Vittorio de Seta
Nato a Palermo da famiglia aristocratica, di origine calabrese, dopo aver studiato per qualche tempo
architettura a Roma, nel 1953 intraprende la carriera cinematografica lavorando come secondo aiuto
regista di Mario Chiari per un episodio del film Amori di mezzo secolo.]
Nel 1954 diventa aiuto regista di Jean-Paul Le Chanois in Vacanze d'amore. Successivamente si
dedica all'attività di sceneggiatore e documentarista.I documentari che realizza negli anni 1950,
ambientati prevalentemente in Sicilia e Sardegna, descrivono con potente espressività i modi di
vivere del proletariato meridionale (feste sacre di Pasqua in Sicilia) e le dure condizioni di vita dei
pescatori siciliani, dei minatori di zolfo nisseni, dei pastori della Barbagia. Tra questi cortometraggi
il documentario Isola di fuoco, ambientato nelle isole Eolie, viene premiato come miglior
documentario al Festival di Cannes del 1955.
Nel 1961 debutta al cinema con Banditi a Orgosolo, sceneggiato con la moglie Vera Gherarducci,
un film stilisticamente asciutto, che arricchisce di una sensibilità più moderna e consapevole la
lezione del neorealismo e si annovera "tra le cose migliori di ogni tempo sulla Sardegna". Il film
vince il premio Opera prima al Festival di Venezia e il Nastro d'Argento alla migliore fotografia.
Nel 1966 realizza Un uomo a metà, che si allontana dal documentarismo che contraddistingue la sua
carriera: è un'analisi in chiave psicanalitica della crisi di un intellettuale nei confronti del suo
impegno sociale.
Tra il 1969 e i primi anni 1970 si trasferisce in Francia per girare L'invitata. Il film, anche se
apprezzato da Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, sarà accolto freddamente. Nel 1973 De Seta
ritorna alle tematiche degli esordi con una miniserie televisiva prodotta dalla RAI, Diario di un
maestro, documento di una difficile esperienza didattica condotta in una borgata romana. Il film
viene accolto molto bene dal pubblico, questo successo avvia la lunga collaborazione del regista
con la RAI.
Negli anni ottanta realizza documentari per la televisione e si trasferisce nella tenuta materna di
Sellia Marina in provincia di Catanzaro.
Il suo profondo legame con la Calabria, che ha dato i natali a sua madre, è esplorato nel
documentario In Calabria, del 1993.Nel 2000 partecipa come attore (nella parte di sé stesso) al
mediometraggio Melissa 49/99 di Eugenio Attanasio e Giovanni Scarfò.
Nello stesso anno realizza, con il fotografo Angelo Franco Aschei, il corto Mano e partecipa come
attore ad un video realizzato da Leandro Manuel Emede con musiche di Giacomo DatiNel 2006
realizza il lungometraggio Lettere dal Sahara, che segue la vita di un immigrato africano in Italia. Il
film partecipa fuori concorso al Festival di Venezia. È considerato il padre del cinema
documentario italiano
Film in Rassegna
Rapporto su una regione del sud Italia, descritta come una terra abitata ancora da chi "vive
come all'origine dei tempi" e dove la modernizzazione è stata "la grande speranza delusa".
Una terra di allevatori e contadini, solidali tra loro e rispettosi della natura dalla quale
dipendevano interamente, con i ritmi legati alle stagioni, dalla semina al raccolto, dal
riposo alle feste paesane, che ha subito gli effetti dell'industrializzazione selvaggia, tesa a
sviluppare un'economia depressa ma fonte soprattutto di degrado ambientale e
disoccupazione, disgregazione morale e culturale, emigrazione e criminalità.Dalle danze
popolari ai racconti trasmessi oralmente di generazione in generazione durante le lunghe
ore di lavoro insieme, "tutto un mondo di tradizioni, costumi, dialetti, temperanza,
laboriosità, arte, musica, canti è stato travolto di colpo dall'avanzata del mondo
dell'industria, tutta una cultura che costituiva la storia stessa dell'uomo è stata negata,
condannata" (citazione dal film).Lo sviluppo tecnologico per alleviare la fatica dell'uomo,
la ricerca del benessere materiale e del profitto, hanno creato un profondo vuoto spirituale,
un diffuso senso di smarrimento. Un progresso basato solo su fattori esterni ha dimenticato
che il vero avanzamento si realizza solo con la crescita interiore dell'uomo, con lo sviluppo
di una sua concezione morale della vita.
Tra il 1954 e il 1959, autofinanziandosi e costituendo una propria troupe, spesso con
dilettanti, realizzò dieci documentari destinati a segnare profondamente l'evoluzione del
genere in Italia: Pasqua in Sicilia (1954), Lu tempu di li pisci spata (1955), Isole di fuoco
(1955), Surfarara (1955), Contadini del mare (1955), Parabola d'oro (1955), Pescherecci
(1958), Pastori di Orgosolo (1958), Un giorno in Barbagia (1958), I dimenticati (1959), i
cui protagonisti ‒ pescatori, contadini, minatori, pastori ‒ sono personaggi minori di
un'esplorazione antropologica dall'inedito rigore. Allo stesso tempo la forma della
composizione dell'immagine e la ricerca di una sua 'teatralità', evidenziata anche dall'uso di
formati panoramici come il cinemascope, attestano una capacità di scrittura
cinematografica che riesce a cogliere la verità dei riti millenari della vita e del lavoro nel
Mezzogiorno d'Italia. È come se D. S. riproponesse e risolvesse, ribaltando la priorità dei
due elementi, il rapporto tra estetica e realismo che Luchino Visconti aveva posto,
problematicamente, con La terra trema (1948)
Corrado Alvaro
Nasce a San Luca, un piccolo paese nell'entroterra ionico calabrese, ai piedi dell'Aspromonte, in
provincia di Reggio Calabria, primo di sei figli di Antonio, un maestro elementare, e di Antonia
Giampaolo, figlia di piccoli proprietari.
