire una spiegazione alternativa al rinvenimento della tomba
vuota. Chi ci prova diventa un bersaglio per gli strali degli apologeti. A chiunque
sostenga che i discepoli avevano trafugato il corpo replicano che mai e poi mai
degli uomini così devoti e moralmente integerrimi avrebbero potuto fare una
cosa simile. A chiunque sostenga che i romani spostarono il corpo replicano che
non avrebbero avuto ragione di farlo e che se lo avessero trovato lo avrebbero
certamente esposto in pubblico. A chiunque sostenga che la tomba vuota
scoperta dalle donne non era quella di Gesù replicano che qualcun altro —
magari non un seguace — avrebbe potuto recarsi alla tomba giusta e trovarvi il
corpo. A chiunque sostenga che in realtà Gesù era entrato in coma, si era
svegliato ed era uscito dalla tomba domandano com’è possibile che un uomo
torturato quasi a morte sposti una pietra e appaia ai suoi discepoli come il
Signore, quando in realtà dovrebbe sembrare un cadavere ambulante.
Se non sposo nessuna di queste spiegazioni alternative è perché, a mio parere,
non sappiamo cosa accadde al corpo di Gesù.
E tuttavia, ragionando in termini puramente storici, ognuna di queste ipotesi è
più probabile rispetto all’eventualità che Dio avesse prelevato fisicamente Gesù
dall’aldilà. In quanto miracolo la resurrezione sfida le leggi della «probabilità»,
ma affermare che proprio per questo è più probabile di un semplice evento
improbabile significa non conoscere le leggi della probabilità. Certo, è difficile
che qualcuno avesse spostato il corpo tanto per fare, ma non c’è nulla di
intrinsecamente improbabile nell’ipotesi. Certo, è difficile che un seguace di
Gesù avesse trafugato il corpo e poi mentito al riguardo, ma in quanti fanno cose
sbagliate e poi non lo dicono? Anche le persone religiose, anche coloro che
diventano autorità religiose. E non facciamoci intimidire da chi sostiene che
nessuno morirebbe mai per quella che sa essere una menzogna: non sappiamo
come morì la maggior parte dei discepoli, non esistono prove che furono
martirizzati per la loro fede, anzi, è praticamente certo che quasi nessuno di loro
lo fu. Insomma, parlare di morte per una menzogna non ha alcun senso.
(Peraltro, la storia ci offre moltissimi esempi di persone morte per una menzogna
perché convinte che servisse a un bene maggiore, ma il fatto è irrilevante, perché
i dettagli della morte della maggior parte dei discepoli ci sono ignoti.) Il punto è
che potremmo ipotizzare decine di spiegazioni plausibili al ritrovamento di una
tomba vuota, ciascuna delle quali, a rigor di logica, sarebbe più probabile di un
atto di Dio.
Ma tutto ciò ci porta fuori argomento: la questione è che non sappiamo se la
tomba fu scoperta vuota perché non siamo sicuri che Gesù fu seppellito in una
tomba.
A questo punto va sottolineato che la scoperta della tomba vuota sembra
essere una tradizione tarda. Il primo a citarla è Marco, trentacinque-quarant’anni
dopo la morte di Gesù: la nostra fonte più antica, Paolo, non ne fa parola.
Le donne alla tomba: un’invenzione?

Non di rado gli apologeti cristiani sostengono che nessuno avrebbe mai potuto
inventare la scoperta della tomba vuota, perché si racconta che a trovarla furono
delle donne, ovvero soggetti comunemente ritenuti inattendibili le cui
testimonianze, non a caso, non erano ammesse nei tribunali. Secondo questa tesi,
se qualcuno avesse voluto inventare l’episodio, avrebbe certamente immaginato
un ritrovamento della tomba da parte di testimoni maschi, in particolare i
discepoli. 19
La forza dell’argomento non mi sfugge, perché una volta ne ero convinto
anch’io. Ora che ho approfondito la questione, ne colgo però il vero punto
debole: in poche parole, una mancanza d’immaginazione. Non occorre chissà
quale sforzo per intuire chi avrebbe potuto concepire una storia in cui erano le
seguaci di Gesù, e non gli uomini, a scoprire la tomba.
Il primo elemento da evidenziare è che non parliamo di un tribunale giudeo
con testimoni chiamati a deporre, ma di tradizioni orali sull’uomo Gesù. E
tuttavia, a chi mai sarebbe venuto in mente di inventarsi delle donne come
scopritrici della tomba vuota? Be’, alle donne stesse, tanto per cominciare.
Abbiamo buone ragioni per credere che le donne fossero particolarmente ben
rappresentate nelle prime comunità cristiane. Le lettere di Paolo contengono
brani come Romani 16 in cui le donne rivestono ruoli cruciali: diaconesse,
responsabili delle funzioni religiose in casa, impegnate in attività missionarie.
Una donna di nome Giunia viene addirittura citata tra coloro che «si sono
segnalati fra gli apostoli» (Romani 16:7). Tutti i Vangeli, inoltre, ci presentano
le donne come figure predominanti nel ministero di Gesù: potrebbe anche essere
storicamente vero. In ogni caso, non c’è nulla di implausibile nell’idea che le
donne, incoraggiate dalle nuove comunità cristiane in cui vivevano,
raccontassero storie su Gesù alla luce della propria situazione, attribuendo
all’elemento femminile un ruolo maggiore rispetto a quello storicamente
accertato nella vita e nella morte di Gesù. Non è poi così difficile immaginare
delle narratrici che identificavano nelle donne le prime persone a credere nella
resurrezione, dopo aver trovato la tomba vuota.
Questa idea, inoltre, è la più coerente con la realtà. A preparare i corpi per la
sepoltura erano di norma le donne, e allora come escludere l’invenzione di storie
in cui lo facevano? Non solo: se erano le donne a recarsi alla tomba per ungere il
corpo, era naturale immaginare che fossero state loro a trovare la tomba vuota.
Oltre a ciò, le prime fonti specificano chiaramente che i discepoli se la diedero
a gambe e non assistettero alla crocifissione. Come già detto, potrebbe trattarsi di
un fatto storico: timorosi per la propria vita, i discepoli si nascosero oppure
fuggirono da Gerusalemme per evitare l’arresto. E dove potevano andare?
Presumibilmente a casa, in Galilea, ovvero a oltre centocinquanta chilometri di
distanza, almeno una settimana di cammino. Se gli uomini si erano dati alla
macchia o erano tornati a casa, chi rimaneva per recarsi alla tomba? Le donne,
che erano arrivate a Gerusalemme insieme agli apostoli ma probabilmente non
avevano di che temere l’arresto.
Esistono poi ragioni strettamente letterarie per immaginare un’«invenzione»
delle donne alla tomba vuota. Facciamo conto che Marco si fosse inventato tutto.
Io ne dubito — non c’è modo di verificarlo, naturalmente, ma la mia ipotesi è
che avesse ricavato la storia dalla tradizione — ma mettiamo che l’avesse fatto.
Se il suo intento fosse stato puramente letterario, avrebbe avuto parecchie
ragioni per inventare la storia. Più studiamo il Vangelo di Marco, più è facile
capire quali avrebbero potuto essere. Facciamo un solo esempio. Dall’inizio alla
fine della sua narrazione, Marco tiene a evidenziare che i discepoli non
capiscono chi è Gesù: nonostante i miracoli e gli insegnamenti, nonostante tutto
ciò che lo vedono fare e lo sentono dire, proprio «non ci arrivano». E dunque chi
è, alla fine del Vangelo, ad apprendere che Gesù è risorto? Le donne. E le donne
non lo rivelano ai discepoli, che quindi rimangono nella loro ignoranza. Tutto
ciò è coerente con il punto di vista di Marco e con i suoi intenti letterari.
Ribadisco, non intendo affermare che Marco abbia inventato la storia.
Supponiamo però che l’avesse fatto: se è così facile trovare un’ipotetica ragione,
è altrettanto facile immaginare che di ragioni potessero averne anche uno o più
dei suoi predecessori. In definitiva, non si può dire che non esistesse «alcuna
ragione» per inventare la storia delle donne che scoprono la tomba vuota.

La necessità della tomba vuota

Insomma, c’erano svariate ragioni per inventare la storia della sepoltura di Gesù
in una tomba ben precisa. La più importante è che la scoperta della tomba vuota
è essenziale per la resurrezione: senza tomba vuota, sarebbero mancate le basi
per affermare che Gesù era risorto fisicamente.
L’avverbio — fisicamente — va evidenziato perché, come vedremo meglio
nel prossimo capitolo, fra i primi cristiani c’era chi sosteneva che a resuscitare
fosse stato lo spirito di Gesù, non il suo corpo, rimasto nella tomba a
decomporsi. Una credenza poi diffusasi in vari gruppi di gnostici cristiani, di cui
troviamo traccia persino fra gli autori dei Vangeli canonici. Più tardo è il
Vangelo, più esplicito è il tentativo di «dimostrare» che Gesù è risorto
fisicamente, non solo nello spirito. In Marco, il Vangelo più antico, la
resurrezione è già fisica, perché la tomba è vuota e il corpo sparito. Matteo è
ancora più esplicito, perché quando Gesù appare ai suoi seguaci alcuni di loro lo
toccano (Matteo 28:9). In Luca, Gesù è ancora più esplicito: «Toccatemi e
guardate, perché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io» (Luca
24:39-40). Di fronte all’incredulità dei discepoli, per convincerli Gesù mangia
del pesce di fronte a loro (24:41-43). In Giovanni, Gesù non solo prepara un
pasto per i discepoli (Giovanni 21:9-14), ma ne invita uno particolarmente
scettico a mettergli la mano nel costato per assicurarsi che sia proprio lui e sia
risorto veramente, con tanto di ferite (20:24-29).
Alcuni cristiani dubitavano della resurrezione fisica, mentre i Vangeli inseriti
nel Nuovo Testamento — a differenza di molti di quelli che ne rimasero esclusi
— sottolineano che a risorgere fu proprio il corpo di Gesù. È possibile che questi
dibattiti imperversassero già alla nascita delle prime comunità cristiane: se è
così, la tradizione della tomba vuota serviva non solo a dimostrare la
resurrezione di Gesù ai non credenti, ma anche a dimostrarne la natura fisica e
non solo spirituale ai credenti.

1. Quasi tutti gli studiosi sostengono che gli ultimi dodici versetti di Marco furono aggiunti in
seguito da uno scriba: quasi certamente, il libro terminava con 16:8. Si veda la mia discussione
in Bart D. Ehrman (2007), Gesù non l’ha mai detto: millecinquecento anni di errori e
manipolazioni nella traduzione dei vangeli, Mondadori, Milano (ed. orig. Misquoting Jesus: The
Story Behind Who Changed the Bible and Why, 2005).←
2. Raymond E. Brown (2007), La morte del Messia: un commentario ai Racconti della Passione
nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia (ed. orig. The Death of the Messiah: From Gethsemane
to the Grave, 1994).←
3. Le cosiddette lettere paoline autentiche sono Romani, 1 e 2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1
Tessalonicesi e Filemone. L’attribuzione delle altre sei lettere è discussa. Si veda il mio libro
Bart D. Ehrman (2012), Sotto falso nome: verità e menzogna nella letteratura cristiana antica,
Carocci, Roma (ed. orig. Forged: Writing in the Name of God—Why the Bible’s Authors Are
Not Who We Think They Are, 2011).←
4. Gli storici hanno discusso a lungo sulla cronologia della vita di Paolo, ma è ormai
ragionevolmente assodato, sulla base di dettagli contenuti in alcune lettere (per esempio Galati
1-2, dove troviamo indicazioni precise quali «tre anni» e «quattordici anni dopo»), che diventò
seguace di Gesù due o tre anni dopo la sua morte. Incrociando i numeri, appare relativamente
certo che se Gesù morì attorno all’anno 30 Paolo si convertì alla sua fede attorno al 32-33.←
5. Daniel A. Smith (2010), Revisiting the Empty Tomb: The Early History of Easter, Fortress,
Minneapolis, p. 3.←
6. Volendo interpretare il brano come ricostruzione storica, la spiegazione più plausibile sarebbe
che Giuseppe, mosso da pietà, aveva voluto offrire degna sepoltura persino a un «nemico»
perché quella era la cosa «giusta» da fare. Ma in Marco non c’è nulla che giustifichi una simile
ipotesi, perciò, nel contesto della narrazione, l’accostamento delle due tradizioni (processo e
sepoltura) sembra creare un’anomalia.←
7. Bruce Metzger (1970), Names for the Nameless in the New Testament: A Study in the Growth of
Christian Tradition, in Patrick Granfield e Josef A. Jungmann (cur.), Kyriakon: Festschrift
Johannes Quasten, 2 volumi, Verlag Aschendorff, Münster, vol. 1, pp. 79-99.←
8. John Dominic Crossan (1994), Gesù: una biografia rivoluzionaria, Ponte alle Grazie, Firenze
(ed. orig. Jesus: A Revolutionary Biography, 1994).←
9. Citato in Martin Hengel (1977), Crucifixion, Fortress, Philadelphia, p. 76.←
10. Orazio (1938), Satire ed epistole, a cura di Gaetano Gigli, Luigi Loffredo, Napoli.←
11. Persio e Giovenale (2005), Satire, a cura di Paolo Frassinetti e Lucia Di Salvo, UTET, Torino,
p. 2227.←
12. Artemidoro di Daldi (1994), Dell’interpretatione de’ sogni, traduzione di Pietro Lauro
Modonese, Fabbri, Milano.←
13. Hengel 1977:87.←
14. Citato in Crossan:1994.←
15. Diodoro Siculo (1985), Biblioteca storica, a cura di Teresa Alfieri Tonini, Rusconi, Milano.←
16. Tacito (2007), Annali, traduzione di Bianca Ceva, vol. 1, Fabbri, Milano, p. 403.←
17. Giuseppe Flavio (2006), Antichità giudaiche, a cura di Luigi Moraldi, vol. 2, UTET, Torino, p.
1115.←
18. Crossan 1994:158.←
19. Si veda per esempio Michael R. Licona (2010), The Resurrection of Jesus: A New
Historiographical Approach, Intervarsity Press, Downers Grove, IL, pp. 349-54.←
5. La resurrezione di Gesù: cosa possiamo sapere
Mi capita spesso di ricevere email da persone turbate dal fatto che io abbia perso
la fede. Molte mi dicono che evidentemente non ho mai avuto un rapporto
personale con Gesù, che la mia doveva essere una fede tutta intellettuale e che
l’ho abbandonata «a forza di ragionare». A loro avviso, se non fossi un barboso
accademico e mi rendessi conto che la fede in Gesù è questione di accettare un
essere umano come proprio Signore e Salvatore, apparterrei ancora alla
comunità dei credenti. Non ho mai capito perché degli sconosciuti si
preoccupino tanto per me, e a dire il vero mi domando se non vedano nella mia
fede perduta qualcosa di minaccioso, perlomeno quelli che — senza riconoscerlo
apertamente — iniziano a nutrire qualche dubbio sulla loro fede. In ogni caso,
non è affatto vero che non ho mai avuto un rapporto personale con Gesù.
Tutt’altro: per anni mi è stato vicinissimo, un compagno rassicurante, una guida
e un maestro quotidiano, oltre che il mio Signore e Salvatore.
Al tempo stesso, è vero che il cristianesimo evangelico conservatore — la
confessione a cui mi ero convertito — non è incentrato su un rapporto personale
con il divino e ha una forte componente intellettuale. È uno dei grandi paradossi
della religione moderna: più di ogni altra comunità religiosa al mondo o quasi,
gli evangelici conservatori, e più ancora i fondamentalisti cristiani, sono figli
dell’Illuminismo.
Il movimento intellettuale noto come Illuminismo emerse nel Sei-Settecento,
un’epoca in cui la ragione, e non la rivelazione, finì per essere identificata come
fonte ultima della conoscenza. Le scienze naturali erano in ascesa, così come lo
sviluppo tecnologico, e andavano di moda le filosofie della mente. Nella
popolazione colta, e in quella che a essa si ispirava, l’Illuminismo provocò
l’abbandono della religione tradizionale e — fra l’altro — alimentò lo
scetticismo nei confronti di ogni culto fondato su miracoli, soprannaturale e
rivelazione. Esaltando la potenza del pensiero umano, l’Illuminismo demolì i
miti delle dottrine predominanti: era fondamentale che qualsiasi credenza
andasse verificata in maniera oggettiva.
Quando dico che evangelici conservatori e fondamentalisti cristiani sono figli
dell’Illuminismo intendo che, più di chiunque altro o quasi, questi gruppi
fondano il loro pensiero sulla «verità oggettiva», vale a dire la stessa nozione che
ha determinato la crisi del cristianesimo nel mondo moderno, specie in Europa.
Ecco dove sta il paradosso, o forse sarebbe meglio parlare di benzina gettata sul
fuoco. La realtà, tuttavia, è che gli apologeti cristiani moderni sono i massimi
paladini dell’oggettività, ben più di molte altre categorie colte. A meno che non
si trovino ai margini della vita intellettuale, gli intellettuali universitari non
parlano quasi più di «oggettività».
Invece gli apologeti cristiani lo fanno, e lo facevo anch’io quando ero uno di
loro. Ecco perché sono così ansiosi di «dimostrare» la verità della resurrezione.
È un’arma classica nel loro arsenale: esaminando le prove, oggettive e
schiaccianti, non possiamo non concludere che Dio fece veramente resuscitare
Gesù dai morti. Non esiste altra spiegazione a dati oggettivi come la scoperta
della tomba vuota e le successive apparizioni di Gesù ai discepoli. E così, presi
questi due dati come «fatti», gli apologeti ritengono di poter dimostrare che non
ci sono altre ipotesi plausibili (il corpo trafugato dai discepoli, un errore
nell’identificazione della tomba, un’allucinazione…). Se vogliamo stare al gioco
dell’oggettività (perché di gioco si tratta: oggettivamente non esiste nulla che
renda l’oggettività oggettivamente vera), è relativamente semplice trovare delle
falle in questo stratagemma apologetico, al quale ricorrevo io stesso quando ero
un cristiano che tentava di convertire il prossimo alla fede nella resurrezione. Per
cominciare, come abbiamo visto, ci sono ottime ragioni per dubitare che Gesù
avesse ricevuto degna sepoltura e che la tomba fosse stata trovata vuota.
Qualsiasi altro scenario, per quanto improbabile, è più probabile di un miracolo,
poiché i miracoli sfidano ogni probabilità (altrimenti non li definiremmo tali).
Tuttavia, ammesso e non concesso che abbia senso polemizzare su quale sia la
spiegazione «oggettivamente» più valida, esiste un problema più generale:
credere ai miracoli è una questione di fede, non di conoscenza oggettiva. Ecco
perché alcuni storici sono convinti che Gesù sia risorto e altri storici, non meno
capaci, pensano il contrario. Gli uni e gli altri hanno a disposizione gli stessi
dati, ma non sono i dati a fare di una persona un credente. La fede non è
conoscenza storica, la conoscenza storica non è fede.
Ciò non toglie che possiamo occuparci di alcuni aspetti della resurrezione a
prescindere dal fatto che ci crediamo o no. Il che non significa che gli storici
debbano necessariamente nutrire dei pregiudizi anti-soprannaturali. Significa
invece che devono sospendere i loro pregiudizi — favorevoli o contrari che
siano — per fare il loro lavoro: ricostruire al meglio delle loro capacità ciò che
probabilmente è accaduto in passato, sulla base delle prove disponibili e
riconoscendo che tante cose non solo non le sappiamo, ma storicamente parlando
non potremo scoprirle mai. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, ci sono
cose che non possiamo sapere riguardo alla resurrezione (a parte la questione
fondamentale: se è vero che Dio resuscitò Gesù dai morti): non possiamo sapere
se Gesù ricevette degna sepoltura e quindi se la tomba fu trovata vuota. Ma cos’è
che possiamo sapere? Tre cose molto importanti: (1) alcuni suoi seguaci
credevano che fosse risorto; (2) lo credevano perché era apparso loro dopo la
crocifissione; (3) tale credenza li indusse a riconsiderare la figura di Gesù,
arrivando in un certo senso a identificare quel predicatore apocalittico ebreo
proveniente dalla Galilea con Dio.

La fede dei discepoli


Che alcuni seguaci di Gesù credessero alla sua resurrezione dai morti è
storicamente indiscutibile. Fu così che nacque il cristianesimo. Se nessuno ci
avesse creduto, Gesù si sarebbe perso nelle nebbie dell’antichità ebraica e oggi
sarebbe ricordato come uno dei tanti profeti che morirono senza lasciare tracce.
E invece i suoi seguaci — o quanto meno alcuni di loro — si convinsero che Dio
avesse compiuto uno straordinario miracolo e riportato Gesù in vita. Nulla di
simile a una semplice esperienza di premorte, perché Gesù aveva ricevuto un
corpo immortale per poi essere esaltato in cielo, dove tuttora vive e regna al
fianco di Dio Onnipotente.
Parlo di alcuni dei seguaci perché, per ragioni che approfondiremo, non
possiamo dare per certo che tutti loro credessero alla resurrezione: le
testimonianze non ci permettono di sapere quali di preciso fra i discepoli
finirono per convincersi di questo grande miracolo. Di alcuni è sicuro, ma i testi
furono scritti parecchi anni dopo i fatti, e dei «dodici» non fanno parola o quasi.
L’altra questione incerta è quando ebbe inizio la fede nella resurrezione ed
esaltazione di Gesù. Certo, la tradizione sostiene che cominciò tutto tre giorni
dopo la sua morte, ma come abbiamo visto analizzando 1 Corinzi 15:3-5 l’idea
del «terzo giorno» nasce come costruzione teologica, non come informazione
storica. Inoltre, se è vero che i discepoli fuggirono da Gerusalemme quando
Gesù fu arrestato e che alcuni di loro lo «videro» una volta tornati in Galilea,
non è possibile che l’apparizione fosse avvenuta la prima domenica dopo la sua
morte. Se erano scappati il venerdì, non avrebbero potuto viaggiare l’indomani
(giorno dello Shabbat), e poiché Gerusalemme distava circa duecento chilometri
da Cafarnao, il villaggio da cui venivano, il tragitto a piedi avrebbe richiesto
almeno una settimana. 1 È possibile che alcuni — forse uno — di loro avessero
avuto una visione di Gesù in Galilea poco dopo la crocifissione, la settimana
seguente? O quella dopo ancora? Magari il mese successivo? Le fonti a nostra
disposizione non ci permettono di rispondere. 2
C’è un aspetto sorprendente e spesso trascurato dagli osservatori superficiali
dell’antica tradizione cristiana. Se da un lato tutti i primi cristiani credevano che
Gesù fosse risorto, dall’altro le opinioni su cosa significasse esattamente
«risorto» divergevano. In particolare, i primi cristiani intavolavano lunghi e
accesi dibattiti sulla natura della resurrezione, e specificamente del corpo
resuscitato. A partire dalle fonti antiche, vediamo tre interpretazioni alternative.

La resurrezione di un corpo spirituale

Cominciamo dalla prima fonte, Paolo, riprendendo in esame il «capitolo della


resurrezione» (1 Corinzi 15), così chiamato perché parla della resurrezione di
Gesù e di quella che attende i suoi seguaci. Paolo afferma che Gesù è risorto
come corpo spirituale, due termini altrettanto importanti per comprendere il
punto di vista dell’autore: Gesù è risorto nel suo corpo, ma si tratta di un corpo
spirituale.
Molti lettori della Prima Lettera ai Corinzi sottovalutano e fraintendono il
riferimento al corpo, ma Paolo non lascia spazio a dubbi: Gesù è tornato
fisicamente dall’aldilà. Lo dichiara senza mezzi termini, ma per certi versi
l’intero capitolo è scritto allo scopo di contrapporre la propria tesi a quella dei
Corinzi. Secondo questi ultimi Gesù è risorto nello spirito, non nel corpo: di
conseguenza, i cristiani che sperimentano la sua resurrezione nella propria vita
possono risorgere spiritualmente proprio come lui. Insomma, i Corinzi sono
convinti di godere appieno della salvezza già nel presente. Paolo li affronta con
sarcasmo: «Già siete sazi, già siete arricchiti, senza di noi siete giunti a regnare!»
(1 Corinzi 4:8). Che sia una battuta e non una constatazione lo chiarisce subito
dopo, rammaricandosi che le cose non stiano così. L’età attuale è dominata dal
male, dalla debolezza e dall’impotenza: solo nell’età ventura, quando Cristo
tornerà dal cielo, i suoi seguaci godranno appieno della salvezza abbandonando
il loro povero e umile corpo mortale in cambio di uno straordinario corpo
spirituale e immortale come quello ottenuto da Gesù con la resurrezione.
È questo il punto centrale di 1 Corinzi 15. Il fatto — Paolo lo assume come
tale — che il corpo risorto dei credenti sarà come il corpo risorto di Gesù
dimostra che la resurrezione non ha ancora avuto luogo. Sarà un evento fisico,
non solo spirituale, e proprio per questo non può essere già avvenuto, perché
viviamo ancora nel nostro patetico corpo mortale.
E tuttavia, il corpo di Gesù risorto non è un semplice cadavere riportato in
vita: è un miracoloso corpo immortale, un corpo «spirituale». Certo, è un corpo
materiale, intimamente connesso a quello in cui è morto ed è stato seppellito. Ma
al tempo stesso è un corpo trasformato, incapace di sperimentare dolore,
infelicità e morte.
Gli avversari di Paolo si fanno beffe dell’idea di una futura resurrezione dei
corpi: «Ma qualcuno dirà: “Come risuscitano i morti? E con quale corpo
ritornano?”». La sua replica è perentoria: «Insensato, quello che tu semini non è
vivificato, se prima non muore» (1 Corinzi 15:35-36). È come il nudo seme
interrato da cui germoglia la pianta viva. Il corpo che muore, oggetto misero e
nudo, risorge nella gloria: «Ci sono anche dei corpi celesti e dei corpi terrestri;
ma altro è lo splendore dei celesti, e altro quello dei terrestri» (15:40). Lo stesso
vale per la «risurrezione dei morti. Il corpo è seminato corruttibile e risuscita
incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita glorioso; è seminato debole e
risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale» (15:42-
44).
Insomma, il corpo destinato a risorgere è sempre un corpo, strettamente
connesso a quello in cui si è vissuto, ma è un corpo glorioso, immortale e
spirituale, un corpo trasformato. E Paolo lo sa bene, perché è il corpo in cui è
resuscitato Gesù. Alcuni lettori moderni faticano ad accettare l’idea che un
«corpo spirituale» possa comunque essere un vero corpo. Il problema è che oggi
tendiamo a vedere «spirito» e «corpo» come due entità contrapposte: lo spirito
invisibile e immateriale, il corpo visibile e materiale; lo spirito intangibile, il
corpo fatto di «sostanza». Ma la maggior parte delle popolazioni antiche non la
vedeva così, il che spiega come mai Paolo possa parlare di un corpo spirituale:
era opinione comune che anche lo spirito fosse fatto di «sostanza», ma una
sostanza altamente raffinata. (Un po’ come i «fantasmi»: una loro sostanza ce
l’hanno, per chi immagina di averli visti, ma al tempo stesso sono puro
spirito. 3 ) Il corpo spirituale di cui parla Paolo non è dunque fatto della sostanza
ingombrante che forma il nostro corpo, ma di una sostanza spirituale raffinata,
superiore e immune alla mortalità. Il futuro corpo di ogni essere umano sarà
così, perché così era il corpo risorto di Gesù: era uscito da una tomba, certo, ma
trasformato, fatto di spirito e immortale.
I lettori moderni non sono i primi a essere disorientati dalle idee di Paolo e a
fraintenderne le parole. Sappiamo di altri cristiani che portarono all’estremo uno
o l’altro dei due aspetti: secondo alcuni Gesù resuscitò solo nello spirito;
secondo altri il corpo risorto era talmente affine al cadavere da mostrarne tutti i
segni mortali.

La resurrezione dello spirito

Alcuni cristiani antichi nutrivano una convinzione molto simile a quella dei
Corinzi: Gesù era risorto nello spirito, non nel corpo. Il corpo era morto e
decomposto nella tomba, lo spirito era sopravvissuto e salito in cielo. Un’idea
che diventò predominante in vari gruppi di gnostici cristiani.
Non occorre qui addentrarci in lunghe discussioni sul primo gnosticismo
cristiano: esistono numerosi studi eccellenti. 4 Ai nostri scopi, basterà dire che
dopo il periodo neotestamentario vari gruppi — ciascuno dei quali,
naturalmente, sosteneva di incarnare le idee «originali» di Gesù e dei suoi
discepoli — affermavano che il mondo materiale in cui viviamo è un luogo
malvagio e corrotto, tutto il contrario del regno puramente spirituale al quale
siamo destinati. Per evitare di rimanere intrappolati nel mondo materiale occorre
raggiungere una «conoscenza» (gnósis in greco) segreta e superiore su chi siamo
davvero, come siamo arrivati qui e come possiamo tornare alla nostra dimora
celeste e spirituale. Gesù sarebbe quindi sceso dal regno dei cieli per impartirci
la conoscenza segreta. Questa corrente religiosa è chiamata gnosticismo proprio
perché poneva l’accento sulla gnósis/conoscenza.
Approfondiremo questa concezione di Cristo nel capitolo 7, per il momento
basterà osservare che per molti gnostici quello che noi intendiamo come Gesù
Cristo non era un’entità sola, ma due, un essere divino sceso dal cielo e il corpo
materiale dell’uomo Gesù che temporaneamente occupava. Il corpo materiale,
appartenente al mondo materiale e al Dio inferiore che l’aveva creato, era
trasceso con la morte e resurrezione di Gesù: il corpo era morto, ma lo spirito
divino, da esso distinto, era rimasto intatto. Lo spirito divino tornò dunque alla
sua dimora celeste, mentre il corpo rimase sulla terra a decomporsi. Secondo gli
gnostici il corpo fisico non fu trasformato in corpo spirituale, come in Paolo, ma
lasciato nella tomba. Lo spirito sopravvisse invece alla crocifissione, tanto che
non ebbe bisogno di essere «resuscitato»: dovette solo abbandonare la carne.
L’idea è illustrata nell’Apocalisse di Pietro, un testo rinvenuto nel 1945
insieme a vari altri scritti gnostici nei pressi della cittadina egiziana di Nag
Hammâdi. Si tratta di una testimonianza diretta della crocifissione di Gesù dal
punto di vista di Pietro. La cosa sorprendente — e davvero molto strana — è
che, mentre parla con Gesù, Pietro vede un altro Gesù crocifisso. Abbiamo
quindi, a quanto pare, due Gesù diversi nello stesso momento. Non solo: Pietro
vede una terza figura che aleggia ridendo sopra la croce, e anche questa è Gesù.
Comprensibilmente sconcertato, Pietro chiede a Gesù (quello con cui sta
parlando) cosa stia succedendo. Il Salvatore gli spiega che non stanno
crocifiggendo lui, ma solo «la sua parte corporea», mentre il «Gesù vivente» è
quello che ride sopra la croce. Poi aggiunge:
Colui, infatti, che hanno inchiodato è il primogenito, la casa dei demoni, e il vaso di pietra nel quale
abitano, è l’uomo di Elohim, l’uomo della croce, colui che è sotto la Legge.
Quello, invece, che sta presso di lui, è il Salvatore vivente: il primo, in lui, è Colui che afferrarono e
rilasciarono. Colui che, allegro, guarda coloro che gli fecero violenza […]
Perciò egli ride della loro intellettuale cecità […]
Quello che è soggetto al soffrire verrà; il corpo è un sostituto. Ma quello che essi hanno rilasciato era il
mio corpo incorporeo. (Apocalisse di Pietro 82) 5

Insomma, a essere ucciso è solo l’involucro esterno di Gesù, appartenente al Dio


di questo mondo (Elohim è il termine ebraico per Dio nell’Antico Testamento) e
non al vero Dio. Il Gesù autentico è lo spirito immateriale che ha occupato
temporaneamente quel corpo, il «Gesù vivente» che se la ride dei nemici che
pensano di poterlo uccidere quando in realtà non possono toccarlo. A risorgere è
dunque lo Spirito divino di Gesù, non il suo corpo. 6

La resurrezione del corpo mortale

Non sappiamo quando questi principi gnostici iniziarono a manifestarsi nel


movimento cristiano, ma è certo che fossero in auge a metà del secondo secolo,
forse anche prima. Già in epoca neotestamentaria, però, si registravano tendenze
in questo senso. Se la ricostruzione degli episodi di Corinto sopra illustrata è
corretta, allora già attorno al 50 alcuni seguaci di Gesù dovevano conoscere la
teoria secondo cui a risorgere dai morti era stato lo spirito di Gesù e non il suo
corpo fisico. Che alcuni cristiani ne fossero convinti è ulteriormente dimostrato
dal fatto che ci sono tradizioni evangeliche successive in cui l’idea viene
confutata.
In Luca, scritto forse attorno all’80-85 e.v., i discepoli stentano a credere che
quello che vedono con i propri occhi sia proprio il Gesù risorto nel suo corpo:
«Ora, mentre essi parlavano di queste cose, Gesù stesso comparve in mezzo a
loro, e disse: “Pace a voi!”. Ma essi, sconvolti e atterriti, pensavano di vedere
uno spirito» (Luca 24:36-37). Al che Gesù li rimprovera per il loro scetticismo:
«Guardate le mie mani e i miei piedi, perché sono proprio io! Toccatemi e
guardate, perché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io»
(24:39). Vedendoli ancora increduli chiede qualcosa da mangiare, e loro gli
porgono un pezzo di pesce arrostito, che lui mangia davanti ai loro occhi.
Il senso della storia è che si tratta davvero di Gesù, lo stesso Gesù che è
morto, e che ha ancora il suo corpo, con tanto di carne, ossa, bocca e — a quanto
pare — apparato digerente. Perché tanta insistenza sulla natura corporea del
Gesù resuscitato? Quasi sicuramente perché altri cristiani negavano che a
risorgere fosse stato il corpo. In un ipotetico dibattito fra il Paolo della Prima
Lettera ai Corinzi e gli gnostici dell’Apocalisse di Pietro, Luca si sarebbe
schierato senza esitazione con il primo.
Con un caveat, forse. Quando parla del corpo immortale di Gesù, Paolo
sottolinea che il corpo viene trasformato in un essere immortale. È necessario
che sia così, perché la carne non è la «sostanza» giusta per entrare nel regno di
Dio, come dichiara espressamente Paolo: «Carne e sangue non possono ereditare
il regno di Dio; né i corpi che si decompongono possono ereditare
l’incorruttibilità» (1 Corinzi 15:50). Il corpo mortale e corruttibile verrà quindi
trasformato in qualcos’altro, un corpo immortale, incorruttibile e spirituale. Solo
allora otterrà la vita eterna. È perciò questo, secondo Paolo, il corpo ricevuto da
Gesù con la resurrezione.
Luca, al contrario, sembra convinto che il corpo risorto di Gesù non sia che il
suo cadavere riportato in vita. Non parla di «carne e sangue» (la sostanza che
secondo Paolo non è ammessa nel regno di Dio), ma di «carne e ossa» (Luca
24:39), e un corpo in carne e ossa, a differenza di uno spirito, può mangiare un
pezzo di pesce. L’impressione è che, insistendo sulla natura corporea della
resurrezione di Gesù, Luca voglia contrapporsi a chi lo riteneva risorto nello
spirito. In questo modo potrebbe aver alterato la posizione di Paolo,
sottolineando ulteriormente il carattere fisico del corpo di Gesù, non trasformato
ma in continuità con il corpo che è morto.
Qualcosa di simile troviamo più tardi in Giovanni, nell’episodio del
«Tommaso dubbioso». Secondo Giovanni 20:24-28, la prima volta che Gesù
appare ai discepoli Tommaso non è insieme a loro. Dubitando che abbiano
veramente visto il Signore risorto, con enfasi quasi eccessiva Tommaso li
informa che non ci crederà finché Gesù non apparirà anche a lui e non gli
permetterà di toccare le ferite alle mani e al costato. Gesù esaudisce prontamente
la sua richiesta, e Tommaso abbandona all’istante ogni dubbio.
Anche qui, Gesù si manifesta nel corpo in cui era stato messo in croce, con
tanto di ferite. Sia Luca che Giovanni, insomma, vogliono sottolineare la realtà
del corpo risorto di Gesù e la relativa continuità con il corpo crocifisso, che
quindi non viene «trasformato» in qualcos’altro come in Paolo. Si potrebbe
obiettare che non si tratta comunque di un corpo normale, perché anche in quei
Vangeli Gesù sembra capace di attraversare le porte chiuse: una qualche
trasformazione deve esserci stata. Va però ricordato che già durante la sua vita si
riteneva che Gesù fosse dotato di facoltà sovrumane, per esempio camminare
sull’acqua o «trasfigurarsi» alla presenza dei discepoli. Insomma, Luca e
Giovanni sembrano porre l’accento sul fatto che era davvero lo stesso corpo,
resuscitato dai morti.
Questa concezione finì per diventare predominante nel cristianesimo delle
epoche successive, in larga parte perché — come vedremo nel capitolo 8 —
alcuni cristiani negavano che Gesù avesse mai avuto un corpo. Insistere sulla sua
fisicità era un tentativo di stroncare ogni idea di questo tipo: Gesù aveva un
corpo vero, in vita e anche dopo la resurrezione. Col passare del tempo, l’enfasi
di Paolo sulla diversa natura del corpo — fatto di spirito, non di «carne e
sangue» — si andò attenuando.
È difficile ricostruire le convinzioni dei primissimi cristiani, precedenti a
Paolo, sul corpo di Gesù dopo la resurrezione: la pensavano come Paolo, la
nostra fonte più antica, oppure come Luca e Giovanni, vissuti dopo di lui? La
cosa certa è che i primi seguaci di Gesù lo ritenevano tornato in vita nel suo
corpo, un corpo con caratteristiche inconfondibilmente fisiche: potevano
vederlo, toccarlo e ascoltare la sua voce. Cosa generò in loro questa convinzione
agli albori della tradizione cristiana? Perché pensavano che fosse risorto
fisicamente? Io credo di conoscere la risposta. Le visioni di Gesù che alcuni
seguaci ebbero dopo la crocifissione.

Le visioni di Gesù
Che alcuni seguaci di Gesù credessero alla sua resurrezione, e che qualcosa li
avesse portati a crederlo, è indiscutibile. Le prime fonti concordano al riguardo,
e a mio parere ci offrono dati storicamente attendibili su un aspetto cruciale: la
fede nella resurrezione era fondata su esperienze visionarie.

L’importanza delle visioni per la fede nella resurrezione

A convincere i primi discepoli che Gesù fosse risorto furono solo ed


esclusivamente le visioni. Si dice spesso che fu una combinazione di due fattori,
la scoperta della tomba vuota e le apparizioni: la mia tesi è che la presunta tomba
vuota non c’entri nulla. Non solo perché le testimonianze sulla tomba sono
tutt’altro che affidabili, ma anche perché una tomba vuota non genera
automaticamente fede, come cercherò di dimostrare, e soprattutto perché, stando
alle prime fonti, la tomba non generò alcuna fede.
Cominciamo proprio dalle prime fonti. La tradizione più antica della fede
nella resurrezione è il credo pre-paolino in 1 Corinzi 15:3-5 che abbiamo
analizzato nel capitolo 4. Il credo non nomina alcuna tomba e individua
nell’apparizione di Gesù il momento in cui i discepoli si convincono che sia
risorto. Altrettanto vale per lo stesso Paolo, che ci crede in seguito a una visione
e non per aver visto una tomba vuota (Galati 1:15-16; 1 Corinzi 15:8).
Diversi episodi evangelici, scritti più tardi, presentano lo stesso punto di vista.
In Marco, il Vangelo più antico, la tomba vuota viene riportata come un «fatto»,
ma — sorprendentemente — nessuno si convince che Gesù sia risorto dopo
averla vista. Ancora più sorprendente è Luca, in cui la storia della tomba vuota
viene liquidata come «un vaneggiare» e non convince nessuno dei discepoli
(24:11), che cambieranno idea solo in seguito all’apparizione di Gesù (24:13-
53). Nel Vangelo di Giovanni, Maria Maddalena è sconcertata dalla scoperta
della tomba vuota, ma pensa che qualcuno abbia spostato il corpo (20:1-13). Per
credere che sia risorto ha bisogno anche lei di un’apparizione (10:14-18).
Tutte queste storie confermano quello che dovrebbe essere la logica a
suggerirci: se qualcuno viene seppellito in una tomba e poi il corpo sparisce, il
fatto in quanto tale non dimostra certo che Dio abbia resuscitato il morto
dall’aldilà. Immagina di sistemare un cadavere in una tomba scavata nella
roccia. Qualche giorno dopo, il corpo scompare. Qual è il tuo primo pensiero?
Non certo «resurrezione», ma «predatori di tombe», «qualcuno ha spostato il
corpo», «devo aver sbagliato tomba» o qualcosa di simile, non «o povero me,
l’hanno esaltato alla destra di Dio!».
Su questo aspetto — e su molti altri, a dire il vero — dissento da quanto scrive
Dale Allison in quella che per il resto è un’ottima discussione della resurrezione
di Gesù. 7 Secondo Allison, le visioni di Gesù avute dai discepoli dopo la sua
morte — sul fatto che le ebbero siamo d’accordo — non potevano convincerli
che fosse risorto fisicamente se loro non potevano verificare che la tomba era
vuota. Una posizione a prima vista abbastanza ragionevole, il problema è che
non tiene conto di chi erano esattamente quei seguaci di Gesù e di cosa
credevano prima della sua morte.
Come abbiamo visto (e su questo Allison concorda), Gesù era un
apocalitticista ebreo convinto che alla fine dell’attuale epoca dominata dal male i
morti sarebbero stati giudicati e resuscitati. Condizione per affrontare il giudizio
era la resurrezione fisica, affinché chi si era schierato con Dio fosse
ricompensato e chi aveva scelto le forze del male fosse punito. Insomma, la vita
nel regno comportava una resurrezione del corpo.
E i discepoli chi erano? Seguaci di Gesù, che naturalmente ne condividevano
il messaggio apocalittico. 8 Se un apocalitticista ebreo del genere si fosse
convinto che la resurrezione dei morti era cominciata — per esempio con
l’esaltazione dell’unto di Dio, il messia —, di che tipo di resurrezione si sarebbe
trattato? Naturalmente e inevitabilmente, di una resurrezione fisica. Per loro
«resurrezione» significava questo: non lo spirito che continua a vivere senza il
corpo, ma la rianimazione e glorificazione del corpo. Se i discepoli si erano
convinti che Gesù fosse risorto, dovevano aver pensato spontaneamente al corpo
riportato in vita. Certo, la tomba doveva essere vuota: come poteva essere
altrimenti — e che bisogno c’era di andare a verificare — se Gesù era di nuovo
fra loro?
Le narrazioni della tomba vuota arrivarono più tardi, dopo il credo in 1
Corinzi 15:3-5 e dopo gli scritti di Paolo. Non appartenevano alla tradizione
antica, insomma, e anche quando iniziarono a essere raccontate e discusse i
cristiani si resero conto che dalla tomba vuota in quanto tale non poteva nascere
la fede, come ci spiegano Marco, Luca e Giovanni. C’era sotto qualcos’altro: le
visioni di Gesù vivo dopo la crocifissione.

Terminologia: cosa sono le «visioni»?

Prima di procedere, occorre un chiarimento terminologico. Cosa intendo quando


dico che quasi certamente alcuni discepoli ebbero «visioni» di Gesù dopo la sua
morte?
Il senso in cui utilizzo il termine non è particolarmente tecnico. Per «visione»
intendo semplicemente qualcosa che viene visto, a prescindere dal fatto che ci
sia davvero o no. In altre parole, non mi esprimo sulla presunta presenza di una
realtà esterna dietro ciò che videro i discepoli. Gli studiosi distinguono le visioni
tra veridiche (corrispondenti alla realtà) e non veridiche (non corrispondenti alla
realtà). A volte di notte vediamo le ombre perché c’è davvero qualcuno, altre
volte è solo un’impressione.
Quanto alle visioni avute dai discepoli, i cristiani tendono ad affermare che
una realtà esterna c’era davvero, ovvero che Gesù si era materializzato sul serio.
Si tratterebbe quindi di visioni veridiche, di autentiche «apparizioni» di Gesù. I
non cristiani le ritengono invece non veridiche: in realtà non c’era nulla, forse si
trattava di visioni di origine psicologica o neurofisiologica, in breve di
«allucinazioni». L’allucinazione è «una percezione che insorge senza che stimoli
sensoriali oggettivi vadano a interagire con i corrispondenti organi di senso, pur
presentando tutte le caratteristiche di sensorialità e di spazialità che connotano le
normali percezioni». 9 È importante osservare che «percezione» non si riferisce
solo alla vista, ma anche agli altri sensi: udito, tatto, olfatto e persino gusto.
Gesù apparve sul serio ai discepoli oppure le loro erano allucinazioni? Non
intendo pronunciarmi in merito, per evitare che il mio ragionamento poggi sulla
veridicità delle visioni. Da agnostico non credo che Gesù sia risorto e di
conseguenza non credo nemmeno che sia «apparso» a chicchessia, ma quanto ho
da dire riguardo alle visioni dei discepoli avrei potuto dirlo anche all’epoca in
cui ero un fervido credente.
Parecchie discussioni sull’argomento si concentrano su quest’unico punto, la
veridicità delle visioni. La maggioranza degli studiosi del Nuovo Testamento è
cristiana, e in quanto tale tende a identificarle come autentiche apparizioni di
Gesù. Tesi del genere vengono perentoriamente formulate in una miriade di testi,
compresi i recenti tomi dell’apologeta Mike Licona e del celebre studioso N.T.
Wright. 10
Non mancano però studiosi neotestamentari altrettanto illustri schierati con
decisione dall’altra parte. Per esempio lo scettico tedesco Gerd Lüdemann,
secondo il quale le visioni sperimentate da Pietro e poi da Paolo erano di origine
psicologica. Alla morte di Gesù il suo corpo si decompose come tutti gli altri,
perciò, essendo il cristianesimo radicato nella resurrezione fisica, secondo
Lüdemann «la fede cristiana è morta come Gesù». 11
E poi abbiamo il defunto Michael Goulder, polemico studioso inglese che
sottolineava le numerose giustificazioni soprannaturali un tempo date a
fenomeni che oggi possiamo spiegare scientificamente: una volta trovata la
ragione scientifica, cade la necessità di averne una soprannaturale. Esempio: nel
Medioevo gli effetti di quella che oggi chiamiamo isteria — paralisi, tremore,
anestesia — venivano attribuiti alla possessione demoniaca, ma oggigiorno
nessun medico si sognerebbe di interpretarli così, perché abbiamo una
spiegazione naturale a ciò che un tempo ne richiedeva una soprannaturale. Un
altro esempio proposto da Goulder risale al 1588, quando le palle di cannone
inglesi non riuscirono a fare breccia nelle lontane navi dell’Invincibile Armata.
Un capitano inglese dichiarò che era «colpa dei nostri peccati», ma quando le
navi spagnole si avvicinarono le palle andarono a segno: una spiegazione
naturale (la prossimità relativa) che soppiantava quella religiosa («colpa dei
nostri peccati»), rendendola inutile. Secondo Goulder, altrettanto vale per le
visioni dei discepoli. Se troviamo delle spiegazioni naturali — allucinazioni di
origine psicologica, per esempio — quelle soprannaturali perderanno la loro
ragion d’essere. 12
Questi dibattiti fra credenti e non credenti mi affascinano, ma sono irrilevanti
ai nostri scopi. Che le visioni avute dai discepoli fossero veridiche o no, l’esito
non cambia: furono le visioni a convincerli che Gesù era risorto. Ecco perché
tendo a pensarla come Dale Allison:
La situazione è tale, a mio parere, che nulla impedisce a uno storico
coscienzioso di prescindere contemporaneamente dagli assunti teologici e anti-
teologici, paranormali e anti-paranormali, per limitarsi a adottare un approccio
fenomenologico ai dati, che di per sé non richiedono agli storici alcuna
particolare interpretazione. Sarebbe un peccato storico accontentarsi di osservare
che le esperienze dei discepoli, allucinatorie o no che fossero, erano esperienze
autentiche che almeno loro ritenevano di origine non soggettiva? 13
Io non credo affatto che sarebbe un peccato sospendere il giudizio sugli
stimoli esterni, veridici o no che fossero, permettendo a credenti e non credenti
di trovare un terreno comune per poter discutere del significato di quelle
esperienze. È esattamente questo il mio obiettivo.
Chi ebbe le visioni? La «tradizione del dubbio»

In merito al significato delle visioni di Gesù, sorge immediato un interrogativo


cruciale al quale non credo che gli studiosi abbiano dedicato la dovuta
attenzione. Come mai abbiamo una tradizione così forte e ampia di discepoli che
dubitavano della resurrezione nonostante le apparizioni di Gesù? Se Gesù si era
ripresentato vivo dopo la crocifissione e aveva parlato con loro, che motivo c’era
di dubitare?
A rendere la questione così fondamentale è il fatto che, come vedremo, le
ricerche moderne dimostrano che chi le sperimenta crede quasi sempre alle
visioni. Chi ha una visione, per esempio di una persona cara scomparsa, è
profondamente convinto di aver visto sul serio quella persona. E allora perché
non tutti credevano alle visioni di Gesù? O meglio, perché ne dubitavano così
regolarmente?
Nel Vangelo di Marco Gesù non appare a nessuno, mentre lo fa in Matteo,
Luca, Giovanni e negli Atti degli Apostoli. In pochi ci fanno caso, ma in tutti
questi brani si afferma espressamente che i discepoli dubitavano della
resurrezione di Gesù.
In Matteo 28:17 Gesù appare agli undici discepoli, ma alcuni «dubitarono».
Perché mai, se Gesù è davanti a loro? In Luca 24 — come abbiamo visto — le
donne annunciano che Gesù è risorto, ma i discepoli lo considerano un
vaneggiamento e non ci credono (24:10-11). Persino quando appare Gesù deve
«dimostrare» di non essere uno spirito chiedendo ai discepoli di toccarlo. Ma
nemmeno questo basta: per convincerli definitivamente deve mangiare un pezzo
di pesce (24:37-43). Nel Vangelo di Giovanni, Pietro e il cosiddetto «discepolo
che Gesù amava» non credono a Maria Maddalena riguardo alla tomba vuota e
devono controllare con i loro occhi (20:1-10). Ma soprattutto, il testo lascia
chiaramente intendere che quando vedono Gesù non credono che sia proprio lui,
costringendolo a mostrare le mani e la ferita nel costato (20:20). Altrettanto vale
per Tommaso, i cui dubbi si dissipano solo quando Gesù lo invita a esaminare le
sue ferite (20:24-28).
Abbiamo poi uno dei versetti più sconcertanti dell’intero Nuovo Testamento.
Atti 1:3 narra che dopo essere risorto Gesù passò quaranta giorni — quaranta
giorni! — con i discepoli per convincerli che era vivo «con molte prove». Molte
prove? Di quante prove avevano bisogno, esattamente? E Gesù ci mise quaranta
giorni a convincerli?
Strettamente associate a queste tradizioni del dubbio sono le scene
evangeliche in cui Gesù appare ai discepoli ma loro non lo riconoscono. È il
leitmotiv della famosa storia dei due discepoli sulla strada per Emmaus (Luca
24:13-31), che non si rendono conto di aver appena parlato con Gesù e non lo
riconoscono finché non spezza il pane insieme a loro. In Giovanni 20:14-16
Maria Maddalena è la prima a vedere Gesù risorto, ma al principio lo scambia
per il giardiniere. Più avanti (Giovanni 21:4-8) Gesù appare ai discepoli mentre
stanno pescando, ma nessuno lo riconosce finché a farlo non è il discepolo che
Gesù amava.
Come interpretare queste storie? Alcuni sostengono che se si trattasse di vere
e proprie «visioni» non ci sarebbe da meravigliarsi dei forti dubbi mostrati dai
discepoli. Una tesi interessante, ma come già detto — e come vedremo più in
dettaglio — chi ha le visioni tende a non dubitare di quanto ha visto. L’aspetto
più sorprendente delle esperienze visionarie documentate in contesti diversi è
che chi le ha vissute afferma sistematicamente e categoricamente che sono vere.
Vale per ogni tipo di visione: persone care che non ci sono più (a volte la gente
sostiene di aver parlato con loro, o di averle abbracciate), figure religiose come
la Beata Maria Vergine (impressionante è il numero di visioni documentate),
rapimenti da parte degli UFO. 14 Chi ha le visioni ci crede sul serio, ma a
quanto pare molti discepoli non ci credettero prima di ottenere delle «prove».
La mia ipotesi è che almeno tre o quattro persone ebbero visioni di Gesù dopo
la sua morte. Una di loro era quasi certamente Pietro, perché così ci dicono tutte
le fonti, compresa la più antica, 1 Corinzi 15:5. Non dimentichiamo che Paolo
conosceva Pietro, e se afferma così categoricamente che Gesù gli è apparso
possiamo ritenere che ne sia davvero convinto. Altrettanto significativo è il fatto
che Maria Maddalena abbia un ruolo di primo piano in tutti i brani sulla
resurrezione ma sia pressoché assente altrove. Nell’intero Nuovo Testamento
viene nominata una volta sola, in relazione a Gesù durante il suo ministero
pubblico (Luca 8:1-3), eppure è sempre la prima ad annunciare la resurrezione.
Perché? Una spiegazione plausibile è che anche lei avesse avuto una visione di
Gesù.
Queste tre persone — Pietro, Paolo e Maria — dovevano aver raccontato le
loro visioni. Forse anche altri (per esempio Giacomo, fratello di Gesù) ne
avevano avute, ma è difficile accertarlo. Ascoltandole, molta gente finì per
convincersi che Gesù fosse risorto davvero, ma è possibile che qualcuno dei
primi discepoli non ci credesse. Il che spiegherebbe la forte tradizione del
dubbio nei Vangeli e l’insistenza (in Luca, Giovanni e soprattutto negli Atti) sul
fatto che Gesù doveva «dimostrare» di essere risorto pur trovandosi di fronte ai
discepoli. Se furono in pochi ad avere le visioni e solo alcuni ci credettero, dal
punto di vista storico questo spiegherebbe molte cose. Maria, Pietro e Paolo non
dubitavano di quanto avevano visto, ma altri sì. Tuttavia, man mano che
venivano ripetute, era inevitabile che le storie delle «apparizioni» venissero
abbellite, amplificate e persino inventate: fu così che, probabilmente nel giro di
pochi anni, iniziò a girare voce che tutti i discepoli, e non solo alcuni, avevano
visto Gesù dopo la sua morte.

