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Con questa prima lezione, insieme all’immancabile parte dedicata ai rapporti tra norme
nazionali ed europee, gettiamo le basi per lo sviluppo di argomenti complessi che
affronteremo nelle lezioni successive. Si tratta, quindi, di una lezione introduttiva, che fissa
l’attenzione su principi generali che permeano l’intero diritto amministrativo e che
torneranno utili per comprendere gli argomenti che affronteremo.
Prestate particolare attenzione alla dispensa giurisprudenziale, che affronta la tematica
degli interessi collettivi e diffusi.
Sommario
Dispensa giurisdizionale
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1.2. Il ruolo centrale dei regolamenti nel sistema delle fonti. Tra le fonti secondarie
(subordinate, cioè, alla legge) particolare rilevanza assumono i regolamenti amministrativi,
ai quali fanno riferimento gli artt. 1, 3, 4 e 8 disp. prel. c.c. e l’art. 87, co. 5, Cost.
Secondo una parte della dottrina il potere regolamentare è strettamente connaturato alla
posizione di autonomia che la Costituzione riconosce al Governo, dotato non soltanto di
poteri di indirizzo politico-amministrativo, ex art. 95 Cost., ma anche di poteri normativi.
1.2.1. Il rapporto tra legge e regolamento. A fronte delle diverse tipologie di regolamenti –
distinguibili sia in relazione all’Autorità emanante, sia in relazione alla funzione – il rapporto
tra legge e regolamento non può che ricevere una risposta diversificata.
Innanzi tutto, il conferimento espresso della potestà regolamentare e la contestuale
indicazione di criteri e principi per il suo esercizio devono essere ritenuti obbligatori e, come
tale, fondanti un presupposto di legittimità della stessa adozione dell’atto, nel caso di
regolamenti di delegificazione, adottati ai sensi dell’art. 17, co. 2, L. 400/1988.
In questo caso, laddove – come afferma Corte cost. 376/2002, il regolamento attua “la
sostituzione di una disciplina di livello regolamentare ad una preesistente di livello
legislativo”, e la sottrazione di una materia alla preesistente disciplina della fonte primaria,
con contestuale abrogazione delle norme di legge previgenti, non può essere priva di
indicazioni (oggetto/materia, criteri e principi direttivi, limiti) volte a costituire un
parametro, pur ampio e generico, per il successivo sindacato giurisdizionale di legittimità
dell’atto da parte del giudice amministrativo, pena la violazione degli artt. 24 e 113 Cost.
D’altra parte, lo stesso art. 17, co. 2, prevede che il legislatore, nel conferire al Governo la
potestà regolamentare di delegificazione, deve indicare “le norme generali regolatrici della
materia”, con ciò escludendo che la delegificazione comporti l’affidamento “integrale” di
una materia alla fonte secondaria, persistendo l’esigenza di sia pur minimi e generali
riferimenti di rango primario; e con ciò affermando altresì, per implicito., che l’esercizio di
detta potestà regolamentare debba essere limitato nella discrezionalità da criteri e principi
dettati dal Parlamento al potere esecutivo.
A differenti conclusioni occorre giungere i regolamenti di esecuzione, di attuazione e
indipendenti.
Nel caso dei regolamenti indipendenti (art. 17, co. 1, lett. c), la stessa previsione legislativa,
per un verso, risolve il problema della necessità della previa indicazione di legge quanto al
possibile esercizio della potestà regolamentare, e per altro verso porta a concludere che il
potere regolamentare può essere esercitato in assenza di indicazione legislativa di criteri e
limiti, perché il caso ipotizzato dal legislatore è quello delle “materie in cui manchi la
disciplina da parte di leggi”.
Restano, ovviamente, escluse da questa possibilità le materie riservate alla legge, sottoposte
sia a riserva assoluta, sia a riserva relativa.
Infine, nella diversa ipotesi di regolamenti di esecuzione o di attuazione (e, ovviamente,
nelle materie assoggettate a riserva relativa di legge), dove una previgente disciplina
legislativa non può non esserci, l’ordinata attuazione del sistema delle fonti implica che tale
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1.4. Gli statuti delle Regioni e degli enti locali. Gli statuti delle Regioni sono gli atti che
disciplinano, in armonia con i principi costituzionali, la forma di governo e i principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento.