Nel 1905 si trasferisce nel collegio gesuita di Villa Mondragone a Frascati, diretto dal famoso
grecista Lorenzo Rocci. Corrado passa cinque anni in questo collegio, frequentato dai rampolli
dell'alta borghesia romana e quindi dalla futura classe dirigente italiana, studiando avidamente e
cominciando a comporre le prime poesie.
Nel 1910 è costretto a lasciare Villa Mondragone per aver praticato letture non autorizzate: infatti il
poeta calabrese fu sorpreso a leggere l’Inno a Satana di Giosuè Carducci.Compì i suoi studi liceali
a Catanzaro dove nel 1913 conseguì la licenza liceale] e dove rimase fino al gennaio del 1915, anno
in cui partì militare per combattere la Prima guerra mondiale. Fu assegnato a un reggimento di
fanteria di stanza a Firenze.Ferito nei pressi di San Michele del Carso, nel settembre del 1916 è a
Roma, dove comincia a collaborare a Il Resto del Carlino e, quando ne diventa redattore, si
trasferisce a Bologna insieme alla sorella Maria.
L'8 aprile del 1918 sposa la bolognese Laura Babini.Nel 1919 si trasferisce a Milano come
collaboratore del Corriere della Sera. Sempre nel 1919 consegue la laurea in Lettere all'Università
di Milano. Nel 1921 diventa corrispondente da Parigi de Il Mondo di Giovanni Amendola; collabora
al giornale satirico Becco giallo.
Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Tuttavia,
nel 1934, pubblica un reportage sulla bonifica della Agro pontino per le edizioni dell'Istituto fascista
di cultura che gli verrà rinfacciato come apologetico del fascismo nel dopoguerra; si giustificherà,
in Ultimo diario, scrivendo: «Lo scriverei anche oggi, se qualcuno bonificasse qualche cosa,
chiunque fosse, essendo io legato al lavoro, alla terra, alla sofferenza umana».Si reca nel 1928 a
Berlino, dove continua la sua attività di giornalista, collaborando con La Stampa e con L'Italia
Letteraria (per cui il 14 aprile 1929 intervistò Luigi Pirandello). Torna in Italia nel 1930, ed è in
visita in Turchia nel 1931 e in Russia nel 1935.
Quindi, dal 1937, collabora con la rivista Omnibus di Leo Longanesi con diversi articoli sulla
Rivoluzione d'ottobre del 1917 e la società sovietica. Nel 1938 pubblica L'uomo è forte, un romanzo
realizzato dopo un viaggio in Russia; una critica del totalitarismo comunista e non solo, con cui si
aggiudica il Premio dell'Accademia d'Italia per la letteratura, ma che gli vale l'accusa di fascista da
parte di Giacomo Debenedetti.
Nel gennaio del 1941 torna per l'ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Tornerà invece più
volte a Caraffa del Bianco a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Dal
25 luglio all'8 settembre del 1943 assume la direzione del Popolo di Roma, del quale era già stato
critico teatrale tra il 1940 e il 1942. Costretto alla fuga dall'occupazione tedesca di Roma, si rifugia
a Chieti sotto il falso nome di Guido Giorgi. A Chieti si guadagna da vivere impartendo lezioni
d'inglese.
Nel 1945 fonda, con Libero Bigiaretti e Francesco Jovine, il Sindacato Nazionale Scrittori, nel
quale fino alla morte ricopre la carica di segretario , e la Cassa Nazionale Scrittori. Sempre nello
stesso anno, per sole tre settimane, dal primo al 23 marzo è primo direttore del Giornale radio
nazionale della Rai, nominato da Luigi Rusca, incaricato dal governo Bonomi di rifondare e gestire
l'azienda radiofonica.
Dal 7 marzo al 15 luglio 1947 assume la direzione del quotidiano Risorgimento di Napoli di
proprietà di Achille Lauro. Alvaro imprime una netta svolta a sinistra che lo mette in rotta con
l'editore, il quale lo spingerà alle dimissioni nel luglio dello stesso anno.Nel 1949 pubblica la
tragedia Lunga notte di Medea incentrata sul mitologico scontro di Giasone e di Medea, riletto
come opposizione fra l'uomo stanco di eroismo e chi anela ancora al gesto eroico, da cui traspare -
secondo Giorgio Bàrberi Squarotti - una «nostalgia "reazionaria" di intatti ideali, di mitica santità di
principi, al di là della storia».Nel 1951 vince il premio Strega con Quasi una vita. Il 1951 fu l'anno
della cosiddetta "grande cinquina" nella quale figuravano, oltre a Quasi una vita di Alvaro,
L'orologio di Carlo Levi, Il conformista di Alberto Moravia, A cena col commendatore di Mario
Soldati e Gesù, fate luce di Domenico Rea.Nel 1954, colpito da un tumore addominale, si sottopone
a un delicato intervento chirurgico. La malattia colpisce anche i polmoni, e Alvaro muore nella sua
casa di Roma l'11 giugno del 1956, lasciando incompiuti alcuni romanzi.
