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LEZIONE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO 1

LE FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

a cura di Massimiliano Di Pirro

Con questa prima lezione, insieme all’immancabile parte dedicata ai rapporti tra norme
nazionali ed europee, gettiamo le basi per lo sviluppo di argomenti complessi che
affronteremo nelle lezioni successive. Si tratta, quindi, di una lezione introduttiva, che fissa
l’attenzione su principi generali che permeano l’intero diritto amministrativo e che
torneranno utili per comprendere gli argomenti che affronteremo.
Prestate particolare attenzione alla dispensa giurisprudenziale, che affronta la tematica
degli interessi collettivi e diffusi.

Sommario

1. Le fonti del diritto amministrativo


1.1. La trama costituzionale.
1.2. Il ruolo centrale dei regolamenti nel sistema delle fonti.
1.2.1. Il rapporto tra legge e regolamento.
1.2.2. Regolamenti e atti amministrativi generali: quali differenze?
1.3. Le ordinanze di necessità e urgenza.
1.4. Gli statuti delle Regioni e degli enti locali.
1.5. Alzando lo sguardo: le norme europee.
1.6. Conflitti tra fonti interne e fonti europee.
1.7. Risarcimento del danno per mancata attuazione delle direttive europee.

2. Il principio di legalità amministrativa


2.1. La legalità, fortino dei diritti.
2.2. La pericolosa deriva dei poteri impliciti.

3. Struttura e tutela dell’interesse legittimo


3.1. La nozione di interesse legittimo.
3.2. Conformazione e tutela dell’interesse legittimo alla luce della giurisprudenza più
recente.
3.3. Il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo.
3.4. Il danno risarcibile.
3.5. Il risarcimento in forma specifica.
3.6. Danno da lesione dell’interesse legittimo all’aggiudicazione della gara d’appalto.
3.7. L’interesse legittimo di fronte alla revoca dei contratti della PA.

Dispensa giurisdizionale

Manuale di Diritto Amministrativo


Vol. 4 – Ed. 30°
Gli interessi collettivi e diffusi (Cons. Stato, sez. IV, 9-1-2014, n. 36)

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1. Le fonti del diritto amministrativo

1.1. La trama costituzionale. L’attività amministrativa è disciplinata, oltre che dalla


Costituzione, che detta i principi fondamentali (tra i quali si ricorda, in particolare, il
principio di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost.), dalle leggi ordinarie e dalle
leggi regionali, dai regolamenti, dalla normativa europea (trattati istitutivi e atti normativi
secondari) e dalle convenzioni internazionali, tra le quali spicca la Convenzione europea dei
diritti dell’uomo (Cedu).
Principio-cardine del sistema delle fonti è che la legge, in ossequio al principio della riserva
di legge che governa anche il macrosistema amministrativo, attribuisca il potere
amministrativo e ne definisca i tratti essenziali. L’art. 97 Cost. stabilisce, in particolare, che
la legge deve stabilire le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei
funzionari.
La legge non è, ovviamente, soltanto la legge in senso formale ma anche la legge in senso
materiale (decreto-legge e decreto legislativo).
I principi che il legislatore deve garantire, nell’attribuire poteri alla PA, sono l’imparzialità e
il buon andamento dell’attività amministrativa.
Inoltre, poiché contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale (art. 113 Cost.), la legge non può avere il contenuto di un atto
amministrativo, altrimenti al destinatario sarebbe negata la tutela giurisdizionale: il privato,
infatti, può impugnare un atto amministrativo ma non la legge, e il sindacato di
costituzionalità esclude la facoltà del singolo di rivolgersi direttamente alla Corte
costituzionale (art. 134 Cost.). Pertanto, devono ritenersi vietate anche le c.d. leggi-
provvedimento.
Sul punto è il caso di segnalare Corte cost. 103/2007, che ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo l’art. 3, co. 7, L. 145/2002 che stabiliva la cessazione degli incarichi dirigenziali
di livello generale entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge stessa. La dichiarazione
di incostituzionalità è stata motivata, tra l’altro, dall’osservazione secondo la quale la revoca
delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza soltanto di una
responsabilità accertata all’esito di un procedimento nel quale al dirigente sia garantito il
diritto di difesa, prospettando i risultati della sua attività per il raggiungimento degli obiettivi
che gli erano stati assegnati dall’organo politico. La legge, invece, si è era sostituita al
provvedimento amministrativo, eludendo le garanzie procedimentali che lo caratterizzano,
sottraendo all’interessato la possibilità di difendersi in sede procedimentale e di impugnare il
provvedimento conclusivo.

1.2. Il ruolo centrale dei regolamenti nel sistema delle fonti. Tra le fonti secondarie
(subordinate, cioè, alla legge) particolare rilevanza assumono i regolamenti amministrativi,
ai quali fanno riferimento gli artt. 1, 3, 4 e 8 disp. prel. c.c. e l’art. 87, co. 5, Cost.
Secondo una parte della dottrina il potere regolamentare è strettamente connaturato alla
posizione di autonomia che la Costituzione riconosce al Governo, dotato non soltanto di
poteri di indirizzo politico-amministrativo, ex art. 95 Cost., ma anche di poteri normativi.

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In realtà, deve ribadirsi, con l’opinione prevalente, che l’unico potere normativo originario è
quello del Parlamento, mentre il potere regolamentare del Governo deve necessariamente
trovare fondamento in una specifica norma di legge. Questa norma è individuabile nell’art.
17 L. 499/1988, che disciplina cinque tipologie di regolamenti:
1) regolamenti esecutivi, adottati per l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi
nonché dei regolamenti dell’Ue; la legge contiene per intero la disciplina e il regolamento
tende ad assicurarne solo l’esecuzione;
2) regolamenti di attuazione-integrazione delle norme di principio contenute nelle leggi e
nei decreti legislativi, escluse quelle che rientrano nella competenza regionale; le leggi
contengono solo norme di principio e il regolamento ne costituisce lo svolgimento;
3) regolamenti indipendenti, adottati nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di
leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie riservate alla legge.
La legge manca e la disciplina è stabilita per intero dal regolamento. Dell’ammissibilità
costituzionale dei regolamenti indipendenti si è discusso. C’è chi li ritiene ammissibili a
condizione che il singolo regolamento trovi il suo fondamento in una legge che ne
individui l’oggetto, ma tale opinione finisce con l’equiparare il regolamento indipendente
al regolamento di attuazione-integrazione e, quindi, col negarne l’autonomia rispetto a
quest’ultimo;
4) regolamenti di organizzazione, che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento
della PA secondo le disposizioni dettate dalla legge; il regolamento di organizzazione è
caratterizzato dalla materia regolata (l’organizzazione e il funzionamento delle
amministrazioni pubbliche) e può essere un regolamento esecutivo o un regolamento di
attuazione-integrazione;
5) regolamenti di delegificazione, adottati per disciplinare materie disciplinate dalla legge
ma non coperte da riserva assoluta di legge. Per disciplinare una determinata materia una
legge autorizza il Governo a emanare uno o più regolamenti, i quali sostituiranno la
preesistente disciplina legislativa. Secondo la tesi prevalente la legge delegificante può
essere soltanto una legge formale e non un decreto-legge o un decreto legislativo. Poiché
i regolamenti sono fonti secondarie e non possono, quindi, contenere norme contrarie alle
disposizioni di legge (art 4. disp. prel. c.c.), la legge preesistente non viene abrogata dal
regolamento ma direttamente dalla legge di delegificazione, che fissa le nuove regole
generali della materia e autorizza il Governo a esercitare la potestà regolamentare; è
soltanto l’effetto abrogativo che decorrerà dall’entrata in vigore del regolamento, che
costituisce una sorta di condizione risolutiva dell’efficacia della legge preesistente.
Accanto ai regolamenti governativi la L. 400/1988 prevede i regolamenti ministeriali, che
possono essere adottati nella materia di competenza del ministro o di autorità sotto-ordinate,
quando la legge espressamente conferisca tale potere (art. 17, co. 3). I regolamenti
ministeriali (o interministeriali) non possono dettare norme contrarie a quelle dei
regolamenti emanati dal governo.
Infine, secondo l’originaria formulazione dell’art. 121 Cost., la potestà regolamentare
della Regione apparteneva al Consiglio regionale al pari della potestà legislativa. Con la
modifica prodotta dalla legge cost. n. 1/1999 è venuta meno la riserva al consiglio regionale
della potestà regolamentare, sicché spetta alla singola Regione assegnare tale potestà al
consiglio o alla giunta, e ciò attraverso il proprio statuto.
È opportuno evidenziare che, nella prassi, quasi tutte le Regioni hanno conferito la
potestà regolamentare alla Giunta regionale. I regolamenti regionali sono stati, così,
qualificati come atti normativi del potere esecutivo.
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Un’altra importante modifica è stata apportata dalla legge cost. n. 3/2001. L’art. 117, co. 6,
nella nuova formulazione, attribuisce allo Stato la potestà regolamentare nelle materie di
legislazione esclusiva; mentre in ogni altra materia spetta alle regioni. Viene meno così la
potestà regolamentare dello Stato nelle materie di competenza concorrente. La potestà
regolamentare delle regioni viene correlativamente ampliata anche perché è prevista la
possibilità che lo Stato deleghi alle regioni la propria potestà regolamentare.
Il nuovo art. 117 stabilisce, infine, che i Comuni, le Province e le città metropolitane hanno
potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite. Si tratta del riconoscimento di una potestà che gli enti locali
(essenzialmente i Comuni) hanno sempre avuto e attraverso il cui esercizio la normativa
locale ha coperto per decenni ambiti che sono stati poi invasi dalla legge (urbanistica ed
edilizia, igiene, commercio, annona, ecc.).