Lo statuto è approvato dal consiglio regionale a maggioranza assoluta dei componenti del
consiglio e con due deliberazioni successive adottate a intervallo non minore di due mesi
(art. 123 Cost.).
L’art. 121 Cost. individua gli organi fondamentali della Regione (Consiglio regionale,
Giunta e Presidente) e ne disciplina le funzioni, e attribuisce alle Regioni la potestà
legislativa su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (art. 117,
co. 4).
Invece, gli statuti delle Regioni ad autonomia speciale, deliberati dai consigli regionali,
sono stati approvati con legge costituzionale del Parlamento e sono, sul piano formale,
fonti sovraordinate agli statuti delle regioni perché hanno il rango delle leggi costituzionali,
mentre sul piano sostanziale sono espressione di un’autonomia minore perché la legge
regionale deve essere approvata dal Parlamento con la procedura prevista dall’art. 138 Cost.
Anche gli enti locali (Province e Comuni) hanno propri statuti (art. 114, co. 2, Cost.), i quali
costituiscono espressione dell’autonomia dell’ente.
Lo statuto stabilisce (art.6, D.Lgs. 267/2000):
- le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le
attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipatone delle minoranze, i modi di
esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio;
- i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente, le forme di collaborazione fra
comuni e province, della partecipatone popolare, del decentramento, dell’accesso dei
cittadini, alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, lo stemma e il gonfalone e
quanto ulteriormente previsto dal D.Lgs. 267/2000 (Testo unico sugli enti locali).
1.5. Alzando lo sguardo: le norme europee. Le fonti del diritto dell’Unione europea sono
di tre tipi: le fonti primarie, le fonti derivate e le fonti complementari.
Le fonti primarie comprendono i trattati istitutivi, ovvero il trattato sull’Unione europea
(Tue) e il trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue).
Questi trattati definiscono il quadro al cui interno le istituzioni pongono in essere le varie
politiche delle istituzioni europee, fissano la ripartizione delle competenze fra l’Unione e gli
Stati membri, nonché i poteri delle istituzioni e definiscono la sfera di applicazione delle
politiche europee.
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1.6. Conflitti tra fonti interne e fonti europee. Dopo aver delineato brevemente il quadro
generale delle fonti del diritto amministrativo, occorre soffermarsi su una delle questioni più
rilevanti, ossia sulle regole che governano i rapporti tra fonti nazionali e fonti europee.
Due sono i principi, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, preordinati alla soluzione dei
conflitti tra fonti interne e fonti europee:
- l’efficacia diretta del diritto europeo;
- il primato del diritto europeo.
Gli effetti diretti del diritto europeo nei confronti dei singoli sono riconosciuti, ad esempio, a
molte disposizioni contenute nei trattati istitutivi e alle direttive che impongano agli Stati
membri obblighi sufficientemente chiari e precisi (direttive dettagliate, autoesecutive o
self executing), chiariscano il contenuto di obblighi già previsti dal trattato o pongano a
carico degli Stati obblighi di astensione dall’approvare determinati atti o dal compiere
specifiche azioni.
Con riferimento a questa tipologia di direttive, in caso di mancato recepimento della
direttiva l’efficacia diretta riguarda i rapporti tra lo Stato e i cittadini (effetto verticale),
cosicché, decorso inutilmente il termine fissato per l’attuazione della direttiva, il singolo può
agire davanti al giudice nazionale per chiedere la tutela dei diritti precisi e incondizionati
che derivano dalla direttiva; ciò vale non soltanto nell’ipotesi di omessa trasposizione della
direttiva ma anche nell’ipotesi in cui la direttiva sia stata scorrettamente trasposta (Corte
giust. 5-2-1963, Caso Vari Gend Loos, C-26/62).
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1.7. Risarcimento del danno per mancata attuazione delle direttive europee. Abbiamo
visto che la mancata attuazione delle direttive europee può far scattare la responsabilità
risarcitoria dello Stato inadempiente.