Film in rassegna
TERRA D’ALVARO
Fari nella nebbia ,1942 di Gianni Franciolini con Mariella Lotti, Luisa Ferida, Fosco
Giachetti
Cesare ed Anna sono marito e moglie. L'uomo fa il camionista: una sera, tornando a casa dopo un
brutto litigio con la moglie, a causa della fitta nebbia ha un incidente. Ma lei lo ha appena
abbandonato, lasciandogli una lettera sul tavolo e, dal quel momento, comincia ad uscire la sera
fino a tardi e a accettare la corte di altri, senza però concedersi a nessuno di loro.Il marito, nel
frattempo, viene circuito da Piera, una donna dalla vita un po' torbida, che gli fa intendere di
essersi innamorata e di voler sistemarsi con lui. Cesare soffre ancora per la moglie, e per voltare
pagina, accetta di sistemarsi con Piera.Quest'ultima però si stanca presto, e tradisce l'uomo con un
suo collega, Carlo. Cesare lo scopre e, accecato dalla rabbia, torna nella sua vecchia casa per
prendere la sua pistola. Ma qui incontra casualmente la moglie, nel frattempo pentita di averlo
lasciato. I due si riappacificano, Cesare dimentica Piera, decide di far ritorno a casa e perdona
Carlo. Un film schietto e istintivo per l'epoca, immerso in un'atmosfera popolare torbida, sensuale
e aggressiva, solitamente non tollerata dal regime. È il segno che davvero qualcosa stava
cambiando nel cinema italiano
Epico melodramma neorealista del dimenticato Giuseppe De Santis, assai bravo a trasformare un
modesto fotoromanzo pseudogiallo in un appassionato ritratto della povera Italia appena uscita
dalla guerra. Nell'atmosfera torbida, si staglia per la sua carica erotica la bellissima Silvana
Mangano, addirittura sensazionale quando si dimena in un sensuale boogie-woogie" Francesca,
giovane cameriera d'albergo, istigata dal suo amante, Walter, ruba la collana di una cliente.
Fuggono entrambi, e Francesca si mescola alle mondine, che partono in treno. Nel dormitorio delle
mondariso, Francesca viene derubata della collana da una compagna, Silvana. Sul luogo del
lavoro giunge Walter, il quale avendo appreso che Silvana è presumibilmente in possesso della
collana, la circuisce. Silvana non è insensibile alle premure del lestofante e, abbandonato un
sergente che l'ama, diviene l'amante di Walter, mentre il sergente fa la corte a Francesca, che si è
pentita ormai del male fatto.
Un invito a conoscere Corrado Alvaro girato da Mario Foglietti con un gruppo di giovani attori
nei luoghi alvariani.
Nel 1955 si gira questo corto assai interessante sullo scrittore di S.Luca da un documentarista
attento e sensibile che riesce a descrivere bene i personaggi alvariani
Gianni Amelio
Subito dopo la nascita del futuro regista, il padre emigra in Argentina per raggiungere il nonno, ivi
trasferitosi per motivi di lavoro, e Gianni trascorre quindi infanzia e adolescenza con la madre e la
nonna; l'assenza della figura paterna sarà infatti una costante in molte sue opere. Frequenta il liceo
classico P. Galluppi di Catanzaro e successivamente, all'Università di Messina, dove si laurea in
filosofia, comincia ad interessarsi di cinema. Organizza proiezioni e dibattiti in diversi circoli
culturali, prediligendo le tematiche neorealiste. Entra nella redazione della rivista Giovane Critica
con il ruolo di critico cinematografico e letterario.
Nel 1965 si trasferisce a Roma dove lavora fino al 1969 come operatore e aiuto regista in sei film,
alcuni dei quali di Gianni Puccini, ma anche con Vittorio De Seta, Anna Gobbi, Andrea Frezza e
Liliana Cavani. Nello stesso tempo lavora anche per la televisione, dirige dal 1967 servizi per
diverse rubriche, fa da assistente ad Ugo Gregoretti sia nel documentario Sette anni dopo sia in
molti caroselli pubblicitari, collabora con Alfredo Angeli, Enrico Sannia e Giulio Paradisi. Inoltre
dirige alcuni documentari industriali.
Nel 1970 si mette dietro la macchina da presa nell'ambito dei programmi RAI, in un periodo in cui
la televisione di stato favorisce l'esordio di molti giovani registi, realizza per la serie "Film
Sperimentali per la TV" la pellicola La fine del gioco, a cui fanno seguito nel 1973 La città del sole,
tratto dall'omonima opera di Tommaso Campanella, che vince il Gran Premio del Festival di
Thonon-Les-Bains dell'anno successivo, quindi Bertolucci secondo il cinema (1976), un
documentario sulla lavorazione dal film Novecento.
Dello stesso anno è anche Effetti speciali, un thriller imperniato sul mondo del cinema, mentre due
anni dopo dirige il giallo La morte al lavoro, tratto dal racconto Il ragno di Hanns H. Ewers,
vincitore del premio FIPRESCI al Festival di Locarno, il Gran Premio Speciale della Giuria e il
Premio della Critica al Festival di Hyères.
Nel 1979 gira quello che è considerato il suo lavoro migliore sul piccolo schermo, Il piccolo
Archimede, molto apprezzato dalla critica - qualcuno lo paragona addirittura a Luchino Visconti -
adattato dal romanzo omonimo di Aldous Huxley, che frutta a Laura Betti il premio di miglior
attrice al Festival di San Sebastian. Infine, nel 1983, realizza il suo ultimo lavoro televisivo per Rai
3, I velieri, tratto dal racconto omonimo di Anna Banti, per la serie 10 scrittori italiani, 10 registi
italiani.Finalmente, nel 1982, entra nel circuito cinematografico propriamente detto: il film Colpire
al cuore, presentato alla mostra cinematografica di Venezia, che affronta coraggiosamente lo
scottante tema del terrorismo nell'ottica di un rapporto contrastato tra padre e figlio, riscuote il
favore della critica. I consensi si confermano nel 1987 con I ragazzi di via Panisperna, che racconta
le vicende del gruppo di fisici di cui facevano parte, negli anni trenta, Enrico Fermi ed Edoardo
Amaldi. Girato in due versioni - una più lunga per il piccolo schermo - ottiene numerosi
riconoscimenti, tra cui il premio per la miglior sceneggiatura al Festival Europacinema di Bari, il
premio per il miglior film al Festival di Abano Terme, e il Premio Valmarana. Nel 1989 il film
Porte aperte, tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia e superbamente interpretato da
Gian Maria Volonté, lo lancia come autore di dimensioni internazionali e gli procura una
nomination all'Oscar nel 1991.
