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Giorgio Schiaffetti

Il mondo di Rathenau

antologia di scritti e discorsi politici 1919-1921

Socializzazione interminabile. Una parola sul plusvalore

1.
Abbiamo ottenuto la Repubblica. Improvvisamente. La Repubblica sociale. Da una lontananza
estrema ci seduceva il giardino delle meraviglie, ed ora, di punto in bianco, dobbiamo entrarvi, a
rotta di collo. La repubblica non vuole farsi sociale. Ha orrore dell’ideale. Da destra incombe il
sanguinoso precedente di Lenin. Da sinistra la meccanica concorrenza del mercato occidentale. Nel
mezzo Spartaco. Omero canta: Πρόσθε λέων, όπιθεν δέ δράκων, μέσση δέ χίμαιρα. Davanti il
leone, dietro il drago, nel mezzo la Chimera.
Cosa può soccorrere? Una parola in voga: collettivizzazione (Vergesellschaftung). Essa diventa
maggiormente comprensibile, e comunque più sopportabile, se la si traduce in tedesco; allora si dice
socializzazione (Sozialisierung). E se si vuole, poi, un vocabolo davvero tedesco, che ha radici
tedesche, allora si dica: Gemeindung.  Ma con la parola non si è ancora ottenuto nulla, essa deve
avere un senso. E anche con il senso non si è giunti a granché, esso deve avere uno scopo.
E qual è lo scopo? Giustizia sociale.
In che cosa consiste? In ciò: che non si dia eccessivo contrasto tra povero e ricco. Che non si dia
alcuna ereditaria ed eterna separazione tra povertà e ricchezza, potenza e debolezza.
È questa una cosa buona e giusta? Sì, è uno scopo buono e giusto.
Come lo si può raggiungere?
In tre diversi modi. O tutti poveri, o tutti ricchi, o tutti benestanti.
La prima soluzione è senz’altro insensata, la seconda è umanamente impossibile, quella che conta è
la terza.

2.
Come si può dare benessere a tutti gli uomini?
Marx dice, e i suoi seguaci lo ripetono da settanta anni: si dia all’operaio tutto il plusvalore che si
ricava dalla sua prestazione. Gli si dia ciò che capitalista e imprenditore hanno finora preteso ed
ottenuto senza averne diritto, interesse e profitto.
A torto о a ragione; la polemica si è comunque trascinata per settant’anni. Ma la polemica era
inutile, poiché se mai si può rendere il mondo piu felice di quanto non sia, ciò non dipende dal
diritto vigente.
Si è calcolato a sufficienza quanto si ricaverebbe dall’operazione? Per lo piu ben poco. Se una
grossa società per azioni divide fra i suoi lavoratori il suo profitto annuo, compresi tutti gli
accantonamenti, ne deriva un aumento per ora lavorativa che va dai 10 ai 15 Pfennig.
Generalmente si ribatte: certo, se il lavoratore ricevesse molto di piu, altrettanto crescerebbe il suo
potere d’acquisto, e così il volume d’affari, e così l’utile, e in tal modo di nuovo crescerebbe il
salario e ancora il potere d’acquisto e così via... in breve: un principio autopropulsivo, un
Perpetuum mobile economico dell’effetto di utilità. Purtroppo, come in tutte le cose troppo belle, vi
è qui un errore. E lo vedremo subito.
Si sono anche proposti molti ed efficaci metodi per attribuire il plusvalore al lavoratore. Due dei piu
arguti sono quelli di Oppenheimer e di Hobson. L’uno svuota il mercato del lavoro mediante
colonizzazione, l’altro espropria i capitalisti attraverso consorzi di produzione, « National Guilds ».
La terza e piu facile strada è quella percorsa scientemente e intenzionalmente dalla Russia,
involontariamente e con indolenza dalla Germania nei suoi centri industriali piu in fermento:
rafforzare d’autorità il lavoratore nel suo conflitto salariale in modo tale che egli, reso indipendente.
da ogni situazione, di mercato, stabilisca a piacere il proprio salario.
Tale effetto può essere ottenuto in due modi: о privando l’imprenditore di ogni protezione statale e
rendendolo privo di diritti, о stimando il sussidio statale ai disoccupati in modo tale che cada
l’incentivo all’occupazione. Così, secondo entrambe queste modalità, ci si è comportati a Berlino,
senza un’intenzione propriamente politica, e quasi involontariamente. Il reddito annuo
del lavoratore per un turno di lavoro di otto ore ammonta a 7.200 marchi; 300.000 lavoratori
guadagnano in tal modo annualmente piu di 2 miliardi, e cioè una somma superiore di 1/4 alle spese
generali dell’armamento tedesco per mare e per terra.

3.
Eliminare il profitto è dunque in sé una cosa facile. Non c’è bisogno di alcun comuniSmo, né di un
socialismo di Stato. Basta solo che la direzione statale chiuda gli occhi per un po’.
Ma è una cosa buona e utile?
Prima di prenderlo in considerazione, una questione incidentale.
Perché dovremmo accontentarci di un salario di 7.200 marchi? Perché non 10.000, 20.000, 100.000
marchi?
All’imprenditore è indifferente. Più che rinunciare al proprio ruolo imprenditoriale, piu che
abbandonarlo, non può fare. Direttori e funzionari avanzerebbero di grado col lievitare del salario.
Ogni nuovo successore legale dell’imprenditore — compratori, fittavoli, Comuni, per ultimo lo
Stato — pretende e riceve l’indispensabile banconota dalle casse dello Stato e dalle zecche del
Reich. Naturalmente, aumenta smisuratamente la circolazione del denaro e corrispondentemente
l’indebitamento dello Stato; d’altra parte, l’esempio della Russia mostra che un paio di buone presse
per la stampa vengono a capo di tutto. Esse fanno fronte anche al servizio di prestito, stampando
obbligazioni per ogni scadenza degli interessi. , Non succede null’altro che la caduta del valore del
denaro. Il marco che oggi vale 50 Pfennig decresce a 30, 2.0, 10, 1 Pfennig. A zero non arriva,
bensì, nel caso estremo, si riduce a un frammento di Pfennig. L’unità di misura della moneta
portoghese equivale a 0,4 Pfennig; per quale ragione non dovrebbero darsi unità di misura inferiori?
Il limite è fissato dai costi materiali di stampa della banconota da 1000 marchi, che a poco a poco
diviene unità di circolazione. E d’altra parte si può giungere anche a unità maggiori di carta moneta.
D’altronde, non si può neanche dire che l’operaio e gli altri salariati facciano comunque un cattivo
affare. Ogni nuova svalutazione del denaro ha bisogna di tempo. Tanto prima si acquista, tanto
meno si paga. Chi è alle fonti della svalutazione, compra con la massima rapidità.
Ovviamente il commercio con l’estero deve ridursi, e si riduce di fatto allo stretto necessario. Un
passivo della bilancia commerciale non è possibile ad un tale livello di valore del denaro. Ma per
quanto durerà lo scambio di merci, sarà sempre possibile un certo traffico internazionale. Contro
l’esportazione di apparecchiature, opere d’arte, titoli di proprietà possono prendersi provvedimenti
di una certa ampiezza.
Cosa accade allora? Chi paga alla fine lo scotto?
Il creditore. Il creditore paga, il debitore guadagna.
Chi ha rilasciato un’ipoteca ad un valore monetario di 100, e la recupera ad un valore di 1, ha
perduto 99. Così il creditore dello Stato, così il pensionato.
Colui il cui intero patrimonio consiste in merci ed è notevolmente in debito per esse, о quello che ha
possedimenti terrieri о minerari, arricchisce.
Allora si devono statalizzare le miniere? Bisogna certo farlo; ma sicuramente i minatori
pretenderanno salari speciali e guasteranno l’affare allo Stato.
Difficoltà sorgono per la proprietà terriera. Il contadino non vuole essere fittavolo, lo Stato nelle
vesti di latifondista è impotente.
Quasi impossibile ciò risulta per le scorte di merci.
Ma lo Stato può certo confiscare l’incremento di proprietà e l’eredità! — (Certo, potendolo e
volendolo, ciò non abbisogna di troppi esperimenti. Ma lo vedremo piu tardi.)
Accade allora questo: la terra, dalla quale un tempo tutto ebbe origine, inghiotte nuovamente tutto
in sé.
Ognuno — anche lo Stato — gioisce delle merci che attualmente possiede e che diventano di giorno
in giorno piu preziose. Le protegge e le cura, le mette da parte e non le dà via. Chi possiede un
tappeto о un armadio, è felice: entro un anno non può piu comprarlo. Chi ha un chilo di cacao, non
lo dà via per 20 marchi, entro un anno dovrebbe pagarlo 40. Chi ha una macchina utensile, la lascia
inutilizzata ed evita di usurarla; cosi rende di piu che se lavorasse.
Si consideri qui una proposizione, le cui applicazioni dovrebbero essere di nuovo ben ponderate:
l’economia si basa sul dispendio dei beni presenti per l’ottenimento di beni futuri. Essa poggia di
conseguenza sull’equiparazione di ciò che propriamente non è comparabile, e in tal modo è affare
d’inclinazione (Stimmungssache).
Tutto ciò che di beni mobili e immobili circolava о stava sulla superficie della terra, si conserva fin
che può, si logora, infine si esaurisce: la terra, il campo rimane. Cosi accade oggi in Russia senza
troppo grande pericolo. Dalla Russia del 1900 riemerge la Russia del 1800, e anche questa riesce a
mantenere uomini a sufficienza. La Germania del 1800 non lo può.
E il « crescente potere d’acquisto »? Certo, c’è: ammesso che il valore monetario non sfugga al
controllo. E ammesso che lo Stato, che in queste condizioni è l’unico che produce (perché deve
produrre), in questa depressa economia riesca a produrre sufficientemente. Quello russo non lo può
fare, sebbene tenti di introdurre di straforo la vecchia economia interdetta.
Un dirigente dell’economia, che non dispone di altro obiettivo che quello di « accrescere il potere
d’acquisto » in una condizione di continua svalutazione, può affidarsi ormai solo a mezzi coercitivi.
Di conseguenza: l’arbitraria separazione del salario operaio dal ciclo economico conduce non
semplicemente alla svalutazione, ma soprattutto all’appiattimento dell’economia alla naturalità del
suolo. Con ciò si è risposto alla questione incidentale.

4.
Procediamo oltre questa risposta. Supponiamo tranquillamente che essa sia falsa (cosa che non è), e
che l’unilaterale separazione del salario operaio dal ciclo economico sia innocua.
Come la mettiamo ora con l’eliminazione del plusvalore? E con il compito centrale del marxismo?
La questione non è mai stata conclusivamente sviscerata dagli specialisti. Le mie considerazioni in
Von kommenden Dingen 1 non sono state considerate о le si è liquidate con parole arroganti. Esse
però non si lasciano liquidare, poiché sono vere.
Se si segue il curriculum vitae di un normale imprenditore economico, ne risulta qualcosa di
stupefacente, appena credibile.
L’impresa può aver riportato buoni, addirittura straordinari profitti: tuttavia, nel corso dell’anno —
prescindendo da poche spese — ha ricavato piu denaro di quanto abbia speso. Ha pagato salari e
stipendi e al di là di questo ha lavorato, per cosi dire, alla propria crescita.
In circa vent’anni ha distribuito, come utile, nel complesso, il doppio del suo capitale, e nello stesso
periodo di tempo ha ricevuto il triplo, quadruplo del suo capitale iniziale in forma di aumenti di
capitale e di emissioni obbligazionarie.
Avesse avuto un unico azionista, questi avrebbe dovuto restituire non solo tutto quello che aveva
ottenuto, ma molto di piu. In coscienza: il possedere un’impresa che si ingrandisce sempre di piu,
che procede sempre innanzi, significa; pretendere piu che pagare. (In questa crescita, in effetti, non
vi è possibilità né di fermarsi, né di tornare indietro; questo è spiegato nel saggio Vom  Aktienwesen
2.)

L’economia industriale è dunque qualcosa che nell’antico linguaggio giuridico era chiamato un
bene che divora (ein Pressendes Gut). Un bene che divora, e che mai è pronto ad essere macellato.

5.
Un breve calcolo, così semplice che non si è spesa la fatica di farlo.
Domanda (formulata nel modo piu semplice e brutale): Quanto costa un uomo e quanto frutta?
Un’impresa industriale che voglia occupare 10.000 uomini, deve impegnare circa 30 milioni di
marchi in fabbriche, macchine, attrezzature, senza tener conto del capitale d’esercizio, che ammonta
all’incirca alla stessa cifra. Un addetto, in capitale industriale, costa 3000 marchi. Non si sono
calcolati i notevoli costi del suo alloggiamento e del suo addestramento, che direttamente о
indirettamente debbono essere sostenuti, comunque, in parte dall’economia industriale.
Quest’uomo trasforma, secondo l’esperienza, in media 4000 marchi, incluse naturalmente le materie
prime che lavora. Di questi 4000 marchi, se si prescinde dall’interesse sul capitale d’esercizio,
rimane nel migliore dei casi un guadagno lordo del 12,5%, dunque 500 marchi all’anno. Con questi
devono essere sostenuti costi d’amministrazione, ammortamenti e utili.
Non vogliamo essere meschini, bensì solo supporre che tutti questi 500 marchi siano un plusvalore
confiscabile.
Supponiamo che l’uomo lavori 30 anni. In tal modo egli ha prodotto complessivamente un
plusvalore di 15.000 marchi.
Durante questo periodo, però, la sua dotazione industriale dovrà essere rinnovata per lo meno tre
volte. (Le macchine durano 10 anni, gli edifici piu a lungo, strumenti e apparecchiature sono di
durata minore; la maggior parte di queste attrezzature però vanno sostituite prima d’essere
consumate, perché diventano obsolete.)
Il triplice rinnovamento della dotazione industriale costa 9000 marchi. Dunque in 30 anni
rimangono 6000 marchi di plusvalore. Se lo si calcola per anno non è molto: 200 marchi, oppure 8
Pfennig per ora lavorativa.
E questo solo assumendo tre premesse:
In primo luogo che l’impresa lavori senza spese di amministrazione, in secondo luogo che vi sia
stato qualcuno che le ha messo a disposizione il capitale d’esercizio gratuitamente (cioè in
obbligazioni infruttifere), in terzo luogo che abbia avuto continuativamente per la durata di
un’intera generazione buoni esercizi attivi e nessuno passivo.
E tuttavia questo non è tutto. Poiché crescendo la popolazione deve anche aumentare il consumo e il
commercio estero, l’impresa dovrà almeno raddoppiare nel giro di una generazione impianti e
mezzi di produzione (materie prime, semilavorati, prodotti finiti). Perciò quei 6.000 marchi per
addetto bastano appena, poiché moltiplicati per 10.000, danno 60 milioni.
L’intero plusvalore deve quindi essere di nuovo riportato interamente all’impresa,
indipendentemente da chi lo abbia ricevuto; ogni Pfennig consumato, manca dal conto.

6.
Lo stesso risulta se si osserva l’intera economia di un paese.
Se si potesse stabilire precisamente al 31 dicembre l’esatta bilancia nazionale, in che cosa
consisterebbe l’accrescimento del reddito totale?
Non in oro e argento. A questo riguardo poco è mutato. Forse in un piccolo incremento dell’attivo
con l’estero e dell’investimento all’estero. Questo non ha mai avuto una grande importanza per noi.
Cos’è dunque aumentato?
Sono aumentati i fondi dei beni mobili e immobili. (Consideriamo a tal riguardo solo la ‘ parte
materiale ’ del calcolo. La registrazione, la ‘ trascrizione contabile ’, conduce allo stesso risultato
attraverso percorsi intricati.)
Quantità e valore dei beni mobili sono cresciuti tramite la produzione e la riscossione dall’estero;
questo incremento è quello minore.
Quantità e valore dei beni immobili sono cresciuti tramite costruzioni e miglioramenti; questa
crescita è la maggiore e la decisiva.
Se si viaggia attraverso un paese, che non sia propriamente о impropriamente un paese coloniale,
ma un paese economicamente autonomo, e si vede che si è costruito molto, allora si può dire con
sicurezza che questo paese ha fatto dei buoni risparmi.
Altri modi di risparmiare, al di fuori di quello citato, non esistono.
Che significa questo?
Questo significa che, a prescindere dall’esportazione di capitali, che nelle nostre condizioni non ha
alcun ruolo, il paese investe ogni pezzo da 10 Pfennig risparmiato nelle sue strutture economiche. E
viceversa: le sue strutture economiche abbisognano di ogni Pfennig che il paese risparmia.
Questo non vuol dire già molto? No, non vuol dir un granché. Perché finché ad una gran parte della
popolazione mancheranno nutrimento, vestiario, suppellettili e dimora, nel paese non si produrrà
troppo, ma troppo poco. Gli impianti esistenti, con una completa razionalizzazione dell’impresa —
e su questo ritorneremo —, potrebbero produrre di piu di quanto facciano oggi. Però per garantire al
crescente numero degli uomini una crescente condizione di vita, debbono crescere i mezzi
di produzione, ed essi crescono solo attraverso il risparmio. I sostenitori del « crescente potere
d’acquisto » non lo comprendono; non sanno che la produzione è sempre limitata dall’entità dei
mezzi di produzione e che questa entità non cresce da sé.
Altra questione. Se non si può accantonare, risparmiare, investire, spendere in costruzioni di meno:
non si potrebbe allora accantonare, risparmiare, investire, spendere in costruzioni di piu?
Certamente, si potrebbe! Tocchiamo qui un punto che ci darà ancora da fare; qui stanno i problemi
piu belli.
Poiché si risparmia ciò che non viene consumato; la teoria del consumo e della domanda di beni di
consumo avrà la parola piu avanti.
Per il momento atteniamoci a questo: l’economia abbisogna di ogni Pfennig risparmiato per la sua
crescita normale. Meglio piu che meno. Chi sottrae all’economia questi mezzi, consumandoli,
sperperandoli, esportandoli, investendo a capriccio e in modo sbagliato, danneggia il suo paese e ne
ritarda lo sviluppo.
Ora la nostra esperienza perde la sua paradossalità per la singola impresa; ciò che vale per il tutto,
vale per la parte. Anche l’impresa ha bisogno di tutta la sua rendita per una crescita naturale, anzi
abbisogna di piu; perciò altri rami economici, commercio ed economia agraria, abbisognano di
qualcosa in meno.
Tutto in tutto: in un’economia sana e in crescita, l’intero profitto, rendita e utile dell’impresa,
rifluisce totalmente, prescindendo da ciò che il capitalista e l’imprenditore consumano per sé, nella
struttura complessiva. Questo riflusso corrisponde esattamente al bisogno di espansione.
Il senso del profitto — non dall’inizio, bensì oggi, dopo l’avvenuta sostituzione della proprietà
fondiaria —, è di conseguenza questo: fondo di riserva per l’espansione. E lo stesso senso ha quella
forma, vorrei dire innata, di profitto: l’accantonamento interno dell’impresa.
Se il plusvalore venisse, secondo le note pretese, sottratto al capitalista e all’imprenditore e
distribuito al lavoratore, allora, ammesso che debba ancora esistere una economia, si dovrebbe
pretendere che egli non consumi di questo denaro piu di quanto i predecessori di diritto ne abbiano
consumato, cioè una minima frazione. Il resto dovrebbe metterlo a disposizione dell’economia
totale e anche in futuro non ne riceverebbe nulla: poiché, a prescindere dal fatto che l’interesse è
stato eliminato, l’impresa divora, come abbiamo visto, piu di quanto dà.
Il piu pretenzioso potere d’acquisto non cambierebbe nulla.
Il senso del plusvalore e del profitto è riserva economica. È completamente indifferente chi riceva о
amministri il plusvalore: non può essere eliminato, non può essere usato. Da questa fonte il singolo
non può né potrà mai trarre miglioramento per il suo tenore di vita.

7.
Abbiamo constatato, non giustificato.
Non vogliamo occultare le debolezze del sistema esi-tente. L’amministrazione statale è piu antica
dell’economia industriale. L’amministrazione statale è pervenuta alla democrazia organica,
l’economia industriale percorre ancora la sua epoca di dispotismo illuminato.
Le rendite del paese appartenevano agli antichi signori territoriali; anch’essi lasciavano rifluire
nuovamente al paese queste rendite, dopo aver provveduto a finanziare il proprio lusso, che a volte
era considerevole.
Sull’eccesso di questo sperpero nessuno aveva da far loro rimostranze.
Non è questione di arrendevolezza se i signori del capitale consumano, in proporzione, una piccola
briciola e investono di nuovo il resto. Una venatura d’idealismo non dev’essere taciuta: accanto
all’egoistico senso di risparmio agisce una sincera gioia per l’accrescimento dell’economia generale
e della singola industria.
Senza alcun dubbio, questo sistema, che non ha mai sperimentato una rettifica politica, bensì si è
costituito in un equilibrio empirico, è molto primitivo.
Una classe di persone — non ogni singola persona, ma la loro somma — ha il diritto di usare il
reddito del lavoro nazionale come meglio le aggrada. Nessuno la ostacolerebbe se volesse
impiegare tutto alle corse о nella coltivazione di orchidee. Caligola e Luigi XIV non disponevano di
maggior libertà.
Certamente non lo fa. Il dispotismo è mitigato dall’illuminismo. L’aliquota di consumo ammonta ad
appena poco piu di un quarto; questo quarto, suddiviso fra tutti, darebbe circa 4 Pfennig per ora
lavorativa.
Questo capriccio è passabile nel complesso: nel singolo non lo è. Se ci sono famiglie che, dopo un
medio consumo privato, riportano all’economia generale un surplus, ve ne sono altre che in tre
generazioni hanno consumato per sé le loro ragguardevoli entrate e non offrono all’economia
generale nulla piu che inattività e, di tanto in tanto, un borioso amante dell’arte.
Il capriccio non è la cosa peggiore, vi è anche una questione di potere.
Ad ogni accrescimento nell’economia è legato un accrescimento di potere, e questo accrescimento
di potere va a colui che ha pagato per l’accrescimento economico.
La nostra economia è dispotismo illuminato anche per il fatto che i signori non spartiscono con
nessuno il loro potere, avendo la sensazione che esso non possa essere custodito in mani migliori.
La natura del despota illuminato è una delle nature piu comprensibili e scusabili. Ognuno può
condividere i sentimenti di un Federico II о di un Giuseppe II: per tutta una vita essi si sono
tormentati, non hanno trovato nessuno che la conoscesse in modo migliore, hanno imparato che tutti
quelli che si avvicinavano a loro lo facevano spinti da interessi particolari; da sé non si attendevano
molto, dagli altri nulla.
Ci vuole molto idealismo e amore per l’umanità per spezzare questo magico potere. Colui che
richiede è in una posizione piu facile di colui che garantisce.
Questo potere è spezzato. Anche se per dieci anni e piu le forze insorgenti e irrompenti, operai e
impiegati, dovessero usare lo loro nuova potenza non per la comune economia, ma per i propri
desideri, il nostro sentimento di giustizia si contrappone al dispotismo, anche a quello piu
illuminato e dobbiamo aver fede (una fede giustificata) che le nuove forze siano infine
portatrici anche di una nuova vita e di nuove idee.