1.2.1. Il rapporto tra legge e regolamento. A fronte delle diverse tipologie di regolamenti –
distinguibili sia in relazione all’Autorità emanante, sia in relazione alla funzione – il rapporto
tra legge e regolamento non può che ricevere una risposta diversificata.
Innanzi tutto, il conferimento espresso della potestà regolamentare e la contestuale
indicazione di criteri e principi per il suo esercizio devono essere ritenuti obbligatori e, come
tale, fondanti un presupposto di legittimità della stessa adozione dell’atto, nel caso di
regolamenti di delegificazione, adottati ai sensi dell’art. 17, co. 2, L. 400/1988.
In questo caso, laddove – come afferma Corte cost. 376/2002, il regolamento attua “la
sostituzione di una disciplina di livello regolamentare ad una preesistente di livello
legislativo”, e la sottrazione di una materia alla preesistente disciplina della fonte primaria,
con contestuale abrogazione delle norme di legge previgenti, non può essere priva di
indicazioni (oggetto/materia, criteri e principi direttivi, limiti) volte a costituire un
parametro, pur ampio e generico, per il successivo sindacato giurisdizionale di legittimità
dell’atto da parte del giudice amministrativo, pena la violazione degli artt. 24 e 113 Cost.
D’altra parte, lo stesso art. 17, co. 2, prevede che il legislatore, nel conferire al Governo la
potestà regolamentare di delegificazione, deve indicare “le norme generali regolatrici della
materia”, con ciò escludendo che la delegificazione comporti l’affidamento “integrale” di
una materia alla fonte secondaria, persistendo l’esigenza di sia pur minimi e generali
riferimenti di rango primario; e con ciò affermando altresì, per implicito., che l’esercizio di
detta potestà regolamentare debba essere limitato nella discrezionalità da criteri e principi
dettati dal Parlamento al potere esecutivo.
A differenti conclusioni occorre giungere i regolamenti di esecuzione, di attuazione e
indipendenti.
Nel caso dei regolamenti indipendenti (art. 17, co. 1, lett. c), la stessa previsione legislativa,
per un verso, risolve il problema della necessità della previa indicazione di legge quanto al
possibile esercizio della potestà regolamentare, e per altro verso porta a concludere che il
potere regolamentare può essere esercitato in assenza di indicazione legislativa di criteri e
limiti, perché il caso ipotizzato dal legislatore è quello delle “materie in cui manchi la
disciplina da parte di leggi”.
Restano, ovviamente, escluse da questa possibilità le materie riservate alla legge, sottoposte
sia a riserva assoluta, sia a riserva relativa.
Infine, nella diversa ipotesi di regolamenti di esecuzione o di attuazione (e, ovviamente,
nelle materie assoggettate a riserva relativa di legge), dove una previgente disciplina
legislativa non può non esserci, l’ordinata attuazione del sistema delle fonti implica che tale
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esercizio venga espressamente previsto dalla legge (ciò è indispensabile per i regolamenti
ministeriali, ex art. 17, co. 3), sia dall’indicazione di criteri e limiti, soprattutto se la materia
è espressamente sottoposta dalla Costituzione a riserva relativa di legge (essendo,
ovviamente, del tutto escluso, se non per aspetti minimi e marginali, l’esercizio di potestà
regolamentare in materie sottoposte a riserva assoluta di legge).
Tuttavia, laddove tale indicazione risulti assente o insufficiente, ciò non comporta
necessariamente l’illegittimità costituzionale della norma primaria “carente”, per violazione
della riserva di legge. Infatti:
- la sussistenza di una potestà regolamentare generale (anche implicitamente) attribuita alla
PA, nella misura in cui esclude la necessità della previa autorizzazione legislativa
all’adozione dei regolamenti (Cons. Stato, sez. atti norm., 7-6-1999, n. 107), esclude anche
la necessità di indicare criteri e limiti per il suo esercizio;
- ritenendo necessaria tale indicazione si finirebbe per “irrigidire” eccessivamente il sistema
delle fonti, dovendosi affermare che, ogni qualvolta tale indicazione non vi sia o sia
insufficiente, non sarebbe possibile attuare un (pur necessario) completamento dell’assetto
normativo.
D’altra parte, la stessa Corte costituzionale tende a delimitare fortemente la necessità di
previa definizione di criteri e limiti, anche nei casi di materia sottoposta a riserva relativa di
legge. Come afferma Corte cost. 157/1996 in riferimento all’art. 23 Cost., “il principio della
riserva di legge di cui al menzionato precetto della Costituzione, in tema di prestazioni
imposte, va inteso in senso relativo, ponendo l’obbligo per il legislatore di determinare
preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della
discrezionalità amministrativa, tanto che la Corte ha già avuto occasione di affermare che
non contrasta con tale principio l’assegnazione ad organi amministrativi non solo di compiti
meramente esecutivi, bensì anche di quello di determinare elementi, presupposti o limiti,
variamente individuabili, della prestazione stessa, sulla base di dati e valutazioni di ordine
tecnico ... Né tale principio può ritenersi violato, anche in assenza di una espressa
indicazione legislativa dei criteri, dei limiti e dei controlli che delimitano l’ambito di
discrezionalità della pubblica amministrazione, quando gli stessi siano desumibili dalla
composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinare la misura della
prestazione di cui trattasi ovvero quando esista, per l’emanazione dei provvedimenti
amministrativi concernenti la prestazione medesima, un modulo procedimentale con il quale
venga a realizzarsi la collaborazione di una pluralità di organi al fine di escludere eventuali
arbitrii dell’amministrazione”.
Se, quindi, può affermarsi che un regolamento di esecuzione, per il quale la legge abbia
omesso di fissare criteri e limiti per l’esercizio della potestà regolamentare che ha portato
alla sua adozione, non è da considerare per ciò solo illegittimo, tuttavia occorre che il
giudice operi una attenta ricostruzione del parametro normativo di riferimento, e ciò al fine
di evitare che sia impedito o reso difficoltoso (se non evanescente) il sindacato
giurisdizionale con riferimento al vizio di violazione di legge.
In presenza di un mero regolamento di esecuzione, dunque, il sindacato di legittimità sulle
disposizioni del medesimo si risolve in un sindacato giurisdizionale sull’atto amministrativo,
per il quale il parametro di legittimità è offerto dalle norme primarie, e innanzitutto da quelle
su cui si fonda l’esercizio della potestà regolamentare e da quelle cui il regolamento è
destinato a dare attuazione (e sui principi da esse desumibili), ma è offerto anche dalle
norme costituzionali e del diritto dell’Unione europea, alle quali può essere riconosciuto un
contenuto precettivo.
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E ciò a maggior ragione nei casi in cui, in difetto di indicazione di criteri generali, ovvero in
presenza di un contenuto normativo delle disposizioni primarie affatto lacunoso, viene meno
o è insufficiente il parametro legislativo.
Diversamente considerando verrebbe meno il fondamentale principio di cui all’art. 117, co.
1, Cost., che, se pure riferito alla potestà legislativa (la quale “è esercitata nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali”), è suscettibile di più generale applicazione, con più ampio riferimento alla
potestà normativa. E ciò si verificherebbe a maggior ragione laddove la lacunosità della
norma primaria, (insieme a una ritenuta inapplicabilità del citato art. 117, co. 1, ai
regolamenti) consentirebbe l’aggiramento del precetto costituzionale.
In conclusione, l’assenza di indicazione, da parte della norma primaria, di criteri e limiti
all’esercizio della potestà regolamentare, anche nei casi di materia sottoposta a riserva
relativa di legge, non determina l’illegittimità costituzionale della norma che, pur
prevedendo la successiva adozione di un regolamento, non preveda al tempo stesso detti
criteri e limiti. Viceversa, tale assenza di indicazione si risolve in una diversa articolazione
(nei sensi sopra esposti) del sindacato giurisdizionale sulla legittimità del regolamento.

1.2.2. Regolamenti e atti amministrativi generali: quali differenze? Dottrina e


giurisprudenza non si sono espresse in modo univoco in ordine ai criteri da utilizzare per
distinguere gli atti normativi, quali sono i regolamenti, dagli atti amministrativi generali a
contenuto non normativo, che hanno in comune la caratteristica di rivolgersi a una generalità
più o meno indeterminata di soggetti.
Secondo un criterio formale, si è affermato che per distinguere i regolamenti dagli atti
amministrativi generali a contenuto non normativo, è necessario tener conto del nomen iuris
attribuito dall’Amministrazione all’atto e del procedimento che ha dato luogo alla sua
adozione.
Secondo un criterio che sostanziale (recepito dalla giurisprudenza assolutamente
prevalente), il potere normativo dell’Amministrazione si distingue da quello
provvedimentale per essere caratterizzato dalla natura astratta e generale delle relative
disposizioni, in quanto tali innovative dell’ordinamento giuridico, a differenza della natura
concreta e particolare tipica dei provvedimenti amministrativi (sul punto, Cons. Stato, VI, n.
6411/2011).
In questa prospettiva si è affermato, in particolare, che gli atti amministrativi generali non
normativi secondi sono espressione di una mera potestà amministrativa, risultano funzionali
alla cura concreta di interessi pubblici e sono destinati ad una pluralità di soggetti non
necessariamente determinati nel provvedimento, ma comunque determinabili a posteriori.
In particolate, con sentenza n. 9/2012, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito
che, al fine di ritenere la natura normativa di un atto dell’Amministrazione, non è affatto
necessario che lo stesso si indirizzi indistintamente a tutti i consociati. L’ordinamento,
infatti, conosce innumerevoli casi di disposizioni “settoriali” della cui natura normativa
nessuno dubita. Ciò in quanto la “generalità” e l’“astrattezza” che, come comunemente si
riconosce, contraddistinguono la “norma”, non possono e non devono essere intesi nel senso
dell’applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell’ordinamento, ma, più correttamente,
come idoneità alla ripetizione nell’applicazione (generalità) e come capacità di regolare una
serie indefinita di casi (astrattezza).
Il carattere normativo di un atto non può, pertanto, essere disconosciuto solo perché si
applica esclusivamente agli operatori di un dato settore, dovendosi, al contrario, verificare,
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se in quel settore l’atto sia comunque dotato dei sopradescritti requisiti della generalità e
dell’astrattezza.
In relazione a tale profilo il Consiglio di Stato ha richiamato l’elaborazione
giurisprudenziale che ormai da tempo, proprio al fine di distinguere tra atto normativo e atto
amministrativo generale, utilizza il requisito dell’indeterminabilità dei destinatari, rilevando
che è atto normativo quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori
(essendo proprio questa la conseguenza della generalità e dell’astrattezza), mentre l’atto
amministrativo generale si riferisce a destinatari indeterminabili a priori, ma certamente
determinabili a posteriori in quanto esso è destinato a regolare non una serie indeterminata
di casi, ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare, una vicenda
determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti.
Il bando di una gara o quello di un concorso pubblico, ad esempio, contengono disposizioni
che si riferiscono a destinatari non determinabili a priori (non essendo inizialmente noto chi
parteciperà alla gara o al concorso), ma determinabili a posteriori, in quanto l’efficacia di
tali disposizioni è destinata a esaurirsi nell’ambito di quello specifico procedimento, per cui
al suo esito sarà possibile stabilire in modo puntuale quali e quanti soggetti
dell’ordinamento, avendo partecipato alla gara o al concorso, saranno stati destinatari delle
specifiche previsioni contenute nella lex specialis di quel procedimento.
Presenta, invece, natura normativa la disposizione che, per quanto riferita a una specifica
categoria di soggetti, non consenta la loro concreta determinazione né a priori né a
posteriori.
Quanto all’impossibilità di una identificazione ex post dei destinatari della previsione,
occorre tuttavia formulare qualche precisazione. In realtà, una volta che la disposizione
normativa perde la sua efficacia (perché abrogata, annullata, per lo spirare del termine finale
in essa contemplato, ecc.), l’individuazione dei soggetti destinatari della disposizione risulta,
in linea di principio, possibile.
Ad esempio, l’art. 171, co. 2, c.c. dispone il prolungamento degli effetti del fondo
patrimoniale in caso di scioglimento del matrimonio fino al compimento della maggiore età
dell’ultimo dei figli minori. Se tale disposizione, per qualsiasi ragione, dovesse perdere
efficacia, sarebbe astrattamente possibile (quantunque estremamente difficoltoso da un
punto di vista pratico) stabilire in quali e quanti casi la stessa abbia ricevuto applicazione e
identificare, pertanto, ex post l’esatto numero dei suoi destinatari. Nessuno dubita, però, che
l’art. 171, co. 2, c.c. sia una previsione normativa generale e astratta.
Ciò induce a ritenere che la distinzione fra atti normativi e atti amministrativi generali a
contenuto non normativo merita di essere ulteriormente precisata, nel senso che (Cons.
Stato, IV, n. 3675/2013):
- l’atto amministrativo generale non normativo è destinato a disciplinare ex ante una
specifica fattispecie concreta o una particolare vicenda procedimentale (una gara, un
concorso pubblico, ecc.);
- l’atto normativo, nonostante l’eventuale specificità e settorialità del suo contenuto, non fa
mai riferimento a particolari e puntuali fattispecie concrete o a una particolare vicenda
procedimentale.
Rimane, ovviamente, salva l’ipotesi delle leggi-provvedimento e dei regolamenti-
provvedimento, cioè dei casi in cui il legislatore o l’Amministrazione ritengano di fare uso
dei loro poteri normativi non per dettare discipline generali e astratte, ma per intervenire su
fattispecie concrete e puntuali, attribuendo, quindi, ad una statuizione sostanzialmente
amministrativa il regime giuridico formale e gli effetti propri degli atti di normazione
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primaria o secondaria (nei limiti in cui l’esercizio di tale potere non determini l’eventuale
illegittimità - rispetto al parametro legislativo o costituzionale - della statuizione
regolamentare o legislativa che è stata adottata).