Vince inoltre 4 premi Felix, 2 Nastri d'Argento, 4 David di Donatello e 3 Globi d'Oro assegnati
dalla stampa estera in Italia.Nei quattro film che seguono Porte aperte, sviluppa tematiche legate
alla realtà sociale con dolorosa partecipazione e sensibilità artistica. Con Il ladro di bambini, il suo
maggior successo commerciale, vince nel 1992 il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes
e l'European Film Award come miglior film, oltre a 2 Nastri d'Argento, 5 David di Donatello e 5
Ciak d'Oro. Lamerica si aggiudica nel 1994 il premio Osella d'Oro alla Mostra del cinema di
Venezia, oltre al Premio Pasinetti come miglior film. Inoltre vince 2 Nastri d'Argento, 3 David di
Donatello e 3 Ciak d'Oro. Quattro anni dopo, Così ridevano, probabilmente il suo lavoro di più
difficile comprensione per il grande pubblico, vince il Leone d'Oro, sempre alla Mostra del cinema
di Venezia. Alla 61ª edizione del Festival di Venezia si presenta in concorso con il film Le chiavi di
casa, tratto dal romanzo di Giuseppe Pontiggia Nati due volte, dove affronta il tema di un padre che
tenta di stabilire un rapporto col figlio disabile. Il film, nonostante fosse considerato dalla critica
come uno dei più autorevoli candidati al Leone d'Oro, non vince nessun premio.
Pochi mesi dopo viene selezionato come candidato italiano agli Oscar per il miglior film straniero,
ma nel gennaio 2005 non rientra nella cinquina dei finalisti. Il mese seguente si aggiudica però il
Nastro d'Argento per la miglior regia.Dal 1983 al 1986 ricopre la carica di insegnante nel corso di
regista al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1992 viene nominato membro della giuria
alla 49ª edizione della Mostra del cinema di Venezia, e nel 1995 ricopre le stesse mansioni al
Festival di Cannes. Una delle ultime fatiche di Amelio per il grande schermo è La stella che non c'è
(2006), ispirato al romanzo di Ermanno Rea La dismissione, ma liberamente adattato dal regista che
ha voluto (idealmente) partire là dove il romanzo di Rea finiva. La storia infatti racconta una specie
di odissea che il protagonista, interpretato da Sergio Castellitto, compie in Cina per rintracciare
l'acciaieria dismessa dove ha lavorato per quasi una vita. Vuole recapitare a tutti i costi un giunto
cardanico agli operai cinesi, un pezzo che manca al meccanismo della siviera, il cesto metallico che
serve per colare l'acciaio fuso negli stampi. Senza di quello, infatti, potrebbe verificarsi di nuovo il
grave incidente dove ha perso la vita un operaio suo compagno.
Il film è stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2006.
Film in rassegna
Andato in onda per la rubrica settimanale della Rai Tv sprint nel novembre 1967 è un racconto di
emigrazione al contrario, in cui gli immigrati sono i calciatori della squadra del Catanzaro, che
conduce un campionato di testa in serie B. Nel 1966/67 conclude il campionato cadetto al 3° posto
sfiorando la serie A , mentre l’anno ancora prima era arrivato in finale di Coppa Italia, perdendo
con la Fiorentina. Un’italia che si appresta a vivere il ’68, la strage di Piazza Fontana; il post-
boom si vive anche a Catanzaro, la città dei tre colli. Gli eroi del pallone sono quasi tutti
settentrionali, venuti nella cittadina calabrese, ancora lontana dai fasti degli anni ’70 di capoluogo
e serie A, con al seguito le mogli, e il breve servizio ci parla del rapporto con la gente, in quel
luogo strano, in cui si sono trasferiti per lavorare dal nord e dal quale il giovane Amelio è fuggito
anni prima .in una sua intervista dirà –“i primi tempi che mi ero trasferito a Roma, incontravo gli
amici universitari di Catanzaro a Termini, che guardavano nostalgici i treni che tornavano giù ,
pensando alla famiglia, agli affetti, ai luoghi. E io li guardavo e riflettevo invece che , andando via
da Catanzaro
girato con Ugo Gregoretti. Dopo la visita a un riformatorio in Calabria per un'inchiesta sulla
devianza minorile, un giornalista televisivo fa un viaggio in treno col dodicenne Leonardo, da lui
scelto come rappresentante tipico della categoria. Non più condizionato dall'ambiente e dalla
presenza dei mezzi tecnici (cinepresa, registratore), Leonardo parla con una sincerità che prima
non aveva, ma trova nel giornalista soltanto un interesse professionale e gli si ribella. Prodotto da
Tommaso Dazzi per il 2° ciclo "Autori nuovi" dei programmi sperimentali della RAI, il 1° film del
25enne calabrese Amelio ha una struttura binaria: due luoghi, due momenti nel rapporto tra i
personaggi, due approcci diversi nella 1ª e nella 2ª parte, la capacità di far sembrare i personaggi
come persone reali e viceversa, l'opposizione tra la TV e il mondo del bambino. Fotografia (16 mm)
Poveri Noi1999
Un lavoro di montaggio sull’emigrazione meridionale al nord, con materiali televisivi, che fa parte
di un progetto piu’ ampio denominato Alfabeto Italiano. Rinfresca la memoria dell’Italia povera
degli anni ’50 costretta ad emigrare, quando si passava dalla miseria all’opulenza dall’ingenuità
al cinismo. Poveri noi è un titolo altamente simbolico , rappresentativo di quell’Italia che ha
dimenticato com’era e che oggi ci riporta allo sbarco degli immigrati, dapprima albanesi ed oggi
nordafricani. Sui nostri volti d’allora Amelio si sofferma con dolcezza;” Iolanda è una ragazza
siciliana che raccoglie fiori e spera di diventare una sartina, mica un’attrice del cinema. A vedere
quelle immagini sembra un’altra razza , con quei contadini cinquantenni già vecchi, quei bambini
pallidi e sporchi, le donne prosciugate dalla maternità senza sosta”.