8.
Questi dunque sono i punti deboli del sistema: arbitrio del consumo e dell’inattività; arbitrio del
potere.
Altri, notevoli, non li possiede, ha invece significativi punti di forza che però non sono qui da
considerare.
Se si considerano quei due motivi di arbitrio con imparzialità, allora bisogna chiedersi: che cosa
hanno a che fare con quei provvedimenti indeterminati per i quali si è trovato il nome di
socializzazione?
Siamo chiari: con socializzazione ognuno si immagina un’azione attraverso la quale il benessere
generale viene elevato grazie a una fonte finora rimasta chiusa. E ciò non sarebbe altro che giusto e
ragionevole.
Ora abbiamo visto che il benessere generale non viene per nulla innalzato, о solo molto poco, e in
ogni caso indirettamente.
Si vieta alla gente di sperperare inutilmente troppo denaro e di oziare; gli imprenditori vengono
indotti a spartire il loro potere. È tutto qui, né di piu si può fare.
D’altra parte è pur qualcosa; ma non è l’immediato accrescimento del benessere generale.
Per eliminare la prima arbitrarietà v’è bisogno di un sistema fiscale sano e forte. Imposta sul
reddito, imposta sul lusso, imposta sul patrimonio, imposta di successione. Con ciò ogni arbitrio e
tirannide del denaro può essere eliminata fino agli ultimi Pfennig.
Per spezzare l’arbitrio del potere c’è bisogno dell’introduzione di forme costituzionali e
democratiche nella struttura economica.
In tutti e due i casi si tratta di qualcosa di radicalmente diverso dalla socializzazione, almeno
fintanto che sotto tale denominazione ci si immagina un qualche stadio sulla via del sistema
comunitario.
Perché dovrebbe essere proibito sparare ai passeri con i cannoni? Perché la socializzazione, nella
misura in cui è buona in sé, non dovrebbe essere doppiamente benvenuta a motivo degli auspicati
effetti che ne derivano?
Il primo stadio della socializzazione consiste nella ricetta che ogni riformatore di buon senso mette
sulla carta, appena comincia a porglisi la questione: operai e impiegati vengono cointeressati
all’utile dell’impresa.
La formula è buona per imprese piccole e di tipo monopolistico con poca gente ed elevati profitti,
soprattutto per quelle che presuppongono abilità artigianali. A ciascuno arriva una considerevole
parte, rimane invariato un buon fondo, si instaura un interesse paternalistico.
Nel normale rapporto tra volume d’affari e numero dei lavoratori, la formula non ha invece senso;
la partecipazione significa per il singolo una mancia, a cui egli non tiene e per la quale non sacrifica
la sua libertà di movimento; l’impresa che rende peggio, allora, deve automaticamente compensare
con aumenti salariali ciò che l’impresa che rende al meglio corrisponde in partecipazioni agli utili;
la cointeressenza ha fine, si è trattato solo di un misero aumento salariale che sarà dimenticato
nel prossimo conflitto dei prezzi.
Non è questa la socializzazione.
Ulteriore stadio: economia mista.
La formula è vecchia; solo il fisco è interessato, non la comunità. È un rapporto utilizzabile per le
cosiddette aziende: ferrovie, elettricità, gas. Non si verifica alcun mutamento nella struttura
economica.
Ultimo stadio: statalizzazione.
Non sono molti quelli che pensano ad una statalizzazione senza contropartita, ad una effettiva
confisca. Essa non sarebbe senza senso, ma assolutamente ingiusta: perché poi questa e quella
impresa dovrebbero essere espropriate, finché questa e quella proprietà terriera, magazzino di
merci, negozio о terreno, rimangono proprietà privata?
Se si espropria con un risarcimento, allora l’affare per lo Stato è buono in rari casi, nella maggior
parte è pessimo.
È bene ed è soprattutto utile per la comunità se si spezzano i monopoli. È stato il caso delle ferrovie,
poste e telegrafi e vi sono anche altri casi simili. Per le imprese che seguono le trasformazioni
dell’epoca va invece male; e malissimo va per quelle che debbono combattere con una dura
concorrenza, con cambiamenti tecnici, con mercati esteri. E nel peggior modo la cosa si
presenta per uno Stato indebitato. Esso aumenta i suoi oneri nell’ordine di miliardi, indebolisce il
suo credito; e con quale risultato? Invece di una percentuale del 5% che deve pagare ai suoi
debitori, ricava dall’impresa un 6% a condizione che la lentezza dell’amministrazione, esigenze
sociali, e trasformazioni dei tempi non soffochino anche questa rendita. Un ministro delle finanze
che per una provvisione annua di dieci milioni indebita il suo Stato, già indebitato, di un altro
miliardo, merita d’essere cacciato.
Se si desidera la statalizzazione delle imprese non per un programma di partito a cui ci si è
affezionati, о per convinzioni teoriche, allora bisogna riconoscere che essa non è uno scopo fine a se
stesso, e se con il suo aiuto possono essere eliminati i due errori economici che abbiamo biasimato,
allora il rimedio è peggiore della malattia.

9.
Questo giudizio non è troppo duro?
Non si soffoca così un valore spirituale?
Nel nostro intimo non riteniamo forse che un tempo futuro, un tempo di libertà, ci debba sbarazzare
di tutta l’essenza del capitalismo e della classe imprenditoriale? La via dall’assolutismo al
dispotismo illuminato, dal costituzionalismo alla democrazia repubblicana e sociale: questa via
dell’amministrazione statale non è forse prescritta alla nostra coscienza e al nostro sentimento
come la via maestra dell’economia?
Si e no. Il nostro sentimento non ci può mai ingannare del tutto, tuttavia l’analogia meccanica è
quasi sempre tentazione all’errore, e il prolungamento rettilineo è quasi sempre il segno privo di
fantasia di una profezia falsa.
Ciò che è vivo non si ripete mai; la molteplicità della creazione mostra simmetrie, non immagini
riflesse.
Il nostro sentimento non ci inganna. Una nuova osservazione ci dimostrerà che anche l’economia
tende alla democratizzazione completa, tuttavia non senza aver fatto l’ultimo passo di cui essa, che
finora è stata soltanto un empirico prodotto di equilibrio, ci è debitrice: il passo verso la cosciente e
organica spiritualizzazione.
Ciò che finora ha rovinato la nostra propensione a questo pensiero è stato il ‘ no ’. No! l’economia
non è ciò che noi pensavamo fosse: la roccia dalla quale la verga di Marx faceva sgorgare la fonte
del plusvalore che rinvigoriva gli assetati. No! non è un decreto di statalizzazione che può
raddoppiare la produttività. No! la miseria dei lavoratori non è eliminata da nuove spartizioni nelle
quali nessuno ha troppo e nessuno ha abbastanza.
Non si devono forse unificare questi tre no in un sì? e questo sì non è forse abbastanza forte per
darci le realizzazioni che il senso di giustizia di una futura costruzione della libertà esige?
Sì, in realtà è così. Questo ‘ sì ’ è maturo.
L’economia si lascia nuovamente organizzare, si lascia rinnovare dalle fondamenta, organizzare in
modo tale da assicurare a tutti libertà, benessere, responsabilità.
La nostra economia è tecnicamente di pessima qualità, dal punto di vista organico un dilettantismo,
nella struttura un prodotto del caso. È tale nonostante tutte le sue vigorose prestazioni, nonostante i
suoi grandi creatori, nonostante la posizione avuta finora nella cerchia del globo.
La nostra economia si rapporta ad un cosmo, ad un organismo ordinato, come il folto di una
boscaglia alla foresta, come il villaggio negro alla città europea, come il galeone alla nave di linea.
Sperpero, mancanza di ordine, arbitrio, dispotismo, ovunque si guardi; dappertutto egoismo;
disciplina e armonia solo dove lo richieda l’interesse.
Nella Nuova economia3 ho rappresentato la costruzione di un ordinamento economico ‘ cosmico ’
spiritualizzato e armonico.
L’effetto è: potente limitazione degli sperperi e delle perdite in materiale, forza, lavoro umano e
trasporto; potente accrescimento della forza economica, elevata prestazione a costi ridotti, salario
accresciuto per un lavoro diminuito.
Non desidero rappresentare qui ancora una volta questa costruzione. La sua idea è: auto-
amministrazione, non economia di Stato; libera iniziativa, non burocrazia; potere dell’ordine, non
dell’arbitrio.
Attività affini sono riunite in associazioni di tipo corporativo, che ordinano il loro lavoro in
autonomia amministrativa e interagiscono l'una con l’altra. Esse hanno la responsabilità in se stesse
di un lavoro ordinato e funzionale, culminano in un parlamento dell’economia in cui tutti gli
interessi contrastanti si conciliano. Nello e accanto allo Stato della politica si innalza uno
Stato dell’economia, sottoposto alla piu grande struttura patria, ma in se stesso conchiuso.
E questa sarà l’immagine di tutte le future forme di civilizzazione: lo Stato politico come struttura
principale, ma non come unica struttura statuale. Con esso crescono insieme, al servizio del tutto e
tuttavia intimamente liberi, lo Stato dell’economia, lo Stato della cultura, lo Stato della religione.
Per lo Stato dell’economia il problema della divisione della responsabilità si risolve tra tutte le forze
agenti: nella singola impresa come nelle corporazioni come nel parlamento dell’economia, Stato e
dirigenti economici, impiegati e operai hanno seggio e voto.
Qui si risolve anche quella contraddizione: se sulla singola impresa incombe il pericolo che le forze
di pressione, recentemente emerse, degli operai e del ceto impiegatizio, prestino maggior attenzione
ai propri interessi che al proprio lavoro; se, di contro alla libertà di movimento del lavoratore, la
connessione a vita del dirigente economico alla singola impresa assegna innanzitutto al capo
politico il maggior idealismo economico, la politica in quanto trasformazione e sviluppo ai
livelli piu alti dell’organizzazione, nelle rappresentanze corporative e nel parlamento dell’economia,
questo rapporto si muterà, laddove non si capovolgerà. Poiché anche il prestatore d’opera ha tutto
l’interesse per l’economia generale del paese, per l’economia generale dell’industria, e qui non
appare piu come rappresentante di una categoria di reddito, bensì di una professione. Se quindi nella
singola impresa l’influsso del gruppo di lavoro, che casualmente è occupato proprio lì, appare piu
come una concessione che come un elemento organico, ai livelli piu alti esso diventa necessità e
benedizione.
Bisogna cambiare idea circa l’economia. Non è facile. Bisogna avere la forza d’immaginazione, che
trasforma l’attuale condizione d’anarchia in un organismo naturale, cosi come dalle forme statali
sconvolte dell’Europa e del globo terrestre a poco a poco deve essere formato un corpo unitario
ordinato secondo diritto.

10.
Non scambiamo struttura economica con struttura della società. Abbiamo parlato del fatto che una
parte dei difetti del sistema non è eliminabile con la socializzazione delle imprese, bensì tramite
legislazione fiscale. Questa legislazione fiscale da parte sua non è uno scopo fine a se stesso;
neppure è un tutto, ma solo una parte. La totalità sociale, di cui si tratta, si chiama equilibrio e
moralizzazione. Equilibrio è l’eliminazione di vincoli ereditari, di ereditari concetti contrapposti
come proletario e borghesia, ereditari contrasti di formazione e di tenore di vita, di direzione e
prestazione, di potere e dipendenza. Alla lontana, equilibrio è l’eliminazione dei contrasti estremi
nella distribuzione di proprietà e consumo.
Moralizzazione è l’eliminazione della selezione umana errata. Nel vecchio Stato poteva conseguire
qualcosa solo chi apparteneva alle classi dominanti. Nell’attuale vita economica il furbo e bugiardo,
lo strozzino e trafficante, ha, se non migliori, per lo meno uguali possibilità a quelle dell’attivo, del
giusto, del realista. Moralizzazione è l’eliminazione delle assurdità nella produzione, che indirizza
un terzo del suo materiale, forze e trasporti a prodotti pretenziosi, brutti e dannosi. Moralizzazione
è eliminazione dello sperpero, del lusso senza senso e dell’ozio parassita.
Ciò non significa puritanesimo estraneo alla vita e nemico della bellezza, bensì raccoglimento
rivolto ad un risanamento morale e spirituale.
Adesso, però, di quando in quando, si manifesta un indirizzo realmente puritano, introdotto da teste
teoretiche, che vogliono rendere ancor piu vero ed effettuale esagerandolo ciò che appare loro
essere evidentemente vero ed effettuale, e perciò lo soffocano.
Noi diciamo: semplicità, quelli dicono: necessità. Noi diciamo: libertà individuale e
autolimitazione, quelli dicono: proibizione e regolamentazione autoritaria. Noi diciamo: benessere
nei limiti che possiamo ancora raggiungere, quelli — esacerbati — dicono: povertà volontaria.
Noi desideriamo un paese forte, basato sull’economia agraria, rafforzato dall’industria, che coopera
con l’estero in reciproca interazione. Quelli vogliono una depressa economia nazionale e una misera
autarchia.
Non vogliamo nessuna civilizzazione da Boeri e nessuna arretratezza assistita e allevata dalle
autorità. Se la volessimo, allora il mondo ci scavalcherebbe. Un paese che annienta in modo
poliziesco ogni eccesso, perde le forze della fantasia e defla creatività. Per quanto l’eccesso possa
essere frenato, per quanto ogni capriccio sia ottenibile solo con sacrificio, anche nell’arbitrio, non
in quello gelido, bensì in quello ardentemente traboccante e indomabile, sono nascoste forze che
ogni artista ed ogni uomo che possegga fantasia conosce e ama, e di cui ha bisogno un popolo. La
civilizzazione da Boeri, in un paese limitato per spazio territoriale, porta ad una schiavitù spirituale
da iloti e alla fine all’adorazione degli altri paesi piu liberi, che non ci fanno il piacere, come
ogni tetro riformatore spera, di affliggersi con tutte le stravaganze che noi inseguiamo.

11.
La rivoluzione non è ancora quello che dovrebbe essere.
Per quanto una rivoluzione possa scoppiare per miseria e oppressione: non dev’essere
l’insopportabilità della pressione ciò che la spinge innanzi, bensì ciò che la muove dev’essere
l’impulso al cielo.
Finora la nostra rivoluzione è stata una rivoluzione della miseria, la fuga da costrizione e menzogna,
oppressione e povertà. Non è ancora impeto verso la libertà, verità, spiritualità. La guerra non ha
potuto partorire alcuna idea, perché aveva a fondamento la finzione di una presunta difesa da un
preteso attacco; e se all’inizio poteva apparire agli ingenui come guerra di difesa, in questo
momento ha perso l’ultimo resto di verità, ed è diventata aperta guerra di offesa nel momento in
cui son cadute le maschere dei potenti e le conquiste sono state lodate come necessità etiche e
politiche.
La guerra non ha potuto partorire idea alcuna. Anche la rivoluzione non ha partorito nessuna idea.
Fino ad ora è rimasta una rivoluzione della negazione. Ad essere miti, possiamo considerare la
negazione a giustificazione della rivoluzione, poiché il peso del giogo era insopportabile e la
creatura del popolo, una volta liberata, rimarrà sempre interdetta e sconcertata per un momento
prima di spiegare il suo volo a cavallo di Pegaso.
A essere miti! Perché in questo momento di disorientamento accadono cose che lasciano esterrefatti.
Dovremmo separarci dalla bramosia di potere; bramosia di potere non è sentimento nazionale e non
è sentimento d’onore. È orribile che lo smembramento del corpo tedesco in Occidente e Oriente,
l’ignominia dell’occupazione, delle tregue e paci dettate, delle vergognose condizioni, della resa
della flotta, non provochino profonda serietà e calde lacrime, bensì uno svergognato sorriso e
un’insolente smania di divertimento. Non fu brama di potere quando stringemmo al nostro cuore il
vecchio paese tedesco e quando proteggemmo le città del Kaiser e le chiese dalla profanazione. Non
è sentimentalismo di vecchio stampo se una nazione crede al suo onore e insorge contro
l’umiliazione. La giovane libertà all’interno non giustifica la resa volontaria di fronte ai potenti
all’esterno.
Dobbiamo essere molto miti per difenderci dal sentimento che il pensiero rivoluzionario non sia
diventato un pensiero di libertà e di responsabilità, ma un pensiero del mio e del tuo. Doloroso è il
ricordo del triplice risuonare di Libertà, Uguaglianza, Fraternità del 1789, dell’appello all’unità del
Reich e alla libertà borghese del 1848, quando le bandiere rosse del 1918 si tingono sempre piu di
nero con buste paga e tabelle di stipendi.
E nella materializzazione della tensione rivoluzionaria che si fonda il fatto che al posto delle
richieste spirituali si sostituisce l’ideale apparente, misero e freddo, della socializzazione
dell’impresa.
L’economia viene praticata non per l’economia, ma per lo spirito. Gli ultimi valori che essa produce
sono quelli piu invisibili, e quelli piu invisibili sono i piu potenti.
Non dall’economia si riforma l’economia, ma dallo spirito. Non le sono d’aiuto né provvedimenti,
né leggi, ma principi. Il cammino conduce dai princìpi all’azione, dall’azione alla spiritualizzazione.
Solo allora una nuova forma di economia è efficace e accettabile, giustificata ed utile, quando la
nuova disposizione dello spirito le corrisponde. I provvedimenti sono facili da prendere. Si trovano
pure le forze per realizzarli; tuttavia, però, solo quando la volontà dei princìpi riempie l’atmosfera e
stimola la volontà.
Le forze che ci dominavano erano egoismo ed anarchia; le forze di cui noi abbiamo bisogno sono
responsabilità e senso della comunità.
Se la rivoluzione potrà fare in modo che queste parole possano ancor oggi comparire sul suo
scompigliato vessillo, allora è salva e con lei lo è un nuovo spirito, e con il nuovo spirito è sorta una
nuova economia. I terribili dubbi: siamo ancora una nazione? siamo un popolo dello spirito? о
siamo un popolo di conio comune, con un comune sentimento d’onore, con una comune coscienza
nazionale? sono allora acquietati.

[Si tratta del primo saggio raccolto in Nach der Flut (1919), poi ristampato in Schriften aus Kriegs-
und Nachkriegszeit, Gesammelte Schriften, В. VI, S. Fischer Verlag, Berlino 1929, pp. 217-43.]
cosa accadra' ?