A questo proposito, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato i seguenti principi:
- in caso di omessa o tardiva trasposizione, da parte del legislatore italiano, delle direttive
europee, sorge - conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia - il
diritto degli interessati al risarcimento dei danni, che va ricondotto - anche a prescindere
dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione
risarcitoria - allo schema della responsabilità da atto lecito (l’inadempimento dell’obbligo
di recepimento da parte dello Stato), dovendosi ritenere che la condotta dello Stato
inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento
europeo ma non alla stregua dell’ordinamento interno;
- il risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del
dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno,
in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione per la perdita subita a
causa del ritardo;
- la pretesa risarcitoria è assoggettata, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione
ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine
decennale di prescrizione.
L’idoneità dell’inadempimento dello Stato a produrre l’obbligazione risarcitoria discende
direttamente dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, manifestatasi per la prima
volta con la nota sentenza Francovich (Corte di giustizia 19-11-1991, cause riunite C-6/90
e C-9-90), poi confermata dalla sentenza Factortame (Corte di giustizia 5-3-1996, cause
riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame). In forza della necessità di
riconoscere sul piano dell’ordinamento interno i dicta della Corte di giustizia,
l’inadempimento del legislatore italiano all’attuazione di una direttiva che riconosca in
modo specifico determinati diritti ai singoli si connota, anche sul piano dell’ordinamento
interno, come fatto generatore di un’obbligazione risarcitoria.
La giurisprudenza della Corte di giustizia cui si è appena fatto riferimento esige che
l’obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata al requisito della colpa, il che
di regola è, invece, necessario nell’illecito ex art. 2043 c.c.
Deve quindi escludersi che l’obbligazione risarcitoria per inadempimento della direttiva,
così come configurata dalla Corte di giustizia, sia riconducibile nell’ambito dell’art. 2043
c.c.
Piuttosto, la responsabilità dello Stato per l’inadempimento di una direttiva comunitaria che
riconosca in modo sufficientemente specifico un diritto, ma non sia self-executing, dà luogo
a una fattispecie di responsabilità contrattuale, intesa in senso ampio, ovvero non nel
senso di una responsabilità da contratto, il che sarebbe nella specie fuori luogo, ma nel senso
di una responsabilità che non nasce da un fatto illecito alla stregua dell’art. 2043 ss. c.c. ma
è ricollegata alla violazione di un obbligo precedente (l’obbligo di recepimento della
direttiva).
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2.1. La legalità, fortino dei diritti. Il principio di legalità, inteso come sottoposizione di
tutti i pubblici poteri alla legge, immanente a ogni ordinamento democratico e
positivizzato nel sistema costituzionale (Corte cost. 115/2011), ha storicamente, come
funzione fondamentale, quella di tutelare il singolo rispetto alle prerogative del potere
esecutivo e dell’amministrazione.
Tale funzione primaria del principio di legalità è stata rafforzata con l’entrata in vigore della
Carta costituzionale, di tipo rigido, che prevede molteplici riserve di legge a tutela delle
libertà fondamentali, in ragione della necessità di evitare che la stessa legge derogasse a sé
stessa attribuendo poteri atipici agli organi dell’amministrazione o consentendo una simile
attribuzione da parte delle fonti secondarie prodotte dal potere esecutivo.
In virtù del principio di legalità, la pubblica amministrazione è titolare esclusivamente dei
poteri conferiti in modo non equivoco da specifiche disposizioni che attribuiscono,
regolano e limitano il relativo potere (Corte cost. 32/2009).
Particolare rilevanza è attribuita, dalla Costituzione, alla tutela della persona in quanto tale,
cioè come valore in sé e alla cui tutela è preordinato l’intero ordinamento giuridico. La
prima parte della Carta fondamentale è inderogabile in peius, anche attraverso lo strumento
della revisione costituzionale, in quanto è volta a tutelare e garantire i diritti inviolabili
dell’uomo che la Repubblica riconosce come già esistenti ai sensi dell’art. 2 Cost.