Le visioni: una prospettiva più ampia

Abbiamo detto che la veridicità delle visioni di Gesù non è rilevante ai nostri
scopi, ma per approfondire l’argomento è necessario conoscere la posizione
degli studiosi al riguardo. Le ricerche serie tendono a concentrarsi sulle
esperienze visionarie non veridiche, per una ragione evidente: non c’è molto da
scoprire su chi vede cose che esistono davvero. Perché e in che modo, invece,
certe persone vedono cose che non ci sono? Per comprendere a fondo le prime
testimonianze sulle visioni di Gesù avute dai discepoli occorrerà esaminare
quanto altri hanno detto a proposito delle loro esperienze.
Un’analisi autorevole è quella offerta dallo psicologo Richard Bentall
nell’articolo Hallucinatory Experiences. 15 Secondo Bentall, il primo tentativo
di accertare se fosse possibile avere visioni non veridiche senza soffrire di
disturbi fisici o mentali risale alla fine dell’Ottocento. Intervistando 7.717
uomini e 7.599 donne, un certo H.A. Sidgewick scoprì che il 7,8 per cento dei
primi e il 12 per cento delle seconde dichiaravano di aver avuto almeno
un’esperienza allucinatoria vivida. Gli oggetti delle visioni erano perlopiù
persone assenti in quel momento, mentre alcune allucinazioni erano di natura
religiosa e soprannaturale. La fascia d’età più soggetta alle visioni era compresa
fra i venti e i ventinove anni.
Il primo studio davvero moderno, con metodi di analisi oggi accettati dalle
scienze sociali, fu condotto nel 1968 da P. McKellar. Una persona «normale» su
quattro sosteneva di aver avuto almeno un’esperienza allucinatoria. Quindici
anni dopo, T.B. Posey e M.E. Losch si dedicarono alle allucinazioni uditive
(persone che sentono le voci senza vedere nessuno): la bellezza del 39 per cento
dei 375 studenti intervistati riferì di averle sperimentate.
L’indagine più ampia rimane quella condotta da A.Y. Tien nel 1991 su 18.572
persone. Sorprendentemente, il 13 per cento dei soggetti riferì di aver avuto
almeno un’allucinazione vivida, un dato molto vicino a quello ottenuto da
Sidgewick quasi un secolo prima utilizzando metodi meno scientifici. Si noti che
il rischio di schizofrenia nella popolazione generale è stimato attorno all’1 per
cento: in altre parole, le persone che sperimentano allucinazioni sono oltre dieci
volte più numerose di quelle che soffrono di schizofrenia.
Come spiegare numeri così importanti? Secondo Bentall, la capacità di
distinguere fra eventi auto-generati (sensazioni immaginarie prodotte dalla
mente) ed etero-generati (indotti da cause esterne alla mente) è una facoltà
acquisita, e in quanto tale «soggetta a venire meno in determinate
circostanze». 16 È il cosiddetto source monitoring, la capacità di identificare
l’origine di una sensazione, interna o esterna alla mente. Le valutazioni di source
monitoring, a parere di Bentall, sono influenzate dalla cultura in cui è cresciuto il
soggetto: se una persona crede ai fantasmi o alle apparizioni dei morti, le
probabilità che identifichi come un fantasma o un defunto ciò che ha «visto»
sono ovviamente maggiori. Inoltre — e questo è un aspetto fondamentale — lo
stress e il coinvolgimento emotivo possono avere serie ripercussioni sul source
monitoring. È più facile che questa capacità sia pesantemente compromessa in
chi è vittima di stress, dolore, traumi o angoscia.
Forse è per questo che le due forme di allucinazioni più comuni coinvolgono
le persone amate che non ci sono più e alte figure religiose. Certo, esistono
visioni di ogni genere, alcune indotte da uno squilibrio mentale o dall’uso di
stimolanti o allucinogeni, come documentato splendidamente nel libro
Allucinazioni di Oliver Sacks. Ma in assenza di disturbi mentali e consumo di
LSD, le visioni risultano più frequenti in chi vive un lutto o sperimenta una forte
esaltazione religiosa.

Visioni provocate dal lutto

Esistono numerose ricerche sulle visioni provocate dal lutto. Tra i risultati più
sorprendenti c’è il fatto che quasi sempre chi le sperimenta le ritiene
assolutamente veridiche: il defunto è tornato sul serio a trovarlo. Gli osservatori
esterni tendono a identificarle come allucinazioni ma, come nel caso delle
visioni del Gesù storico, io non vedo la necessità di prendere posizione al
riguardo.
Certi aspetti di queste visioni sono utili per comprendere le «apparizioni» di
Gesù, il quale, dopo tutto, era una persona amata morta tragicamente e
all’improvviso, e in quanto tale oggetto di un lutto profondo. Come sottolinea
Dale Allison, le ricerche mostrano che le visioni provocate dal lutto implicano di
norma la sensazione che la persona amata sia ancora presente, addirittura nella
stessa stanza di chi la piange. 17 Le visioni sono più frequenti in chi prova un
senso di colpa nei confronti del defunto (non dimentichiamo che tutti i discepoli
avevano tradito o rinnegato Gesù, oppure lo avevano abbandonato nel momento
del bisogno), e spesso sono accompagnate da rabbia nei confronti delle
circostanze o delle persone che hanno causato la morte del loro caro (altra
evidente analogia con i discepoli di Gesù). Curiosamente, quando una persona
amata scompare, chi rimane in vita la idealizza, attenuandone gli aspetti
problematici o ricordando solo quelli positivi. Non di rado, chi è in lutto cerca
conforto in altre persone che ricordano il defunto e raccontano storie su di lui. Di
nuovo, innegabile è il parallelo con il caso di Gesù, maestro adorato e morto
prematuramente.
Particolarmente interessanti sono i risultati relativi a quelle che Bill e Judy
Guggenheim definiscono «comunicazioni post-mortem». 18 Va detto che gli
autori non sono psicologi né specialisti in altri settori rilevanti per lo studio
scientifico delle visioni, perciò l’analisi dei loro risultati è inutilizzabile a scopi
accademici, ma i dati in quanto tali sono significativi e preziosi: dopo aver
intervistato più di 3.300 persone che sostenevano di essere state contattate da un
defunto, i Guggenheim hanno pubblicato numerosi resoconti dell’indagine.
Ribadisco che si tratta di prove aneddotiche, ma non per questo meno
affascinanti e utili in quanto spaccato dell’esperienza delle visioni.
Le interviste dimostrano che le visioni si presentano durante la veglia così
come nel sonno, ma anche quando avvengono in sogno sono quasi sempre
interpretate come segno che il defunto è tornato veramente dall’aldilà. Spesso
accade appena dopo la sua morte, ma talvolta passano anche uno, tre, dieci o più
anni. Sistematicamente o quasi, le visioni comunicano a chi le sperimenta un
senso di tranquillità e rassicurazione riguardo al defunto, che non sempre è un
familiare: può essere un amico, o comunque una persona cara.
Stando alla lunga esperienza dei Guggenheim, le comunicazioni post-mortem
sembrano verificarsi più di frequente nel caso di persone soggette a un forte
stress psicofisico causato in particolare da una morte imprevista o tragica.
L’elemento chiave è il profondo lutto in seguito al quale il defunto si mette in
contatto con chi lo piange. Assai sorprendente è il fatto che molti dei soggetti
intervistati dai Guggenheim non avevano mai sentito parlare delle
comunicazioni post-mortem prima di averle sperimentate di persona. A renderle
così convincenti era proprio il loro carattere improvviso, inaspettato e vivido.
Confrontare queste esperienze moderne con quelle avute dai discepoli di Gesù
non rientra negli obiettivi dei Guggenheim, ma per uno studioso del primo
cristianesimo le analogie sono lampanti. L’amatissimo maestro — quello per cui
avevano rinunciato a tutto, dedicandogli la loro vita — era stato
improvvisamente e brutalmente portato via ai suoi discepoli per essere umiliato,
torturato e crocifisso in pubblico. Secondo le prime testimonianze, i discepoli
avevano svariate ragioni per sentirsi in colpa e vergognarsi di aver abbandonato
Gesù, sia in vita che nel momento del bisogno supremo. Subito dopo — e chissà
per quanto altro tempo — alcuni di loro ebbero l’impressione di averlo visto
risorto. Profondamente rincuorati dalla sua presenza, avevano percepito il suo
perdono. Non si aspettavano quelle visioni, talmente vivide e improvvise da
convincerli che il loro adorato maestro fosse ancora in vita.
Non parliamo però dei soggetti intervistati dai Guggenheim in epoca moderna,
ma dei seguaci di Gesù, antichi apocalitticisti ebrei. Oggi chi è convinto che una
persona cara sia tornata in vita tende a pensare che la sua anima sia salita in
cielo, perché questa è la versione moderna dell’oltretomba. In quanto ebrei
apocalittici, i discepoli pensavano che la vita dopo la morte implicasse una
resurrezione del morto. Vedendo Gesù risorto, non potevano non interpretare la
sua nuova vita alla luce delle loro profonde convinzioni: era tornato fisicamente
dall’aldilà.

Visioni di alte figure religiose

Ancora più rilevanti ai nostri scopi sono le visioni di grandi figure religiose del
passato, tra le meglio documentate a nostra disposizione. Segue una breve
rassegna delle «apparizioni» della Beata Vergine Maria e di Gesù stesso nel
mondo moderno.

La Beata Maria Vergine


Il teologo cattolico René Laurentin è un esperto di apparizioni moderne e ha
scritto vari libri sull’argomento. 19 Laureato in filosofia alla Sorbona di Parigi,
un dottorato in filosofia e uno in letteratura, è profondamente e sinceramente
convinto che Maria — la madre di Gesù, morta duemila anni fa — non abbia
mai smesso di apparire alla gente nel mondo. Ecco due esempi dai suoi scritti.
A Finca Betania, in Venezuela, viveva María Esperanza Medrano de
Bianchini, una donna dotata di poteri spirituali straordinari: sapeva predire il
futuro, levitare e guarire i malati. A partire dal marzo del 1976, la Vergine Maria
le era apparsa diverse volte. L’episodio più strabiliante risale alla mattina del 25
marzo 1984, quando al termine della messa María si recò a una cascata insieme a
varie altre persone. Sopra la cascata si materializzò la Vergine Maria, e tutti la
videro. Le apparizioni in quel punto si moltiplicarono: spesso duravano attorno
ai cinque minuti, l’ultima volta ben mezz’ora. Tra gli osservatori c’erano medici,
psicologi, psichiatri, ingegneri e avvocati. La gente cominciò ad arrivare nel fine
settimana per fare il picnic. A volte erano in un migliaio ad avvistare Maria,
baciata dal sole e accompagnata da un profumo di rose. Le apparizioni
continuarono fino al 1988. Monsignor Pío Bello Ricardo, vescovo gesuita e
professore di psicologia alla Universidad Central de Venezuela, si convinse della
veridicità delle visioni dopo aver intervistato 490 persone che sostenevano di
aver visto Maria alla cascata di Finca Betania.
Il secondo esempio ebbe luogo nel 1986 in una chiesa copta al Cairo, in
Egitto. Maria vi era già apparsa varie volte a partire dal 1983, una delle quali sul
tetto. Quattro vescovi copti dichiararono la visione autentica: era proprio lei.
Altre volte furono dei musulmani — non cristiani, quindi — a vederla, e in
alcuni casi fu addirittura fotografata. Laurentin sostiene di avere una fotografia
di un’apparizione del 1968 in un altro sobborgo copto. Non intendo affermare
che Maria sia apparsa davvero in quei momenti e in quei luoghi, ma sottolineare
che la gente ci crede profondamente. E non parlo solo di individui che potremmo
liquidare come «creduloni», ma anche di persone dalle quali potremmo
aspettarci un atteggiamento più critico. Vari libri raccolgono i resoconti delle
visioni di Maria, per esempio Meetings with Mary: Visions of the Blessed
Mother di Janice Connell (1995). In quattordici capitoli, Connell descrive — dal
punto di vista di una credente — visioni documentate nell’Otto-Novecento in
luoghi come Lourdes (Francia), Fatima (Portogallo), Garabandal (Spagna) e
Medjugorie (Bosnia-Erzegovina). Abbiamo per esempio il «miracolo cosmico
del sole», verificatosi a Fatima il 13 ottobre 1917. Racconta Connell che il sole
fu visto ruotare vorticosamente e precipitare verso la terra per poi fermarsi e
tornare al suo posto, irradiando colori di una bellezza indescrivibile. Oltre
cinquantamila persone furono testimoni del miracolo.
Accadono davvero, questi miracoli? I credenti dicono di sì, i non credenti
dicono di no. C’è però un aspetto curioso che vale la pena di sottolineare: chi
professa una religione tende a mettere in risalto le «prove» dei miracoli in cui
crede e a ignorare del tutto quelle dei miracoli appartenenti a tradizioni religiose
diverse, per quanto a conti fatti siano «prove» dello stesso genere (testimonianze
oculari, per esempio) e magari persino più numerose. Gli apologeti protestanti
impegnati a «dimostrare» la resurrezione di Gesù applicano di rado il loro acume
storico all’esaltazione della Beata Maria Vergine.

Le apparizioni di Gesù nel mondo moderno


Gesù appare ancora oggi alla gente, come documentato in Visions of Jesus:
Direct Encounters from the New Testament to Today di Phillip H. Wiebe
(1997). 20
Wiebe esamina ventotto casi dal punto di vista psicologico, neuropsicologico,
mentalistico e così via. Tra questi c’è la storia di Hugh Montefiore, illustre
studioso del Nuovo Testamento alla Cambridge University e poi vescovo
anglicano, convertitosi dal giudaismo al cristianesimo sedici anni dopo che Gesù
gli era apparso per dirgli di seguirlo: il giovane Montefiore ancora non lo sapeva,
ma era lo stesso invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli nel Nuovo Testamento.
Di particolare interesse sono le presunte apparizioni di Gesù a interi gruppi di
persone. Il caso più affascinante è l’ultimo presentato da Wiebe, quello di
Kenneth Logie, predicatore negli anni Cinquanta in una Pentecostal Holiness
Church a Oakland, in California. Due apparizioni meritano di essere raccontate
nel dettaglio. La prima risale a una sera dell’aprile 1954, mentre Logie era
impegnato in un sermone. Attorno alle ventuno e quindici la porta della chiesa si
aprì, dopodiché Gesù entrò e si avviò verso l’altare sorridendo ai fedeli seduti. A
quel punto passò attraverso il pulpito (non attorno) e posò la mano su quella di
Logie, che — comprensibilmente — crollò a terra. Gesù gli disse qualcosa in
una lingua sconosciuta, e Logie, che aveva capito, si riprese quanto bastava per
rispondergli in inglese. Secondo Wiebe, cinquanta persone assistettero
all’episodio.
Di cose strane ne accadono tutti i giorni, ma cinque anni dopo capitò qualcosa
di ancora più strabiliante. Non solo duecento persone lo videro e lo
confermarono, ma l’episodio, incredibilmente, fu immortalato su pellicola. La
ragione, spiegava Logie, era che avevano cominciato a riprendere le funzioni
nella speranza di documentare i fenomeni inspiegabili che si verificano in chiesa.
Nel 1965 lo stesso Wiebe vide il filmato. Una donna che stava dando la sua
testimonianza scomparve all’improvviso e venne sostituita da una figura
maschile. Si trattava chiaramente di Gesù: sandali ai piedi, luccicante veste
bianca, i segni dei chiodi sulle mani, le mani gocciolanti d’olio. Dopo parecchi
minuti, durante i quali a quanto pare non disse nulla, la figura svanì e riapparve
la donna.
Sfortunatamente, quando Wiebe decise di scrivere il libro, ventisei anni circa
dopo aver visto il filmato, quest’ultimo era scomparso. Logie sosteneva che lo
avessero rubato, ma Wiebe riuscì a rintracciare e intervistare cinque persone che
avevano assistito all’episodio. C’erano poi le fotografie degli altri bizzarri eventi
verificatisi nella chiesa nel 1959: sulle pareti erano apparse immagini di mani,
cuori e croci da cui sgorgava un liquido oleoso e profumato. Uno scettico
esaminò le pareti, ma non trovò spiegazioni naturali (niente finestre nascoste o
quant’altro). Wiebe aveva visto le fotografie.
Gli scettici potrebbero far notare che fra i presunti episodi negli anni
Cinquanta e la scrittura del libro di Wiebe erano trascorse varie decine d’anni, il
che rende lecito dubitare dell’accuratezza delle testimonianze. Ma Wiebe
sottolinea che si tratta più o meno dello stesso lasso di tempo intercorso fra la
vita di Gesù e la sua ricostruzione nei primi Vangeli.
Le visioni di Gesù avute dai discepoli

Torniamo ora alle visioni sperimentate dai discepoli. Secondo alcuni apologeti
cristiani, la spiegazione storica più ragionevole è che Gesù fosse apparso
davvero ai suoi seguaci. Gli storici possono affermare che un miracolo ha
probabilmente avuto luogo? La risposta è no, come abbiamo visto, ma
accantoniamo la questione per un attimo. Gli apologeti sostengono che le visioni
devono essere veridiche perché le «allucinazioni di massa» sono impossibili: se
Paolo dice che «cinquecento fratelli» videro Gesù nello stesso momento, non è
concepibile che se lo fossero immaginato tutti e cinquecento. L’argomento ha
una sua validità, ma va sottolineato che Paolo è l’unico a raccontare l’episodio:
se era accaduto davvero — o anche solo se era opinione comune che fosse
accaduto — è difficile spiegare come mai non ne troviamo traccia nei Vangeli,
specie in quelli più tardi come Luca e Giovanni, intenti com’erano a
«dimostrare» la resurrezione fisica di Gesù. 21 A parte ciò, a ben vedere,
l’opinione prevalente è che le allucinazioni di massa siano tutt’altro che
impossibili. Tanto per fare un esempio, gli evangelici conservatori che rifiutano
la teoria delle allucinazioni di massa sono gli stessi che negano che la Beata
Maria Vergine sia mai apparsa a centinaia o migliaia di persone
contemporaneamente, a dispetto delle testimonianze oculari.
Secondo gli apologeti, un’allucinazione non avrebbe potuto produrre lo stesso
risultato delle visioni di Gesù: una trasformazione morale e personale completa
dei discepoli. Ma anche questa posizione è insostenibile. Per essere efficace —
per alleviare il senso di colpa o la vergogna, per offrire conforto, per restituire la
voglia di vivere e così via — una visione non deve essere veridica, ma creduta.
Alcuni discepoli credevano fermamente di aver visto Gesù tornato in vita, perciò
conclusero che era risorto. Il che cambiò tutto, come vedremo, ma che Gesù
fosse apparso sul serio o no, questo non influisce in alcun modo sul fatto che i
discepoli così credevano.
Infine, un punto di vista più accademico. Alcuni ritengono che le visioni di
Gesù non avrebbero potuto convincere i discepoli che era risorto, perché il
giudaismo dell’epoca non contemplava la resurrezione individuale prima della
«resurrezione collettiva» alla fine dei tempi, quando tutti sarebbero stati riportati
in vita. Un’altra tesi interessante, ma chi conosce le antiche credenze sulla vita e
sull’oltretomba non può trovarla convincente. Lo stesso Nuovo Testamento ci
dice che Erode Antipa aveva preso Gesù per Giovanni Battista risorto: un’idea
del genere non era quindi implausibile. Negli ambienti ebraici non cristiani,
inoltre, si pensava che l’imperatore Nerone sarebbe tornato dal regno dei morti
per seminare ulteriore scompiglio sulla terra, come documenta un gruppo di testi
giudaici noti come Oracoli sibillini. 22 Che qualcuno risorgesse — si pensi per
esempio a Lazzaro — non era inconcepibile, ma gli apocalitticisti ebrei come
Pietro (il discepolo più fedele), Giacomo (fratello di Gesù) e l’apostolo Paolo
(vissuto in epoca successiva e convinto che Gesù fosse tornato in vita) non
potevano che interpretare una simile eventualità alla luce di convinzioni che
informavano tutto ciò che pensavano di Dio, degli esseri umani, del mondo, del
futuro e dell’oltretomba: chi appariva vivo dopo essere morto doveva essere
stato resuscitato fisicamente da Dio per poter entrare nel nuovo regno. Fu così
che i discepoli interpretarono la resurrezione di Gesù, ed è per questo motivo che
Gesù veniva identificato come «primizia» fra coloro che sono morti (per
esempio in 1 Corinzi 15:20): perché fu il primo a risorgere, e presto tutti gli altri
lo avrebbero seguito. In questo senso, la sua resurrezione rappresentava davvero
l’inizio della resurrezione collettiva.
A conti fatti, la fede nella resurrezione di Gesù «funziona» in ogni caso, che le
visioni fossero veridiche o no. Se lo erano, si spiegano con il fatto che Gesù era
risorto. 23 Se non lo erano, sono facilmente spiegabili in altro modo. I discepoli
erano profondamente in lutto per la persona che più amavano, morta in maniera
improvvisa, inaspettata e quanto mai violenta. Forse provavano rimorso per
come si erano comportati con lui, specie nelle concitate ore appena prima della
sua morte. «Incontri» del genere non sono affatto inauditi in circostanze simili,
anzi, sono più probabili. Quale che sia la verità, a mio parere, gli storici non
possono «dimostrarla».

La nascita della fede


Se non possiamo dimostrare né smentire la storicità della resurrezione di Gesù, è
invece sicuro che alcuni seguaci cominciarono a credere alla resurrezione: è
questo il punto di svolta per la cristologia, un termine che — come abbiamo
visto — significa «interpretazione di Cristo». La tesi di questo capitolo, e in
definitiva di questo libro, è che cristologicamente parlando la fede nella
resurrezione cambiò ogni cosa. Prima di credere che fosse risorto, i discepoli di
Gesù lo ritenevano un grande maestro, un predicatore apocalittico e
probabilmente il prescelto come re del futuro regno di Dio. Poiché lo seguivano
senza riserve, dovevano accettare senza riserve i suoi insegnamenti: come lui,
erano convinti di vivere in un’età dominata dal male. Ma di lì a poco Dio
avrebbe inviato sulla terra un giudice cosmico, il Figlio dell’Uomo, per
distruggere le forze che rendevano la vita così insopportabile in questo mondo e
istituire un regno del bene, un luogo utopico controllato da Dio tramite il suo
messia. Ogni discepolo avrebbe avuto un trono su cui sedersi per governare il
regno, e a Gesù sarebbe andato il trono più grande, quello del messia di Dio.
Soltanto che era umano. Certo, era un grande maestro, un predicatore
carismatico, addirittura il figlio di Davide destinato a governare il futuro regno.
Però era un uomo, nato e cresciuto come gli altri uomini, non diverso da loro
quanto a natura, solo più saggio, spirituale, perspicace e giusto. Più divino,
insomma, ma non era «Dio» in nessuna delle accezioni antiche del termine.
La fede nella resurrezione cambiò tutto. Quando si convinsero che Dio aveva
resuscitato Gesù dai morti, i discepoli non la interpretarono come una delle tante
resurrezioni che troviamo nelle tradizioni giudaiche e cristiane. La Bibbia
ebraica racconta che Elia riportò in vita un giovane (1 Re 17:17-24), ma quel
giovane continuò a vivere sulla terra e infine morì. A un’epoca successiva
risalgono le storie di Gesù che resuscita la figlia di Iairo (Marco 5:21-43), ma
anche lei è destinata a invecchiare e morire. Altrettanto dicasi per Lazzaro,
l’amico che Gesù fa risorgere (Giovanni 11:1-44). Sono tutti esempi di corpi
risorti per vivere e morire di nuovo, il corrispettivo antico delle esperienze di
premorte.
Ma non è questo che i discepoli credevano a proposito di Gesù, e la ragione è
chiara. Gesù era tornato dall’aldilà, ma non per vivere nuovamente insieme a
loro. Di lui non c’era traccia. Non aveva ricominciato a predicare sulle colline
della Galilea. Non era ricomparso a Cafarnao per proclamare l’imminente
avvento del Figlio dell’Uomo. Non era impegnato in dispute ancora più accese
con i farisei. In termini di presenza tangibile e visibile Gesù non c’era più,
eppure era risorto. E allora dov’era?
Ecco il punto chiave. Sapendo da un lato che Gesù era risorto e dall’altro che
non era più fra loro, i discepoli ne dedussero che era stato esaltato in cielo. Non
era tornato in vita solo perché il suo corpo fosse rianimato, ma perché Dio lo
accogliesse con sé nel regno celeste. Dio lo aveva innalzato a una posizione e
un’autorità pressoché inaudite. L’idea che Gesù fosse il futuro re del regno, un
messia umano, non era che un assaggio di quanto c’era in serbo per lui. Quanto
fatto da Dio andava ben oltre l’immaginabile: lo aveva portato nella sfera celeste
per concedergli un privilegio divino che mai, a parere dei discepoli, era stato
concesso ad altri esseri umani. Gesù non apparteneva più al regno terreno, era in
cielo accanto a Dio.
Il che spiega la natura delle storie sulla post-resurrezione che i discepoli
cominciarono a raccontare. Gesù non riottenne il suo corpo terreno, ora aveva un
corpo celeste. Nelle prime tradizioni appariva ai discepoli direttamente dal cielo,
e il suo corpo aveva poteri sovrumani. In Matteo, quando le donne si recano alla
tomba il terzo giorno, la pietra è ancora al suo posto. La vedono rotolare via nel
momento in cui arrivano, ma la tomba è vuota: il che significa che il corpo di
Gesù ha attraversato la roccia. In seguito, quando appare ai discepoli, Gesù passa
attraverso le porte chiuse. Solo un corpo celeste è capace di tanto.
Come già detto, nei Vangeli Gesù appare dotato di un corpo celeste già in
vita: quando cammina sull’acqua, per esempio, o quando si trasfigura in un
bagliore splendente davanti ai discepoli. Non dimentichiamo però che i Vangeli
furono scritti decenni dopo, da seguaci che già «sapevano» che Gesù era stato
esaltato in cielo. Con il passare dei decenni i narratori iniziarono a non
distinguere più fra il Gesù dopo la morte — quello esaltato in cielo — e il Gesù
in vita, lasciando che la loro fede determinasse il modo in cui raccontavano le
storie. Guarire i malati, scacciare i demoni, camminare sull’acqua, moltiplicare i
pani, resuscitare i morti: perché Gesù era in grado di compiere miracoli degni di
una divinità umana? Perché gli venivano attribuiti a posteriori da chi già
«sapeva» che non era un semplice mortale, avendolo Dio esaltato in cielo. In
quanto essere celeste, per certi versi Gesù era divino: i narratori ne erano
profondamente convinti, con ovvie ripercussioni sulle storie che raccontavano.
Prima che parole e gesta di quest’uomo divino cominciassero a essere narrate,
i seguaci di Gesù — non appena ebbero le visioni e si convinsero che fosse
risorto — pensarono che fosse stato esaltato in cielo. Le apparizioni avvenivano
dal cielo, perché ora Gesù viveva in cielo, e vi sarebbe rimasto per sempre
insieme a Dio Onnipotente.
Alcune tradizioni successive modificano in modo rilevante questo aspetto.
Oggi la maggior parte dei cristiani crede che Gesù sia morto, che sia risorto il
terzo giorno, che sia apparso — ancora in terra — ai discepoli e che solo a quel
punto abbia avuto luogo l’«ascensione» in cielo. Sta di fatto che di ascensione si
parla in un solo libro del Nuovo Testamento, gli Atti degli Apostoli. 24 L’autore
degli Atti — chiamiamolo Luca — introduce un elemento di novità. Come
abbiamo visto, Luca è particolarmente ansioso di presentare il corpo risorto di
Gesù come un vero corpo in carne e ossa, un corpo che può essere toccato e può
mangiare un pezzo di pesce. Se Luca lo sottolinea è perché altri cristiani
andavano affermando che Gesù, quanto meno dopo la resurrezione, era puro
spirito incorporeo. Luca invece lo riteneva un corpo autentico, e per ribadire il
concetto racconta la storia dell’ascensione, che potrebbe essere farina del suo
sacco. Come sappiamo, secondo gli Atti a Gesù occorsero quaranta giorni e
«molte prove» per convincere i discepoli che era tornato in vita sul serio (1:3).
Passati i quaranta giorni, Gesù salì fisicamente in cielo sotto i loro occhi: un
particolare che mira a evidenziare ulteriormente la natura corporea del Gesù
risorto.
In tal modo, introduce però una discrepanza fra gli Atti e altri passi dei
Vangeli, che nulla dicono dell’ascensione fisica di un corpo vero, in carne e ossa
e capace di mangiare pesce. Secondo la tradizione più antica, la resurrezione non
era stata la semplice rianimazione di un corpo successivamente destinato a salire
in cielo, ma un’esaltazione nel regno celeste. Chi sentiva dire che Gesù era
risorto per mano di Dio pensava a un innalzamento immediato dal regno terreno
della vita e della morte alla sfera celeste. Secondo questa interpretazione, Gesù
era apparso ai discepoli scendendo rapidamente dal cielo. Ne è convinto il nostro
primo testimone, Paolo, che racconta la propria visione di Gesù in termini
identici alle visioni risalenti a due o tre anni prima: Cefa, Giacomo, i Dodici e
così via. Non esistono differenze sostanziali, sono tutte apparizioni che
avvengono dal cielo.
Se i primi a credere nella resurrezione pensavano che Gesù fosse salito
immediatamente in cielo, in che modo questo alterò l’idea che si erano fatti di
lui, segnando l’inizio della cristologia e convincendoli che Gesù era Dio?
È l’argomento del prossimo capitolo, che qui introduciamo brevemente.
Finché Gesù era in vita, i suoi seguaci lo credevano il re del futuro regno, il
messia. Una volta convintisi che era stato esaltato nel regno celeste, si resero
conto che avevano ragione. Era davvero il futuro re, ma per regnare sarebbe
sceso dal cielo. Secondo alcune tradizioni della Bibbia ebraica, come abbiamo
visto, il re giudeo — persino l’umanissimo figlio di Davide — veniva per certi
versi identificato con Dio. Ora che era stato esaltato in cielo, Gesù era diventato
il messia celeste destinato a scendere in terra. In un senso ancora più reale,
insomma, era Dio: non Dio Onnipotente, certo, ma un essere celeste e
sovrumano, futuro sovrano divino delle nazioni.
Prima della sua morte, i discepoli erano convinti che Gesù avrebbe seduto sul
trono del nuovo regno. Se però Dio lo ha portato in cielo, è già seduto su un
trono: niente meno che alla destra di Dio. In terra i discepoli lo consideravano
maestro e «signore»; ora è letteralmente il loro Signore. I discepoli ricordavano
quanto narrato in Salmi 110:1: «Il SIGNORE ha detto al mio Signore: “Siedi alla
mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi”». Dio
aveva esaltato Gesù alla sua destra e gli aveva conferito autorità e potere,
rendendolo Signore di tutti e di ogni cosa. In quanto sovrano seduto accanto al
trono di Dio, da questo punto di vista lo stesso Gesù era Dio.
Il re d’Israele era noto anche come «Figlio di Dio», e Gesù lo era di certo: sia
in quanto futuro re, sia perché Dio lo aveva innalzato al regno celeste. Dio gli
aveva concesso un privilegio che lo rendeva Figlio di Dio in un senso esclusivo,
di gran lunga superiore al rango dei discendenti di Davide. Dio ha adottato Gesù
come suo unico Figlio: proprio come gli imperatori erano al contempo Dio (in
quanto suoi figli adottivi) e dèi, anche Gesù, il figlio di Dio, era in questo senso
Dio.
Gesù, quindi, sarebbe sceso dal cielo per governare la terra. Lui stesso aveva
proclamato l’imminente arrivo di un giudice cosmico, ma ora a ricoprire quel
ruolo era chiaramente lui. In men che non si dica, i discepoli ne dedussero che
Gesù doveva essere il Figlio dell’Uomo. Ecco perché, nelle storie che
cominciarono a raccontare su di lui, Gesù si presenta proprio come Figlio
dell’Uomo, titolo che finirà per attribuirsi spesso e volentieri nei Vangeli. Come
abbiamo visto, a volte il Figlio dell’Uomo veniva interpretato come figura
divina: anche in questo senso, dunque, Gesù era Dio.
Va sottolineato che tutti e quattro questi ruoli esaltati — messia, Signore,
Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo — implicano in un senso o nell’altro che Gesù
sia Dio. Non però — in questa prima fase — Dio Padre: Gesù non è l’unico Dio
Onnipotente, bensì colui che è stato innalzato a una posizione divina, diventando
Dio in una varietà di altri sensi. Come già detto, e come vedremo
dettagliatamente nel prossimo capitolo, all’affermazione che Gesù è Dio va fatta
immediatamente seguire una domanda: in che senso? Ci volle parecchio tempo
perché Gesù diventasse Dio nel senso più completo, pieno e perfetto del termine,
il secondo elemento della Trinità, da sempre uguale a Dio e «della stessa
sostanza» del Padre.

1. Ringrazio Eric Meyers della Duke University, studioso dall’antico giudaismo e archeologo della
Palestina, per avermi fornito privatamente queste informazioni.←
2. NB: non contesto che Paolo e altri fossero convinti che Gesù fosse risorto il terzo giorno. Dico
solo che questa convinzione — importante, perché costituisce una realizzazione di quanto
affermato nelle scritture (vedi il cap. 4) — potrebbe essere sorta settimane se non mesi più
tardi.←
3. Si veda Dale B. Martin (1995), The Corinthian Body, Yale University Press, New Haven, CT.←
4. Per una rassegna relativamente sintetica si veda il mio libro Bart D. Ehrman (2012), I
cristianesimi perduti: apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le sacre scritture, Carocci,
Roma (ed. orig. Lost Christianities: The Battle for Scripture and the Faiths We Never Knew,
2003), capitolo 6. Lo studio più aggiornato e autorevole sull’argomento è David Brakke (2010),
The Gnostics: Myth, Ritual, and Diversity in Early Christianity, Harvard University Press,
Cambridge, MA.←
5. Luigi Moraldi (cur. 2007), Le Apocalissi gnostiche: Apocalissi di Adamo, Pietro, Giacomo,
Paolo, Adelphi, Milano, p. 29.←
6. Si veda la discussione più approfondita alle pagine 268-270.←
7. Dale C. Allison (2005), Resurrecting Jesus: The Earliest Christian Tradition and Its
Interpreters, T & T Clark, New York.←
8. Secondo il mio amico Joel Marcus, studioso del Nuovo Testamento alla Duke, alcuni
apocalitticisti ebrei potrebbero aver sostenuto una posizione alternativa: i morti erano destinati a
una resurrezione spirituale e non fisica. Se è vero, doveva trattarsi di una posizione fortemente
minoritaria di cui non c’è traccia negli insegnamenti di Gesù, il quale al contrario sottolinea che
nel regno ci sarà «da mangiare e da bere», che alcuni verranno «cacciati», e via dicendo. Inutile
precisare che se Gesù (come la maggior parte degli apocalitticisti) era convinto della natura
fisica della futura resurrezione, altrettanto dovevano credere i suoi seguaci.←
9. Salvatore Mazza, Allucinazione in “Universo del Corpo” - Treccani.←
10. Licona 2010; N.T. Wright (2006), Risurrezione, Claudiana, Torino (ed. orig. The Resurrection
of the Son of God, 2003).←
11. Gerd Lüdemann (2004), The Resurrection of Christ: A Historical Inquiry, Prometheus, New
York, 19.←
12. Michael Goulder (1996), The Baseless Fabric of a Vision, in Gavin D’Costa (cur.), Resurrection
Reconsidered, One World, Oxford, 54-55.←
13. Allison 2005:298.←
14. Sulle visioni di Maria si vedano le pagine 172-174; sugli UFO, l’affascinante studio di Susan A.
Clancy (2005), Abducted: How People Come to Believe They Were Kidnapped by Aliens,
Harvard University Press, Cambridge, MA.←
15. Richard P. Bentall (2000), Hallucinatory Experiences, in Etzel Cardeña, Steven J. Lynn e
Stanley Krippner (cur.), Varieties of Anomalous Experience: Examining the Scientific Evidence,
American Psychological Association, Washington, DC.←
16. Bentall 2000:102.←
17. Allison 2005:269-82.←
18. Bill e Judy Guggenheim (1998), Voci dal cielo, Sperling & Kupfer, Milano (ed. orig. Hello from
Heaven!, 1995).←
19. Si veda per esempio René Laurentin (2001), Le apparizioni della Vergine e i più grandi
miracoli della Madonna, Piemme, Milano (ed. orig. Multiplication des apparitions de la Vierge
aujourd’hui: est-ce elle? Que veut-elle dire?, 1988).←
20. Tengo a precisare che Wiebe non è un fanatico religioso, ma il direttore del dipartimento di
filosofia alla Trinity Western University: uno studioso serio, insomma. Ciononostante, in buona
sostanza, è convinto che alla base di alcune delle visioni moderne di Gesù ci sia qualcosa di
«trascendente». In altre parole, che siano — almeno alcune di esse — visioni veridiche.←
21. Non dico che Paolo doveva essersi necessariamente inventato la storia dei cinquecento: poteva
averla ricavata da una tradizione orale. Inoltre, è impossibile ricostruire l’origine di queste
tradizioni, ma capita di continuo, ancora oggi. Non sempre è il risultato di una «menzogna»: a
volte le storie vengono semplicemente amplificate o inventate.←
22. Si veda Mariangela Monaca (cur., 2008), Oracoli sibillini, Città Nuova, Roma.←
23. In questo caso il termine «veridiche» significa non solo che i discepoli videro qualcosa che c’era
davvero, ma anche che si trattava proprio di Gesù.←
24. Alcuni manoscritti del Vangelo di Luca contengono un racconto dell’ascensione in 24:51. In un
mio libro sostengo che probabilmente non si tratta del testo originale, ma di un’aggiunta a opera
di scribi successivi: Bart D. Ehrman (2011), The Effect of Early Christological Controversies on
the Text of the New Testament, 2a edizione, Oxford University Press, New York.←
6. La nascita della cristologia: Cristo esaltato in cielo
Quando diventai un cristiano devoto, al liceo, la mia vita sociale ne risentì
profondamente: non subito, ma a lungo andare. Andavo in seconda — in terza
sarei rinato in Cristo — quando cominciai a uscire con Lynn, la mia prima vera
ragazza. Lynn era meravigliosa, intelligente, bella, spiritosa e attenta. Ed era
ebrea. Forse era la prima persona ebrea che conoscevo, ma a quanto ricordo le
rispettive religioni influivano ben poco sul nostro rapporto. La domenica io
facevo il chierichetto alla chiesa episcopale, il sabato lei andava alla sinagoga. O
almeno così presumo: non ricordo se la famiglia fosse tradizionalmente
religiosa, se partecipasse alle funzioni o osservasse le feste ebraiche. È probabile
che fossero piuttosto laici, ma in ogni caso, all’epoca, i pensieri che facevo sulle
ragazze avevano ben poco a che fare con la religione.
Lynn aveva due sorelle e una madre single. Per me erano una seconda
famiglia — tra la borghesia e l’alta borghesia — con cui condividevo valori e
idee. L’intesa fra me e Lynn era strepitosa: passavamo molto tempo insieme, e in
seconda la cosa si fece seria. A quel punto, però, ecco il disastro. (All’epoca non
mi rendevo minimamente conto della situazione.) La madre di Lynn accettò
un’offerta di lavoro a Topeka, in Kansas, il che significava che la famiglia non
avrebbe più abitato a Lawrence. Ero in ottimi rapporti con lei, ma ciononostante
fu irremovibile: io e Lynn dovevamo smettere di «andare insieme», come
dicevamo ai tempi. Non ci rimaneva che frequentare altra gente e condurre una
normale vita sociale. Ero distrutto, ma la vita doveva continuare.
Di lì a non molto, rinacqui in Cristo. Io e Lynn ci sentivamo ancora al
telefono, qualche volta ci vedevamo anche. Ricordo chiaramente che un giorno,
dopo aver «ricevuto Cristo», tentai di convincere anche lei ad accoglierlo nel suo
cuore. Lynn era comprensibilmente perplessa, anche perché io non avevo la più
pallida idea di cosa stavo dicendo. A lungo mi arrabattai a spiegarle la questione,
e alla fine lei mi chiese: «Ma se ho già Dio nella mia vita, perché dovrei avere
bisogno anche di Gesù?». Quella domanda mi lasciò di sasso, in preda
all’imbarazzo più completo. Evidentemente la carriera teologica non faceva per
me.
La domanda di Lynn non avrebbe però imbarazzato i primi cristiani, che
avevano idee chiarissime su chi era Gesù e perché era così importante. Le
testimonianze storiche ci raccontano che non solo parlavano ininterrottamente di
lui, ma col passare del tempo trovavano cose sempre più esaltanti da dire sul suo
conto, finché non iniziarono a identificarlo con Dio sceso in terra.
Ma cosa dicevano di Gesù i primi cristiani subito dopo essersi convinti che
fosse risorto? In questo capitolo esamineremo le prime cristologie
(interpretazioni di Cristo).

Le credenze dei primi cristiani


Ai nostri scopi, utilizzo il termine «cristiano» nella sua accezione più
elementare: chiunque, dopo la morte di Gesù, si fosse convinto che Gesù era il
Cristo di Dio e avesse deciso di accettare la salvezza da lui offerta e seguirlo.
Non ritengo «cristiano» un attributo adatto ai seguaci di Gesù in vita, mentre lo è
— nel senso illustrato — per chi credeva che fosse resuscitato dai morti e lo
vedeva come il prescelto da Dio per portare la salvezza.
I primi a convincersene furono i discepoli rimasti — o almeno alcuni di loro
— e forse altri seguaci della Galilea, comprese Maria Maddalena e altre donne.
È estremamente difficile ricostruire le loro credenze non appena accettarono
l’idea della resurrezione, soprattutto perché non abbiamo testi scritti — da loro o
altri — risalenti ai primi vent’anni del movimento cristiano.