Il pericolo è diventato così incombente che per il momento si debbono interrompere tutti i discorsi
riguardanti la configurazione del futuro. Siamo al capezzale di un paese moribondo, non si tratta di
piani per il futuro, ma della catastrofe.
Gli uomini non possono immaginarsi null’altro se non ciò che ora accade. La persona sana non può
pensarsi malata, il ricco non può immaginarsi povero, la borsa giubilante non sa cosa significhi
fallimento, anche se lo ha sperimentato centinaia di volte.
Durante la guerra si vedevano truppe in marcia, industrie indaffarate, si leggevano articoli di
giornale stereotipati e non ci si poteva immaginare sconfitta alcuna.
Viviamo nella stessa follia come in guerra, nella peggiore delle guerre. Ad eccezione dei ceti
maggiormente oppressi dei medi percettori di rendita e dei pensionati, il tenore di vita oscilla tra
agiatezza e opulenza. Ogni individuo consuma piu di quello che produce, il paese consuma piu di
quello che produce.
Si parla di pericoli, ma non vi si presta fede.
Valuta, valuta! Vi è una certa qual mondanità e una venatura di piacevole raccapriccio quando si
mormora instancabilmente questa parola straniera che suona cosi bene all’orecchio. Ora, la valuta
precipita e il burro nazionale continua a costare cifre incredibili. Cosa ancora? Ebbene, la valuta
precipiterà, oppure resisterà, oppure crescerà: cento anni fa si parlava nel medesimo modo delle
Métalliques. Si guadagnerà о si perderà denaro, per lo piu lo si guadagnerà; vi sarà pure qualcosa di
pericoloso in tutto ciò, ma cosa può esservi di cosi pericoloso se si guadagna tanto denaro?
Il pericolo si chiama fame, miseria, malattia, depravazione, e questo pericolo è alle porte.
Nessun prestito olandese, svedese, danese ci salverà, e neppure un congresso internazionale di
plutocrati. A Berlino si riunisce una roboante commissione valutaria che enumera tutti i rimedi
applicabili о inapplicabili. Il problema centrale non l’ha compreso: consumiamo per lo meno una
volta e mezzo di piu di quello che produciamo.
Come ciò sia possibile, l’ho spiegato ultimamente 1. Quello che ciò significhi, continua a non essere
compreso.
Concretamente significa che mandiamo in rovina per cattiva gestione i mezzi di produzione e le
attrezzature; che dissipiamo in ogni senso, e consumiamo le ultime scorte smerciabili, sperperiamo
e lasciamo inattiva la forza-lavoro, utilizziamo e consumiamo materie e generi alimentari che non ci
appartengono e che dobbiamo invece prendere a credito. Fra tre anni il paese, grazie a questa
economia, sarà irriconoscibile nel suo stato di abbandono.
Dal punto di vista contabile ciò significa che dovremo riempire con carta la differenza tra
produzione e consumo. Che importa, se pagheremo alle forze lavoro improduttive quello che non
producono e ciò che manca al loro sostentamento — sovvenzioni ai disoccupati —, о se
assolderemo un esercito, se nutriremo le schiere dei funzionari statali, se manterremo infruttuose
aziende statali, se risarciremo società marittime e proprietari di miniere, se compreremo all’estero i
generi alimentari. Sarà stampata carta di Stato.
Che importa se carichiamo la nostra ultrapassiva bilancia dei pagamenti, con merci di lusso
importate, о se compriamo materie prime о prestiamo mezzi di produzione: si firmeranno cambiali.
Questa inondazione di carta continuerà a fluire finché produzione e consumo non si pareggiano.
Acuita — non causata — dall’inerzia del sistema fiscale, dalla ineluttabile fuga di capitali, dallo
sperpero dell’economia statale, ridotta dalla liquidazione di beni e valori, dalla speculazione sul
marco fatta dal portiere d’hotel di Zurigo, dal venditore di giornali di Amsterdam e dal barbiere
di Siviglia.
Acuita, ridotta — e incessante. A tal riguardo non è di alcuna utilità nessuna prescrizione
terapeutica, nessun prestito di miliardi, nessuna conferenza valutaria, nessun aumento delle tasse; la
guarigione può avvenire solo nel corpo economico vitale: produzione e consumo. I sacerdoti della
Valuta non lo comprenderanno.
Ancora in estate si poteva credere che il credito privato, la liquidazione dei beni mobili, potessero
differire l’appropriazione straniera dei nostri valori, cioè la svalutazione. Non è avvenuto; il
malgoverno della nostra economia era troppo grande. Il valore del marco è calato nel paese a 20
Pfennig e all’estero a 6 Pfennig.
E continuerà a calare. Incessantemente, fintanto che continua il malgoverno e fintanto che una
profonda organica trasformazione non armonizzi produzione e consumo.
Quando gli esperti di valuta si disperano per la svalutazione con lo sguardo rivolto al cielo,
sussurrano subito la domanda: dove potremo ottenere le materie prime?
No, non si tratta di questo. Materie prime si possono avere, in caso di necessità, in qualsiasi
situazione monetaria. Poiché un sacco di carbone, portato al confine, vale sempre,
indipendentemente dalla valuta, mezzo chilo di rame.
Si tratta di ben peggio. Non abbiamo bisogno solo di materie prime, abbiamo bisogno anche di
nutrimento. Il malgoverno ha dissestato anche la produttività dell’economia agraria. Ogni due mesi
abbiamo bisogno di generi alimentari per l’ammontare di un paio di miliardi, e se il marco vale un
Pfennig о addirittura molto meno, diventeranno migliaia di miliardi.
Ma questi non ce li si può procurare. Poiché per generi alimentari che non vengono prodotti ma
consumati, noi possiamo offrire solo pezzi di carta e quelli non ne vogliono. Arriva il tempo in cui
non potremo piu bilanciare il nostro deficit alimentare.
Qui inizia il pericolo. Arriva la miseria. I prezzi crescono vertiginosamente. Paghe e salari si
adeguano. Le rotative di Stato lavorano a pieno ritmo.
Certo l’esportazione non cessa. Quindi il concetto: « equilibrio dei prezzi interni ed esteri » è un
nonsenso. La svalutazione all’esterno precede sempre quella interna e spinge le merci fuori dal
paese.
Certamente però la domanda interna langue, soprattutto per i prodotti tecnici e le costruzioni. Già
con gli attuali prezzi vi sono dei settori nei quali la richiesta si riduce.
Anche a tal riguardo il febbrile lavoro delle rotative può tener duro per un certo periodo di tempo.
Esse sfornano miliardi su miliardi e mantengono in piedi un certo artificioso potere d’acquisto.
Allora è raggiunta la situazione degli assegnati. Nel 1797 a Parigi una colazione costava 30.000
franchi.
Ben presto gli esperti valutari si trasformeranno in esperti monetari ed è probabile che troveranno il
seguente mezzo, che oggi ci oscilla davanti in forma ancora nebulosa: secondo un vecchio modello
amburghese si crea il Mark-Banko; la denominazione romantica verrà sostituita da una di marca
tedesca secondo esigenze di emergenza e assistenza.
Se si farà l’errore — quale errore non viene commesso? — di collegare il Mark-Banko о nuovo
marco, о marco d’emergenza о marco-oro, о in qualsiasi altra maniera lo vogliano chiamare i suoi
ideatori, in un qualsiasi rapporto di valore con il vecchio marco о di stamparlo senza una reale
copertura, allora l’esercizio è senza valore, perché il nuovo marco percorrerebbe la via di quello
vecchio.
Supponiamo che l’errore non venga commesso; si introdurrebbe piuttosto il nuovo marco come
unità di conto invisibile col valore di un quarto di dollaro, il che ha lo stesso significato di affermare
che tutti gli affari tedeschi possono essere conclusi in dollari, senza che sia necessaria nel paese la
presenza di una sola banconota da un dollaro.
Allora apparirebbe in ogni negozio l’avviso: « In conformità alla notizia di borsa, oggi si riceverà in
pagamento la banconota da cento marchi per 30 Pfennig » (o l’equivalente).
Chi lo può si fa pagare nella nuova moneta e passerà dalla cattiva alla buona. Presto sarà ordinato
che paghe e salari — corrispondentemente ricalcolati — siano pagati con la nuova moneta. In
seguito, per l’ulteriore caduta del valore del marco, il creditore ottiene il diritto di calcolare gli
interessi sui suoi vecchi crediti nella nuova moneta secondo un determinato rapporto.
Cosa significa ciò? σεισάχθεια, estinzione dei debiti nel senso di Solone, tuttavia con altri mezzi;
liquidazione dei debiti, tuttavia senza aperta bancarotta dello Stato.
Alcuni socialisti fortemente ortodossi si potranno dichiarare d’accordo con questo mezzo, poiché
esso riduce i debiti dello Stato ad una porzione minima, distrugge il patrimonio mobile e
apparentemente non coinvolge l’impiegato e l’operaio. Ma sarebbe molto
deplorevole l’annullamento del ceto medio dei percettori di rendita e dei pensionati. Agiato
rimarrebbe in Germania, prescindendo dai trafficanti imbroglioni, solo il proprietario di miniere e il
proprietario terriero.
Ma anche con questa regolamentazione nel paese non arriva il pane. Miseria e carestia rimangono
con le loro conseguenze: privazioni e rivolte; si giungerebbe solo ad una certa stabilità della
situazione e ad un incremento dell’affidabilità di credito dal punto di vista contabile. Mentre dal
punto di vista morale essa ne risulterebbe certamente molto scossa.
Finora abbiamo considerato la parte del pericolo che segue alla cattiva amministrazione
dell’economia interna. A ciò si aggiunge il peso enormemente sottovalutato dell’accordo di pace.
Ci siamo assunti il dovere, da adempiere in ogni caso, di ricostruire la Francia del Nord e parte del
Belgio. Oltre a questo, dobbiamo pagare una riparazione di guerra di cui non conosciamo
l’ammontare. Non vogliamo qui parlare delle riparazioni di guerra, ma solo della ricostruzione.
Stime francesi hanno calcolato il suo valore nell’ordine di 50 miliardi di franchi oro, e in parte
anche più: sono importi corrispondenti a centinaia di miliardi di marchi attuali e debbono essere
ripartiti in un arco di tempo che supera appena i dieci anni.
Di questi importi, che debbono essere pagati con il lavoro, con il denaro, con i prodotti, non ci verrà
pagato un Pfennig; la prestazione verrà detratta dall’ammontare sconosciuto delle riparazioni di
guerra. Ogni anno produrremo tanto quanto potremo produrre; a quanto ammonti, lo deciderà la
Commission de réparation.
Lasciamo da parte ogni valutazione della prestazione annua. Non sarà piccola, perché la
ricostruzione deve e dovrà aver luogo. Domandiamoci solo: in che forma avverrà la prestazione?
Nella misura in cui consiste in denaro — e cioè per le forniture degli americani, inglesi, svizzeri,
francesi — cresce la nostra inflazione da debiti.
Nella misura in cui consiste in lavoro è la stessa cosa, perché dobbiamo garantire mantenimento e
salario per i nostri connazionali che lavorano in Francia.
Nella misura in cui consiste in prodotti: materiale ferroviario, macchine, legno, cemento, carbone,
mattoni, utensili, debbono essere forniti dalla nostra industria, se altri paesi non li procurano.
Questo però non significa null’altro se non che queste sterminate quantità vengono detratte dalla
produzione enormemente indebolita della nostra economia. L’insignificante esportazione che oggi
abbiamo aumenta mostruosamente, tuttavia il sovrappiù dell’esportazione non viene pagato; per la
nostra economia è come se essa non avesse lavorato; non possiamo scambiare con i suoi prodotti né
materie prime, né crediti, né generi alimentari; si ha una riduzione netta della nostra attività
economica.
Se oggi dunque il nostro malanno consiste nel fatto che consumiamo troppo e produciamo troppo
poco, che proporzioni assumerà quando dovremo cedere una consistente parte del prodotto senza
remunerazione? Se oggi con un prodotto che vale 100 consumiamo 150, la sproporzione è di una
volta e mezzo, se ci rimane solo 75 del prodotto, allora è del doppio. Se nel primo caso dobbiamo
limitare il nostro consumo di un terzo, adesso, dunque, dovremo ridurlo della metà.
Una commissione straniera determina questa limitazione. Non sarà facile adempiere alle sue
richieste; perché, anche presupponendone la buona volontà, dietro ad essa vi è un paese in cui vige
il detto: « C’est le boche qui paye ». Già ora circolano voci che dicono che dovremmo risarcire
anche la caduta della produzione francese che si è avuta durante la guerra; in altri termini: noi
dovremo fornire per anni merci ai francesi gratuitamente.
Cosa significa tutto questo? Significa che il compito, che la nostra cattiva amministrazione è
incapace di risolvere, il compito cioè di pareggiare consumo e produzione, sfugge alle nostre mani
per passare nelle mani di controllori. V’è da temere che essi stabiliscano che cosa e quanto noi
dobbiamo consumare, che cosa, quanto e come produrre, che cosa e quanto spendere; e che
economia e bilancio, calcolo dei salari, dei tempi di lavoro, delle spese statali e culturali, finiscano
nelle loro mani.
Non è molto consolante considerare che la maggior parte degli stati continentali versano in
condizioni critiche. Anch’essi stampano di piu di quanto possano garantire, anch’essi consumano di
piu di quanto producano. Tuttavia la differenza è questa: la loro svalutazione procede piu
lentamente, il loro corpo statale è intatto, hanno sperimentato una crescita non una diminuzione nel
campo produttivo, essi hanno il potere di richiedere e di determinare.
È vero che gli interessi economici dell’Europa, facendo una considerazione generale, sono solidali
come gli interessi di una famiglia. La rovina dell’uno, se non rovina è per lo meno danneggiamento
dell’altro. E non vi sono famiglie nelle quali per lungo tempo si evita il dissidio, nella coscienza che
esso danneggerebbe tutti?
Supponiamo che una conferenza finanziaria di larghe vedute si decidesse per una azione
comunitaria, cioè a fare un prestito internazionale о qualcosa di simile, e che noi ottenessimo la
nostra parte calcolata modestamente. Cosa significherebbe? Dilazione, non salvezza.
Poiché nessuna conferenza può guarire un corpo che consuma piu linfa vitale di quanta ne produca.
Vi saranno s conferenze economiche a sazietà quando per noi sarà troppo tardi, e faranno ricordare i
congressi reazionari della Santa Alleanza a Aachen, Troppau, Lubiana e Verona. Se si mette al posto
della restaurazione legittimistica d’allora la restaurazione capitalistico-liberale, allora si possono
trarre conclusioni sul futuro, ed è possibile che in uno dei programmi della conferenza vi sia anche
l’eliminazione della giornata lavorativa di 8 ore.
Vi è forse un qualche segno che ci stiamo affrettando a trasformare il piu completamente possibile
l’economia, finché si è in tempo? Neppure il minimo.
In primo luogo, non si riconosce il pericolo. Giocosi pensieri, disegni su come migliorare il mondo,
progetti dilettanteschi, fatalismo e l’arlecchinesco principio — « non sarà poi cosi brutto — tutto
cambierà » — dominano fra l’opinione pubblica, che dalla guerra non ha tratto alcun insegnamento.
In secondo luogo tutti gli affaristi sono contrari al cambiamento, e gli affaristi sono potenti. Inoltre
il commercio della valuta e quello delle merci, che in estate seppe liberarsi da ogni limitazione,
incassano mensilmente centinaia di milioni. Il libero commercio — non si parla di generi alimentari
— domina la Germania e non vede proprio perché debba essere cambiato qualcosa della
sua redditizia congiuntura. Chi scuotesse gli attuali princìpi dell’economia si ritroverebbe addosso,
come nel vecchio Reich, migliaia dei piu potenti centri di interessi, associazioni, leghe e camere e
fallirebbe rapidamente.
In terzo luogo il governo del Reich è per sua struttura incapace di prendere decisioni fondamentali,
che non siano state precedentemente elaborate nei programmi di partito.
Noi siamo apprendisti della libertà borghese. Avremo bisogno di decenni prima di poter usare
correttamente i metodi dell’autodeterminazione, che non abbiamo nel sangue. Fino a che non
usciremo dal particolarismo dei partiti, dei morti princìpi, e fino a che non riconosceremo ciò che è
essenziale nelle idee e nell’uomo.
Crediamo di essere governati in forma parlamentare, invece siamo governati in forma partitica. Se
si chiede chi porti oggi la responsabilità per lo Stato, non c’è nessuna risposta; anche se qualcuno
dicesse scherzosamente: il cancelliere, oppure stupidamente: il gabinetto. Responsabilità collegiale
non esiste e non ha senso. Ognuno può essere responsabile per le sue cose, ma anche il tutto è una
cosa.
In ognuna delle democrazie occidentali un uomo è responsabile per il tutto e contemporaneamente
del lavoro dei suoi collaboratori. Ciò non è sempre sancito nella Costituzione, ma è dappertutto
consuetudine. Da noi si crede che la responsabilità possa averla un gabinetto e questa credenza è
presa sul serio.
Mi immagino così le sedute di gabinetto: in una bella sala vi è un lungo tavolo. A capotavola siede
Ebert, intelligente, buono, conciliante: non come presidente del Reich, ma come uomo giusto e
influente capo di partito. In due file siedono i ministri del Reich e i relatori. Alcuni leggono il
giornale, altri firmano. Tutti sono interiormente molto occupati e desiderano andare a casa. Sono
occupati con il divieto della ‘ Libertà ’ о con lo sciopero dei minatori о con la Nota-Foch2 о con
il Baltico. Non c’è disposizione per le questioni economiche. Alla fine del tavolo c’è uno che parla
fittamente, col cuore in mano. Dopo dieci minuti tutti ne hanno abbastanza. « Tutto ciò è superfluo
» dice uno « le cose vanno bene anche cosi come sono ora ». « Tutto ciò mette in difficoltà il partito
» dice l’altro. « Così avremo tutta la stampa contro » dice un terzo « come se non vi fosse già
abbastanza risentimento ». « Riforme sostanziali? » dice il quarto « sarebbe l’occasione migliore
per rendersi ridicoli ». Si guarda l’orologio. Si pensa agli ospiti che attendono a casa. L’oratore
s’erge con vigore un’ultima volta e conclude. Nessuno chiede la parola. Si vota. Nessuno è
favorevole. Chiusura della seduta.
Non mi meraviglierei se uno che oggi approva a fatica un piano, domani ritirasse il suo voto perché
il suo gruppo politico non è d’accordo.
In simili forme di governo si possono risolvere questioni del momento, si possono prendere
provvedimenti occasionali e dettati dalle difficoltà, secondo la legge della minima resistenza. Non
c’è spazio per una politica che miri alle questioni e agli scopi sostanziali, cosi come non vi era nel
vecchio regime. Forse una volta о l’altra si formerà con i tre più capaci uomini del gabinetto
un direttorio. Sarebbe sempre una soluzione migliore di quella del dominio dei gruppi politici
secondo il modello del Reichstag polacco.
Infatti, il dominio delle fazioni non protegge dal peccato mortale dello spirito politico, dal peccato
che, nonostante tutte le costrizioni, la vecchia guida del Reich non ha mai commesso, e che mai uno
Stato balcanico commetterebbe. Se prima veniva a Berlino un ministro delle finanze serbo, per
accordarsi su di un prestito, si sapeva che si aveva a che fare con l’uomo più esperto in finanza che
potesse esservi in Serbia. Da noi potrebbe accadere che posti di responsabilità del Reich vengano
occupati, per considerazioni di natura cosiddetta politica, da persone riguardo alle quali tutti sono
d’accordo nel sostenere che non hanno la benché minima idea del loro compito. E questo in un
tempo in cui la Germania è sull’orlo dell’abisso.
In un altro paese, se si fosse in presenza di un tal pericolo, tutti gli uomini ragionevoli e responsabili
si riunirebbero, tutte le questioni di partito e le dispute riguardo ai principi verrebbero messe da
parte, e si andrebbe a vedere di mettere ordine. Una volta detratti i gruppi d’interesse, i politici di
professione, i dotti teorici, non rimane nessuno che abbia la forza, l’intelligenza e la volontà di
afferrare i raggi della ruota in corsa.
Può accadere che un attacco russo mandi tutto a gambe all’aria. Ciò non dipende da noi.
Può accadere che i nostri creditori ci sequestrino.
Può accadere che una reazione borghese-feudale d’accordo con l’Intesa prenda dittatorialmente il
potere.
Da parte del popolo non accadrà nulla. Non abbiamo tratto insegnamento dalla guerra. Non
abbiamo nessuna volontà e nessuna capacità di giudizio. La Germania è cieca.

[Il saggio, datato 4 febbraio 1920, dà il nome a una breve raccolta pubblicata nell’aprile dello stesso
anno, ristampata in Schriften aus Kriegs- und Nachkriegszeit, cit., pp. 483-95.]

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1 Buchung und Wirklchkeit (9 gennaio 1920), in Was wird werden?, cit.
2 « Freiheit », organo del Partito comunista tedesco (Spartaco) in Renania-Vestfalia (1919-1920).
Ferdinand Foch, maresciallo dell’esercito francese, strenuo propugnatore della linea
annessionista (o almeno separatista) per la riva tedesca del Reno.
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Sviluppo democratico