1.3. Le ordinanze di necessità e urgenza. La presenza di situazioni di necessità consente


alla PA di adottare provvedimenti che derogano alle disposizioni contenute in altre fonti
normative, normalmente le leggi ordinarie.
Le ordinanze di necessità e urgenza derivano dal conferimento ad alcuni organi
amministrativi (statali, regionali e locali) del potere di adottare, in determinate materie,
ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie, di igiene pubblica o
comunque di grave pericolo per l’incolumità ai cittadini. La caratteristica tipica di questi atti
è quella di poter derogare anche alle prescrizioni legislative vigenti, con l’unico limite
rappresentato dai principi generali dell’ordinamento.
La legittimità di questi atti viene fatta risalire a un’espressa manifestazione di volontà in tal
senso del legislatore, che potrebbe appunto autorizzare gli organi amministrativi, in casi di
assoluta necessità, a derogare temporaneamente alle disposizioni dotate di forza di legge (un
fenomeno, quindi, in parte assimilabile alla delegificazione).
Ancora più difficilmente giustificabili appaiono disposizioni che permettono a singoli organi
o dirigenti pubblici di poter derogare a norme di legge (si veda, ad esempio, l’art. 18 del
D.L. 90/2008, relativo alla emergenza nello smaltimento dei rifiuti; ma negli anni più recenti
disposizioni analoghe sono state estese ai settori più diversi, al di fuori di ogni urgente
necessità).
Quanto detto finora si riferisce alla rilevanza che la necessità assume nell’ambito delle
disposizioni costituzionali e legislative che ad esse fanno riferimento, ma, al tempo stesso, la
necessità può essere anche un fatto normativo, che produce i suoi effetti al di fuori delle
stesse regole costituzionali o legislative (si pensi, ad es., ai comportamenti collegati ad un
processo rivoluzionario, ad una disfatta militare, ad un gravissimo evento naturale): casi del
genere non possono, per definizione, essere disciplinati e, ove si manifestino, dal punto di
vista dell’analisi giuridica, si tratterà semplicemente di verificare, sulla base delle vicende
reali intervenute e della reazioni successivamente prodottesi, se l’ordinamento è stato in
grado di superarli o se ne è stato modificato o addirittura travolto.
A titolo di esempio si segnala l’art. 54, co. 4, D.Lgs. 267/2000 (Testo unico enti locali), che
autorizza il sindaco - o l’assessore che lo sostituisce (co. 8) - ad adottare ordinanze di
necessità e urgenza, provvedimenti che devono necessariamente essere dotati di forma
scritta e di un’adeguata motivazione.
Si tratta di requisiti richiesti, in via generale, per tutti gli atti amministrativi dalla L.
241/1990 e, a maggior ragione, per i provvedimenti contingibili e urgenti, stante la loro
attitudine a derogare alle leggi.
La motivazione di tali atti deve indicare le ragioni dell’eccezionale situazione di necessità
e urgenza. Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, il potere esercitabile
dal sindaco ai sensi del citato art. 54 presuppone una situazione di pericolo effettivo - da
esternare con congrua motivazione - che non possa essere affrontata con nessun altro tipo di
provvedimento, e può essere utilizzato per risolvere una situazione temporanea e mai per
esigenze prevedibili e ordinarie.
Su questo aspetto si è pronunciata anche Corte cost. 115/2011, che ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 54, co. 4, D.Lgs. 267/2000 nella parte in cui consentiva al
sindaco, quale ufficiale del governo, di adottare provvedimenti a contenuto normativo ed
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efficacia a tempo indeterminato, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli per la
sicurezza urbana, anche fuori dai casi di contingibilità e urgenza.
Il legislatore, per consentire all’amministrazione di fare fronte a situazioni non prevedibili
né tipizzabili, non precisa quali siano gli elementi (contenuti, presupposti diversi, oggetto)
del provvedimento, limitandosi ad attribuire il potere di adottare le misure adeguate o
necessarie e prevede una deviazione rispetto al principio di tipicità, accentuata dal fatto che
spesso i provvedimenti di tale tipo possono derogare alla disciplina vigente e sono
normalmente suscettibili di esecuzione forzata.
Tra i limiti a tale pure consentita deviazione esiste, oltre il limite del rispetto dei principi
generali dell’ordinamento, l’urgenza e la provvisorietà, anche la natura residuale dei
provvedimenti in questione, cioè la mancanza di altri poteri tipici (Cons. Stato, V,
868/2010).

1.4. Gli statuti delle Regioni e degli enti locali. Gli statuti delle Regioni sono gli atti che
disciplinano, in armonia con i principi costituzionali, la forma di governo e i principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento.
Lo statuto è approvato dal consiglio regionale a maggioranza assoluta dei componenti del
consiglio e con due deliberazioni successive adottate a intervallo non minore di due mesi
(art. 123 Cost.).
L’art. 121 Cost. individua gli organi fondamentali della Regione (Consiglio regionale,
Giunta e Presidente) e ne disciplina le funzioni, e attribuisce alle Regioni la potestà
legislativa su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (art. 117,
co. 4).
Invece, gli statuti delle Regioni ad autonomia speciale, deliberati dai consigli regionali,
sono stati approvati con legge costituzionale del Parlamento e sono, sul piano formale,
fonti sovraordinate agli statuti delle regioni perché hanno il rango delle leggi costituzionali,
mentre sul piano sostanziale sono espressione di un’autonomia minore perché la legge
regionale deve essere approvata dal Parlamento con la procedura prevista dall’art. 138 Cost.
Anche gli enti locali (Province e Comuni) hanno propri statuti (art. 114, co. 2, Cost.), i quali
costituiscono espressione dell’autonomia dell’ente.
Lo statuto stabilisce (art.6, D.Lgs. 267/2000):
- le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le
attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipatone delle minoranze, i modi di
esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio;
- i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente, le forme di collaborazione fra
comuni e province, della partecipatone popolare, del decentramento, dell’accesso dei
cittadini, alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, lo stemma e il gonfalone e
quanto ulteriormente previsto dal D.Lgs. 267/2000 (Testo unico sugli enti locali).

1.5. Alzando lo sguardo: le norme europee. Le fonti del diritto dell’Unione europea sono
di tre tipi: le fonti primarie, le fonti derivate e le fonti complementari.
Le fonti primarie comprendono i trattati istitutivi, ovvero il trattato sull’Unione europea
(Tue) e il trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue).
Questi trattati definiscono il quadro al cui interno le istituzioni pongono in essere le varie
politiche delle istituzioni europee, fissano la ripartizione delle competenze fra l’Unione e gli
Stati membri, nonché i poteri delle istituzioni e definiscono la sfera di applicazione delle
politiche europee.
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Il diritto primario, costituito appunto dalle fonti primarie, prevale su qualsiasi altra fonte del
diritto e la Corte di giustizia fa rispettare questa supremazia attraverso varie forme di
ricorso, come il ricorso per annullamento (art. 263 Tfue) e la richiesta di pronuncia in via
pregiudiziale (art. 267 Tfue).
Il diritto derivato, invece, è composto dagli atti unilaterali e dagli atti convenzionali.
Gli atti unilaterali possono essere classificati in due categorie: gli atti menzionati all’art.
288 Tfue, ossia il regolamento, la direttiva, la decisione, i pareri e le raccomandazioni, e gli
atti atipici, come le comunicazioni, le raccomandazioni, i libri bianchi e i libri verdi.
Tra le fonti del diritto derivato assumono un rilievo centrale le direttive.
Ai sensi dell’art. 288 Tfue le direttive sono obbligatorie in tutti i loro elementi, e quindi non
possono essere applicate in modo incompleto, selettivo o parziale.
Come i regolamenti e le decisioni sono vincolanti per gli Stati membri in ordine al fine da
realizzare. Tuttavia, a differenza del regolamento, che si applica nel diritto interno degli
Stati membri direttamente dopo la sua entrata in vigore, la direttiva deve prima essere
recepita dagli Stati membri. Pertanto, la direttiva non prescrive le modalità per raggiungere
il risultato. Essa introduce un obbligo in termini di risultato agli Stati membri, che possono
scegliere liberamente le forme e i mezzi per applicare la direttiva
La direttiva inoltre si distingue dalla decisione perché il suo testo ha una portata generale
destinata a tutti gli Stati membri.
Gli atti convenzionali, rientranti anch’essi tra le fonti derivate del diritto europeo,
comprendono gli accordi internazionali tra l’Unione europea e un paese terzo o
un’organizzazione terza, gli accordi tra Stati membri e gli accordi tra le istituzioni dell’UE.
Infine, il diritto complementare è costituito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia,
dal diritto internazionale e dai principi generali del diritto, che consentono alla Corte di
colmare i vuoti lasciati dal diritto primario o derivato.

1.6. Conflitti tra fonti interne e fonti europee. Dopo aver delineato brevemente il quadro
generale delle fonti del diritto amministrativo, occorre soffermarsi su una delle questioni più
rilevanti, ossia sulle regole che governano i rapporti tra fonti nazionali e fonti europee.
Due sono i principi, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, preordinati alla soluzione dei
conflitti tra fonti interne e fonti europee:
- l’efficacia diretta del diritto europeo;
- il primato del diritto europeo.
Gli effetti diretti del diritto europeo nei confronti dei singoli sono riconosciuti, ad esempio, a
molte disposizioni contenute nei trattati istitutivi e alle direttive che impongano agli Stati
membri obblighi sufficientemente chiari e precisi (direttive dettagliate, autoesecutive o
self executing), chiariscano il contenuto di obblighi già previsti dal trattato o pongano a
carico degli Stati obblighi di astensione dall’approvare determinati atti o dal compiere
specifiche azioni.
Con riferimento a questa tipologia di direttive, in caso di mancato recepimento della
direttiva l’efficacia diretta riguarda i rapporti tra lo Stato e i cittadini (effetto verticale),
cosicché, decorso inutilmente il termine fissato per l’attuazione della direttiva, il singolo può
agire davanti al giudice nazionale per chiedere la tutela dei diritti precisi e incondizionati
che derivano dalla direttiva; ciò vale non soltanto nell’ipotesi di omessa trasposizione della
direttiva ma anche nell’ipotesi in cui la direttiva sia stata scorrettamente trasposta (Corte
giust. 5-2-1963, Caso Vari Gend Loos, C-26/62).

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La Corte di giustizia, invece, esclude ogni effetto orizzontale della direttiva autoesecutiva,
ossia ogni efficacia dell’atto nei rapporti interprivati.
È stato inoltre affermato che, in materia di direttive non autoesecutive, lo Stato membro che
non abbia emanato i necessari provvedimenti attuativi incorre in una responsabilità
risarcitoria, essendo obbligato alla riparazione del danno da ciò derivato al singolo, persona
fisica o giuridica; a tal fine è necessario che si verifichino determinate condizioni, ossia che
la direttiva preveda l’attribuzione di diritti ai singoli, che tali diritti possano essere
individuati in base alle disposizioni della direttiva, che la violazione sia manifesta e
grave e ricorra un nesso causale diretto tra violazione e danno subito (Corte giust. 19-11-
1991, Caso Francovich e Bonifaci; Corte giust. 5-10-2004, Pfeiffer, cause riunite da
C397/01 a C-403/01, in cui si legge che “risulta da una costante giurisprudenza della Corte
che, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista
sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi
ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia recepito
tempestivamente la direttiva sia che l’abbia recepita in modo non corretto”; la Cassazione,
dopo un’iniziale opposizione, si è adeguata alla giurisprudenza europea, in particolare con la
sentenza 7630/2003).
Solo in presenza dell’effetto diretto opera il meccanismo della disapplicazione (non
applicazione) della norma interna incompatibile, cosicché gli organi dello Stato - non solo il
giudice ma qualsiasi funzionario pubblico - hanno il dovere di fare riferimento alla fonte
europea quale regola applicabile alla fattispecie concreta (Corte giust. 9-3-1978, Caso
Simmenthal, C-106/77, chiarisce che “in forza del principio della preminenza del diritto
comunitario, le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano
direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati
membri, non solo di rendere inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore,
qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche di
impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi
fossero incompatibili con norme comunitarie; l’orientamento è stato recepito dalla Corte
costituzionale, nella sentenza 170/1984, c.d. sentenza Granital, che, con riferimento ai
regolamenti comunitari, precisa che l’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello,
non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile,
bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia
innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto
dall’abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme
all’interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti”).
Dunque, in casi del genere, il giudice disapplica la norma interna con effetti limitati al
caso concreto, potendo la sua rimozione avvenire solo ad opera di una legge successiva o di
una declaratoria di incostituzionalità.
Si è poi, individuato l’obbligo di interpretazione conforme delle norme nazionali, ossia
l’obbligo di procedere a un’interpretazione delle stesse il più possibile conforme con il
diritto europeo, ispirandosi al testo e alle finalità dell’atto in rapporto allo scopo anche
quando questo sia sprovvisto di efficacia diretta (Corte giust. 10-4-1984, Von Colson, causa
14/83; 13-11-1990, Marleasing, causa C-106/89).
In caso di interpretazione conforme il giudice nazionale applica la norma interna interpretata
alla luce di quanto disposto dalla normativa europea.
A fronte del contrasto tra normativa interna e fonte europea (priva di effetti diretti) al
giudice di merito non resta altra strada che quella di sollevare l’incidente di
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costituzionalità: in virtù del richiamo ex art. 117 Cost. al rispetto, oltreché della
Costituzione e degli obblighi internazionali, dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo
nell’esercizio della potestà legislativa statale e regionale, la direttiva europea diventa
parametro per la valutazione di costituzionalità del precetto interno.