In particolare, la giurisprudenza, con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, ha
specificato che “nel nostro ordinamento si rinvengono a fronte di situazioni soggettive a
nucleo variabile - in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della pubblica
amministrazione capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli
interessi coinvolti) i diritti a interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a
diritti - posizioni soggettive a nucleo rigido, rinvenibili unicamente in presenza di quei
diritti, qual è quello alla salute, che - in ragione della loro dimensione costituzionale e della
loro stretta inerenza a valori primari della persona - non possono essere definitivamente
sacrificati o compromessi, sicché quando si prospettano motivi di urgenza suscettibili di
esporli a pregiudizi gravi e irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi
potere discrezionale di incidere su tali diritti, non essendo ad essa riservato se non il potere
di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa
avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello
spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata (Cass. S.U.
17461/2006).
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3.2. Conformazione e tutela dell’interesse legittimo alla luce della giurisprudenza più
recente. L’interesse legittimo, dunque, costituisce una posizione sostanziale che esprime
l’interesse del titolare a un bene della vita, cioè a ottenere una determinata utilità
dipendente dall’esercizio del potere della P.A. (Corte cost. 204/2004).
La Costituzione assicura (art. 24) il diritto alla tutela giurisdizionale per i diritti soggettivi e
per gli interessi legittimi, ribadendo (art. 113) che tale tutela giurisdizionale è
tendenzialmente piena e incondizionata, essendo “sempre ammessa” (co. 1) e non potendo
“essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per particolari categorie di
atti” (co. 2).
Perciò, il titolare dell’interesse legittimo può agire in giudizio per tutelare il proprio
interesse da una compressione illegittima derivante dal provvedimento stesso (interesse
legittimo oppositivo, in quanto si oppone a una compressione illegittima dell’interesse) o, al
contrario, per far valere il proprio interesse a fronte di un provvedimento che non lo ha
riconosciuto (interesse legittimo pretensivo, in quanto pretende l’ottenimento di un’utilità).
Ciò che caratterizza l’interesse legittimo e che costituisce la differenza essenziale dal diritto
soggettivo è la sua inerenza all’esercizio del potere amministrativo: l’interesse legittimo
non è percepibile sul piano “statico”, senza che la pubblica amministrazione abbia esercitato
o negato di esercitare, nei confronti del soggetto, il potere del quale essa è titolare. È proprio
questa relazione “dinamica”, questa percezione dell’interesse legittimo come posizione volta
alla verifica del legittimo esercizio del potere amministrativo, con finalità di conservazione o
di acquisizione di utilità giuridicamente rilevanti al proprio patrimonio giuridico, che ha
fatto spesso dubitare della sua natura sostanziale, essendosi talora ritenuto che essa si risolva
in una sorta di legittimazione a ricorrere contro il provvedimento illegittimo.
La posizione dell’interesse legittimo presuppone necessariamente una relazione tra un
soggetto che intende ottenere una determinata utilità (un “bene della vita”) e la
pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere ad essa attribuito dall’ordinamento.
Tale relazione, esaminata dalla posizione del privato, può essere:
- volta a neutralizzare l’esercizio del potere amministrativo, a tutela di un patrimonio
giuridico già esistente che verrebbe compresso dall’esercizio del potere amministrativo
medesimo (situazione nella quale ricorre l’interesse legittimo oppositivo e nell’ambito della
quale la definizione di “bene della vita”, estremamente affine a quella di “bene” ex art. 810
c.c., non è suscettibile di determinare perplessità o fraintendimenti);
- volta a ottenere l’esercizio del potere amministrativo negato dall’amministrazione,
attraverso il quale si intende conseguire un ampliamento del proprio patrimonio giuridico
(situazione nella quale ricorre l’interesse legittimo pretensivo).
In entrambe le ipotesi esiste un rapporto diretto e immediato tra l’esercizio del potere
amministrativo e l’interesse all’esercizio del potere medesimo. Tale relazione diretta si
concretizza nel fatto che il provvedimento amministrativo e suoi effetti interessano
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3.4. Il danno risarcibile. Ai sensi dell’art. 2043 c.c. il danno è risarcibile soltanto laddove
esso consista in un danno ingiusto, essendo tale quello consistente nella lesione di un
interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Tale danno deve essere ricollegabile al provvedimento impugnato con un nesso di
causalità immediato e diretto e, nel caso di interesse pretensivo, deve riguardare l’ingiusto
diniego o la ritardata emanazione di un provvedimento amministrativo rispetto al quale vi
siano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo.