Signori!
La lotta elettorale è ormai alle nostre spalle 1. Quello di cui si è occupata la politica in questi mesi è
stata la battaglia dei principi. I principi sono risultanti di idee e interessi.
Comunemente, in particolare qui in Germania, dove ci abituiamo lentamente al pensiero politico, si
pensa che gli interessi siano l’invariabile, che siano quasi corpi solidi che non si lasciano plasmare.
Tuttavia la loro solidità è apparente e se osserviamo due periodi successivi, riscontriamo che questi
rigidi e corporei interessi si sono mutati, sono diventati plastici sotto la spinta di
immagini puramente spirituali che noi chiamiamo idee.
Se ci si interroga sull’idea che ci dirige, la risposta è questa: aderiamo alla democrazia, aderiamo
all’idea democratica. Qui mi fermo. Poiché un’idea che si è realizzata non è piu un’idea. La
democrazia si è realizzata in Germania quasi totalmente; ad un punto che in pochi altri paesi è stato
raggiunto. Con ciò possiamo solo parlare del principio democratico che ci anima. Ma
questo principio è una realtà già esistente. Se dunque indaghiamo sulla nostra posizione di
combattimento, essa risulta essere già oggi una posizione di difesa. Difendiamo ciò che è stato
appena creato. Questa è la caratteristica del conservatorismo. Siamo di fronte al pericolo di essere
conservatori, non nel vecchio senso partitico, bensì in quello di una posizione di combattimento:
in quanto non lottiamo per un futuro che ci aleggia spiritualmente dinanzi, ma difendiamo un
principio già stabilito. Nelle lotte passate non ci è spettato un compito d’attacco, ma di difesa. Non
la potenza di fuoco che viene dall’ideale, dall’irraggiungibile, era al nostro fianco quando
combattemmo questa battaglia elettorale, e fra i motivi che hanno portato alla sconfitta questo è
uno, e forse non il piu irrilevante.
È istruttivo occuparsi oggi degli scritti francesi del XVIII secolo, degli scritti degli enciclopedisti.
Istruttivo per il fatto che noi siamo entrati in una rivoluzione che non è stata preparata, come quella
francese, nel corso di due generazioni, ma che è stata improvvisata, che ci ha colto quasi contro
volontà, о comunque che è giunta contro le aspettative della maggior parte di noi. Soffriamo del
fatto che non si sia verificata una rivoluzione preparata, nutrita di pensieri, bensì che sia avvenuto
un crollo.
Diversamente è accaduto in quel grande secolo francese che fu screditato per lungo tempo come
secolo di piatto illuminismo e che ora agisce su di noi con tutta la forza della sua creatività. Se oggi
leggiamo le opere di questi enciclopedisti, ci sembrano qualcosa che appartiene proprio al nostro
tempo. Riconosciamo come questi uomini hanno strettamente cooperato, certo con molta inimicizia,
con molta rivalità, con molti episodi meschini, pur tuttavia con raro sentimento di solidarietà
spirituale, e con un raro istinto riguardante i fini della comunità. Certo, Diderot non poteva soffrire
Voltaire, a Voltaire non era simpatico Rousseau, Rousseau ironizzava su Grimm e Holbach, ma al di
sopra di tutte le ambizioni e animosità sovrastavano due vincoli: da una parte un pericolo reale che
unisce sempre gli spiriti — i libri dell’uno furono bruciati dal boia, l’altro non sapeva dove sbattere
il capo, sul terzo incombeva la Bastiglia —; questi uomini erano come i rivoluzionari russi del XIX
secolo, perennemente in quella ardente eccitazione del pericolo che fa prorompere le idee. Dall’altra
parte, v’era tra loro qualcosa che a noi in Germania manca: un grande rispetto reciproco. Il lavoro
dell’uno non sempre era approvato dall’altro, sempre tuttavia rispettato e compreso; così
collaborarono e crearono il contenuto spirituale che la rivoluzione francese maturò. Questo
contenuto spirituale era però la realizzazione ultima dello spirito del Rinascimento; si trattava
dell’ultimo prodotto dell’individualismo, sorto in Italia nel XV secolo, che trovava ora, nel periodo
dell’illuminismo, la realizzazione e il suo culmine.
Tutto quanto di espresso о di inespresso questi uomini volevano era emancipazione; emancipazione
della dignità e libertà umane, emancipazione dal potere dell’autocrazia, emancipazione dalla chiesa,
emancipazione dai vincoli che a partire dal Medioevo legavano l’economia e l’amministrazione
francesi. L’elemento personale di questo pensiero dell’emancipazione è quello che passò
nella rivoluzione francese. Fu predominante l’elemento dell’individualismo; un’impronta sociale
era appena percepibile. Se oggi apriamo il piu rivoluzionario libro dell’epoca, l' Émile di Rousseau,
questo libro che fu sentito fino a Königsberg — ove fu ammirato da Kant — come avvenimento
precorritore del secolo, e di cui si disse che apri di nuovo la fonte della natura agli uomini,
esigendo una educazione nella natura e tramite la natura; se oggi apriamo questo libro, vi sentiamo
la grandezza del pensiero, l’autentica nostalgia di questo ginevrino, che tra laghi e monti aveva
assorbito in sé la natura, ma ci meravigliamo della sua passività sociale. Noi non intitoleremmo
questo libro Educazione alla natura, bensì Nuove direttive per il precettore di un nobile
giovinetto.  È presupposto che il giovane provenga dalla migliore delle famiglie, che abbia a
disposizione un consistente patrimonio, un parco, villaggi da lui dipendenti, e che fra gli strumenti
sperimentali con i quali lo si fa lavorare, accanto alla macchina elettrica e agli strumenti ottici, vi
siano i giovani del villaggio, considerati esclusivamente in funzione dell’educazione del nobile.
Cito questo esempio per dare un’idea di quanto forte fosse l’impronta individualistica di questa
corrente di pensiero e di quanto debole fosse invece quella sociale. Ma il frutto del pensiero si
maturò e così fu possibile che in quella memorabile notte del 4 agosto 1789 la rivoluzione francese
con tutto il suo contenuto spirituale erompesse come Pallade Atena dalla testa di Giove e potesse
irraggiare il mondo. Diritti dell’uomo fu detto il risultato di questo pensiero rivoluzionario.
Tuttavia anche in essi troviamo il nocciolo dell’individualismo.
Si dice Libertà e Eguaglianza, poi arriva immediatamente la sicurezza della persona e, a ruota, la
sicurezza della proprietà. La grande ouverture di questa rivoluzione ebbe il suo sviluppo
nell’Allegro del diciannovesimo secolo, e i toni pomposi con cui era iniziata si tramutarono nelle
modulazioni che abbiamo imparato a conoscere nelle forme di vita della borghesia, del capitalismo,
e, piu tardi, del nazionalismo e dell’imperialismo. L’impronta dell’individualismo fu sempre piu
rafforzata, anzitutto attraverso l’intreccio con il pensiero inglese, con l’ordinamento civile di
quell’isola, di cui si è detto che ciascun abitante è un’isola. Sorse così il secolo liberale.
Liberalismo, democrazia liberale hanno dominato e dominano ancora oggi in Occidente. I popoli
occidentali amano sottolineare, di questa mescolanza liberale dell’individualismo con la
democrazia, soprattutto l’elemento democratico, e, timorosi, evitano di nominare un altro elemento
che si è introdotto nel corso di questo secolo mercantile e meccanico, l’elemento della plutocrazia.
Non c’è alcun dubbio: se oggi diamo uno sguardo d’insieme alle democrazie occidentali, vi
troviamo altrettante plutocrazie. Ciò non è nella coscienza dei popoli, forse neppure in quella dei
governanti, certo però nella coscienza delle cose. Osservate le rinomate schiere di ministri
e parlamenti, esaminate tono, ambiente, forme di vita, ambienti culturali e inclinazioni di questi
uomini, allora troverete uomini e opinioni della società. Ma cos’è ‘ società ’? Società significa
l’unità collettiva dei benestanti e dei colti. Ma anche cultura, nel senso comune, non è nient’altro
che il lato spirituale del benessere. Dappertutto in queste democrazie possiamo vedere
realmente, dunque, plutocrazie sviluppate. Non vogliamo spaventarci di fronte a questo nome,
poiché è bene definire correttamente la cosa, anche quando ciò suoni diversamente da come
auspicherebbe l’opinione pubblica.
La democrazia inglese, nonostante l’impronta apparentemente popolare, poggia sulla società
nobiliare inglese, la Society. Questa però non è affatto una casta feudale, bensì il conglomerato di
quegli uomini le cui famiglie si sono trovate per un certo periodo di tempo ad occupare una
rilevante posizione economica e di responsabilità. In Francia abbiamo sperimentato fino alla
guerra come poteva esistere un paese che non conosceva imposte dirette. In questi paesi il
proletariato è altrettanto significativo che da noi, ma è praticamente d’accordo sul fatto di lasciarsi
rappresentare dal ceto dei benestanti. Voi tutti conoscete i meccanismi della macchina
elettorale americana; voi tutti sapete che la plutocrazia, che anche lì non viene mai nominata, è la
forma palese del dominio politico.
Non vogliamo, come si è detto, lasciarci spaventare davanti a questa parola, ma imprimercela bene
in mente. La plutocrazia non è percepita dai popoli occidentali, in ogni caso non è disapprovata, e se
oggi venisse qualcuno — per esempio Shaw —, a dire chiaramente agli inglesi: voi siete gli
adoratori del vitello d’oro, essi prima lo respingerebbero, e alla fine direbbero: a che nuoce? Ai
nostri popoli non è poi andata male sotto questo regime. Ed è vero.
Infatti, il periodo liberal-democratico fu l’epoca dell’imperialismo, cioè della spartizione del
mondo, l’epoca delle acquisizioni; si guadagnarono domini commerciali, parti del mondo, la
politica estera era decisiva. Chi doveva farla? Fu fatta da quegli stessi uomini che nei loro propri
affari curavano interessi affini, come la nazione voleva averli curati; si trattava della Society, e
questa assolse bene al proprio compito. Il popolo inglese e quello francese politicamente apatico
(escludo Parigi) seguirono i movimenti di questa politica della società che fu condotta da un
patriziato di Stato; i dirigenti avevano preparazione, conoscevano i loro rivali di altri paesi,
si appoggiavano ad una secolare tradizione degli affari, dei modi di pensare e di valutare. La nave
degli interessi politici procedette con continuità specialmente in Inghilterra, bastavano i piu piccoli
movimenti al timone per dirigere il corso un poco a sinistra e a destra. Il popolo seguiva con
inusitato interesse questi accorti movimenti e ammirava coloro che li compivano altrettanto sicuri
ed eleganti di quando si occupavano dei loro affari alla City. Un’inquietante immagine opposta è
rappresentata dal rullio disperato della nave in avaria del nostro Stato.
Infine, si affermò però, anche in quei paesi, una diversa considerazione della ricchezza, e questa
vale tuttora. Nella ricchezza si vide una specie di selezione — lo è, in certo senso, se non si pensa
proprio ai profittatori di guerra, ma si dà per scontata una speciale predisposizione, come ad
esempio accade in Inghilterra. Si tende al benessere e si lascia valere il benessere degli altri, non si
preferisce la povertà di tutti ad un’ineguale divisione dei beni. Si stimano la famiglia e l’uomo che
ha fatto strada, pensando che non necessariamente l’abbia fatta usando metodi illeciti. Di fronte a
queste realtà dobbiamo comportarci in modo assolutamente obiettivo, ed è indifferente se ci
piacciano о meno. La plutocrazia è una realtà della democrazia occidentale e non è mai malvista;
per la Germania è inadatta. Tanto meno possiamo disconoscere che siamo sottoposti al suo pericolo.
Nel momento in cui le grandi democrazie liberali dell’Occidente si scuotono per la prima volta,
perché hanno adempiuto ai loro fini e nuovi compiti si sono presentati alla ribalta; nel momento in
cui si riversano dalla Russia sull’Europa correnti calde e gelide, noi introduciamo la nostra
democrazia. Con quanto ritardo! Il liberalismo tedesco non ha voluto la democrazia, e in Germania
era considerato sconveniente, fino a pochi anni fa, parlare di democrazia. La nostra epoca dimentica
con facilità. Questo non lo dovremmo dimenticare mai! Il liberalismo borghese ha rifiutato la
democrazia quando corrispondeva al bisogno del tempo, quando l’epoca delle acquisizioni e delle
espansioni la richiedeva, quando si dovevano impedire tante sciagure.
Io non sono un imperialista, non parlo a favore dell’imperialismo, meno che mai oggi, allorché è
decaduto da un pezzo. Imperialismo fu il movimento degli anni Settanta e Ottanta; allora non
l’abbiamo voluto. Negli anni Novanta divenne sospetto e nel XX secolo divenne per noi
impossibile. Allora gli demmo inizio. Ancor peggio del nostro imperialismo fu il fatto che
l’avviammo troppo tardi. Adesso finalmente ci diamo la costituzione democratica, e tuttavia
contemporaneamente ci abbandoniamo al sistema della democrazia liberale che ebbe allora i suoi
tempi d’oro quando fioriva l’imperialismo, cioè la concorrenza fra Stato e Stato, il commercio
delle acquisizioni e delle espansioni. Il principio individualistico-liberal-democratico non è
null’altro se non il prolungamento dell’essenza politica delle acquisizioni nella costituzione interna
dello Stato.
Poiché le stesse idee dell’individualismo e della libera concorrenza che muovono gli uomini
muovono anche gli Stati. Le stesse idee del laissez faire, laissez aller!., le stesse idee
dell''enrichessez vous. Imperialismo è nulla piu che individualismo liberale trasferito sul terreno
della concorrenza tra gli Stati; liberalismo individuale è il trasferimento della rivalità internazionale
nella competizione tra i singoli individui.
Chiediamoci perché tali pericoli consistano nel principio democratico — oggi noi li chiamiamo
pericoli, l’inglese ancor oggi direbbe: sono vantaggi —, perché almeno per la Germania quei
pericoli consistano in tale principio, dal momento che io credo che nessuno di noi abbia comunque
il desiderio di veder sorgere plutocrazie occidentali — se ci chiediamo allora: da dove proviene
questo rischio d’infezione?, la risposta è: nel meccanismo della democrazia si trovano certe intime
contraddizioni, difficilmente componibili e consistenti principalmente nel fatto che troppo si
pretende dalle capacità d’astrazione e dal pronto giudizio degli uomini. Immagine ne è il
programma elettorale.
Di un programma elettorale, che contiene una serie di proposizioni piu о meno astratte, un elettore
deve giudicare: questi e questi sono i miei desideri e bisogni personali, cosi e cosi sono soddisfatti
da questo о quel punto del programma. Prendiamo il caso estremo; che avessimo instaurato il diritto
di voto universale, diretto, uguale e segreto nell’Africa Orientale tedesca. Quale sarebbe stato il
risultato? Il risultato sarebbe stato che qualsiasi responso avrebbe potuto essere conseguito
facilmente dal governatore, ovviamente con l’aiuto di alcune perle di vetro, di alcune intimidazioni,
di alcune parole d’ordine e concetti religiosi e di alcuni aiuti militari. Possiamo certo ritenere che
siamo ad un altro livello spirituale rispetto a quello dei popoli primitivi, ma le difficoltà
dell’astrazione, la cui facoltà è qui da noi invece presunta nel corpo elettorale, sono molto
significative. È difficile immaginarsi una politica commerciale о una politica fiscale monarchica, ed
è molto difficile connettere una qualche chiara rappresentazione ad una politica doganale
democratica. C’è bisogno di una riorganizzazione astratta e potente per trascrivere e concepire un
programma elettorale sulla base di ciò che un uomo si aspetta e di ciò a cui mira.
Ulteriori difficoltà si incontrano nell’usuale processo della delega al potere. Eleggo un uomo; non lo
conosco. Di lui so che ha promesso montagne d’oro e che ha tenuto discorsi, di lui so qualcosa dai
giornali, so che una volta è stato ministro. Non gli ho mai parlato e presumibilmente non gli parlerò
mai. Lo eleggo da tanti e tanti anni e gli sono legato. Noi chiamiamo ciò la scelta dell’uomo capace.
La questione è se in questo procedimento non giochino anche popolarità locale, parole ad effetto,
abilità oratoria e aiuti, di cui parlerò piu tardi.
Ma ugualmente l’impegno che io mi assumo di considerare da ora in poi per cinque anni in questo
eletto l’uomo di mia fiducia, è una difficile pretesa in questa nostra epoca, in cui un contratto
collettivo di lavoro ha una durata di circa tre mesi e una sentenza della corte arbitrale ha la proprietà
di non essere assunta da entrambe le parti. Ai nostri giorni abbiamo visto come appena allo scadere
di un anno l’impegno dell’elettore sia cosi affievolito, che soltanto gli eletti piu responsabili sono
posti di fronte a richieste perentorie che vengono loro dall’elettorato.
C’è di più. Io credo che non ci sia nessuno tra di voi che non abbia sentito il leggero ronzio della
macchina elettorale in questo periodo di elezioni. Mi è sembrato talvolta meledettamente americano
e se mi dico che in Germania esisteranno sempre gruppi benestanti, che possono spendere in certe
circostanze cinquanta milioni per una campagna elettorale, allora credo che anche qui vi sia una
fondamentale difficoltà per la realizzazione dell’idea rigorosamente democratica, e non mi consola
il fatto che uno si ponga con un sorriso al di sopra di questa riflessione e dica: Qui si tratta del
principio del diritto uguale per tutti.
Io sono seguace di questo principio, io sono seguace dell’ultima e piu decisiva forma di democrazia.
Ma non posso disconoscere neppure per un momento che questa idea incontra il suo limite pratico
nel poggiare su elevate pretese di perfezione umana.
Già adesso si solleva contro di noi il rimprovero della democrazia formale. Questa è un’espressione
scelta male, ma sarebbe forse politicamente piu avveduto non correggerla per non offrire ai nostri
avversari facili slogan. Ma la sincerità però mi sembra arma migliore dell’astuzia.
Se i signori parlano della democrazia formale, allora intendono la democrazia liberal-progressista in
senso proprio. Questi rimproveri verranno esaltati nel momento in cui avremo stabilizzato le nostre
forme democratiche, in cui i paesi occidentali saranno scossi da queste forme, e in cui si dirà che le
nuove idee provengono dalla Russia. Dobbiamo dunque considerare la Russia.
La Russia si definisce Repubblica dei Soviet. Io ritengo che non esista una repubblica dei Soviet. In
Russia vi è una autocrazia, che non è come prima il dominio di una ‘ orda ’, di una tribù о di una
famiglia, bensì l’autocrazia di un Club. Tempo fa, trovandomi con un esponente di partito di questa
autocrazia, gli dissi: Sono vecchio, ma nel caso dovessimo rivederci fra dieci anni, allora forse voi
non parlereste assolutamente più di sovietismo, ma vi definirete come rappresentante di
una repubblica nobiliare secondo il modello veneziano, diretta dai membri del vostro club, dai loro
discendenti e successori. Dapprima quello rise e sostenne che le cose non stavano così, tuttavia
infine disse: ma sarebbe poi tanto male?
Già oggi è così! È una repubblica aristocratica non nel senso che si tratti di stirpi effettivamente
nobili, ma nel senso che un piccolo numero di uomini si è assicurato il potere assoluto, l’esercito e il
pieno comando di quelle parti del paese che è possibile controllare. Certo non sono tutti i 150
milioni di contadini russi; questi però sono accontentati tramite l’accrescimento del fondo
a disposizione e sarà molto diffìcile guadagnarli a qualsiasi altro movimento che non assicuri il
medesimo soddisfacimento della loro fame di terra. Denikin e Koltschak hanno fallito perché gli
ufficiali alle loro spalle ricostituivano a feudo il podere.
Il sovietismo è un’organizzazione per un milione e mezzo di operai, e viene gestita a malapena
seriamente. Nelle fabbriche vi sono ancora Soviet, ma non hanno piu nulla da dire; comanda il
commissario di governo. Si è introdotto l’orario lavorativo di dieci, dodici ore. I giornali riferiscono
molto dei sabati e delle domeniche comunisti; queste sono giornate lavorative volontarie. Si fa
molto chiasso sul fatto che una squadra di fabbrica abbia pulito un ospedale о liberato un binario
ferroviario dalla neve. Accanto a ciò c’è costrizione al lavoro in forma dura; lo sciopero è proibito e
gli accordi sono ottenuti con la forza. Il Soviet centrale c’è ancora; è un parlamento come qualsiasi
altro, tuttavia piu facile da trattare. Poiché di fronte ai singoli si hanno argomentazioni piu efficaci
che in altri paesi.
Tuttavia da questa Russia provengono due gigantesche correnti, una calda e una fredda, che
invadono il mondo e che per la sua organizzazione futura hanno piu importanza di qualsiasi altra
manifestazione della nostra epoca.
La corrente fredda è quella del risentimento. Perché una cosa si è realizzata in Russia: ci si è
vendicati della borghesia. Essa è stata annientata fisicamente e spiritualmente. Questa corrente del
risentimento e della vendetta di classe si riversa su tutta l’Europa. Dove un ceto ha qualcosa da
rimproverare a un altro e non si libera nel cuore dal sentimento d’odio, ciò significa che pensa alla
Russia.
L’altra, la corrente calda, è quella del pensiero radicale. Come con la rivoluzione francese non fu
realizzato il vero e proprio pensiero rivoluzionario — si disse Liberté, Egalité et Fraternité e ne
scaturì il capitalismo —, così anche qui non è realizzata l’idea veramente profonda; tuttavia essa è
stata prodotta e produce ulteriormente. Le estreme interpretazioni dell’idea consiliare qui non ci
interessano; ciò di cui ci occupiamo è il principio nella sua elasticità interna e nella sua