1.7. Risarcimento del danno per mancata attuazione delle direttive europee. Abbiamo
visto che la mancata attuazione delle direttive europee può far scattare la responsabilità
risarcitoria dello Stato inadempiente.
A questo proposito, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato i seguenti principi:
- in caso di omessa o tardiva trasposizione, da parte del legislatore italiano, delle direttive
europee, sorge - conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia - il
diritto degli interessati al risarcimento dei danni, che va ricondotto - anche a prescindere
dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione
risarcitoria - allo schema della responsabilità da atto lecito (l’inadempimento dell’obbligo
di recepimento da parte dello Stato), dovendosi ritenere che la condotta dello Stato
inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento
europeo ma non alla stregua dell’ordinamento interno;
- il risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del
dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno,
in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione per la perdita subita a
causa del ritardo;
- la pretesa risarcitoria è assoggettata, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione
ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine
decennale di prescrizione.
L’idoneità dell’inadempimento dello Stato a produrre l’obbligazione risarcitoria discende
direttamente dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, manifestatasi per la prima
volta con la nota sentenza Francovich (Corte di giustizia 19-11-1991, cause riunite C-6/90
e C-9-90), poi confermata dalla sentenza Factortame (Corte di giustizia 5-3-1996, cause
riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame). In forza della necessità di
riconoscere sul piano dell’ordinamento interno i dicta della Corte di giustizia,
l’inadempimento del legislatore italiano all’attuazione di una direttiva che riconosca in
modo specifico determinati diritti ai singoli si connota, anche sul piano dell’ordinamento
interno, come fatto generatore di un’obbligazione risarcitoria.
La giurisprudenza della Corte di giustizia cui si è appena fatto riferimento esige che
l’obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata al requisito della colpa, il che
di regola è, invece, necessario nell’illecito ex art. 2043 c.c.
Deve quindi escludersi che l’obbligazione risarcitoria per inadempimento della direttiva,
così come configurata dalla Corte di giustizia, sia riconducibile nell’ambito dell’art. 2043
c.c.
Piuttosto, la responsabilità dello Stato per l’inadempimento di una direttiva comunitaria che
riconosca in modo sufficientemente specifico un diritto, ma non sia self-executing, dà luogo
a una fattispecie di responsabilità contrattuale, intesa in senso ampio, ovvero non nel
senso di una responsabilità da contratto, il che sarebbe nella specie fuori luogo, ma nel senso
di una responsabilità che non nasce da un fatto illecito alla stregua dell’art. 2043 ss. c.c. ma
è ricollegata alla violazione di un obbligo precedente (l’obbligo di recepimento della
direttiva).

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La qualificazione della responsabilità di cui si discorre come contrattuale ha come
conseguenza che la disciplina della prescrizione è quella decennale.
Alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia - e, in particolare, della sentenza della
grande sezione 14-3-2009, causa C-445/06, Danske Slagterier, - il termine di prescrizione
decorre dalla data in cui i primi effetti lesivi della omessa o scorretta trasposizione si
sono verificati e ne siano prevedibili altri; questa data può anche essere antecedente alla
corretta trasposizione della direttiva stessa, a condizione che il danno per gli aventi diritto si
sia verificato, anche solo in parte, anteriormente alla trasposizione stessa (Cass.
10813/2011).

2. Il principio di legalità amministrativa

2.1. La legalità, fortino dei diritti. Il principio di legalità, inteso come sottoposizione di
tutti i pubblici poteri alla legge, immanente a ogni ordinamento democratico e
positivizzato nel sistema costituzionale (Corte cost. 115/2011), ha storicamente, come
funzione fondamentale, quella di tutelare il singolo rispetto alle prerogative del potere
esecutivo e dell’amministrazione.
Tale funzione primaria del principio di legalità è stata rafforzata con l’entrata in vigore della
Carta costituzionale, di tipo rigido, che prevede molteplici riserve di legge a tutela delle
libertà fondamentali, in ragione della necessità di evitare che la stessa legge derogasse a sé
stessa attribuendo poteri atipici agli organi dell’amministrazione o consentendo una simile
attribuzione da parte delle fonti secondarie prodotte dal potere esecutivo.
In virtù del principio di legalità, la pubblica amministrazione è titolare esclusivamente dei
poteri conferiti in modo non equivoco da specifiche disposizioni che attribuiscono,
regolano e limitano il relativo potere (Corte cost. 32/2009).
Particolare rilevanza è attribuita, dalla Costituzione, alla tutela della persona in quanto tale,
cioè come valore in sé e alla cui tutela è preordinato l’intero ordinamento giuridico. La
prima parte della Carta fondamentale è inderogabile in peius, anche attraverso lo strumento
della revisione costituzionale, in quanto è volta a tutelare e garantire i diritti inviolabili
dell’uomo che la Repubblica riconosce come già esistenti ai sensi dell’art. 2 Cost.
In particolare, la giurisprudenza, con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, ha
specificato che “nel nostro ordinamento si rinvengono a fronte di situazioni soggettive a
nucleo variabile - in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della pubblica
amministrazione capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli
interessi coinvolti) i diritti a interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a
diritti - posizioni soggettive a nucleo rigido, rinvenibili unicamente in presenza di quei
diritti, qual è quello alla salute, che - in ragione della loro dimensione costituzionale e della
loro stretta inerenza a valori primari della persona - non possono essere definitivamente
sacrificati o compromessi, sicché quando si prospettano motivi di urgenza suscettibili di
esporli a pregiudizi gravi e irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi
potere discrezionale di incidere su tali diritti, non essendo ad essa riservato se non il potere
di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa
avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello
spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata (Cass. S.U.
17461/2006).

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I diritti umani fondamentali godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e non possono essere degradati a interesse
legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale
può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione
umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli
interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore
(Cass. S.U. 19393/2009).
Pertanto, a fronte di tali diritti non è ammissibile alcuna normativa di rango primario o
secondario che sacrifichi definitivamente l’uno a scapito dell’altro, essendo necessario,
appunto, un bilanciamento e contemperamento che determini una mera compressione
temporanea e non la soppressione di un interesse costituzionale in favore dell’altro, con
conseguente piena riespansione del bene costituzionale una volta che sia cessata l’esigenza
contingente della sua temporanea limitazione (Corte cost. 200/2005).
Nell’ambito dei diritti fondamentali della persona rientrano certamente il diritto alla libertà
personale e morale, quale possibilità di piena esplicazione della propria personalità in tutti
gli aspetti della vita di relazione come sancito dall’art. 13 Cost., letto in coerenza con l’art. 2
della Carta e con i successivi art. 18, 19, 21 e 24, nonché con l’art. 1 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea secondo cui la dignità umana è inviolabile e deve essere
rispettata e tutelata;
La Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, a conferma di quanto già presente nella
Costituzione italiana, ribadisce il diritto alla libertà, senza peraltro far seguire la dicitura
personale e quindi da interpretarsi nel senso più ampio possibile come diritto
all’autodeterminazione.
Il fondamento personalistico dell’ordinamento trova conferma negli art. 7 e 8 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Ue, che sanciscono il diritto di ogni persona al rispetto della propria
vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni, nonché alla
protezione dei dati di carattere personale.
Quindi, è evidente come ad essere tutelata sia la persona non solo con riferimento al
domicilio, alla riservatezza delle comunicazioni ma con riferimento alla sua intera
dimensione privata come concretamente si articola nella quotidianità e ciò in applicazione
dei principî di rispetto della dignità umana e di libertà: non può esservi, infatti, né dignità, né
libertà ove non vi sia protezione e piena autonomia delle proprie scelte quotidiane che si
svolgano all’interno della legalità, autonomia che comporta ovviamente il non dover
giustificarsi delle proprie scelte se non in casi di assoluta eccezionalità e in presenza di
circostanze specifiche, concrete e determinate;
Un altro principio fondamentale, di derivazione europea, è il principio di proporzionalità,
che vieta alla PA di sacrificare la sfera giuridica dei privati al di là di quanto sia strettamente
necessario per il raggiungimento dell’interesse generale perseguito; quindi, nell’azione
amministrativa deve esserci proporzione tra mezzi e fini perseguiti. Tale principio, che
costituisce oramai ius receptum nella giurisprudenza europea e interna (Corte giust. 27-11-
2012, causa C-566/10; 22-12-2010, causa C-279/09; Corte europea diritti dell’uomo 10-11-
2005, Leyla Sahin; Cass. 11133/2006; Cons. Stato 1471/2012), con riferimento al rapporto
esistente tra tutela degli interessi generali e dei privati impone che ogni interferenza del
pubblico potere risponda a un giusto equilibrio tra i requisiti dell’interesse generale della
collettività e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In
particolare, deve esistere un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e il
fine perseguito da ogni provvedimento (Corte eur. diritti dell’uomo 20-11-1995, n. 332).
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2.2. La pericolosa deriva dei poteri impliciti. In alcuni casi l’ordinamento attribuisce alla
PA “poteri impliciti”, rispetto ai quali cioè manca un’espressa previsione di legge.
Secondo l’opinione della dottrina più autorevole, l’uso del potere implicito da parte
dell’Amministrazione non è esente da limiti, enucleabili anch’essi dai principi generali,
primo fra tutti il principio di legalità e di tipicità dei provvedimenti amministrativi
autoritativi.
In tal senso si è affermato che il “potere provvedimentale implicito” va progressivamente
assumendo, nel nostro ordinamento, carattere recessivo, anche e soprattutto all’indomani
della riforma del 2005 che, intervenendo sulla legge n. 241 del 1990, ha positivamente
“codificato” istituti che per lungo tempo erano relegati per l’appunto alla sfera dei poteri
impliciti (si pensi, ad esempio, ai poteri di autotutela nella forma della revoca e
dell’annullamento, al potere di convalida, al potere di sospensione dell’atto, oppure al
carattere dell’esecutorietà).
Per “provvedimento implicito” si intende quel provvedimento amministrativo non previsto
da alcuna norma di legge (o di regolamento, se si segue la tesi per cui il principio di legalità
e tipicità può essere inverato, nelle materie non riservate alla legge, da regolamenti). Il
potere provvedimentale implicito deve di regola misurarsi con il principio di tipicità, inteso
quale connessione fissata dalla normativa tra gli elementi dell’atto e la predeterminazione
degli effetti che esso può produrre. La tipicità implica che la legge, nell’attribuire
all’Amministrazione quel potere, deve stabilirne i presupposti, il procedimento, gli effetti, e
dunque stabilirne la funzione specifica.
Il fondamento della tipicità, secondo tale dottrina, va ravvisato negli stessi principi
costituzionali relativi allo svolgimento dell’attività amministrativa: per i provvedimenti
destinati ad incidere sfavorevolmente nella sfera giuridica dei destinatari, è il principio di
legalità a fondare la regola della tipicità.
La tipicità comporta quindi che le varie categorie di provvedimenti siano identificate dalle
norme disciplinatrici dei relativi poteri e non rimesse all’autonomia dell’Autorità
amministrativa.
In tale ricostruzione il principio di tipicità non comporta tuttavia l’esclusione assoluta di
ogni potere implicito: l’attribuzione di tale potere deve semmai essere ricavata non più dal
criterio finalistico proprio dell’amministrare per risultati ma dal sistema normativo di
garanzie in cui questo potere si radica.
Rientrano nei poteri impliciti, ad esempio, quelli spettanti all’Autorità vigilante nei
confronti degli organi dell’ente soggetto a vigilanza, di cui può disporre la revoca e il
commissariamento, al fine di assicurare la continuità di gestione e il regolare funzionamento
dell’ente.
Rispetto ai poteri spettanti alle Amministrazioni vigilanti si registra, nella dottrina e nella
giurisprudenza, una crescente sensibilità verso l’autonomia degli enti di diritto pubblico, con
l’affermarsi di una netta distinzione tra “vigilanza” e “gerarchia”.
La vigilanza rientra nell’ambito delle possibili formule organizzatorie, differenziandosi, in
particolare, dalla gerarchia: il concetto di vigilanza implica infatti un rapporto
organizzatorio diverso e più tenue del rapporto gerarchico, che deve essere inteso come
potere strumentale al corretto esercizio della funzione in quella determinata materia stabilita
dalla legge e non è caratterizzata dal controllo su un’attività amministrativa già svolta,
ponendosi piuttosto come indirizzo all’attività da svolgersi (Cons. Stato, sez. IV, n.
5317/2006).
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La dottrina ha inoltre evidenziato che, una volta venuta meno la concezione di uno Stato-
soggetto in posizione di sovraordinazione generale su tutti gli enti pubblici, l’istituto della
vigilanza ha perso la sua compattezza, dovendo fare i conti, volta per volta, con un variegato
diritto positivo.
Con specifico riferimento alla vigilanza sulle Autorità portuali, al Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti compete la nomina del presidente dell’Autorità portuale. L’art. 8
L. 84/1994, richiedendo l’intesa con la Regione interessata, esige che la nomina del
Presidente sia frutto di una codeterminazione del Ministro e della Regione, quale forma di
attuazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e la Regione, con la conseguenza
che il mancato raggiungimento dell’intesa prevista dalla norma costituisce un ostacolo
insuperabile alla conclusione del procedimento.