Le prime fonti cristiane

Il primo autore cristiano a nostra disposizione è l’apostolo Paolo, il cui testo più
antico è probabilmente la Prima Lettera ai Tessalonicesi, forse scritta nel 49-50
e.v.: vent’anni buoni dopo la crocifissione di Gesù. Paolo aveva esordito come
fiero oppositore del movimento. Due o tre anni dopo la morte di Gesù, diciamo
nel 32 o 33 e.v., venuto a sapere che alcuni ebrei erano convinti che Gesù — un
uomo crocifisso! — fosse il messia, Paolo ne respinse categoricamente le idee e
cominciò addirittura a perseguitarli. Tuttavia, in uno dei voltafaccia più
clamorosi della storia religiosa — probabilmente la conversione più importante
di tutti i tempi —, da violento persecutore dei cristiani Paolo si trasformò in uno
dei loro sostenitori più appassionati, finendo per diventare portavoce,
missionario e teologo del nascente movimento. In seguito avrebbe affermato di
essersi convinto che Dio aveva resuscitato Gesù dopo aver visto quest’ultimo
vivo parecchio tempo dopo la sua morte.
Paolo riteneva che Dio lo avesse incaricato personalmente di svolgere attività
missionaria fra i gentili, allo scopo di persuadere quei «pagani» che i loro dèi
erano morti, inanimati e inutili, mentre il Dio di Gesù aveva creato il mondo ed
era intervenuto nella storia per salvarlo. Solo la fede nel messia poteva redimere
gli uomini agli occhi di Dio, perché il messia era morto per i peccati degli altri, e
Dio, per dimostrare che la sua morte aveva portato veramente la redenzione, lo
aveva fatto risorgere. Il maggiore contributo di Paolo alla teologia dell’epoca fu
probabilmente l’appassionata credenza che la salvezza in Cristo fosse alla
portata di tutti, ebrei e gentili, a patto che avessero fede nella morte e
resurrezione di Gesù. Non era necessario essere ebrei. Certo, il «popolo
prescelto» erano loro e le scritture giudaiche erano una rivelazione di Dio, ma un
gentile non doveva diventare giudeo per ottenere la salvezza tramite la morte e
resurrezione del messia. Per Paolo la salvezza proveniva senz’altro «dagli ebrei»
— dopo tutto Gesù era il messia ebraico —, ma era a disposizione del mondo
intero: era lo strumento di salvezza eterna offerto da Dio a tutti i popoli.
In quanto missionario Paolo si spostava da un centro urbano all’altro per
predicare il suo messaggio, fondando chiese in varie parti del Mediterraneo,
soprattutto in Asia Minore (l’odierna Anatolia), Macedonia e Acaia (nell’odierna
Grecia). Avviata una comunità cristiana in una città, andava a fare lo stesso in
un’altra. Quando gli giungevano notizie di problemi in questa o quella comunità,
inviava istruzioni scritte su credenze e comportamenti da adottare. Alcune di
queste sono le lettere di Paolo raccolte nel Nuovo Testamento. Come già detto la
più antica è probabilmente 1 Tessalonicesi, mentre le altre furono scritte nei
dieci anni successivi, dopo il 50. Le lettere a suo nome nel Nuovo Testamento
sono tredici, ma gli studiosi ne attribuiscono con ragionevole certezza a Paolo
solo sette: 1 e 2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1 Tessalonicesi e Filemone (le altre
furono scritte da seguaci di Paolo in epoche successive e contesti diversi). Sono
le cosiddette lettere paoline autentiche, perché quasi nessuno nega che siano
opera di Paolo, 1 e sono i primi scritti di un autore cristiano giunti fino a noi.
Le lettere paoline sono un prezioso documento per conoscere il pensiero
dell’apostolo e il cristianesimo dell’epoca. E se invece non ci accontentassimo di
sapere cosa avveniva nelle chiese fondate da Paolo nel — mettiamo — 55 e.v.,
venticinque anni circa dopo la morte di Gesù, o come la comunità di Matteo
interpretava la figura di Gesù attorno all’85 e.v.? Se volessimo conoscere le
credenze dei primissimi cristiani, diciamo del 31-32, uno o due anni dopo la
morte di Gesù?
Si tratta di un problema serio, perché, come abbiamo visto, non ci sono giunti
testi di quel periodo. Inoltre, l’unica presunta testimonianza della prima fase del
cristianesimo nel Nuovo Testamento sono gli Atti degli Apostoli, scritti attorno
all’80-85 e.v., ovvero — di nuovo — almeno cinquant’anni dopo l’epoca che ci
interessa. Come se non bastasse, l’autore degli Atti, che continueremo a
chiamare Luca, non era diverso dagli altri storici di quei tempi: in altre parole, si
lasciava guidare dalle proprie credenze e interpretazioni, che non potevano non
influire sul modo in cui riferiva gli eventi, gran parte dei quali dovevano
provenire dai narratori cristiani che da tempo raccontavano — modificandole e
arricchendole — le storie degli albori della fede.
Quand’è così, come possiamo ricostruire le prime forme di fede cristiana,
precedenti all’epoca delle fonti più antiche? Un modo c’è, e ha a che fare con
brani evangelici di un genere che abbiamo già incontrato: le tradizioni
preletterarie.

Le fonti «dietro» le fonti: tradizioni preletterarie

Il primo seminario del mio dottorato si intitolava «Credo e inni nel Nuovo
Testamento» ed era tenuto dal professor Paul Meyer, insigne studioso stimato
dai maggiori specialisti dell’epoca per la straordinaria meticolosità esegetica e le
analisi penetranti dei testi evangelici.
L’idea centrale del corso era che certi brani neotestamentari — in particolare
di alcune lettere e degli Atti — contenessero tracce di tradizioni preletterarie
molto più antiche, risalenti ai primi decenni del cristianesimo. Li chiamavano
«inni» e «credo» (ricordiamoci che «preletterario» significa che le tradizioni
venivano formulate e trasmesse oralmente prima di essere messe per iscritto
dagli autori le cui opere ci sono pervenute). Già da tempo gli studiosi
ipotizzavano che alcune di quelle tradizioni (gli inni) venissero cantate durante
le prime funzioni cristiane e che altre (i credo) fossero professioni di fede
recitate in contesti liturgici, per esempio ai battesimi o nel corso delle funzioni
settimanali.
Identificare le tradizioni preletterarie significa aprire una finestra sulle
credenze dei cristiani e su come adoravano Dio e Cristo prima dell’epoca delle
fonti più antiche. È plausibile che alcune di queste tradizioni risalgano ai primi
dieci anni dopo che i seguaci di Gesù si convinsero che era risorto.
Non è semplice distinguere le tradizioni preletterarie negli scritti
neotestamentari, ma di norma esistono parecchi indicatori. Non tutti i credo e gli
inni (e i componimenti poetici) hanno tutte queste caratteristiche, ma le
tradizioni più chiare ne possiedono la maggior parte. Per cominciare, tendono a
essere unità autosufficienti, vale a dire che mantengono una loro coerenza anche
estrapolandole dal contesto in cui sono inserite. Non di rado queste tradizioni
mostrano una struttura complessa: per esempio, possono essere composte da
strofe poetiche con corrispondenze interne fra i versi. In altre parole, possono
essere altamente stilizzate. Inoltre, capita spesso che parole e sintagmi di queste
tradizioni siano utilizzati raramente — se non mai — dagli autori, a riprova che
probabilmente non sono farina del loro sacco. Ancora più sorprendente è il fatto
che spesso le tradizioni preletterarie esprimono posizioni teologiche più o meno
distanti da quelle che troviamo nel resto dell’opera. Tutti questi elementi — lo
stile, il vocabolario, le idee prive di riscontri in altri punti del testo — ci
suggeriscono che le tradizioni in questione non nascono dall’autore. In certi casi,
per giunta, l’unità così identificata non si inserisce armonicamente nel contesto:
l’impressione è che vi sia stata innestata. Se la estrapoliamo e leggiamo il
contesto, spesso la narrazione procede senza intoppi, come se non mancasse
nulla.
Nel capitolo 4 abbiamo analizzato una tradizione preletteraria, 1 Corinzi 15:3-
5. Quel brano soddisfa molti dei criteri illustrati: si tratta di un credo strutturato e
suddiviso in due parti di quattro versi l’una, con corrispondenze precise fra la
prima e la seconda parte; e contiene parole chiave che non troviamo altrove nelle
lettere di Paolo. Quasi certamente, Paolo sta citando un credo precedente.
Gli scritti di Paolo e gli Atti degli Apostoli contengono altre tradizioni
preletterarie, molte delle quali, sorprendentemente, non corrispondono appieno
alle posizioni cristologiche dello stesso Paolo e dell’autore degli Atti. Numerosi
biblisti le ritengono tradizioni molto antiche, 2 tanto che potrebbero essere
indicative delle credenze maturate dai primissimi cristiani quando si convinsero
che Gesù fosse risorto. Il quadro che tracciano è coerente: con la resurrezione,
Cristo è stato esaltato in cielo e trasformato nel Figlio di Dio. Gesù non è quindi
il Figlio di Dio mandato in terra dal cielo, ma l’essere umano esaltato al termine
della sua vita terrena per diventare seduta stante Figlio di Dio, un essere divino.

L’esaltazione di Gesù
Una concezione di Cristo che possiamo rintracciare in quello che probabilmente
è il più antico frammento di credo contenuto nelle lettere di Paolo, oltre che in
vari capitoli degli Atti.

Romani 1:3-4

Troviamo un credo pre-paolino al principio della lettera più lunga e forse più
importante di Paolo. Come abbiamo visto, di norma le lettere dell’apostolo sono
istruzioni inviate alle chiese da lui fondate per aiutarle ad affrontare i problemi
insorti in sua assenza. Unica eccezione è la Lettera ai Romani, dove Paolo
specifica non solo di non essere il fondatore della comunità cristiana in
questione, ma persino di non essere ancora stato a Roma. La sua idea è farvi
tappa a breve durante una missione in Occidente che lo porterà fino in Spagna,
vale a dire la «fine del mondo» per le popolazioni del Mediterraneo. Paolo era
un tipo ambizioso: convinto com’era che Dio lo avesse incaricato di predicare il
vangelo in ogni terra, doveva spingersi fino a dov’era umanamente possibile,
cioè in Spagna.
Gli serviva aiuto, però, e a chi domandarlo se non alla chiesa di Roma? Una
chiesa così grande, situata nella capitale dell’impero, poteva aprirgli le porte
dell’Occidente. Non sappiamo chi l’avesse fondata, né quando. Secondo una
tradizione successiva era stato il discepolo Pietro (il presunto primo vescovo di
Roma, e quindi primo «papa»), ma l’idea appare improbabile: nella lettera, il
primo documento dell’esistenza di una chiesa a Roma, Paolo saluta le varie
persone che conosce nella città, ma Pietro non viene mai nominato. Difficile
immaginare che ci fosse anche lui, e che per giunta fosse a capo di quella chiesa.
L’obiettivo della Lettera ai Romani è cercare sostegno per la missione. Le
ragioni di un appello così lungo vengono illustrate nel corso della lettera stessa. I
cristiani di Roma sanno molto poco della missione di Paolo, e per giunta sembra
che abbiano sentito cose preoccupanti sul suo conto. Paolo scrive dunque per
chiarire la sua posizione e spiegare nella maniera più esauriente e approfondita
qual è il vangelo che va predicando. Ecco cosa rende la lettera così preziosa per
noi oggi: non si tratta semplicemente di istruzioni per risolvere un problema
sorto in una delle chiese fondate da Paolo, ma di una chiara esposizione degli
elementi fondamentali del suo messaggio evangelico, nel tentativo di sgombrare
il campo dai malintesi che portavano i cristiani a dubitare di lui.
In un contesto del genere, è importante che un lungo appello inizi con il piede
giusto. Ecco dunque come si apre la lettera di Paolo:
1
Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio, 2 che egli
aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture riguardo al Figlio suo, nato 3 dalla
stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio 4 con potenza secondo lo Spirito di santità
mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore.

Come in tutte le altre lettere, Paolo esordisce presentandosi per nome e


spiegando chi è: lo schiavo e apostolo di Cristo, consacrato al vangelo. Può darsi
che lo dica perché alcuni avversari lo accusavano di essere un falso apostolo
egocentrico, un pallone gonfiato, quando in realtà si è messo al servizio di Cristo
per diffonderne il verbo. Il vangelo, sottolinea Paolo, rappresenta la
realizzazione dei proclami delle scritture ebraiche. Si tratta di un aspetto
fondamentale, come emergerà dal resto della lettera, perché gli avversari lo
accusavano di predicare un vangelo antigiudaico. Paolo sosteneva che i gentili
potevano redimersi agli occhi di Dio senza diventare giudei, ma questo non
minava il privilegio degli ebrei in quanto popolo prescelto da Dio? Non privava
il vangelo delle sue radici giudaiche? Non secondo Paolo, perché il vangelo è
esattamente la buona novella annunciata dai profeti nelle sacre scritture ebraiche.
A questo punto Paolo chiarisce qual è lo scopo del vangelo, e qui, nei versetti 3-
4 all’inizio della lettera, troviamo una professione di fede che da tempo gli
studiosi identificano come citazione di un credo preletterario.
A differenza del resto del primo capitolo della Lettera ai Romani, questi due
versetti possiedono una struttura compatta e formano due unità di pensiero in cui
le tre asserzioni della prima corrispondono alle tre asserzioni della seconda:
proprio come nel brano della Prima Lettera ai Corinzi che abbiamo esaminato
nel capitolo 4. Subito prima del credo, Paolo ci informa che esso riguarda il
Figlio di Dio, subito dopo che riguarda «Gesù Cristo, nostro Signore». Se li
estrapoliamo e li disponiamo in forma poetica, i versetti compresi fra queste due
indicazioni assumono il seguente aspetto:
A1 Nato dalla stirpe
A2 di Davide
A3 secondo la carne,
B1 dichiarato
B2 figlio di Dio con potenza
B3 secondo lo spirito di santità mediante la risurrezione dai morti

La prima asserzione di quella che abbiamo chiamato unità A corrisponde alla


prima asserzione dell’unità B: Gesù nato (da Davide), Gesù dichiarato (Figlio di
Dio). Lo stesso vale per la seconda asserzione: stirpe di Davide (= il messia
umano), Figlio di Dio con potenza (= Figlio divino esaltato). E per la terza:
secondo la carne, secondo lo Spirito Santo. B3 è più lunga di A3 perché «la
carne» comprende sia il regno terreno in cui Gesù esisteva che il mezzo tramite
il quale vi era venuto alla luce: la nascita come essere umano. Il tutto è avvenuto
«secondo la carne». Per rendere evidente la contrapposizione, l’autore del credo
— chiunque fosse — aveva nuovamente bisogno di citare il regno e il mezzo
tramite cui Gesù vi era entrato: il regno dello Spirito Santo e la resurrezione dai
morti. Se A3 dice che Gesù prese vita nel mondo in quanto messia, B3 dice che
tornò in vita nel regno spirituale in quanto potente Figlio di Dio. Le uniche
parole del credo che appaiono superflue per le corrispondenze fra le due unità
sono «con potenza»: è opinione diffusa tra gli studiosi che siano un’aggiunta di
Paolo. 3
Il Gesù che emerge da questo credo non è semplicemente il messia umano né
semplicemente il Figlio di Dio Onnipotente. È entrambe le cose, in due fasi
distinte: dapprima è il messia davidico predetto dalle sacre scritture, quindi
diventa il Figlio divino esaltato.
Che si tratti di un credo pre-paolino citato dall’apostolo è opinione degli
studiosi da lungo tempo. Per cominciare, come abbiamo appena visto, possiede
una struttura compatta, senza una parola di troppo: nulla a che vedere con la
tipica scrittura prosastica e con le altre affermazioni fatte da Paolo nel contesto.
Inoltre, pur essendo molto breve, il brano contiene parole e idee che non
troviamo in nessun’altra delle sette lettere paoline autentiche. Per esempio
«stirpe di Davide»: è l’unico caso in cui Paolo presenta Gesù come discendente
del re d’Israele (un attributo essenziale, naturalmente, per il messia terreno).
Altrettanto dicasi per «spirito di santità» invece di Spirito Santo. Quanto a Gesù
che diventa il Figlio di Dio con la resurrezione, Paolo ne parla soltanto qui.
Insomma, per essere due brevi versetti contengono parecchi termini e idee che
divergono dalle posizioni paoline. La spiegazione più naturale è che si tratti della
citazione di una tradizione precedente.
Una tradizione che, per giunta, esprime una concezione di Cristo diversa da
quella illustrata da Paolo in altri scritti, i quali non affermano mai — per
esempio — che Gesù, il messia terreno, discende dal re Davide. Ancora più
sorprendente, come vedremo fra un istante, è l’insistenza sul fatto che Gesù sia
diventato Figlio di Dio proprio con la resurrezione. Per renderci conto che si
tratta della citazione di un credo preesistente, proviamo a estrapolarla dal
contesto: «Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, messo a parte
per il vangelo di Dio, che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti
nelle sante Scritture riguardo al Figlio suo […] Gesù Cristo, nostro Signore». Il
testo scorre perfettamente, come se non mancasse nulla, a riprova che si tratta di
un’interpolazione.
Insomma, tutto lascia pensare che Paolo stia citando una tradizione
precedente. Quanto era antica, e come mai Paolo la cita? È probabile che si tratti
di una delle professioni di fede più antiche rinvenute nei primi scritti cristiani.
Numerosi elementi ci portano a questa conclusione, a cominciare dall’accento
sul Gesù messia umano in quanto discendente di Davide, mai ripetuto altrove da
Paolo. Come abbiamo visto nel capitolo 3, esistono valide ragioni per pensare
che si trattasse di un punto di vista già diffuso fra i seguaci quando Gesù era
ancora in vita: Gesù come colui che avrebbe avverato le profezie messianiche
delle sacre scritture. I primi discepoli ne rimasero convinti anche dopo la sua
morte. Ai loro occhi la resurrezione rappresentava una conferma che, per quanto
Gesù non avesse sconfitto i suoi nemici politici — come il messia avrebbe
dovuto fare —, Dio gli aveva concesso un privilegio unico resuscitandolo dai
morti. Insomma, era davvero il messia: un’idea espressa nella parte iniziale del
credo, in quanto primo dei suoi due attributi fondamentali.
Il secondo elemento chiave del credo è l’affermazione che Cristo venne
esaltato con la resurrezione. L’espressione usata da Paolo, «spirito di santità», è
sorprendente: non solo non la troviamo in nessun altro dei suoi scritti, ma è uno
di quelli che gli studiosi chiamano semitismi. Nelle lingue semitiche come
l’ebraico e l’aramaico, lingua di Gesù e dei suoi seguaci, nomi e aggettivi si
comportano in maniera diversa rispetto (per esempio) all’italiano. La costruzione
italiana «nome + aggettivo» si traduce con «nome + di + nome»: «il modo
giusto», per esempio, diventa «il modo della giustizia»; e «Spirito Santo»
diventa «spirito di santità». Il credo contiene quindi un chiaro semitismo, il che
rende altamente probabile l’ipotesi che fosse nato in aramaico, tra i seguaci
palestinesi di Gesù. Questo significa che potrebbe rappresentare una tradizione
davvero antica, risalente agli anni immediatamente successivi al momento in cui
i primi discepoli si convinsero che Gesù fosse risorto.
Alla luce di ciò, è particolarmente sorprendente che il credo identifichi Gesù
con il Figlio di Dio. Come ho ribadito più volte, se qualcuno afferma che Gesù è
Dio, il Figlio di Dio o comunque un essere divino, c’è una domanda che
dobbiamo porgli subito: in che senso? L’idea è chiara. Gesù venne «dichiarato
Figlio di Dio» al momento della resurrezione. Abbiamo visto che fu
probabilmente Paolo ad aggiungere le parole «con potenza» al credo, perciò ora
abbiamo Gesù che viene trasformato nel Figlio di Dio «con potenza» alla
resurrezione. Forse Paolo le aggiunse perché era convinto che Gesù fosse Figlio
di Dio già prima della resurrezione, con la quale fu esaltato a un rango ancora
più alto (approfondiremo la questione nel prossimo capitolo). Non è però detto
che le cose stessero così anche per l’autore del credo originale. Gesù era per lui
il messia discendente di Davide durante la vita terrena, ma alla resurrezione
diventò qualcosa di molto più grande: la resurrezione fu la sua esaltazione alla
divinità.
Come mai Paolo decise di citare questo breve credo all’inizio della Lettera ai
Romani? Va ricordato che l’apostolo scrive per chiarire qualsiasi malinteso sul
proprio messaggio evangelico, e per illustrare le proprie idee ai cristiani di Roma
che nutrivano dubbi su di lui. Stando così le cose, l’inserimento del credo ha una
sua logica. Forse era un credo antichissimo e noto in tutti gli ambienti cristiani
del Mediterraneo. Forse era accettato da tempo come espressione delle
convinzioni diffuse sull’identità di Gesù: da un lato il messia terreno discendente
di Davide, dall’altro il Figlio di Dio esaltato in cielo alla resurrezione. Paolo,
dunque, avrebbe citato il credo proprio perché era conosciuto e perché
racchiudeva efficacemente la fede da lui condivisa con i cristiani di Roma. Di
fatto le sue posizioni erano diverse e più complesse, ma da buon cristiano poteva
senz’altro sottoscrivere il messaggio fondamentale di quel credo, ovvero che con
la resurrezione qualcosa di straordinario era capitato a Gesù: l’esaltazione a un
rango di grandiosa potenza, non più solo messia terreno ma anche Figlio celeste
di Dio.
È possibile che quel messaggio avesse esercitato un impatto particolarmente
profondo sui cristiani di Roma. Non dimentichiamo che l’imperatore, anch’egli
residente nella città, era identificato da molti come il figlio di Dio, vale a dire del
Cesare divinizzato che l’aveva preceduto. Come abbiamo visto, solo a due
persone nell’impero veniva attribuito il titolo di «Figlio di Dio»: una era
l’imperatore, l’altra Gesù. Questo credo spiega perché Gesù fosse l’unico a
esserne degno. Alla resurrezione, Dio l’aveva trasformato in suo Figlio. Era lui,
e non l’imperatore, il solo ad aver ottenuto la divinità e pertanto a meritare
l’onore di essere innalzato al fianco di Dio.

I discorsi degli Atti

Negli Atti degli Apostoli troviamo numerosi brani che sembrano contenere
elementi antichi e preletterari, con posizioni cristologiche molto simili a quelle
espresse in Romani 1:3-4. Ora che abbiamo imparato a identificarli, possiamo
analizzarli in maniera più rapida.

Atti 13:32-33

Nel capitolo 4 abbiamo visto che i discorsi degli Atti furono scritti da «Luca»,
che però vi inserì tradizioni precedenti come quella in 13:29, secondo la quale fu
il Sinedrio nel suo complesso (e non soltanto un suo membro, Giuseppe di
Arimatea) a seppellire Gesù. Una delle tradizioni preletterarie più notevoli degli
Atti — Paolo che spiega il significato della resurrezione di Gesù — arriva pochi
versetti dopo, nello stesso capitolo: «E noi vi portiamo il lieto messaggio che la
promessa fatta ai padri, Dio l’ha adempiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù,
come anche è scritto nel salmo secondo: “Tu sei mio Figlio, oggi io t’ho
generato”» (Atti 13:32-33).
Non so trovare nell’intero Nuovo Testamento un proclama sulla resurrezione
che sia altrettanto stupefacente. Bisogna sottolineare subito che, secondo Luca,
Gesù non era diventato Figlio di Dio alla resurrezione. Lo sappiamo grazie ad
altri passi dei due volumi della sua opera, per esempio il proclama che
esamineremo più avanti: prima ancora che Gesù nasca, al momento
dell’«annunciazione», Maria viene informata che lo Spirito Santo l’ha messa
incinta, «perciò» il bambino verrà chiamato «Figlio di Dio». Anche Luca
pensava che Gesù fosse il Figlio di Dio sin dalla nascita, o meglio sin dal
concepimento, ma la tradizione preletteraria in Atti 13:32-33 dice tutt’altro. Chi
parla, Paolo, spiega che Dio aveva fatto una promessa agli antenati giudei,
promessa che la resurrezione di Gesù ha ora mantenuto con la loro stirpe. A quel
punto, per chiarire, cita Salmi 2:7: «Tu sei mio Figlio, oggi io t’ho generato».
Come forse ricorderete, nella Bibbia ebraica questo versetto veniva
originariamente associato al giorno dell’incoronazione del re giudeo, unto con
l’olio come segno del favore esclusivo di Dio. 4 In questo discorso, tuttavia,
«Paolo» lo interpreta non come riferimento a ciò che è già avvenuto al re in
quanto Figlio di Dio, ma come profezia di ciò che avverrà al vero re, Gesù,
quando sarà dichiarato Figlio di Dio. Una profezia, dichiara Paolo, che si è
avverata «oggi»: vale a dire? Il giorno della resurrezione di Gesù. È questo il
momento in cui Dio dichiara di aver «generato» Gesù come proprio Figlio.
Gesù diventò quindi Figlio di Dio alla resurrezione, un’idea ereditata da una
tradizione pre-lucana che coincide con quanto abbiamo visto in Romani 1:3-4.
La forma più antica di credenza cristiana sembra essere proprio questa: Dio
esaltò Gesù come proprio Figlio resuscitandolo dai morti.

Atti 2:36

Un punto di vista simile è quello espresso in un discorso precedente. Se


attribuiamo a Luca i discorsi dei protagonisti degli Atti è perché si somigliano
tutti: Pietro, un contadino povero e analfabeta di lingua aramaica, pronuncia un
discorso pressoché identico a quello di Paolo, un greco istruito e dotato di
profonda cultura. Come mai? Perché in realtà non sono loro a parlare, ma Luca,
che per costruire i discorsi si è avvalso di materiali antichi e tradizioni
preletterarie.
In Atti 2, il giorno della Pentecoste, Pietro spiega a un gruppo di persone il
senso di un grande miracolo che ha appena avuto luogo. Parlando di Gesù, il
discepolo sottolinea che «Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamo testimoni»,
e che è stato «esaltato alla destra di Dio». Aggiunge quindi che l’esaltazione di
Gesù ha avverato quanto predetto nei salmi, ma invece di citare 2:7 cita 110:1,
un versetto che abbiamo già analizzato in riferimento al carattere divino del re
d’Israele: «Il SIGNORE ha detto al mio Signore: “Siedi alla mia destra finché io
abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi”». Qui il Signore Dio si
rivolge al suo unto, anch’egli chiamato «Signore». Pietro, insomma, vuol dire
che Dio stava parlando a Gesù, che aveva innalzato al rango di Signore — e
vincitore dei suoi nemici — resuscitandolo dai morti.
A quel punto, Pietro dice qualcosa di ancora più esplicito: «Sappia dunque
con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel
Gesù che voi avete crocifisso» (Atti 2:36). Secondo i primi seguaci di Gesù, la
resurrezione dimostrava che Dio l’aveva esaltato a una posizione di splendore e
potere. Ne è testimonianza questo versetto, una tradizione preletteraria da cui
apprendiamo che fu proprio resuscitando Gesù dai morti che Dio ne aveva fatto
il messia e il Signore. Finché era vivo, i suoi seguaci lo consideravano il futuro
messia e sovrano del nuovo regno di Dio istituito dal Figlio dell’Uomo, come
Gesù stesso aveva spiegato loro. Una volta convintisi che era risorto, come Atti
2:36 indica chiaramente, ne dedussero tuttavia che era già diventato messia e
sovrano, in cielo, innalzato al fianco di Dio. Seduto su un trono celeste accanto a
Dio, Gesù è già il Cristo.
Non solo: è il Signore. Da vivo, i discepoli l’avevano chiamato «signore», un
appellativo che lo schiavo potrebbe rivolgere al padrone, l’impiegato al capo o lo
studente al maestro. Ebbene, in greco, «signore» in tutte e tre queste accezioni
era lo stesso termine applicato a Dio, «Signore di ogni cosa». Esattamente come
«Cristo», anche «signore» assunse un nuovo significato quando i seguaci di
Gesù si convinsero che fosse risorto. Non era più un semplice maestro, ma il
Signore della terra, perché Dio lo aveva esaltato resuscitandolo dai morti:
l’uomo Gesù era diventato il Cristo Signore.

Atti 5:31

Anche in Atti 5 troviamo un’antichissima descrizione di Cristo esaltato al rango


divino con la resurrezione. Le autorità giudaiche arrestano Pietro e gli altri
apostoli per la loro attività di predicatori a Gerusalemme, ma un angelo li fa
evadere miracolosamente. Costernate, le autorità li sottopongono a un ulteriore
interrogatorio, e il sommo sacerdote vieta loro di continuare a predicare nel
nome di Gesù. Gli apostoli replicano promettendo di ubbidire a Dio e non agli
uomini: in parole povere, non smetteranno di predicare. Le autorità giudaiche,
per giunta, sono responsabili della morte del loro maestro, ma «il Dio dei nostri
padri ha risuscitato Gesù […] e lo ha innalzato con la sua destra, costituendolo
Principe e Salvatore» (Atti 5:30-31).
Di nuovo, quindi, un’antica tradizione in cui la resurrezione è un’«esaltazione
alla destra di Dio»: in altre parole, Dio ha elevato Gesù al proprio rango
trasformandolo in colui che «guiderà» e «salverà» gli uomini in terra.

Luca e le sue tradizioni antiche

Perché «Luca» citava tradizioni preletterarie che esprimevano una concezione di


Gesù opposta alla propria? Come già detto, in nessun altro brano l’autore dei
discorsi identifica la resurrezione con il momento in cui Gesù venne esaltato al
rango di Figlio di Dio: eppure è proprio ciò che dicono i versetti che abbiamo
preso in esame. Potremmo essere tentati di rispondere che i discorsi
riproducevano fedelmente le parole degli apostoli, ma come abbiamo visto gli
storici antichi ci spiegano che per gli autori era prassi comune scrivere in prima
persona i discorsi delle figure principali, e l’affinità tra i discorsi degli Atti ci
porta a ritenere che siano frutto della stessa penna, quella di Luca.
In realtà, una spiegazione convincente esiste. Luca aveva deciso di inserire
quelle tradizioni preletterarie nei suoi discorsi perché esprimevano con efficacia
un punto sul quale voleva attirare l’attenzione degli «scettici»: Dio aveva
clamorosamente capovolto il trattamento riservato a Gesù dagli uomini,
dimostrando di considerarlo in maniera diametralmente opposta a loro. Gli
uomini l’avevano torturato e ucciso; Dio aveva annullato l’esecuzione
resuscitandolo dai morti. Gli uomini l’avevano umiliato come fosse un essere
umano inferiore; Dio l’aveva esaltato alla sua destra per farne una figura divina.
Questi frammenti letterari, insomma, offrivano a Luca la cornice di cui aveva
bisogno per formulare la sua tesi e rafforzare il suo messaggio: ecco perché li
inserì nei discorsi. Dio Onnipotente aveva annullato il vile gesto degli uomini, e
Gesù, lungi dall’essere un profeta fallito o un falso messia, si era rivelato come il
sovrano assoluto. Resuscitandolo dai morti, Dio lo aveva reso suo Figlio, il
Messia-Re, il Signore.

Le prime cristologie
Finora non abbiamo assegnato un nome descrittivo all’antica credenza secondo
cui Dio fece risorgere Gesù non per concedergli una vita terrena più lunga, ma
per esaltarlo come proprio Figlio nel regno celeste dove, seduto alla sua destra,
avrebbe regnato insieme al Signore Dio Onnipotente. Nelle discussioni
teologiche si parla tradizionalmente di cristologia bassa, perché riconosce che
Gesù era nato come semplice essere umano. Certo, poteva essere più virtuoso di
altri e poteva godere del favore esclusivo di Dio, ma era comunque un uomo e
nulla più. In nessuna delle tradizioni preletterarie appena discusse — lo avrete
notato — si afferma che Gesù sia nato da una vergine, né tanto meno che fosse
un essere divino già in vita: è una figura umana, forse un messia. E tuttavia, in
un momento cruciale, Gesù viene elevato dalla sua umile esistenza in mezzo a
noi poveri mortali per sedere alla destra di Dio in un posizione di onore, potere e
autorità. Definire bassa questa cristologia è discutibile, come vedremo fra un
istante, ma il fatto che alcuni teologi la chiamino così ha una sua logica, perché
secondo questa interpretazione la traiettoria di Gesù parte «quaggiù», insieme a
noi.
A volte si parla anche di cristologia adozionista, perché Cristo non viene
identificato come essere divino «per natura»: non esisteva prima di nascere nel
mondo, non era un essere divino sceso in terra e non era fatto della stessa
«sostanza» di Dio. Era invece un essere umano «adottato» da Dio, che gli aveva
conferito lo status divino. Gesù non era quindi Dio in virtù della propria natura,
ma del fatto che il Creatore e Signore di ogni cosa aveva deciso di elevare un
semplice essere umano a una posizione suprema.
Il problema di etichette come adozionista e bassa è che esprimono un
atteggiamento di superiorità nei confronti di questa cristologia, quasi fosse
inadeguata: Gesù era «solo» un essere umano, o «solo» un figlio adottivo. L’idea
dell’uomo Gesù esaltato al rango divino, tuttavia, venne eclissata da un’altra
concezione, alla quale è dedicato il prossimo capitolo: Gesù come essere divino
preesistente alla sua nascita nel mondo. È quella che a volte viene definita
cristologia alta, poiché colloca l’origine di Cristo «lassù» insieme a Dio, nel
regno celeste. Gesù non sarebbe diventato Figlio di Dio per adozione: lo era già
in virtù della propria natura, non di quanto Dio aveva fatto per renderlo diverso
da ciò che era.
In seguito i teologi avrebbero ritenuto inadeguata la cristologia «bassa» o
«adozionista», ma a mio avviso non dobbiamo trascurare la straordinaria
importanza che rivestiva per i suoi sostenitori iniziali. Dio non aveva
«semplicemente» adottato Gesù, ma lo aveva esaltato alla più alta posizione
immaginabile, una posizione inconcepibilmente alta. Era la cosa più fantastica
che si potesse dire riguardo a Cristo, innalzato al fianco di Dio Onnipotente,
creatore di ogni cosa e futuro giudice dell’umanità intera. Gesù era IL Figlio di
Dio: altro che interpretazione umile e svilente della figura di Cristo, era un’idea
spettacolare, da togliere il fiato.
Ecco perché preferisco parlare non di cristologia «bassa» o «adozionista», ma
di cristologia dell’esaltazione: l’uomo Gesù oggetto di privilegi e onori divini
che vanno oltre i sogni più sfrenati, elevato alla pari di Dio stesso, seduto alla
sua destra.
Se mi sono convinto che questa interpretazione di Cristo non vada scartata è
anche grazie a nuove ricerche sull’adozione dei figli nell’impero romano, vale a
dire il contesto in cui tali punti di vista venivano formulati. Oggi, purtroppo, c’è
chi pensa che i figli adottivi non siano figli «veri»: un’idea che molti di noi
trovano inutile e crudele, ma non possiamo negarne l’esistenza. Lo stesso vale
per Dio e suo Figlio. Se Gesù è «solo» adottato, allora non è il «vero» Figlio di
Dio: semplicemente, gli è stato concesso uno status più esaltato rispetto a tutti gli
altri.
Uno studio sull’adozione nella società romana dimostra che questa teoria
presenta numerosi problemi ed è probabilmente errata. The Son of God in the
Roman World, un importante saggio dello specialista neotestamentario Michael
Peppard, ci spiega cosa significava essere un figlio adottivo all’epoca. 5 Con
argomenti persuasivi, Peppard sostiene che gli studiosi (e altri lettori) hanno
sbagliato a presumere che un figlio adottivo godesse di uno status sociale
inferiore rispetto a un figlio «naturale». Era vero il contrario, semmai: nell’élite
romana i figli adottivi contavano ben più di quelli nati dall’unione fisica di una
coppia sposata. Pensiamo a Giulio Cesare, che ebbe da Cleopatra un figlio
naturale e poi lasciò disposizioni nel testamento affinché un nipote diventasse
suo figlio adottivo. Quale dei due era più importante? Il primo si chiamava
Cesarione, una postilla storica: l’avete mai sentito nominare? Il secondo, proprio
in quanto figlio adottivo di Cesare, ne ereditò proprietà, status e potere.
L’abbiamo già incontrato, era Ottaviano, meglio noto come Cesare Augusto,
primo imperatore romano. Non lo sarebbe diventato se Giulio Cesare non
l’avesse adottato.
Capitava spesso, nel mondo romano, che i figli adottivi fossero elevati a uno
status superiore rispetto ai figli naturali. Questi ultimi erano chi erano più o
meno per caso: le loro virtù e doti non avevano nulla a che vedere con il fatto
che erano nati da due genitori. Viceversa, il figlio adottivo — di norma adottato
da adulto — veniva scelto proprio per le sue qualità: se gli era concesso di
diventare grande era perché aveva mostrato la stoffa della grandezza, non in
virtù della nascita. Lo vediamo nelle lodi di cui il famoso scrittore Plinio il
Giovane ricopre l’imperatore Traiano: «Era veramente gran tempo che voi
meritavate l’imperio, ma, se foste stato adottato in addietro, noi non avremmo
mai saputo di che vi fosse l’imperio debitore». 6 Ecco perché non di rado i figli
adottivi erano già adulti quando venivano nominati legittimi eredi di figure
potenti o nobili. E cosa significava essere legittimo erede? Significava ereditare
patrimonio, proprietà, status, persone a carico e clienti del padre adottivo: in
altre parole, tutto il suo potere e prestigio. Scrive Christiane Kunst, storica
dell’antica Roma: «Il figlio adottivo […] scambiava il proprio [status] con lo
status del padre adottivo». 7 Affermando che Gesù era diventato Figlio di Dio
con la resurrezione, i primi cristiani dicevano qualcosa di veramente
straordinario sul suo conto. Gesù aveva ereditato tutto ciò che era di Dio. Aveva
scambiato il proprio status con quello del Creatore e re supremo. Aveva ottenuto
tutto il suo potere e i suoi privilegi. Ora poteva sfidare la morte, perdonare i
peccati, essere il futuro giudice della terra, regnare con l’autorità divina: a tutti
gli effetti, era diventato Dio.
Questi vari aspetti dell’esaltazione di Gesù sono strettamente legati ai titoli
onorifici che i cristiani gli attribuivano. Era il Figlio di Dio, ma questo non
significava affatto che fosse «solo» il Figlio «adottivo» di Dio: le implicazioni
erano le più favolose che si potesse immaginare, perché il Figlio di Dio era erede
di tutto quanto era di Dio. Gesù era anche il Figlio dell’Uomo, colui che Dio
aveva scelto come futuro giudice del mondo intero. Ed era il messia celeste che
regnava — di già — sul regno del Padre, il Re dei re. In quanto sovrano celeste,
era il Signore, maestro e sovrano della terra.
È comprensibile che alcuni la chiamino cristologia bassa, ma di «basso» qui
non c’è proprio nulla: è piuttosto una cristologia dell’esaltazione, perché afferma
cose stupefacenti del predicatore arrivato dalla rurale Galilea e innalzato alla
destra del Dio che lo aveva resuscitato dai morti.
Va inoltre sottolineato che il momento in cui i cristiani iniziarono a dire
queste cose di Gesù coincide con il momento in cui gli imperatori iniziarono a
essere adorati come dèi in tutto l’impero romano. L’imperatore era figlio di Dio
(in quanto adottato dal suo predecessore, divinizzato alla sua morte); Gesù era
Figlio di Dio. L’imperatore era considerato divino; Gesù era divino.
L’imperatore era il grande re; Gesù era il grande Re. L’imperatore era signore e
sovrano; Gesù era Signore e Sovrano. Un umile contadino della Galilea,
crocifisso per aver violato la legge, era diventato l’essere più potente
dell’universo. In quest’ottica cristiana l’imperatore non era un vero rivale,
perché il padre adottivo di Gesù non era il suo predecessore, ma il Signore Dio
Onnipotente.
Era proprio in virtù del suo rango esaltato che Gesù veniva ritenuto degno di
culto. Se i primi cristiani vedevano in Gesù il Figlio di Dio esaltato appena dopo
la resurrezione, probabilmente già in questa fase iniziarono a venerarlo come
fino a quel momento avevano fatto con Dio. Come poteva Gesù essere adorato in
quanto figura divina agli albori del cristianesimo, se i cristiani si consideravano
monoteisti e non diteisti? 8 È un dilemma che Larry Hurtado ha provato a
risolvere in due importanti opere. Secondo lo studioso del Nuovo Testamento,
entrambe le cose erano vere: i cristiani credevano in un solo Dio, ma al tempo
stesso onoravano Gesù come un Dio accanto a Dio. Com’era possibile? Hurtado
vedeva nel cristianesimo un culto binitario, ovvero capace di adorare Gesù come
il Signore al fianco di Dio senza però sacrificare l’idea che esistesse un solo Dio.
I cristiani sostenevano che, avendolo esaltato a uno status divino, Dio avesse non
solo permesso, ma addirittura richiesto la venerazione di Gesù. Hurtado lo vede
come uno sviluppo unico nella storia delle religioni antiche: il culto di due esseri
divini in una teologia che postula l’esistenza di uno solo. Nei capitoli successivi
scopriremo come i teologi avrebbero affrontato il problema di un’adorazione di
Gesù che non compromettesse l’adesione al monoteismo. Per il momento
limitiamoci a evidenziare che le cose stavano proprio così: i cristiani da un lato
sostenevano di credere in un solo Dio, ma dall’altro onoravano il «Signore
Gesù» come divinità alla pari di Dio.

Il movimento a ritroso della cristologia


L’idea che i primi cristiani individuassero nella resurrezione il momento in cui
Gesù era diventato il Figlio di Dio non è rivoluzionaria fra gli studiosi
neotestamentari. Tra i maggiori biblisti del secondo Novecento c’era Raymond
Brown, sacerdote cattolico e — per buona parte della sua carriera — docente
allo Union Theological Seminary (protestante) di New York. Stimolanti e acuti
per i colleghi studiosi, i suoi libri erano accessibili e illuminanti anche per i
lettori laici.
Uno dei suoi contributi più famosi è l’individuazione di una tendenza costante
nelle prime cristologie. Brown concordava con la tesi che ho appena illustrato:
secondo i primi cristiani, Dio aveva esaltato Gesù allo status divino con la
resurrezione. (Il che dimostra, fra l’altro, che a sostenere questa concezione
dell’antica cristologia non sono soltanto gli studiosi «scettici» o «laici», ma
anche i credenti.) Brown sosteneva che analizzando i Vangeli fosse possibile
ricostruire una sorta di evoluzione cronologica di questa visione. 9
Questa cristologia, la prima in assoluto, è espressa nelle tradizioni preletterarie
citate in Paolo e negli Atti degli Apostoli, ma non corrisponde a quella illustrata
nei Vangeli. Come vedremo in seguito, il Vangelo più antico — Marco —
sembra presumere che fosse stato il battesimo a fare di Gesù il Figlio di Dio; i
Vangeli successivi, Matteo e Luca, dicono che diventò Figlio di Dio alla nascita;
mentre l’ultimo Vangelo, Giovanni, presenta Gesù come Figlio di Dio sin da
prima della creazione. Secondo Brown, questa scansione cronologica potrebbe
corrispondere all’evoluzione nelle credenze dei cristiani. In origine, si pensava
che Gesù fosse stato esaltato solo alla resurrezione. Riflettendoci più a fondo, i
cristiani si convinsero che dovesse essere stato il Figlio di Dio sin dall’inizio del
suo ministero. Riflettendoci ancora più a fondo, si convinsero che dovesse essere
stato il Figlio di Dio per tutta la vita, nato da una vergine e pertanto
(letteralmente) Figlio di Dio. Riflettendoci ancora più a fondo, si convinsero che
dovesse essere stato il Figlio di Dio prima ancora di venire al mondo: ecco
perché cominciarono a dire che era un essere divino esistente da sempre.
Il problema è che questa scansione non rispecchia l’effettiva evoluzione
cronologica delle prime cristologie. È vero che queste sono le concezioni
espresse nei Vangeli, dalla prima all’ultima, ma alcuni cristiani andavano
dicendo che Gesù era un essere divino preesistente (un’interpretazione «tarda»)
già prima che Paolo iniziasse a scrivere attorno al 50, ovvero molto prima che
venisse scritto il Vangelo più antico. 10 La verità — e Brown non avrebbe
dissentito — è che le credenze su Gesù non si sviluppavano in maniera lineare in
ogni area geografica, né allo stesso ritmo. Le credenze cambiavano da cristiano a
cristiano, da chiesa a chiesa e da regione a regione, sin dall’inizio o quasi. La
mia opinione è che esistessero due posizioni cristologiche fondamentalmente
diverse: una che vedeva in Gesù un essere nato «quaggiù» che finì per essere
«esaltato» (l’argomento di questo capitolo), l’altra che lo vedeva come essere
nato «lassù» e sceso in terra dal regno celeste (l’argomento del prossimo
capitolo). Anche all’interno di queste due visioni, però, non mancavano
differenze rilevanti.

Gesù come Figlio di Dio al battesimo

Brown sembra avere ragione quando sostiene che in certi periodi e in certi
luoghi, dopo aver creduto che Dio avesse esaltato Gesù con la resurrezione, i
cristiani si convinsero che l’esaltazione fosse avvenuta prima del suo ministero
pubblico. Ecco perché poteva compiere miracoli spettacolari come guarire i
malati, scacciare i demoni e resuscitare i morti; ecco perché poteva perdonare i
peccati in veste di emissario di Dio in terra; ecco perché talvolta poteva rivelare
la sua gloria: Dio l’aveva già adottato come proprio Figlio all’inizio del
ministero, quando Giovanni Battista l’aveva battezzato.

Il battesimo in Marco

Sembrerebbe proprio questo il punto di vista del Vangelo di Marco, nel quale
non si fa parola della preesistenza di Gesù o della sua nascita da una vergine. Se
l’autore avesse creduto ad almeno una di queste teorie, ne avrebbe certamente
parlato: dopo tutto, si tratta di idee rilevanti. Invece no, il suo Vangelo si apre
con la descrizione del battesimo che Giovanni Battista somministra a Gesù come
ad altri ebrei. Quando però emerge dall’acqua, Gesù vede aprirsi il cielo e lo
Spirito di Dio discendere su di lui come una colomba, mentre una voce celeste
gli parla: «Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto» (Marco 1:9-
11).
Non sembra la constatazione di un fatto preesistente, ma una dichiarazione:
nel Vangelo di Marco, è in questo momento che Gesù diventa Figlio di Dio. 11
Immediatamente dopo, ecco che dà inizio al suo spettacolare ministero, non solo
proclamando l’arrivo del regno di Dio, ma anche guarendo i malati — a riprova
che non è un semplice mortale, ma un essere più potente degli spiriti demoniaci
— e persino resuscitando i morti. Già durante il ministero, Gesù è il Signore
della vita. L’autorità che gli è stata concessa è quella di perdonare i peccati
commessi non contro di lui, ma contro gli altri o Dio. Agli avversari che
affermano che solo Dio può perdonare i peccati, Gesù replica che lui, il Figlio
dell’Uomo, ha l’autorità di perdonare i peccati in terra.
La gloria di Gesù traspare anche dai suoi straordinari miracoli, quando
moltiplica i pani e i pesci, quando calma la tempesta, quando cammina
sull’acqua. A metà del Vangelo, salendo una montagna insieme a Pietro,
Giacomo e Giovanni, rivela la propria identità ai discepoli e si trasfigura in un
bagliore splendente mentre Mosè ed Elia appaiono per parlargli: Gesù è la figura
predetta dalla legge (Mosè) e dai profeti (Elia). Non è un umile mortale, ma il
glorioso Figlio di Dio che ne ha avverato i piani.
Se dobbiamo sempre chiederci «in che senso» Gesù è divino, per Marco lo è
nel senso che Dio lo ha reso proprio Figlio già al battesimo, non con la
resurrezione.

Il battesimo in Luca

Tracce di questa concezione sono presenti nel Vangelo di Luca,


cronologicamente successivo. Come vedremo, Luca non la pensa allo stesso
modo sul momento in cui Gesù divenne il Figlio di Dio, ma — già lo sappiamo
— questo non gli impedisce di citare tradizioni precedenti e diverse rispetto alle
sue idee. Per esempio nella scena del battesimo di Gesù. La questione è un po’
complessa. Nel mio libro Gesù non l’ha mai detto, spiego che non abbiamo la
copia originale degli scritti di Luca, Marco e Paolo, né degli antichi testi cristiani
che formano il Nuovo Testamento. Quelle che abbiamo sono copie più tarde,
quasi sempre prodotte vari secoli dopo. Tutte queste copie differiscono fra loro,
spesso nei dettagli, ma a volte anche in aspetti più rilevanti. Uno dei brani
modificati in maniera più significativa dagli scribi è proprio la narrazione del
battesimo di Gesù in Luca.
Da tempo gli studiosi dibattono su cosa dica veramente, in questo Vangelo, la
voce di Dio al battesimo di Gesù. La maggior parte dei manoscritti riporta le
stesse parole che troviamo in Marco («Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono
compiaciuto»), ma secondo numerose testimonianze antiche la voce nel testo
dice un’altra cosa: «Tu sei mio figlio, oggi io t’ho generato», ovvero una
citazione da Salmi 2:7. Esistono valide ragioni per credere che il contenuto
originale di Luca 3:22 sia proprio questo. Si tratta di una dichiarazione
categorica: è nel momento del battesimo che Gesù viene «generato» — cioè
nasce — come Figlio di Dio. La ragione che potrebbe aver portato gli scribi ad
alterare il versetto dovrebbe essere evidente: all’epoca in cui copiavano i testi di
Luca, secoli dopo, l’idea che Gesù fosse diventato Figlio di Dio al battesimo era
ritenuta non solo inadeguata, ma eretica. Gesù era sempre stato il Figlio di Dio.
Lo stesso Luca, chiunque fosse, non pensa che Gesù sia Figlio di Dio da
sempre, ma nemmeno che lo sia diventato con il battesimo. E allora come mai
mette in bocca a Dio parole simili? Come abbiamo già visto, a Luca piace
inserire nel testo varie tradizioni preletterarie, anche se non coincidono con le
sue idee. Ecco perché in un discorso degli Atti ne troviamo una secondo la quale
Gesù diventò Figlio di Dio alla resurrezione (13:33), mentre due tradizioni nel
suo Vangelo ci dicono che lo diventò rispettivamente al battesimo (3:22) e alla
nascita (1:35). Forse Luca intendeva semplicemente sottolineare che Gesù era il
Figlio di Dio in tutti i momenti fondamentali della sua esistenza: nascita,
battesimo e resurrezione.