flessibilità organica. Si parte dall’esperienza che gli uomini si comprendono e si sostengono meglio,
se si conoscono realmente, se si controllano continuamente, se vivono nella stessa fabbrica, nella
stessa armata, nello stesso quartiere — in breve, se formano una comunità. Il pensiero che un tale
investimento di fiducia nel prossimo (‘ prossimo ’ in senso proprio) è qualcosa di altro rispetto
all’elezione di uno sconosciuto, di un cadidato, e che tramite la selezione da uomini fidati sorgono
giunte fiduciarie di ordine di volta in volta superiore, questa idea è il nocciolo della teoria russa. E
non solo della teoria, ma anche del contenuto del sentimento russo. Questa idea, che venga
combattuta о riconosciuta, va per la sua strada; lo abbiamo già sperimentato in Germania. Poiché
due grandi istituzioni debbono ad essa la loro origine. Da una parte, la legge sui consigli di
fabbrica non si sarebbe mai avuta senza l’impulso russo; dall’altra, si sarebbero nutrite grosse
perplessità nei confronti della natura e della composizione del Consiglio economico del Reich, se il
terreno non fosse stato preparato dall’Oriente. Ritengo entrambe le istituzioni difficili ma
promettenti. Credo che dovremo lavorare e lottare, finché giungeremo con le Commissioni di
fabbrica a corretti rapporti; sarà difficile accordare nella molteplicità delle professioni gli interessi
di entrambe le parti. Tuttavia il lavoro non sarà vano, perché avrà come risultato che gli uomini
impareranno a muoversi tra i propri reciproci ambiti di interessi, e che l’operaio penetrerà infine
quel muro di nebbia che oggi gli nasconde la vita economica e che egli crede sia la copertura
artificiale dietro la quale si traffica. Lo penetrerà e dietro scorgerà un mondo in cui si lavora
duramente e seriamente. E l’imprenditore farà ugualmente utili esperienze riguardanti gli interessi e
i bisogni vitali della controparte.
Anche il Consiglio economico del Reich ha la prospettiva di diventare un grande e indispensabile
membro della nostra struttura, se si terrà lontano da degenerazioni parlamentaristiche, e soprattutto
se non permetterà che sorga spirito di fazione. Certamente vi saranno due gruppi; anzitutto quello
dei datori di lavoro e quello dei prestatori d’opera. Ma se il Consiglio evita il comportamento
fazioso nella sua frammentazione e comprende che non si tratta esclusivamente del fatto che sia
una corporazione a decidere, bensì soprattutto del fatto che essa penetri a fondo nei problemi e li
elabori esaurientemente, anche se poi alla fine esso esprimerà soltanto voti che potranno risultare
ancora divisi, allora, come io credo, sorgerà da questa opera che poggia sulla concezione consiliare
un forte corpo economico e politico.
Se guardiamo ciò che finora si è considerato, dobbiamo derivarne che: la democrazia oggi non è piu
uno scopo, ma un presupposto. Questo presupposto però dev’essere riempito di un nuovo e vitale
contenuto ideale. Come fine a se stesso, come cosa politica in sé, essa non può piu valere, ma come
realtà dev’essere protetta e difesa con ogni mezzo, e se un giorno anche grazie all’Est arriveremo ad
una maggior elasticità e mobilità delle forme democratiche, il principio democratico realizzato deve
essere conservato come presupposto di tutto l’avvenire.
Se ora ci chiediamo da quali ambiti debbano essere presi i contenuti delle idee con i quali noi
dobbiamo nutrire la democrazia — che non sarà chiaramente piu una democrazia liberal-
progressista, ma di altra natura —, nutrirla nuovamente con vita, scopi, e pensieri, cosicché possa
essere per gli uomini una nuova prospettiva e speranza, allora dobbiamo osservare la situazione
mondiale e dobbiamo farlo nel modo piu completo.
Siamo alla tomba della grande epoca capitalistica. Il grande capitalismo è alla fine, ma non il
capitale. Esso sopravviverà a noi tutti ed è indifferente se sarà capitale di Stato о personale. Tuttavia
il grande capitale come movimento mondiale è un colosso morto, sebbene non abbia ancora
raggiunto in Occidente il suo culmine massimo. Dobbiamo tenere il suo discorso funebre e dire: ha
prodotto cose gigantesche. È stato uno dei maggiori movimenti mondiali, ha prodotto di piu per
quanto riguarda la tecnica e il traffico di quanto abbiano fatto Egitto e Babilonia, i Fenici e
Cartagine in millenni. Ciò che egli creò fu un lavoro pionieristico. Ciò verso cui si diresse fu un
territorio vergine. Qui mise mano al campo delle scoperte; lì al dominio delle masse: ogni giorno
una nuova possibilità, una nuova direzione, una nuova apertura. Si impadronì di territori, foreste,
correnti, miniere, stretti e porti e creò imprese. Un lavoro pionieristico che bonificò il mondo, non
nel senso dell’agricoltura ma in quello del metodico lavoro dell’industria. E questo lavoro
gigantesco, diretto da forti uomini, ha trasformato il mondo, di modo tale che esso riuscì a nutrire
anziché pochi milioni, una popolazione calcolata ora in miliardi. Sarebbe stato impossibile
adempiere a questo straordinario compito con qualsiasi altra forma che non fosse la forma
meccanica della vita e dell’attività industriale.
Ora dobbiamo distinguere due cose: da una parte, come lavoro di dissodamento, come lavoro di
bonifica, il capitalismo non dovette fare economie; dovette creare in grande, non potè tener conto
delle piccolezze. Era di secondaria importanza se miliardi extra se ne andavano, se infiniti materiali,
infinite quantità di forza-lavoro venivano saccheggiati: poteva conquistare in un giorno piu di
quanto avrebbero potuto rendergli dieci anni di risparmio.
Così attinse a piene mani, avidamente. Ha dilapitato secondo l’esempio dell’incurante natura.
Tuttavia non ha sperperato in ogni cosa; in un punto fu parsimonioso, e noi dobbiamo tener bene
presente questo punto. È stato incredibilmente parsimonioso nell’amministrazione. Prodigo
nell’attività, parsimonioso nell’amministrazione! È possibile? Questo è ben possibile. Accumulò
certo le ricchezze che creava, come possesso delle sue persone, delle sue imprese о dei suoi
discendenti. E tuttavia queste furono sempre investite; di tutte queste ricchezze infinite non
possedeva null’altro che il titolo di proprietà scritto sulla carta. Voleva il potere e per sua causa
rinunciò, nel dubbio, al piacere. Non poteva neppure sprecare molto in piacere, poiché il numero
degli uomini conquista-tori era di gran lunga troppo piccolo perché potesse dilapidare l’infinito
raccolto del mondo. Certo a ragione l’operaio parla del disgusto che prova attraversando le strade
dei quartieri ricchi, guardando i vasti giardini, i grandi parchi e le ville e immaginando cosa avviene
dietro questi cancelli e queste mura. Tuttavia, se si fa il conto, tutto quello che dietro queste
inferriate si sperpera, è un dispendio amministrativo abbastanza contenuto. I suoi costi sono
calcolabili, in Germania, all’incirca nell’ordine di un miliardo e mezzo l’anno, e queste somme non
potrebbero essere risparmiate completamente. Poiché se avessero avuto questi introiti solo
alti impiegati invece che imprenditori e direttori generali, essi forse sarebbero vissuti meno
grandiosamente, tuttavia però sarebbero sempre vissuti piu dispendiosamente dei loro dirigenti
d’azienda. Dunque nell’amministrazione dell’economia mondiale si è sperperato poco, molto invece
nell’attività.
Attività cara, amministrazione a basso costo è l’epigrafe del capitalismo, ed ogni nuova forma
dell’economia e della società, qualunque essa sia, sarà amministrata sotto ogni punto di vista piu
dispendiosamente. Lo vediamo già oggi. Ogni singolo pretende una parte ben piu grande
dell’introito generale economico, ogni singolo pretende un diritto maggiore al consumo, e il
fattore decisivo è questo: ciò che egli pretende, per quel che riguarda aumenti di stipendio e di
salario, non viene accumulato come i proventi dei precedenti capitalisti e rimesso nell’impresa, ma
viene consumato. Ne deriva che ogni futura forma economica sarà amministrativamente piu cara (e
si potrà accumulare molto meno), e perciò condurrà al benessere molto piu lentamente che il
capitalismo.
Se teniamo ben presenti queste premesse e riflettiamo sul fatto che contemporaneamente al crollo
del capitalismo sono crollati anche il nostro paese, il nostro Stato e la nostra economia, tutto ciò
appare una coincidenza straordinariamente grave.
Quando vediamo che l’operaio ricomincia di nuovo a lavorare, che le ferrovie tornano a funzionare,
che funziona nuovamente la luce elettrica, allora in un angolo della nostra coscienza ci diciamo:
orbene, comincia ad esservi ordine. Le cose torneranno in ordine, ma ci vorrà del tempo. Nel
frattempo noi barcolliamo e non ci accorgiamo che barcollando sprofondiamo. Ce ne accorgiamo
solo se osserviamo numeri e statistiche.
Non dimentichiamo dunque: la futura forma dell’economia e la sua amministrazione saranno molto
care; la maggior parte della rendita del lavoro che finora è stata accumulata, sarà consumata. E
ancor piu di questo: sarà straordinariamente difficile mantenere in piedi la gigantesca struttura
economica che abbiamo ereditato e che crediamo sia indistruttibile. In quell’epoca abbiamo attinto a
piene mani da questo parco di macchine, edifici, impianti e mezzi di trasporto; ora dobbiamo
completarlo e rinnovarlo; per adesso tiene ancora, ma siamo giunti alla trama. Le carrozze dei tram
già oggi non si possono quasi piu sostituire poiché la carrozza che prima costava 20.000 marchi,
adesso ne costa 250.000, e l’azienda non riesce a sostenere l’acquisto. Entro dieci, venti anni tutte le
nostre apparecchiature saranno inutilizzabili; chi le potrà nel frattempo sostituire in modo
equivalente? Questa è la questione del nostro futuro. Oggi attingiamo ancora dalla grande ricchezza
allora accumulata, dalla cultura accumulata, dalla bravura manuale, dall’atmosfera tecnica. Tutta la
nostra intelligenza e tutta la nostra capacità lavorativa si logorano e hanno bisogno di un faticoso e
costoso rinnovamento. Sarà possibile?
Questo non è tutto. Parliamo di Spa 2, delle riparazioni di guerra come di cosa d’ogni giorno: ne
abbiamo già passate tante, passeremo anche questo. Pronunciare la parola miliardi è facile,
stamparli non è difficile. In una economia che non è ancora diventata stazionaria,
che essenzialmente consuma ancora dal passato, in un periodo di transizione, le anomalie sono
accettate quasi senza accorgersene. Perciò parliamo tranquillamente di miliardi che dobbiamo
pagare ed ancora in un angolo della nostra coscienza si dice: ne verremo ben fuori. Noi non ne
verremo fuori, noi pagheremo! Che la ferita dell’Europa debba chiudersi non v’è dubbio. Quanto ci
costringano diritto, legge, un dovere morale, non è decisivo. Si ricostruirà! E questa ricostruzione ci
darà, nella situazione di pesante oppressione in cui si trova la nostra economia, infinite
preoccupazioni. Perché, anche a prescindere dalle cifre francesi, vi prego di riflettere: ogni
miliardo-oro annuo significa una somma di dieci miliardi di marchi-carta, che debbono essere
stampati e manovrati in qualche modo; ogni miliardo-oro significa 15 milioni di tonnellate di
carbone secondo il prezzo estero, 50 milioni secondo il prezzo interno. Non dobbiamo dimenticare
queste cose. Non possiamo credere che, perché per 4 settimane le cose sono andate passabilmente e
forse fra altre 4 andranno un poco peggio, sia subentrata una sorta di condizione stazionaria. Signori
miei, non è affatto cosi. Non dobbiamo lasciarci illudere da quelli che ci dicono: lasciate stare, si
rimetterà tutto a posto da sé. Fra quelli che dicono cosi ve ne sono alcuni che si trastullano
pensando che, se si divide la Germania in tre parti, una parte diventa sana, e cioè quella occidentale,
che risulta una specie di Belgio tedesco.
Se ora chiediamo: come si prospetta il futuro e come supereremo queste cose? la risposta è la stessa
che otteniamo nel caso di una impresa fallita che ha trafficato al di sopra delle sue condizioni, di
una banca, di una società armatrice, di una fabbrica. Su tutte le labbra aleggia la parola ‘ risparmiare
’. No, non è il risparmio inteso in senso comune; il risparmiare poco manda in rovina solo quando è
spinto oltre una determinata misura. Non possiamo nutrire ancor peggio gli uomini di quanto
avvenga e di quanto è avvenuto; il compito consiste nell’organizzare e nell’ordinare.
Non è possibile che in un’economia, in un futuro che abbiamo dinnanzi a noi, le cose continuino a
procedere in modo anarchico, non ordinato, inorganico. Non vivremo piu in un meccanismo
economico disorganico, imbrogliato, condotto solo dall’individualismo, dall’interesse personale,
vivremo invece in un organismo articolato, nel quale chi dirige l’economia о l’amministrazione, è
responsabile in egual misura di se stesso e della comunità. Il nostro compito e la nostra salvezza
consistono nel fatto che con lo stesso numero di uomini, con minori risorse minerarie, con la stessa
prestazione di lavoro, dobbiamo produrre il doppio, il triplo di quello che abbiamo prodotto fino ad
ora. Se dobbiamo amministrare in modo caro, è necessario allora — capovolgendo la vecchia
economia — praticarla tanto piu economicamente. Questo appare a molti temerario e impossibile
perché essi non conoscono il processo della produzione di beni. Chi lo conosce sa che oggi la metà
delle prestazioni lavorative e della quantità di beni viene sprecata inutilmente. L’intero processo
della nostra produzione è infantile, primitivo, affidato all’umore, all’interesse personale, al caso. È
comparabile all’economia agraria di cento anni fa, che faceva a meno di ogni conduzione razionale
e produceva appena un quarto dell’attuale. Si tratta di accecamento quando un popolo non vuol
sapere nulla della struttura razionale del processo complessivo della sua produzione, se risparmia
nelle piccole cose e sperpera nelle grandi, se vuol soffrire la fame piuttosto che ripensare e
rielaborare i suoi metodi di lavoro e creare benessere per tutti.
Grazie a vuoti slogan si è sottratto a questi pensieri la loro forza d’incitamento; mescolandoli a
provvedimenti ufficiali, si è conferito loro l’apparenza di meccanismi, cosa che non sono affatto.
No, in questi pensieri vi è la piu profonda etica di cui noi siamo capaci
tecnicamente, economicamente e socialmente. In essi sta l’etica della responsabilità di ogni singolo
uomo e l’idea della comunità. Di contro, vi è la volontà individuale dell’indipendenza personale,
che stimo in quanto parte integrante irrinunciabile della vecchia epoca capitalistica; a questa etica si
contrappone la ricerca di guadagno che non può venir disconosciuta, a cui noi dobbiamo molte
grandi cose, che non deve venir eliminata, ma che non può piu essere, né sarà, l’unica forza
determinante economica-mente del futuro. L’economia non sarà mai piu soltanto affare dell’uomo
privato; in futuro essa sarà sempre una questione di responsabilità di fronte alla comunità, di fronte
all’umanità.
Capisco che vi sono degli uomini ancor oggi accecati dallo splendore dell’epoca vittoriana, che si
ricordano di quando in gioventù seguivano con vivace partecipazione i dibattiti parlamentari
dell’Inghilterra e gli accordi di vasta portata presi da una Camera avveduta e dai suoi notevoli
rappresentanti. Posso capirlo perfettamente, se si ricorda l’epoca di Gladstone e di Beaconsfield e
in silenzio si spera che anche per noi fiorisca un simile futuro democratico. Mai, signori miei, potrà
essere attinto da un passato un qualsiasi ideale del mondo, mai un qualsiasi romanticismo, che ha
nostalgia di ciò che è stato, sarà qualcosa di diverso da un improduttivo sentimentalismo. In questo
caso però il sentimentalismo è doppio, perché queste grandi epoche furono i
tempi irrimediabilmente passati dell’imperialismo. Anche quegli uomini avevano dinnanzi a loro un
oscuro destino, erano esploratori, scavavano nell’oscurità. Oggi le grandi transazioni politiche di
questi uomini ci appaiono come ovvie alla chiara luce del passato, e alcuni
desidererebbero riprenderne i mezzi e gli scopi già sperimentati. No, noi dobbiamo di nuovo
penetrare nell’oscurità di un futuro altrettanto buio. Questo futuro non è piu quello delle colonie,
delle coalizioni e delle acquisizioni territoriali, della bonifica tecnica e della scoperta geografica,
della libera imprenditoria, del grande potere capitalistico privato e politico, bensì questo oscuro
futuro del lavoro comunitario, intensivo, responsabile e sociale. E perciò le nostre realizzazioni
democratiche non avranno lo splendore dell’epoca vittoriana, non si metterà come allora l’India ai
piedi di una regina e non si acquisterà in una notte il canale di Suez, bensì, con uno sforzo
accurato, duro, non appariscente, rimboccandosi le maniche, si lavorerà anno per anno ai problemi
dell’economia intesa come socializzazione e crescita produttiva. I compiti non stanno piu in
lontananza, essi sono ora presenti e in noi stessi.
Mi avvio alla conclusione.
Il momento sembra sfavorevole per parlare di tali cose. Una corrente reazionaria attraversa la
Germania. Nei suoi momentanei effetti, la valuto forte; ma la sua efficacia strategica è un alito di
vento che svanisce ad ogni movimento di pensiero e di idee. Non adattiamoci alle oscillazioni del
momento, ma restiamo fermi nella valutazione dell’assolutamente necessario, per quanto questo
assoluto rimanga ancorato al terreno tedesco.
Il democraticismo liberale occidentale non è ancorato al terreno tedesco. Quello che noi dobbiamo
creare, sarà prodotto dal terreno tedesco. Cosa sono poi queste crazie che da Platone, e già da
prima, hanno mosso il pensiero degli uomini? Crazie sono dominio. Plutocrazia: il dominio dei
ricchi; aristocrazia: il dominio dei καλοί e άγαμοί; autocrazia: il dominio di uno; la democrazia pare
elevarsi come signoria del popolo su se stesso; sembra un gioco di parole, poiché dove si domina, li
dominano uomini.
Non abbiamo più bisogno di nessuna signoria. Ciò di cui abbiamo bisogno sono amministrazione,
responsabilità, comunità. Comunità responsabili che si autoamministrino! Acrazia sarebbe la parola
per esprimere questo, non anarchia. Dominare — anche se fosse su se stessi — non è più dato ai
popoli del nostro genere, e tanto meno essere dominati.
Se ci rappresentiamo la nostra situazione come partito, allora dobbiamo dire: siamo nati dal
liberalismo; e sempre più esso si allontana da noi. Quello che di prezioso abbiamo ereditato dal
liberalismo è la sua collocazione all’interno dell’ordine dei partiti: la definirei con una espressione
berlinese come « una nicchia ben ritagliata »3. La collocazione del nostro partito all’ala sinistra dei
partiti borghesi, e all’ala destra di quelli marxisti, è il nostro migliore possesso, perché è su questa «
nicchia ben ritagliata » che sorgerà la casa del futuro. La questione è ora se noi o altri faremo i piani
secondo i quali essa deve essere costruita. Poiché la casa, cosi come è oggi, è ancor sempre la
vecchia casa del liberalismo e non ancora la casa del futuro sociale. Rispettiamo questa casa, ha
dato alloggio a generazioni; ciò non impedisce il fatto che si valutino le sue condizioni piuttosto che
la sua architettura.
Se osserviamo ulteriormente la situazione del nostro partito, allora risulta che oggi non siamo piu
un partito che rappresenta grandi interessi; lo potevamo essere finché la democrazia non era
realizzata: allora in ogni uomo, se non possedeva un cuore nato per la sottomissione, in ogni uomo
anche se era conservatore agrario о socialista radicale, vi era una scintilla di fuoco
democratico; allora rappresentavamo qualcosa che ogni buon tedesco desiderava. Queste cose si
sono realizzate, non dimentichiamolo. Oggi non siamo piu i rappresentanti di una unitaria volontà
libertaria tedesca, e neppure — e ciò lo saluto con gioia — i rappresentanti di un grande e chiuso
gruppo di interessi, i rappresentanti di patrimoni di milioni e delle loro sovvenzioni elettorali. È
bene! Perché ciò ci costringe a riflettere su noi stessi. Abbiamo il dovere di diventare il partito dello
spirito, sia esso grande о piccolo; perché dove altro potrebbe sorgere questo partito? Non può
esservi lì ove dominano gli interessi о decide l’agitazione.
Ora con ciò non dico che siamo del tutto disinteressati о estranei all’agitazione, ma non credo che
ciò sia per noi il dato determinante. L’elemento determinante lo vedo nel fatto che innanzitutto
stiamo nel punto del terreno politico, in cui tale terreno ha la sua piu promettente e piu solida
fondazione; e poi che siamo costretti a porci la pretesa di essere un partito dello spirito.
Sta a noi, quando presso tutti gli altri partiti domina l’interesse, la macchina elettorale, l’agitazione,
ricercare l’idea capace di spiritualizzare. E non mutueremo piu questa idea dal grande Secolo
francese, il Secolo dell’Illuminismo, e dalla rivoluzione francese. Non possiamo accontentarci del
contenuto d’idee individualistiche e liberali del diciannovesimo secolo, imperialista, capitalistico,
meccanizzato e plutocratico, del secolo della grande borghesia. Il nostro sviluppo democratico non
sarà guidato dalla famosa e mai realizzata triade della Libertà, Eguaglianza e Fraternità, per quanto i
raggi di questa triade, che è ideale, possano sempre splendere su di noi; il nostro sviluppo condurrà
alla triade della libertà, responsabilità e comunità.