3. Struttura e tutela dell’interesse legittimo

3.1. La nozione di interesse legittimo. Mutuando la definizione puntuale di Salvatore


Giacchetti, l’interesse legittimo è il potere di pretendere un’utilità derivante dal
legittimo esercizio di una potestà.
Il titolare dell’interesse legittimo può essere un soggetto privato, un soggetto pubblico (ad
esempio, un’amministrazione diversa da quella che deve esercitare la potestà) o un soggetto
“sociale” (un’associazione sindacale, ambientalista, ecc.).
Il potere del privato di pretendere una determinata utilità dalla PA può sussistere soltanto a
fronte di una potestà in senso tecnico, e cioè di un’attività doverosa sia sotto il profilo
soggettivo (nel senso che la pretesa del privato deve essere ammissibile e ricevibile dalla
PA) sia sotto il profilo oggettivo (l’attività richiesta alla PA deve rientrare tra le attribuzioni
del titolare della potestà e deve costituire il frutto dell’esercizio di tale potestà). Se l’attività
non ha carattere di doverosità, sotto l’uno o l’altro profilo, la pretesa azionata non costituisce
interesse legittimo.
Inoltre, il potere del privato può essere indirizzato all’attivazione della potestà (interesse
pretensivo), all’intervento nel procedimento (interesse partecipativo), all’impugnazione del
provvedimento lesivo (interesse oppositivo), all’esecuzione del giudicato favorevole (ancora
interesse pretensivo).
L’esercizio della potestà amministrativa può manifestarsi con un formale provvedimento
amministrativo ma può anche consistere in un mero comportamento materiale.
Il potere di pretendere l’esercizio della potestà preesiste - ovviamente - a quest’ultimo.
Pertanto, l’interesse legittimo ha natura sostanziale ed esiste indipendentemente dalla
circostanza che sia fatto valere o meno in sede procedimentale o giurisdizionale.
L’esercizio della potestà deve costituire manifestazione istituzionale e diretta di cura di un
interesse pubblico. Resta quindi estranea a tale attività quella resa dallo stesso soggetto ma
per il perseguimento di un interesse privato (come accade, ad esempio, per la cosiddetta
attività privata della pubblica amministrazione).
Inoltre, l’interesse legittimo è:
- “personale” in quanto fa capo solo al soggetto che se ne afferma titolare, non è trasferibile
né è consentito al soggetto ampliarne o modificarne l’ambito di titolarità (inter
vivos o mortis causa). La “personalità” dell’interesse legittimo, che ne determina
l’“intrasferibilità”, definisce anche il confine stesso della posizione tutelabile e, dunque, ove
ne ricorrano i presupposti, “risarcibile”. In altre parole, se non è possibile ipotizzare una
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“circolazione” della posizione di interesse legittimo, non è possibile ipotizzare neanche la
circolazione delle forme di tutela del medesimo, con il connesso potere di agire in giudizio;
- “diretto”, in quanto il suo titolare si trova in una relazione di immediata inerenza con
l’esercizio del potere amministrativo;
- “attuale”, caratteristica che attiene alla sua proiezione processuale, all’esigenza di tutela
per effetto di un atto concreto di esercizio di potere che renda necessaria l’azione in
giudizio.

3.2. Conformazione e tutela dell’interesse legittimo alla luce della giurisprudenza più
recente. L’interesse legittimo, dunque, costituisce una posizione sostanziale che esprime
l’interesse del titolare a un bene della vita, cioè a ottenere una determinata utilità
dipendente dall’esercizio del potere della P.A. (Corte cost. 204/2004).
La Costituzione assicura (art. 24) il diritto alla tutela giurisdizionale per i diritti soggettivi e
per gli interessi legittimi, ribadendo (art. 113) che tale tutela giurisdizionale è
tendenzialmente piena e incondizionata, essendo “sempre ammessa” (co. 1) e non potendo
“essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per particolari categorie di
atti” (co. 2).
Perciò, il titolare dell’interesse legittimo può agire in giudizio per tutelare il proprio
interesse da una compressione illegittima derivante dal provvedimento stesso (interesse
legittimo oppositivo, in quanto si oppone a una compressione illegittima dell’interesse) o, al
contrario, per far valere il proprio interesse a fronte di un provvedimento che non lo ha
riconosciuto (interesse legittimo pretensivo, in quanto pretende l’ottenimento di un’utilità).
Ciò che caratterizza l’interesse legittimo e che costituisce la differenza essenziale dal diritto
soggettivo è la sua inerenza all’esercizio del potere amministrativo: l’interesse legittimo
non è percepibile sul piano “statico”, senza che la pubblica amministrazione abbia esercitato
o negato di esercitare, nei confronti del soggetto, il potere del quale essa è titolare. È proprio
questa relazione “dinamica”, questa percezione dell’interesse legittimo come posizione volta
alla verifica del legittimo esercizio del potere amministrativo, con finalità di conservazione o
di acquisizione di utilità giuridicamente rilevanti al proprio patrimonio giuridico, che ha
fatto spesso dubitare della sua natura sostanziale, essendosi talora ritenuto che essa si risolva
in una sorta di legittimazione a ricorrere contro il provvedimento illegittimo.
La posizione dell’interesse legittimo presuppone necessariamente una relazione tra un
soggetto che intende ottenere una determinata utilità (un “bene della vita”) e la
pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere ad essa attribuito dall’ordinamento.
Tale relazione, esaminata dalla posizione del privato, può essere:
- volta a neutralizzare l’esercizio del potere amministrativo, a tutela di un patrimonio
giuridico già esistente che verrebbe compresso dall’esercizio del potere amministrativo
medesimo (situazione nella quale ricorre l’interesse legittimo oppositivo e nell’ambito della
quale la definizione di “bene della vita”, estremamente affine a quella di “bene” ex art. 810
c.c., non è suscettibile di determinare perplessità o fraintendimenti);
- volta a ottenere l’esercizio del potere amministrativo negato dall’amministrazione,
attraverso il quale si intende conseguire un ampliamento del proprio patrimonio giuridico
(situazione nella quale ricorre l’interesse legittimo pretensivo).
In entrambe le ipotesi esiste un rapporto diretto e immediato tra l’esercizio del potere
amministrativo e l’interesse all’esercizio del potere medesimo. Tale relazione diretta si
concretizza nel fatto che il provvedimento amministrativo e suoi effetti interessano

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direttamente il patrimonio giuridico di un determinato soggetto, in senso compressivo o
ampliativo.
Il primo riflesso di tale relazione diretta e immediata è la partecipazione procedimentale,
la possibilità, cioè, di partecipare alla costruzione delle determinazioni della pubblica
amministrazione.
Proprio in virtù della relazione diretta e immediata che deve intercorrere tra potere
amministrativo e posizioni di interesse legittimo, l’art. 7 L. 241/1990 individua i soggetti i
quali, in quanto titolari di determinate posizioni che saranno interessate dal provvedimento
finale, devono essere destinatari della comunicazione di avvio del procedimento, per essere
messi in condizione di partecipare svolgendo attività riconducibili a una forma di tutela
anticipata e “procedimentale” della propria posizione giuridica.
Ulteriore riflesso della relazione diretta e immediata tra il soggetto titolare dell’interesse
legittimo e la pubblica amministrazione è rappresentato dal potere di agire in giudizio per
la tutela del proprio interesse legittimo compromesso dall’esercizio o dal mancato esercizio
(provvedimento negativo) del potere amministrativo.
Il giudizio amministrativo, nella sua forma di giudizio impugnatorio di atti, tende ad
assicurare, al soggetto leso, un vantaggio che, attraverso l’eliminazione del provvedimento
lesivo, consiste nel recuperare la pienezza del proprio patrimonio giuridico (quando si
agisce per la tutela di un interesse legittimo oppositivo) o nel conseguire, attraverso
l’esercizio del potere amministrativo, un ampliamento del proprio patrimonio
giuridico (quando si agisce a tutela di un interesse legittimo pretensivo).

3.3. Il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo. Considerazioni ulteriori


devono essere sviluppate per la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo.
Tale forma di tutela, oggi riconosciuta dal Codice del processo amministrativo (artt. 7 e 30),
è stata ritenuta da Corte cost. 204/2004 non già come una nuova materia attribuita alla
giurisdizione del giudice amministrativo, ma “uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a
quello classico demolitorio (o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino
nei confronti della pubblica amministrazione”.
Ha aggiunto la Corte che “l’attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla
piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato ... ma anche e
soprattutto essa affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost., il quale,
garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed
effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri e certamente il
superamento della regola ... che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice
amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi
riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarcimento del danno”.
La stessa Corte costituzionale, con la successiva sent. 191/2006 - riconosciuta la legittimità
di un sistema che “riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità
dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi
anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per
l’illegittimo esercizio della funzione” – ha affermato che “è irrilevante la circostanza che la
pretesa risarcitoria abbia ... o non abbia intrinseca natura di diritto soggettivo, avendo la
legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione
soggettiva incisa dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa”.
Per un verso, quindi, la tutela risarcitoria attribuita al giudice amministrativo non riguarda
necessariamente interessi legittimi (rientrando in questo caso nella giurisdizione generale di
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legittimità, ex art. 7, co. 4, c.p.a.) ma anche diritti soggettivi, nelle ipotesi di giurisdizione
esclusiva (art. 7, co. 5, c.p.a.); per altro verso, essa si presenta – pur nella ormai riconosciuta
possibilità di proposizione diretta della domanda risarcitoria (Cass. S.U. 13659 e 13660 del
2006; 30254/2008; ora art. 30, co. 3, c.p.a.) – come condizionata dalle possibilità di tutela
ripristinatoria tradizionalmente offerta dall’ordinamento giuridico.
In linea generale, ciò consegue alla natura stessa della tutela risarcitoria che, in quanto forma
di riparazione per equivalente di un danno non altrimenti ristorabile, sconta ontologicamente
una sorta di “succedaneità” rispetto a forme più piene di tutela
Più in particolare, essa è iscritta nelle stesse norme dell’art. 30 c.p.c., laddove prevede che
“nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che
si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento
degli strumenti di tutela previsti”.
Alla luce di tale disposizione è del tutto evidente che non è possibile riconoscere tutela
risarcitoria a quei danni che, pur ritenuti sussistenti, avrebbero potuto ottenere completa
tutela attraverso il normale esercizio dell’azione di annullamento e, quindi, l’eliminazione
dell’atto illegittimo e la (eventuale, ove possibile e necessaria) reiterazione dell’esercizio del
potere amministrativo.
Occorre, dunque, affermare che:
- l’azione di annullamento può accompagnarsi o “anticipare” l’azione risarcitoria, e la
domanda connessa a quest’ultima troverà accoglimento nella misura in cui, annullato l’atto,
residuino profili ulteriori di danno non riparati con la pronuncia costitutiva;
- l’azione risarcitoria autonoma, scontando la rinuncia all’azione di annullamento,
presenta margini di accoglimento subordinati alla verifica della sussistenza di profili di
danno non riparabili avverso altri strumenti di tutela, in primis attraverso la (non proposta)
domanda di annullamento dell’atto.
Alla luce di quanto esposto, occorre affermare che anche con riferimento all’azione
risarcitoria la cristallizzazione della titolarità dell’interesse legittimo in capo al soggetto che
ne è titolare comporta che non vi può essere trasmissione della stessa titolarità.
Ma proprio perché davanti al giudice amministrativo possono proporsi anche domande di
risarcimento del danno non necessariamente riferite a interessi legittimi, occorre tenere
distinti i casi in cui chi agisce chiede il risarcimento del danno subito da una sua posizione
giuridica che già esisteva prima del contatto con il potere amministrativo, dai casi in cui la
domanda risarcitoria attiene a una perdita di chance individuale: in questo caso la domanda
non si fonda su una preesistente posizione ma deriva esclusivamente da un non corretto
esercizio (in senso ampliativo) del potere amministrativo, lesivo quindi di un interesse
legittimo pretensivo sorto proprio in occasione dell’esercizio di detto potere.
In definitiva:
- mentre nel primo caso non vi è alcuna difficoltà ad ammettere la legittimazione all’azione
da parte di aventi causa del titolare dell’interesse legittimo (perché tale legittimazione non
consegue ad alcun trasferimento di titolarità di tale posizione), e ciò sia che essi intendano
proporre una azione autonoma di risarcimento, sia che propongano azione risarcitoria
successiva all’annullamento dell’atto (a seguito di azione proposta dal dante causa), sia,
infine, che succedano in uno di tali rapporti processuali;
- nel secondo caso tale legittimazione non può che essere esclusa, proprio in ragione della
personalità (e intrasmissibilità) dell’interesse legittimo.