La stella che non c’è, 2006 con Sergio Castellitto
Antonio Pane vive a Milano e ha un lavoro particolare: fa il 'rimpiazzo' cioè sostituisce gli assenti
in qualsiasi tipo di attività; un giorno può essere muratore, in quello successivo tramviere e così
via. Antonio è un uomo fondamentalmente solo: la moglie lo ha lasciato per unirsi a un uomo dalle
fortune decisamente più certe e il figlio studia sassofono contralto al Conservatorio e cerca in
qualche modo di aiutare il genitore. Un giorno, a un esame di Stato, Antonio conosce una giovane
donna, Lucia, a cui offre un aiuto disinteressato.
Gianni Amelio, dopo l'intenso tuffo nel passato in compagnia dell'Albert Camus de Il primo
uomo torna a raccontarci l'Italia di oggi attraverso la figura di un precario all'ennesima potenza,
un uomo che ogni giorno non sa in quale mansione verrà impiegato il mattino successivo. Per
quanto del tutto instabile nella vita lavorativa, Antonio ha una profonda coerenza morale, la sua è
una dignità che si rifà esplicitamente a Charlot e che, nell'apparente follia della fiducia nell'essere
umano, si rispecchia nel Totò di Miracolo a Milano.
Amelio ci ricorda quanto possa essere difficile, quando non addirittura tragico, vivere il presente,
in particolare per le nuove generazioni. In questo trova un valido supporto nella sempre intensa
fotografia di Luca Bigazzi (che 'costruisce' una Milano architettonicamente 'lontana' dalle persone
sia che ci si trovi in zona Garibaldi piuttosto che a Rogoredo) e nella recitazione di Albanese che
sembra sfiorare la realtà nel timore, forse inconscio, di finirne contaminato. Tutto questo però
viene periodicamente indebolito da una sceneggiatura che, oltre a mettere in bocca ad alcuni
personaggi frasi di scarsa credibilità in un dialogo tra semisconosciuti ("Io tifo per i tifosi" ad
esempio), abbandona a se stessa delle situazioni, quasi costituissero soltanto dei pretesti per creare
delle connessioni tra i personaggi ma che non avessero valore in sé. È impossibile citarle senza
rivelare, indebitamente, elementi di svolta delle vicende ma finiscono con il costituire delle zavorre
di improbabilità che minano una narrazione in cui si sente l'assoluta e indubitabile buona fede di
un Amelio che vuole continuare a sperare, nonostante tutto sembri congiurare perché il buio resti
privo di qualsiasi possibilità di luce.
Fiore e Gino, due faccendieri italiani, arrivano in Albania a bordo del fuoristrada di Gino e
vagano per i ministeri, con il supporto di corrotti funzionari locali, per mettere a punto l'ennesima
truffa ai danni del loro governo e di quello albanese, rilevado e la finta ristrutturazione di una
fatiscente fabbrica di scarpe. Serve anche un incapace presidente, il solito vecchio rimbecillito ma
ancora in grado di firmare i documenti dopo un vagabondaggio in un ex carcere, trovano Spiro
Tozaj, che non parla ed, alla prima occasione, fugge con il treno. Gino lo insegue col fuoristrada, e
lo raggiunge in un ospedale dove lo hanno ricoverato dopo che dei monelli gli hanno rubato le
scarpe e tentano di soffocarlo in un bunker col fuoco. A poco a poco, mentre l'agghiacciante realtà
di miseria e disperazione del paese emerge in tutta la sua evidenza, Gino scopre non solo che Spiro
è in realtà un ex miliziano fascista, Michele Talarico, un disertore che dopo 50 anni di galera ha
perso il senno e crede di vivere nell'Italia del '48, ma anche che la gente miserabile e il povero,
ignorante ma generoso vecchio, affrontano una realtà che il suo continuo quanto inutile ricorso ai
soldi non può certo modificare. Dopo una lunga odissea in camion per tornare a Tirana, Gino
telefona a Fiore, che si è dileguato. Poi la polizia lo arresta al rientro in albergo: il funzionario
albanese è stato arrestato, e Gino potrà allontanarsi solo firmando una confessione che permetta al
funzionario di polizia di incriminarlo. Successivamente Gino tenta di rientrare in Italia con una
nave di profughi, e vi ritrova Spiro convinto di andare in America.
Elio Ruffo
Nasce il 1 Gennaio del 1921 da una famiglia dal nome importante (1). I Ruffo sono di tradizioni
repubblicane e massoniche. Gaetano Ruffo, uno dei martiri di Gerace, è un loro illustre antenato.
Così si chiama anche Ruffo padre che si distinguerà successivamente in città per la sua posizione
fieramente antifascista.
Il suo ruolo di avvocato, stimato e affermato nel foro di Reggio Calabria, gli conferisce un prestigio
che gli consentirà di superare la fase difficile del ventennio mantenendo orgogliosamente le sue
posizioni politiche. Massone di Palazzo Giustiniani, appassionato di scherma e di filosofia Ruffo
padre si assunse l’onere della difesa in tribunale del brigante Musolino. Il suo tentativo di provarne
addirittura l’innocenza nel processo di Modena tornò, come vedremo, in qualche modo utile al
figlio molti anni dopo. Elio Ruffo ebbe il tempo, prima di trasferirsi a Roma, di intrecciare in
Calabria amicizie determinanti. Primo fra tutti lo scrittore Mario La Cava che rimase nel tempo un
prezioso riferimento nella stesura delle sceneggiature..