[Conferenza tenuta il 28 giugno 1920 al Club democratico di Berlino. Pubblicata in Gesammelte


Reden, Fischer Verlag, Berlino 1924, pp. 51-80.]

%
1 Le elezioni anticipate del 6 giugno 1920, nelle quali il partito democratico subì un tracollo di
quasi la metà dei suoi seggi.
2Luogo della Conferenza interalleata, alla quale per la prima volta venne invitata la Germania (5-
16 luglio 1920).
3 « gut geschnittene Ecke ».
%%%

Politica della produzione

Signore e signori!
La vostra presidenza mi ha assegnato l’incarico, che mi onora, di parlarvi della questione che oggi
agita l’opinione pubblica di tutti i paesi: la socializzazione. Vi prego di permettermi di modificare
un poco l’oggetto in questione e di porre a tema della trattazione il problema della politica della
produzione. Nel corso dell’esposizione vedrete che la politica della produzione è la chiave del
problema che ci interessa.
Se valuto l’oggetto che avete posto oggi in discussione, devo constatare che l’ampiezza del concetto
e dell’idea è tale, che è appena possibile concentrare il contenuto della conferenza in un’ora. Né mi
è stato possibile, nell’affanno di questi giorni, compiere un’esauriente preparazione, come sarebbe
stato necessario per trattare con lucidità e precisione un argomento di tale ampiezza. Devo perciò
appellarmi alla vostra indulgenza se molte cose vi appariranno concise e alcune non del tutto chiare.
Tanto piu allora devo pretendere da voi. Molto si pretenderà dalla vostra capacità di comprensione,
e sarà necessario che sia io che voi ci sforziamo di comprendere così vasti concetti con il minor
numero possibile di parole.
Il concetto di socializzazione è diventato uno slogan, e tutti voi sapete che gli slogan che dominano
un’epoca quasi mai completamente e mai correttamente corrispondono ai problemi che la
interessano intimamente. Con socializzazione ciascuno intende qualcosa di diverso, e probabilmente
comune alla coscienza pubblica è solo il credere che tutti i bisogni della nostra epoca si
possano eliminare con un’unica ricetta, con un unico provvedimento. Si tratta dunque di scomporre
il concetto. Dobbiamo addentrarci nelle tendenze di fondo che agitano la nostra epoca, per
comprendere in che modo si possa nuovamente costruire, per trovare il concetto che non sia una
ricetta, bensì una forma ideale e organizzativa capace di condurci a formare il nuovo che ci è
imposto.
Dobbiamo innanzitutto osservare le tendenze di fondo che agitano la nostra epoca, e dobbiamo
distinguerne tre che vi prego di considerare con attenzione.
La prima esigenza fondamentale di cui si tratta, è la richiesta di trasformare la distribuzione dei beni
delle nazioni e del mondo secondo giustizia.
Ognuno di noi sente l’ingiustizia che domina nella distribuzione dei beni del mondo e nel loro
consumo. Ognuno di noi sente che è cosa assai grave quando generazioni e generazioni crescono
nella piu netta disuguaglianza nella distribuzione e nel consumo dei beni della terra, e soprattutto di
quel bene, che rappresenta il piu forte agente dell’epoca, ovverossia la cultura. L’esclusione dalla
cultura è la conseguenza piu dura di un’ingiusta distribuzione dei beni. Lo sforzo di organizzare piu
giustamente questa distribuzione dei beni, dev’essere considerato come la prima e forse piu
significativa tendenza fondamentale della nostra epoca.
La seconda tendenza fondamentale che dobbiamo aver ben presente è l’esigenza di partecipazione.
A ragione l’esclusione di vaste cerchie di popolazione dalla determinazione del proprio destino
economico è sentita come ingiustiza. L’analogo di tale questione l’abbiamo sperimentato nel secolo
scorso. Allora non si trattava della determinazione e della partecipazione nell’economia, bensì della
determinazione e partecipazione nella politica. Si trattava delle questioni dell’autocrazia, del
costituzionalismo e della democrazia. Quello che abbiamo sperimentato in ambito politico, lo
riscontriamo nel corso di questo secolo in ambito economico. Anche ora procederemo sulla strada
che conduce dall’autarchia verso la democrazia, e la tendenza, l’esigenza fondamentale,
che conduce a quel punto, è la ricerca di determinazione e partecipazione.
La terza tendenza che dobbiamo tener presente è quella dell’incremento del benessere generale. È,
infatti, evidente che la quantità dei beni del mondo e la quantità dei beni dei singoli paesi oggi non
sono affatto sufficienti per procurare a ciascuno quell’esistenza ed assicurargli quella partecipazione
ai beni che sono necessari per il suo mantenimento, per il suo sviluppo, per la sua formazione
spirituale. Dunque è la terza tendenza quella che dobbiamo tenere ben impressa: la
tendenza all’aumento dei beni, cioè la tendenza alla produzione.
Se ci poniamo ora criticamente di fronte a queste diverse tendenze e alle forme in cui esse hanno
agito, allora arriveremo alla seguente considerazione: la tendenza fondamentale della distribuzione
dei beni è quella che originariamente è stata alla base del sistema marxista. Si sono prese le mosse
dalla distribuzione dei beni, passando, tramite la grande idea della statalizzazione di tutti i mezzi di
produzione, a raffigurare una giusta organizzazione della distribuzione corrispondente alle
esigenze di una grande economia nazionale; ma nel momento in cui si pensa fino in fondo questa
idea, se ne traggono conseguenze che destano preoccupazioni e dubbi in tutti i sensi.
Se teniamo ben presente innanzitutto il concetto fondamentale del sistema, il concetto di plusvalore,
allora constatiamo che per cinquant’anni quasi nessuno s’è dato la pena di calcolare questo
plusvalore e di constatare veramente se la distribuzione di questo plusvalore produca un mutamento
così notevole nella vita economica della nazione, tale che si possa dire: per mezzo di questa
distribuzione i rapporti vengono radicalmente trasformati. I calcoli sono stati fatti molte volte
negli ultimi tempi e li si è fatti sia riguardo all’economia generale dello Stato che riguardo alle
singole economie delle imprese. Se considerate le singole economie delle imprese — siano esse
società per azioni, о una qualsiasi delle grandi imprese produttive — calcolate quanto grandi siano
le quote che l’impresa ha realmente economizzato in plusvalore e vi chiedete quanto spetterebbe a
ciascun impiegato e operaio se questo plusvalore fosse totalmente suddiviso per il numero degli
addetti, allora se ne ricaverebbe il risultato, davvero spiacevole, che la cifra è straordinariamente
modesta. È una cifra che si aggira intorno ai 250-300 marchi all’anno pro-capite, cioè una cifra
insignificante se la si confronta a qualsiasi aumento salariale, per quanto vogliate modesto, come
è oggi all’ordine del giorno all’incirca mensilmente. Se dunque un’impresa volesse versare ad
impiegati ed operai il suo complessivo plusvalore, il risultato sarebbe oggi, nelle attuali condizioni
economiche, assolutamente insoddisfacente.
Ad un risultato generale unitario si arriva calcolando, a partire dal risparmio nazionale di un paese,
l’ammontare complessivo del plusvalore in tutto un paese. Il risparmio generale di un paese deve
includere anche il plusvalore: esso, infatti, non può essere maggiore di quello che risparmia il paese
nella sua totalità; il che significa che il paese produce piu di quanto consuma. In Germania, prima
della guerra, la differenza fra produzione e consumo è stata valutata diversamente. Si può certo
supporre che sia stata nell’ordine di grandezza di 5-6 miliardi. Da ciò risulterebbe che se tutto il
plusvalore fosse stato suddiviso ogni anno si sarebbe potuto distribuire un importo di 5 о 6 miliardi.
Si tratta di una conclusione errata, poiché questo plusvalore finora non è stato consumato, bensì, e
ciò è confermato dalla teoria, usato per l’accumulazione. È stato investito in macchine,
apparecchiature, edifici, ferrovie, porti, impianti di trasporto; e un paese che si sviluppa non potrà
mai fare a meno di questi investimenti e rinnovamenti, non sarà mai dunque in condizione di
suddividere l’importo complessivo dei suoi risparmi. Se però si calcola che in un paese ha
realmente dominato un certo consumo di lusso, il cui importo non è stato distribuito, e se si suppone
che per lo meno questo lo si sarebbe potuto distribuire, se ne deduce che, a conti fatti, sarebbe stato
distribuibile circa un miliardo e mezzo, se si fosse rinunciato ad una ineguale retribuzione
dei diversi lavoratori del paese, se si fosse dunque posta la condizione che ogni direttore generale,
ogni consigliere о professore, vivesse esattamente come ogni operaio; allora il miliardo e mezzo
sarebbe stato distribuibile, e questo importo — potete facilmente calcolarlo — diviso per 60 milioni
avrebbe dato un ordine di grandezza ancor piu piccolo di quello che precedentemente ho indicato.
Se questo importo venisse diviso, alla popolazione spetterebbe una quota infinitesimale; d’altra
parte non si sarebbe potuto distribuire di più.
Nel considerare il problema della distribuzione dei beni, allora, la nostra attenzione è
necessariamente richiamata sul fatto che, se vogliamo regolare in altro modo la distribuzione dei
beni di un paese — e questa deve e dovrà essere regolata in altro modo —,
occorre fondamentalmente lasciar sgorgare piu abbondantemente le fonti del paese, aumentare la
sua produzione, incrementare gli importi disponibili per la distribuzione, poiché altrimenti non se ne
fa nulla. In altre parole: la considerazione del problema della distribuzione dei beni ci conduce
nuovamente alla considerazione del problema dell’incremento della produzione. Solo tramite
l’incremento della produzione siamo in grado di aumentare quegli importi divisibili, in modo tale
che essi possano risultare decisivi nell’economia della comunità.
Vengo ora alla critica della seconda tendenza di cui abbiamo parlato, cioè del diritto di
partecipazione o, meglio, di determinazione. Voi sapete che in Russia si è partiti dalla
considerazione che tutto ciò che riguarda l’economia industriale può per una volta andare in
pezzi. Siamo un paese di agrari, un paese di contadini; l’industria, la classe operaia, sono solo una
sottile facciata. Senza dubbio possiamo rinunciare per un paio d’anni ad una sana economia
industriale se realizziamo un principio, ovverossia l’eliminazione dello sfruttatore. Non vogliamo
piu lavorare per singoli uomini, vogliamo lavorare solo per lo Stato, per la comunità. Questa è
la tendenza della partecipazione, ovverossia la tendenza dell’opposizione all’economia privata nella
sua forma piu alta, in quella forma, cioè, in cui essa ha assunto le passioni del risentimento,
diventando piu un istinto di vendetta contro il passato che una tendenza costruttiva per il futuro.
In Germania non dobbiamo temere la tendenza della Russia. Procediamo organicamente e non
abbiamo desiderio di vendetta, né abbiamo posto al centro, dove si tratta di questioni puramente
costruttive, sentimenti e passioni. Possiamo dunque prescindere da queste due estreme tendenze e
dire che è presente da noi lo sforzo di partecipazione sia nelle imprese che là dove si regola
la circolazione dei beni. Condividere la responsabilità lo consideriamo un diritto, un dovere. Non
vogliamo piu che il nostro destino dipenda dalla decisione di pochi singoli.
Questa tendenza è sana, ma la sua realizzazione incontra difficoltà. Le responsabilità che oggi
debbono essere affrontate sono pesanti, le decisioni che nell’economia debbono essere prese da un
giorno all’altro sono straordinariamente cariche di responsabilità e richiedono la mobilità piu
completa. In sé è difficile prendere decisioni rapide e importanti quando si è in molti a
dover decidere. D’altra parte, quelli che decidono devono essere cosi padroni del problema, da poter
realmente dire con la piu completa elasticità in ogni momento: si questo è giusto, deve accadere,
stiamoci. Una simile condizione richiede una visione altamente tecnica ed esperienze commerciali
che nel nostro paese credo possano essere raggiunte e che credo si raggiungeranno. Sarà però molto
difficile raggiungerle da un giorno all’altro.
Oggigiorno vi sono paesi, ad esempio la Cecoslovacchia e la Polonia, che nel grande e sempre
crescente accumularsi dei compiti non sanno dove pescare uomini responsabili, e noi non siamo
molto lontani da questa situazione. Gli uomini esperti e responsabili soccombono oggi sotto il peso
del loro lavoro, e il numero di quelli che sono disponibili e in grado di assumersi piena
responsabilità non è ancora cosi grande come in un primo momento si potrebbe credere.
Deve dunque esservi partecipazione, ma per essa è necessaria una graduale preparazione. Bisogna
maturare l’intera comunità ai grandi compiti difficilmente comprensibili di cui oggi si occupa un
numero relativamente esiguo di uomini. Si deve approvare questa tendenza. Bisogna promuoverla
con tutte le forze; ma non andremo comunque al di là di una certa misura. Nella legislazione dei
Consigli di fabbrica vedo la possibilità che gli operai si inseriscano attivamente nei grandi compiti
industriali e commerciali. Credo e spero che, nonostante tutte le difficoltà che si contrappongono
all’applicazione della legge, gradualmente scaturisca da essa una reciproca formazione del datore di
lavoro e del lavoratore. Anche il Consiglio economico del Reich è una creazione che cerca di
rispondere alla tendenza alla partecipazione. È destinato ad essere un organo paritetico, in cui
discutere e decidere tutte le grandi questioni economiche del paese; ma anche qui vi sarà bisogno di
un lungo periodo iniziale prima che sia possibile un funzionamento dell’apparato realmente
scorrevole e privo di attriti.
Ma comunque si configurino le questioni della partecipazione e del diritto di determinazione, esse
saranno in grado di procurare al paese soddisfacimento e benessere se nello stesso tempo la
produzione verrà incrementata a tal livello da permetterle di superare le difficoltà d’avvio di tali
nuovi organismi. Anche qui veniamo di nuovo rinviati al punto da cui abbiamo preso le mosse,
punto che pone sempre in primo piano il problema della produzione. Dobbiamo considerare questo
problema più minuziosamente di qualsiasi altro.
Vengo ora appunto a questo problema della produzione che è fondato sulla terza tendenza di fondo
di cui abbiamo parlato, ovvero sulla tendenza che porta ad esigere il benessere generale del paese.
Si impone perciò la necessità di trasformare e di conformare la nostra produzione di modo tale che
essa partendo da presupposti di nuovo genere, aumenti, moltiplicandola, la quantità di beni prodotti
annualmente. Ciò è di per sé evidente, se consideriamo la nostra situazione e la compariamo alla
nostra condizione precedente. Conosciamo gli effetti della pace di Versailles; sappiamo che il
paese forte e ricco in cui abbiamo vissuto è diventato un paese povero e oppresso, indebolito dalla
concorrenza. La necessità per un siffatto paese di servirsi di nuovi metodi di produzione è fuor di
dubbio. Se prima ci chiedevamo: da dove proviene l’eccedenza di prodotti per l’alimentazione di
cui abbiamo bisogno?; la risposta era semplice. Potevamo dire che la Germania aveva una
grande quantità di beni all’estero, che era padrona di grandi possedimenti industriali ed economici
oltre il mare e in tutti i paesi. Sapevamo di poter richiedere le rendite, di cui eravamo creditori per
queste imprese, sotto forma di materie prime, di prodotti alimentari. Ora non è piu così. Quello che
compriamo dobbiamo guadagnarcelo da soli. Non possiamo dare in pagamento nulla piu che il
nostro proprio lavoro; e quel poco che ci è rimasto in materie prime consiste momentaneamente in
un po’ di carbone: e una parte di questo probabilmente andrà ancora perduta. Dunque, per l’acquisto
delle materie prime di cui abbiamo bisogno per vivere, non abbiamo null’altro a disposizione se non
il nostro lavoro. Ciò richiede che si lavori nel modo piu fruttuoso ed efficace, che si aumenti
l’effetto utile di questo lavoro al piu alto livello possibile.
Un secondo pericolo incombe su di noi e oggi non si è fatto ancora quasi nulla per affrontarlo. È un
pericolo maggiore di tutti quelli del trattato di Versailles messi insieme. È piu difficile da
combattere di qualsiasi altro pericolo puramente economico: è il pericolo del crollo della nostra
cultura. Non dimenticate, signori, che la forza della Germania era basata sul fatto d’aver fondato
tutta la sua economia sulla scienza, poiché la tecnica non è null’altro se non scienza applicata.
Eravamo in grado, per l’ineguagliabile livello delle nostre università e dei nostri politecnici, di
formare un numero cosi grande di forze preparate quante ne richiedeva il paese. Eravamo in grado
di finanziare tutti gli esperimenti di cui la scienza aveva bisogno, di creare e mantenere istituti di
inimmaginabile grandezza e capacità produttiva, di diffondere nel paese una letteratura scientifica
che non fu mai superata о anche soltanto raggiunta da nessuna altra letteratura di genere tecnico e
scientifico di un qualsiasi altro paese. Voi sapete che la nostra abilità era ad un tale livello da destare
meraviglia negli altri paesi. La raffinatezza delle nostre apparecchiature e macchine, la precisione
del nostro perfetto lavoro era l’elemento che rendeva possibile l’introduzione della tecnica tedesca
negli altri paesi.
Ma se ci domandiamo: come può essere mantenuto un livello cosi sofisticato della scienza, della
tecnica, dell’abilità, del livello culturale generale di un paese, che si è impoverito e impoverito a tal
grado? questa è una domanda a cui è molto difficile rispondere. Già oggi i nostri istituti scientifici
versano in condizioni disperate. Siete a conoscenza di tutte le difficoltà che assillano il ceto medio
intellettuale, che è stato il nucleo e il portatore di tutto il nostro sviluppo tecnico e spirituale. Sapete
che in Germania non è quasi piu possibile ricevere riviste straniere. Sapete che è diventato
difficile stampare e vendere libri a prezzi accessibili. Adopereremo ogni forza per eliminare il
pericolo di questo crollo culturale che può compiersi nel giro di una generazione, ma saremo
all’altezza di questi compiti solo quando prenderemo posizione riguardo alla questione di come
rendere il paese il piu produttivo possibile; poiché un paese del tutto impoverito può girarsi e
voltarsi quanto vuole, ma non può salvaguardare l’atmosfera in cui vivono tecnica, scienza, abilità.
Debbo illustrarvi un terzo pericolo. Consiste nella concorrenza di quegli Stati che hanno avuto piu
fortuna di noi in guerra; consiste soprattutto nella concorrenza dei paesi anglosassoni. Prima della
guerra il tedesco non era visto di buon occhio dappertutto, ma tuttavia era senza dubbio ben accolto.
I legami commerciali con tutti i paesi ci erano aperti. Non v’era angolo sulla terra che non
conoscesse ed apprezzasse i prodotti tedeschi, perché il prodotto tedesco era ben rifinito, preciso, a
buon mercato e bello. Il nazionalismo dei popoli ha rotto questo legame; ma non solo questo: la
nostra penetrazione in altri paesi è considerata con grande diffidenza. Ancor oggi non possiamo
viaggiare in determinati paesi, altri ci escludono del tutto. Costerà gran fatica riallacciare
nuovamente i legami che abbiamo avuto e abbondantemente usato.
In questo periodo, però, crescerà anche la concorrenza del mondo anglosassone. Per decenni
l’Inghilterra era rimasta arretrata in campo industriale e certo la ragione di questo stava nel fatto che
non aveva sviluppato Г ‘ atmosfera tecnica ’, di cui ho parlato prima, cosi fortemente come noi.
Durante la guerra l’Inghilterra è diventata industrialmente potente; ma ancor piu colonialmente, e,
in misura ancora maggiore, politicamente. Oggi l’Inghilterra decide, da questa parte del mercato
mondiale, il destino di mezzo mondo. L’industria, l’economia, le finanze e il commercio
dell’Inghilterra hanno accesso ovunque, il paese si riprende dal punto di vista finanziario, cresce
politicamente.
Non meno pericolosa è l’industria americana, poiché l’America, paese in cui l’imperialismo è
ancora poco sviluppato, possiede la maggior forza economica della terra per il fatto che è
autosufficiente, che tutti i prodotti di cui ha bisogno li ha nelle sue falde, che non ha mai bisogno di
acquistare e che tutti comprano da lei. Il prodotto americano è richiesto da tutti i paesi; l’America
non ha bisogno dei prodotti di nessun altro paese. Ma non è questo il maggior pericolo, bensì il fatto
che l’America è il piu vasto e ricco di tutti i paesi. La questione della produzione industriale è oggi
piu che mai un problema di consumo. Laddove vi è un gigantesco mercato, solo lì è possibile
produrre, utilizzando tutte le risorse, su larga scala e a buon mercato. La vastità e la ricchezza
dell’America la rendono un paese dove si consuma enormemente. Il consumo americano di un
qualsiasi prodotto può essere sempre considerato come se fosse uguale al consumo dell’Europa
intera. Ora, però, immaginatevi quanto frazionato, quanto concorrenziale è il consumo di questi
piccoli Stati europei in confronto alla grandiosa economia unitaria di questo paese d’oltremare! Da
noi, durissima concorrenza dei piccoli Stati nella produzione e sul mercato; dall’altra parte, un
processo di fabbricazione concentrato in maniera colossale in mano a relativamente poche imprese,
un mercato gigantesco che è per lo meno uguale al mercato di tutto il continente europeo e che
poggia sulla produzione del proprio paese, mentre tutti i paesi europei debbono comprare le materie
prime.
È evidente che non è piu possibile instaurare un equilibrio fra America ed Europa; ed è probabile
che in pochi decenni l’intera politica degli Stati europei tra loro, Stati intesi come concetto
comunitario, si tramuterà per forza non appena si riconoscerà che questa frammentazione non può
assolutamente tener testa all’unità americana. Si impone il confronto con gli avvenimenti storici di
2300 anni fa, quando i piccoli sta-terelli frazionati della Grecia, nonostante la loro grandiosa civiltà
e cultura, non poterono piu mantenersi e difendersi contro il potere unitario di Roma, separata da
loro da un mare.
Stiamo ancora considerando la questione riguardante i motivi della necessità di porre la nostra
produzione su una nuova base per poter essere in grado di soddisfare le condizioni imposteci dalla
guerra. A tal riguardo non possiamo non menzionare un ultimo elemento, cioè la difficoltà,
risultante dalla svalutazione del nostro denaro, di costruire e acquistare. Non abbiamo mai
conosciuto precedentemente questa difficoltà. Quando ritenevamo necessario costruire industrie
avevamo il capitale a portata di mano. Quando avevamo bisogno di ferrovie, canali о navi le
costruivamo; quando dovevamo ingrandire officine, era semplice ampliarle. Tutto ciò è cambiato.
Voi sapete che oggigiorno costruire una casa costa all’incirca venti volte piu di quello che costava
prima della guerra. Questa è solo un’altra manifestazione del fatto che siamo impoveriti, poiché
calcolata in dollari la casa costerebbe solo una volta e mezzo piu di quello che costava prima, ma
noi che ci ritroviamo il valore del denaro decimato, non possiamo piu costruire questi edifici, questi
impianti. Anche a tal riguardo si presenta per il nostro futuro un enorme pericolo che dobbiamo
superare.
Dobbiamo usare attentamente ciò che possediamo. Per i prossimi anni e decenni la nostra forza non
consisterà piu nel fatto d’essere i piu forti nella costruzione di nuove industrie. Potremo cercare la
nostra forza solo nel conservare strumenti, edifici e imprese già esistenti e nell’usarli in un modo
mai fatto finora. E ciò ci riconduce nuovamente al problema della produzione, alla questione della
produzione organizzata. Saremo sempre ricondotti a questo punto: la politica della produzione è la
chiave del nostro futuro, è la possibilità che ci è data per risolvere tutte le tendenze verso la
socializzazione; e se consideriamo la politica della produzione come punto centrale delle nostre
considerazioni, riscontreremo che la parola d’ordine della socializzazione si scioglie in concetti
comprensibili in modo del tutto razionale.
Abbiamo parlato della necessità di intraprendere una politica di produzione. Consideriamo bene se e
quanto questa sia possibile. Raramente nei tempi precedenti si sono studiati problemi di questo
genere. Dominavano determinati e ineluttabili rappresentazioni che non sono mai state verificate,
delle quali la scienza non si è mai occupata e con le quali l’esperto era solito trattare a modo suo,
secondo l’esperienza. Così si partiva dal presupposto che la capacità produttiva massima per un
operaio di creare nuovi valori, consistesse all’incirca nell’ordine di grandezza di 2.000-3.000
marchi annui. Si credeva, dunque, che si potesse produrre un fatturato di 3.000-5.000 marchi per
addetto, ad eccezione di quei casi in cui il lavoratore lavora con una materia molto preziosa, come
ad esempio oro e rame о altre materie prime preziose, e si era dell’opinione che l’aumento di valore
che poteva essere prodotto dalla forza-lavoro di un singolo uomo fosse solo una frazione di quei,
diciamo, 5.000 marchi, dunque all’incirca nell’ordine di grandezza di 2.000 marchi. La capacità
produttiva della Germania prima della guerra è stata calcolata all’incirca nell’ordine di 42-45
miliardi di marchi-oro, e questo calcolo è abbastanza esatto. Anche qui si ritorna ancora
alla medesima massima empirica: la creazione di valore del singolo uomo è limitata da un massimo
inferiore ai 1.000 marchi all’anno. In questa considerazione si è però raramente introdotta la
questione se vi sia a tal riguardo realmente una limitazione alla capacità produttiva dell’uomo,
fissata da leggi naturali. Se si considera questa questione senza pregiudizi, allora risulta che
la capacità produttiva della forza-lavoro umana dipende in massima misura dagli impianti che
vengono messi a sua disposizione. Essa è praticamente quasi illimitata nella maggior parte degli
ambiti della creazione umana.
Vi sono certamente ambiti di attività puramente manuale in cui la creazione umana è limitata nel
suo valore. Uno scavatore di carbone, finché non gli si mette a disposizione un ausilio meccanico
migliore di quello odierno, non potrà estrarre piu di una determinata quantità di carbone; invece, per
esempio, l’operaio di una fabbrica chimica che va avanti da sola come il meccanismo di un
orologio, può limitarsi semplicemente a un lavoro di sorveglianza, producendo valori pro-capite
piuttosto grandi. Come esempio desidero ricordarvi che oggi l’operaio che lavora ad un altoforno
crea annualmente valori — creare è forse un termine poco appropriato, diciamo meglio che sotto la
sua sorveglianza si producono valori — che ammontano a parecchie centinaia di migliaia di marchi
all’anno. In una fabbrica chimica ben organizzata, in una buona centrale elettrica, sotto la direzione
di un solo operaio, vengono creati valori di incredibile grandezza. Dunque non è solo il lavoro
umano che determina il grado di valore del prodotto, bensì anche l’impianto che gli si mette a
disposizione. La direzione del processo produttivo è decisiva per determinare quali quantità,
convertite in lavoro, possano essere cristallizzate in valori e quale sia l’ammontare dei valori che,
come somma totale, alla fine dell’anno un paese ha prodotto in lavoro industriale.
Possiamo dunque prendere le mosse dal fatto che nessun teorico ha nulla da obiettare sul fatto che
60 milioni di uomini, di cui 20 milioni sono lavoratori adulti, che un paese di tale grandezza possa
non limitarsi ad una produzione di 40, 42 о 45 miliardi di marchi-oro. Possiamo partire dal fatto che
un simile paese se dirige sapientemente il suo processo produttivo, se crea impianti perfettamente
razionali, può produrre parecchio piu di questo valore. La possibilità teorica è data; che sia data la