Gesù come Figlio di Dio alla nascita

Nella versione definitiva del Vangelo di Luca, Gesù sembra diventare Figlio di
Dio al momento della nascita, o per essere più precisi, del concepimento. Come
abbiamo visto nel capitolo 1, nel mondo pagano si riteneva che un uomo potesse
diventare divino in vari modi. Alcuni — per esempio Romolo — lo diventavano
alla morte, quando salivano nel regno celeste per abitarvi insieme agli dèi.
Qualcosa di simile alle tradizioni cristiane secondo cui Gesù venne esaltato alla
destra di Dio come suo Figlio con la resurrezione. In altre tradizioni pagane, gli
uomini divini nascevano da rapporti sessuali fra dèi come il libidinoso Zeus e
irresistibili donne mortali. Il frutto — per esempio Eracle, o Ercole nella
mitologia romana — era letteralmente figlio di Zeus. Non esistono tradizioni
cristiane analoghe. Il Dio cristiano non era come il donnaiolo Zeus, sempre
pronto a trovare soluzioni creative per soddisfare le sue voglie. Per i cristiani Dio
era trascendente, irraggiungibile, «lassù», non certo abituato a sollazzarsi con
splendide fanciulle mortali. Al tempo stesso, dietro la narrazione della nascita di
Gesù nel Vangelo di Luca sembra esserci qualcosa di relativamente simile ai
miti pagani.

La nascita di Gesù in Luca


In questo Vangelo Gesù nasce da Maria, che non ha mai avuto rapporti sessuali
con un uomo. Nemmeno con una divinità, tecnicamente parlando, ma a metterla
incinta è Dio, non un uomo. Nella famosa scena dell’«annunciazione»,
l’arcangelo Gabriele appare a Maria, promessa sposa di Giuseppe, con il quale
però non ha ancora avuto contatti fisici. Gabriele le annuncia che Dio l’ha
prescelta per concepire e portare in grembo suo figlio. Maria rimane scioccata: è
ancora vergine, come può concepire un figlio? La risposta dell’angelo è
esplicita: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà
dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di
Dio» (Luca 1:35). Dico «esplicita» perché in queste parole non sembra esserci
nulla di metaforico: nel senso più fisico del termine, lo Spirito Santo di Dio
«verrà su di» Maria e «perciò» — termine fondamentale — il bambino che
concepirà sarà chiamato Figlio di Dio. Se sarà chiamato Figlio di Dio è perché
sarà il Figlio di Dio. Maria rimarrà incinta di Dio, non di Giuseppe, perciò il
figlio sarà del primo. Insomma, qui Gesù diventa Figlio di Dio non alla
resurrezione né al battesimo, ma già al concepimento.

La nascita di Gesù in Matteo

Anche nel Vangelo di Matteo Gesù nasce da madre vergine. Possiamo


concludere che anche in questo caso Gesù è Figlio di Dio per via delle insolite
circostanze in cui è nato, ma stavolta si tratta di una deduzione, perché in Matteo
non troviamo nulla di simile a quanto afferma Luca in 1:35. Secondo Matteo, la
madre di Gesù è vergine affinché la nascita possa avverare la profezia di Isaia,
un emissario di Dio, pronunciata parecchi secoli prima e inserita nella Bibbia
ebraica: «La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome
Emmanuele» (Isaia 7:14). In Matteo 1:23 il versetto viene citato come motivo
dell’insolito concepimento di Gesù.
In molti hanno osservato che in realtà Isaia non profetizza la nascita del
messia da una vergine. Leggendo Isaia 7 nel suo contesto letterario, appare
evidente che l’autore non sta affatto parlando del messia. Siamo nell’ottavo
secolo a.e.v., un periodo di calamità. Acaz, il re di Giuda, è profondamente
turbato, e a ragion veduta. I due regni a nord di Giuda, Israele e Siria, hanno
attaccato la capitale Gerusalemme per costringerlo ad allearsi con loro contro la
crescente potenza mondiale dell’Assiria. Acaz teme che il suo regno verrà
devastato, ma il profeta Isaia lo rassicura: una giovane donna (non una vergine)
ha concepito un figlio che verrà chiamato Emmanuele, un nome che significa
«Dio è con noi». Che Dio sia «con» i giudei sarà presto evidente, perché prima
ancora che il bambino impari a distinguere il bene dal male i due regni che
stanno attaccando Gerusalemme verranno sconfitti, e torneranno bei tempi per
Acaz e il suo popolo. Ecco a cosa si riferisce Isaia.
In quanto cristiano vissuto secoli dopo, Matteo non lesse il Libro di Isaia in
ebraico, la lingua originale, ma nella propria lingua, il greco. Traducendo il
brano in un’epoca precedente, i greci avevano reso il sostantivo ebraico alma,
«giovane donna», con parthénos, un termine che può avere lo stesso significato,
ma finì per assumere l’accezione di «giovane donna che non ha mai avuto
rapporti sessuali». Interpretando il passo come una tradizione messianica,
Matteo afferma che Gesù l’ha avverata — esattamente come ha avverato ogni
altra profezia delle scritture — nascendo da una «vergine». Tuttavia, non è
difficile rendersi conto che Matteo potrebbe aver dato una «giustificazione
scritturale» a una tradizione ereditata che aveva un senso diverso: come la
tradizione di Luca, forse anche quella pervenuta a Matteo citava originariamente
Gesù come unico Figlio di Dio perché nato da una vergine e da Dio.
Quale che sia la verità, va sottolineato che le narrazioni del concepimento
verginale in Matteo e Luca sono ben lontane da quella che sarebbe diventata la
dottrina ortodossa del cristianesimo: Cristo come essere divino preesistente
«incarnato [cioè “umano”] nella Vergine Maria». Ma Matteo e Luca la
pensavano diversamente. Se li leggiamo con attenzione, ci renderemo conto che
l’idea che Cristo esistesse prima di essere concepito è a loro del tutto estranea. In
questi due Vangeli, Gesù comincia a esistere nel momento del concepimento.
Che la tradizione di Matteo coincidesse o no con la visione di Luca (Gesù
concepito da una vergine senza rapporti sessuali per poter essere letteralmente
Figlio di Dio), questa idea, espressa con particolare insistenza in Luca,
costituisce una sorta di cristologia «dell’esaltazione» che è stata portata il più
indietro possibile. Se la cristologia dell’esaltazione parla di un essere umano
elevato al rango divino, allora non ha senso che ciò avvenga prima del momento
del concepimento. Gesù è ora il Figlio di Dio per tutta la vita, a cominciare…
dall’inizio. Si potrebbe addirittura sostenere che, spostando così all’indietro il
momento dell’esaltazione, non abbiamo più una cristologia dell’esaltazione o
«bassa». Gesù non viene ritratto come normale essere umano che per via delle
sue grandi virtù o di una profonda obbedienza alla volontà di Dio viene esaltato
a uno status divino. È già divino, sin dal concepimento.

Gesù come Figlio esaltato di Dio

Chi è profondamente interessato alle antiche tradizioni cristiane darebbe


qualsiasi cosa per scoprire un Vangelo scritto dai primi seguaci di Gesù uno o
due anni dopo la resurrezione. Purtroppo, siamo quasi certi che non accadrà mai.
I discepoli di Gesù erano poveri contadini analfabeti provenienti dalle remote
aree rurali della Galilea, dove pochissime persone sapevano leggere, tanto meno
scrivere e tanto meno comporre intere opere. Non abbiamo notizia di un singolo
autore di quei tempi e quei luoghi, ebreo o cristiano, che sarebbe stato in grado
di produrre un intero Vangelo anche volendolo. Ed è probabile che i primi
discepoli non lo volessero. Come il loro maestro, prevedevano l’imminente fine
di un’epoca, e che il Figlio dell’Uomo — ora identificato con lo stesso Gesù —
sarebbe sceso dal cielo per giudicare la terra e istituire il nuovo regno di Dio.
Queste persone non pensavano di documentare la vita di Gesù per i posteri,
perché di posteri, letteralmente, non ce ne sarebbero stati.
Ma se anche si fossero preoccupati delle esigenze dei posteri (o quanto meno
degli storici del Duemila), i primi apostoli non sarebbero stati in grado di
scrivere un Vangelo. L’unico strumento per tramandare la storia di Gesù era il
passaparola, perciò la raccontavano fra di loro, alle persone che avevano
convertito e a quelle che queste ultime convertivano. Qualche decina d’anni
dopo, in altre parti del mondo, dei cristiani altamente istruiti di lingua greca
misero per iscritto le tradizioni che ascoltavano, producendo i Vangeli che
ancora oggi possiamo leggere.
Agli storici non rimane quindi che sognare e, per quanto inutile possa essere,
vale la pena di immaginare come avrebbe potuto essere un Vangelo scritto nel
31 e.v. da un discepolo ancora in vita. Se le ipotesi illustrate in questo capitolo
sono anche lontanamente verosimili, il nostro Vangelo immaginario sarebbe
molto diverso da quelli che ci sono giunti ed esprimerebbe una cristologia
tutt’altro che identica a quella destinata a diventare predominante fra i teologi
quando il cristianesimo sarebbe diventato la religione ufficiale del mondo
romano.
L’ipotetico Vangelo avrebbe riportato quanto Gesù andava proclamando di
villaggio in villaggio: l’imminente arrivo del Figlio dell’Uomo e del regno di
Dio; il giorno del giudizio era prossimo, perciò bisognava prepararsi. Ho la
sensazione che questo Vangelo non sarebbe stato pieno dei miracoli di Gesù, che
quindi non avrebbe trascorso le giornate a guarire i malati, calmare la tempesta,
nutrire le moltitudini, scacciare i demoni e resuscitare i morti. Quelle storie
nacquero più tardi, quando i seguaci iniziarono a descrivere la vita di Gesù alla
luce della sua successiva esaltazione. Al contrario, questo Vangelo avrebbe
raccontato nel dettaglio, probabilmente sulla base di testimonianze oculari,
l’ultima settimana di vita di Gesù: il pellegrinaggio a Gerusalemme con alcuni
seguaci, le autorità furibonde per la cacciata dei mercanti dal Tempio e per
l’impetuosa predicazione sul giorno del giudizio, un cataclisma che avrebbe
colpito non solo gli oppressori romani, ma anche i governanti giudaici, i sommi
sacerdoti e i loro seguaci.
Il clou del Vangelo, però, sarebbe arrivato alla fine. Respinto dagli scribi e
dagli anziani del popolo, Gesù era stato consegnato a Ponzio Pilato, che l’aveva
dichiarato colpevole di insurrezione. Per stroncare sul nascere le sue pericolose
sciocchezze Pilato l’aveva condannato alla crocifissione, ma benché Gesù fosse
stato giustiziato sbrigativamente dal potere di Roma la sua storia non era ancora
finita, perché era apparso ai discepoli, di nuovo vivo. Com’era possibile? Non
era sopravvissuto alla croce: era Dio che l’aveva resuscitato fisicamente dai
morti. E perché non è tornato fra noi? Perché Dio non solo l’ha riportato in vita,
ma l’ha esaltato in cielo come suo Figlio facendolo sedere su un trono alla sua
destra, per regnare come messia d’Israele e Signore di ogni cosa finché non fosse
tornato in terra come giudice cosmico, di lì a poco.
Nel Vangelo immaginario Gesù non sarebbe stato Figlio di Dio per l’intero
ministero a cominciare dal battesimo, come in Marco e nella tradizione citata da
Luca. E non lo sarebbe stato per tutta la vita, a cominciare dal concepimento da
parte di una vergine coperta dall’ombra dello Spirito Santo per partorire il Figlio
di Dio, come in Luca e nelle tradizioni inserite in Matteo. Non sarebbe nemmeno
un essere divino preesistente alla propria venuta al mondo, come sostengono
autori quali Paolo e Giovanni. Sarebbe invece diventato il Figlio di Dio quando,
compiendo il suo miracolo più grande, Dio l’aveva resuscitato dai morti e
adottato come Figlio esaltandolo alla sua destra e offrendogli il suo potere,
prestigio e rango.

1. Si veda Bart D. Ehrman (2011), Il Vangelo del traditore: una nuova lettura del Vangelo di
Giuda, Mondadori, Milano (ed. orig. The Lost Gospel of Judas Iscariot, 2006).←
2. Un’analisi classica è James D.G. Dunn (1989), Christology in the Making, A New Testament
Inquiry into the Origins of the Doctrine of the Incarnation, Eerdmans, Grand Rapids, MI, pp.
33-36.←
3. Qualunque buon saggio critico contiene approfondimenti su tutti questi aspetti. Due dei più
autorevoli e voluminosi sono Robert Jewett (2007), Romans: A Commentary, Fortress,
Minneapolis, e Joseph A. Fitzmyer (1999), Lettera ai Romani: commentario critico-teologico,
Piemme, Casale Monferrato (ed. orig. Romans: A New Translation with Introduction and
Commentary, 1997).←
4. Vedi il cap. 2.←
5. Peppard 2011.←
6. Gaius Plinius Caecilius Secundus (1837), C. Plinii Caecilii Secundi epistolarum libri decem et
panegyricus, Antonelli, Venezia, p. 794.←
7. Christiane Kunst (2005), Römische Adoption: Zur Strategie einer Familienorganisation, Marthe
Clauss, Hennef, 294.←
8. Hurtado 1988. Per una trattazione molto più esauriente si veda il suo magnum opus Larry W.
Hurtado (2006), Signore Gesù Cristo: la venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico,
Paideia, Brescia (ed. orig. Lord Jesus Christ: Devotion to Jesus in Earliest Christianity,
2003).←
9. Si veda Raymond E. Brown (1981), La nascita del Messia secondo Matteo e Luca, Cittadella,
Assisi (ed. orig. The Birth of the Messiah: A Commentary on the Infancy Narratives in the
Gospels of Matthew and Luke, 1977).←
10. Dunn 1989.←
11. Peppard 2011:86-131.←
7. Gesù come Dio in terra: le prime cristologie
dell’incarnazione
Dall’inizio della mia carriera ho insegnato in due grandi università di ricerca: la
Rutgers University del New Jersey per quattro anni, a metà degli Ottanta, e la
University of North Carolina di Chapel Hill dal 1988 in poi. Ho avuto studenti di
ogni genere, anche dal punto di vista religioso: cristiani, ebrei, musulmani,
buddisti, induisti, pagani e atei. Naturalmente i cristiani sono differenziati al loro
interno: dai fondamentalisti irriducibili ai protestanti liberali, dai greci ortodossi
ai cattolici e chi più ne ha più ne metta. Col passare degli anni mi sono accorto
che, nonostante la varietà di orientamenti, quando si parla di Gesù i miei studenti
cristiani mostrano una sorprendente unità di vedute: la maggior parte di loro
pensa che Gesù sia Dio.
Nella teologia tradizionale, come vedremo nei capitoli successivi, Cristo finì
per essere considerato al tempo stesso pienamente Dio e pienamente uomo. Non
metà Dio e metà uomo, ma Dio in tutto e per tutto e uomo in tutto e per tutto. I
miei studenti tendono a capire la parte divina, meno quella umana. Per molti di
loro Gesù era veramente Dio in terra, ed essendo Dio non poteva essere
«davvero» uomo, ma doveva aver assunto una qualche sembianza umana. In
quanto Dio, Gesù avrebbe potuto fare tutto ciò che gli pareva, anche parlare
swahili appena nato. E perché no? Era Dio!
Essere umani, però, significa avere debolezze, limiti, desideri, passioni e
difetti. Gesù li aveva? Era «pienamente» umano? Aveva mai trattato male o
detto cattiverie su qualcuno? Si era mai arrabbiato senza motivo? Era mai stato
invidioso o avido? Aveva mai desiderato fisicamente una donna o un uomo? Se
la risposta è no, in che senso era «pienamente» umano?
Naturalmente non mi aspetto che i miei studenti siano raffinati teologi, anche
perché io non insegno teologia, ma storia del cristianesimo antico, con
particolare attenzione agli approcci storici al Nuovo Testamento. Ma è
comunque interessante notare che i miei studenti tendono a ricavare le loro
posizioni cristologiche dal Vangelo di Giovanni e non dai tre Vangeli precedenti.
Solo ed esclusivamente in Giovanni Gesù dice cose come «prima che Abramo
fosse nato, io sono» (8:58), «io e il Padre siamo uno» (10:30) e «chi ha visto me,
ha visto il Padre» (14:9). Solo in questo Vangelo Gesù afferma di essere esistito
nella gloria insieme a Dio Padre prima di diventare umano (17:5). È quanto
credono molti dei miei studenti, ma via via che approfondiscono il Nuovo
Testamento scoprono che Gesù non fa dichiarazioni simili in Matteo, Marco e
Luca. Chi ha ragione?
Da tempo gli studiosi sono convinti che la visione espressa in Giovanni sia
frutto di uno sviluppo successivo nella tradizione cristiana, non corrispondente a
quanto Gesù andava predicando: ecco perché non la troviamo negli altri Vangeli.
In Giovanni, Gesù è un essere divino esistente da sempre e alla pari con Dio, ma
non è questo che credevano i primi cristiani, per esempio gli stessi discepoli di
Gesù. Esistono chiare ragioni storiche per pensarlo. I primi cristiani
professavano cristologie dell’esaltazione in cui l’uomo Gesù diventava il Figlio
di Dio, per esempio — come abbiamo visto nel capitolo precedente — alla
resurrezione o al battesimo. Giovanni ha una visione diversa: Gesù come essere
divino che diventa umano. È quella che io chiamo cristologia dell’incarnazione.

Esaltazione e cristologie dell’incarnazione


Come già sappiamo, le credenze dei primi cristiani corrispondevano a due
nozioni diffuse tra greci, romani ed ebrei su come si poteva essere umani e divini
al tempo stesso: venendo esaltati al regno divino o nascendo da un genitore
divino. Quelle che definisco cristologie dell’incarnazione sono invece associate a
un terzo modello: l’essere divino — un dio — che scende in terra per assumere
sembianze umane temporaneamente, prima di fare ritorno alla sua dimora
celeste. Secondo le cristologie dell’incarnazione, Gesù era un essere divino
preesistente divenuto umano prima di tornare in cielo al fianco di Dio. Non
parliamo quindi di un uomo elevato al rango divino, ma di un essere celeste che
accetta di farsi temporaneamente uomo.
La mia tesi, come ho già spiegato, è che i seguaci di Gesù non lo chiamassero
«Dio» mentre era in vita e che lui non si presentasse come essere divino arrivato
dal cielo. In caso contrario, le prime testimonianze scritte delle sue parole — i
vangeli sinottici e le loro fonti (Marco, Q, M e L) — sarebbero piene di queste
idee. Fu invece la resurrezione a rappresentare il punto di svolta
nell’interpretazione di Gesù come essere esaltato. A mio parere, le antiche
cristologie dell’esaltazione si tramutarono rapidamente in cristologie
dell’incarnazione allorché i primi cristiani maturarono le loro credenze su Gesù
negli anni immediatamente successivi alla sua morte. L’evoluzione fu
probabilmente provocata da una posizione teologica che abbiamo già discusso.
C’è un interrogativo che dobbiamo porci: a giudizio degli ebrei, che fine
facevano le persone assunte in cielo? Come abbiamo visto in casi come quello di
Mosè, si pensava che diventassero angeli o esseri simili agli angeli. 1
Nello studio più esauriente sulle cristologie che dipingono Gesù come figura
angelica, il biblista Charles Gieschen formula un’utile definizione della nozione
ebraica di angelo: «Spirito o essere celeste che media fra i regni umano e
divino». 2 Quando l’idea che Gesù fosse stato esaltato in cielo prese piede, in
poco tempo alcuni dei suoi seguaci iniziarono a considerarlo una sorta di
intermediario celeste che con obbedienza attuava la volontà di Dio in terra. Da lì
a ritenere che fosse un simile essere per natura, e non solo per via
dell’esaltazione, il passo era breve. Gesù non era solo Figlio di Dio, Signore,
Figlio dell’Uomo e messia venturo: in quanto essere celeste e angelico, era
l’emissario della volontà di Dio in terra. E si cominciò a pensare che lo fosse da
sempre.
Se Gesù era colui che rappresentava Dio in terra in forma umana, con ogni
probabilità lo era sempre stato. In altre parole, doveva essere il primo angelo di
Dio, ovvero l’«Angelo del Signore» citato nella Bibbia. È la figura che appare ad
Agar, Abramo e Mosè, a volte chiamata «Dio» nella Bibbia ebraica. Se questo è
proprio Gesù, allora si tratta di un essere divino preesistente sceso in terra per un
periodo più lungo, durante la sua vita. E in quanto unico emissario di Dio in
terra, lo si può chiamare legittimamente Dio. Le cristologie dell’esaltazione si
trasformarono in cristologie dell’incarnazione non appena i seguaci
cominciarono a vedere Gesù come essere angelico incaricato di fare il lavoro di
Dio sul nostro pianeta. 3
Chiamare Gesù «Angelo del Signore» significa fare un’affermazione
straordinariamente esaltata sul suo conto. Nella Bibbia ebraica questa figura
appare agli uomini come emissario di Dio, e non a caso viene chiamata «Dio».
Come dimostrano recenti ricerche, il Nuovo Testamento contiene chiare
testimonianze del fatto che i primi seguaci di Gesù lo vedevano proprio in questo
modo: un angelo, un essere simile a un angelo o addirittura l’Angelo del
Signore, comunque un’entità sovrumana che esisteva già prima di nascere e si
era fatta uomo per salvare l’umanità. Ecco illustrata, in parole povere, la
cristologia dell’incarnazione di numerosi autori neotestamentari. In epoche
successive si arrivò ancora oltre, sostenendo che Gesù non era semplicemente un
angelo — nemmeno il primo degli angeli —, ma un essere ancora superiore: Dio
stesso sceso in terra.

La cristologia dell’incarnazione in Paolo


È da quarant’anni che gli scritti di Paolo sono oggetto delle mie letture,
riflessioni, ricerche, lezioni e saggi, ma fino a tempi recenti c’era un aspetto
fondamentale della sua teologia che proprio non riuscivo a capire: di preciso,
come vedeva Gesù? Alcune questioni mi erano chiare da decenni — in
particolare la sua idea che a redimere un uomo agli occhi di Dio fossero la morte
e la resurrezione più che l’obbedienza alla legge ebraica —, ma la domanda
rimaneva: chi era Cristo secondo Paolo?
Una ragione dei miei dubbi era il carattere profondamente allusivo dei testi di
Paolo, che non espone mai in maniera sistematica e dettagliata le sue opinioni su
Cristo. Un’altra era il fatto che in certi brani l’apostolo sembra esprimere una
visione di Cristo che, fino a poco tempo fa, non ritenevo potesse esistere già
all’epoca delle sue lettere, ovvero i primi scritti cristiani a esserci pervenuti.
Com’era possibile che Paolo professasse posizioni cristologiche più «alte»
rispetto a quelle di autori successivi come Matteo, Marco e Luca? La cristologia
non si era forse evoluta seguendo una traiettoria che dal «basso» arrivava
all’«alto»? Ma se è così, le visioni dei vangeli sinottici non dovrebbero essere
più «alte» rispetto a quelle di Paolo? Invece no, sono più «basse»! E io proprio
non ci arrivavo.
Ora però ci arrivo. Non è questione di «alto» e «basso»: semplicemente, i
sinottici esprimono un punto di vista diverso. Le loro sono cristologie
dell’esaltazione, quella di Paolo è una cristologia dell’incarnazione. La ragione
fondamentale è che Paolo considerava Cristo un angelo diventato umano.

Cristo come angelo in Paolo

A quanti di noi capita di tornare sullo stesso brano infinite volte senza capirlo?
Ho letto la Lettera ai Galati centinaia di volte, sia in inglese che in greco, ma il
vero significato di 4:14 continuava a sfuggirmi fino a — lo confesso — pochi
mesi fa. In questo versetto, Paolo definisce Cristo un angelo. Se non lo capivo
era perché si tratta di un proclama abbastanza oscuro, che avevo sempre
interpretato in un altro modo. Grazie all’opera di altri studiosi, ora mi rendo
conto del mio errore. 4
Paolo sta ricordando ai Galati come l’hanno accolto quando era malato,
aiutandolo a guarire: «E quella mia infermità, che era per voi una prova, voi non
la disprezzaste né vi fece ribrezzo; al contrario mi accoglieste come un angelo di
Dio, come Cristo Gesù stesso».
Avevo sempre interpretato il versetto nel senso che i Galati avevano accolto
Paolo malato come avrebbero fatto con un angelo, oppure con lo stesso Cristo.
La grammatica del testo originale greco, però, indica qualcosa di completamente
diverso. Come sosteneva Charles Gieschen, e come è stato confermato più di
recente dalla studiosa neotestamentaria Susan Garrett, il versetto non dice che i
Galati accolsero Paolo come un angelo o come Cristo, ma come un angelo quale
Cristo. 5 L’implicazione è che Cristo sia un angelo.
La ragione di questa lettura ha a che fare con la grammatica greca. Quando
usa la costruzione «al contrario/ma […] come […] come», Paolo non
contrappone due elementi, ma li mette sullo stesso piano. Lo sappiamo perché la
stessa costruzione ricorre in altri due brani paolini, dove il senso è
inequivocabile. Prendiamo 1 Corinzi 3:1: «Fratelli, io non ho potuto parlarvi
come a spirituali, ma ho dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in
Cristo». L’ultima parte individua due caratteristiche dei destinatari della lettera:
sono carnali e sono bambini in Cristo. Non sono affermazioni contrastanti, ma si
modificano a vicenda. Altrettanto vale per le riflessioni di Paolo in 2 Corinzi
2:17, dove di nuovo troviamo la stessa costruzione.
Il corollario è che in Galati 4:14 Paolo sta equiparando — e non
contrapponendo — Gesù a un angelo. Garrett fa un passo oltre e afferma che
Paolo «identifica [Gesù Cristo] con il primo angelo di Dio». 6
Se è vero, allora praticamente tutto ciò che Paolo dice di Cristo nelle sue
lettere assume una sua logica perfetta. In quanto Angelo del Signore, Cristo è un
essere divino preesistente e può essere chiamato Dio, perché ne è la
manifestazione terrena e corporea. Tutte cose che Paolo afferma riguardo a
Cristo, in modo particolarmente esplicito in Filippesi 2:6-11, un brano noto
come «inno dei Filippesi» o «inno cristologico dei Filippesi» perché è opinione
diffusa che si tratti di un antico inno o poema in onore di Cristo e della sua
incarnazione.
Il mio amico Charles Cosgrove, insigne studioso di Paolo e tra i maggiori
esperti mondiali della musica dell’antico mondo cristiano, mi ha convinto che il
brano non poteva essere cantato come un inno, perché l’originale greco non
possedeva la struttura ritmica e metrica adatta. Potrebbe quindi essere un poema,
o addirittura una sorta di prosa esaltata. La cosa certa è che si tratta di una
solenne riflessione su Cristo che dal cielo scende in terra per il bene degli altri e
per questo viene glorificato da Dio. Sembra una citazione, inoltre, che i Filippesi
potevano senz’altro conoscere. Insomma, abbiamo a che fare con un’altra
tradizione pre-paolina. 7

Il poema a Cristo nella Seconda Lettera ai Filippesi

Per cominciare, riporto il poema a Cristo — come lo chiamo — suddiviso in


versi (la scansione non corrisponde esattamente a quella del greco, ma i concetti
di base sono gli stessi). 8 Paolo lo introduce con queste parole: «Abbiate in voi
lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù» (2:5). Quindi arriva il
poema:
il quale, pur essendo in forma di Dio,
non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi
gelosamente,
ma svuotò se stesso,
prendendo forma di servo,
divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo,
umiliò se stesso,
facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù
si pieghi ogni ginocchio
nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi
che Gesù Cristo è il Signore,
alla gloria di Dio Padre.

Rendere giustizia in poche pagine a un brano così teologicamente denso è


un’impresa ardua (gli studiosi ci hanno scritto interi libri 9 ), ma alcuni aspetti
rivestono un particolare interesse ai nostri scopi.

L’inno dei Filippesi come tradizione pre-paolina


Per cominciare, va detto che il brano sembra davvero un componimento poetico.
Gli studiosi hanno ricostruito i versi in modi differenti, perché nell’originale
greco, naturalmente, non ci sono rientri sulla pagina né altre indicazioni
particolari: i manoscritti della Lettera ai Filippesi presentano il passo come tutti
gli altri, una riga e una parola alla volta, ma è innegabile che disposto in forma
poetica il testo acquisti un suo senso, persino più senso. Quella che ho adottato è
una struttura comunemente utilizzata nelle analisi del brano: il poema è
suddiviso in due sezioni di tre strofe ciascuna; ogni strofa è composta da tre
versi. La prima sezione si apre identificando l’oggetto del poema, «il quale»
(riferito a «Cristo Gesù»), la seconda con la parola «perciò». In termini di
significato complessivo, la prima sezione è dedicata alla «condiscendenza» di
Cristo (la sua discesa dal regno celeste per farsi umano e morire secondo la
volontà di Dio), la seconda alla sua «esaltazione», ovvero a come Dio lo innalzò
a un rango addirittura superiore al precedente per ricompensarlo della sua umile
obbedienza.
Come già detto, da tempo gli studiosi individuano in questo brano una
tradizione pre-paolina inserita nella Lettera ai Filippesi. Abbiamo varie ragioni
per pensarlo. Innanzitutto, il passo si presenta come unità autosufficiente poetica
più che in prosa. Inoltre, vari termini — comprese alcune parole chiave — non
compaiono altrove negli scritti di Paolo. Per esempio il sostantivo «forma»
(«forma di Dio» e «forma di servo») e il verbo «aggrapparsi»: la loro assenza
altrove in Paolo indica che probabilmente si tratta di una citazione.
A riprova di questa tesi, il brano contiene concetti fondamentali che Paolo non
ribadisce altrove: che Gesù fosse «in forma di Dio» prima di farsi uomo; che
avesse avuto la possibilità di «aggrapparsi» all’«essere uguale a Dio» e che per
diventare umano «svuotò se stesso». Quest’ultima idea, di solito, è interpretata
nel senso che per farsi uomo Cristo rinunciò alla prerogative esaltate che gli
spettavano in quanto essere divino. Esiste un ultimo argomento, leggermente più
complesso, a sostegno dell’idea che Paolo stia citando una tradizione
preesistente che circolava da un pezzo: parte del poema non è coerente con il
contesto. In questo punto della lettera, l’apostolo sta ammonendo i convertiti
Filippesi ad agire con altruismo trattando il prossimo meglio di come trattano se
stessi. Nel versetto precedente li ha invitati ad anteporre ai propri interessi quelli
degli altri, quindi cita il brano per dimostrare che ciò corrisponde al
comportamento di Gesù, il quale ha rinunciato a quanto era legittimamente suo
(la «forma di Dio») per assumere la «forma di servo» e obbedire a Dio fino a
morire per gli altri.
Il problema è che la seconda sezione del poema (versetti 9-11) non esprime
affatto la stessa idea, anzi: se presa alla lettera, sembra dire l’esatto contrario.
Secondo queste tre strofe, Dio ricompensò generosamente Gesù per aver
accettato di farsi umano e morire, esaltandolo a un livello ancora superiore (è
questo che sembra implicare il verbo greco tradotto come «sovranamente
innalzato», così come i versi successivi), rendendolo Signore di ogni cosa,
oggetto di confessione e adorazione da parte di tutti gli esseri viventi.
Senonché, l’idea dell’esaltazione di Cristo non corrisponde affatto alla ragione
per cui Paolo cita il poema. Non c’è nulla di altruistico nell’umile obbedienza
motivata dal desiderio di ricompensa, ma l’appello di Paolo in questo brano è
esattamente a badare agli interessi altrui prima che ai propri.
Poiché la seconda sezione del poema non «funziona» nel contesto, è quasi
certo che si tratti di un componimento preesistente già noto a Paolo e
probabilmente anche ai Filippesi. Se Paolo lo cita nella sua interezza è proprio
perché i suoi lettori lo conoscono e perché — sebbene l’ultima parte sia
interpretabile in senso opposto — gli serve a rafforzare il suo messaggio:
bisogna imitare l’esempio di Cristo dedicandosi agli altri.
Ecco dunque alcune delle ragioni che hanno portato gli studiosi a concludere
che probabilmente non fu Paolo a comporre il poema mentre scriveva ai
Filippesi. Si tratta di una tradizione pre-paolina. C’è un verso — forse lo avete
notato — più lungo degli altri: «Facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla
morte di croce». E in greco è ancora più lungo. Diversi studiosi ritengono che «e
alla morte di croce» sia un’aggiunta di Paolo, perché l’elemento fondamentale
per lui era proprio la crocifissione.
Nella Prima Lettera ai Corinzi Paolo ricorda ai suoi lettori che, per convertirli
dall’adorazione degli idoli alla fede nel Dio d’Israele e nel suo messia Gesù,
aveva utilizzato un messaggio incentrato sulla croce: «Poiché mi proposi di non
sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso» (1 Corinzi 2:2). Nella
Lettera ai Galati, specifica che fondamentale per ottenere la salvezza era proprio
la morte per crocifissione. Un conto sarebbe stato se lo avessero lapidato o
strangolato, ma essendo morto in croce Gesù poteva sopportare la «maledizione»
del peccato che altri meritavano, poiché le scritture dicono che Dio maledice
chiunque sia «appeso al legno» (Galati 3:10-13). È un’allusione alla legge di
Mosè enunciata in Deuteronomio 21:23: «Il cadavere appeso è maledetto da
Dio». Nel contesto originale, il versetto significa che chiunque venisse
giustiziato e lasciato a marcire su un albero subiva la maledizione di Dio.
Secondo Paolo, Gesù la subiva essendo morto inchiodato a un «albero» (la croce
di legno), ma poiché non la meritava doveva trattarsi di una maledizione che
spettava ad altri. Da qui l’importanza cruciale non solo della morte di Gesù, ma
della sua crocifissione.
I versi del poema a Cristo nella Seconda Lettera ai Filippesi sembrano
«funzionare» meglio senza le parole «e alla morte di croce», a riprova che
probabilmente Paolo le aggiunse perché il componimento aderisse ancora più da
vicino alla sua interpretazione teologica della morte di Gesù. Se è così, ne
discende che Paolo non aveva scritto il poema, ma l’aveva ereditato dalla
tradizione e inserito nella lettera in quanto utile ai suoi scopi. Citare il poema
significa naturalmente condividerne la visione di Cristo, ma qual è di preciso
questa visione? La mia tesi è che quella presentata da Paolo sia una cristologia
dell’incarnazione: Gesù come essere divino preesistente, un angelo sceso in terra
per umile obbedienza a Dio e da questi ricompensato con l’esaltazione a un
livello di divinità ancora superiore. Prima di approfondire questa lettura, però, va
detto che secondo alcuni il poema non esprime affatto una teologia
dell’incarnazione.

L’inno a Cristo e Adamo

Alcuni studiosi hanno messo in dubbio l’idea che un poema risalente a prima
della Lettera ai Filippesi — composto quindi attorno al 40 e.v. — potesse già
esprimere un’interpretazione incarnazionale di Cristo. L’impressione è che sia
troppo presto per una cristologia così «alta». Per risolvere parzialmente il
problema, hanno dunque proposto una spiegazione alternativa: l’inizio del
poema non presenterebbe Cristo come essere divino preesistente, ma come
essere pienamente divino, una sorta di «secondo Adamo». Per certi versi, si
tratterebbe quindi della seconda comparsa del padre dell’umanità. 10
La «forma di Dio» non indicherebbe perciò un qualche stato di preesistenza
celeste, ma il fatto che Gesù è come Adamo, creato a «immagine di Dio»:
immagine e forma come sinonimi, insomma. Dio ha fatto Adamo ed Eva a
propria «immagine» (Genesi 1:27), ma non per questo, naturalmente, sono
uguali a Dio: sono sue creature. Per mezzo di un comandamento, Dio ha
spiegato loro che non devono mangiare «dall’albero della conoscenza del bene e
del male». Se mangiano quel frutto — per inciso, non viene chiamato «mela» —
moriranno (Genesi 2:16-17).
Come va a finire? Il serpente — mai identificato come Satana nella Genesi: è
un vero serpente, a quanto pare dotato di zampe — tenta Eva, dicendole che
mangiando il frutto lei e Adamo non moriranno, ma diventeranno «come Dio,
avendo la conoscenza del bene e del male» (Genesi 3:5). E così Eva dà un morso
al frutto e lo porge ad Adamo, che fa altrettanto. Aprendo gli occhi, i due si
accorgono di essere nudi. Non sono più innocenti, ma possono formulare giudizi
morali, e sono destinati a morire come tutti i loro figli e discendenti (con due
eccezioni: Enoch ed Elia).
Nelle sue lettere, talvolta Paolo definisce Gesù un «secondo Adamo». A
differenza del primo, il peccatore, Cristo è l’«uomo perfetto» che ha invertito la
traiettoria dell’umanità messa in moto dall’Adamo originario. Adamo ha
introdotto il peccato nel mondo, Cristo ha eliminato la maledizione del peccato;
Adamo ha portato la morte ai suoi discendenti, Cristo ha donato la vita a tutti
coloro che credono in lui. Dice Paolo nella Lettera ai Romani: «Come con una
sola trasgressione la condanna si è estesa a tutti gli uomini, così pure, con un
solo atto di giustizia, la giustificazione che dà la vita si è estesa a tutti gli uomini.
Infatti, come per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati resi
peccatori, così anche per l’ubbidienza di uno solo, i molti saranno costituiti
giusti» (5:18-19).
Paolo, dunque, vedrebbe in Cristo una sorta di secondo Adamo che ha
eliminato il peccato, le condanne e la morte portati dal primo Adamo. Una
lettura applicabile anche all’inno cristologico dei Filippesi? Secondo alcuni
studiosi, sì: come Adamo era fatto «a immagine di Dio», così Cristo era «in
forma di Dio». Ma laddove Adamo reagisce peccando, Cristo lo fa con l’umile
obbedienza. Adamo pecca perché vuole essere «come Dio»; Cristo «non
considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente». E così,
come Adamo ha introdotto la morte nel mondo con la sua disobbedienza, così
Cristo offre al mondo la possibilità della vita con la sua obbedienza: lo dimostra
in particolare il fatto che Dio ha «sovranamente innalzato» Gesù rendendolo
Signore di ogni cosa.
Riassumendo, i fautori di questa posizione non interpretano il Cristo descritto
nell’inno dei Filippesi come un essere divino preesistente, ma come un uomo
uguale agli altri e fatto a immagine di Adamo, che a sua volta è fatto a immagine
di Dio. Gesù però cancella il peccato di Adamo con l’obbedienza, e solo a quel
punto viene esaltato a un livello divino.
A lungo ho trovato affascinante questa teoria, e per parecchi anni ho sperato
che fosse corretta, perché avrebbe contribuito a risolvere le mie difficoltà nella
comprensione della cristologia paolina. Ma per quanto mi sforzassi di
condividerla, non ci sono mai riuscito, per tre ragioni. In primo luogo, se Paolo
(o l’autore del poema) avesse voluto davvero indurre il lettore ad associare Gesù
con Adamo, lo avrebbe senz’altro fatto in maniera più esplicita. Se anche avesse
deciso di non chiamare Adamo per nome o definire Gesù il «secondo Adamo»,
avrebbe potuto rendere più evidenti le allusioni alla storia di Adamo ed Eva. In
particolare, invece di dire che era «in forma di Dio», avrebbe detto che Cristo era
«a immagine di Dio». Quello è il termine usato nella Genesi, e per l’autore
sarebbe stato molto semplice citarlo alla lettera, se la sua intenzione fosse stata
richiamare proprio la Genesi.
In secondo luogo, nella storia di Adamo ed Eva non è lui a voler essere «come
Dio», ma lei. Adamo mangia il frutto solo quando Eva glielo porge: l’autore non
spiega altrimenti il suo gesto. Ma questo significa che, nel suo desiderio di non
essere uguale a Dio, Cristo sarebbe la controparte non di Adamo, bensì di Eva.
Nei suoi scritti, però, Paolo non associa mai Cristo a Eva. In terzo luogo — forse
è l’aspetto più importante — esistono altri brani in cui Paolo dà veramente
l’impressione di vedere Cristo come essere divino preesistente. Un esempio ce lo
offre un passo assai singolare della Prima Lettera ai Corinzi. Paolo sta spiegando
come i figli d’Israele, una volta fuggiti dall’Egitto con Mosè, si nutrirono
vivendo per tanti anni nel deserto (come raccontano i libri dell’Esodo e dei
Numeri e la Bibbia ebraica). Gli israeliti non morivano di sete perché la roccia
colpita da Mosè affinché producesse acqua (Numeri 20:11) continuava a seguirli
ovunque andassero. Ebbene, secondo Paolo «questa roccia era Cristo» (1 Corinzi
10:4). Proprio come oggi dona la vita a chi crede in lui, allo stesso modo Cristo
la offriva agli israeliti nel deserto. Il che, naturalmente, sarebbe stato impossibile
se all’epoca non fosse esistito. Per Paolo, insomma, Cristo era un essere
preesistente che di quando in quando si manifestava in terra.
Ma prendiamo un brano in cui Paolo descrive effettivamente Gesù come un
secondo Adamo: «Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo uomo è
dal cielo» (1 Corinzi 15:47). L’accento qui è proprio sulla differenza fra i due:
Adamo è nato in questo mondo, Cristo esisteva già prima di venire al mondo,
perché era un essere celeste.
Insomma, l’interpretazione che vorrebbe il Cristo descritto nell’inno dei
Filippesi come una sorta di «Adamo perfetto» non regge: da un lato perché il
brano ha caratteristiche incompatibili con essa, dall’altro perché è del tutto
inutile, visto che non risolve il problema di una cristologia incarnazionale.
Altrove Paolo afferma chiaramente che Gesù era un essere divino preesistente
venuto al mondo, e lo stesso dice questo poema.

L’inno a Cristo e la cristologia incarnazionale

Molto altro si può dire di questo straordinario brano del Nuovo Testamento, uno
dei più dibattuti e commentati dagli specialisti. Se la maggioranza degli studiosi
ha ragione nel ritenerlo espressione di una cristologia incarnazionale, allora la
visione di Cristo che ne emerge è chiara: Cristo come essere preesistente che ha
deciso di manifestarsi in carne e ossa e che, essendosi umiliato fino al punto di
morire, è stato innalzato a un livello ancora superiore e trasformato nel Signore
di ogni cosa. Una visione che assume una sua logica se vediamo il Cristo
preesistente alla propria nascita come essere angelico che ha abbandonato
l’esistenza celeste allo scopo di attuare la volontà di Dio in terra morendo per gli
altri.
Occorre sottolineare che il Cristo qui ritratto come essere divino preesistente è
un angelo, ma non Dio Onnipotente. Non è il Padre, perché è il Padre a esaltarlo,
e prima di farsi uomo non è — nella maniera più assoluta — «uguale» a Dio.
Abbiamo varie ragioni per pensarlo, a cominciare dalla precisazione — nella
prima parte del poema — che Cristo non considera «l’essere uguale a Dio
qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente». Da tempo gli studiosi dibattono
sull’esatto senso di queste parole. Cristo era già uguale a Dio ma preferì non
attaccarsi a quella parità per poter diventare umano? Oppure non lo era ancora
ma preferì diventare umano senza puntare alla parità con Dio? La differenza è
enorme.
Il problema, fra l’altro, è che il verbo greco tradotto con «aggrapparsi» è
piuttosto raro e —almeno in teoria — interpretabile in entrambi i sensi. Di fatto,
però, il termine (e tutti quelli a esso associati in greco) indica quasi sempre
qualcosa che si desidera ma non si possiede, come il borsellino per il rapinatore.
Lo studioso tedesco Samuel Vollenweider ha dimostrato che il verbo è utilizzato
in questo senso da una vasta gamma di autori ebraici, ed è inoltre applicato ai
governanti umani più tracotanti che vorrebbero rendersi più onnipotenti (cioè
divini) di quanto siano. 11 Il senso dell’inno dei Filippesi, dunque, sembra
proprio questo.
Una seconda ragione per ritenere che Gesù non fosse ancora uguale a Dio è
che solo questa interpretazione giustifica la seconda parte del poema, quella in
cui Dio «innalza» Cristo ancora più «sovranamente». Se Cristo gli fosse già
uguale, come potrebbe Dio esaltarlo ancora più in alto dopo il suo atto
d’obbedienza? Cosa c’è di più alto dell’uguaglianza con Dio? Per giunta, solo
dopo l’esaltazione Cristo ottiene «il nome che è al di sopra di ogni nome» e
diviene oggetto di culto per l’umanità intera: di conseguenza, doveva essere
un’entità divina inferiore prima di umiliarsi facendosi uomo e morendo. Quando
afferma che Cristo era «in forma di Dio», perciò, il poema non intende dire che
era uguale a Dio Padre, ma che gli era simile, come l’Angelo del Signore citato
nella Bibbia ebraica.
Oggi sono in molti a trovare strana l’idea che Cristo potesse essere divino
senza essere pienamente uguale a Dio, ma dobbiamo ricordare quanto abbiamo
scoperto nel capitolo 1: la nostra convinzione che esista un divario incolmabile
tra il regno divino e quello umano, e che esista un solo livello di divinità, non
corrisponde alle credenze degli antichi greci, romani ed ebrei, e nemmeno dei
cristiani. Non dimentichiamo l’iscrizione citata nel Cap. 1, quella sul «divino»
Cesare Augusto che può diventare ancora «più divino» se durante il suo regno
offrirà ulteriori benefici al popolo. Com’è possibile diventare «più divini»? Nel
mondo antico era possibile perché la divinità era un continuum, anche negli
ambienti giudei e cristiani. Secondo l’inno dei Filippesi Cristo era sempre stato
divino, ma l’esaltazione l’aveva reso «più divino», ovvero uguale a Dio.
Su questo punto c’è ampio consenso fra gli studiosi, grazie alle ultime due
strofe del poema (versetti 10-11): «[…] nel nome di Gesù si pieghi ogni
ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù
Cristo è il Signore, / alla gloria di Dio Padre». A una lettura superficiale può
sfuggire, ma questi versi alludono a un brano della Bibbia ebraica, e che brano!
Secondo Isaia 45:22-23, è soltanto a Yahweh, il Dio d’Israele, che verranno
concessi tali onori:
Volgetevi a me e siate salvati, voi tutte le estremità della terra!
Poiché io sono Dio, e non ce n’è alcun altro.
Per me stesso io l’ho giurato;
è uscita dalla mia bocca una parola di giustizia, e non sarà revocata:
Ogni ginocchio si piegherà davanti a me,
ogni lingua mi presterà giuramento.

Il profeta Isaia non potrebbe essere più esplicito. Esiste un solo Dio, e quel Dio è
Yahweh. 12 Quel Dio ha giurato che a nessun altro ogni ginocchio si piegherà e
ogni lingua confesserà. Gesù ha ricevuto rango, onore e gloria del solo Dio
Onnipotente.
Questa lettura del poema a Cristo dimostra che sin dai primissimi tempi i suoi
seguaci facevano affermazioni solenni sul suo conto. Era stato esaltato al
medesimo livello di Dio, sebbene quest’ultimo avesse detto che di Dio «non ce
n’è alcun altro». In qualche modo, tuttavia, i cristiani immaginavano che un altro
ci fosse, e che fosse uguale a Dio: non perché fosse Dio «per natura» — per
usare l’espressione filosofico-teologica destinata a entrare in uso
successivamente —, ma perché Dio lo aveva reso tale. Ma come poteva esserlo,
se Dio era Dio e non ce n’era un altro? Come vedremo, questo interrogativo
sarebbe diventato il cardine dei futuri dibattiti cristologici. In questa fase,
possiamo solo dire che i primi cristiani non lo ritenevano un dilemma — o
paradosso — abbastanza impellente da mettere per iscritto i loro pensieri in
merito, perciò non sappiamo esattamente come lo affrontassero.
Bisogna ora discutere un ultimo aspetto, che forse avete già intuito. Abbiamo
definito «incarnazionale» la cristologia espressa nell’inno dei Filippesi poiché
Gesù vi viene ritratto come essere divino preesistente che si fa uomo, ma il
poema contiene anche un evidente elemento di «esaltazione»: facendolo
risorgere, Dio ha innalzato Gesù a un livello ancora superiore al precedente. Per
certi versi, dunque, il poema presenta una cristologia di transizione che unisce
una visione incarnazionale a una fondata sull’esaltazione. Gli autori successivi si
allontaneranno ulteriormente dalla cristologia dell’esaltazione, al punto che
Cristo finirà per essere descritto come uguale a Dio prima ancora di apparire in
terra, addirittura da sempre. Ma l’inno dei Filippesi sostiene altro. In questo
splendido brano, che Paolo cita e a cui presumibilmente crede, Cristo è sì un
essere divino preesistente, ma nient’altro che un angelo (o qualcosa di simile),
reso uguale a Dio solo dopo avergli obbedito fino alla morte.