Le sue prime esperienze con la pellicola lo vedono come aiuto regista di Blasetti. Successivamente
la sua rete di relazioni appare ampia. Conosceva Visconti, Fellini, la Magnani, la Lollobrigida,
Umberto Orsini, Zavattini. Come regista si fece la fama di uomo pignolo. Nessuna otto millimetri
amatoriale circolò nella sua casa romana. Non si fece praticamente mai ritrarre alla macchina da
presa o, per lo meno , il suo album di famiglia non ne registra traccia.
Il radicamento nella capitale, l’ambizione di lasciare una sua testimonianza nel mondo del cinema
non cancellarono mai in Ruffo il senso di appartenenza alla Calabria. A questa regione si indirizza
praticamente tutta la produzione a noi nota del regista. Fa eccezione, il documentario “ Il bosco dei
cavalli selvaggi” girato negli anni sessanta in Sardegna nonché alcuni materiali rimasti inediti sulle
cooperative di pesca in Romagna (2). Girare “Una rete piena di sabbia” assorbì molto Elio Ruffo.
Fu circa un anno e mezzo di lavorazione, fra il ’65 e il ’66, soprattutto in Calabria. I motivi della
forte attenzione del regista per questo lavoro sono vari. Il principale probabilmente era la voglia di
riscatto dopo il lungo silenzio seguito a “Tempo d’Amarsi” (1954/55).
L’insuccesso commerciale di questo film rese riluttanti i produttori, per un intero decennio, ad
investire sull’autore calabrese per quanto le sue doti di neorealista fossero comunque riconosciute.
Difatti Rondolino sul “Catalogo Bolaffi del Cinema Italiano” (1945-1955) aveva osservato che
sebbene “Tempo d’Amarsi” fosse “un film concepito, diretto e prodotto da un giovane alle prime
armi” era questa già un’opera dalla quale emergeva “un chiaro ed originale senso cinematografico”.
“Tempo d’Amarsi”, con il suo basso incasso di 8.000.000 (la cifra rimane “bassa” per un film anche
valutando il maggior peso della lira di allora) e la sua trama imbastita su una dolente storia familiare
fra Bovalino e San Luca, non incoraggiò le produzione a reinvestire su Ruffo.
Anche la stessa onda di un cinema realista e di impegno sociale, a quel che pare, non fu sufficiente
per esercitare un “effetto trascinamento” sull’opera di Ruffo. Nel senso di una maggiore
“attenzione” del mercato anche verso un autore considerato “minore” e così particolarmente e
strenuamente legato alla Calabria. “Una rete piena di sabbia” fu comunque per Ruffo un’esperienza
determinante alla quale l’autore volle dare una forte impronta personale. Il film è ricco di citazioni
autobiografiche. Il protagonista, Ennio de’ Roberti, è un regista, di origine calabrese ma vive a
Roma, è figlio di un antifascista.
Una implicita citazione dell’attività di avvocato di Ruffo padre ritorna nella scena nella quale de’
Roberti mentre cerca di aiutare i pescatori a vendere la loro mercanzia si scontra con un mafioso
locale. Il picciotto gli ricorda di conoscere bene suo padre che lo ha difeso in tribunale più di una
volta. Ulteriori elementi di identificazione fra Ruffo e il suo personaggio stanno nella pozione
politica chiaramente “di sinistra” dello stesso, della sua propensione al “cinema verità”.
Estremamente significativo nel personaggio de’ Roberti è l’atteggiamento di sfiducia verso
l’ambiente romano dove comunque vive. Ennio sa già che il suo documentario sarà cestinato.
E’ l’emblema di una carriera artistica consapevole di non poter incontrare alcun successo e
apprezzamento in quel momento e in quell’ambiente. Eppure Ruffo esattamente come Ennio de’
Roberti gira caparbiamente a suo modo e solo a suo modo. Il manifesto disincanto polemico del
personaggio de’ Roberti verso la Rai, o meglio verso il sistema che la controlla, diventa
automaticamente autobiografico in un momento preciso del film.
Flavia mette in guardia Ennio dal “toccare” temi politici nel suo documentario per farlo accettare
più facilmente a Roma. Ennio ironizza dicendo che gli è stato addirittura cestinato un lavoro che
trattava di cavalli selvaggi in Sardegna. E’ un riferimento assolutamente incomprensibile senza
sapere che, come abbiamo già accennato, effettivamente Ruffo girò un documentario per la Rai con
questo tema di cui si sono perdute le tracce. Sulla pista dei lavori “cestinati” Ruffo coglie
l’occasione per citare, questa volta direttamente ed in immagini, un suo lavoro sulle cooperative di
pesca in Romagna.
Fa irruzione prepotentemente il primo amore di Ruffo: il cinema documentario. La trama di fiction
con questo bagno di realismo assume il colore della verità.
Con ogni evidenza chi progetta la fiction, qui, non vuole rinunciare alla sua anima di
documentarista. In “Una rete piena di sabbia” la polemica autobiografica è violenta e totale: contro
il sistema politico-mafioso calabrese, contro quello romano che appoggia, il mondo del cinema e
della televisione che non capisce e che non apprezza. Il legame artistico di Ruffo con la sua terra,
con gli occhi di oggi, fu probabilmente un fattore frenante per ottenere l’attenzione della scena
nazionale. “. In “Una rete piena di sabbia” Elio Ruffo dimostra di aver compreso tutto ciò già in
quegli stessi anni.
La geografia degli equilibri politici ed economici nella regione dei ’60 delineata dal film è molto
precisa: vi è una consorteria notabile, clientelare e mafiosa assolutamente blindata ad ogni attacco.
Essa è dotata di appoggi potenti nel quadro di un sistema che giunge agevolmente sino a Roma.
Tutti i “sottoposti”, ad esempio i pescatori del film, non hanno altra chance che subire più o meno
consenzienti.