possibilità pratica lo vedrete se visitate le nostre industrie riscontrando che ovunque vi siano
impianti realmente eccellenti, dove i processi di produzione si integrano l’un l’altro in maniera
realmente organica, li la forza produttiva del singolo uomo è una forza straordinaria, che si pone
ben oltre la media.
Se ora a confronto di questa esigenza di produzione organica, di produzione razionale, di
produzione che si fonda sul massimo e sulla perfezione degli impianti tecnici, se, in contrasto con
questa esigenza, consideriamo la situazione in cui attualmente si trova la nostra economia, allora
possiamo soltanto dire che, nonostante la fiducia giustificata nell’ottima qualità della nostra
economia cosi come era prima della guerra, essa è ora ben lontana dal poter soddisfare quelle
richieste che oggi le vengono rivolte. Prima della guerra, non a torto, eravamo dell’opinione
d’essere superiori all’Inghilterra per quanto riguarda la perfezione dei nostri mezzi,
d’essere superiori alla Francia, e che avremmo potuto compararci all’America; ma se analizziamo
bene la situazione attuale della nostra economia, allora riscontreremo che, anche se si prescinde
dalle distruzioni, perdite e peggioramenti del meccanismo generale che la guerra e la pace hanno
causato, essa è ancora infinitamente lontana dal poter soddisfare l’esigenza che noi oggi dobbiamo
porre.
L’importante questione della localizzazione industriale ha avuto un ruolo poco rilevante nella
crescita naturale dei nostri impianti industriali nei tempi passati. Oggi sappiamo che l’industria è un
prodotto del suolo proprio come l’agricoltura, e che non è possibile installare arbitrariamente
industrie in terreni e in zone del paese che non sono adatti ad accoglierle; però tutte le nostre
industrie piu antiche sono sorte un po’ casualmente, un po’ per motivi che oggigiorno non sono piu
validi; ad esempio una piccola energia idraulica di pochi cavalli ha stimolato la costruzione di una
fabbrica chimica, un piccolo giacimento di legno о sabbia ha reso possibile lo sviluppo di una
vetreria.
Gran parte delle nostre vecchie industrie non regge alla prova della localizzazione e tanto meno
regge alla prova la razionalità del nostro sistema di trasporti. Se riproduciamo su una carta
geografica il percorso del trasporto di un nostro prodotto о dell’insieme dei nostri prodotti, ne
risulta uno zig-zag indistricabile. I prodotti percorrono nel nostro paese vie lunghissime, invece
di percorrere, secondo l’ordine prescritto, la via che va dalla materia prima alla fabbricazione in
serie, dalla fabbricazione in serie alla trasformazione, dalla trasformazione al commercio
all’ingrosso, dal commercio all’ingrosso ai consumatori. Lo zig-zag del percorso delle nostre
merci, il procedere avanti e indietro dei nostri trasporti è assolutamente indistricabile. È ben lontano
da qualsiasi razionalità, da qualsiasi organizzazione.
Abbiamo creduto che il livello tecnico delle nostre macchine e dei nostri motori fosse difficilmente
superabile, tuttavia se andate in giro per il paese troverete motori che rivelano una tale mancanza di
economia, al punto che si deve definire semplicemente delittuoso il loro uso. Se adopero una
macchina che consuma giornalmente 10 о 50 quintali di carbone piu del necessario, distruggo
inutilmente il lavoro di un certo numero di miei connazionali nelle miniere di carbone. Non vi
può essere sperpero maggiore dello spreco di energia, di carbone, di qualsiasi altro materiale. Ma
esaminate a tal riguardo i nostri impianti, le nostre caldaie a vapore; esaminate tutte le nostre
macchine a vapore, e vedrete che in qualche punto lo spreco è gigantesco (vedi ferrovie!). Anche
questo è un capitale per sé. Non mi addentrerò ora in tale questione, ma avete ragione a
sostenere che il risparmio è necessario anche nelle imprese statali.
Abbiamo pensato che la nostra struttura industriale, per il suo ordine interno, fosse impeccabile ed
eccellente; ma anche a tal riguardo riscontriamo che — in parte perché siamo un paese piccolo, in
parte però anche per altri motivi — non abbiamo introdotto l’ordine dovuto. Oggi si parla molto di
tipizzazione. Io credo che in pochi abbiamo chiaro il concetto di tipizzazione. Sarebbe forse utile
creare un altro concetto e dire che non si tratta tanto di tipizzazione, quanto piuttosto di condurre la
divisione del lavoro alle sue estreme conseguenze. Noi conosciamo ora un tipo di divisione del
lavoro. Se si fabbrica un ago о una macchina, sappiamo che ogni singolo pezzo vien fatto da operai
diversi e che all’interno della fabbrica domina la divisione del lavoro. Non esiste però una divisione
del lavoro tra lavorazione e la-votazione, una divisione del lavoro per gruppi, e questo è uno dei
maggiori svantaggi di tutta la nostra struttura industriale. Cosa ciò significhi dev’essere chiarito
con esempi. Domandate a tecnici vostri amici quanto costi, ad esempio, fabbricare per la prima
volta un motore, diciamo un motore Diesel; quanto costi poi produrlo in una serie di tre pezzi, in
una serie di dieci pezzi, in una serie di mille pezzi. Ogni tecnico vi risponderà: i costi si riducono
con una progressione inaudita. Con ciò crescerà a dismisura la capacità di produrre valori-
lavoro con un operaio. Adesso non ho sottomano i calcoli, ma desidero darvi un’idea degli ordini di
grandezza. Supponete che un motore che esce completo dall’officina costi, nella sua prima
realizzazione, 300.000 marchi. Supponiamo di poter commissionare altri tre pezzi dello stesso
motore: ognuno di questi non costerà più 300.000 marchi, ma, poiché ci sono già determinate
attrezzature di base, sicché si sa come dev’essere fatta la cosa, ogni motore costerà ormai forse solo
150.000 о 180.000 marchi. Se volete fare, poi, una serie dello stesso oggetto, ad esempio 20 pezzi,
l’ingegnere verrà da voi e vi dirà: adesso ve li produco per 75.000 marchi. Se poi installate una
fabbrica specializzata in questa produzione, allora la riduzione dei costi sarà smisurata. Sarà una
piccola frazione dei costi originari e la produzione si moltiplicherà vertiginosamente.
L’esempio più convincente di un tal modo di produzione è stato spesso citato nella letteratura: la
fabbrica di automobili Ford in America. L’automobile prodotta dalla Ford non è né particolarmente
buona, né particolarmente cattiva. In genere, le automobili tedesche sono migliori, ma l’automobile
Ford non è certo di seconda qualità per il fatto che non si sia in grado di produrne di prima, bensì
semplicemente perché l’americano non ha l’abitudine di fare riparazioni. Quando una cosa non è
più buona — un indumento о una macchina — la getta via e se ne compra una di nuova. Per
questo l’automobile Ford è di media qualità: ma la produzione è regolare. Dalla mattina alla sera la
fabbrica produce sempre lo stesso oggetto, e un gigantesco nastro trasportatore sforna ogni venti
secondi una macchina. Questa macchina costa dunque 400 dollari, mentre la macchina tedesca piu a
buon mercato in tempo di pace costava in Germania all’incirca 8.000, 10.000 marchi. Non è una
stregoneria, ma è semplicemente la dimostrazione della realtà di una produzione di massa
organizzata in grande stile. Poco fa, considerando i mercati tedeschi, europei e americani, abbiamo
visto cosa significhi possedere un paese con un mercato gigantesco. Non possiamo perciò riprodurre
il livello della Ford, perché non potremmo usare nel nostro paese 7 milioni di automobili, quante
sono quelle che circolano in America. L’estensione del territorio americano, di cui ho parlato, e le
sue colossali possibilità di smercio, permettono un consumo unitario cosi grande. Tuttavia, ciò
dovrebbe per lo meno indurci a produrre modelli il piu possibile standardizzati. Se il nostro paese
non possiede questa quantità di consumo, dovremmo almeno tipizzare quanto piu possibile la
piccola quantità di consumo che soddisfiamo; invece, facciamo il contrario. Quando nel
listino prezzi di una fabbrica è segnato un motore da 7,5 HP e uno da 10 HP, sicuramente
l’acquirente pretenderà un motore da 81/4 HP, e con tutto il suo potere e il principio del libero
commercio costringerà il produttore a fare nuove costruzioni e ad interrompere il suo programma di
produzione. Nei listini prezzi delle nostre grandi imprese, potete vedere — e non esagero, se
dico per ogni singola impresa — un numero di modelli che arriva alle migliaia. Ciò significa che
non è possibile per nessuno di questi modelli una ordinata produzione in serie, anche se lo smercio
complessivo è molto grande. E ciò vuol dire che si arriva di nuovo sempre alla dispersione, anziché
al lavoro. Non ci si decide alla semplificazione. Questa semplificazione non può essere fatta dalla
singola impresa, bensì può realizzarsi solo tramite l’associazione, tramite l’organico lavoro
comunitario di tutta l’industria. Può realizzarsi solo se le fabbriche si associano e dicono: anziché
produrre 2.000 modelli, facciamone solo 500, e invece che ogni fabbrica ne faccia 2.000, dei 500
tipi la prima fabbrica ne produca solo quelli dal numero 1 al 50, la seconda fabbrica quelli dal 50 al
100, e cosi via. Così, il numero dei modelli si riduce nelle singole imprese nella proporzione di
2.000 a 50, e ciò significa che si può produrre 40 volte di piu di singoli prodotti e che ha inizio una
produzione omogenea. Questo concetto è cosi ovvio, cosi evidente, compreso da qualsiasi tecnico,
che mai è stato contraddetto né contestato, e tuttavia non si afferma perché viviamo all’insegna
della libera economia e perché una qualsiasi organizzazione di tal genere non è gradita a coloro
che traggono profitto dal disordine.
Sto sempre criticando l’attuale economia tedesca. Abbiamo parlato delle localizzazioni, dei trasporti
e della standardizzazione; dobbiamo procedere oltre e capire che cosa significhino concetti quali, ad
esempio, concorrenza e pubblicità. Volete infine rendervi conto quale lavoro produttivo è compiuto
da due imprese che mantengono per tutto l’anno organizzazioni che costano milioni e milioni, che
occupano migliaia e migliaia di impiegati, che richiedono spazi, consumano materie, solo perché
alla fine dell’anno un’impresa possa dire: io ho venduto tanto piu dell’altra? Che senso ha questa
concorrenza? che senso ha la pubblicità ad essa legata? che senso ha il lavoro di uno che viaggia per
tutto il mondo con il solo compito di fare attenzione che questa о quella impresa non riceva questa о
quella ordinazione?
Vi invito a fare, per un paio di giorni, questo esercizio: se vedete un uomo per la strada о un vostro
conoscente, chiedetevi: che lavoro produttivo compie quest’uomo? Compie un lavoro produttivo sia
che faccia l’intellettuale, l’inventore, l’organizzatore, о l’amministratore; compie un lavoro
produttivo se lavora in un’officina come artigiano о trasportatore; compie un lavoro produttivo se è
al servizio di un comune, di uno Stato, del Reich, come impiegato, soldato, poliziotto; compie un
lavoro produttivo anche quando come artista, musicista, poeta, scrittore, attore, innalza il
livello spirituale del popolo e crea per esso l’elevazione e il piacere di tipo interiore di cui un popolo
lavoratore abbisogna. Queste sono le categorie del lavoro. Ora chiedetevi, riguardo agli uomini con
cui avete a che fare, che cosa facciano di realmente produttivo. Che cosa produce quello che non fa
null’altro che preoccuparsi che un’impresa riceva una commessa e un’altra non ne riceva alcuna?
Che cosa produce quello che smercia un qualsivoglia prodotto segreto, perché gode del vantaggio
che nessuno sa come lo si ottiene? Il lavoro produttivo del paese consiste anche nel fare in modo
che tutti nel paese lavorino in maniera realmente produttiva, che gli alti e bassi della struttura
industriale siano ridotti al minimo, che il commercio venga incanalato nei giusti binari
della produttività. Non si deve certo credere che il commercio in sé sia un male; il commercio, sia
all’ingrosso che al dettaglio, è indispensabile, ma anche in questo vi è un eccesso. Dobbiamo sapere
quanta attività commerciale è necessaria per trasportare da un luogo all’altro una determinata
quantità di merci, e converrete con me che, nell’attuale assetto del Reich, purtroppo si commercia
di piu di quanto si produca.
Dobbiamo toccare un altro argomento. Anche l’indirizzo della produzione di un paese non è
indifferente. Non è la stessa cosa produrre articoli di moda о locomotive. Con le locomotive
prodotte cresce il benessere del paese, e se vengono esportate cresce il potere d’acquisto del paese.
Anche gli articoli di moda possono accrescere il potere d’acquisto del paese se vengono
esportati, però gli articoli di lusso che vengono consumati nel paese sono senz’altro persi per la
produzione. Sono inutili; ed è ben piu grave se questi articoli devono essere addirittura importati.
Anche a tal riguardo, pertanto, per renderci produttivi, sono necessarie poderose trasformazioni
della nostra economia. Se considerate quante merci inutili, superflue e dannose vengono importate
dall’estero per un valore di parecchi miliardi, se le convertite in cereali, rame, minerali e in tutte
quelle cose di cui abbiamo bisogno; se pensate che tutti quegli articoli di lusso importati che si
vendono nel nostro paese, corrispondono ad un equivalente in carbone che ci manca; vi renderete
conto, allora, che anche l’indirizzo della nostra economia non è indifferente; che anche qui
sono necessari alcuni fondamentali ordinamenti organici.
Con ciò si è circoscritto l’ambito che racchiude il seguente concetto: l’effettiva condizione della
nostra economia non è una condizione di alta produttività. Può essere resa altamente produttiva solo
per mezzo di organiche trasformazioni. Il valore della nostra produzione non ha raggiunto il suo
tetto. Può essere innalzato a piacere grazie a un’adeguata organizzazione e razionalizzazione
dell’economia. Se formuliamo le richieste che dobbiamo rivolgere a un ordinamento economico,
esse si possono riassumere semplicemente in queste parole: dobbiamo evitare sprechi in materiali,
trasporti, energia e lavoro. Non è nulla di sovrumano; sono compiti che possono essere risolti, che
potrebbero essere risolti in ogni momento se non vi fossero spinte contrarie, di cui oggi non voglio
parlare, e che s’individuano essenzialmente nel celebre slogan: libero commercio, libera economia;
il che vuol dire soltanto: libero guadagno. Le esigenze sono, dunque, queste: evitare sprechi di
lavoro, materiali, trasporti, energie.
Come dovranno essere costruite queste organizzazioni, ve lo potrò dire in poche parole. Vi prego,
però, di tenere ben presente il ragionamento fatto finora.
Siamo partiti dalla constatazione che il problema decisivo è quello della produzione; che, partendo
dal problema della produzione, possono essere regolate tutte le questioni attinenti la tendenza alla
socializzazione — sia quelle della distribuzione dei beni che quelle della partecipazione. Abbiamo
discusso la necessità di organizzare la nostra produzione. Siamo arrivati ad esaminare fino a che
punto il paese risponda a questi bisogni. E abbiamo concluso che ne è ben lontano. Abbiamo
riassunto questa necessità in una serie di esigenze, e queste devono essere ora precisate col dire che
l’economia non è più un affare privato, ma è cosa della comunità, e che è necessario organizzare
un’economia che escluda tutti quegli sprechi che vi ho nominato. È necessario che nessuno resti
inattivo, che nessuna officina si fermi, che nessun prodotto rimanga inutilizzato. Ed ora tutti voi vi
domanderete: già, e come si fa? Perché sono due anni che sentiamo da ogni parte parole, frasi vuote.
I programmi li conosciamo a sufficienza. Ma come stanno le cose in realtà?
La realtà, in questo caso, è molto semplice, poiché, anche se finora i compiti che ci siamo posti non
sono stati riconosciuti come compiti statali, nazionali, sono stati però da sempre conosciuti come
compiti dell’economia individuale, e qui hanno trovato le soluzioni che sono generalmente note.
Parto dal presupposto che ciò che noi vogliamo creare non è economia dirigistica. Il sostenitore
della cosiddetta libera economia tenta continuamente di screditare quella organizzazione della
nostra produzione, diffamandola come economia dirigistica, paragonandola alla nostra infelice
economia di sopravvivenza e a una serie di esperimenti di guerra. Questa è una manovra tattica
diversiva che deve finire una volta per tutte. L’economia organizzata non ha assolutamente nulla a
che fare con l’economia dirigistica. Ma non ha neppure nulla a che fare con l’economia di Stato.
Non ha alcuna somiglianza con qualcosa che possa sembrare un socialismo di Stato. Io non sono,
perciò, neppure un sostenitore del termine « economia di piano » nel senso fuorviante in cui lo
si intende oggi. I miei amici Wissel e von Moellendorf hanno coniato questo termine e l’hanno fatto
in buona fede. Purtroppo, esso ha assunto lentamente, nel linguaggio comune, un significato che
allude a una qualche forma di coercizione statale. Questa regolazione coercitiva da parte dello Stato
è da rifiutare. L’idea che vi esorto a sostenere, l’idea dell’economia organica, è semplicemente
l’idea di una libera autoamministrazione, l’idea dell’ordine libero creato autonomamente. Cosi
come abbiamo ben ordinato le nostre città in una amministrazione autonoma; cosi come le mille e
mille associazioni che abbiamo si amministrano autonomamente; cosi come voi stessi, signori, siete
qui riuniti in un ordine che amministra autonomamente i vostri interessi; così, sant’iddio, si può ben
organizzare anche l’economia in un’amministrazione autonoma. Null’altro si pretende.
Descriverne la forma è semplice. Possiamo partire dai concetti, a tutti noti, dell’economia privata, i
quali necessitano solo di minimi cambiamenti.
Il concetto di partenza di un’organizzazione economica è il concetto di trust. Esso significa fusione
degli interessi e autoamministrazione. Sappiamo che il trust, in quanto strumento dell’economia
privata, cela in sé determinati pericoli, e l’America, che ha inventato il trust, ha cominciato anche
per prima una grande opera legislativa che di fatto vieta la struttura del trust-, ma il pericolo non è
nel trust stesso, nell’unione degli interessi, nell’unione delle organizzazioni economiche, bensì solo
nel loro ordinamento e impiego monopolistico. Bisogna evitarlo. Il sistema, in sé, è quello giusto.
Vi sono associazioni buone e associazioni cattive, società segrete e associazioni religiose, vi sono
associazioni d’interessi e associazioni di quanti vogliono arrecare danno al paese. Con ciò non si è
detto ancora nulla sul concetto di associazione. E tanto meno nel concetto della fusione degli
interessi è contenuto qualcosa che sia in sé buono о cattivo. Si tratta di uno strumento. Il suo
pericolo sta nel monopolio; lo strumento, invece, va usato, poiché questo strumento non ha altro
significato che quello di un ordinamento generale sotto interessi comuni. Questa è la forma generale
nella quale si organizzerà qualsiasi economia futura. Quest’ordine non sarà, però, un ordine degli
imprenditori, ma sarà un ordine di tutte le forze produttive, ordine al quale tutti partecipano:
l’imprenditore, il lavoratore, il consumatore.
Con ciò, non intendo sostenere dinnanzi a voi il trust dell’economia privata, bensì penso a
quell’organizzazione che ha reso finora possibile la eliminazione dell’operare dannoso della
concorrenza con cui si perde tempo ed energie e che ha permesso di eliminare gli sprechi di tempo,
materiali e trasporti. Si deve mantenere l’iniziativa privata. Oggi non possiamo passare
repentinamente da un’economia fondata sul successo a un’economia in cui nessuno vuole lavorare,
tutti vogliono partecipare, decidere, ma nessuno vuole assumersi responsabilità. La responsabilità
deve essere mantenuta, ma non la responsabilità patriarcale che costringe alla sottomissione, bensì
quella responsabilità che poggia su di una base democratica e che opera
costituzionalmente. Abbiamo acquisito, pertanto, un nuovo concetto dell’organizzazione
economica, che si differenzia notevolmente da quello attuale dell’economia privata. Si perviene
con ciò dal trust americano al trust sociale. Si perviene a quell’ordine in cui non domina piu una
classe, un singolo interesse, bensì nel quale tutti gli interessi si fondono nel lavoro e nella
responsabilità collettivi.
Sarà meglio passare alla pratica. Supponiamo che in un ramo dell’industria meccanica vi siano dieci
differenti fabbriche. Queste dieci diverse fabbriche fanno un determinato quantitativo di prodotti
differenti. Nessuna da sola è realmente capace di una produzione di massa. Nessuna da sola è
realmente in grado di compiere ricerche e migliorare i suoi prodotti. Riuniamo queste fabbriche in
un’unità. Chiamatela corporazione (Gilde) о trust sociale, come volete. Le fabbriche si accordano
su di un programma produttivo comune, su di una divisione del lavoro tra impianto e impianto,
sulla standardizzazione piu adeguata dei loro prodotti, sui metodi di lavoro e su istituti di ricerca
comuni, su un comune mercato all’interno del paese senza costi dovuti alla concorrenza e alla
pubblicità, e su di un comune mercato estero e oltreoceano, risparmiando pure gli enormi costi —
oggi incalcolabili, se si considera la svalutazione — per le rappresentanze d’oltreoceano; il risultato
sarà un incredibile aumento della produzione per addetto, un incredibile ribasso del costo del
prodotto, un incredibile risparmio sulle spese generali, un enorme miglioramento del prodotto e una
potente crescita delle dotazioni tecniche e dei risultati della ricerca per il futuro.
Questa unione non sarebbe, però, meramente di tipo economico-privato, ma nel suo centro direttivo
usufruirebbe della collaborazione degli impiegati e degli operai. Questa collaborazione non si
esprimerebbe in forma di rivendicazioni singole e sindacali; qui non sarebbero in discussione
semplicemente problemi quotidiani e questioni salariali, ma sarebbe possibile un’effettiva
collaborazione degli impiegati e degli operai alla direzione politica dell’intera azienda, il prendere
familiarità con i concetti e con le esigenze di un grande ramo dell’industria del paese.
Contemporaneamente, in questi centri direzionali si accumuleranno tutti gli utili, che saranno
straordinariamente piu grandi di quelli odierni, grazie ai molteplici risparmi e all’aumento della
produttività. In questi centri direttivi risiede la possibilità di quella partecipazione e di quella
equiparazione di operai e impiegati, che non è piu riducibile soltanto — come attualmente
— all’importo di un moderato aumento salariale, bensì contribuisce effettivamente al sostentamento
e stimola a collaborare all’azienda in vista del proprio interesse, non essendo piu qui il singolo che
lavora per l’altro, per lo sconosciuto, l’anonimo, l’estraneo, il capitalista, ma sentendo ognuno di
partecipare con la propria responsabilità a tutta l’impresa, di poter trarre un utile dai profitti di tutta
l’azienda.
Si arriva, dunque, alla conclusione che l’organizzazione centrale della nostra economia nel trust
sociale о nella corporazione sociale, risolve il problema della produzione, e che, tramite la
diffusione del problema della produzione e della sua soluzione, possono essere risolti anche gli altri
problemi: quelli della distribuzione dei beni e quelli della partecipazione.
Vogliamo chiarire se una soluzione di questo genere può andar d’accordo con la nostra mentalità
tedesca, con i nostri costumi tedeschi.
Siamo sempre stati il paese dell’organizzazione, della disciplina, della ricerca; forse troppo della
disciplina e dell’organizzazione, e troppo, soprattutto, della disciplina. Oggi non lo siamo piu, ma vi
è qualcosa nella nostra natura che esige ordine; vi è qualcosa nella nostra natura che esige
approfondimento. Se facciamo qualcosa, vogliamo sapere a quale scopo; vogliamo
capirlo, comprenderlo; poiché, visto che facciamo la cosa per se stessa, vogliamo anche
comprenderla. Purtroppo, le energie tedesche, quelle della capacità organizzativa, della disciplina,
della penetrazione scientifica, non sono sfociate in un lavoro comune, in una comune
costruzione della nostra politica ed economia, bensì in tendenze militaristiche e imperialistiche.
Questa è stata l’errata gestione delle nostre qualità. La loro giusta gestione sta nel ricondurle alla
loro origine, nel creare ordine con il nostro amore per l’ordine, organizzazione con la
nostra capacità organizzativa e nel portare, grazie alla nostra volontà di ricerca, questa
organizzazione al piu alto livello dell’abilità e produttività umane. Io vedo in ciò un compito in tutto
e per tutto tedesco.
Questo compito si differenzia notevolmente dalle organizzazioni dell’Occidente; quanto piu si
differenzia da queste, quanto piu giungiamo ad esigere forme di fratellanza, tanto piu si muterà la
situazione nella quale siamo attualmente esposti nel mondo, poiché le attuali
potenze imperialistiche del mondo, quella francese e quella inglese innanzitutto, non sono dirette e
ispirate dalla totalità della popolazione, bensì dalla classe dominante. Queste classi dominanti
dell’Occidente, tuttavia, sono orientate in senso piu unilateralmente capitalistico di quanto lo siano
da noi, con la conseguenza che questi paesi dovranno affrontare ogni sorta di conflitto. Ne abbiamo
un esempio nel grande sciopero dei minatori, in corso in Inghilterra.
L’ordine futuro del mondo non è quello che l’Occidente ci reca. Si tratta di questo: quale paese
verrà a capo dell’ordine futuro dell’economia e della società? La Germania è determinata a farlo,
poiché in Germania la necessità è estrema. Possiamo vivere soltanto se creiamo queste
organizzazioni. Creandole e trasmettendole agli altri paesi, li faremo passare dalle mani dei loro
despoti imperialisti in comunità d’interessi dell’intero popolo, simili a quelle cui noi aspiriamo al
nostro interno. Le popolazioni non sono nemiche l’una dell’altra; le popolazioni sono pacifiche.
Ostili, guerrafondai sono coloro che stanno ai vertici, quelli che stanno ai vertici dell’economia
nazionale e della politica, e desiderano rafforzare il loro potere attraverso il dominio,
l’annientamento dell’altro. Tanto piu i popoli verranno guidati dall’insieme delle loro stirpi, dei loro
ceti, dei loro uomini, tanto piu si concederanno reciprocamente vita, vi-vranno in pace l’uno con
l’altro. E nella loro cerchia assumerà una posizione di rispetto quel popolo che per primo ha eretto
tali forme organizzative, che sono giuste, che si tengono lontane dal settarismo e dalle passioni, che
sono attuabili e rappresentano una benedizione per chi le accetta, perché incrementano la
produzione del mondo, aumentano i beni di ciascun paese, procurano all’altro una grande
partecipazione a tali beni, garantiscono a ciascuno il diritto alla responsabilità e alla partecipazione.
Se portiamo ai popoli tali organizzazioni, allora il destino tedesco si trasforma. Sta alla nostra
decisione se questo destino tedesco muti о meno.
Ne abbiamo abbastanza di slogan. Abbiamo ascoltato teorie a sufficienza. Le idee che mi sono
permesso di proporvi non sono slogan; semmai, costituiranno motivo di delusione per molti di voi.
Ad alcuni, probabilmente, non risultano esaurienti; ma, credetemi: derivano dalla pratica.
Nell’economia privata tutte queste strade sono state battute da decenni. Qui si tratta di forme
organizzative alle quali si può pervenire dall’oggi al domani. Non si tratta più, dunque, dello slogan
della socializzazione, di cui nessuno conosce il significato esatto, bensì di una precisa proposta per
la organizzazione dell’economia tedesca su basi sociali.
Esaminate queste idee. Quando le avrete esaminate, troverete che sono vere. Ma, se sono vere,
abbiate allora il coraggio di volerle; poiché se le vorrete, allora anche il paese imparerà a volerle, e
se il paese le vuole, allora si realizzeranno.