Altri brani paolini

La cristologia incarnazionale espressa nell’inno dei Filippesi emerge anche da


altri passi delle lettere di Paolo. Come abbiamo già visto, Paolo era convinto che
Cristo fosse la «roccia» che dava acqua agli Israeliti nel deserto (1 Corinzi 10:4)
e sottolineava che Cristo, a differenza del primo Adamo, era venuto «dal cielo»
(15:47). Quando Paolo dice che Dio «manda» suo figlio in terra dal regno
celeste, l’impressione è che non sia una metafora (si pensi per esempio a
Giovanni Battista «mandato da Dio» in Giovanni 1:6). Dalla Lettera ai Romani:
«Ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo
ha fatto; mandando il proprio Figlio in carne simile a carne di peccato» (8:3).
Interessante l’uso della parola simile, proprio come l’inno dei Filippesi parla di
Cristo che diviene «simile agli uomini»: il termine greco, non a caso, è lo stesso.
Forse Paolo voleva evitare di dire che Cristo diventò pienamente umano?
Difficile rispondere.
È però chiaro che Paolo non pensava a un Cristo comparso dal nulla, come
sembrano fare gli angeli nella Bibbia ebraica.
C’è un suo versetto sul quale mi sono scervellato a lungo: «Ma quando giunse
la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge»
(Galati 4:4). Perché specificare che Cristo era nato da una donna? In quale altro
modo avrebbe potuto nascere? Se però Paolo lo riteneva un essere divino
preesistente, l’affermazione assume un senso: in quel caso è importante
sottolineare che era nato da un essere umano e non apparso come aveva fatto
l’Angelo del Signore davanti ad Agar, Abramo e Mosè. Insomma, secondo Paolo
Gesù è nato in carne e ossa, come un bambino qualsiasi.
Ma Paolo fa affermazioni ancora più esaltate sul conto di Gesù. Nel capitolo 2
abbiamo visto che alcuni testi ebraici interpretavano la Sapienza di Dio come
un’ipostasi, ovvero un aspetto o caratteristica di Dio che assume una propria
esistenza indipendente. Tramite la Sapienza Dio ha creato ogni cosa (Proverbi
8), e in quanto Sapienza di Dio era al tempo stesso Dio e una sorta di immagine
di Dio. Per citare la Sapienza di Salomone, si tratta di «un’emanazione della
potenza di Dio […] un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia
dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà» (7:25-26). Come sappiamo,
inoltre, la Sapienza era identificabile con l’Angelo del Signore.
Secondo Paolo l’Angelo del Signore era Gesù, che perciò, prima di venire a
questo mondo, era anche la Sapienza di Dio.
Ecco perché Paolo può parlare della «gloria di Cristo, che è l’immagine di
Dio» (2 Corinzi 4:4). Non solo, Cristo può addirittura essere descritto come
responsabile della creazione:
Tuttavia per noi c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui,
e un solo Signore, Gesù Cristo,
mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale anche noi siamo.
(1 Corinzi 8:6)

Anche questo versetto potrebbe contenere un credo pre-paolino, dal momento


che, come vediamo, è facilmente divisibile in due sezioni di due righe ciascuna.
La prima sezione è una confessione di Dio Padre, la seconda una confessione di
Gesù Cristo, «mediante il quale» tutte le cose, suoi fedeli compresi, vengono a
esistere. Qualcosa di molto simile a quanto dicono alcuni testi ebraici non
cristiani sulla Sapienza di Dio. E la Sapienza di Dio, come sappiamo, veniva
assimilata a Dio stesso.
Altrettanto vale per Gesù in Paolo. Uno dei suoi versetti più discussi è Romani
9:5. Gli studiosi non concordano su quale sia la traduzione più adatta, ma Paolo
sta chiaramente parlando dei privilegi concessi agli israeliti: a loro appartengono
i «padri» (i patriarchi ebrei), e da loro «proviene, secondo la carne, il Cristo, che
è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!». Qui Cristo è «sopra tutte
le cose Dio»: una visione decisamente esaltata.
Secondo alcuni traduttori, però, il brano non dice che Gesù è Dio, e andrebbe
reso diversamente, come un’affermazione su Cristo seguita da una benedizione a
Dio: «Dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo. Possa Dio che è sopra tutte
le cose essere benedetto in eterno. Amen!». I problemi della traduzione sono
spaventosamente complessi e le opinioni degli studiosi divergono, ma si tratta di
una questione fondamentale: se la versione corretta è la prima, allora questo è
l’unico punto delle lettere paoline in cui Gesù viene chiamato esplicitamente
Dio.
Ma è davvero corretta? Per molti anni ho pensato che l’interpretazione giusta
fosse la seconda, e che il brano non assimilasse Gesù a Dio. Il motivo principale,
tuttavia, era la mia convinzione che Paolo non avesse mai identificato Gesù con
Dio altrove, perciò era improbabile che lo facesse qui. Un evidente caso di
ragionamento vizioso: oggi, come sostengono con veemenza altri studiosi, credo
che la prima traduzione renda più giustizia al greco. 13 Vale la pena di
sottolineare che Paolo parla di Gesù come di Dio, come abbiamo visto, ma
questo non significa che per lui Cristo sia il Dio Padre Onnipotente. Non c’è
dubbio che lo ritenesse Dio in un certo senso, ma non lo assimilava al Padre:
prima di venire al mondo Gesù era un essere angelico e divino; era l’Angelo del
Signore; alla fine fu esaltato al livello di Dio, onorato e adorato come lui. Di
conseguenza, oggi non ho problemi a riconoscere che Paolo poteva chiamarlo
esplicitamente Dio, come sembra fare in Romani 9:5.
Se un autore cristiano antico come Paolo può vedere in Cristo un essere divino
incarnato, allora non sorprende che la stessa idea riaffiori in epoche successive,
più che mai nel Vangelo di Giovanni.

La cristologia dell’incarnazione in Giovanni


Ero nel pieno del mio dottorato di ricerca quando mi resi conto di quanto
Giovanni fosse diverso dagli altri Vangeli. Fino a quel momento, al college,
avevo l’impressione che tutti dicessero sostanzialmente le stesse cose. Certo, qui
e là non mancavano sfumature diverse, ma nel complesso i concetti di base mi
parevano uguali.
Per prepararmi alla laurea magistrale, decisi di condurre una sorta di
esperimento leggendo solo Matteo, Marco e Luca per tre anni, conclusi i quali
riaprii Giovanni. Lo rilessi in greco, tutto d’un fiato. Fu una rivelazione.
Essendomi ormai abituato a linguaggio, stile, temi e punti di vista dei vangeli
sinottici, rimasi sbalordito da quanto Giovanni fosse diverso, da ogni punto di
vista: non solo un altro autore, ma letteralmente un altro mondo. Questo Vangelo
— per esempio — non contiene soltanto allusioni al potere e all’autorità divina
di Gesù, ma dichiarazioni perentorie che lo assimilano a Dio e lo presentano
come essere divino esistente già prima di venire al mondo. Non è la stessa
visione di Paolo (Gesù come una sorta d’angelo successivamente esaltato a un
grado di divinità superiore): per Giovanni, Gesù era uguale a Dio e ne
condivideva persino nome e gloria prima ancora di incarnarsi. Per usare la
terminologia più antica (come facevo anch’io all’epoca), si trattava di una
cristologia decisamente alta.
Già in quella fase iniziale delle mie ricerche, tuttavia, cominciavo a dubitare
che quella cristologia fosse la prima documentata tra i seguaci di Gesù. Da una
parte, non era la visione dei Vangeli più antichi, un aspetto naturalmente
fondamentale. Se Gesù fosse stato uguale a Dio sin «dal principio», prima
ancora di scendere in terra, e se lo sapeva, allora i vangeli sinottici lo avrebbero
detto in qualche punto. Non si sarebbe forse trattato della sua caratteristica più
importante? Invece no: in Matteo, Marco e Luca — e nelle loro fonti Q, M e L
— Gesù non parla mai di sé in questi termini.
Dall’altra parte, mi resi conto con stupore che quelli espressi in Giovanni sono
punti di vista condivisi da Gesù stesso e dall’autore del testo. Mi spiego. Di
chiunque si trattasse (noi lo chiamiamo Giovanni, ma in realtà non sappiamo chi
fosse), l’autore del Vangelo di Giovanni doveva essere un cristiano vissuto una
sessantina d’anni dopo Gesù in un’altra regione del mondo e in un’altra cultura,
doveva parlare un’altra lingua — il greco e non l’aramaico — e possedere un
livello d’istruzione completamente diverso. Eppure, in Giovanni troviamo brani
il cui narratore sembra proprio Gesù, tanto che in certi punti non si capisce chi
stia parlando. 14 Gesù è indistinguibile dal narratore e viceversa, ma come può
essere, se Gesù aveva vissuto in un’epoca, una regione e una cultura diverse,
parlava una lingua diversa e non aveva potuto approfittare dei vantaggi di quella
che oggi chiameremmo istruzione superiore? Ci arrivai da un momento all’altro,
e l’illuminazione mi tolse il fiato. La risposta è che nel Vangelo di Giovanni non
ascoltiamo due voci, quella di Gesù e quella del narratore, ma una: l’autore parla
per se stesso e per Gesù. Quelle non sono parole di Gesù, ma parole di Giovanni
messe in bocca a Gesù.

Proclami esaltati su Gesù in Giovanni

Uno degli aspetti più sorprendenti del Vangelo di Giovanni sono le dichiarazioni
esaltate su Gesù. Prima di venire al mondo, mentre è nel mondo e dopo averlo
abbandonato, Gesù è indiscutibilmente Dio, uguale a Dio Padre. Prendiamo i
seguenti brani, che non troviamo in nessun altro dei quattro Vangeli:
Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. […] E la Parola è diventata carne
e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua
gloria, gloria come di unigenito dal Padre. (1:1, 14; al versetto 17 la Parola incarnata viene chiamata
«Gesù Cristo»)
Gesù rispose loro: «Il Padre mio opera fino ad ora, e anch’io opero». Per questo i Giudei più che mai
cercavano d’ucciderlo; perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi
uguale a Dio. (5:17-18)
Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse nato, io sono». (8:58)
[Gesù disse:] «Io e il Padre siamo uno». (10:30) • Filippo gli disse: «Signore, mostraci il Padre e ci
basta». Gesù gli disse: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto
me, ha visto il Padre». (14:8-9)
[Gesù pregò Dio:] «Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che tu mi hai data da fare.
Ora, o Padre, glorificami tu presso di te della gloria che avevo presso di te prima che il mondo
esistesse». (17:4-5)
[Gesù pregò:] «Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati,
affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del
mondo». (17:24)
Tommaso gli rispose: «Signore mio e Dio mio!». (20:28)

Occorre essere chiari: in questo Vangelo Gesù non è Dio Padre, perché l’intero
capitolo 17 è una preghiera al Padre, e — come già detto — Gesù non sta
parlando con se stesso. Ha però ottenuto una gloria pari a quella di Dio Padre,
prima di venire al mondo: quando lo abbandona, dunque, non fa che tornare alla
gloria che era già sua. Certo, anche qui Gesù viene «esaltato» — più volte dice
di essere stato «innalzato» sulla croce, alludendo sia alla crocifissione che alla
conseguente «esaltazione» in cielo —, ma non a un livello superiore rispetto al
precedente, come in Paolo. Per Giovanni, Gesù era già «Dio» e «con Dio» prima
di incarnarsi, in quanto essere divino. I primi diciotto versetti di questo Vangelo,
spesso chiamati Prologo di Giovanni, non potrebbero essere più chiari in questo
senso.

Il Prologo di Giovanni

In nessun punto del Nuovo Testamento troviamo espressa altrettanto


chiaramente l’idea di Cristo come essere divino preesistente — il Verbo — che
si è fatto umano. Nel capitolo 2 abbiamo visto che il Verbo — Logos in greco —
di Dio era talvolta interpretato come ipostasi divina, ovvero una caratteristica di
Dio che finiva per assumere un’esistenza a sé. Trattandosi del Verbo di Dio,
poteva essere immaginato come distinto da Dio, proprio come le parole che sto
digitando provengono dalla mia mente ma poi vivono di vita propria. Al tempo
stesso, trattandosi del Verbo di «Dio», ne manifestava pienamente l’essenza
divina e in quanto tale poteva essere chiamato a sua volta «Dio». L’idea del
Logos divino era rintracciabile non solo nella letteratura ebraica, ma anche negli
ambienti filosofici greci legati allo stoicismo e al medioplatonismo. Tutto questo
potrebbe aver influito sull’espressione del Verbo più poetica e potente che ci sia
pervenuta dall’antica letteratura cristiana, i primi diciotto versetti di Giovanni.

Il Prologo come poema preletterario


È opinione diffusa tra gli studiosi che il Prologo fosse un poema preesistente che
l’autore di Giovanni aveva inserito nel suo lavoro, forse in una seconda
versione. 15 I tratti distintivi della tradizione preletteraria ci sono tutti: l’unità
poetica autosufficiente, il termine fondamentale — la Parola o Logos — che non
appare altrove in riferimento a Cristo nell’intero Vangelo. Se si tratta di un brano
preesistente, allora l’autore — o il curatore successivo — del Vangelo trovava la
sua visione cristologica profondamente compatibile con la propria, sebbene la
terminologia differisse da quella che era abituato a usare. Ecco perché lo scelse
per aprire la sua narrazione. 16
Il carattere poetico del brano è visibile nel cosiddetto parallelismo scalare,
una figura in cui l’ultimo sostantivo di un verso viene ripetuto all’inizio del
successivo. Vediamo due esempi:
Nel principio era la Parola,
la Parola era con Dio
e la Parola era Dio. (Giovanni 1:1)
In lei era la vita,
e la vita era la luce degli uomini.
La luce splende nelle tenebre,
e le tenebre non l’hanno sopraffatta. (1:4-5)
Nei versetti 1-18 vengono interpolate due aggiunte in prosa che non sembrano in
armonia con il poema, per il resto dedicato al Logos: le aggiunte non riguardano
Cristo, ma Giovanni Battista in quanto suo precursore (vv. 6-8 e 15).
Estrapolandoli, il poema scorre meglio. È probabile che a effettuare queste
aggiunte sia stato l’autore (o curatore) che aveva inserito il poema nel brano.

L’insegnamento del Prologo


Senza l’aggiunta delle riflessioni su Giovanni Battista, il poema parla del Logos
di Dio che esisteva con Dio nel principio e si era fatto umano con Gesù Cristo.
Cristo non viene nominato fino al penultimo versetto, ma che il poema sia
dedicato a lui è evidente leggendolo dall’inizio alla fine. Ciononostante, è
essenziale essere precisi nell’interpretare il Prologo di Giovanni e il ritratto di
Cristo che ne emerge. Gesù non viene affatto presentato come un essere
preesistente alla propria nascita, né si dice che fosse nato da una vergine. A
preesistere era il Logos di Dio mediante il quale Dio aveva creato l’universo:
solo quando il Logos si era fatto umano Gesù aveva cominciato a esistere.
Insomma, Gesù Cristo era il Logos fatto uomo, ma non esisteva prima
dell’incarnazione: era il Logos a esistere già.
Sul Logos, la Parola, Giovanni fa affermazioni decisamente clamorose.
L’apertura del poema richiama Genesi 1:1, l’inizio della Bibbia. Dice Giovanni
che «nel principio era la Parola», per mezzo della quale «ogni cosa è stata fatta»,
comprese la «vita» e la «luce». Come potevano i lettori ebrei non pensare
immediatamente al racconto della creazione nella Genesi? Anche la Genesi
comincia con l’espressione «nel principio», le stesse parole greche usate in
seguito da Giovanni. L’inizio della Genesi è dedicato alla creazione, e come fa
Dio a creare il mondo e tutto ciò che contiene? Con una parola: «Dio disse: “Sia
Luce!” E luce fu». È Dio a creare la luce e infine la vita, e lo fa con la sua parola.
Nel Prologo di Giovanni, quella Parola viene presentata come una sorta di
ipostasi di Dio.
Come in altri testi ebraici, la Parola è un’entità distinta da Dio, ma essendo la
parola di Dio, la sua manifestazione esterna di sé, la sua unica funzione è
rappresentarlo fedelmente, e in questo senso è essa stessa Dio. Ecco perché
Giovanni ci dice che la Parola era «con Dio» ma al tempo stesso «era Dio». È la
parola che ha posto in essere la vita e trasformato le tenebre in luce, proprio
come nella Genesi.
Al lettore attento, a questo punto, tornerà in mente ciò che alcuni testi ebraici
— per esempio Proverbi 8 — dicono a proposito della Sapienza in quanto agente
divino mediante il quale Dio creò il mondo. Il raffronto è pertinente. Come
sottolinea lo studioso dell’antico giudaismo Thomas Tobin, le seguenti
affermazioni vengono fatte da un lato sulla Sapienza in vari testi ebraici non
cristiani, dall’altro sul Logos nel Prologo di Giovanni: 17
Entrambi erano «nel principio» (Giovanni 1:1; Proverbi 8:22-23).
Entrambi erano «con Dio» (Giovanni 1:1; Proverbi 8:27-30; Sapienza 9:9).
Entrambi sono agenti mediante i quali tutte le cose erano state fatte (Giovanni 1:3; Sapienza
7:22).
Entrambi danno la «vita» (Giovanni 1:3-4; Proverbi 8:35; Sapienza 8:13).
Entrambi danno la «luce» (Giovanni 1:4; Sapienza 6:12; 8:26).
Entrambi sono superiori alle tenebre (Giovanni 1:5; Sapienza 7:29-30).
Nessuno dei due viene riconosciuto nel mondo (Giovanni 1:10; Baruc 3:31).
Entrambi hanno abitato fra la gente del mondo (Giovanni 1:11; Siracide 24:10; Baruc 3:37-4:1).
Entrambi vengono respinti dalla gente del mondo (Giovanni 1:11; Baruc 3:12).
Entrambi hanno vissuto in una tenda fra la gente (Giovanni 1:14; Siracide 24:8; Baruc 3:38).

Il Logos nel poema a Cristo del Prologo di Giovanni, dunque, viene interpretato
in maniera molto simile alla Sapienza in altri testi ebraici. Come osserva Tobin,
quanto dice Giovanni riguardo al Logos ricorda da vicino anche la descrizione
che ne viene fatta negli scritti di Filone. In entrambi i casi il Logos somiglia alla
Sapienza, esisteva con Dio «nel principio» — prima della creazione — ed è
chiamato «Dio». Per entrambi gli autori, è lo strumento della creazione e il
mezzo con cui gli uomini diventano figli di Dio.
Non dobbiamo certo pensare che Filone o gli scritti ebraici sulla Sapienza
siano la fonte letteraria dell’inno poetico al Logos nel Prologo. Il punto è che
quanto si dice del Logos all’inizio del Vangelo di Giovanni è molto simile a
quanto certi autori ebraici andavano dicendo del Logos e della Sapienza. Con
una differenza fondamentale, però. In Giovanni — e in nessun altro testo fra
quelli che abbiamo preso in esame — il Logos si incarna in un essere umano
specifico: Gesù Cristo.
Come ho già sottolineato, il Prologo non dice che Gesù esisteva già, aveva
creato l’universo e si era incarnato, ma che era stato il Logos a fare tutte queste
cose. Essendo con Dio prima che l’universo esistesse, era il Logos di Dio, e in
questo senso era Dio. Mediante il Logos, l’universo e tutto ciò che conteneva
avevano ottenuto la vita. E il Logos si era fatto umano: «E la Parola è diventata
carne e ha abitato per un tempo fra di noi». L’incarnazione del Logos era Gesù
Cristo. Quando il Logos si era fatto uomo e aveva abitato fra la sua gente, questa
lo aveva respinto (Giovanni 1:11), ma coloro che lo accoglievano diventavano
«Figli di Dio» (1:12). Queste persone non erano semplicemente nate nel nostro
mondo fisico, ma erano nate da Dio (1:13), siccome il Logos fatto carne è il solo
Figlio di Dio, superiore persino al grande legislatore Mosè, poiché è l’unico a
essere mai stato con Dio, nel suo grembo. Di conseguenza, è il solo ad aver fatto
conoscere il Padre (1:17-18).
Considerando le vaste implicazioni di questa grandiosa cristologia
incarnazionale, c’è un risvolto negativo che potrebbe essere già emerso dalle mie
ultime riflessioni. Se il Logos incarnato era l’unico a conoscere davvero Dio e ad
averlo fatto conoscere — ben più di Mosè, il legislatore degli ebrei — e se chi ha
rivelato Dio è stato respinto dal suo stesso popolo, come ne escono gli ebrei?
Secondo questa visione, è evidente che hanno rifiutato non solo Gesù, ma anche
la Parola di Gesù che era Dio. Ma rifiutando il «Dio» Logos, non hanno rifiutato
anche Dio? Le implicazioni vaste e decisamente terrificanti di questo
ragionamento verranno discusse nell’epilogo. Alcuni cristiani arrivarono a
sostenere che, rifiutandosi di riconoscere la vera identità di Gesù, gli ebrei
avevano rinnegato il proprio Dio.
C’è però un altro aspetto che va ribadito a questo punto. Se definiamo
cristologia alta questo genere di visione incarnazionale, allora dovremmo
considerare «altissima» la cristologia espressa nel Prologo di Giovanni, più
ancora che nell’inno dei Filippesi. Per l’autore di quel poema come per lo stesso
Paolo, prima di farsi uomo Cristo era una sorta di essere angelico, probabilmente
il «primo degli angeli» o l’«Angelo del Signore». Come ricompensa per aver
obbedito a Dio fino alla morte, era stato innalzato a un livello ancora superiore,
uguale a Dio per onore e per stato: quello di Signore di ogni cosa. Una visione
già straordinariamente esaltata di Gesù, il predicatore della Galilea che
annunciava l’imminente regno di Dio e che, essendosi scontrato con la legge, era
morto in croce. Ma il Prologo di Giovanni esprime una visione ancora più
elevata. Qui Cristo non è un angelo di Dio che viene «iperesaltato» in un
secondo momento. Tutto il contrario: ancora prima di apparire in terra Gesù era
il Logos di Dio, un essere che era Dio e mediante il quale l’intero universo era
stato creato.
La presentazione di Cristo come Logos incarnato non ricorre altrove in
Giovanni, ma è comunque strettamente allineata alla cristologia espressa nel
resto del Vangelo. Ecco perché Cristo può farsi «uguale a Dio» (5:18), può dire
che «io e il Padre siamo uno» (10:30), può parlare della «gloria» che possedeva
insieme al Padre prima di venire al mondo (17:4), può affermare che chiunque
abbia visto lui «ha visto il padre» (14:9) e che «prima che Abramo fosse nato, io
sono» (8:58). Quest’ultimo versetto è particolarmente affascinante. Nella Bibbia
ebraica, come abbiamo visto, incontrando Dio al pruno in fiamme Mosè gli
chiede quale sia il suo nome, e Dio risponde che il suo nome è «io sono» (Esodo
3). In Giovanni Gesù sembra attribuire quel nome a se stesso, ma non riceve «il
nome che è al di sopra di ogni nome» con la resurrezione e la successiva
esaltazione, come nel poema a Gesù in Filippesi 2:9: lo possiede già mentre è in
terra. Nel Vangelo di Giovanni, gli ebrei capiscono perfettamente cosa Gesù
intende dire quando fa proclami simili. Ecco perché cercano di lapidarlo per
blasfemia: perché di fatto ha affermato di essere Dio.

Altre tracce di cristologie incarnazionali


Non pretendo in alcun modo di aver effettuato una disamina completa ed
esauriente di ogni brano cristologico del Nuovo Testamento. Occorrerebbe un
libro ben più lungo di questo, e in ogni caso il mio obiettivo è un altro: illustrare
le due visioni predominanti nell’antico movimento cristiano. Da un lato la
cristologia «bassa» o — come la chiamo io — dell’esaltazione, probabilmente la
primissima credenza dei seguaci originari di Gesù, convinti che fosse stato
resuscitato dai morti ed esaltato in cielo. Dall’altro la successiva cristologia
«alta» o — come la chiamo io — dell’incarnazione. Non sappiamo di preciso
quando i cristiani iniziarono a vedere in Gesù non un semplice uomo diventato
angelo (o essere angelico), bensì un angelo preesistente alla propria apparizione
in terra. Ma doveva essere accaduto straordinariamente presto nella tradizione
cristiana. Questa visione non nacque con il Vangelo di Giovanni, come un tempo
credevamo io e vari altri studiosi, ma ben prima delle lettere di Paolo. Lo
dimostra il fatto che è documentata nel poema pre-paolino a Cristo inserito nella
Lettera ai Filippesi, come in altri riferimenti — a volte di una vaghezza
sconfortante — disseminati da Paolo in tutti i suoi scritti. Non possiamo
affermare con certezza che la cristologia incarnazionale ebbe origine prima —
forse molto prima — degli anni Cinquanta e.v., ma non c’è ragione di
escluderlo. Una volta convintisi che Gesù fosse un angelo, il che poteva essere
successo molto presto, forse addirittura nei primi anni di vita del movimento, i
cristiani spianarono la strada all’idea che fosse un angelo da sempre, ovvero un
essere divino preesistente. Nacque così una cristologia dell’incarnazione.
Come vedremo, le cristologie incarnazionali erano destinate a evolversi al
punto da soppiantare le cristologie dell’esaltazione, che col tempo iniziarono a
essere considerate inadeguate e infine «eretiche». Alcuni degli scritti meno
antichi del Nuovo Testamento contengono già affermazioni esaltate sulla
divinità di Cristo, in brani che sembrano voler confutare posizioni precedenti. È
il caso, per esempio, di un passo del Libro dei Colossesi attribuito a Paolo.

La Lettera ai Colossesi
Dico che il passo è attribuito a Paolo perché da tempo gli studiosi ritengono che
questo libro sia stato scritto da un seguace dell’apostolo dopo la sua morte. 18
Senza dilungarmi sulla questione, mi limito a osservare che il libro contiene
affermazioni cristologiche strabilianti. La sezione poetica in 1:15-20 (un’altra
tradizione preletteraria?) affascina da tempo i biblisti. Qui Cristo è «l’immagine
del Dio invisibile» — chiara allusione alla dottrina ebraica della Sapienza come
ipostasi di Dio — e «il primogenito di ogni creatura» (1:15), «poiché in lui sono
state create tutte le cose» (1:16). Non soltanto il mondo materiale, quindi, ma
tutte le entità naturali e soprannaturali «che sono nei cieli e sulla terra, le visibili
e le invisibili: troni, signorie, principati, potestà» (1:16). Se nel Prologo di
Giovanni è Cristo a farsi carne in quanto Logos, qui è la Sapienza a incarnarsi,
«poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza» (1:19). Siamo
dunque in un territorio completamente diverso rispetto alle prime cristologie
dell’esaltazione.

La Lettera agli Ebrei

Qualcosa di simile si può dire della Lettera agli Ebrei, un libro inserito nel
Nuovo Testamento una volta che i padri della Chiesa si convinsero che fosse
opera di Paolo, sebbene il testo non contenga rivendicazioni di paternità
esplicite: al contrario, siamo quasi certi che l’autore non sia lui. Il libro si apre
con proclami sorprendenti: Cristo è il «Figlio di Dio, che egli [Dio] ha costituito
erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi» (1:2). Non solo:
come le ipostasi della Sapienza e del Logos, Cristo «è splendore della sua gloria
e impronta della sua essenza, e […] sostiene tutte le cose con la parola della sua
potenza» (1:3).
Potrebbe sembrare una cristologia incarnazionale del genere che abbiamo
trovato nel Vangelo di Giovanni — in effetti le due visioni mostrano notevoli
affinità —, ma qui ci sono anche tracce di una cristologia dell’esaltazione
analoga a quella del poema a Cristo nella Lettera ai Filippesi. In Ebrei 1:3-4,
dopo essere morto, Gesù «si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi
altissimi. Così è diventato di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha
ereditato è più eccellente del loro». Di nuovo, come in Filippesi, abbiamo una
cristologia incarnazionale mista a elementi di esaltazione. Fra i temi principali
della prima parte di Ebrei c’è la superiorità di Cristo a tutti gli esseri angelici (si
veda per esempio 1:5-8 e 2:5-9). Sottolineando questo aspetto, l’ignoto autore
cita il passo del Salmo 45 che abbiamo preso in esame nel capitolo 2, dove il re
d’Israele è chiamato «Dio». Qui però il versetto è riferito a Cristo: «Il tuo trono,
o Dio, dura di secolo in secolo» (1:8).
Se il Libro degli Ebrei vuole sottolineare che Cristo è superiore agli angeli, lo
fa anche in virtù della sua tesi fondamentale: Cristo è superiore a qualsiasi
aspetto del giudaismo: gli angeli, Mosè, i sacerdoti giudei (sommo sacerdote
compreso), i sacrifici nel Tempio Santo e chi più ne ha più ne metta. Ancora una
volta, ci troviamo di fronte alla stessa situazione sconcertante. Per poter fare
proclami così esaltati su Cristo, i cristiani erano pressoché costretti ad aprire un
divario tra le proprie visioni e quelle degli ebrei, una questione sulla quale
torneremo nell’epilogo.

Oltre l’incarnazione
Per il momento è sufficiente osservare che le cristologie dell’esaltazione finirono
per cedere il passo alle cristologie incarnazionali, con certi autori — per esempio
gli scrittori ignoti del poema a Cristo in Filippesi e della Lettera agli Ebrei —
che presentavano una sorta di amalgama delle due visioni. Col tempo, tuttavia, a
imporsi come dominanti nella tradizione cristiana furono le cristologie
dell’incarnazione.
Ma la storia di come Gesù diventò Dio non finisce qui. Come vedremo,
innumerevoli sviluppi ebbero luogo allorché i teologi si sforzarono di
comprendere le implicazioni precise di questi antichi e piuttosto imprecisi
proclami su Cristo. Fra i primi temi a essere affrontati c’era un problema che ai
lettori moderni potrà apparire di un’evidenza accecante. Se Cristo era veramente
Dio e se Dio Padre era Dio, come potevano i cristiani sostenere che di Dio ce ne
fosse uno solo? Non sono due Dèi, questi? Se poi anche lo Spirito Santo è Dio,
non fanno tre in totale? Ma allora i cristiani sono politeisti, non monoteisti.
Dopo il periodo neotestamentario, le riflessioni si concentrarono proprio su
questo punto. Molte delle soluzioni proposte finirono per essere condannate
come false ed eretiche, ma altre portarono i teologi a sviluppare e articolare non
senza difficoltà le proprie convinzioni, affermandole nei termini più solenni:
Gesù era Dio, non era Dio Padre, eppure esisteva un solo Dio.

1. Vedi il cap. 2.←


2. Gieschen 1998:27.←
3. Va detto che la nozione di Cristo come primo degli angeli non ha sempre incontrato il favore
degli studiosi. La ragione fondamentale è che nel Nuovo Testamento non viene mai definito
esplicitamente «angelo» così come viene chiamato «Figlio dell’Uomo», «Signore», «Messia» o
«Figlio di Dio». Per una posizione scettica al riguardo si veda Dunn 1989:158. Tuttavia,
ricerche più recenti hanno dimostrato che se la visione di Cristo come essere angelico
preesistente non ha attecchito è anche perché gli studiosi la ritengono eccessivamente esaltata
per i primi cristiani. Si vedano per esempio Gieschen 1998 e Susan R. Garrett (2008), No
Ordinary Angel: Celestial Spirits and Christian Claims About Jesus, Yale University Press,
New Haven, CT.←
4. Si veda la nota precedente.←
5. Gieschen 1998 e Garrett 2008.←
6. Garrett 2008:11.←
7. Si veda la discussione su Romani 1:3-4 alle pagine 191-197.←
8. Va detto che i letterati dell’antica Grecia non avrebbero definito «poema» questo brano, perché i
versi non sono regolari. Quanto alla gente comune, non sappiamo cosa fossero esattamente la
poesia e gli inni per loro — non abbiamo testimonianze al riguardo —, ma comunque la si
voglia chiamare quest’unità è scritta in un linguaggio innegabilmente più esaltato rispetto a ciò
che la precede e la segue, e oggi, a prescindere dalla regolarità dei versi, siamo abituati a
considerare poetici componimenti del genere.←
9. Il più noto ed esauriente è Ralph P. Martin (1997), A Hymn of Christ: Philippians 2:5-11 in
Recent Interpretation and in the Setting of Early Christian Worship, Intervarsity Press, Downers
Grove, IL.←
10. Si veda la discussione in James D.G. Dunn (1998), Christ, Adam, and Preexistence, in Ralph M.
Martin e Brian J. Dodd (cur.), Where Christology Began: Essays on Philippians 2, Westminster
John Knox, Louisville, KY, pp. 74-83.←
11. Per un’utile discussione sulle tesi di Vollenweider si veda l’articolo di Adela Yarbro Collins
(2002), Psalms, Philippians 2:6-11, and the Origins of Christology, in «Biblical Interpretation»
11, pp. 361-72.←
12. Il tetragramma YHWH (Yahweh), utilizzato come nome di Dio nella Bibbia ebraica, venne
tradotto Kýrios in greco, ovvero «Signore». Affermando che ogni lingua confesserà che «Gesù è
il Signore», dunque, il testo sembra dire che tutti riconosceranno che Gesù porta il nome di
Yahweh. Va però sottolineato che Gesù rimane distinto da Dio Padre, poiché tutto questo
avverrà «alla gloria di Dio Padre».←
13. Si vedano le discussioni in Jewett 2007 e Fitzmyer 1999.←
14. Un famoso esempio è Giovanni 3. Alcuni traduttori ritengono che le parole di Gesù finiscano
con 3:15 (prima del famoso versetto «Perché Dio ha tanto amato il mondo…»), altri che
proseguano fino a 3:21. Gesù e il narratore hanno voci talmente simili che è impossibile sapere
con certezza dove smette di parlare uno e inizia l’altro.←
15. Sulle questioni legate all’utilizzo del termine poema si veda la nota 8. Vale anche qui quanto
detto per Filippesi 2:6-11.←
16. Tra le varie acute analisi del Vangelo di Giovanni che affrontano questi temi, si veda in
particolare Raymond E. Brown (1999), Giovanni: commento al Vangelo spirituale, Cittadella,
Assisi, vol. 1 (ed. orig. The Gospel According to John: Introduction, Translation, and Notes,
1996).←
17. Si veda la nota 15 del Cap. 2.←
18. Si veda la mia discussione in Bart D. Ehrman (2012), The New Testament: A Historical
Introduction to the Early Christian Writings, 5a ed., Oxford University Press, New York e, per
un’analisi più esauriente, Bart D. Ehrman (2013), Forgery and Counterforgery: The Use of
Literary Deceit in Early Christian Polemics, Oxford University Press, New York, pp. 171-82.←
8. Dopo il Nuovo Testamento: vicoli ciechi cristologici
del secondo e terzo secolo
Negli ultimi cinque anni mi sono reinnamorato del cinema francese. Uno dei
miei registi preferiti è Eric Rohmer, di cui adoro in particolare due film: La mia
notte con Maud del 1969 e Racconto d’inverno del 1992, storie parzialmente
ispirate alla «scommessa di Pascal», un concetto filosofico elaborato dal filosofo
seicentesco.
Nei due film la scommessa di Pascal è applicata all’analisi dei rapporti
personali. Immaginiamo di dover decidere se fare una certa cosa oppure no. Non
correremmo alcun rischio a farla, ma le probabilità di successo sono minime. Se
però ci andasse bene, sarebbe un successo strepitoso. Ebbene, Pascal ci consiglia
di agire, perché avremmo molto da guadagnarci e nulla da perdere.
La scommessa di Pascal non era nata come strumento per affrontare le
decisioni esistenziali, ma come argomento teologico.
Per un uomo dell’Illuminismo come lui era fondamentale prendere posizione
sull’esistenza di Dio. Per quanto minime possano essere le probabilità che esista,
scegliendo di crederci potremmo ottenere una ricompensa eccezionale, se
abbiamo ragione, senza rischiare alcunché nel caso contrario. Viceversa,
scegliendo di non crederci non ne ricaviamo alcun beneficio, mentre gli
svantaggi potrebbero essere concreti e terribili (il castigo eterno, per esempio).
Morale: le chance di avere ragione potranno anche essere remote, ma è sempre
meglio credere che non credere.
Sono in tanti a dirmi che dovrei ritrovare la mia fede cristiana proprio in virtù
della scommessa di Pascal. Se ricominciassi a credere che Cristo è Figlio di Dio
e nostro salvatore potrei ricavarne benefici enormi, in caso fosse vero; altrimenti
le conseguenze (eterne) sarebbero spaventose.
A prima vista l’argomento potrebbe anche sembrare convincente, ma io penso
che sia necessario ampliare il punto di vista. Decidere pro o contro un particolare
orientamento religioso non è come lanciare una moneta, perché i risultati
possibili non sono soltanto due. Al mondo esistono centinaia di religioni: non
possiamo sceglierle tutte, visto che alcune sono esclusiviste e richiedono una
dedizione totale. Insomma, a differenza di quanto a volte immaginano i fautori
della scommessa di Pascal, non si tratta di una proposizione «o/o».
In parole povere, se dovessimo schierarci con il cristianesimo, questo
significherebbe schierarci contro — per esempio — l’islam. E se invece ad avere
ragione riguardo a Dio e alla salvezza fossero i musulmani e non i cristiani? In
questo caso, scommettere pascalianamente sul cristianesimo non ci sarebbe
d’aiuto.
Da lungo tempo, il cristianesimo è una religione esclusivista. La storia ci
insegna che chi sceglie di credere in Cristo non può essere anche musulmano,
induista o pagano. Non solo: non può nemmeno appartenere a una confessione
cristiana diversa. Sta di fatto che esistono svariati tipi di cristiani, alcuni dei
quali sostengono che coloro che non abbracciano la loro particolare fede non
potranno ottenere la salvezza. Alcune comunità battiste sono convinte che, se
non ti fai battezzare nella loro chiesa, sei perduto. Non è sufficiente farsi
battezzare in un’altra chiesa battista, né tanto meno in una chiesa presbiteriana,
luterana, metodista e così via. Se pensiamo a integralisti cristiani come questi, è
evidente che non si tratta di «scommettere» e scegliere fra due possibilità. Ci
sono una miriade di alternative, una qualsiasi delle quali potrebbe essere quella
«giusta».
Riassumendo: la visione giusta è una sola, le visioni errate molte; le visioni
errate non si trovano solo al di fuori del cristianesimo, ma anche al suo interno; e
le visioni errate possono condurre direttamente all’inferno. Queste idee non sono
invenzioni moderne, ma risalgono ai primi anni del movimento, quanto meno al
secondo e terzo secolo e.v. Bollare come «eretico» chiunque professasse una
visione alternativa di Dio, di Cristo e della salvezza era fin troppo facile.
Stabilire chi avesse ragione e chi torto, quali idee fossero vere e quali false,
diventò una priorità delle autorità religiose, perché dopo il periodo
neotestamentario molti cristiani si erano convinti che solo Cristo potesse donare
la salvezza. Una salvezza che per giunta spettava solo a chi interpretava Dio,
Cristo, la redenzione e via dicendo nel modo corretto. Ecco perché distinguere le
credenze giuste da quelle errate — l’«ortodossia» dall’«eresia» — era diventata
un’ossessione delle prime autorità ecclesiastiche.

Ortodossia ed eresia nella Chiesa antica


Nel secondo e terzo secolo e.v. era tutto un proliferare di cristologie alternative.
Secondo alcuni Gesù era umano ma non (per natura) divino; secondo altri era
divino ma non umano; secondo altri era due esseri distinti, uno umano e uno
divino; secondo altri — quelli che finirono per «vincere» — era umano e divino
al tempo stesso, ma era un solo essere. Occorre però inquadrare queste
controversie nel contesto più ampio, perché i cristiani non discutevano
semplicemente dell’identità e della natura di Cristo, ma di ogni sorta di questioni
teologiche in voga all’epoca.
C’erano per esempio le dispute su Dio. Secondo alcuni cristiani esisteva un
solo Dio, secondo altri due: il Dio dell’Antico Testamento e il Dio di Gesù. Altri
ancora sostenevano che esistessero dodici, trentasei, addirittura
trecentosessantacinque dèi. Come poteva essere cristiano chi nutriva idee simili?
Perché non andavano a leggersi il Nuovo Testamento, scoprendo così di avere
torto? Semplice, perché il Nuovo Testamento non esisteva ancora. O meglio: i
libri destinati a essere raccolti nel Nuovo Testamento e quindi sanciti come sacre
scritture esistevano già, ma lo stesso valeva per tanti altri — Vangeli, epistole e
apocalissi, per esempio —, e tutti affermavano di essere stati scritti dagli apostoli
di Gesù e di rappresentare quindi la fede «vera». Quelli che oggi identifichiamo
come i ventisette libri che compongono «il» Nuovo Testamento emersero
proprio da questi conflitti, e furono i vincitori delle controversie a scegliere i
testi da inserire nel canone delle scritture. 1 I dibattiti erano a tutto campo. La
Bibbia ebraica — le sacre scritture giudaiche — apparteneva o no alla
rivelazione del vero Dio? Oppure era un libro sacro solo per i giudei, del tutto
irrilevante per i cristiani? Oppure — ipotesi ancora più estrema — era opera di
una divinità inferiore e perfida?
E che dire del mondo in cui abitavamo? L’aveva creato l’unico vero Dio? O
era una creazione inferiore del Dio degli ebrei (che non era il Dio dei cristiani)?
O forse una catastrofe cosmica, fondamentalmente maligna?
Se la maggior parte dei cristiani di oggi saprebbe rispondere senza difficoltà a
queste domande è perché all’epoca una particolare visione risalente al primo
cristianesimo finì per trionfare nelle controversie su cosa credere e come vivere.
Secondo quella visione, esisteva un solo Dio che aveva creato il mondo, aveva
scelto gli ebrei come suo popolo e aveva dato loro le sue scritture. Il mondo era
nato buono, ma il peccato l’aveva corrotto. Alla fine, però, Dio avrebbe salvato
il mondo e tutti coloro che credevano veramente in lui. La redenzione avrebbe
avuto luogo mediante suo Figlio, Gesù Cristo, Dio e uomo al tempo stesso,
morto per la salvezza di chi credeva in lui.
Che a imporsi sarebbe stata proprio questa visione era tutt’altro che scontato
nei primi secoli del cristianesimo, ma così fu, al punto che ancora oggi rimane
l’orientamento cristiano prevalente. Qui voglio concentrarmi sui dibattiti
cristologici, soprattutto nella misura in cui Gesù era assimilato a Dio. Queste
dispute teologiche vengono spesso descritte in termini di «ortodossia» contro
«eresia», ma si tratta di termini ambigui, soprattutto perché il loro significato
letterale non corrisponde all’uso che ne fanno oggi gli storici. Ortodossia
significa retta credenza; eresia significa scelta, ovvero la scelta di deviare dalla
«retta credenza». Eresia è sinonimo di eterodossia, cioè credenza diversa (dalla
credenza «retta»). Se gli storici non usano questi termini in senso letterale è
perché non sono teologi (oppure, se lo sono, non adottano la prospettiva
teologica quando scrivono saggi storici). Il teologo può dirci qual è la credenza
«corretta» e quali le credenze «errate»; lo storico — in quanto tale — non ha
accesso alla verità teologica, ciò che è «giusto» agli occhi di Dio, ma solo agli
eventi storici. Di conseguenza, lo storico potrà dirci che alcuni dei primi cristiani
credevano in un solo Dio e altri in due, dodici, trentasei o trecentosessantacinque
Dèi, ma non quale di questi gruppi aveva «ragione».
Ciononostante, quando descrivono le antiche controversie sulla verità, gli
storici continuano a parlare di ortodossia, eresia ed eterodossia: non perché
sappiano quale fosse la credenza giusta, ma perché sanno quale finì per
prevalere. La visione che conquistò il maggior numero di seguaci e stabilì cosa
dovessero credere viene chiamata «ortodossa» perché si impose su tutte le altre e
dichiarava di essere quella giusta. L’«eresia» o «eterodossia», dal punto di vista
storico moderno, non è altro che una visione che uscì sconfitta dai dibattiti
dell’epoca.
Se in questo capitolo definirò «ortodossa» o «eretica» una posizione, dunque,
non lo farò per esprimere un giudizio su ciò che ritengo vero/corretto o
falso/errato, ma per identificare un punto di vista che finì per dominare la
tradizione o perdere la battaglia.
Questo capitolo è dedicato alle credenze sconfitte e dichiarate eretiche; il
prossimo a quelle che vinsero e furono proclamate ortodosse. Cominceremo da
tre eresie, tre interpretazioni alternative di Cristo, che vennero spazzate via
dall’emergente opinione ortodossa. Alcuni cristiani negavano che Cristo fosse
Dio per natura: era «soltanto» un uomo divenuto divino per adozione. Altri
negavano che fosse umano per natura: Cristo «sembrava» un uomo. Altri ancora
negavano che fosse un unico essere: Cristo era due esseri distinti, uno umano e
uno divino. Tutte e tre queste visioni finirono per rivelarsi «vicoli ciechi»
teologici: furono in molti a imboccarli, ma non arrivarono da nessuna parte. 2

La negazione della divinità


Fra le caratteristiche più interessanti dei primi dibattiti su ortodossia ed eresia c’è
il fatto che alcune visioni originariamente ritenute «corrette» (ortodosse)
finirono per essere considerate «errate» (eretiche). Un esempio lampante è la
prima interpretazione eretica di Cristo, quella che ne nega la divinità. Come
abbiamo visto nel capitolo 6, i primissimi cristiani professavano cristologie
dell’esaltazione che volevano l’uomo Gesù — un uomo e nulla più —
successivamente esaltato al livello e all’autorità di Dio. I seguaci più antichi
pensavano che fosse avvenuto alla resurrezione; col tempo, alcuni cristiani
anticiparono al battesimo il momento dell’esaltazione. Entrambe le credenze
erano però già state bollate come eretiche nel secondo secolo e.v., quando si era
ormai diffusa la convinzione che, qualsiasi cosa si potesse dire su di lui, Cristo
era chiaramente Dio per natura e lo era sempre stato. Non che i «cacciatori di
eresie» dell’epoca si scagliassero contro i primi cristiani, fautori di quelle idee:
al contrario, se la prendevano con i loro contemporanei che le professavano.
Così facendo, «riscrivevano» di fatto la storia: gli apostoli non le avevano mai
sostenute, non erano mai state maggioritarie ed erano innovazioni che tutti i veri
cristiani dovevano respingere categoricamente.

Gli ebioniti

Nel secondo secolo e.v. numerosi gruppi sembravano rimanere fedeli


all’antichissima idea di Cristo come essere umano adottato da Dio al battesimo.
Purtroppo non ci sono pervenuti scritti autografi che illustrino nel dettaglio le
loro posizioni: abbiamo invece perlopiù opere di autori cristiani — i «cacciatori
di eresie» o eresiologi, come li chiamano gli studiosi — che li combattevano. È
difficile ricostruire un punto di vista se non abbiamo altro che gli scritti di chi lo
avversava e quindi era incline ad attaccarlo, ma a volte, come in questo caso,
dobbiamo accontentarci. Gli studiosi sanno bene di dover prendere le
affermazioni degli eresiologi cum grano salis, ma ciononostante è plausibile che
alcuni cristiani continuassero a professare le idee che gli avversari attribuivano
loro. Fra questi gruppi ci sono gli ebioniti.
Gli ebioniti subivano gli attacchi di molti eresiologi, su uno dei quali avremo
occasione di tornare: Ippolito di Roma, autorevole figura ecclesiastica all’inizio
del terzo secolo. Tutte le nostre fonti presentano gli ebioniti come ebrei cristiani,
vale a dire cristiani ancora convinti che per i seguaci di Gesù fosse necessario
mantenere la legge e i costumi giudaici, conservando (o assumendo) così
un’identità ebraica. L’idea aveva una sua logica: se Gesù era il messia ebraico
mandato dal Dio ebraico al popolo ebraico in ossequio alla legge ebraica, allora
è ragionevole pensare che professasse una religione ebraica e che i suoi seguaci
dovessero essere ebrei. Tuttavia, man mano che il cristianesimo evolveva in
senso gentile (cioè non ebraico), è altrettanto ragionevole pensare che avesse
finito per allontanarsi dalle proprie radici giudaiche e contrapporsi a certi aspetti
del giudaismo, come vedremo più nel dettaglio nell’epilogo.
Secondo alcuni studiosi, è possibile far risalire l’orientamento teologico degli
ebioniti ai primi seguaci di Gesù, gli ebrei riunitisi a Gerusalemme negli anni
successivi alla sua morte sotto la guida del fratello Giacomo. In termini
cristologici, la loro visione sembra davvero corrispondere a quella dei primi
cristiani. Nella sua voluminosa Confutazione di tutte le eresie, Ippolito afferma
che gli ebioniti pensavano di potersi redimere o «giustificare» agli occhi di Dio
mantenendo la legge ebraica, proprio come Gesù era «giustificato osservando la
legge». Redimersi davanti a Dio significava quindi seguire l’esempio di Cristo e
così facendo «diventare Cristo» a propria volta. Cristo non era diverso da
chiunque altro «per natura», era semplicemente un uomo di grande rettitudine.
Per dirla con Ippolito, gli ebioniti «asseriscono che Nostro Signore era uomo in
senso analogo a tutti [gli altri esseri umani]» (Confutazione 22). 3
A giudizio di Ippolito e degli altri custodi dell’ortodossia, non c’era nulla di
più lontano dalla verità: Cristo era Dio non perché fosse stato esaltato a un
livello divino, ma in quanto essere divino preesistente e uguale a Dio da sempre,
cioè da prima ancora di essere nato.