Molti, per vivere meglio, preferiscono sentirsi consenzienti. Questo “abbraccio” fra il notabilato e
la mafia trova una sua scena simbolica e caricatissima, addirittura acida, nel film. E’ l’appassionato,
sensuale tango fra la rampante donna Mimì ed il funereo imbrillantinato don Fefè, incontrastata
autorità mafiosa. E’ l’abbraccio fatale nel quale don Fefè, “onorato” braccio militare si mostra
pronto a sostenere la sua “rispettabile” partner politica in un tragico (per la collettività) “caschi”.
Ennio è l’efficace simbolo di più generazioni di intellettuali sensibilizzati politicamente e
socialmente, che hanno fatto una significativa esperienza fuori dalla Calabria ed a qualche titolo
vorrebbero “ritornare”, fare delle cose in Calabria, avere l’opportunità di vivere nella propria terra.
Ma un sistema che pare inespugnabile e che si fonda sulla sottocultura e sul braccio militare della
mafia (per i soggetti più recalcitranti) chiuderà regolarmente ogni spazio. Ruffo/dè Roberti non si
rassegna. Difatti Ennio ad un certo punto confessa a Flavia: “…forse il mio interesse è qui ora, nella
mia terra d’origine”. Si potrebbe osservare che Elio Ruffo rovistava in realtà locale e rurale con
occhio da intellettuale urbano e borghese. Ma era un occhio che rifletteva una coscienza lucida e
una consapevolezza straordinaria della fase storica in cui la periferia Calabria era immersa. “Tempo
d’amarsi” ed “Una rete piena di sabbia” in qualche modo ricordavano ai calabresi di essere i
calabresi di quel momento.
Entrambe le opere principali di Ruffo sono girate sulla jonica a Soverato, a Copanello, a Squillace,
a San Luca, a Bovalino. Emblematicamente Elio Ruffo si rivolge alla Calabria “orientale”, non si
stanca di cercare la sua verità narrativa su una costa ancora più povera e marginale rispetto al
versante tirrenico.
Il Tirreno, per lo meno, faceva (e fa) da riferimento per le comunicazioni dalla Sicilia verso il
Continente traendone qualche tenue beneficio. Questo vantaggio geografico agita ancora oggi
qualche fantasma di sviluppo insostenibile. In questa direzione appare significativa la trama di
“Tempo d’amarsi”, un film fortemente voluto da Ruffo, girato con mezzi economici risicatissimi,
presentato al festival di Locarno nel ’55 e successivamente inabissatosi nella dimenticanza. “Tempo
d’amarsi” si muove tutto fra San Luca e Bovalino.
Disoccupazione, povertà, il drammatico problema del lavoro sono il cuore del film. Un capo
famiglia cade da un albero e muore e sua figlia Rosa (Loretta Capitol) si assume un ruolo di
responsabilità rispetto alla famiglia innescando un conflitto con il fratello Gianni (Ciccio Pelle). Il
figlio maschio si sente comunque più in dovere di trovare sostegno economico per la famiglia.
Inizia la sua affannata ricerca di lavoro da San Luca a Bovalino per i cinque orfani si profila una
vita di stenti. Conclude il quadro delle opere di Elio Ruffo un film rimasto purtroppo incompiuto:
“Borboni anni ‘70”. Già la sceneggiatura fu oggetto di una battaglia legale che rallentò la successiva
lavorazione del film.
L’oggetto del contenzioso fu la paternità della stessa sceneggiatura che i produttori Lucibello e
Borruto si attribuivano. Elio Ruffo vinse la causa ma non fece in tempo a realizzare “Borboni anni
‘70” perché la morte lo colse pochi anni dopo. In attesa della risoluzione del contenzioso, a quel che
pare, Ruffo iniziò comunque a girare dei materiali in 35 mm e, per la prima volta, a colori. Nel
solco del suo “cinema verità” la sua attenzione si centrò sul processo di Locri, noto come “processo
di Montalto”.
Il processo si concluse con la condanna di praticamente tutti gli imputati e gli stessi materiali Ruffo
furono trattenuti come prova giudiziale.
La successiva morte dell’autore purtroppo contribuì a smarrire il contatto con un documento che
doveva essere rilevantissimo. Infatti gli eredi non rivendicarono successivamente la pellicola. Ruffo
girò varie fasi del processo. Cercò il confronto diretto con gli imputati, riuscì a rassicurarli che
avrebbe trattato la loro immagine con “equidistanza”.
Molto probabilmente il fatto di essere figlio del difensore di Musolino fece la sua presa su una
vecchia mafia, ancora parzialmente legata a criteri pseudo-cavallereschi. Una morte precoce,
dunque, non gli permise di concludere il film. Era il 16 giugno del 1972.
Film in rassegna
Laureato in Filosofia, si diploma in regia nel 1954 presso il Centro sperimentale di cinematografia
di Roma.Dalla fine degli anni cinquanta comincia a realizzare programmi culturali e film per la Rai.
Nel 1958 il suo mediometraggio Magia Lucana, realizzato con la supervisione dell'antropologo
Ernesto de Martino, vince il premio come miglior documentario nella 19ª Mostra internazionale
d'arte cinematografica di Venezia.Nel 1968 il mediometraggio La tana viene selezionato al Festival
di Cannes.Nel 1975, con Il tempo dell'inizio, il suo primo lungometraggio di fiction, vince il Nastro
d'argento come miglior regista esordiente.
Nel 2006 l'Università di Tubinga, in Germania, gli conferisce la laurea honoris causa in Filosofia
per meriti nel campo del cinema di ispirazione antropologica.Nel 2009 realizza il docufilm Carlo
Gesualdo da Venosa (1566-1613), appunti per un film con la partecipazione, tra gli altri, di Milena
Vukotic, Roberto Herlitzka e Peppe Barra.