Secondo il Consiglio di Stato (sez. V, n. 490/2008), “il danno, per essere risarcibile, deve
essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità
del risultato utile”. In tal senso la giurisprudenza ha agganciato il risarcimento del danno a
presupposti di certezza dello stesso, escludendo il danno nel caso in cui l’atto, ancorché
illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una mera possibilità di conseguimento del
bene della vita e non di una rilevante probabilità del risultato utile. Infatti, in tal caso
risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento dell’atto
illegittimo (Cons. Stato, VI, n. 4628/2009).
Quanto al requisito soggettivo della colpa, questa deve essere valutata tenendo conto dei
vizi del provvedimento, della gravità delle violazioni, delle condizioni concrete e
dell’apporto eventualmente dato dai privati al procedimento (Cons. Stato, VI, n. 3827/2009).
In definitiva, la prova dell’esistenza del danno da provvedimento illegittimo deve essere
ricavata da una verifica del caso concreto che faccia concludere per la certezza del danno.
Tale certezza presuppone:
- l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale;
- l’esistenza di una lesione, che sussiste sia laddove possa essere riscontrata con evidenza,
sia laddove vi sia una rilevante probabilità del risultato utile che è stato però impedito
dall’agire illegittimo dell’amministrazione.
Nei procedimenti amministrativi volti ad attribuire maggiori utilità all’interessato e al suo
patrimonio giuridico (ad es., procedimenti di concorso), la posizione giuridica sostanziale è
sicuramente un interesse legittimo pretensivo.
Tale situazione giuridica può ricevere tutela sia sul piano ripristinatorio, mediante
l’annullamento del provvedimento illegittimo, sia, prima ancora, mediante l’adozione di
provvedimenti cautelari (ad es., l’ammissione con riserva alle prove concorsuali), in quanto,
nell’interesse legittimo pretensivo l’oggetto della posizione, tale da definirne il contenuto
sostanziale non è un bene già esistente nel patrimonio giuridico del titolare bensì la stessa
possibilità di conseguimento di un’utilitas per il tramite dell’esercizio del potere
amministrativo (Cons. Stato, IV, n. 4644/2011). È evidente, allora, che l’esercizio illegittimo
del potere comporta, per il titolare dell’interesse legittimo, un danno che però riguarda una
situazione dinamica di possibilità di conseguimento di un’utilitas e che, pertanto, può
ricevere riparazione soltanto con una tutela del tipo ripristinatorio, per mezzo cioè
dell’annullamento dell’atto, e con il conseguente riesercizio del potere amministrativo.
Peraltro, nelle ipotesi nelle quali, per effetto dell’annullamento dell’atto, è possibile un
nuovo esercizio di potere amministrativo, la giurisprudenza esclude la tutela risarcitoria
(Cons. Stato, V, n. 854/2011; 462/2011).
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3.7. L’interesse legittimo di fronte alla revoca dei contratti della PA. L’aggiudicazione è
il momento finale della procedura amministrativa finalizzata a individuare il miglior
offerente, mentre la stipulazione del contratto è il momento iniziale del rapporto negoziale
tra la pubblica amministrazione e il contraente privato risultato miglior offerente.
In giurisprudenza si è posto il problema di stabilire se possa formare oggetto di revoca
l’aggiudicazione del contratto.
Per rispondere occorre ricordare che l’art. 21quinquies L. 241/1990 stabilisce che, per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di
fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento
amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato dall’organo che lo ha emanato o da
un altro organo previsto dalla legge; la revoca determina l’inidoneità del provvedimento
revocato a produrre ulteriori effetti.
Il comma 1bis specifica che se la revoca di un atto amministrativo a efficacia durevole o
istantanea incide su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli
interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale
conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo
oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri
soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.
Pertanto, con l’entrata in vigore dell’art. 21quinquies L. 241/1990, aggiunto dalla L.
15/2005, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti
alternativi che legittimano l’adozione del provvedimento:
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) mutamento della situazione di fatto;
c) nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. ius poenitendi).