I monarchiani o adozionisti

Un altro gruppo «adozionista» — fautore dell’idea che Cristo fosse divino non
per natura, ma perché adottato da Dio come proprio Figlio — emerse non dal
cristianesimo ebraico, ma da ambienti puramente gentili. Si tratta dei
monarchiani, fondati a Roma da un calzolaio e teologo dilettante di nome
Teodoto.
I seguaci di Teodoto pensavano sì che Cristo fosse diverso da tutti gli altri
uomini, essendo nato da madre vergine, e quindi è possibile che accettassero i
Vangeli di Matteo e di Luca come sacre scritture. Ma a parte ciò, come ci spiega
Ippolito, per loro «Gesù era un uomo [come tutti gli altri]» (Confutazione 23).
Poiché era di una rettitudine eccezionale, al suo battesimo era accaduto qualcosa
di straordinario: lo Spirito di Dio era venuto su di lui, donandogli il potere di
compiere miracoli. Secondo Ippolito, i monarchiani erano divisi al loro interno
in merito al rapporto di Gesù con Dio: alcuni sostenevano che fosse un
«semplice uomo» reso potente dallo Spirito ricevuto al battesimo, altri che in
quel momento fosse diventato divino, altri ancora che fosse stato «trasformato in
Dio dopo la resurrezione dai morti» (Confutazione 23).
La confutazione più approfondita del punto di vista di Teodoto è quella che
troviamo negli scritti di Eusebio, che abbiamo già incontrato come «padre della
storia ecclesiastica». Nei dieci volumi della sua storia della Chiesa Eusebio cita
spesso ampi brani di un eresiologo a lui precedente, senza però indicarne
l’autore. Un padre della Chiesa di epoca successiva chiamò «Piccolo Labirinto»
lo scritto in questione e lo attribuì a Origene, un grande teologo sulle cui idee ci
soffermeremo più avanti. Secondo alcuni studiosi moderni, invece, sarebbe
opera di Ippolito. In ogni caso, il testo sembra risalire all’inizio del terzo secolo e
si scaglia contro gli adozionisti, convinti che «il Salvatore era un semplice
uomo».
L’autore del «Piccolo Labirinto» racconta che fra i seguaci del calzolaio
Teodoto c’era un banchiere che si chiamava — curiosamente — proprio come
lui. Del gruppo faceva parte anche un certo Natalio, che accettò di diventare
vescovo in cambio di centocinquanta denari al mese (una somma ragguardevole
all’epoca). Segue però un aneddoto interessante: Dio allontana Natalio dalla
setta mandandogli una serie di visioni profondamente realistiche in cui viene
«flagellato dai santi angeli durante tutta una notte e fu talmente malmenato, che
all’alba si alzò e, avendo indossato un cilicio ed essendosi coperto di cenere, in
gran fretta e tra le lacrime, andò a prostrarsi davanti al vescovo Zefirino»
(Eusebio, Storia ecclesiastica, 5.28). 4 Secondo il «Piccolo Labirinto», i
monarchiani sostenevano che la loro posizione — Gesù come essere
completamente umano adottato da Dio come proprio Figlio — corrispondesse
alla dottrina degli apostoli e di gran parte della Chiesa romana fino all’epoca del
vescovo Vittore, alla fine del secondo secolo. Storicamente parlando, come
abbiamo visto, è possibile che i monarchiani non avessero tutti i torti, perché fra
le credenze cristiane più antiche sembra in effetti esserci una visione di questo
tipo. Non sappiamo se fosse maggioritaria, fatto sta che il «Piccolo Labirinto» la
confuta, sottolineando che celebri autori cristiani del periodo di Giustino —
attivo a Roma attorno al 150 e.v. — la vedevano diversamente: in ognuna delle
loro opere «si afferma la divinità di Cristo».
Nel capitolo 9 scopriremo che il nostro autore ha ragione, Giustino vedeva sul
serio Cristo come essere divino preesistente. Il problema è che Giustino scriveva
centovent’anni dopo i «primi» cristiani, e pertanto non può essere considerato un
testimone attendibile di quanto dicevano i seguaci di Gesù negli anni
immediatamente successivi alla sua morte.
Vale la pena di osservare che il «Piccolo Labirinto» accusa i monarchiani di
aver alterato i brani neotestamentari che avevano copiato inserendovi la propria
visione adozionista. Il passo è interessante e merita di essere citato per intero:
[…] non ebbero timore di mettere mani sulle divine Scritture col pretesto di emendarle. E chiunque
voglia, può informarsi che io, dicendo queste cose, non li calunnio. Se, infatti, qualcuno volesse riunire
gli scritti di ciascuno di loro, confrontandoli l’uno con l’altro, scoprirebbe che sono assai discordanti
tra loro. Quelli di Asclepiade, dunque, non corrisponderebbero a quelli di Teodoto, ed è possibile
procurarsene molti, per il fatto che i loro discepoli hanno trascritto accuratamente da ciascuno copie
corrette, come essi le chiamano, cioè manipolate. Inoltre, le opere di Ermofilo non concordano con
queste; quanto a quelle di Apolloniade non concordano neppure tra loro: si possono infatti confrontare
quelle fatte prima con quelle contraffatte successivamente e si troveranno del tutto discordanti. […] In
effetti non possono negare che sia da attribuire ad essi questa impresa temeraria, dato che le copie sono
state scritte di loro pugno, al punto che non possono dire che erano queste le Scritture ricevute da
coloro che li hanno catechizzati, o mostrare gli esemplari da cui sono state trascritte le loro copie.
(Storia ecclesiastica, 5.28) 5

L’accusa di aver modificato i testi sacri affinché dicessero ciò che si voleva far
loro dire diventò un cavallo di battaglia degli eresiologi dei primi secoli e.v., ma
nel valutare queste affermazioni occorre tenere presente due fattori. In primo
luogo, numerosi passi biblici — per esempio Romani 1:3-4 e Atti 13:33 —
professano sul serio visioni eretiche, come abbiamo visto nel capitolo 6
discutendo delle cristologie dell’esaltazione. In secondo luogo, per quanto gli
ortodossi andassero proclamando che queste manipolazioni erano opera degli
eretici, nei manoscritti neotestamentari che ci sono pervenuti tutti gli indizi
puntano nella direzione opposta: furono gli scribi ortodossi ad alterare i testi in
modo che corrispondessero più da vicino alle proprie convinzioni. Non è
impossibile che alcuni scribi eterodossi facessero altrettanto, ma i manoscritti a
nostra disposizione sembrano escluderlo quasi categoricamente. 6
Sta di fatto che l’adozionismo venne respinto dai teologi ortodossi del
secondo e terzo secolo, il cui punto di vista si era nettamente evoluto in senso
incarnazionale: Cristo era per natura un essere divino preesistente, diventato
umano.

La negazione dell’umanità
Come abbiamo visto, gli adozionisti erano convinti di rappresentare le visioni
cristologiche originarie degli apostoli. Certo, ogni dottrina dell’antico
cristianesimo sosteneva di rifarsi agli insegnamenti di Gesù e dei suoi seguaci,
ma forse gli adozionisti avevano ragioni fondate per affermarlo. Prendiamo ora
in esame una visione opposta: invece di essere completamente umano e quindi
non divino (per natura), Cristo era completamente divino e quindi non umano
(per natura). Questa concezione sarebbe stata definita docetismo, dal verbo greco
dokéin («apparire»): Cristo non era davvero un uomo, ma lo «sembrava». Era
invece completamente Dio, e per i docetisti Dio non poteva essere uomo più di
quanto un uomo potesse essere una roccia.
Anche questa dottrina è antica, ma non quanto l’adozionismo radicato nelle
cristologie dell’esaltazione. Stando alle prime testimonianze, le posizioni
docetiche sembrano emergere dalle cristologie incarnazionali sviluppatesi più
avanti nel corso del primo secolo, ma ancora in epoca neotestamentaria. Sarebbe
tuttavia difficile identificarle come le credenze dei primi seguaci di Gesù.
Alcune di queste idee potrebbero essere state professate da Paolo, come
sappiamo, ma non ne siamo sicuri. È vero che in Romani 8:3 Cristo si manifesta
«in carne simile a carne di peccato» e in Filippesi 2:7 diviene «simile agli
uomini», ma Paolo non illustra mai esplicitamente le proprie idee sull’umanità di
Gesù. Al contrario, in Galati 4:4 dice che era «nato da donna», un’affermazione
che i docetisti non avrebbero condiviso.
Di conseguenza, la prima attestazione chiara delle posizioni docetiche arriva
solo verso la fine del periodo neotestamentario, nel libro noto come Prima
Lettera di Giovanni. Quest’opera anonima veniva tradizionalmente attribuita
all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, ma il nome di Giovanni non vi
compare mai ed è pressoché escluso che l’autore sia davvero lui. Quel che è
certo è che si tratta di un attacco ad alcuni membri della comunità dell’autore, o
meglio ex membri che si sono staccati dagli altri a causa di divergenze sulla
natura di Cristo. Destinati a fondare una propria Chiesa, costoro non credono che
Cristo fosse venuto «in carne», ovvero che fosse un autentico essere umano in
carne e ossa.

I docetisti nella Prima Lettera di Giovanni

L’autore di questa lettera cita esplicitamente un gruppo di ex membri della


comunità chiamandoli anticristi, ossia «avversari di Cristo»: «Ora sono sorti
molti anticristi. Da ciò conosciamo che è l’ultima ora. Sono usciti di mezzo a
noi, ma non erano dei nostri; perché se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti
con noi; ma ciò è avvenuto perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri»
(1 Giovanni 2:18-19).
Gli avversari di Cristo appartenevano dunque alla Chiesa dell’autore, ma poi
l’hanno abbandonata. In realtà — sostiene l’autore — non avevano mai
condiviso le posizioni degli altri membri della comunità, ma cosa li aveva spinti
ad andarsene? Gli «anticristi» vengono nominati in un altro punto, ma stavolta
l’autore ci spiega qual era la pietra del contendere: «Da questo conoscete lo
Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è
venuto nella carne, è da Dio; e ogni spirito che non riconosce pubblicamente
Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve
venire; e ora è già nel mondo» (1 Giovanni 4:2-3).
Insomma, i veri credenti sono quelli che riconoscono che Cristo è venuto «in
carne», cosa che a quanto pare non facevano gli anticristi che avevano lasciato la
comunità. Il brano è oggetto di discussione fra gli studiosi, ma l’interpretazione
più semplice sembra la negazione dell’esistenza fisica di Cristo da parte dei
fuoriusciti. Il che spiegherebbe inoltre come mai, all’inizio della lettera, l’autore
sottolinei la natura reale, corporea e tangibile di Cristo: «Quel che era dal
principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi,
quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola
[Logos] della vita (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne
rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e
che ci fu manifestata)» (1 Giovanni 1:1-2).
Appena dopo, in 1:3, specifica che si sta riferendo al Figlio di Dio, Gesù
Cristo. Perché tanta insistenza su Cristo in quanto essere visibile, ascoltabile e
tangibile? Proprio perché gli anticristi lo negano. Forse avete notato che l’inizio
della Prima Lettera di Giovanni ricorda vagamente quello del Vangelo di
Giovanni, che pure si apre con le parole «nel principio» e nomina la
Parola/Logos di Dio che ha creato la vita e si è fatta uomo (Giovanni 1:1-14).
Perché queste analogie? È opinione diffusa che la lettera fosse stata scritta da
qualcuno che viveva nella stessa comunità in cui era nato il Vangelo. Come
abbiamo visto, il Prologo di Giovanni affermava che Gesù era l’incarnazione
della preesistente Parola di Dio, che al tempo stesso era con Dio ed era Dio. Si
tratta di una delle cristologie «più alte» del Nuovo Testamento, e allora come
spiegare l’ancora «più alta» idea dell’anticristo, così alta da considerare Cristo
completamente divino e niente affatto umano? Secondo alcuni studiosi, certi
membri della comunità in cui era nato il Vangelo di Giovanni ne portarono le
posizioni cristologiche all’estremo — o quanto meno a quella che ritenevano una
conclusione logica — arrivando a sostenere che Gesù era talmente Dio da non
poter essere umano sul serio. Obiettivo della Prima Lettera di Giovanni era
proprio confutare questa tesi, ribadendo che Gesù Cristo era venuto «in carne» e
che chiunque si rifiutasse di riconoscerne l’esistenza fisica era un anticristo.

I docetisti e Ignazio
Le idee degli anticristi contro i quali si scaglia la Prima Lettera di Giovanni
finirono per radicarsi in alcuni gruppi cristiani del secondo secolo. Una visione
simile è quella presa di mira da uno degli autori più interessanti del periodo
immediatamente successivo al Nuovo Testamento: Ignazio di Antiochia, in Siria,
vescovo di una vasta comunità cristiana. Purtroppo si sa molto poco di lui.
Attorno al 110 e.v. venne arrestato ad Antiochia per le sue attività di
proselitismo cristiano e inviato a Roma per essere divorato dalle fiere. Durante il
viaggio, Ignazio scrisse sette lettere che ci sono pervenute. Inutile dire che si
tratta di testi affascinanti, scritti di getto da un cristiano che andava incontro a un
martirio cruento. Erano indirizzate a varie chiese, gran parte delle quali avevano
mandato degli emissari a incontrare Ignazio durante il tragitto. Venuto a sapere
delle difficoltà che stavano sperimentando le chiese, Ignazio scrisse le lettere per
contribuire a risolverle. Tra le questioni fondamentali c’era il fatto che in alcune
di queste comunità erano scoppiati conflitti sulla natura di Cristo, perché alcuni
dei loro membri avevano abbracciato una cristologia docetica.
Ignazio si schiera nettamente contro l’idea che Cristo non fosse un vero essere
umano in carne e ossa che aveva sofferto fisicamente ed era morto, e non è
difficile immaginare perché. Se Cristo non aveva sperimentato sul serio il dolore
e la morte — se cioè era una sorta di fantasma, privo di un vero corpo e quindi di
sensibilità fisica —, che senso aveva per Ignazio sottoporsi alla tortura e alla
morte in quanto suo seguace? Cristo era un uomo come tutti gli altri: certo, era
anche Dio, ma possedeva un vero corpo e poteva soffrire e morire davvero.
Ecco perché, scrivendo alla comunità cristiana della città di Tralle, Ignazio
ammonisce i suoi lettori a rimanere «sordi se qualcuno vi parla senza Gesù
Cristo», perché Cristo «realmente nacque, mangiò e bevve. Egli realmente fu
perseguitato sotto Ponzio Pilato, realmente fu crocifisso e morì» (Ai Tralliani
9). 7 Quindi si scaglia contro gli «atei», definendoli «senza fede» perché vanno
dicendo «che egli soffrì in apparenza, essi che vivono in apparenza». Se hanno
ragione loro, «perché sono incatenato? Perché bramo di combattere contro le
fiere? Inutilmente morrei. Dunque dico menzogne contro il Signore» (Ai
Tralliani 10).
Qualcosa di simile Ignazio lo dice anche ai cristiani della città di Smirne:
«Tutto questo soffrì il Signore perché fossimo salvi. E soffrì realmente […] non
come dicono alcuni infedeli, essi che sono apparenza, che soffrì in apparenza»
(Agli Smirnesi 2). In altre parole, Cristo non era un impostore che fingeva di
essere un uomo in carne e ossa: gli impostori erano gli avversari docetici di
Ignazio. A questo punto, il vescovo sottolinea che Cristo non era solo morto, ma
anche resuscitato fisicamente, come dimostra il fatto che «dopo la risurrezione
mangiò e bevve con loro come nella carne» (Agli Smirnesi 3). Cristo non si era
travestito da uomo, le «belve in forma umana» erano i docetisti. «Se è
un’apparenza quanto è stato fatto dal Signore, anch’io sono in apparenza
incatenato. Allora perché mi sono offerto alla morte? Per il fuoco, per la spada,
per le belve?» (Agli Smirnesi 4). Per Ignazio la salvezza interessa il corpo
umano, perciò va sperimentata nel corpo umano, come doveva aver fatto Cristo.
In caso contrario, è una salvezza falsa e apparente.

I marcioniti

Il più noto docetista del secondo secolo e.v. era un predicatore e filosofo di nome
Marcione, destinato a essere bollato come «arci-eretico». Non ci sono pervenuti
testi scritti da lui, ed è un vero peccato, perché si trattava di una figura di
rilevanza straordinaria, tanto da fondare chiese che professavano la sua
particolare dottrina in tutto il mondo cristiano. Degli insegnamenti di Marcione,
purtroppo, sappiamo solo quanto ci dicono al riguardo i suoi avversari ortodossi
nelle loro confutazioni, che quanto meno sono lunghe ed esaurienti. L’eresiologo
Tertulliano, sul quale torneremo più avanti, scrisse contro Marcione un’opera in
cinque volumi che rappresenta la nostra fonte principale su questo grande
eretico. 8
A differenza degli «anticristi» nominati nella Prima Lettera di Giovanni,
Marcione non prendeva le mosse dal Vangelo di Giovanni, ma dagli scritti di
Paolo, il grande apostolo che a suo avviso era l’unico ad aver compreso fino in
fondo la figura di Gesù. In particolare, Paolo sottolineava la differenza fra legge
ebraica e vangelo di Cristo: non l’osservanza della legge, ma solo la fede nella
morte e resurrezione di Gesù garantiva la redenzione agli occhi di Cristo.
Marcione portò l’idea alle estreme conseguenze, affermando che legge e vangelo
erano assolutamente incompatibili: una cosa era la legge, un’altra il vangelo. La
ragione, secondo lui, era evidente: la legge proveniva dal Dio degli ebrei, la
salvezza dal Dio di Gesù. Insomma, c’erano due Dèi.
Ancora oggi c’è chi — soprattutto fra i cristiani — pensa che quello
dell’Antico Testamento sia il Dio dell’ira e quello del Nuovo Testamento il Dio
della misericordia. Marcione si spingeva oltre: il Dio veterotestamentario aveva
creato il mondo, scelto gli israeliti come suo popolo e dato loro la legge. Peccato
che rispettarla fosse impossibile. Il Dio della legge non era malvagio, ma di una
giustizia implacabile, e la giusta punizione per chi violava la sua legge era la
condanna a morte. Era la punizione che tutti meritavano e che tutti ricevettero.
Viceversa, il Dio di Gesù era un Dio dell’amore, della misericordia e del
perdono: era stato lui a mandare Gesù nel mondo per salvare i condannati dal
Dio degli ebrei.
Ma se Cristo apparteneva al Dio spirituale e amorevole e non al Dio Creatore
e giusto, allora non poteva appartenere in alcun modo alla creazione. Di
conseguenza, Cristo non poteva essere nato né avere alcun legame con il mondo
materiale, creato e giudicato dal Dio degli ebrei. Insomma, era venuto al mondo
non come vero essere umano, ma come una sorta di fantasma con le sembianze
di un uomo adulto in carne e ossa. Con ogni evidenza, si trattava di uno
stratagemma ai danni del Dio creatore: la morte «apparente» venne accettata
come espiazione dei peccati degli altri, e il fantasma Gesù mandato dal Dio
spirituale riuscì a portare la salvezza a chi credeva in lui. Ma non aveva sofferto
né era morto sul serio. E come avrebbe potuto? Non aveva un vero corpo, era
tutta apparenza.
Gli avversari ortodossi di Marcione ribadirono che il Dio creatore non era
distinto dal Dio redentore del mondo; che il Dio che aveva dato la legge era lo
stesso che aveva mandato Cristo in osservanza alla legge; e che Cristo era un
autentico essere umano in carne e ossa che non aveva sofferto né era morto in
apparenza, ma sul serio, versando sangue vero e provando dolore vero per
donare la vera salvezza a persone vere che ne avevano un bisogno disperato.
Secondo la visione ortodossa che finì per sconfiggere Marcione e altri cristiani
docetici, Cristo era divino ma anche, nel senso letterale del termine, umano.

La negazione dell’unità
Finora abbiamo preso in esame due posizioni cristologiche agli antipodi: da una
parte gli adozionisti, secondo i quali Cristo era umano ma non divino per natura;
dall’altra i docetisti, secondo i quali Cristo era divino ma non umano per natura.
Secondo gli ortodossi, come vedremo, entrambi gli schieramenti avevano
ragione in ciò che affermavano e torto in ciò che negavano: Cristo era divino per
natura (veramente Dio) e umano per natura (veramente uomo). Ma come poteva
essere l’una e l’altra cosa? Una delle soluzioni proposte venne giudicata
completamente sbagliata ed eretica: in realtà esistevano due Gesù, uno umano e
uno divino. Il Gesù divino aveva temporaneamente abitato quello umano, per
staccarsene alla morte. Una visione analoga a quella dei gruppi cristiani che gli
studiosi moderni hanno chiamato gnostici.

Gnosticismo cristiano

In anni recenti abbiamo assistito a lunghi e infuocati dibattiti accademici sulla


natura del fenomeno religioso noto come gnosticismo. 9 Se non altro, queste
discussioni hanno dimostrato che non possiamo più limitarci a parlare di
«religioni gnostiche» come se si trattasse di un insieme monolitico di credenze
condivise da una vasta gamma di gruppi, tutti etichettabili nello stesso modo.
Secondo alcuni studiosi, il termine «gnosticismo» ha una definizione talmente
ampia da essere diventato del tutto inutile. Altri, più opportunamente, hanno
proposto di ridefinirne i contorni in modo da poter chiamare «gnostico» solo un
gruppo particolare, scegliendo altri nomi per gruppi a esso vagamente simili.
Non essendo questo un libro sullo gnosticismo, non occorre addentrarci in queste
diatribe accademiche, per quanto rilevanti possano essere. Mi limiterò quindi a
illustrare la mia definizione di «gnosticismo» e a discutere brevemente la visione
cristologica che troviamo nei testi gnostici giunti fino a noi.
Gnosticismo deriva dal sostantivo greco gnósis, cioè «conoscenza». Come
abbiamo visto, gli gnostici cristiani sostenevano che la salvezza fosse
raggiungibile non mediante la fede nella morte e resurrezione di Gesù, ma
mediante la «conoscenza» esatta dei segreti rivelati da Cristo ai suoi seguaci. Per
vari secoli, le uniche fonti sugli gnostici sono state le confutazioni scritte contro
di loro da eresiologi cristiani come Ireneo, Ippolito e Tertulliano. Oggi sappiamo
che, anche prendendoli con le pinze e leggendoli con rigoroso occhio critico,
questi scritti descrivono le posizioni gnostiche in maniera fuorviante. Lo
sappiamo perché sono comparsi alcuni testi originali degli gnostici: ora
possiamo leggere quanto avevano da dire su se stessi.
Il ritrovamento più importante di scritti gnostici in epoca moderna è quello dei
cosiddetti codici di Nag Hammâdi, la raccolta di libri rinvenuta da alcuni
braccianti che scavavano la terra in cerca di concime vicino all’omonima
cittadina egiziana. 10 Si tratta di tredici antiche antologie di testi, gran parte dei
quali scritte da autori gnostici per lettori gnostici. In totale i libri contengono
cinquantadue trattati — quarantadue se non contiamo i doppioni — scritti in
copto, l’ultima fase della lingua egizia. A quanto pare i testi originali erano in
greco, perciò i libri ritrovati a Nag Hammâdi erano traduzioni successive. I
volumi vennero prodotti nel quarto secolo e.v., ma i trattati risalgono a molto
prima, probabilmente al secondo secolo. Gli studi sull’argomento abbondano:
per comprendere la cristologia condivisa dagli gnostici cristiani, qui sarà
sufficiente riassumere la visione fondamentale delineata nei testi.
Gli gnostici cristiani non pensavano che questo mondo fosse stato creato
dall’unico vero Dio, il che avvicinava a grandi linee le loro idee a quelle di
Marcione. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, avevano articolate spiegazioni
mitologiche per l’origine del mondo, che facevano risalire a un momento
successivo alla comparsa delle numerose divinità che componevano il regno
divino. A un certo punto — quando non esisteva altro che il regno divino — si
era verificata una catastrofe cosmica che aveva portato alla formazione di esseri
divini imperfetti. Fu una di queste divinità inferiori, spesso descritte come
ignoranti, a creare il mondo materiale in cui viviamo.
Benché gli scritti gnostici non lo illustrino, non è difficile capire quale sia il
fondamento di questa teoria. Chi mai si sognerebbe di attribuire la paternità di
questo mondo, pieno com’è di dolore e sofferenza, all’unico vero Dio? Uragani,
tsunami, alluvioni, siccità, epidemie, difetti congeniti, carestie, guerre e via
dicendo: un Dio buono e potente non può certo essere responsabile di un simile
concentrato di miseria e disperazione. Il mondo è un disastro cosmico, e
l’obiettivo della religione è offrire una via di scampo.
Secondo gli gnostici, il mondo è una prigione per le scintille divine che vi
sono rimaste intrappolate. Per potersi liberare, le scintille devono conoscere i
segreti sulla loro natura, la loro origine, come sono arrivate qui e come possono
tornare nel regno divino.
Vi state domandando cosa abbia a che fare tutto ciò con il cristianesimo?
Secondo gli gnostici cristiani, questa era la concezione del mondo proclamata da
Cristo, venuto al mondo proprio per insegnare i segreti celesti che potevano
liberare le scintille divine intrappolate nella materia.

Una cristologia «separazionista»

Alcuni gnostici sembravano professare una visione docetica: Cristo — che non
poteva certo appartenere a questo malvagio mondo materiale — era sceso in
terra come fantasma, proprio come aveva detto Marcione. Non che Marcione
possa essere considerato uno gnostico, perché sosteneva l’esistenza di due — e
non numerosi — dèi; perché non riteneva questo mondo un disastro cosmico,
bensì la creazione del Dio dell’Antico Testamento; e perché non credeva che i
corpi umani fossero trappole per le scintille divine, che potevano liberarsi solo
imparando la vera gnósis. Inoltre, le sue convinzioni docetiche non sembrano
essere tipiche degli gnostici, la maggior parte dei quali, più che a un Cristo
pienamente divino ma non umano, pensava che esistessero due Gesù, uno umano
e uno divino. Per loro, insomma, esisteva una «separazione» fra Gesù e il Cristo:
possiamo quindi definirla una cristologia separazionista.
Poiché l’uomo Gesù era così retto, un essere divino proveniente dal regno
celeste era entrato in lui al momento del battesimo. Ecco perché lo Spirito era
sceso su Gesù e — come dice il Vangelo di Marco — gli era entrato «dentro» (il
significato letterale di Marco 1:10). Ed ecco perché soltanto allora Gesù poté
iniziare a compiere i miracoli e impartire i suoi straordinari insegnamenti. Ma
una divinità, naturalmente, non può soffrire né morire, il che spiega come mai
l’elemento divino lasciò Gesù prima della morte in croce. Secondo alcuni
gnostici, lo dimostrano le sue ultime parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (il significato letterale di Marco 15:34). Uno dei libri di Nag
Hammâdi che espone questo genere di cristologia separazionista gnostica in
maniera più intensa è l’Apocalisse di Pietro, del quale ci siamo occupati nel
capitolo 5, un testo che si vorrebbe opera niente meno che del discepolo più
vicino a Gesù, Pietro. Nell’ultima parte si narra che, mentre sta parlando con
Gesù il Salvatore, d’un tratto Pietro vede un altro Gesù catturato dai nemici e
crocifisso. Comprensibilmente sconcertato, Pietro domanda a Cristo: «Che cosa
vedo, Signore? Sei proprio tu quello che afferrano […]?». La confusione non fa
che aumentare quando vede un terzo Cristo sopra la croce: «Chi è quello che
sereno e sorridente è sull’albero? È un altro quello al quale colpiscono le mani e
i piedi?» (Apocalisse di Pietro 81). 11 Cristo risponde che quello sopra la croce
è «il Gesù vivente» e quello inchiodato alla croce «la sua parte corporea».
Abbiamo dunque una distinzione netta fra il Gesù fisico e umano e il Gesù
«vivente». L’essere fisico è «la casa dei demoni, e il vaso di pietra nel quale
abitano, è l’uomo di Elohim» (cioè Dio); il Gesù fisico appartiene a questo
mondo materiale e al dio inferiore che l’ha creato. Non però il Gesù vivente:
«Quello, invece, che sta presso di lui, è il Salvatore vivente: il primo, in lui, è
Colui che afferrarono e rilasciarono, Colui che, allegro, guarda coloro che gli
fecero violenza». In altre parole, l’elemento divino — il Cristo vivente — è stato
liberato dal suo involucro materiale. E cosa trova di tanto divertente nella scena?
«Perciò Egli ride della loro intellettuale cecità: Egli sa che sono nati ciechi.
Quello che è soggetto al soffrire verrà: il corpo è un sostituto. Ma quello che essi
hanno rilasciato era il mio corpo incorporeo» (Apocalisse di Pietro 83).
Abbiamo dunque una cristologia separazionista: il «vero» Cristo, il «Gesù
vivente», è l’elemento divino che ha temporaneamente occupato il corpo. A
morire in croce è l’essere inferiore, la «casa dei demoni». A portare la salvezza
non è il Gesù moribondo, ma il Gesù vivente che è immune alla sofferenza e non
può morire. Chi non capisce, chi pensa che l’importante sia la morte di Gesù,
viene da lui ridicolizzato. Inutile dire che fra questi c’erano le autorità
ecclesiastiche convinte che solo la sofferenza autentica e la morte di Gesù
portassero la salvezza. Per il nostro autore gnostico, costoro non erano
semplicemente in fallo: erano ridicoli.
Ma non furono gli gnostici a ridere per ultimi. Per una complessa varietà di
ragioni sociali, culturali e storiche, lo gnosticismo cristiano non riuscì a
convertire la maggioranza dei credenti. A imporre la propria visione furono
autori ortodossi come Ireneo, Ippolito e Tertulliano, avversari dei principi
divisivi degli gnostici che separavano il vero Dio dalla creazione, il corpo umano
dall’anima e Gesù da Cristo. In realtà era stato l’unico Dio a creare il mondo,
trasformatosi in luogo di sofferenza non per colpa sua, ma perché aveva ceduto
al peccato. L’unico Dio aveva dato agli umani un corpo e un’anima, perciò li
avrebbe salvati fisicamente e spiritualmente. L’unico Dio aveva mandato suo
Figlio nel mondo, veramente in carne e ossa, non abitante temporaneo di un
corpo. Dio era uno e suo Figlio era uno, corpo e anima, carne e spirito, umano e
divino.

Antiche etero-ortodossie cristiane


Alla fine del secondo secolo, la maggioranza dei cristiani non accettava le idee
di adozionisti, docetisti e gnostici. Ormai erano considerate vicoli ciechi
teologici, o peggio ancora eresie che potevano portare alla dannazione eterna. I
cristiani abbracciarono invece la visione che — quanto meno nel secolo
successivo — finì per avere la meglio: Cristo era un vero essere umano e un vero
essere divino, sia uomo che Dio, ma senza essere due entità distinte. Com’era
possibile, però? Se era umano, in che senso era divino? Se era divino, in che
senso era umano? Era questo il rompicapo teologico che i pensatori cristiani
dovevano risolvere. Ci volle moltissimo tempo. Prima che si trovasse una
soluzione, emersero una serie di ipotesi che all’epoca potevano sembrare
adeguate, ma che a lungo andare finirono per essere bollate come inopportune,
insoddisfacenti e persino eretiche. È un paradosso che ricorre sistematicamente
nella tradizione cristiana: opinioni un tempo maggioritarie, o quanto meno
diffusamente considerate del tutto accettabili, finivano per essere prima scartate,
e poi — via via che la teologia progrediva e si faceva più complessa e sfaccettata
— condannate come eresie. Un processo che interessò anche, come sappiamo, la
cristologia dell’esaltazione che rappresentava la forma originaria di fede
cristiana: nel secondo secolo, quasi tutti la consideravano eretica. 12 Anche
teorie successive, accettate e predominanti nel secondo secolo, subirono la stessa
sorte.
Poiché queste ultime credenze condividevano i principi ortodossi
fondamentali — un solo Gesù, umano e divino — e ciononostante finirono per
essere etichettate come eretiche, io le definisco etero-ortodossie. Ne prenderemo
in esame due che giocarono un ruolo importante nella formazione del successivo
pensiero cristologico.

Modalismo
La prima delle teorie in questione andava indiscutibilmente per la maggiore
all’inizio del terzo secolo, tanto che la sposavano persino le massime autorità
cristiane: i vescovi della chiesa di Roma, ovvero i primi «papi». Alcuni studiosi
moderni la chiamano modalismo.
I cristiani dell’epoca insistevano a professare due posizioni distinte che a
prima vista potrebbero sembrare — e allora sembravano — contraddittorie. La
prima era il monoteismo: esiste un solo Dio. Non due, come pensava Marcione,
né un intero regno di dèi, come pensavano gli gnostici: esiste uno e un solo Dio.
La seconda, però, era che Cristo era Dio. Non un uomo assurto al potere divino
perché adottato da Dio, come affermavano le — ormai superate — cristologie
dell’esaltazione, ma un essere divino preesistente che per natura, in un certo
senso, era Dio. Ma se Dio Padre è Dio e Cristo è Dio, come si fa a dire che non
ci sono due Dèi?

L’ipotesi modalista

Una risposta era la cristologia modalista: Cristo è Dio e Dio è Dio perché i due
non sono distinti. Dio si manifesta in vari modi (da qui il nome della dottrina),
Padre, Figlio e Spirito. Tutti e tre sono Dio, ma di Dio ce n’è uno solo, perché
Padre, Figlio e Spirito sono la stessa cosa. Mi spiego con un’analogia. Pur
essendo la stessa persona, io sono persone diverse nei miei diversi rapporti
umani. Sono figlio per mio padre, fratello per mia sorella e padre per mia figlia,
ma non per questo esistono tre me. Lo stesso vale per Dio: si manifesta come
Padre, Figlio e Spirito, ma è uno soltanto.
Secondo Ippolito, questa era l’opinione di Callisto, vescovo di Roma dal 217
al 222 e.v.: «Non che il Padre è una persona e il Figlio un’altra, ma che i due
sono la stessa cosa». Inoltre, «essendo unica, quella Persona non può essere
divisa in due» (Ippolito, Confutazione 7). La conclusione per i modalisti era
lampante: «Se dunque io riconosco che Cristo è Dio, Egli è il Padre Stesso, se è
veramente Dio; e Cristo ha sofferto, essendo Egli il Padre; di conseguenza, il
Padre ha sofferto poiché era il Padre Stesso» (Ippolito, Contro Noeto 2). 13
Secondo un avversario come Tertulliano, era stato «il diavolo» a propagare
l’idea che fosse «sempre proprio il Padre quegli che discese nella Vergine, che
nacque da lei e che soffrì, in breve, egli è appunto Gesù Cristo» (Contro Prassea
1). 14 A volte i modalisti erano chiamati ironicamente «patripassianisti» — dal
latino Patris passio, «passione del Padre» — ossia coloro secondo i quali a
soffrire era stato il Padre. 15
Come si può facilmente immaginare, i fautori di questa visione potevano
citare le scritture come fonte della loro dottrina.
In Isaia 44:6, per esempio, Dio dichiara: «Io sono il primo e sono l’ultimo, e
fuori di me non c’è Dio». Parole che non potrebbero essere più chiare: non esiste
letteralmente altro Dio oltre al Dio dell’Antico Testamento. E tuttavia, in
Romani 9:5, Paolo parla del «Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in
eterno». Se esiste un solo Dio e Cristo è Dio, allora Cristo è il Dio dell’Antico
Testamento. Dio Figlio e Dio Padre sono un solo Dio, non due entità separate.
I fautori di questa teoria attaccavano chiunque pensasse che Cristo potesse
essere un Dio distinto da Dio Padre. I modalisti che avversavano la visione di
Ippolito — Figlio e Padre come due entità separate — «ci chiamavano adoratori
di due dèi» (Confutazione 6). Tertulliano: «Così essi vanno inventando che noi
predichiamo due o anche tre dèi, mentre essi pretendono di essere adoratori di un
solo Dio» (Contro Prassea 3).
Il successo della prospettiva modalista non deve sorprendere. Con un certo
imbarazzo, Ippolito osserva che a professarla non erano soltanto i vescovi di
Roma, perché aveva «generato la massima confusione tra i fedeli di ogni parte
del mondo» (Confutazione 1). Dal canto suo, Tertulliano ammette che la
maggioranza dei fedeli fatica ad accettare la sua visione e preferisce la dottrina
modalista (Contro Prassea 3). Ma Ippolito e Tertulliano erano avversari tosti,
vigorosi polemisti che prendevano di mira non solo eretici «palesi» come
Marcione e gli gnostici, ma anche autori che pur affermando la visione ortodossa
di Cristo umano e divino spingevano le loro teorie fino a conclusioni estreme e a
loro modo eretiche. L’esito di questa controversia fu che Ippolito, una delle
guide ecclesiastiche di Roma, si staccò dalla comunità insieme a un gruppo di
cristiani e fu eletto vescovo della setta. Sarebbe passato alla storia come il primo
antipapa. Convinto di essere il paladino dell’ortodossia, sosteneva che i veri
eretici fossero i vescovi di Roma.
Quanto a Tertulliano, era l’autore più illustre dell’importante chiesa di
Cartagine, nel Nordafrica. Noto apologeta cristiano (difensore della fede contro
gli attacchi intellettuali dei pagani), era un eresiologo, saggista e polemista a
tutto tondo. Era uno dei più grandi teologi dell’inizio del terzo secolo, e nessuna
controversia lo portò a elaborare e affinare le sue posizioni teologiche più di
quella con i modalisti. Proprio nel corso di questa disputa Tertulliano fu il primo
autore cristiano a utilizzare il termine Trinità per descrivere il rapporto tra Padre,
Figlio e Spirito Santo, distinti nel numero ma insieme nell’Uno.

Ippolito e Tertulliano

Ippolito scrisse lunghe pagine per denunciare i limiti del modalismo, ma il suo
ragionamento fondamentale era molto semplice: poiché le scritture presentano
Cristo come distinto da Dio Padre, i due non possono essere la stessa entità.
Prendiamo Giovanni 1:18: «Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel
seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere». Cristo non poteva certo stare
dentro il proprio seno. In Matteo 11:27 Cristo dice che «ogni cosa mi è stata data
in mano dal Padre mio»: quelle cose, ovviamente, non le stava dando a se stesso.
Altrove Ippolito ne fa una questione di grammatica. «Io e il Padre siamo uno»
dice Gesù in Giovanni 10:30. Attento al senso di ogni singola parola, Ippolito
sottolinea che il verbo è alla prima persona plurale, non singolare: siamo, non
sono. Gesù non dice «io sono il Padre» o «io e il Padre sono uno», ma «io e il
Padre siamo uno».
Ancora più caustico è Tertulliano, il polemista più micidiale della sua epoca,
quando si scaglia contro coloro che — di fatto — sostengono che Dio Padre si è
reso «Figlio di Se Stesso»:
Un conto è avere, un conto è essere. Per esempio, per essere marito, devo avere moglie; non posso
certo essere la mia stessa moglie. Allo stesso modo, se sono padre, ho un figlio, giacché non posso
essere figlio di me stesso, e se sono figlio, ho un padre, non potendo certo essere padre di me stesso.
(Contro Prassea 10)
Se devo essere mio figlio, io che sono anche padre, smetterò subito di avere un figlio, poiché io sono
figlio mio. Ma dal momento che non ho un figlio, essendo io il mio stesso figlio, come posso essere
padre? Dovrei avere un figlio per poter essere padre. Pertanto io non sono un figlio, perché non ho un
padre che mi renda figlio. (Contro Prassea 10)

È la versione eresiologica del famoso sketch «Chi gioca in prima base?» di


Gianni e Pinotto. Come Ippolito, anche Tertulliano poteva fare riferimento alle
scritture:
Quanto a me, citerò il brano in cui il Padre disse al Figlio: «Tu sei mio figlio, oggi io t’ho generato».
Se vuoi farmi credere che Egli era insieme Padre e Figlio, mostrami un altro brano in cui si dichiari:
«Il Signore disse a Sé Medesimo: “Io sono mio figlio, oggi io mi sono generato”». (Contro Prassea
11)

La dottrina della Trinità

Pur scagliandosi con veemenza contro la posizione modalista, Ippolito e


Tertulliano condividevano i principi teologici da cui era scaturita. Come i loro
avversari, anche loro erano convinti da un lato che Cristo fosse Dio e Dio Padre
fosse Dio, ma dall’altro che esistesse un solo Dio. Per poter salvare questa teoria
respingendo il modalismo, i due autori elaborarono l’idea dell’economia divina.
In questo contesto economia si riferisce a un sistema non monetario, ma
relazionale. Nell’economia divina ci sono tre persone — Padre, Figlio e Spirito
Santo —, esseri distinti ma uniti nella volontà e negli scopi. Come vedremo nel
prossimo capitolo, a conti fatti è difficile — forse quasi impossibile — non
perdere il filo del discorso, ma quanto meno lo si può riconoscere come un
paradosso. I tre sono uno. Ippolito illustra la sua visione dell’economia divina:
Il Padre è certamente Uno, ma ci sono Due Persone, poiché c’è anche il Figlio; e poi c’è la terza, lo
Spirito Santo. Il Padre ordina, la Parola esegue e il Figlio, per opera del quale si crede nel Padre, si
manifesta […] È il Padre che comanda, il Figlio che ubbidisce, lo Spirito santo che dà comprensione; il
Padre che è su tutti, il Figlio che è per tutti, lo Spirito santo che è in tutti. Se vogliamo dunque credere
a un solo Dio, non possiamo farlo che credendo fermamente al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
(Contro Noeto 14)

Ippolito definiva triade questo Dio uno e trino; Tertulliano, come già detto, la
chiamava Trinità. Secondo quest’ultimo, «l’unico Dio ha anche un Figlio, la sua
Parola, che da lui stesso derivò, per mezzo del quale tutto fu creato», un Figlio
che era «uomo e Dio, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio» (Contro Prassea 2). È
ormai evidente che «figlio dell’uomo» non è più un termine apocalittico, bensì
un attributo umano, proprio come «Figlio di Dio» è un attributo divino.
Per Tertulliano, il rapporto fra Padre e Figlio si inserisce nell’economia
divina, dove anche lo Spirito gioca un ruolo particolare. Questa economia
«dispone l’unità nella trinità, prescrivendo Padre, Figlio e Spirito come tre
persone, tuttavia tre non per la natura, ma per il grado, non per la sostanza ma
per la forma, non per la potenza, ma per la specificità, ma di una sola sostanza,
di una sola esistenza, di una sola potenza, perché Dio è unico» (Contro Prassea
2).
Le tre persone divine possono essere «contate pur non essendo divise». Più
avanti, Tertulliano illustra la «professione di fede» dei cristiani: «Il Padre è uno,
il Figlio è uno e lo Spirito è uno, ed essi sono distinti l’uno dall’altro». Diversità,
tuttavia, non significa separazione: «Il Figlio è un altro dal Padre non per
diversità, ma per distribuzione, non per divisione, ma per distinzione, poiché
Padre e Figlio non sono la stessa persona, essendo anche nella misura l’uno
distinto dall’altro» (Contro Prassea 9).
Quella imboccata da Ippolito e Tertulliano è la strada della dottrina trinitaria
ortodossa, ma i due autori non ci sono ancora arrivati, com’è evidente a
chiunque conosca i dibattiti del quarto secolo — ne discuteremo nel prossimo
capitolo — e legga il seguente passo di Tertulliano: «Dunque il Padre è distinto
dal Figlio, ed è più grande del Figlio, poiché Colui che genera è uno, Colui che è
generato è un altro» (Contro Prassea 9). Una visione che i teologi ortodossi
delle epoche successive dovevano ritenere assolutamente inadeguata:
sottolineando che il Padre era «più grande» del Figlio, Tertulliano esponeva una
posizione destinata a essere condannata come eretica. In quei primi anni della
formazione della dottrina cristiana, la teologia non poteva restare ferma. Col
passare del tempo, progrediva e si faceva più complessa e sfaccettata.

La cristologia di Origene di Alessandria

L’esempio più lampante è Origene, il maggiore teologo cristiano prima dei


dibattiti del quarto secolo. Per quanto all’epoca fosse un pensatore ortodosso, nei
secoli successivi venne bollato come eretico.
Nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto, Origene aveva dato mostra di
capacità insolitamente precoci. Era molto giovane quando venne nominato
direttore della famosa «scuola catechetica», ovvero dedicata all’istruzione dei
convertiti. Figura geniale, di cultura straordinaria, era anche un autore
incredibilmente prolifico. Secondo Girolamo, un padre della Chiesa, fra
commentari biblici, trattati, omelie e lettere le opere di Origene raggiungevano le
due migliaia. 16
Origene affrontava questioni teologiche che mai nessuno aveva toccato prima,
riuscendo così a produrre numerose idee originali e di enorme impatto. In
seguito i teologi misero in dubbio la sua ortodossia, attribuendogli la
responsabilità di idee che avrebbero portato al grande scisma teologico di cui
parleremo nel prossimo capitolo, la controversia ariana. Quello in cui muoveva,
però, era un territorio inesplorato. Origene accettava la cristologia ortodossa
dell’epoca, compresa l’idea che Cristo fosse da un lato divino e umano al tempo
stesso, ma dall’altro una persona sola. Le conclusioni che ne traeva, però, erano
senza precedenti.
La più interessante delle sue numerosissime opere è I principi, scritta attorno
al 229 e.v., quando Origene aveva appena quarant’anni. Si trattava del primo
tentativo di elaborare una teologia sistematica, ovvero una disamina metodica
delle fondamentali questioni teologiche, da un lato per stabilire ciò che «tutti» i
cristiani dovevano credere, dall’altro per proporre soluzioni alle diverse aree
grigie su cui i pensatori ortodossi dell’epoca non avevano ancora fatto luce.
All’inizio del libro Origene spiega che Cristo è la Sapienza di Dio, sempre
esistita con Dio Padre (poiché Dio è sempre stato sapiente) e mai nata. Cristo è
anche la Parola di Dio, essendo lui a comunicare al mondo tutto ciò che deriva
dalla Sapienza di Dio. Per Origene, Cristo non era solo un essere divino
preesistente: era sempre stato con Dio Padre, e in quanto Sapienza e Parola di
Dio era a sua volta Dio per natura. Per suo tramite, Dio aveva creato ogni cosa.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: com’è possibile che «tanta
potenza della divina maestà» si facesse umana, racchiudendosi nei limiti
dell’«uomo che è apparso in Giudea»? Origene è il primo a dichiararsi
sconcertato dalla questione dell’incarnazione: «La limitatezza dell’umano
intelletto si trova in difficoltà, e presa da ammirato stupore non sa dove volgersi
e a che appigliarsi. Se lo crede Dio, lo vede soggetto alla morte; se lo reputa
uomo, lo vede tornare dai morti con le spoglie del vinto regno della morte» (I
principi 2.6.2). 17
Di preciso, come fece questa figura divina a diventare umana? Come mai,
facendosi umana, non perse la propria divinità? Come può l’uomo essere divino
senza cessare di essere uomo? La risposta elaborata da Origene è una delle idee
che finirono per renderlo vulnerabile all’accusa di eresia: la preesistenza
dell’anima. Non era il solo Cristo a esistere prima di apparire in forma umana,
ma anche tutti gli altri uomini. 18
Secondo Origene, in un passato antichissimo Dio aveva creato un numero
enorme di anime affinché contemplassero il Figlio di Dio, che di Dio era anche
la Parola e la Sapienza. Senonché, quasi tutte le anime si allontanarono dalla
missione per cui erano state create, la contemplazione adorante della Parola e
della Sapienza di Dio: quelle che si allontanarono di più diventarono demoni;
quelle che si allontanarono di meno diventarono angeli; quelle che si
collocavano a metà diventarono uomini. La trasformazione in demone, uomo o
angelo era quindi una sorta di castigo per l’anima: ecco perché esistono ranghi e
gerarchie interne alle tre categorie. Certi uomini, per esempio, nascono con
difetti congeniti o altri svantaggi: non perché Dio sia capriccioso nel trattamento
che riserva agli esseri umani, ma perché alcuni vengono puniti più severamente
in ragione dei peccati commessi prima di esistere in quanto uomini.
Nella moltitudine di anime, però, ce n’era una che non era venuta meno alla
propria missione. È il punto chiave della cristologia di Origene. Quest’anima
aveva mostrato una devozione assoluta alla Parola e alla Sapienza di Dio,
contemplandole e aderendo loro «inseparabilmente e indissolubilmente». Una
contemplazione che aveva esercitato un effetto profondo sull’anima. Per
spiegarsi, Origene ricorre all’analogia con un pezzo di ferro lasciato a lungo sul
fuoco. Pur non essendo fuoco, il ferro ne assumerà comunque tutte le
caratteristiche: toccarlo sarà come toccare il fuoco. Lo stesso accadde a
quell’unica anima: «Sempre nella Parola, sempre nella Sapienza, sempre in Dio,
tutto ciò che fa, sente, comprende è Dio: perciò non possiamo dire soggetta a
mutazione e cambiamento quella che, infiammata incessantemente dall’unione
con la parola divina, è venuta in possesso dell’immutabilità» (I principi 2.6.6).
Dio riuscì a entrare in contatto con le anime cadute e trasformate in esseri
umani per punizione proprio mediante quest’anima, la quale, completamente
infusa di Cristo — Parola e Sapienza di Dio —, si fece uomo. Essendo «una»
con Dio (come il ferro nel fuoco), nella sua forma incarnata di uomo Gesù
l’anima poteva legittimamente essere chiamata anche Figlio di Dio, Sapienza di
Dio, potere di Dio e Cristo di Dio; ed essendosi fatta umana, poteva essere
chiamata Gesù e Figlio dell’Uomo.
Come può Gesù Cristo da un lato possedere un’anima razionale come tutti gli
uomini e dall’altro essere una manifestazione terrena del Figlio di Dio? «Questa
anima che è di Cristo ha scelto di amare la giustizia in maniera tale da aderire a
lui inseparabilmente e immutabilmente per immensità di amore. Così la
fermezza del proposito, l’immensità dell’affetto e l’inestinguibile calore
dell’amore hanno eliminato ogni senso di mutazione e cambiamento sì che ciò
che dipendeva da libertà di volere per la lunga intimità si è mutato in natura» (I
principi 2.6.5).
Abbiamo quindi un’interpretazione di grande raffinatezza — benché del tutto
congetturale — dell’incarnazione e della natura di Cristo, probabilmente il
tentativo più progredito dell’antichità di comprendere il Cristo umano e divino.
Ma anche questo sarebbe stato stroncato negli anni a venire dai teologi ortodossi,
che affinando le proprie teorie condannavano tutte quelle che giudicavano
eretiche o quasi. 19

Vicoli ciechi e ampie strade delle cristologie antiche


Quando discutevano degli «eretici» che ritenevano presenze pericolose per la
comunità, gli eresiologi del secondo, terzo e quarto secolo li descrivevano come
ispirati dal demonio, malvagi propagatori di falsità. La verità, tuttavia, è che
praticamente nessun eretico, in nessuna epoca, si è mai considerato tale, nel
senso in cui gli eresiologi utilizzavano il termine. Nessuno si ritiene un
propagatore di falsità, nessuno pensa che le proprie idee siano «sbagliate»: chi lo
pensa cambia idea, per non essere più in errore. Insomma, per definizione o
quasi, tutti pensano che le proprie convinzioni siano «ortodosse», perlomeno nel
senso teologico di «rette credenze».
È una delle ragioni per cui gli storici non adoperano i termini eresia,
eterodossia e ortodossia nella loro accezione teologica di giudizi sul valore delle
teorie: le persone sono sempre convinte di avere ragione. Li utilizzano invece in
senso neutro, per distinguere le dottrine che venivano dichiarate vere dalla
maggioranza dei credenti — o quanto meno delle autorità ecclesiastiche — da
quelle condannate come false.
Se dunque i fautori di questa o quella teoria credevano di avere ragione, che
motivo abbiamo di ritenere che chi le promuoveva volesse nuocere al prossimo?
Praticamente tutti gli esponenti della Chiesa antica di cui siamo a conoscenza
erano convinti di agire nel modo migliore, mossi dall’intento di svelare i segreti
della religione cristiana. La storia, però, non è sempre clemente con le buone
intenzioni.
I cristiani volevano affermare certe credenze, ma in certi casi, se venivano
portate all’estremo, quelle affermazioni impedivano l’enunciazione di altre
credenze che i cristiani — loro stessi o altri — volevano promuovere. Per
esempio, come sappiamo, alcuni affermavano che Cristo era umano, ma in
maniera così radicale da rifiutarsi di riconoscerne la natura divina, e viceversa.
Altri cercavano di aggirare il problema sostenendo che Gesù fosse in parte
umano e in parte divino, ma questa soluzione portò divisioni e strappi, non
armonia e unione. Altri affermavano che poiché esiste un solo Dio, Gesù poteva
essere divino solo se era quel Dio disceso in terra. Ma l’ipotesi finì per
costringere i suoi fautori a sostenere che Gesù si fosse generato da sé in quanto
padre del suo stesso figlio, più altre conclusioni inverosimili. Grandi pensatori
dell’epoca come Origene elaborarono soluzioni più raffinate, ma anche queste
finirono per produrre idee che in seguito vennero contestate, per esempio che
ognuno di noi ha un’anima esistente da sempre ed è venuto al mondo per
punizione.
Va detto che simili questioni non erano semplici esercizi intellettuali per
teologi, ma importavano anche alla popolazione cristiana, ansiosa di sapere da
un lato quali fossero le credenze «giuste», dall’altro come dovevano pregare. 20
Bisognava pregare Gesù? Nel caso, bisognava pregarlo in quanto Dio o in
quanto divinità secondaria? Oppure si doveva pregare solo Dio Padre? E il Dio
da pregare è lo stesso che ha creato il mondo oppure un altro? Se bisogna
pregare sia Gesù che Dio Padre, come evitare la conclusione che i cristiani
credono in due Dèi?
In tutti questi dibattiti, vediamo i pensatori cristiani affannarsi a capire,
desiderosi di fare proclami assimilabili a verità evangeliche. Il risultato, più che
il caos, fu una straordinaria complessità di sfumature. La cristologia che finì per
emergerne si fondava su alcuni aspetti di quanto affermavano due eresie
contrapposte, rifiutandosi al contempo di negare ciò che esse negavano. Ne
conseguì una risposta profondamente raffinata ma altrettanto paradossale alla
domanda centrale di questo libro: come aveva fatto Gesù a diventare Dio?