Nel 2013 la Cineteca di Bologna cura il restauro dei suoi documentari brevi, pubblicandoli nel
cofanetto Uomini e spiriti. I documentari di Luigi Di Gianni. Nello stesso anno, in collaborazione
con il Centro Studi sull'Etnodramma, realizza il film Appunti per un film su Kafka. Nella colonia
penale.
Dal 2014 il blog Atmosphere pubblica suoi scritti inediti, tra cui le sceneggiature dei film mai
realizzati Michele Cannarozzo, un uomo d'ordine, Carlo Gesualdo, il Principe dei musici e, in 19
puntate, Il castello, tratto dal romanzo omonimo di Franz Kafka.Nel 2015 pubblica il DVD Il tempo
dell'inizio (1975).
Film in Rassegna
Donne di Bagnara
Tempo di raccolta
Magia Lucana
L’attaccatura
La Madonna di Pierno
Il male di s.Donato
Grazia e numeri
Gesualdo da Venosa
Gioacchino Criaco
Gioacchino Criaco nasce ad Africo, un piccolo centro della costa ionica calabrese. Figlio di pastori,
in giovane età inizia a meditare su una nuova trattazione letteraria dell'Aspromonte e luoghi
limitrofi, data la scarsa divulgazione degli stessi.
Dopo la morte di Corrado Alvaro infatti, c'è stato bisogno di aspettare vent'anni per veder
nuovamente i riflettori puntati sull'Aspromonte, e stavolta non per un'opera letteraria bensì a causa
del fenomeno sequestri, che a cavallo tra gli anni '70 e '80 dello scorso secolo ha ridotto l'immagine
della montagna calabrese a una vera e propria foresta intricata e maledetta.
Si diploma presso il liceo scientifico “Zaleuco” di Locri, e si laurea in giurisprudenza a Bologna.
Esclude l'attività forense per avvicinarsi al mondo della letteratura calabrese, in quel momento assai
sparuto.Dopo anni di sperimentazione, nel 2008 pubblica Anime nere, il suo primo romanzo, di
grande impatto socio-culturale.
Inaugura così il noir di matrice calabrese.Criaco racconta e descrive quelle realtà minori al limite
della civiltà che, nonostante facciano parte di un contesto territoriale inserito in una nazione
sviluppata e democratica, sembrano continuare a vivere di leggi e tradizioni proprie, a
dimostrazione di una distanza fisica e politica forse irriducibile
Film in rassegna
Fernando Muraca dopo la laurea nel 1992 in storia del cinema presso l’università La Sapienza di
Roma, ha iniziato la sua attività come regista e autore di teatro.
Dal 1996 al 2000 lavora come sceneggiatore e story editor per la televisione per molte fiction messe
in onda in prima serata nelle reti nazionali.
Nel 2000 con il cortometraggio "Ti Porto Dentro" inizia la sua attività di regista ottenendo
numerosi riconoscimenti. Fra le altre cose nel 2002 dirige la serie televisiva per ragazzi "Indietro
nel tempo" che riceve diversi premi in Europa (Archeofest 2005 - Cinarchea 2004 Internationales
Archäologie-Film-Festival Kiel - Golden Chest 2004 Festival Internazionale di Televisione Plovdiv,
Bulgaria Menzione Speciale per la categoria ragazzi)
Nel 2004 dirige il suo primo lungometraggio ("Nel Cuore il Mondo") destinato all’Home Video.
Nel 2006 realizza il cortometraggio "Ti Voglio Bene Assai" (con Ettore bassi, Flavio Insinna e
Serena Autieri). Selezionato al festival di Taormina e in moltissimi altri concorsi cinematografici.
Nel 2007 scrive e dirige cinque cortometraggi per una campagna di educazione stradale del
Ministero dei Trasporti che si aggiudicano il 1° premio della giuria al Trophées mondiaux du Film
de Sécurité Routièr – Parigi 2008.
Nel 2008 realizza il sua opera prima con il lungometraggio cinematografico indipendente "E’
Tempo di Cambiare" già presentato in diversi festival cinematografini in Italia.
Film in rassegna
Duns scoto , 2010 con Alessandro Braidotti
Il film inizia con l’allontanamento volontario di Duns Scoto, professore francescano della Sorbona,
che rifiuta di schierarsi contro Bonifacio VIII. Nel viaggio verso Oxford con un giovane novizio,
ricostruirà la storia della sua vita e della sua vocazione: dalle origini alla sfida con i Domenicani
circa la dimostrabilità dell’Immacolata Concezione di Maria, ai rapporti con gli studenti tra i quali
spicca Guglielmo di Occam.
John Duns fu beatificato nel 1993 da Giovanni Paolo II La proclamazione del dogma
dell’Immacolata Concezione di Maria SS., verità della fede cattolica, è stata resa possibile proprio
dal contributo di Giovanni Duns Scoto. Grazie ai suoi argomenti l’8 dicembre 1854 il beato Pio IX
poté proclamare solennemente il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria.
Miglior Film e Miglior Attore all’International Catholic Film Festival “Mirabile Dictu”
Michelangelo Frammartino
Nasce a Milano nel 1968 da genitori calabresi. Nel 1991 si iscrive alla Facoltà di Architettura
del Politecnico di Milano. Tra il 1994 e il 1997 frequenta la Civica Scuola del Cinema, per la quale
produce alcune installazioni di videoarte, e lavora come scenografo per film e videoclip. Gira anche
alcuni cortometraggi: Tracce (1995), L'occhio e lo spirito (1997), BIBIM (1999), Scappa
Valentina (2001), Io non posso entrare (2002)[1].
Esordisce nel lungometraggio con il film Il dono (2003), presentato al Festival di Locarno, a cui
segue Le quattro volte (2010), premiato come miglior film al Sulmonacinema Film Festival.
Dal 2005 insegna Istituzioni di regia all'Università degli studi di Bergamo. A dicembre 2013 ha
tenuto un workshop presso l'Università della Calabria.
Film in Rassegna