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Diversamente si giungerebbe al risultato di concedere, in sede risarcitoria, una tutela
maggiore di quella concedibile in sede ripristinatoria, riconoscendo una legittimazione, più
ampia se non diversa, in sede risarcitoria rispetto alla sede ripristinatoria.

3.4. Il danno risarcibile. Ai sensi dell’art. 2043 c.c. il danno è risarcibile soltanto laddove
esso consista in un danno ingiusto, essendo tale quello consistente nella lesione di un
interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Tale danno deve essere ricollegabile al provvedimento impugnato con un nesso di
causalità immediato e diretto e, nel caso di interesse pretensivo, deve riguardare l’ingiusto
diniego o la ritardata emanazione di un provvedimento amministrativo rispetto al quale vi
siano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo.
Secondo il Consiglio di Stato (sez. V, n. 490/2008), “il danno, per essere risarcibile, deve
essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità
del risultato utile”. In tal senso la giurisprudenza ha agganciato il risarcimento del danno a
presupposti di certezza dello stesso, escludendo il danno nel caso in cui l’atto, ancorché
illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una mera possibilità di conseguimento del
bene della vita e non di una rilevante probabilità del risultato utile. Infatti, in tal caso
risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento dell’atto
illegittimo (Cons. Stato, VI, n. 4628/2009).
Quanto al requisito soggettivo della colpa, questa deve essere valutata tenendo conto dei
vizi del provvedimento, della gravità delle violazioni, delle condizioni concrete e
dell’apporto eventualmente dato dai privati al procedimento (Cons. Stato, VI, n. 3827/2009).
In definitiva, la prova dell’esistenza del danno da provvedimento illegittimo deve essere
ricavata da una verifica del caso concreto che faccia concludere per la certezza del danno.
Tale certezza presuppone:
- l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale;
- l’esistenza di una lesione, che sussiste sia laddove possa essere riscontrata con evidenza,
sia laddove vi sia una rilevante probabilità del risultato utile che è stato però impedito
dall’agire illegittimo dell’amministrazione.
Nei procedimenti amministrativi volti ad attribuire maggiori utilità all’interessato e al suo
patrimonio giuridico (ad es., procedimenti di concorso), la posizione giuridica sostanziale è
sicuramente un interesse legittimo pretensivo.
Tale situazione giuridica può ricevere tutela sia sul piano ripristinatorio, mediante
l’annullamento del provvedimento illegittimo, sia, prima ancora, mediante l’adozione di
provvedimenti cautelari (ad es., l’ammissione con riserva alle prove concorsuali), in quanto,
nell’interesse legittimo pretensivo l’oggetto della posizione, tale da definirne il contenuto
sostanziale non è un bene già esistente nel patrimonio giuridico del titolare bensì la stessa
possibilità di conseguimento di un’utilitas per il tramite dell’esercizio del potere
amministrativo (Cons. Stato, IV, n. 4644/2011). È evidente, allora, che l’esercizio illegittimo
del potere comporta, per il titolare dell’interesse legittimo, un danno che però riguarda una
situazione dinamica di possibilità di conseguimento di un’utilitas e che, pertanto, può
ricevere riparazione soltanto con una tutela del tipo ripristinatorio, per mezzo cioè
dell’annullamento dell’atto, e con il conseguente riesercizio del potere amministrativo.
Peraltro, nelle ipotesi nelle quali, per effetto dell’annullamento dell’atto, è possibile un
nuovo esercizio di potere amministrativo, la giurisprudenza esclude la tutela risarcitoria
(Cons. Stato, V, n. 854/2011; 462/2011).

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A maggior ragione il mero interesse procedimentale (l’interesse alla correttezza della
complessiva gestione del procedimento da parte dell’amministrazione secondo le regole che
lo governano) si pone come situazione meramente strumentale alla tutela di una posizione di
interesse legittimo e, pertanto, non è risarcibile in sé, in quanto, diversamente opinando, si
costruirebbe l’interesse legittimo come generica pretesa alla legittimità dell’azione
amministrativa.
Ai fini dell’accertamento della responsabilità della PA non è, quindi, sufficiente individuare
l’interesse legittimo leso e sottolineare gli aspetti di illegittimità degli atti oggetto di
annullamento, ma occorrono anche la verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo e il
nesso di causalità intercorrente tra condotta ed evento. Non vi è motivo di adottare, nei
confronti della pubblica amministrazione, criteri di giudizio diversi da quelli ordinariamente
applicabili nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (Cons. Stato, IV, n.
1403/2013).

3.5. Il risarcimento in forma specifica. L’interesse legittimo è tutelabile anche con la


domanda di risarcimento in forma specifica, che rappresenta, insieme al risarcimento per
equivalente, uno dei modi attraverso i quali il danno può essere risarcito.
Il risarcimento in forma specifica tutela il danneggiato attraverso la rimozione della fonte e
delle conseguenze del danno e il ritorno allo status quo ante.
Infatti, il risarcimento in forma specifica è quel risarcimento diretto a garantire
all’interessato di ottenere le stesse utilità garantite dalla legge e non invece - come nel
risarcimento per equivalente - un ristoro in termini monetari.
Ne discende che il contenuto del rimedio in oggetto è atipico perché varia a seconda del
pregiudizio sofferto.
Norma generale è l’art. 2058 c.c., ai sensi del quale il danneggiato può chiedere la
reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia, il giudice
può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma
specifica risulta eccessivamente onerosa per il creditore.
Per questi motivi il risarcimento in forma specifica rientra tra i rimedi satisfattori, perché
rappresenta l’attuazione della posizione soggettiva di cui è portatore il danneggiato.
Se il ricorrente è portatore di un interesse legittimo pretensivo, la sua posizione è tutelata, in
prima battuta, attraverso la riedizione del potere da parte delle PA, perché non è ancora
titolare del bene della vita al conseguimento del quale l’interesse legittimo si pone come
strumentale, per cui l’annullamento in sede giurisdizionale può non essere, fisiologicamente,
per il ricorrente pienamente satisfattivo.
In questo ambito il risarcimento in forma specifica gioca un ruolo peculiare, poiché mentre il
titolare di un interesse oppositivo ha interesse alla conservazione della propria posizione,
con l’interesse pretensivo è la pubblica amministrazione che amplia la sfera giuridica del
soggetto con l’emanazione del provvedimento richiesto.
Lo strumento di tutela per il portatore di un interesse legittimo pretensivo, dunque, può
essere la reintegrazione in forma specifica, benché tale rimedio debba essere coordinato con
le regole del diritto amministrativo, tra cui spicca il principio di riserva di amministrazione.
Solo quando siano esauriti gli elementi c.d. elastici del rapporto giuridico tra privato e
Amministrazione, che richiedono cioè l’esercizio di poteri discrezionali o il compimento di
valutazioni tecniche da parte della PA, restando oggetto del contendere soltanto gli elementi
c.d. rigidi, che non necessitano cioè di alcun esercizio di poteri discrezionali o di poteri di
valutazioni tecniche riservati all’Amministrazione, sarà percorribile la tutela del
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risarcimento in forma specifica anche con riferimento agli interessi pretensivi (Cons. Stato,
V, n. 2776/2013).

3.6. Danno da lesione dell’interesse legittimo all’aggiudicazione della gara d’appalto.


Secondo una parte della giurisprudenza, la responsabilità della PA per la mancata
aggiudicazione della gara deve essere ricondotta all’interno della responsabilità da
“contatto sociale qualificato”.
Quest’impostazione trae linfa dalla considerazione che il rapporto tra cittadino e
amministrazione non può essere equiparato a una relazione occasionale, nella quale due
soggetti giuridici entrano in contatto solo in occasione dell’evento illecito, ma al contrario è
il frutto della violazione di quegli obblighi procedimentali che incombono
sull’amministrazione a tutela del privato.
Si tratta di un orientamento sposato episodicamente dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, VI,
n. 1945/2003) e dalla Cassazione (Cass. 157/2003), che tuttavia deve essere respinto.
In realtà, occorre ricondurre la vicenda in esame nell’ambito dell’illecito aquiliano sia pure
con le peculiarità che discendono dall’influsso del diritto dell’Unione europea.
Al riguardo occorre precisare che il richiamo alla natura extracontrattuale dell’illecito a
carico dell’amministrazione appare come descrittivo di un rimedio che si colloca al di fuori
della disciplina della responsabilità contrattuale, ma presenta caratteristiche proprie che
designano uno strumento di tutela per equivalente del danno prodotto dalla stazione
appaltante al concorrente illegittimamente escluso dall’aggiudicazione della gara. Da ciò
deriva che lo strumento ideato dal legislatore europeo presenta connotati che lo
differenziano dal paradigma normativo descritto dall’art. 2043 c.c., specie in termini di
criterio di imputabilità dell’illecito.
Il Consiglio di Stato (Cons. Stato, V, n. 5686/2012) ha già scandagliato l’irrilevanza
dell’elemento nella colpa, sulla scia della giurisprudenza della Corte di giustizia,
nell’individuazione della responsabilità dell’amministrazione in materia di affidamento di
appalti pubblici, rammentando che in ragione di quanto previsto dall’art. 2 D.Lgs. 163/2006,
ma anche da quanto statuito, in generale, dall’art. 1 L. 241/1990, questo peculiare regime di
responsabilità valga sia per gli appalti di rilievo europeo che per gli altri appalti pubblici.
L’esigenza che il diritto dell’Unione europea, ispirato alla massima concorrenza nel
settore degli appalti pubblici, trovi attuazione, ha spinto il legislatore dell’Unione europea
a introdurre un rimedio che massimizza in sede giurisdizionale l’effettività del rispetto delle
norme e dei principi di derivazione europea, eliminando ogni possibilità che
l’amministrazione possa sottrarsi al risarcimento del danno, opponendo l’esistenza di
eventuali esimenti fondate sull’assenza di un comportamento colpevole tenuto
dall’Amministrazione aggiudicatrice.
Pertanto, come chiarito da Cons. Stato n. 5686/2012, l’ordinamento europeo dimostra che
ciò che rileva è l’ingiustizia del danno e non l’elemento della colpevolezza; ciò determina
ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale
i principi che si elaborano a livello europeo, in applicazione dei Trattati, trovano humus
negli ordinamenti interni. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di
diritto interno vengano sostituiti da principi sovranazionali, poiché il ravvicinamento e
l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello
della responsabilità piena della PA senza aree di immunità. Peraltro, l’assenza, nella
disciplina europea degli appalti, di qualsiasi riferimento a un’indagine sull’elemento
soggettivo della responsabilità, lungi dall’essere una dimenticanza, si spiega ponendo mente
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al fatto che, di norma, la via del risarcimento per equivalente viene percorsa qualora
risulti preclusa quella della tutela in forma specifica; la reintegrazione in forma specifica
rappresenta, in ambito amministrativo, l’obiettivo primario da perseguire e il risarcimento
per equivalente costituisce invece una misura residuale, subordinata all’impossibilità
parziale o totale di giungere alla correzione del potere amministrativo, come dimostra,
d’altra parte, anche la vicenda giurisprudenziale e normativa relativa alla dichiarazione di
inefficacia del contratto d’appalto, come da ultimo risolta per effetto del d.lgs. n. 53-2010, le
cui previsioni sono confluite nel Codice del processo amministrativo agli artt. 121 e ss.
In tal modo, dunque, il ricorrente che non ottiene direttamente il bene della vita a cui aspira,
ossia la riedizione della gara o l’aggiudicazione definiva, può aspirare alla
monetizzazione del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro venisse
resa impraticabile o assolutamente impervia, subordinando il risarcimento del danno al
riscontro della colpa della stazione appaltante, il privato rischierebbe di restare sprovvisto di
qualsiasi forma di tutela (Cons. Stato, V, 1833/2013).