1. Si veda la mia discussione in Bart D. Ehrman (2012), The New Testament: A Historical
Introduction to the Early Christian Writings, 5a ed., Oxford University Press, New York.←
2. Varie eresie sopravvissero in gruppi cristiani marginali e alcune riemersero in luoghi e periodi
storici diversi, ma la Chiesa ortodossa continuava a giudicarle fallaci.←
3. Ippolito (2012), Confutazione di tutte le eresie, a cura di Aldo Magris, Morcelliana, Brescia.←
4. Eusebio di Cesarea (2001), Storia ecclesiastica/1, a cura di Franzo Migliore, Città Nuova,
Roma, p. 308.←
5. vi, p. 309.←
6. È la tesi del mio libro Bart D. Ehrman (2011), The Orthodox Corruption of Scripture: The Effect
of Early Christological Controversies on the Text of the New Testament, 2a ed., Oxford
University Press, New York.←
7. Ignazio di Antiochia (2009), Lettere di Ignazio di Antiochia. Lettere e Martirio di Policarpo di
Smirne, a cura di Antonio Quacquarelli, Città Nuova, Roma, p. 34.←
8. Lo studio classico su Marcione è Adolf von Harnack (1924), Marcion: das evangelium vom
fremden Gott, Hinrichs, Lipsia. Per una trattazione moderna si veda Bart D. Ehrman (2012), The
New Testament: A Historical Introduction to the Early Christian Writings, 5a ed., Oxford
University Press, New York.←
9. Si veda Karen King (2003), What Is Gnosticism?, Harvard University Press, Cambridge, MA;
Michael A. Williams (1996), Rethinking Gnosticism: An Argument for Dismantling a Dubious
Category, Princeton University Press, Princeton, NJ; e Brakke 2010.←
10. La storia tradizionale del ritrovamento è raccontata nell’introduzione di James M. Robinson
(cur., 1996), The Nag Hammadi Library in English, 4a ed., E.J. Brill, Leida.←
11. Moraldi 2007:28.←
12. Non sto dicendo che i libri che professavano queste visioni ed erano destinati a comporre il
Nuovo Testamento — per esempio Matteo e Marco — fossero giudicati eretici. Tuttavia,
quando le cristologie dell’esaltazione smisero di essere accettate, questi testi sacri iniziarono a
essere interpretati in modo da escludere che contenessero idee simili.←
13. Ippolito (2000), Contro Noeto, EDB, Bologna.←
14. Q.S.F. Tertulliano (1985), Contro Prassea, a cura di Giuseppe Scarpat, Società Editrice
Internazionale, Torino.←
15. sse aver sofferto era scandalosa non solo perché il Creatore di ogni cosa non poteva aver
sperimentato il dolore, ma anche perché nell’antichità si credeva che la sofferenza comportasse
un cambiamento personale (prima non si soffre, poi sì). Dio è immutabile, però, dunque l’ipotesi
era inconcepibile. Ringrazio Maria Doerfler per questa riflessione.←
16. Per approfondire vita e insegnamenti di Origene si veda Joseph W. Trigg (1983), Origen: The
Bible and Philosophy in the Third-Century Church, John Knox, Atlanta.←
17. Manlio Simonetti (cur. 1968), I principi di Origene, UTET, Torino, p. 285.←
18. Se il concetto di preesistenza dell’anima può apparire stravagante oggi, non lo era affatto per gli
antichi pensatori: basti pensare che lo ritroviamo in filosofi greci come Platone.←
19. Se la dottrina di Origene venne respinta categoricamente dai successivi teologi ortodossi era
anche perché l’idea della preesistenza e della «caduta» dell’anima era considerata oltremodo
inquietante. Se le anime cadute avevano la possibilità di essere nuovamente salvate tramite
l’opera di Dio, come garantire che, una volta salvate e riportate in un luogo dove potevano
contemplare in eterno la gloria di Dio, non cadessero una seconda volta? In alcuni teologi
cristiani una simile prospettiva suscitava enormi dubbi sul carattere definitivo della salvezza e
sulla vita di beatitudine eterna in serbo per chi credeva in Dio.←
20. Come sottolineato in particolare da Larry Hurtado: si vedano Hurtado 1988 e 2006.←
9. Orto-paradossi sulla strada per Nicea
Dopo aver abbandonato la Chiesa evangelica, mi convertii per alcuni anni al
cristianesimo liberale. Molti dei fedeli che incontravo a messa non pensavano
che la Bibbia fosse letteralmente vera, né che fosse una rivelazione infallibile
della parola di Dio. Inoltre, per quanto recitassero i credo tradizionali durante le
funzioni, parlando con loro scoprii che erano in pochi a credere in ciò che
dicevano. Non solo: in molti non si preoccupavano minimamente del significato
delle parole o del motivo per cui facevano parte del credo. Prendiamo l’inizio del
Credo niceno:
Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.

L’esperienza mi insegna che molti cristiani non hanno la minima idea di cosa
significhino queste parole. Per esempio: come mai il credo sottolinea che c’è «un
solo Dio»? Oggi la gente crede in Dio o non ci crede, ma chi crede in due Dèi?
Perché specificare che ne esiste soltanto uno? La ragione va ricercata nella storia
del credo, originariamente formulato proprio contro i cristiani che affermavano
l’esistenza di due Dèi (per esempio l’eretico Marcione) o di dodici o trentasei dèi
(come alcuni gnostici). E perché precisare che Dio aveva fatto il cielo e la terra?
Perché molti eretici sostenevano che il mondo non fosse stato creato dal vero
Dio, e il credo mirava a sradicarli dalla Chiesa.
In particolare, il credo dice parecchie cose su Cristo.
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,

Di nuovo, perché «un solo»? Quanti altri Cristi esistono? Secondo gli gnostici
cristiani, come sappiamo, Cristo era diversi esseri, o almeno due: uno divino e
uno umano, temporaneamente uniti. Il credo procede con una lunga serie di
affermazioni cristologiche:
unigenito figlio di Dio,
nato dal padre prima di tutti i secoli:
Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza del padre;
per mezzo di Lui tutte le cose
sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza
Per noi uomini e per la nostra salvezza
discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo.
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato,
morì e fu sepolto.
Il terzo giorno è risuscitato,
secondo le Scritture,
è salito al cielo, siede alla destra del Padre.
E di nuovo verrà, nella gloria
per giudicare i vivi e i morti
e il suo regno non avrà fine.

Ciascuna di queste asserzioni venne inserita nel credo per confutare le idee degli
eretici, per esempio che Cristo fosse una divinità minore rispetto a Dio Padre,
che non fosse veramente umano, che la sua sofferenza non fosse rilevante per la
salvezza o che il suo regno fosse destinato a finire: tutte convinzioni professate
da questo o quel gruppo religioso nei primi secoli del cristianesimo.
Queste credenze, tuttavia, tendono a contare decisamente meno per i cristiani
liberali di oggi, perlomeno quelli che ho conosciuto. Negli ultimi anni, tenendo
lezioni in chiese di tutto il paese, ho ripetuto più volte che c’è una sola parte del
credo che posso pronunciare con convinzione: «Fu crocifisso […] sotto Ponzio
Pilato, morì e fu sepolto». Non credendo al resto, non posso entrare nelle loro
confraternite. Ma i fedeli, e persino i sacerdoti, spesso replicano che questo non
dovrebbe fermarmi: quanto meno in senso letterale, non ci credono nemmeno
molti di loro!
Il che non valeva certo nel quarto secolo, quando quegli articoli di fede erano
nati. Per le autorità ecclesiastiche che li avevano formulati, essenziali non erano
solo il significato letterale (Dio esiste, Cristo è suo Figlio, Cristo è Dio ma si è
fatto umano, è morto per gli altri e resuscitato dai morti, ecc.), ma anche le
sfumature meno evidenti: ogni parola andava presa come letteralmente vera e
fondamentale, qualsiasi asserzione contraria andava respinta in quanto eretica e
pericolosa. Per rischiare la dannazione eterna bastava una lieve differenza di
vedute: nell’ambiente teologico del quarto secolo e.v., non c’era da scherzare. In
termini cristologici, come vedremo in questo capitolo, si arrivò alle seguenti
conclusioni: Cristo era un essere distinto da Dio, era sempre esistito insieme a
Dio, era pari a Dio e lo era sempre stato, si era fatto completamente — non in
parte — umano senza però abbandonare lo status e il potere divino. Tutto ciò
parrebbe una contraddizione in termini: se esiste un solo Dio, com’è possibile
che Cristo sia Dio e Dio Padre sia Dio? E come può Cristo essere pienamente
divino e pienamente umano al tempo stesso? Non dovrebbe essere sia umano che
divino in parte?
Più che vederle come essenzialmente contraddittorie, forse è più utile
interpretare queste asserzioni come paradossi emersi dai dibattiti sulla natura di
Cristo. E poiché si tratta dei paradossi che finirono per assumere un ruolo
predominante nel cristianesimo ortodosso, io li chiamo orto-paradossi. Per
riassumere la nostra discussione fino a questo momento, li analizzeremo nel
dettaglio prima di concentrarci su alcuni grandi teologi del cristianesimo antico
che contribuirono alla loro formulazione. Proprio per risolvere alcune di queste
questioni fu convocato il famoso concilio di Nicea del 325 e.v.

Gli orto-paradossi
I paradossi del cristianesimo ortodosso nascevano da due brutali dati di fatto.
Primo: le scritture contengono brani che sembrano fare asserzioni incompatibili
tra loro. I pensatori ortodossi si resero conto che bisognava confermarle tutte, per
quanto contraddittorie, ma questo portava necessariamente alla formulazione di
paradossi. Secondo: diversi gruppi eretici facevano affermazioni tra loro
contrapposte, e gli ortodossi sapevano di doverle respingerle tutte, il che
significava condannare come errata sia una credenza che il suo contrario. Ma se
due visioni opposte sono entrambe errate, allora non ne esiste una corretta,
perciò agli ortodossi non restava che riconoscere come corretta parte di ciascuna
visione, respingendo il resto. Il risultato era un paradosso: ognuna delle visioni
contrapposte era errata in ciò che negava ma corretta in ciò che affermava. Non è
facile capirlo senza esempi concreti, pertanto ora spiegherò in che modo questi
due fattori portarono alla nascita degli orto-paradossi, uno riguardante la natura
di Cristo (era Dio, uomo o entrambi?) e l’altro riguardante la natura di Dio
(come poteva Gesù essere Dio se solo Dio Padre era Dio?).

L’orto-paradosso cristologico

Come sappiamo, numerosi brani evangelici affermano che Cristo è Dio: «Prima
che Abramo fosse nato, io sono» dice Gesù in Giovanni 8:58, invocando il Dio
di Esodo 3; «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni 10:30); «Chi ha visto me, ha
visto il Padre» (14:9). Alla fine del Vangelo, persino lo scettico Tommaso
dichiara che Dio è «Signor mio e Dio mio!» (20:28).
Altri passi biblici, però, dicono che Gesù è umano. «E la Parola è diventata
carne e ha abitato per un tempo fra di noi» (Giovanni 1:14). La Prima Lettera di
Giovanni sostiene che Cristo può essere visto, sentito e toccato (1:1-4) e che
chiunque neghi che «Gesù Cristo è venuto nella carne» è un anticristo (4:2-3).
Inutile aggiungere, poi, che tutti i Vangeli del Nuovo Testamento descrivono
Gesù come un uomo che nasce, cresce, mangia, beve, soffre, sanguina e muore.
L’orto-paradosso che ne conseguì deriva dalle posizioni che gli ortodossi
furono costretti ad assumere respingendo le tesi contraddittorie dei rivali e dei
testi biblici. Gli adozionisti avevano ragione quando affermavano che Gesù era
umano ma torto quando negavano che fosse Dio; i docetisti avevano ragione
quando affermavano che Gesù era divino ma torto quando negavano che fosse
umano; gli gnostici avevano ragione quando affermavano che Cristo era sia
divino che umano ma torto quando negavano che fosse una sola entità.
Se mettiamo insieme tutte queste asserzioni, il risultato è l’orto-paradosso:
Cristo è Dio e uomo, ma è una sola entità, non due. Questa diventò la
professione cristologica fondamentale della tradizione ortodossa.
Come vedremo, tuttavia, la questione della natura di Cristo non era ancora
risolta. Sorsero anzi nuovi interrogativi, mentre continuavano a diffondersi le
«false credenze»: non in merito alle asserzioni ortodosse, ma alle loro
interpretazioni. Col passare del tempo, le eresie si fecero sempre più complesse
e le asserzioni ortodosse sempre più paradossali.

L’orto-paradosso teologico

Più in generale, i dibattiti teologici riguardavano le implicazioni della cristologia


ortodossa per la comprensione della natura di Dio: se Cristo è Dio, lo Spirito è
Dio e l’unico Dio è Dio Padre, allora Dio è una, due o tre entità?
Di nuovo, alcuni brani delle scritture sembrano contraddirsi fra loro. Isaia
45:21 non potrebbe essere più esplicito: «Fuori di me non c’è altro Dio, Dio
giusto, e non c’è Salvatore fuori di me». Altrove, però, Dio parla di sé al plurale:
«Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza»
(Genesi 1:26). Ma a chi si riferisce quando dice «facciamo» e «nostra»? «Il tuo
trono, o Dio, dura in eterno» afferma Dio in Salmi 45:6, ma a quale altro Dio lo
sta dicendo? «Il SIGNORE ha detto al mio Signore: “Siedi alla mia destra finché
io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi”» (Salmi 110:1): esiste
forse più di un Signore? Com’è possibile, se — come dice Isaia — di Signore ce
n’è uno solo?
Più specificamente: se Cristo è Dio e Dio Padre è Dio, in che senso esiste un
solo Dio? Se poi aggiungiamo lo Spirito Santo, come evitare la conclusione che
Cristo e lo Spirito non sono Dio, oppure che di Dèi ce ne sono tre? Alla fine, gli
ortodossi scelsero il paradosso della Trinità: esistono tre persone, tutte sono Dio,
ma esiste un solo Dio. Un Dio che si manifesta in tre persone, distinte nel
numero ma unite nell’essenza. Anche questa asserzione entrò nella dottrina
ufficiale della tradizione ortodossa, e proprio come l’orto-paradosso cristologico
determinò ulteriori dispute, interpretazioni eretiche e articolate migliorie.
Nel resto del capitolo ci occuperemo di alcuni pensatori cristiani ortodossi e
del modo in cui affrontano questi temi cristologici e teologici nei loro scritti.
Non intendo prendere in esame tutti i maggiori teologi ortodossi dei primi secoli
cristiani, né affermare che le figure qui discusse conoscessero l’una l’opera
dell’altra, ma è innegabile che questi pensatori rientrino nell’ampio alveo della
tradizione «ortodossa». Nel capitolo precedente abbiamo visto con quanta fatica
Ippolito e Tertulliano avessero elaborato certe posizioni ortodosse; qui
esamineremo una serie di altri autori che si inseriscono nello stesso filone.
Cominceremo da un’epoca relativamente antica, la metà del secondo secolo
(prima ancora di Ippolito), per poi soffermarci su vari teologi fino ad arrivare al
concilio di Nicea, indetto dall’imperatore Costantino nel 325 e.v. per risolvere le
principali controversie del tempo.

Giustino martire
Possiamo considerare Giustino il primo vero intellettuale e studioso di
professione nella storia della Chiesa. Già esperto di filosofia prima di diventare
cristiano, in una delle sue opere sopravvissute racconta in prima persona la
propria conversione. Nato in Palestina, alla metà del secondo secolo — forse
attorno al 140 e.v. — si era trasferito a Roma per fondarvi una sorta di scuola di
filosofia cristiana. Le sue opere comprendono due «apologie» (dal greco
apologhía, «difesa»), ovvero discorsi scritti per difendere intellettualmente la
fede dalle accuse degli avversari. Abbiamo poi il Dialogo con Trifone, resoconto
di una conversazione — forse immaginaria — tra Giustino e un erudito giudeo
sulla legittimità della tesi cristiana che Gesù fosse il messia predetto dalle
scritture ebraiche.
Giustino finì per essere arrestato per le sue credenze e attività. Non abbiamo
ricostruzioni affidabili del processo e dell’esecuzione, ma sappiamo che fu
condannato e morì attorno al 165, conquistando così l’appellativo «martire».
Gli ortodossi di epoche successive vedevano in Giustino un precursore e un
fautore delle loro idee. La sua esposizione teologica è di grande raffinatezza (era
un filosofo, dopo tutto), ma per gli standard successivi era grossolana e
semplicistica. La teologia ha bisogno di tempo per evolvere, e quando ci riesce
le teorie precedenti, anche quelle espresse con più acume, possono apparire
superficiali e persino primitive.
Concentriamoci ora sulle convinzioni di Giustino riguardo a Cristo e la sua
natura. Secondo Giustino, Cristo era un essere preesistente e — per usare le sue
parole — il «primogenito di Dio» (1 Apologia 46). 1 Era stato generato prima
della creazione del mondo (2 Apologia 5), e col tempo era diventato uomo per i
fedeli e per distruggere i malvagi demoni avversari di Dio (2 Apologia 6).
Giustino dà due interpretazioni fondamentali di Cristo in quanto essere divino,
entrambe fondate su concetti precedenti che abbiamo già analizzato. Tuttavia,
Giustino li elabora in maniera più raffinata rispetto al Nuovo Testamento: per
lui, Cristo è l’Angelo del Signore incarnato e il Logos di Dio fatto carne.

Cristo come Angelo di Dio

In vari punti dei suoi scritti Giustino presenta Cristo come l’Angelo del Signore
apparso nell’Antico Testamento. Nel capitolo 2 abbiamo visto che c’è una certa
ambiguità nel famoso episodio di Mosè e del pruno in fiamme: l’«Angelo del
Signore» parla con Mosè, ma poi viene detto che in realtà è «il Signore» a
rivolgersi a lui. Giustino è ansioso di risolvere il rompicapo in termini
cristologici. La ragione per cui la figura divina in questione è al contempo
l’Angelo del Signore e il Signore è che quello nascosto nel pruno non è Dio
Padre, ma Cristo, che è pienamente divino. Per cominciare, Giustino chiarisce
che non si tratta di un semplice angelo, ma di Dio: «Amici, comprendete che
colui che Mosè dice essere un angelo che ha parlato con lui in una fiamma di
fuoco è lo stesso che, essendo Dio, dichiara a Mosè di essere il Dio di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe?» (Dialogo con Trifone 59). 2 Poi però afferma
categoricamente che quel «Dio» non poteva essere Dio Padre: «Nessuno, anche
se a corto di cervello, oserà dire che il creatore e il padre di tutte le cose ha
abbandonato gli spazi sovracelesti per mostrarsi in un angolo della terra»
(Dialogo 60). Chi era dunque quel Dio? Era Cristo, l’angelo destinato a farsi
uomo.
Cristo, inoltre, è uno dei tre angeli apparsi ad Abramo alle querce di Mamre in
Genesi 18, un altro brano che abbiamo già esaminato. Poiché quest’«angelo» è
anche «uomo» ma viene chiamato «Signore», Giustino non ha dubbi: «Mi
proverò a persuadervi di quanto affermo, una volta che abbiate compreso le
Scritture, che vi è cioè, e vien detto esserci, un Dio e Signore diverso dal
creatore di tutte le cose, che è chiamato anche angelo». Questi «vi è detto e
scritto essere apparso ad Abramo, a Giacobbe e a Mosè, [ed] è un altro Dio
rispetto a quello che ha fatto tutte le cose, un altro, intendo, per numero, non per
distinzione di pensiero» (Dialogo 56). I patriarchi non hanno dunque visto Dio
padre, ma colui che è «Figlio suo e, per il fatto di servire i suoi disegni, angelo»
(Dialogo 127).
È dunque al Figlio che Dio Padre si rivolge nell’Antico Testamento:
«Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza»
(Genesi 1:26); è a lui che in Salmi 45:6 dice: «Il tuo trono, o Dio, dura in
eterno»; ed è a lui che si riferisce Salmi 110:1: «Il SIGNORE ha detto al mio
Signore: “Siedi alla mia destra […]”».

Cristo come il Logos di Dio

Per Giustino, tuttavia, Cristo non era solo l’Angelo del Signore, ma anche la
Parola (Logos) di Dio fatta uomo. Appare evidente l’influenza della cristologia
del Vangelo di Giovanni, un libro che sorprendentemente Giustino non cita quasi
mai. Ma la cristologia del Logos di Giustino è più filosoficamente complessa ed
evoluta rispetto a quella del quarto Vangelo.
Secondo Giustino, il Logos di Dio è la «ragione» di cui è dotato chiunque
utilizzi l’intelletto per comprendere il mondo (1 Apologia 5). Poiché tutti gli
uomini usano l’intelletto, questo significa che tutti gli uomini partecipano del
Logos, ma alcuni in misura maggiore di altri. I più abili sono i filosofi, ma
nemmeno loro conoscono perfettamente il Logos di Dio, altrimenti non
passerebbero tanto tempo a contraddirsi l’un l’altro (2 Apologia 10). Alcuni,
però, erano più vicini di altri alla verità di Dio, rivelata per mezzo del Logos che
era in loro: in particolare il grande filosofo greco Socrate. Per questa ragione, un
pensatore come Socrate andava considerato un cristiano ante litteram (1
Apologia 46).
Ma soprattutto, a conoscere e proclamare il Logos erano i profeti ebraici
dell’Antico Testamento (2 Apologia 10). E il Logos finì per diventare un essere
umano, Gesù Cristo (1 Apologia 1.5). Cristo, dunque, è il Logos incarnato che
creò il mondo e vi si manifestò nella ragione umana che tentava di
comprenderlo: in Cristo quella «ragione» trovava la piena incarnazione.
Pertanto, chi accetta Cristo e crede in lui partecipa del Logos/ragione in misura
maggiore rispetto a chiunque altro, persino ai grandi filosofi antichi. Inoltre, in
quanto incarnazione del Logos di Dio, Cristo merita di essere adorato insieme a
Dio (1 Apologia 6).
Giustino era particolarmente interessato ad affrontare una questione: se Cristo
era — in un qualche senso — distinto da Dio Padre e, nel caso, come andava
interpretato il rapporto fra Cristo, il Verbo incarnato, e Dio Padre stesso. In un
brano, Giustino mette in relazione Cristo in quanto Verbo alle parole che usiamo
per comunicare. Quando pronunciamo una parola, per certi versi questa assume
un’esistenza indipendente da noi, per esempio quando viene fraintesa dal nostro
interlocutore. D’altro canto, la parola deve la sua esistenza solo a noi, perché noi
l’abbiamo pronunciata. Altrettanto vale per il Logos di Dio: proviene da Dio e
pertanto gli appartiene completamente, ma una volta pronunciato vive di vita
propria.
In un altro brano, Giustino assimila il rapporto fra Cristo e Dio a un fuoco
usato per appiccare un altro fuoco. Il secondo fuoco è distinto dal primo, ma non
esisterebbe senza di esso. Una volta appiccato, inoltre, il nuovo fuoco non toglie
nulla all’altro. Il primo fuoco rimane esattamente com’era, ma il secondo è un
fuoco altrettanto completo. Lo stesso vale per Dio e Cristo. Cristo è nato da Dio
e ha assunto un’esistenza propria, ma non per questo ha tolto alcunché a Dio
(Dialogo 61). Ecco perché Giustino sottolinea che Cristo è da un lato un essere
separato e «numericamente distinto» dal Padre (Dialogo 129), ma dall’altro
pienamente Dio.
Potrebbe sorgere il sospetto che con queste spiegazioni Giustino stia entrando
in un territorio minato, perché la sua teoria sembra implicare che Cristo non sia
sempre esistito (una visione destinata a essere condannata come eresia) e che sia
una sorta di secondo Dio creato da Dio padre e pertanto a lui subordinato (altre
idee dichiarate eretiche). Giustino però era vissuto prima che i teologi
studiassero le implicazioni di queste credenze.
Non a caso, non è pacifico che Giustino possa essere ritenuto fautore di una
dottrina trinitaria. Giustino non arriva ancora a dire che Padre, Figlio e Spirito
Santo sono allo stesso livello, né parla di un Dio «uno e trino». Afferma invece
che Dio va adorato per primo, il Figlio per secondo e lo Spirito profetico per
terzo (1 Apologia 1.13). Ma questo, di nuovo, sembra suggerire una gerarchia
divina con Dio al vertice e gli altri al di sotto. Altrove, Giustino sostiene che solo
Dio è «immutabile ed eterno» e che il Figlio è subordinato al Padre (1 Apologia
13). Insomma, secondo Giustino i cristiani onorano Dio, il Figlio, gli Angeli e lo
Spirito: una visione tutt’altro che trinitaria. Se non altro, possiamo dire che
Giustino rappresenta un passo verso gli orto-paradossi cristologici e trinitari.

Novaziano
Un salto in avanti di cent’anni ci porta al terzo secolo e agli scritti del presbitero
e teologo romano Novaziano (210-278 e.v.). Come Ippolito, che abbiamo
incontrato nel capitolo precedente, Novaziano era alla guida di un movimento
scismatico e fu eletto come una sorta di antipapa. La sua impostazione teologica,
tuttavia, all’epoca era pienamente ortodossa. L’opera più famosa di Novaziano è
un trattato sulla Trinità che adombra idee sviluppate in epoche successive ma
non è ancora in grado di comprendere nel dettaglio le implicazioni della
prospettiva trinitaria. Anche lui, proprio come Giustino, continua a interpretare
Cristo come essere divino subordinato a Dio Padre, ma il suo obiettivo
fondamentale è dimostrare che Cristo è pienamente Dio eppure distinto dal
Padre. In altre parole, Novaziano elabora le proprie idee in rapporto alle eresie
ancora diffuse all’epoca, l’adozionismo e il modalismo.
Per certi versi, queste eresie si collocavano agli estremi dello spettro
teologico: una sosteneva che Cristo fosse soltanto umano e non fosse Dio per
natura, l’altra che Cristo fosse non solo Dio, ma Dio Padre. Al tempo stesso, si
potrebbe osservare che per quanto diverse fra loro queste due cristologie
poggiavano su un identico presupposto monoteistico. Se gli adozionisti
affermavano che Cristo non era Dio per natura, lo facevano anche per preservare
l’idea che esistesse un solo Dio. La stessa preoccupazione animava i modalisti:
Cristo era Dio per natura perché era Dio Padre incarnato, perciò anche qui di Dio
ce n’era soltanto uno. Novaziano vedeva un legame essenziale tra le due visioni
contrapposte, quasi fossero lati della stessa medaglia eretica. Per dirla con
Novaziano, Cristo era nuovamente crocifisso tra due ladri (le eresie).
Novaziano si oppone espressamente a queste due visioni che mirano a
preservare l’unicità di Dio. A un certo punto afferma che «avvertendo essi [gli
eretici] come sia scritto che Dio è uno, ritennero che questo principio non si
potesse sostenere altrimenti, se non credendo che Cristo o è solamente uomo
oppure è sicuramente Dio Padre» (Trinità 30). 3 E così entrambe le posizioni
venivano professate da chi rifiutava l’idea che Cristo potesse essere un Dio
distinto da Dio Padre, perché altrimenti avrebbero dovuto riconoscere l’esistenza
di «due dèi».
Per tutta risposta, Novaziano sottolinea che Cristo è veramente Dio, distinto
da Dio Padre ma in perfetta unità con lui: «Questi, adunque, quando il Padre
volle, procedette dal Padre, e lui che era stato nel Padre, poiché nacque dal
Padre, rimase in seguito con il Padre, poiché procedette dal Padre» (Trinità 31).
L’unità di Cristo con Dio non è tuttavia assoluta, perché per Novaziano — come
per gli ortodossi che l’avevano preceduto (ma non per i successivi) — in realtà
Cristo non è uguale a Dio, ma subordinato, un essere divino generato da Dio in
un dato momento prima della creazione. Secondo Novaziano, non possono
esistere due esseri diversi che siano da un lato «nati» o «innati» e dall’altro «non
soggetti a un inizio» e «invisibili». L’argomentazione ha una sua efficacia: «Se,
infatti, [Cristo] non fosse nato, ma fosse innato, posto a confronto con colui che
è innato, resasi palese l’uguaglianza tra l’uno e l’altro, avrebbe costituito due
innati e perciò avrebbe costituito due dèi» (Trinità 31). Altrettanto si potrebbe
dire se Cristo fosse «innato», «non soggetto a un inizio» o «invisibile» come il
Padre. In tutti questi casi, Cristo sarebbe necessariamente «uguale» a Dio, il che
significherebbe che esistono «due Dèi», non uno. E questo, per Novaziano, è
inaccettabile. Di conseguenza, conviene interpretare Cristo come divinità
subordinata e generata da Dio Padre prima della creazione:
[Cristo] perciò è Dio, ma venne generato per questo motivo particolare, affinché Egli fosse Dio. È
anche il Signore, ma procedette dal Padre per questo preciso scopo, affinché Egli potesse essere il
Signore. È anche un Angelo, ma il Padre lo aveva destinato a essere un Angelo […] Poiché il Padre
fece in modo che ogni cosa gli fosse soggetta, mentre Egli, con le cose a Lui soggette, è soggetto al
Padre Suo, Egli si rivela essere veramente Figlio di Suo Padre, ma Egli è al contempo Signore e Dio di
ogni altra cosa. (Trinità 31)

A spingere Novaziano su queste posizioni era la sua avversione per le eresie


secondo le quali, poiché esiste un solo Dio, allora Cristo non era Dio oppure era
Dio Padre. La soluzione naturale, dunque, era affermare che Cristo fosse sì Dio,
ma di Dèi non ce n’erano due, perché Cristo era nato da Dio (e pertanto non
eterno come lui) e a lui subordinato. Ai tempi di Novaziano questa dottrina
poteva valere come ortodossia, ma non ci volle molto perché venisse dichiarata
eretica. I teologi ortodossi del quarto secolo finirono per orientarsi su un
paradosso ancora più profondo: Cristo era pienamente — e non parzialmente —
Dio, esisteva da sempre ed era uguale a Dio Padre. E tuttavia i due, insieme allo
Spirito, formavano un unico Dio.

Dionisio di Roma
Un passo verso la dottrina che sarebbe stata decretata come ortodossa è
riscontrabile in una breve lettera scritta dal vescovo di Roma Dionisio attorno al
260 e.v. — una decina d’anni dopo Novaziano — a un vescovo di Alessandria
d’Egitto suo omonimo. Il secondo Dionisio si era opposto con vigore al
modalismo, che chiamava sabellianismo (da Sabellio, uno degli esponenti più
noti del tardo modalismo). Tuttavia, per confutare l’idea sabelliana secondo cui
esiste un solo Dio che si manifesta in tre modi diversi, Dionisio d’Alessandria si
era spinto troppo in là nella direzione opposta, quanto meno secondo Dionisio di
Roma: era ormai a un passo dall’affermare che Padre, Dio e Spirito erano
talmente distinti fra loro da poter essere visti come tre Dèi diversi. Ma qualsiasi
forma di politeismo — triteismo, in questo caso — era un’eresia da evitare,
perciò Dionisio di Roma scrisse una lettera al suo omonimo alessandrino per
aiutarlo ad affinare le sue posizioni affermando che Cristo è Dio ed è distinto da
Dio Padre, ma i due sono così uguali da formare un’unità assoluta.
Dionisio di Roma riassume così le dispute teologiche in atto ad Alessandria:
«Ho sentito dire che certi tra di voi […] si fanno promotori di […] un partito
diametralmente opposto a quello di Sabellio. Questi tiene quel blasfemo
proposito di dire che il Figlio è il Padre, e il Padre è il Figlio. Essi invece
predicano in qualche modo tre Dèi, dividendo la sacra Monade in tre sussistenze
estranee l’una all’altra e assolutamente separate». 4 Ecco la dottrina correttiva
proposta da Dionisio: «Ora, bisogna necessariamente che il Verbo divino sia
unito al Dio dell’universo e che lo Spirito Santo dimori e abiti in Dio. Così, in un
essere unico, come in un punto culminante, voglio dire nel Dio dell’Universo, la
triade divina deve ricapitolarsi e adunarsi».
Le tre persone che compongono la «triade divina» sono così in armonia da
poter essere viste come un’«unità», unità che a sua volta è il «Dio
dell’Universo». Il che, per Dionisio di Roma, significa che il Figlio di Dio non è
una creatura fatta o generata da Dio, ma che è eterna insieme a Dio Padre e che
in quanto suo Verbo, Sapienza e Potere ne condivide tutti gli attributi. Il
ragionamento non fa una piega: «Se dunque il Cristo è venuto all’essere, a un
dato momento questi attributi non esistevano. Di conseguenza, ci fu un tempo in
cui Dio esisteva senza di essi, il che è la più grande assurdità».
Rifiutandosi di dividere «in tre divinità la meravigliosa e divina Monade» ma
sottolineando al contempo che si tratta di tre entità unite in una, Dionisio ottiene
il risultato teologico desiderato: «In questo modo saranno preservate la Triade
divina e la santa predicazione della monarchia».
È evidente che siamo entrati in un territorio minato. Devono esistere tre esseri
divini, ma insieme devono contare uno, non tre. La soluzione del rompicapo
diventò l’ossessione teologica fondamentale del quarto secolo. Tutto era nato da
una controversia scoppiata ad Alessandria tra un presbitero e il suo vescovo.
Il primo professava una dottrina molto simile a quella elaborata in precedenza
da Novaziano e altri esponenti della tradizione ortodossa, ma destinata a
diventare una delle eresie più famose del cristianesimo. Si tratta dell’arianesimo,
da Ario, il presbitero da cui si dice avesse avuto origine.

Ario
Era nato attorno al 260 e.v., nel pieno del dialogo cristologico a distanza fra
Dionisio di Roma e Dionisio di Alessandria. Nato in Libia, Ario si era trasferito
ad Alessandria, della cui operosa comunità cristiana era entrato a far parte. Nel
312 fu ordinato presbitero e messo a capo della propria chiesa. In quella veste
rispondeva al vescovo di Alessandria, che per gran parte del suo ministero fu un
uomo di nome Alessandro.
La controversia sugli insegnamenti di Ario scoppiò nel 318 e.v. 5 : lo
sappiamo grazie a una lettera scritta nel 324 niente meno che dall’imperatore
romano Costantino, convertitosi al cristianesimo l’anno dell’ordinamento di
Ario. Negli anni a venire, Costantino si dedicò sempre più intensamente
all’unificazione della Chiesa cristiana, soprattutto perché la vedeva come
collante del suo impero frammentato. Nel 324 la Chiesa era tutt’altro che
unificata, e l’astio si concentrava proprio sui discussi insegnamenti di Ario.
Secondo la lettera di Costantino, il vescovo Alessandro aveva chiesto ai suoi
presbiteri un parere su un passo dell’Antico Testamento. L’imperatore non
specifica di quale passo si tratta, ma gli studiosi ritengono plausibile che sia
Proverbi 8, un testo che abbiamo già citato più volte in cui la Sapienza
(identificata con Cristo dai cristiani) viene descritta come essere parlante, a
riprova che era con Dio sin dal principio, al tempo della creazione.
L’interpretazione di Ario avrebbe potuto essere ritenuta accettabile nel clima
teologico ortodosso del centinaio d’anni precedente la sua epoca, ma all’inizio
del quarto secolo si rivelò altamente controversa. Come altri pensatori, anche lui
assimilava la Sapienza di Dio alla Parola e al Figlio di Dio, ovvero al Cristo
divino preesistente che era con Dio al principio della creazione. Secondo Ario,
tuttavia, Cristo non esisteva da sempre, ma da un remoto momento antecedente
alla creazione: in origine esisteva solo Dio. Dopo tutto il Figlio era stato
«generato» da Dio, e questo — per Ario e altri — implicava che fino ad allora
non esistesse. Un’ulteriore implicazione era che Dio non era sempre stato Padre,
ma lo era diventato generando il Figlio.
Secondo Ario, ogni cosa aveva un inizio eccetto Dio. Il che significa che
Cristo — la Parola (Logos) di Dio — non è pienamente Dio: Dio lo ha creato a
propria immagine, attribuendogli così il titolo di Dio, ma il «vero» Dio non è lui,
bensì il Padre. La natura divina di Cristo deriva dal Padre, e Cristo è apparso
prima che l’universo nascesse, perciò è una creazione o creatura di Dio. In
parole povere, Cristo è una sorta di Dio di seconda categoria, subordinato e
inferiore a lui da ogni punto di vista.
Come abbiamo visto, posizioni cristologiche del genere non erano semplici
esercizi accademici, ma erano profondamente connesse al culto cristiano. Per
Ario e i suoi seguaci era senz’altro giusto onorare Cristo, ma bisognava onorarlo
come divinità uguale al Padre? La loro risposta è perentoria: assolutamente no.
Colui che è infinitamente al di sopra di ogni cosa, Figlio compreso, è il Padre.
Per nulla soddisfatto di questo parere, il vescovo Alessandro lo giudicò eretico
e pericoloso, tanto che nel 318 o 319 depose Ario e lo scomunicò insieme a una
ventina di suoi seguaci. Il gruppo andò in esilio in Palestina, dove trovò
l’appoggio di parecchi teologi, tra cui uno che già conosciamo: Eusebio di
Cesarea.
Prima di illustrare la dottrina alternativa del vescovo Alessandro e gli eventi
che portarono al concilio di Nicea, traccerò un quadro degli insegnamenti di
Ario attraverso le sue parole. Vi sarete accorti che di rado abbiamo a
disposizione gli scritti degli eretici: il più delle volte dobbiamo affidarci agli
scritti dei loro avversari ortodossi, perché quelli degli eretici di norma venivano
distrutti. Nel caso di Ario, però, alcune sue parole ci sono fortunatamente
arrivate in forma di lettere e di un’opera poetica intitolata Talia. Di quest’ultima
purtroppo non ci è pervenuto un manoscritto, ma le citazioni — apparentemente
accurate — di un famoso padre della Chiesa, Atanasio di Alessandria. Eccone
alcune che presentano Cristo come subordinato a Dio Padre:
[Il Padre] solo non ha nessuno né uguale né simile né [degno] della stessa gloria.
[…]
[Il Figlio] non ha nessuna proprietà divina secondo la sua proprietà sostanziale, perché non è uguale né
consostanziale a lui. […]
C’è veramente una trinità, ma la gloria dei tre non è simile; […] sono senza contatto tra loro; [uno] è
infinitamente più [glorioso] dell’[altro] nella gloria.
[…] del resto il Figlio, che non esisteva, venne all’esistenza grazie al volere del Padre: costui è Dio
unigenito e separato da ambedue. 6

A differenza del Padre non generato, Cristo, il Figlio di Dio, è il «Dio


unigenito». È superiore a ogni cosa, ma il Padre è «infinitamente più glorioso»
di lui, che quindi non è «degno della stessa gloria».
In una lettera scritta al vescovo Alessandro per difendere le proprie idee, Ario
è ancora più esplicito in merito al rapporto fra Dio e Cristo: «Conosciamo un
unico Dio, solo ingenerato, solo eterno, solo senza principio, solo vero, solo
avente l’immortalità […] ha generato un figlio unigenito prima dei tempi infiniti,
per mezzo del quale ha fatto le generazioni e l’universo; l’ha fatto venire
all’esistenza […] creatura perfetta di Dio, ma non come una delle creature;
generato ma non come uno degli esseri generati». 7
Secondo Ario, dunque, esistono tre esseri divini separati. Per indicarli usa il
termine tecnico ipostasi, che però in questo contesto si riferisce semplicemente a
delle «entità essenziali» o «persone». Soltanto il Padre esiste da sempre, il Figlio
è nato da lui prima della creazione del mondo. Ma questo significa che Cristo
non è «eterno o coeterno […] con il Padre». Dio è al di sopra e al di là di ogni
cosa, Cristo compreso.

Alessandro di Alessandria
Soffermiamoci brevemente sulla visione alternativa perentoriamente affermata
dal vescovo Alessandro, a capo della chiesa alessandrina durante il movimentato
periodo compreso fra il 313 e il 328 e.v. Il suo atto più famoso è la scomunica di
Ario e dei suoi seguaci, non solo dalla chiesa di Alessandria ma da tutte le
comunità ortodosse del mondo cristiano.
Conosciamo le posizioni cristologiche di Alessandro grazie alla lettera che
scrisse al vescovo di Costantinopoli, suo omonimo, per lamentarsi —
ingiustamente — che Ario e i suoi «negano la divinità del nostro Salvatore e
vanno predicando che è uguale a tutti [gli uomini]» (Lettera di Alessandro, v.
4). 8 Un’accusa eccessiva e tutt’altro che fondata, perché Ario affermava
solennemente la divinità di Cristo e la sua superiorità agli uomini. Quando sei
nel mezzo di un’accesa disputa, però, può capitare di non rendere giustizia alla
parte avversa. Secondo Alessandro, se Cristo aveva cominciato a esistere in un
certo momento ed era inferiore a Dio Padre, allora, da questi punti di vista, era
uguale agli uomini e non a Dio.
Nel seguito della lettera Alessandro illustra la visione di Ario in modo più
preciso, attribuendogli la seguente dichiarazione: «C’era un tempo in cui [il
Figlio di Dio] non esisteva». Per controbattere, Alessandro ricorre a un brano del
Nuovo Testamento, Ebrei 1:2, secondo il quale mediante Cristo Dio «ha pure
creato i secoli». Ma se Cristo ha creato il tempo, allora non poteva esistere un
tempo precedente alla sua esistenza: «È da stolti ed è segno di somma ignoranza
affermare che la causa dell’origine di qualcosa è venuta dopo il suo inizio»
(Lettera di Alessandro, v. 23).
Alessandro sottolinea inoltre che Dio non può cambiare, perciò come poteva
«diventare» il Padre? Doveva esserlo da sempre, ma questo significa che da
sempre aveva un Figlio (Lettera di Alessandro, v. 26). Per giunta, se Cristo è
l’«immagine» di Dio come affermano le scritture (Colossesi 1:15), allora anche
lui deve esistere da sempre: come avrebbe potuto esistere Dio senza
un’immagine? Poiché Dio doveva necessariamente averla, e poiché esisteva da
sempre, allora l’immagine stessa — Cristo — doveva esistere da sempre (Lettera
di Alessandro, v. 27).
Riassumendo, Alessandro sostiene che Cristo è «immutabile e invariabile
come il Padre, Figlio perfetto in nulla inferiore rispetto al Padre, se non nel fatto
che il Padre è ingenerato. […] Crediamo inoltre che il Figlio sia sempre esistito
accanto al Padre» (Lettera di Alessandro, v. 47).

La controversia ariana e il concilio di Nicea


Prima di approfondire la controversia scoppiata fra i seguaci di Ario e quelli del
vescovo Alessandro, può essere utile un breve inquadramento storico.