Il provvedimento di revoca, peraltro, deve necessariamente avere ad oggetto un
provvedimento ad efficacia durevole o istantanea che non abbia ancora esaurito i suoi
effetti.
La revoca opera con efficacia ex nunc, a differenza dell’annullamento d’ufficio, previsto
dall’art. 21nonies L. 241/1990, che opera per vizi di legittimità e con efficacia ex tunc.
L’art. 134, co. 1, D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) prevede, invece, che la
stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto, previo
pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al
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Con riferimento alla tutela dell’aggiudicatario, occorre ricordare (anticipando nozioni che
saranno trattate in una successiva lezione dedicata al riparto di giurisdizione) che nella fase
antecedente alla stipulazione del contratto, poiché il soggetto pubblico agisce esercitando
poteri autoritativi, i privati sono titolari di un interesse legittimo al regolare svolgimento del
procedimento amministrativo, azionabile davanti al giudice amministrativo, mentre dopo la
stipulazione del contratto il privato e la pubblica amministrazione sono su un piano di
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Dispensa giurisdizionale
La Costituzione, come è noto, sancisce, all’art. 24, il diritto alla tutela giurisdizionale per le
posizioni di diritto soggettivo ed interesse legittimo, assicurando ad entrambe le posizioni la
tutela giurisdizionale «piena» avverso gli atti della Pubblica Amministrazione (non limitata
per mezzi di impugnazione e categorie di atti: art. 113).
Tale affermazione, di pur ampia portata, resta tuttavia legata, nel suo dato letterale, alla
elaborazione dogmatica presente al momento di redazione del testo della Costituzione,
essendosi preferito - come emerge dal dibattito in Assemblea Costituente - il riferimento ad
«interessi legittimi», in luogo del pur proposto «interessi giuridicamente protetti». E ciò nella
convinzione, per un verso, che - secondo i Costituenti - un interesse giuridicamente protetto
è sempre un interesse legittimo; per altro verso che sarebbe stato opportuno affidare alla
giurisprudenza «la concretizzazione di quello che suole chiamarsi interesse legittimo»,
adeguando la figura (e la connessa esigenza di tutela) all’evolversi del contesto storico-
sociale, come recepito dalla elaborazione giurisprudenziale.
Tanto premesso, occorre osservare come successivamente si sia delineato:
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La definizione sin qui effettuata del ruolo delle associazioni, in quanto partecipanti alle
«attività di interesse generale», e dunque alla tutela, anche in giudizio, di interessi generali
o diffusi, nei sensi innanzi precisati, comporta, a tutta evidenza, una diversa considerazione
delle condizioni dell’azione.
Si è detto che la legittimazione attiva, lungi dal conseguire dalla titolarità di una posizione
sostanziale, si collega, per espressa attribuzione legislativa, alla tutela di interessi diffusi, e
costituisce deroga all’art. 81 c.p.c.
Ma se il fondamento dell’attribuzione di legittimazione speciale deve essere individuato
nella «materia» in ordine alla quale l’associazione esplica la propria attività (e in ordine alla
quale ha ottenuto lo speciale riconoscimento), in attuazione dell’art. 118 Cost., appare
allora evidente come sia, per così dire, più «ampio» l’ambito di tale legittimazione, non
collegandosi essa alla «angusta» titolarità di una posizione soggettiva, bensì ad una
materia e ad un valore costituzionalmente garantito.
Nel caso oggetto della presente controversia, afferente alla materia dell’ambiente, l’oggetto
della tutela, come affermato dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, n. 6554/2010 cit.),
«lungi dal costituire un autonomo settore di intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni
della vita che nell’ambiente si collocano» (paesaggio, acqua, aria, suolo); esso è «un bene
pubblico che non è suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile,
unitario, multiforme».
A fronte di tale definizione, la giurisprudenza di questa sezione (sent. 10 maggio 2012 n.
2710), nel definire in senso giuridico l’urbanistica, ha precisato: «il potere di pianificazione
deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato
solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle
aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma
anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e
dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente
tutelati...» In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione,
non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio
territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto,
bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete
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