3.7. L’interesse legittimo di fronte alla revoca dei contratti della PA. L’aggiudicazione è
il momento finale della procedura amministrativa finalizzata a individuare il miglior
offerente, mentre la stipulazione del contratto è il momento iniziale del rapporto negoziale
tra la pubblica amministrazione e il contraente privato risultato miglior offerente.
In giurisprudenza si è posto il problema di stabilire se possa formare oggetto di revoca
l’aggiudicazione del contratto.
Per rispondere occorre ricordare che l’art. 21quinquies L. 241/1990 stabilisce che, per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di
fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento
amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato dall’organo che lo ha emanato o da
un altro organo previsto dalla legge; la revoca determina l’inidoneità del provvedimento
revocato a produrre ulteriori effetti.
Il comma 1bis specifica che se la revoca di un atto amministrativo a efficacia durevole o
istantanea incide su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli
interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale
conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo
oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri
soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.
Pertanto, con l’entrata in vigore dell’art. 21quinquies L. 241/1990, aggiunto dalla L.
15/2005, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti
alternativi che legittimano l’adozione del provvedimento:
a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) mutamento della situazione di fatto;
c) nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. ius poenitendi).
Il provvedimento di revoca, peraltro, deve necessariamente avere ad oggetto un
provvedimento ad efficacia durevole o istantanea che non abbia ancora esaurito i suoi
effetti.
La revoca opera con efficacia ex nunc, a differenza dell’annullamento d’ufficio, previsto
dall’art. 21nonies L. 241/1990, che opera per vizi di legittimità e con efficacia ex tunc.
L’art. 134, co. 1, D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) prevede, invece, che la
stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto, previo
pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al
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decimo dell’importo delle opere non eseguite. Il potere di recesso di cui all’art. 134
costituisce quindi lo strumento attribuito alla stazione appaltante per sciogliersi
volontariamente dal vincolo contrattuale.
A differenza del potere di recesso, l’esercizio del potere di revoca ex art. 21 quinquies L.
241/1990 determina un indennizzo parametrato al solo danno emergente, mentre l’esercizio
del potere di recesso ex art. 134 determina, come evidenziato, un obbligo di pagamento a
carico della stazione appaltante dei lavori eseguiti, del valore dei materiali utili esistenti in
cantiere oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite.
Ciò precisato in termini generali occorre chiedersi, come accennato, se possa formare
oggetto di revoca l’aggiudicazione definitiva di un appalto.
Il potere di revoca di cui all’art. 21quinquies può essere esercitato soltanto nei confronti di
un provvedimento che continua ancora a produrre effetti. Il provvedimento di
aggiudicazione, sebbene abbia efficacia durevole, produce la propria efficacia fino alla
stipulazione del contratto di appalto, sicché l’aggiudicazione definitiva di un appalto può
essere oggetto di revoca ma solo fino alla data di stipulazione del contratto o, più
propriamente, fino all’avvio della sua esecuzione, che può farsi coincidere, nell’appalto di
lavori, con la consegna degli stessi da parte della stazione appaltante.
In tal senso depongono le norme di cui all’art. 11 del Codice dei contratti pubblici, e cioè
il comma 7, secondo cui, da un lato, l’aggiudicazione definitiva non equivale ad
accettazione dell’offerta, dall’altro, l’offerta dell’aggiudicatario è irrevocabile fino al
termine stabilito nel comma 9 e, soprattutto, detto comma 9, secondo cui, divenuta efficace
l’aggiudicazione definitiva, la stipulazione del contratto ha luogo entro un termine definito,
fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti.
Il legislatore, quindi, ha sancito che l’aggiudicazione è un provvedimento amministrativo
privo di connotazione privatistica e che i poteri di autotutela possono essere esercitati fino
alla stipulazione del contratto.
Ne consegue che l’aggiudicazione definitiva è un provvedimento amministrativo che, al pari
di ogni altro, può essere oggetto sia di annullamento sia di revoca, ma la cui efficacia -
essendo l’atto con cui, in esito ad una procedura ad evidenza pubblica, la stazione appaltante
individua l’operatore economico con cui contrarre - è destinata a esaurirsi con la
stipulazione del contratto e l’avvio dell’esecuzione delle relative prestazioni.
Ne consegue che mentre la stazione appaltante può sempre procedere all’annullamento
in autotutela, ai sensi dell’art. 21nonies L. 241/1990, del provvedimento di
aggiudicazione definitiva per un vizio originario dell’atto, in tal modo incidendo, per la sua
efficacia retroattiva (ex tunc), sul momento genetico del rapporto e, quindi, sui rapporti
negoziali che a quell’atto sono legati da un nesso di presupposizione, lo stesso non può dirsi
per l’esercizio del potere di revoca di cui all’art. 21quinquies L. 241/1990, in quanto la
revoca, avendo efficacia ex nunc, incide sul momento funzionale del rapporto e non sul suo
momento genetico e, quindi, presuppone che l’efficacia dell’atto oggetto di revoca continui
a sussistere al momento della sua emanazione.

Con riferimento alla tutela dell’aggiudicatario, occorre ricordare (anticipando nozioni che
saranno trattate in una successiva lezione dedicata al riparto di giurisdizione) che nella fase
antecedente alla stipulazione del contratto, poiché il soggetto pubblico agisce esercitando
poteri autoritativi, i privati sono titolari di un interesse legittimo al regolare svolgimento del
procedimento amministrativo, azionabile davanti al giudice amministrativo, mentre dopo la
stipulazione del contratto il privato e la pubblica amministrazione sono su un piano di
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tendenziale parità, con la conseguenza che le posizioni soggettive di cui essi sono titolari
sono qualificabili in termini di diritti soggettivi perfetti (all’adempimento, alla risoluzione,
ecc.) e di obblighi giuridici, la cui tutela ricade, quindi, nella sfera di competenza del giudice
ordinario.
Sulla scorta di questa impostazione, riguardo al sindacato giurisdizionale sulla revoca
dell’aggiudicazione la Cassazione distingue a seconda che la stessa sia intervenuta prima o
dopo la conclusione del contratto:
- prima della conclusione del contratto, la revoca dell’aggiudicazione definitiva non
rientra nell’ambito del generale potere contrattuale di recesso della PA ma è espressione di
potestà autoritativa e del potere di autotutela della pubblica amministrazione. Ne consegue
che la titolarità, da parte dell’aggiudicatario, di una posizione di interesse legittimo fonda la
giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla tutela del medesimo;
- dopo la stipulazione del contratto, la revoca dell’aggiudicazione rientra nell’ambito del
generale potere di recesso della PA, previsto, per i contratti di appalto di opere pubbliche,
dall’art. 134 D.Lgs. 163/2006. Questa norma attribuisce alla stazione appaltante il diritto di
recedere dal contratto in qualunque tempo, mediante il pagamento dei lavori eseguiti e del
valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importare delle opere non
eseguite. Accedendo, dunque, la revoca dell’aggiudicazione ad un rapporto contrattuale già
costituito, ne consegue che sull’esercizio di tale potere sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario, in conformità al principio generale della devoluzione al giudice ordinario delle
controversie relative ai contratti già conclusi;
Questa impostazione è però contrastata dal Consiglio di Stato, secondo cui il sindacato
giurisdizionale sull’esercizio di poteri di autotutela involgenti gli atti di gara spetta
sempre al giudice amministrativo, indipendentemente dalla già avvenuta conclusione del
contratto ovvero dall’eventuale proposizione di un’azione di accertamento dell’esistenza
dello stesso (Cons. Stato, VI, n. 1554/2010).