Il ruolo di Costantino

Sin dalla sua nascita, il cristianesimo aveva subito le persecuzioni delle autorità
romane. Per oltre due secoli, si era trattato di persecuzioni relativamente
sporadiche non promosse dal governo di Roma. La situazione cambiò nel 249
e.v., quando l’imperatore Decio decise di sradicare il cristianesimo
dall’impero. 9 Per fortuna dei cristiani Decio morì due anni dopo, ma la
persecuzione si interruppe solo per un breve periodo.
Alcuni tra i successori di Decio erano altrettanto ostili ai cristiani, il cui
numero continuava a crescere e la cui presenza era vista come un cancro che
minacciava il benessere dell’impero, saldamente fondato da secoli sui principi
pagani. Avviata nel 303 da Diocleziano, la cosiddetta grande persecuzione
conobbe varie fasi, con decreti imperiali che fra l’altro obbligavano i cristiani a
rinnegare la propria fede per onorare gli dèi pagani.
Nel 306 diventò imperatore Costantino il Grande. Nato e cresciuto pagano, nel
312 si convertì al cristianesimo. L’«autenticità» della conversione è stata oggetto
di lunghi e accesi dibattiti, ma oggi quasi tutti gli studiosi ritengono che
Costantino fosse sincero quando abbracciò il Dio cristiano e si dedicò a
promuoverne il culto. L’anno seguente convinse il suo co-imperatore Licinio a
emanare un decreto per porre fine alle persecuzioni. Fu una svolta decisiva per il
cristianesimo.
Si dice a volte che Costantino trasformò il cristianesimo nella religione
«ufficiale» dell’impero. Non è affatto vero: ciò che fece fu renderlo una
religione privilegiata rispetto alle altre. Cristiano in prima persona, promuoveva
le cause cristiane e finanziava la costruzione delle chiese: nel complesso, essere
cristiani significava avere la vita molto più facile. Le stime più accurate ci
dicono che al momento della conversione di Costantino il 5 per cento circa dei
sessanta milioni di abitanti dell’impero si definiva cristiano. Quando però la
minoranza perseguitata si trasformò nella comunità più numerosa, le conversioni
aumentarono esponenzialmente. Alla fine del secolo, la percentuale di cristiani
era cresciuta a qualcosa come il 50 per cento. 10 Sotto l’imperatore Teodosio I,
inoltre, il cristianesimo diventò sul serio la religione romana «ufficiale» a tutti
gli effetti. Le pratiche pagane vennero messe fuorilegge, e le conversioni non si
fermavano. Tutto questo portò il cristianesimo a essere «la» religione
occidentale per secoli.
Ma torniamo a Costantino. Quando definisco autentica la sua conversione,
non intendo dire che vedeva la fede cristiana da un punto di vista puramente
«religioso», senza alcuna implicazione sociale o politica (va sottolineato che per
gli antichi religione e politica erano talmente intrecciate da essere indistinguibili;
in greco non esistono parole corrispondenti alla nostra «religione»). Più di ogni
altra cosa Costantino era l’imperatore di Roma, e all’epoca nessuno credeva in
quella che oggi chiamiamo separazione fra Stato e Chiesa. Sotto i precedenti
imperatori pagani, pratiche religiose e politiche governative erano pressoché
coincidenti: poiché si credeva che gli dèi pagani avessero reso grande Roma, le
autorità promuovevano il loro culto. Anche Costantino comprendeva il valore
politico della religione. Questo non significa che non «credesse» sul serio al
messaggio cristiano, ma che ne vedeva l’utilità sociale, culturale e politica. Ecco
perché rimase così turbato quando venne a sapere dell’enorme controversia che
spaccava la comunità cristiana. Il pomo della discordia era se Cristo fosse uguale
a Dio oppure a lui subordinato, un essere divino che aveva cominciato a esistere
in un dato momento.
Cosa spingeva Costantino a immischiarsi in questi dibattiti interni al
cristianesimo? Gli studiosi hanno avanzato diverse ipotesi. Che fosse intervenuto
in prima persona è indiscutibile. La Vita di Costantino scritta da Eusebio di
Cesarea riporta una lettera con cui l’imperatore invitava Ario e Alessandro a
incontrarsi per risolvere la diatriba che li contrapponeva. La lettera lascia
intendere che Costantino vedeva nel cristianesimo una forza unificante per un
impero socialmente e culturalmente disgregato. Anche osservandolo in modo
disinteressato, in effetti il cristianesimo sembrava una religione fondata
sull’unità e l’unicità. Esiste un solo Dio, non molti. Dio ha un solo Figlio. Esiste
un solo modo per ottenere la salvezza. Esiste una sola verità. Esiste «un solo
Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Efesini 4:5). La creazione è unita al
Dio creatore, Dio è unito a suo Figlio, il Figlio è unito al suo popolo, un popolo
unito a Dio grazie alla salvezza portata dal Figlio.
Ecco perché il cristianesimo poteva servire a ricucire un impero frammentato.
Scrive Costantino ai due destinatari della lettera: «La mia priorità era che la
posizione delle varie province in merito alla Divinità fosse composta in una
visione comune» (Vita di Costantino 2.65). 11 Il problema era che, per colpa
della controversia ariana, una visione comune non esisteva nemmeno all’interno
della Chiesa. A risentirne in maniera particolare, con grande sconforto di
Costantino, erano le comunità cristiane in Africa: «Una follia intollerabile si era
impadronita dell’Africa intera per via di coloro che con malaccorta leggerezza
avevano scisso il culto della popolazione in varie fazioni, e […] io desideravo
curare personalmente questa malattia» (Vita 2.66). Costantino, dunque, voleva
guarire la ferita teologica affinché la fede cristiana potesse garantire con maggior
efficacia l’unità religiosa e culturale dell’impero.
Una seconda ragione dell’attivismo di Costantino riguarda più da vicino la sua
formazione pagana. Da secoli era credenza diffusa che gli dèi si dedicassero a
Roma in ragione degli onori ricevuti nelle pratiche religiose di Stato. Onorare gli
dèi nel modo corretto permetteva dunque di conquistare il loro favore, che si
manifestava — per esempio — nelle vittorie in guerra e nella prosperità in
tempo di pace. Una prospettiva che Costantino aveva assimilato dal paganesimo
e che forse trasferì nella sua fede cristiana. Adesso non onorava più gli dèi
tradizionali di Roma, ma il Dio cristiano. Anche quel Dio, però, andava onorato
nel modo giusto: a Dio non può certo piacere se la comunità è divisa. Rispetto
alle antiche religioni greche e romane, il cristianesimo era nettamente più
incentrato sulla «verità teologica» e sui sacrifici. Conoscere e praticare la verità
era fondamentale, ma le ampie divergenze sulla verità erano destinate ad aprire
solchi profondi nella comunità cristiana, con grande disappunto di Dio. Per il
bene dello Stato, che in ultima analisi dipendeva da Dio, era necessario ricucire
quelle ferite.
Non essendo un esperto teologo, Costantino fu colto alla sprovvista dalla
virulenza del dibattito fra Ario e Alessandro. Per l’imperatore si trattava di
inezie: cosa importava se esistesse o no un tempo prima di Cristo? Era davvero
così fondamentale? Non per lui: «Considero l’origine e l’occasione di queste
cose […] del tutto insignificante e immeritevole di una simile controversia»
(Vita 2.68). Ma la contesa infuriava, perciò Costantino incoraggiò Ario e
Alessandro ad appianare le loro divergenze in modo che il cristianesimo potesse
riunificarsi, aiutandolo ad affrontare i ben più gravi problemi che affliggevano
l’impero.
Costantino fece recapitare la lettera da Osio di Cordova, un influente vescovo
spagnolo. Dopo averla consegnata, Osio tornò da Alessandria via terra e fece
tappa ad Antiochia, in Siria, dove era in corso un sinodo di vescovi indetto per
discutere le questioni teologiche sollevate da Ario. Il sinodo elaborò una
professione di fede che contraddiceva le idee di Ario. La firmarono tutti i
partecipanti al sinodo, fatta eccezione per Eusebio di Cesarea e altri due. A
questi ultimi venne però concessa la possibilità di difendere se stessi e le proprie
posizioni cristologiche in un’altra occasione. Ecco spiegata l’origine del concilio
di Nicea.

Il concilio di Nicea

Inizialmente il concilio avrebbe dovuto riunirsi ad Ancira (in Turchia), ma per


ragioni logistiche venne trasferito a Nicea (sempre in Turchia). 12 Era il primo
dei sette grandi concili episcopali che gli storici chiamano concili ecumenici,
ovvero «di tutto il mondo». Un termine adatto fino a un certo punto in questo
caso, visto che a partecipare al congresso non fu ovviamente tutto il mondo ma
solo un gruppo di vescovi, che per giunta non rappresentavano il mondo intero,
nemmeno quello cristiano. Dalle aree occidentali dell’impero non arrivò
praticamente nessuno, quasi tutti provenivano da regioni orientali come Egitto,
Palestina, Siria, Asia Minore e Mesopotamia. Persino il vescovo di Roma,
Silvestro, inviò due legati. Non c’è consenso fra gli storici riguardo al numero di
vescovi che parteciparono. Atanasio — all’epoca ancora giovane ma destinato a
diventare il potente vescovo di Alessandria — li avrebbe quantificati in 318. Il
concilio si riunì nel giugno del 325 e.v.
La questione fondamentale che il concilio doveva affrontare era la dottrina di
Ario e dei suoi seguaci, fra i quali Eusebio di Cesarea. Fu proprio Eusebio ad
aprire i lavori illustrando la sua professione di fede, ovvero ciò che riteneva vero
riguardo a Dio, Cristo, lo Spirito e così via. La maggior parte dei vescovi
convenuti considerava accettabile il credo di Eusebio, ma l’ambiguità di certi
punti li lasciava perplessi, perché non confutavano esplicitamente le
affermazioni eretiche di Ario. Una volta esposte le proprie posizioni, i vescovi
riuscirono a comporle in un credo formato da una serie di asserzioni concise. Per
cominciare, una brevissima affermazione su Dio (breve perché nessuno metteva
in discussione la natura di Dio), seguita da proclami ben più estesi su Cristo (il
pomo della discordia) e da una dichiarazione incredibilmente sintetica sullo
Spirito (non ancora oggetto di controversia). Il credo si concludeva con una serie
di anatemi, ovvero maledizioni dirette a chi promuoveva certe tesi eretiche, tutte
riconducibili ad Ario e ai suoi seguaci. Era il fondamento di quello che oggi
chiamiamo Credo niceno-costantinopolitano. Ecco il testo completo (chi conosce
la formulazione odierna del credo noterà alcune differenze fondamentali,
soprattutto negli anatemi; la versione moderna è frutto di una revisione
successiva):
Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili.
E in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del
Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del
Padre, mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono
sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo,
ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti.
Crediamo nello Spirito Santo.
Ma quelli che dicono: vi fu un tempo in cui egli non esisteva e: prima che nascesse non era, e che non
nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio
di Dio possa cambiare o mutare, questi la Chiesa cattolica e apostolica li condanna. 13

Interi libri sono stati dedicati al concilio e al suo credo, 14 ma ai nostri scopi ci
concentreremo solo su un paio di punti. Per cominciare, come già detto, il credo
dedica molto più spazio a Cristo che al Padre, mentre lo Spirito è nominato
appena di sfuggita. Era fondamentale che non ci fossero «errori» riguardo a
Cristo: a questo scopo, e per evitare ogni ambiguità, vennero aggiunti gli
anatemi.
Nel credo in quanto tale si dice che Cristo proviene «dalla sostanza del Padre»
ed è «della stessa sostanza del Padre». Non si tratta quindi di un Dio
subordinato. Il termine greco tradotto come «stessa sostanza» è homooúsios, una
parola che avrebbe assunto rilevanza nelle successive dispute sulla natura di
Cristo. Sta di fatto che il concilio non segnò la fine delle ostilità: l’arianesimo
continuò a fiorire, e anche dopo la soluzione della controversia ariana emersero
tutta una serie di questioni teologiche sempre più dettagliate e complesse. Se
Costantino non amava la controversia in atto ai suoi tempi, avrebbe detestato
quelle che vennero dopo.
Ma l’insistenza del credo sulla «stessa sostanza» è importante, perché
significa che Dio e Cristo sono assolutamente uguali. Cristo è il «vero Dio», non
una divinità secondaria e inferiore al Dio Padre. Inoltre, come chiariscono gli
anatemi, era ormai eresia affermare che c’era stato un tempo in cui Cristo non
esisteva, che era stato creato «dal nulla» come ogni altra cosa nell’universo e che
non era della stessa sostanza di Dio.

L’esito del concilio

Per semplificare una vicenda molto complessa, possiamo dire che i vescovi
raggiunsero un accordo sui dettagli del nuovo credo, che andava considerato
vincolante per tutti i cristiani. È questo il senso delle parole «Chiesa cattolica e
apostolica»: la visione illustrata nel credo discende direttamente dagli apostoli di
Gesù ed è disseminata nel mondo intero («cattolica», in questo contesto,
significa «universale»). Qualcuno dice che il concilio di Nicea si concluse con
una vittoria «per pochi voti». Non è vero: solo venti dei 318 vescovi rifiutarono
la formulazione definitiva del credo. Attivamente coinvolto nei lavori,
Costantino costrinse diciassette di loro a cedere, con il risultato che furono solo
in tre a non sottoscrivere il credo: Ario e due vescovi arrivati dalla Libia, la sua
terra natale. I tre vennero banditi dall’Egitto. Altri due sottoscrissero il credo ma
non gli anatemi finali, che prendevano specificamente di mira la dottrina di Ario.
Anche loro furono esiliati.
Sembrerebbe dunque la fine della storia di come Gesù diventò Dio, ma come
vedremo nell’epilogo la storia è tutt’altro che finita. Alessandro e i vescovi suoi
seguaci avevano vinto, mentre Costantino era convinto di aver unificato la
Chiesa. Le questioni, per il momento, erano risolte. Cristo era coeterno con Dio
Padre, esisteva da sempre ed era «della stessa sostanza» di Dio Padre, a sua volta
vero Dio.
Il Cristo di Nicea è evidentemente lontano mille miglia da Gesù di Nazareth, il
predicatore apocalittico itinerante arrivato dalla Galilea che si era inimicato le
autorità romane ed era stato crocifisso seduta stante per crimini contro lo Stato.
Chiunque fosse stato veramente nella sua vita, ora Gesù era diventato Dio a tutti
gli effetti.

1. Giustino (2004), Le due apologie, a cura di Guido Gandolfo, Edizioni Paoline, Milano. p. 84.←
2. Giustino (1988), Dialogo con Trifone, a cura di Giuseppe Visonà, Edizioni Paoline, Milano, p.
215.←
3. Novaziano (1975), La Trinità, a cura di Vincenzo Loi, Società Editrice Internazionale, Torino,
p. 183.←
4. Citato in Giovanni Falbo (1989), Il primato della chiesa di Roma alla luce dei primi quattro
secoli, Coletti, Roma, p. 320.←
5. Si veda la discussione in Franz Dünzl (2007), Breve storia del dogma trinitario nella chiesa
antica, Queriniana, Brescia (ed. orig. Kleine Geschichte des trinitarischen Dogmas in der Alten
Kirche, 2006).←
6. In Alessandro e Ario (1974), Un esempio di conflitto tra fede e ideologia: documenti della
prima controversia ariana, a cura di Enzo Bellini, Jaca Book, Milano, pp. 37-38.←
7. Ivi, p. 50.←
8. Ivi, p. 70.←
9. Alcuni studiosi hanno messo in dubbio che lo scopo dell’editto di Decio fosse la persecuzione
dei cristiani. L’editto ordinava a tutti i cittadini romani di eseguire sacrifici agli dèi dello Stato,
ricevendo in cambio una sorta di certificato. Naturalmente i cristiani non ubbidirono — la loro
religione glielo vietava —, e per questo vennero puniti. La questione è se l’obiettivo dell’editto
fosse sradicare il cristianesimo oppure affermare l’importanza dei riti pagani: in ogni caso, i
cristiani che si rifiutarono di fare i sacrifici ne subirono le conseguenze.←
10. Sul tasso di crescita del primo cristianesimo si veda Ramsay Mac Mullen (1989), La diffusione
del cristianesimo nell’impero romano, 100-400, Laterza, Bari (ed. orig. Christianizing the
Roman Empire (A.D. 100-400), 1984).←
11. Eusebio di Cesarea (2009), Vita di Costantino, a cura di Laura Franco, BUR, Milano.←
12. Per una discussione breve ma accurata si vedano Dünzl 2007 e Joseph F. Kelly (2009), The
Ecumenical Councils of the Catholic Church: A History, Liturgical Press, Collegeville, MN, pp.
11-25. Per un’analisi accademica delle questioni teologiche si veda Lewis Ayres (2004), Nicaea
and Its Legacy: An Approach to Fourth-Century Trinitarian Theology, Oxford University Press,
Oxford, pp. 1-61.←
13. Citato in Umberto Eco e Riccardo Fedriga (2014), La filosofia e le sue storie: l’antichità e il
medioevo, Gius. Laterza & figli, Roma-Bari.←
14. Si vedano i testi segnalati alla nota 161.←
Epilogo. Gesù come Dio: e poi?
Scrivendo questo libro, mi sono reso conto che il mio percorso teologico
ripercorre all’inverso la storia dell’antica teologia cristiana. Per usare la vecchia
terminologia, col passare del tempo le prime cristologie si fecero sempre più
«alte», via via che Gesù veniva identificato come divinità. Da potenziale messia
(umano) Gesù divenne il Figlio di Dio esaltato a livello divino con la
resurrezione; quindi un essere angelico preesistente fattosi uomo per scendere in
terra; quindi l’incarnazione del Verbo di Dio che esisteva da sempre e mediante
il quale il mondo era stato creato; quindi Dio stesso, uguale a Dio Padre e da
sempre esistente con lui. Le mie credenze su Gesù si muovevano nella direzione
opposta. All’inizio pensavo che fosse il Figlio di Dio, uguale al Padre e membro
della Trinità. Col tempo cominciai a vederlo in termini sempre più «bassi»,
finché non mi convinsi che fosse un essere umano come tutti gli altri. I cristiani
lo esaltavano al regno divino, ma a mio parere Gesù era, ed era sempre stato, un
uomo.
Da agnostico, oggi considero Gesù una figura religiosa geniale e dotata di
intuizioni straordinarie, ma anche un uomo del suo tempo, ovvero un’epoca
ribollente di fervore apocalittico. Gesù era nato e cresciuto nell’ambiente
ebraico-palestinese del primo secolo, e in quel contesto aveva condotto il suo
ministero pubblico. Andava predicando che l’età in cui viveva era controllata
dalle forze del male, ma presto Dio avrebbe annientato tutti coloro che gli si
opponevano per istituire un regno utopico del bene, senza più dolore né
sofferenza. Il sovrano del regno sarebbe stato lo stesso Gesù, assistito dai dodici
apostoli. Tutto questo sarebbe avvenuto molto presto, entro la fine della sua
generazione.
Il messaggio apocalittico di Gesù continua a esercitare un forte impatto su di
me, ma è inutile dire che non credo letteralmente a quanto afferma. Non credo
che esistano forze del male soprannaturali che controllano i governi né demoni
che ci rovinano la vita. Non credo all’imminenza di un intervento divino che
disintegrerà per sempre le forze del male. Non credo al futuro regno utopico
sulla terra guidato da Gesù e dai suoi apostoli. Credo però che esistano il bene e
il male e che tutti noi dobbiamo schierarci dalla parte del bene per combattere il
male con tutte le nostre forze.
In particolare, mi riconosco nella lezione etica di Gesù, secondo il quale la
legge di Dio poteva essere riassunta nell’esortazione ad amare «il tuo prossimo
come te stesso», a «fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». I gesti
d’amore, generosità, misericordia e gentilezza devono essere diretti anche ai
nostri «minimi fratelli», ovvero agli umili, agli emarginati, ai poveri, ai
senzatetto, ai bisognosi. Tutti principi che sottoscrivo senza riserve e metto in
pratica al meglio delle mie possibilità.
In quanto storico, però, mi rendo conto che Gesù inquadrava i suoi
insegnamenti in una cornice marcatamente apocalittica che non condivido. C’è
chi lo esalta come uno dei massimi modelli etici della storia: sono d’accordo, ma
non bisogna dimenticare che la sua dottrina morale poggiava su fondamenti
diversi rispetto a quelli di oggi. Oggi siamo convinti di dover vivere in maniera
etica per un’ampia gamma di ragioni che per Gesù sarebbero state irrilevanti: per
esempio, per realizzarci nella vita e per il benessere a lungo termine della
società. Gesù non avrebbe sottoscritto, perché per lui il lungo termine non
esisteva: la fine era vicina e la gente doveva prepararsi. Chi seguiva i suoi
precetti — amare Dio senza riserve e amare il prossimo come se stessi —
sarebbe entrato nel regno di Dio. Chi si rifiutava di farlo era destinato a essere
distrutto con il giudizio del Figlio dell’Uomo sceso dal cielo. Quella di Gesù era
un’«etica del regno», in due sensi: la vita condotta dai seguaci che osservavano
quei principi etici era simile a quella che avrebbero sperimentato nel regno
(niente guerre, odio, violenza, oppressione o ingiustizia), e per accedere al regno
era indispensabile vivere in quel modo.
La mia visione del mondo non è questa. Non credo che in cielo ci sia un Dio
che presto invierà sulla terra un giudice cosmico incaricato di sconfiggere le
forze del male. Eppure, trovo che i principi etici annunciati da Gesù in quel
quadro apocalittico siano applicabili anche a me, che vivo in un contesto
completamente diverso. Per comprendere Gesù ho dovuto ricontestualizzarlo,
ovvero adeguarne il messaggio a una nuova epoca: quella in cui vivo.
A dirla tutta, sono convinto che Gesù sia sempre stato ricontestualizzato da
persone che vivevano in epoche e luoghi diversi. I suoi primi seguaci, dopo
essersi convinti che Dio lo aveva resuscitato dai morti ed esaltato in cielo, lo
trasformarono in qualcosa che non era mai stato e interpretarono la sua figura
alla luce della nuova situazione. Altrettanto fecero in seguito gli autori del
Nuovo Testamento, che ricontestualizzarono Gesù e lo interpretarono alla luce
della loro situazione, ancora più diversa. E i cristiani del secondo e terzo secolo,
per i quali Gesù era un essere divino incarnato più che un profeta apocalittico. E
i cristiani del quarto secolo, che sostenevano che Gesù esistesse da sempre e
fosse uguale a Dio Padre quanto a status, autorità e potere. E i cristiani di oggi,
convinti che il Cristo divino in cui credono sia assolutamente identico all’uomo
che batteva le polverose strade della Galilea annunciando la distruzione
imminente. Per quanto non se ne rendano conto, anche loro hanno
ricontestualizzato Gesù, così come chiunque abbia mai creduto in lui o condiviso
i suoi insegnamenti, dai primi seguaci convinti che fosse risorto sino a oggi. E
così sarà per sempre.
Questo vale senza alcun dubbio per gli anni che abbiamo preso in esame
finora, e anche per i successivi. Per rendercene conto, consideriamo quanto
accadde sulla scia del concilio di Nicea, che aveva stabilito che Cristo era Dio in
un senso particolare: un essere divino esistente da sempre con Dio, colui
mediante il quale Dio aveva creato ogni cosa.

Sviluppi del quarto secolo


L’immaginario popolare vuole che dopo il concilio di Nicea autorità cristiane e
pensatori avessero raggiunto un accordo sostanziale sulla natura di Cristo e il
carattere della Trinità. Nulla di più falso. Nicea e il suo credo non furono la fine
della storia, ma l’inizio di un nuovo capitolo. Per cominciare, la sconfitta della
posizione ariana non ne determinò affatto la scomparsa. Costantino si schierò
con la dottrina vincente, non tanto perché lo convincesse di più, quanto
probabilmente perché era diventata l’opinione più diffusa, e a lui interessava
soprattutto contribuire all’unificazione della Chiesa. Ma la Chiesa non era unita
e non lo sarebbe mai stata. Per vari decenni, numerosi successori di Costantino si
orientarono verso la cristologia ariana e agirono di conseguenza. Ci furono
epoche — forse addirittura la maggior parte — in cui gli ariani superavano gli
anti-ariani. Ecco perché nel 379 e.v. Girolamo, il padre della Chiesa, lanciò il
suo famoso grido di dolore: «Il mondo […], sospirando e piangendo, stupisce
d’essere tutto divenuto ariano» (Dialogo contro i Luciferiani 19). 1
La controversia ariana venne risolta solo durante il successivo grande concilio
ecumenico, convocato a Costantinopoli nel 381, appena due anni dopo il
lamento di Girolamo. Il concilio riaffermò le decisioni di Nicea, relegando
l’arianesimo al rango di minoranza emarginata e ampiamente considerata eretica.
Per chi non è addentro a queste controversie teologiche, le differenze tra la
visione di Ario e quella dei suoi avversari — per esempio il vescovo Alessandro
e il giovane ma promettente Atanasio, a sua volta futuro vescovo di Alessandria
— sono meno evidenti rispetto ai punti in comune. Persino gli «eretici» ariani
concordavano con Atanasio e altri nel ritenere che Cristo fosse Dio, poiché era
l’essere divino che esisteva con Dio prima dell’inizio di ogni altra cosa e per suo
tramite Dio aveva creato l’universo: una cristologia ancora molto «alta».
All’epoca dei dibattiti fra Ario e i suoi avversari, e negli anni successivi fra gli
ariani e i seguaci di Atanasio, pochissimi cristiani dubitavano che Gesù fosse
Dio. Di nuovo la questione era «in che senso» lo fosse.
L’aspetto forse più importante è che nel quarto secolo, quando le dispute
avevano raggiunto il culmine, l’imperatore Costantino si era convertito al
cristianesimo. Questo cambiò tutto, perché avere sul trono un imperatore
cristiano — convinto assertore dell’idea che Cristo fosse Dio — ebbe
implicazioni decisive per i rapporti fra gli ortodossi e gli altri. Nel resto
dell’epilogo prenderò in esame tre dispute: quelle fra cristiani e pagani, quelle
fra cristiani ed ebrei e quelle interne alla comunità cristiana.

Il Dio Cristo e il mondo pagano


Sin dai tempi di Cesare Augusto, trecento anni prima, gli abitanti dell’impero
romano onoravano l’imperatore come un dio. Inoltre, da quando i primi seguaci
di Gesù si erano convinti che fosse resuscitato dai morti, i cristiani onoravano
Cristo come Dio. Come abbiamo visto, queste due figure — imperatore e Gesù
— erano le uniche a essere chiamate «Figlio di Dio» nell’antichità: quanto meno
per la mentalità cristiana, questo significava che erano in competizione fra loro.
All’inizio del quarto secolo uno dei due finì per cedere all’altro e perse la
battaglia. Con l’avvento di Costantino, da divinità rivale di Gesù l’imperatore si
trasformò in suo servitore.
Fra le opere più interessanti dello storico ecclesiastico Eusebio c’è la già citata
Vita di Costantino, un testo a dir poco agiografico. I brani più preziosi sono
probabilmente quelli in cui Eusebio cita le parole dell’imperatore. In una lettera
inviata ai cristiani di Palestina, è evidente che Costantino non si vede come
rivale di Dio Padre, ma ne ammira il potere e riconosce il proprio dovere di farsi
suo servo in terra. A un certo punto dichiara che «quella divinità [è] davvero
l’unica e [detiene] il potere che dura in eterno», aggiungendo che «Egli stesso ha
ricercato i miei servigi e li ha giudicati conformi alla sua volontà» (Vita 2.28).
Altrove, nella lettera, dice: «Sono convinto nel modo più fermo e assoluto di
essere debitore al Dio supremo di tutta la mia anima, di ogni mio respiro e di
ogni pensiero che mi sorge nel profondo della mente» (Vita 2.24). Con ogni
evidenza, qui non c’è alcuna traccia di rivalità.
Di conseguenza, scrive Eusebio, Costantino «proibì per legge che i suoi ritratti
fossero dedicati nei templi pagani». Inoltre, «fece apporre il proprio ritratto sulle
monete d’oro in modo che sembrasse guardare verso l’alto, come chi prega Dio»
(Vita 4.15, 16). In altre parole, Costantino ribaltò le procedure che i suoi
predecessori mettevano in atto da tre secoli: invece di farsi raffigurare e onorare
come Dio, pretendeva di essere ritratto mentre onorava il vero Dio.
Non solo: l’imperatore ordinò all’esercito romano — compresi i soldati che
erano rimasti pagani — di onorare non lui, ma il Dio cristiano. Secondo Eusebio,
i soldati non cristiani dovevano riunirsi ogni domenica per recitare la seguente
preghiera al Dio cristiano:
Te soltanto riconosciamo come Dio,
Te dichiariamo Sovrano,
Te invochiamo in soccorso,
Per opera tua riportammo le vittorie,
Attraverso di te risultammo vincitori sui nemici […]
Siamo tutti tuoi supplici e ti scongiuriamo di conservare a lungo in vita sano e salvo il nostro
imperatore Costantino con i suoi pii figli. (Vita 4.20)

Una volta che l’imperatore si convertì, non è eccessivo affermare che il rapporto
fra il cristianesimo da una parte e i pagani e il governo romano dall’altra cambiò
completamente. Da minoranza perseguitata che si rifiutava di onorare
l’imperatore divino i cristiani stavano diventando maggioranza persecutrice, con
l’imperatore nel ruolo di servo del vero Dio che incoraggiava più o meno
direttamente i cittadini a convertirsi. Alla fine del quarto secolo, quasi la metà
dell’intera popolazione dell’impero aveva abbracciato il cristianesimo ortodosso,
l’imperatore aveva cominciato a promulgare leggi che promuovevano la dottrina
cristiana e vietavano i sacrifici e il culto pagano, e il cristianesimo aveva
prevalso una volta per tutte sulle religioni pagane che veneravano l’imperatore
come essere divino.

Il Dio Cristo e il mondo ebraico


L’idea cristiana che Gesù fosse Dio aveva serie ripercussioni sugli antichi
rapporti fra giudei e cristiani, perché era opinione diffusa che gli ebrei fossero
responsabili della morte di Dio. Se gli ebrei avevano ucciso Gesù e Gesù era
Dio, non ne conseguiva che gli ebrei avevano ucciso il loro Dio? 2
In effetti, era un’idea che circolava negli ambienti ortodossi da ben prima
della conversione di Costantino. La sua manifestazione retorica più violenta è
un’omelia scritta verso la fine del secondo secolo e.v. da Melitone, vescovo della
città di Sardi, nell’Asia Minore. È la prima testimonianza giunta fino a noi di un
cristiano che accusa gli ebrei di deicidio. Melitone formula la sua accusa con un
linguaggio di grande potenza ed efficacia. Riporto solo un breve passaggio della
sua lunga invettiva contro la Pasqua ebraica, quando i giudei ringraziavano Dio
per aver liberato i figli di Israele dalla schiavitù in Egitto al tempo di Mosè.
L’agnello sgozzato per l’occasione, secondo Melitone, rappresentava Cristo
ucciso dai giudei. Più che motivo di celebrazione gioiosa, la morte del vero
agnello diventava il presupposto di un’accusa infamante. Gli ebrei avevano
ucciso colui che era venuto a salvarli, il loro messia, e poiché il messia era
divino gli ebrei avevano ucciso il loro Dio:
Egli dunque è messo a morte.
E dove è messo a morte?
Nel bel mezzo di Gerusalemme.
E per quale motivo?
Perché egli aveva guarito i loro zoppi,
aveva guarito i loro lebbrosi,
aveva ridato la vista ai loro ciechi
e aveva risuscitato i loro morti.
Ecco perché egli ha patito. […]
Come hai potuto commettere, o Israele, un delitto così inaudito?
Hai disonorato chi ti aveva onorato;
hai disprezzato chi ti aveva glorificato;
hai rinnegato chi ti aveva riconosciuto; […]
hai ucciso chi ti aveva vivificato.
Che cosa hai fatto, o Israele? […]
Certo che doveva patire,
ma non da te;
doveva essere disonorato,
ma non da te;
doveva essere crocifisso,
ma non per mano tua.

La vis retorica raggiunge il culmine quando Melitone scaglia la sua accusa


contro i nemici ebrei:
Ascoltate, o voi tutte stirpi delle genti, e vedete!
Un delitto incredibile è stato perpetrato dentro Gerusalemme,
nella città della Legge,
nella città degli Ebrei,
nella città dei profeti,
nella città che si riteneva giusta.
E chi è l’ucciso? Chi l’uccisore?
Ho orrore a dirlo, eppure sono costretto a parlare. […]
Colui che appese la terra è appeso,
colui che stabilì i cieli è inchiodato,
colui che consolidò l’universo è fissato al legno.
Il Sovrano è oltraggiato,
Dio è assassinato,
il Re d’Israele è rigettato
dalla mano d’Israele!

Un conto, naturalmente, è che a sferrare un attacco così virulento sia un membro


di una minoranza perseguitata relativamente piccola e politicamente innocua. Ma
cosa succede quando la minoranza diventa maggioranza? Cosa succede quando
arriva a conquistare il potere politico supremo? Cosa succede quando
l’imperatore in persona si converte al cristianesimo? La risposta è semplice:
succede qualcosa di spiacevole per gli avversari e presunti assassini del Dio
cristiano.
In Faith and Fratricide, un libro che è meritatamente diventato un classico
degli studi sull’ascesa dell’antigiudaismo nella Chiesa antica, la teologa
Rosemary Ruether illustra le ripercussioni sociali del potere cristiano nel quarto
secolo sugli ebrei residenti nell’impero. 3 In sostanza, sotto gli imperatori
cristiani gli ebrei vennero emarginati per legge e trattati come cittadini inferiori,
con diritti legali e possibilità economiche limitate. Credenze e pratiche giudaiche
non furono proibite come i sacrifici pagani alla fine del quarto secolo, ma i
teologi e i vescovi cristiani — sempre più potenti in quanto autorità non solo
religiose, ma anche civili — inveivano contro i giudei e li accusavano di essere
nemici di Dio, mentre lo Stato emanava leggi per ostacolarne le attività.
Costantino, per esempio, promulgò una legge che vietava agli ebrei il
possesso di schiavi cristiani. Una misura che ai nostri occhi — abituati come
siamo a considerare riprovevole ogni forma di schiavitù — può apparire dettata
dall’umanità, ma Costantino non era affatto contrario alla schiavitù e non la
bandì. L’economia del mondo romano, anzi, continuava a fondarsi sugli schiavi,
senza i quali era impossibile condurre una qualsiasi attività manifatturiera o
agricola. Se dunque la popolazione era sempre più cristiana e i giudei potevano
avere solo schiavi ebrei o pagani, le loro possibilità di competere
economicamente con i cristiani si riducevano in modo sostanziale.
Col tempo, ai cristiani venne proibito di convertirsi al giudaismo. Sotto
l’imperatore Teodosio I, verso la fine del quarto secolo, il matrimonio fra
cristiani ed ebrei venne reso illegale ed equiparato all’adulterio. Gli ebrei furono
esclusi dalle cariche pubbliche, e nel 423 venne approvata una legge che vietava
la costruzione e persino il restauro delle sinagoghe. Parallelamente ai
provvedimenti legislativi si registravano violente aggressioni ai danni dei giudei
che, se anche non promosse dall’imperatore o da altre autorità statali, erano
tacitamente tollerate. Le sinagoghe venivano incendiate, le terre confiscate, gli
ebrei perseguitati e persino assassinati, ma le autorità chiudevano un occhio. E
perché non avrebbero dovuto? Quello era il popolo che aveva ucciso Dio.
Vediamo un episodio emblematico. Nel 388 e.v. il vescovo di Callinico incitò
i suoi parrocchiani a prendere d’assalto la sinagoga della città. I cristiani non se
lo fecero ripetere e la rasero al suolo. Di fronte alle proteste della popolazione
ebraica locale, l’imperatore Teodosio ordinò al vescovo di far ricostruire la
sinagoga a spese della sua chiesa. A quel punto, però, intervenne uno dei vescovi
più influenti dell’epoca: Ambrogio di Milano. Non appena gli giunse voce di
quanto aveva deciso l’imperatore, Ambrogio gli scrisse una lettera furibonda,
accusandolo di tradire i propri doveri religiosi e affermando solennemente che il
vescovo non doveva in alcun modo essere costretto a ricostruire la sinagoga.
Meno di un secolo prima le autorità cristiane venivano perseguitate da quelle
statali; ora un vescovo rimproverava l’imperatore e si aspettava che questi gli
ubbidisse. Come cambiano le cose!
Teodosio decise di ignorare la protesta di Ambrogio, ma durante un soggiorno
a Milano partecipò a una funzione nella cattedrale della città. Secondo la sua
stessa ricostruzione, Ambrogio pronunciò un sermone contro l’«indisciplina»
dell’imperatore e, nel bel mezzo della funzione, scese dall’altare per affrontarlo
viso a viso e ammonirlo pubblicamente a tornare sui suoi passi. Sentendo di non
avere scelta, l’imperatore cedette al volere del vescovo: i vandali cristiani di
Callinico rimasero impuniti, e della sinagoga non rimasero che le rovine (si
vedano le lettere 40 e 41 di Ambrogio). 4
Insomma, non solo Cristo era Dio, ma i suoi servi vescovi avevano
conquistato il potere politico e lo usavano in modi spregevoli contro i loro
vecchi nemici ebrei, presunti assassini di Dio.

Il Dio Cristo e il mondo cristiano


Ora che l’imperatore si era convertito all’idea che Cristo fosse Dio e alla
supremazia del Dio cristiano, le discussioni interne al cristianesimo cambiarono
tenore. Le diatribe precedenti vertevano su temi considerati fondamentali. Cristo
era Dio? Sì. Era uomo? Sì. Ciononostante, era una sola persona? Sì. All’inizio
del quarto secolo, quando Costantino si era convertito, la stragrande
maggioranza dei cristiani sottoscriveva queste affermazioni. Pensate forse che
questo avesse messo fine alle dispute teologiche e alla caccia agli eretici? La
verità storica è che le dispute erano appena cominciate.
Come già detto, la controversia ariana non scomparve con il concilio di Nicea,
ma proseguì per oltre mezzo secolo. Sorsero inoltre nuovi dibattiti, incentrati su
questioni che appena cent’anni prima sarebbero state inconcepibili. Le posizioni
teologiche emerse sulla scia della vittoria delle cristologie ortodosse — Gesù
come essere divino e umano — si facevano sempre più complesse e sfaccettate.
Teorie un tempo giudicate accettabili negli ambienti ortodossi venivano ora
contestate nei minimi dettagli. Si tratta di questioni che agli osservatori esterni
possono sembrare di lana caprina, ma per le persone interessate erano
fondamentali e avevano conseguenze drastiche. Risultato: benché le questioni
maggiori fossero state risolte, il tasso di vetriolo non diminuì. Le armi retoriche
erano ancora più affilate, se mai, perché anche gli errori sulle minuzie
acquistavano un’importanza enorme, tanto da diventare motivo di scomunica ed
esilio.
Non tenterò una rassegna nemmeno sommaria delle svariate controversie
teologiche scoppiate a partire dal quarto secolo, ma mi limiterò a un brevissimo
excursus illustrando tre posizioni tra quelle che furono espresse, dibattute e
infine dichiarate eretiche. 5 Potremo così farci quanto meno un’idea del livello
raggiunto dalle diatribe interne al cristianesimo.

Marcello di Ancira

Tra i maggiori fautori delle posizioni anti-ariane di Atanasio adottate dal


concilio di Nicea c’era Marcello, vescovo di Ancira, morto nel 374 e.v. Pur
considerandosi un ultra-ortodosso, Marcello si era reso conto che le discussioni
che avevano portato al credo di Nicea lasciavano ampio spazio per ulteriori
sviluppi, in particolare sulla questione del rapporto fra Cristo — coeterno e
uguale a Dio — e il Padre. Erano due esseri separati ma uguali oppure due
ipostasi, un termine che nel frattempo aveva assunto il significato di «persona» o
«entità individuale»? Marcello sapeva perfettamente che la visione modalista
non era più accettabile, ma esisteva un sistema per preservare l’unicità della
divinità senza cadere nella trappola di Sabellio e altri pensatori affini, evitando
cioè che i cristiani potessero essere accusati di onorare più di un Dio?
La soluzione di Marcello consisteva nell’affermare che esisteva una sola
ipostasi, che era Padre, Figlio e Spirito Santo. A suo giudizio, Cristo e lo Spirito
erano coeterni con Dio, ma solo nel senso che erano con lui da sempre e si erano
staccati dal Padre per portare la salvezza. Prima di staccarsi da Dio, quando era
con lui, Cristo non era ancora il Figlio: lo era diventato incarnandosi. Fino a quel
momento, era stato la Parola di Dio, dentro il Padre. Inoltre, sulla base della sua
interpretazione di 1 Corinzi 15:24-28 — «poi verrà la fine, quando [Cristo]
consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre» — Marcello sosteneva che il regno
di Cristo non fosse eterno. Il sovrano assoluto è Dio Padre, al quale Cristo
consegnerà il suo regno per poi tornare con lui.
Un’idea evidentemente ligia ai maggiori principi cristologici del secondo e
terzo secolo e dell’inizio del quarto: Cristo era Dio, si era fatto uomo ed era una
sola persona. Non era una visione modalista, ma altre autorità ecclesiastiche la
ritenevano troppo vicina al modalismo, perciò la condannarono come eretica. La
questione venne discussa e risolta al concilio di Costantinopoli del 381, e fu
allora che venne introdotto nel credo un verso recitato ancora oggi — «E il suo
[di Cristo] regno non avrà fine» — allo scopo di confutare le idee di Marcello.
Ma non tutte le autorità ecclesiastiche si schierarono contro Marcello, perciò il
dibattito continuò.

Apollinare

Pur essendo troppo giovane per partecipare al concilio di Nicea, da adulto


Apollinare (315-392 e.v.) fece amicizia con Atanasio e fu nominato vescovo
della città di Laodicea. Come Marcello, si dichiarava vero fautore dell’ortodossia
espressa nel credo anti-ariano di Nicea, ma c’era una questione che non gli dava
pace: come poteva Cristo essere Dio e uomo al tempo stesso? Se Gesù era un
dio-uomo, allora era in parte Dio e in parte uomo?
Non è facile ricostruire esattamente le posizioni di Apollinare, perché
pochissimi dei suoi scritti sono sopravvissuti. Sappiamo però che in seguito fu
accusato di proclamare che il Cristo incarnato non aveva un’anima umana.
Come molti altri all’epoca, Apollinare sembrava convinto che l’uomo fosse
formato da tre parti: il corpo, l’«anima inferiore» (la fonte di emozioni e
passioni) e l’«anima superiore» (la ragione con cui comprendiamo il mondo). La
sua idea era che in Gesù Cristo il Logos divino preesistente avesse sostituito
l’anima superiore, rendendo la sua ragione completamente divina. Dio e uomo
erano dunque uniti (esisteva una sola persona, Cristo), ma lo erano perché
l’uomo Gesù era parte Dio e parte uomo. Una conseguenza era che Cristo non
poteva evolvere moralmente né caratterialmente, poiché possedeva il Logos
divino al posto dell’anima umana: fu soprattutto questo a determinare la
condanna della visione di Apollinare. Se Cristo non era umano da ogni punto di
vista, non poteva farci da esempio. Come possiamo imitarlo, se siamo diversi da
lui? Inoltre, come poteva un Cristo non pienamente umano redimere l’umanità
intera? Secondo questa prospettiva, la salvezza avrebbe interessato il corpo ma
non l’anima, perché Cristo non aveva un’anima umana. O almeno così
sostenevano gli avversari di Apollinare, le cui teorie furono condannate dal
concilio di Costantinopoli nel 381. Benché apparissero perfettamente ortodosse
nel quadro di controversie precedenti, ad Apollinare fu addirittura proibito di
pregare in pubblico nelle chiese cristiane.

Nestorio

Come ultimo esempio di controversia emersa dalla conquista dell’ortodossia,


passiamo ora a una figura più tarda che finì sotto attacco malgrado desiderasse
con tutte le sue forze rappresentare la posizione ortodossa. Nestorio (381-451
e.v.) era un’autorevole figura cristiana che nel 428 ricevette la prestigiosa carica
di vescovo di Costantinopoli. La controversia incentrata su di lui riguarda una
questione che non abbiamo ancora affrontato. Una volta stabilito che Cristo era
Dio per natura e da sempre, i teologi iniziarono a domandarsi in che senso Maria
poteva essere sua madre. Anche Maria, naturalmente, era stata esaltata in quanto
persona di rango eccezionale, e su di lei iniziarono a proliferare leggende e
tradizioni. I teologi che riflettevano sul suo ruolo nella salvezza portata da Cristo
cominciarono a chiamarla Theotókos, un termine che letteralmente significa
«genitrice di Dio» ma finì per essere interpretato come «Madre di Dio».
Si trattava di un termine ampiamente usato all’inizio del quinto secolo, ma
Nestorio lo contestava: a suo giudizio, definire Maria «Madre di Dio»
significava avvicinarsi troppo all’apollinarismo, ovvero all’idea che Maria
avesse partorito un essere umano che possedeva il Logos di Dio al posto
dell’anima. Nestorio credeva che Cristo fosse pienamente umano e pienamente
Dio, e che le due nature, essendo diverse, non potessero intrecciarsi. Insomma,
entrambi gli elementi, divino e umano, erano in Cristo al momento
dell’incarnazione.
L’insistenza sul Cristo pienamente Dio e pienamente umano portò Nestorio a
essere accusato di sostenere che Gesù era due persone diverse, una divina e una
umana, strette in un abbraccio unificante (una sorta di «matrimonio d’anime»).
All’epoca, però, l’ortodossia cristiana aveva da tempo stabilito che Cristo era
una sola persona. Gli avversari di Nestorio finirono per attaccare la sua
cristologia in quanto divideva Cristo e lo rendeva un «semplice uomo» invece di
un «uomo divino». Le sue idee vennero condannate da papa Celestino nel 430 e
dal concilio ecumenico di Efeso nel 431.
Se ho preso in esame queste tre eresie tarde non è per offrire una rassegna
esauriente delle discussioni cristologiche del quarto e quinto secolo, ma per
dimostrare che una volta stabilito che Cristo era Dio da sempre e si era fatto
umano non tutti i problemi di interpretazione e comprensione vennero risolti. Al
contrario, ne emersero di nuovi, risolti i quali ne affiorarono altri ancora. La
teologia si fece più sfaccettata, le posizioni più complesse, l’ortodossia ancora
più paradossale. Molte delle questioni vennero risolte «ufficialmente» solo nel
451 con il concilio di Calcedonia, ma nemmeno allora le diatribe su Dio, Cristo,
la Trinità e argomenti affini ebbero fine. Continuarono a infuriare per secoli, fino
a oggi.

Conclusione
Nessuna delle controversie cristiane illustrate in questo epilogo metteva in
discussione che Gesù fosse Dio. Tutte le parti in causa professavano una
cristologia «nicena»: Gesù era Dio da sempre; non era mai esistito un tempo a
lui precedente; mediante lui Dio aveva creato tutte le cose in cielo e in terra; era
della stessa sostanza di Dio Padre; era uguale a Dio per status, autorità e potere.
Una vera e propria esaltazione del predicatore apocalittico della Galilea
crocifisso per crimini contro lo Stato. Ne abbiamo fatta di strada negli oltre
trecento anni dalla morte di Gesù.
Tuttavia, si potrebbe — e probabilmente si dovrebbe — obiettare che il
pensiero cristiano su Gesù aveva fatto passi da gigante già vent’anni dopo la sua
morte. Forse addirittura prima era stato composto il poema a Cristo nell’inno dei
Filippesi, dove Cristo è descritto come essere preesistente «in forma di Dio»
fattosi umano e poi, in seguito alla sua morte, esaltato allo status divino ed
equiparato a Dio, il Signore a cui tutti i popoli della terra si inchinavano e
professavano fedeltà. Famosa è la riflessione di Martin Hengel, studioso
neotestamentario tedesco: «Per quanto riguarda l’evoluzione dell’intera
cristologia nella Chiesa antica […] accadde di più nei primi vent’anni che nel
successivo sviluppo secolare del dogma». 6
C’è del vero in queste parole. Certo, dopo i primi vent’anni accaddero molte
cose, anzi, moltissime. Ma il salto più grande fu quello compiuto in quei
vent’anni: dal Gesù che i discepoli vedevano durante il suo ministero, un ebreo
che annunciava un messaggio apocalittico di distruzione imminente, a qualcosa
di infinitamente più grande, un essere divino preesistente fattosi
temporaneamente uomo prima di diventare Signore dell’universo. Non passò
molto tempo e Gesù venne identificato con la Parola di Dio incarnata, che era
con Dio alla creazione e mediante la quale Dio aveva creato ogni cosa. Infine,
Gesù fu assimilato a Dio da ogni punto di vista: coeterno con il Padre, della
stessa sostanza del Padre, uguale al Padre nella Trinità, ma un solo Dio.
Forse il Dio Cristo non corrispondeva al Gesù storico, ma era il Cristo della
dottrina cristiana ortodossa, oggetto di fede e venerazione per secoli e secoli. E
ancora oggi rimane il Dio che i cristiani onorano e pregano in tutto il mondo.

1. Citato in Bernardino Negroni (1861), Dell’ultima persecuzione della Chiesa e della fine del
mondo, volume 2, Stabilimento Tipografico del Metauro, Fossombrone, p. 10.←
2. Fra gli studi classici sui rapporti ebraico-cristiani nell’antichità e sull’ascesa dell’antigiudaismo
cristiano, sono ancora molto utili Marcel Simon (1964), Verus Israel: etude sur les relations
entre chretiens et juifs dans l’empire romain, Boccard, Parigi; Rosemary Ruether (1974), Faith
and Fratricide: The Theological Roots of Anti-Semitism, Seabury, New York; e John Gager
(1983), The Origins of Anti-Semitism: Attitudes Toward Judaism in Pagan and Christian
Antiquity, Oxford University Press, New York.←
3. Ruether 1974. La mia ricostruzione si basa su quest’opera.←
4. Alcuni studiosi mettono in dubbio che Ambrogio avesse avuto in questa controversia il ruolo
che si attribuisce nelle lettere. Quale che sia la verità, è evidente che le alte sfere cristiane
avevano ormai conquistato un potere inaudito nei loro rapporti con le autorità statali
dell’epoca.←
5. Oltre ad Ayres 2004 si vedano queste due utili antologie di testi dell’epoca e le loro
introduzioni: Richard A. Norris (1980), The Christological Controversy, Fortress, Philadelphia,
e William G. Rusch (1980), The Trinitarian Controversy, Fortress, Philadelphia.←
6. Martin Hengel (1995), Christological Titles in Early Christianity, in Studies in Early
Christology, T & T Clark, Edimburgo, p. 383.←

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