Dispensa giurisdizionale

Gli interessi collettivi e diffusi

Cons. Stato, sez. IV, 9-1-2014, n. 36

La Costituzione, come è noto, sancisce, all’art. 24, il diritto alla tutela giurisdizionale per le
posizioni di diritto soggettivo ed interesse legittimo, assicurando ad entrambe le posizioni la
tutela giurisdizionale «piena» avverso gli atti della Pubblica Amministrazione (non limitata
per mezzi di impugnazione e categorie di atti: art. 113).
Tale affermazione, di pur ampia portata, resta tuttavia legata, nel suo dato letterale, alla
elaborazione dogmatica presente al momento di redazione del testo della Costituzione,
essendosi preferito - come emerge dal dibattito in Assemblea Costituente - il riferimento ad
«interessi legittimi», in luogo del pur proposto «interessi giuridicamente protetti». E ciò nella
convinzione, per un verso, che - secondo i Costituenti - un interesse giuridicamente protetto
è sempre un interesse legittimo; per altro verso che sarebbe stato opportuno affidare alla
giurisprudenza «la concretizzazione di quello che suole chiamarsi interesse legittimo»,
adeguando la figura (e la connessa esigenza di tutela) all’evolversi del contesto storico-
sociale, come recepito dalla elaborazione giurisprudenziale.
Tanto premesso, occorre osservare come successivamente si sia delineato:
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– per un verso, un ampliamento della posizione «a titolarità individuale» di interesse
legittimo, attraverso una più adeguata ed ampia definizione del suo contenuto (interesse
oppositivo/pretensivo) e degli strumenti di tutela ad essa offerti (azione di condanna della
P.A. al risarcimento del danno: Cons. Stato, sez. IV, 3 agosto 2011 n. 4644; 7 marzo 2013
n. 1403);
– per altro verso, un «affiancamento» della posizione «individuale» di interesse legittimo,
ottenuta per il tramite di una migliore ricognizione di interessi definiti quali «collettivi» o
«diffusi».
Quanto alla tutela offerta a interessi «non individuali», nella convinzione dell’impossibilità di
tutelare gli stessi solo nel caso di occasionale coincidenza con un interesse legittimo del
singolo (in tal modo subordinando, peraltro, detta tutela anche alla persistente volontà di
coltivare il ricorso da parte di questi), si è delineata:
– sia un migliore e più ampio perimetro della legittimazione attiva degli enti esponenziali;
– sia l’attribuzione ex lege di legittimazione attiva (speciale) ad associazioni aventi scopi di
tutela di particolari e delicati valori, costituzionalmente garantiti (quali l’ambiente, la
concorrenza);
– sia l’attribuzione di legittimazione - e quindi una sostituzione processuale normativamente
consentita in deroga all’art. 81, c.p.c. - a singoli cittadini, come nel caso degli elettori che
possono «far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia»,
ex art. 9, d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 2011 n. 4130).
Quanto agli enti, occorre innanzi tutto osservare che ad un soggetto dell’ordinamento è
attribuita la qualifica di ente esponenziale di collettività (cd. ente collettivo), in ragione di
una possibilità di individuazione di tali collettività, attraverso l’appartenenza - giuridicamente
definita e persistente nel tempo - di coloro che le compongono a un medesimo territorio,
ovvero ad una medesima categoria produttiva.
Tali enti possono essere sia riconosciuti come tali dall’ordinamento giuridico (gli enti
territoriali trovano il proprio riconoscimento negli articoli 5 e 114 Cost.; le organizzazioni
sindacali nell’art. 39 Cost.), sia manifestarsi per effetto della libertà di associazione,
espressamente riconosciuta dall’ordinamento (art. 18 Cost.).
In quest’ultimo caso, tuttavia, perché la loro costituzione possa renderli titolari di interessi
collettivi, occorre che i singoli associati si caratterizzino non già per essere una
aggregazione meramente seriale ed occasionale, ma per essere identificabili in relazione
ad un vincolo che, in quanto afferente ad una realtà territoriale o ad una medesima
manifestazione non occasionale della vita di relazione, si presenti come concreto (quanto al
suo oggetto) e temporalmente persistente (quanto alla sua durata).
Gli enti collettivi - oltre ad avere caratteristiche diverse quanto alla personalità giuridica -
possono quindi essere titolari sia (al pari dei soggetti singoli) di posizioni giuridiche proprie
(diritti soggettivi ed interessi legittimi), sia di posizioni giuridiche «collettive» (appunto,
interessi collettivi).
In questa seconda ipotesi, si è affermato (Cons. Stato, comm. spec., parere 26 giugno
2013 n. 3014), che «in capo all’ente esponenziale l’interesse diffuso, se omogeneo, in
quanto comune (ai) rappresentati, si soggettivizza, divenendo interesse legittimo, nella
forma del c.d. “interesse collettivo”, fermo restando che “l’interesse diffuso” (che attraverso
l’ente esponenziale diviene interesse collettivo e quindi interesse legittimo) è, per sua
natura, indifferenziato, omogeneo, seriale, comune a tutti gli appartenenti alla categoria».
In tale contesto si è affermato che «l’ente esponenziale è lo “strumento” elaborato dalla
giurisprudenza per consentire la giustiziabilità dei c.d. “interessi diffusi” cioè degli interessi
omogenei e indifferenziati degli appartenenti alla categoria. È attraverso la costituzione
dell’ente esponenziale che l’interesse diffuso, sino a quel momento adespota e
indifferenziato, si soggettivizza e si differenzia, assurgendo al rango di interesse legittimo
meritevole di tutela giurisdizionale».
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Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di precisare (sez. IV, n. 5451/2013 cit.) che gli
«interessi collettivi», in quanto afferenti ad enti territoriali, o ad associazioni, quali le
organizzazioni sindacali, non sono esclusivamente gli interessi «comuni a tutti gli
appartenenti alla categoria».
Ed infatti se per interesse collettivo si intende - come sopra riportato - l’interesse diffuso
comune a tutti i soggetti facenti parte della collettività (e dall’ente rappresentati) - interesse
diffuso che, proprio perché comune, si «soggettivizza» - ne consegue: sia che tale
interesse non costituisce (né può mai costituire) posizione soggettiva dei singoli, ma esso
sorge quale posizione sostanziale direttamente e solo in capo all’ente esponenziale; sia
che esso, soggettivizzandosi in capo all’ente esponenziale, costituisce posizione propria (e
solo) di questo. Esso è una «derivazione» dell’interesse diffuso per sua natura adespota,
non già una «superfetazione» o una «posizione parallela» di un interesse legittimo
comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività.
Tale considerazione contribuisce a porre meglio in luce una non secondaria differenza tra
interessi collettivi ed interessi diffusi (costituendo, come si è detto, i primi una «derivazione»
dei secondi).
Ed infatti:
– mentre la definizione di «interesse collettivo» può essere proficuamente utilizzata per
definire la posizione giuridica «propria» di un ente che vede la partecipazione (necessitata
o volontaria) di singoli non costituenti una aggregazione meramente seriale ed occasionale,
ma identificabili in relazione ad un vincolo che, in quanto afferente ad una realtà territoriale
o ad una medesima manifestazione non occasionale della vita di relazione, si presenti
come concreto (quanto al suo oggetto) e temporalmente persistente (quanto alla sua
durata);
– al contrario, la definizione di interessi diffusi denota interessi latenti nell’ordinamento, che
si presentano adespoti, indifferenziati, ontologicamente omogenei, e la cui «selezione»
(individuazione e conseguente attribuzione di tutela) deriva dal riconoscimento e tutela,
costituzionalmente garantita, di valori imprescindibili della «forma di Stato».
In tal senso, per un verso l’ordinamento giuridico - innanzi tutto a livello costituzionale -
seleziona valori ai quali assicura tutela ampia (ad esempio, ambiente, paesaggio, salute:
artt. 9, 32 Cost.); per altro verso, non solo riconosce il diritto di associazione (art. 18 Cost.),
ma indica ora alle organizzazioni territoriali che compongono la Repubblica anche il
compito di «favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini», e ciò al fine costituzionalmente
dichiarato di utilizzare le associazioni così formatesi «per lo svolgimento di attività di
interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (art. 118, ult. co. Cost.).
La selezione dei valori, dunque, non determina solo la cura di interessi pubblici affidati a
Pubbliche Amministrazioni (ad esempio, allo Stato la tutela dell’«ambiente, dell’ecosistema
e dei beni culturali»: art. 117, co. 2, lett. s), Cost.), ma individua «beni o valori comuni», la
cui gestione e tutela ben può essere affidata alla cura di organizzazioni di cittadini,
debitamente costituite e riconosciute (ove previsto) in relazione ai poteri che l’ordinamento
intende loro conferire.
La libertà di associazione, dunque, se costituisce la prima delle garanzie dei diritti inviolabili
dell’uomo «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», formazioni sociali
entro le quali le associazioni si iscrivono (art. 2 Cost.), e come tale non può essere limitata
se non nei casi previsti dall’art. 18 Cost., presenta ora, per così dire, un «versante attivo»,
poiché essa si concretizza oggi nella costituzione di soggetti che partecipano attivamente
alle «attività di interesse generale» (pur affidate - come è ovvio - primariamente a pubbliche
amministrazioni), e dunque alla tutela di valori (cui corrispondono altrettanti interessi
pubblici) costituzionalmente garantiti.
È in questo quadro costituzionalmente definito che devono, dunque, essere oggi letti ed
interpretati, ad esempio:
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– l’art. 310 d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che attribuisce ai soggetti («organizzazioni non
governative che promuovono la protezione dell’ambiente», di cui all’art. 13 l. n. 349/1986),
la legittimazione «ad agire, secondo i principi generali, per l’annullamento degli atti e dei
provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta» del decreto
medesimo, cioè in materia di danno ambientale e, dunque, di tutela dell’ambiente;
– l’art. 139 d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206, che attribuisce alle associazioni dei consumatori
e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’art. 137, in particolare la legittimazione «ad agire
a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti».
L’associazione costituita e riconosciuta, che preveda statutariamente la cura di valori
costituzionalmente garantiti (che proprio il predetto riconoscimento attesta essere presenti
e collegabili al nuovo ente), non costituisce, dunque, solo una libera aggregazione di
cittadini «avvertiti» o «sensibili», che esprimono un interesse culturale o che comunque
individuano forme di esplicazione della propria personalità. Né essa costituisce un ente
attributario (in via esclusiva o insieme ad altri) di posizioni giuridiche proprie (come nel caso
della titolarità di interessi collettivi), il che peraltro costituirebbe un controsenso, trattandosi
di campi di azione riferibili a materie afferenti ad aspetti e valori costituzionalmente garantiti.
Tale associazione, invece, partecipa ad «attività di interesse generale», nelle forme e limiti
previsti dall’ordinamento, per espresso riconoscimento costituzionale. E tale
«partecipazione» ben può comprendere (così come positivamente comprende) la tutela di
«interessi generali» o «diffusi»; interessi questi ultimi che trovano oggi proprio nell’art. 118,
ult. co., Cost, la propria «emersione».
E ciò non perché tali interessi si sostanzino in posizioni soggettive delle quali è ad essa
associazione attribuita la titolarità, bensì perché tale tutela rientra nei compiti che la legge
ben può attribuire loro (come avviene nei riguardi di Pubbliche Amministrazioni), senza che
ciò debba necessariamente richiedere una «conversione» (o se si vuole «riduzione»)
dell’interesse in singola posizione sostanziale («personale» e «diretta»).
La differenza tra interessi collettivi ed interessi diffusi, come sin qui descritta, si riflette
anche, sul piano processuale. Ed infatti:
– mentre la legittimazione attiva delle associazioni titolari di interessi collettivi non
abbisogna di un espresso e speciale riconoscimento normativo, e si riferisce alla titolarità di
posizioni sostanziali nella sua proiezione processuale (l’ente esponenziale infatti - oltre ad
essere titolare di posizioni giuridiche proprie quale persona giuridica, non diversamente dai
singoli soggetti dell’ordinamento, persone fisiche e giuridiche - risulta altresì titolare sia di
posizioni giuridiche che appartengono anche a ciascun componente della collettività da
esso rappresentata, tutelabili dunque sia dall’ente sia da ciascun singolo componente - ed
in questo senso l’interesse collettivo assume connotazioni proprie di interesse
«superindividuale»-; sia posizioni giuridiche di cui è titolare in via esclusiva, cioè interessi
collettivi propriamente detti, la cui titolarità è solo dell’ente, proprio perché risultanti da un
processo di soggettivizzazione dell’interesse altrimenti diffuso ed adespota);
– viceversa, la legittimazione attiva delle associazioni che svolgono attività afferenti ad
«interessi generali» (art. 118 Cost.) o «diffusi», discende dal riconoscimento
normativamente previsto e da una attribuzione ex lege, che rende tale legittimazione
«speciale», in quanto attribuita in deroga all’art. 81 c.p.c.
Solo nel quadro complessivo così come delineato, possono essere contestualmente
condivise:
– sia l’affermazione della giurisprudenza che circoscrive la legittimazione processuale
speciale alle sole associazioni riconosciute (Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2011 n. 3662),
in quanto legittimazione afferente a tutela di interessi «generali» o «diffusi», nei sensi sopra
precisati;
– sia la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2010 n. 6554; sez. VI, 23
maggio 2011 n. 3107; sez. III, 8 agosto 2012 n. 4532) che riconosce la legittimazione attiva
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anche a «comitati spontanei che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente
la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti» su un territorio circoscritto»,
oppure di «sodalizi che, pur se articolati, o non possiedono strutture locali, o s’incentrino in
forma non occasionale su dati settori di mercato o per argomenti o esigenze consumistiche
stabili, e via di seguito», purché «perseguano nel loro oggetto statutario ed in modo non
occasionale obiettivi di tutela» delle predette esigenze.
In questo secondo caso, a ben osservare, ciò che sostanzia la posizione di chi -
associazione o singolo individuo - agisce in giudizio per la tutela del bene ambiente, è la
titolarità di un interesse collettivo (in questo caso, come «interesse di tutti» gli aderenti, e
dunque come mera somma di interessi legittimi), ovvero un singolo interesse legittimo. Ed il
criterio della vicinitas, talora utilizzato per individuare la «differenziazione delle posizioni
azionate» e «radicare la legittimazione dei singoli per la tutela del bene ambiente» (così
Cons. Stato, sez. VI, n. 6554/2010 cit.), risulta rispondente non già alla definizione della
legittimazione attiva (che deriva da una posizione sostanziale in altro modo individuata),
quanto più propriamente dell’interesse ad agire.

La definizione sin qui effettuata del ruolo delle associazioni, in quanto partecipanti alle
«attività di interesse generale», e dunque alla tutela, anche in giudizio, di interessi generali
o diffusi, nei sensi innanzi precisati, comporta, a tutta evidenza, una diversa considerazione
delle condizioni dell’azione.
Si è detto che la legittimazione attiva, lungi dal conseguire dalla titolarità di una posizione
sostanziale, si collega, per espressa attribuzione legislativa, alla tutela di interessi diffusi, e
costituisce deroga all’art. 81 c.p.c.
Ma se il fondamento dell’attribuzione di legittimazione speciale deve essere individuato
nella «materia» in ordine alla quale l’associazione esplica la propria attività (e in ordine alla
quale ha ottenuto lo speciale riconoscimento), in attuazione dell’art. 118 Cost., appare
allora evidente come sia, per così dire, più «ampio» l’ambito di tale legittimazione, non
collegandosi essa alla «angusta» titolarità di una posizione soggettiva, bensì ad una
materia e ad un valore costituzionalmente garantito.
Nel caso oggetto della presente controversia, afferente alla materia dell’ambiente, l’oggetto
della tutela, come affermato dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, n. 6554/2010 cit.),
«lungi dal costituire un autonomo settore di intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo
unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni
della vita che nell’ambiente si collocano» (paesaggio, acqua, aria, suolo); esso è «un bene
pubblico che non è suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile,
unitario, multiforme».
A fronte di tale definizione, la giurisprudenza di questa sezione (sent. 10 maggio 2012 n.
2710), nel definire in senso giuridico l’urbanistica, ha precisato: «il potere di pianificazione
deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato
solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle
aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma
anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e
dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente
tutelati...» In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione,
non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio
territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto,
bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete
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vocazioni dei luoghi -, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della
salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della
comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di
una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta - per autorappresentazione ed
autodeterminazione - dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi
elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento
pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie
di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una
pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente
garantiti.
L’ambiente, dunque, costituisce inevitabilmente l’oggetto (anche) dell’esercizio di poteri di
pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l’esercizio
dei predetti poteri di pianificazione non può non tener conto del «valore ambiente», al fine
di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di
attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi.
Proprio per questo, gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la
localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui
possano comportare danno per l’ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da
parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia
“ambiente”, in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette
associazioni.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione attiva determina, inevitabilmente, anche una
diversa considerazione dell’interesse ad agire, che deve essere riguardato non già con
riferimento alla singola posizione giuridica soggettiva per la quale si postula tutela in
giudizio, bensì al «bene o valore comune», alla tutela del quale occorre parametrare la
«utilità» della pronuncia del giudice.
In tal modo, anche l’attualità dell’interesse, che attiene alla proiezione processuale della
posizione sostanziale, alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto
e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione
in giudizio onde ottenere tutela, e quindi «utile», a tali fini, la pronuncia del giudice (Cons.
Stato, sez. IV, n. 4644/2011 cit.), anche tale attualità deve essere verificata non già in
relazione al pregiudizio del singolo interesse legittimo, quanto in relazione alla emersione
della compromissione del «bene o valore comune» oggetto di tutela.
Di modo che, sia in generale, sia nel caso dell’ambiente, mentre l’adozione di un singolo
atto può non concretizzare (o meglio, non concretizzare ancora) di per sé una lesione del
bene «ambiente», tale lesione emerge, e come tale può essere percepita:
– tanto in momenti anteriori a quando sorgerebbe l’interesse ad agire del singolo (si pensi
ad un regolamento, che ben può ledere ex se interessi collettivi e/o diffusi, e non ancora
singoli interessi legittimi, invece colpiti dall’atto che di esso fa applicazione: Cons. Stato,
sez. IV, n. 5451/2013 cit.);
– quanto in momenti successivi, posto che la lesione del bene ambiente, non percepibile a
livello di singolo atto adottato, emerge dal collegamento procedimentale e, soprattutto,
funzionale di una pluralità di atti, complessivamente partecipi di un intervento che si
propone come lesivo di quel bene […].

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