[Discorso tenuto il 26 ottobre 1920 al Congresso dell’Unione tedesca dei funzionari. Pubblicato in
Gesammelte Reden cit., pp. 81-119.]

L’apice del capitalismo

Il 20 settembre 1792 nella Champagne degli ufficiali prussiani sedevano intorno al fuoco del
bivacco. Era stata una giornata difficile: c’era stato il cannoneggiamento di Valmy, e ci si
intratteneva, sulle sue conseguenze in una sorda atmosfera. Per la prima volta le potenze centrali si
erano ritirate dinnanzi alla spinta della Francia repubblicana. Ognuno esprimeva la propria
opinione; alla fine si chiese al ministro di un piccolo Stato che era presente, cosa ne pensasse, ed
egli rispose: « A partire da oggi e da questo luogo, inizia una nuova epoca della storia universale, e
voi potrete dire d’essere stati presenti ».
Voi sapete che il ministro che disse queste parole era Goethe; sapete anche che la sua profezia si è
avverata. Da quel momento in poi iniziò, sotto l’impulso progressista delle idee francesi, un’epoca
che sotto il profilo economico definiamo liberale e sotto quello economico capitalistica. Questa
epoca è durata fino ai nostri giorni. Da quando abbiamo cominciato a considerare la guerra passata
come un avvenimento mondiale di portata rivoluzionaria, abbiamo spesso ripetuto queste parole e ci
siamo domandati se ci troviamo alla fine di una vecchia epoca universale e all’inizio di una nuova.
Le epoche della storia universale non si possono suddividere in piani, si spezzano in curve e spigoli.
Si intersecano. L’inizio dell’una non è identico con la fine dell’altra; ma noi lo sentiamo: è iniziata
un’epoca che liquida quella passata, quella che noi definiamo economicamente come l’epoca del
grande capitalismo.
Se vogliamo farci un’idea sul significato di una svolta storica, non dobbiamo temere di abbracciare
con lo sguardo grandi spazi e tempi. Appena due millenni ci separano dall’inizio dell’era europea,
un periodo breve se paragonato alla storia delle civiltà orientali. Il suolo sul quale ci troviamo,
all’inizio di quest’epoca, era diverso da quello che noi ora conosciamo. Un paese di nebbie; foreste
e brughiere; corsi d’acqua impetuosi, profonde paludi, rari sentieri. Una sparuta popolazione aveva
sfoltito i boschi e li abitava; un’agricoltura primitiva, scarsa attività artigianale. Lavori quotidiani
semplici e consuetudinari, accompagnati dalla lenta migrazione delle stirpi che cambiavano i loro
luoghi e le loro proprietà nel corso di generazioni e di secoli.
Confrontate quest’epoca con i nostri giorni. Non v’è un palmo del nostro paese che sia vergine e
sconosciuto. L’aviatore scorge sotto di sé un paese coperto di case fino all’ultimo ettaro, attraversato
da ferrovie, canali, corsi d’acqua regolati. Movimento vivace dappertutto. Enormi quantità di merci
viaggiano verso i centri. I centri brulicano come formicai; nelle gole delle strade si muovono piccoli
punti neri, uomini; in ognuno di queste creature pulsa un lavoro quotidiano, desideri, passioni,
azioni, pensieri lo sospingono per la sua strada, e dall’incessante movimento dei corpi umani, e
dalla circolazione sanguigna delle città e dei villaggi, si sviluppa ciò che noi chiamiamo la vita del
nostro tempo.
Una trasformazione che è quasi indicibile e impensabile, che si espande su tutto l’agire umano, sulla
totalità del nostro pensare, del nostro comportamento, del nostro ambiente e della nostra vita
emotiva. Mutati sono gli utensili, le abitazioni, il modo di vestire, il paesaggio, trasformati si sono i
mestieri e i lavori. L’aria, l’etere è pieno di notizie, di luci, di tensioni e il movimento sfreccia con
una velocità assordante.
Cosa è accaduto in questi due millenni?
La scienza ha dato molte spiegazioni. È stato detto che la tecnica domina l’epoca; la si è chiamata
l’epoca del movimento, si è parlato del periodo delle invenzioni, delle scoperte, della nascita delle
associazioni e dei capitali; ma tutto ciò non spiega l’avvenimento in tutta la sua gigantesca totalità.
Per questo processo universale è stata proposta la definizione Meccanizzazione, che è stata adottata
da quasi tutte le lingue. Con questa definizione s’intende quel movimento universale che si
è impadronito della vita passando attraverso masse, forze, e organizzazioni e la conforma alla
centuplicata concentrazione della popolazione. Poiché senza questa concentrazione la
meccanizzazione non sarebbe mai sorta e questa concentrazione non sarebbe mai stata possibile
senza la meccanizzazione.
Tuttavia il nostro spirito non si può accontentare di una spiegazione che mette in primo piano
misura e numero, la meccanicità del fenomeno. Non ci diamo pace finché non abbiamo scoperto le
fonti spirituali da cui scaturisce un movimento, perché crediamo e sappiamo che è lo spirito che
muove la materia.
Se vogliamo risalire all’origine spirituale, allora non possiamo fare a meno di paragonare l’Oriente
con l’Occidente, e dobbiamo spiegare questo contrasto, per quanto concerne il nostro problema, con
il fatto che l’Oriente è rimasto in stretto contatto con la natura, alla quale si sente devoto; con il fatto
che l’Oriente si appaga del bisogno di nutrimento e del corso naturale della vita, e che si comporta
nei riguardi delle forze della natura e del soprannaturale in modo contemplativo e ricettivo. Allo
spirito occidentale ciò non basta. È uno spirito della volontà e dell’azione. Non si unisce alla
natura, ma la vuole dominare, la vuole capire, comprendere e regolare. Vuole dominare cose e
uomini. Per questo la sua essenza è l’azione e la lotta è la sua aspirazione. Lotta e azione hanno
staccato l’uno dall’altro Oriente e Occidente, e nei millenni che abbiamo considerato è stato deciso
quello sviluppo che ha visto lo spirito europeo distogliersi dalla contemplazione, dall’ascolto,
dalla sopportazione orientali e dirigersi verso l’azione, la volontà, il dominio degli uomini e delle
cose.
I vecchi legami dovevano cadere su questa via; i legami della fede, della mistica, del mito furono
spezzati; al posto del pensiero mitico lo spirito occidentale pone il dubbio. Le immagini non
possono bastargli, egli vuole ciò che chiama verità. Partendo dal dubbio pose la domanda. Alla
domanda pretese risposta: in numeri, in misure, in verifiche e prove. Così nacque la ricerca
occidentale, il punto di vista dello spirito che si appoggia alle forze intellettuali dell’uomo, che si
rivolge a ciò che intende come verità, perché la ritiene dimostrabile. Così lo spirito occidentale nel
corso dei secoli si protese verso l’individualismo; non sopportò tradizioni, credenze, legami,
dissolse la comunità, pretese per sé la libertà di pensiero, di dubbio, di negazione: il pensiero
occidentale divenne un pensiero intellettuale.
Meccanizzazione significa emancipazione, dominio о tendenza al dominio. Si tende al dominio con
tutti i mezzi che lo spirito che pensa, che calcola, che ricerca, che trova e che scopre, mette a
disposizione dell’uomo. Questi mezzi culminano nel dominio delle materie, delle forze, delle
masse, dei movimenti, delle organizzazioni. Tecnica e scienza sono le forze che danno all’epoca
la sua definizione ultima; associazioni di lavoro, di capitale, di uomini, queste sono le potenze
trainanti che dominano il globo terrestre meccanizzato.
Con questo sviluppo procede di pari passo la trasformazione del lavoro del singolo dalla manualità
alla spiritualità. Nei secoli passati l’uomo era legato all’ambito delle sue esperienze. Quel che
accadeva nel corso di un anno si ripeteva nel successivo con minime trasformazioni; esperienza era
la prerogativa dell’età, esperienza e saggezza confinavano l'una con l’altra. L’anziano sapeva piu del
giovane, aveva vissuto piu a lungo, aveva visto di piu, e perciò era superiore. Fino agli ultimi
decenni l’età dominava nel mondo. Il pensiero odierno è diventato un pensiero dispositivo, un
pensiero che prima era prerogativa di pochi uomini che esercitavano la professione di statista, di
dominatore о di condottiero. Quando nella lontana Turchia le popolazioni si facevano guerra, di
queste cose il borghese veniva a sapere solo quello che gli comunicava il giornale. Desiderava
stimolo, eccitazione, non valutava gli avvenimenti. La politica, il pensiero astratto, era affidato a
coloro che lo dirigevano; egli stesso non si reputava capace di esercitare questo pensiero. Se il
mondo avesse mutato costellazione, se i popoli si fossero dissolti, se i continenti si fossero aperti, il
borghese se ne sarebbe rimasto tranquillamente nella cerchia delle sue esperienze e avrebbe atteso
da qualche altra parte l’arrivo di un nuovo legno, di un nuovo metallo, di una nuova pianta; un
pensiero, quale noi conosciamo, che valuti ogni avvenimento del giorno, che chieda: cosa accadrà?
che risultato si trarrà da questo avvenimento? che influenza avrà? come mi pongo nei suoi
confronti? come dispongo? —: questo pensiero era estraneo ai vecchi tempi. Oggi il pensiero
dispositivo,  come desidererei chiamarlo, è un bene generale di tutti; io credo che se oggi comparisse
la cometa di Encke, ogni fabbricante dell’industria di busti si chiederebbe subito: che effetto può
avere sul mio ramo?
Il pensiero dispositivo ci ha afferrato tutti; in tutti noi v'è oggi qualcosa — che lo si voglia о meno
— dello statista, del politico. Possiamo a malapena credere che nel diciottesimo secolo il numero
degli uomini che la pensavano come noi in Germania fosse un centinaio: principi, funzionari
camerali, giuristi e banchieri; mentre oggi in ogni assemblea dei lavoratori si interpreta quello che è
avvenuto il giorno prima. Gli ultimi effetti di ciò sono notevoli nella capacità di astrazione,
nella comprensione e nella acutezza politica.
Cosi il pensiero meccanizzato s’è trasformato in pensiero dispositivo, ma ci ha rimesso in qualità.
Siamo spaventati di fronte alla mancanza di giudizi qualitativi, di una valutazione qualitativa degli
uomini. Noi siamo giovani nella nostra responsabilità e dobbiamo imparare alcune cose; ciò che ci
sarà piu difficile da apprendere e che richiederà maggior tempo, è la valutazione e la considerazione
della qualità degli uomini, dei pensieri e delle cose.
Se l’epoca della Maccanizzazione agisce ormai in tutti gli ambiti della vita, in tutte le forme di
pensiero, allora dovrebbe aver adempiuto al suo ultimo impulso, dovrebbe essere giunta non solo a
dominare il compito ad essa imposto, e cioè adattare il mondo e la vita ad una centuplicata
concentrazione della popolazione, ma anche, al di là di questo, aver capito di dover realizzare
ciò che sta nella sua piu profonda ed intima essenza: reale libertà e dominio. Questo non le è
riuscito. La libertà che ci ha portato è una libertà apparente. Non siamo piu dipendenti da piante e
bestie, vento e condizioni atmosferiche, caldo e freddo, tempo e luogo. Non siamo piu dipendenti
dai modesti introiti del lavoro agricolo e dell’artigianato, ma possiamo creare e consumare in
maniera smisurata. Siamo però diventati dipendenti dalla nostra stessa opera umana: dalla
macchina, dalla meccanica, dalla meccanizzazione, dalla professione; siamo anche divenuti, о
rimasti, dipendenti dalla suddivisione dell’uomo in diversi strati sociali. Non conosciamo schiavitù
alcuna, alcun servaggio ereditario, ma conosciamo un’anonima dipendenza dell’uomo, dovuta alla
nascita, conosciamo una dipendenza da cui l’uomo non si libera con la semplice volontà, se
dall’esterno non lo soccorrono forze in grado di aiutarlo a spezzare quel monopolio che, dal punto
di vista della appartenenza a un ceto, vi è il fattore più vincolante, il monopolio della cultura.
Noi prestiamo un lavoro anonimo, che sappiamo dove va collocato; sappiamo quale ruota giriamo,
ma non siamo i padroni che dominano questo lavoro, bensì è quest’ultimo che ci domina.
Qual è dunque l’effetto dell’epoca meccanicistica nell’ambito della vita? Osserviamo gli Stati
occidentali. Si celebra il nostro concetto di democrazia occidentale, ed io non ho l’intenzione di
sminuirlo; ma non si dimentichi che a tal riguardo, quasi sempre, la sostituzione della parola
plutocrazia al posto di democrazia ne esprime il pieno significato. Osserviamo i padroni
dell’Occidente che attualmente dispongono del nostro destino. Sono uomini di una determinata
classe, di un determinato ed elevato benessere, di un determinato modo di vivere e di pensare:
hanno gli atteggiamenti di una elevata borghesia, la cultura di questa borghesia e i suoi concetti.
Non è il popolo occidentale che domina se stesso, bensì è l’elevata borghesia dei popoli
occidentali, quella che gli inglesi chiamano Society, a dominare nel nome di una democrazia questi
popoli, i quali sono assolutamente d’accordo con un tale dominio, perché per secoli sono andati
avanti sotto la sua guida, e perché la plutocrazia assicura loro una sufficiente libertà di movimento e
concede sempre all’opinione pubblica un insieme di diritti quale mai i sistemi autocratici hanno
permesso e mai permetteranno alle loro popolazioni. Il Normalstaat dell’epoca meccanizzata è lo
stato plutocratico.
Dal punto di vista economico la nostra epoca poggia sulla concorrenza, sulla lotta degli individui e
dei gruppi. Il singolo uomo con il suo strumento, con il suo capitale, con le sue forze, non può
molto, l’associazione amplia il suo ambito di potere, essa unisce in gruppi e questi gruppi entrano
nella lotta internazionale e nella universale concorrenza. Poiché tutti i mezzi del mondo devono
essere efficacemente impiegati, e le grandi forze e le masse umane debbono essere disponibili, è
assolutamente necessario che i capitali del mondo si associno in gruppi. Sorgono complessi
finanziari e industriali e osservando da questo lato il quadro della nostra economia, comprendiamo
perché sia data all’epoca meccanizzata, se la si considera semplicemente dal punto di vista della
natura finanziaria e monetaria, la denominazione di capitalistica.
Se giudichiamo l’influsso dell’epoca dal punto di vista politico, allora vedremo che quello che
accade e accadeva in una economia privata, accade e accadeva in una economia di Stato. La nostra
politica è una trasposizione del principio dell’economia privata in un principio di natura statale.
Come gli individui combattono, come le società e le banche concorrono, allo stesso modo
combattono e concorrono gli Stati; e come gli uni rivaleggiano per il possesso, la produzione, la
clientela e le alleanze, altrettanto rivaleggiano gli Stati per alleanze, trattati doganali, materie prime,
sbocchi di mercato e colonie.
Tra la politica degli Stati e la politica del singolo — poiché questi non è più in senso aristotelico il
ζώον πολιτικόν, ma è in senso realmente politico un homo  politicus in lotta — vi è solo una
differenza quantitativa. Gli Stati sono, nel senso della politica estera, società concorrenziali armate,
e fintanto che lo rimarranno ogni pacifica e razionale limitazione dei metodi concorrenziali non ha
significato. Ogni sforzo per l’eliminazione della guerra armata è vano fintanto che la silenziosa,
ostinata guerra di pace rimane compito della vita degli Stati. Così gli Stati, in quanto sintesi di
interessi economici, combattono la loro libera battaglia concorrenziale sul globo terrestre. Gli Stati
sono svincolati anche da quelle minime limitazioni che rimangono alla concorrenza privata;
essi apparentemente sono sottomessi al diritto dei popoli, in realtà soltanto alle loro bandiere, si
appoggiano ai loro cannoni e alle loro alleanze.
La doppia tensione che sorge da ciò, è combattuta con lo stesso mezzo. Doppia tensione: da una
parte la tensione tra i ceti, la tensione tra due ceti separati della popolazione — poiché non c’è
nessun paese del territorio occidentale dove non si sia reinstaurato, tramite il processo di
meccanizzazione, un rapporto fra ceto inferiore e ceto superiore — questa è la tensione
verticale all’interno del paese. Dall’altra parte agisce la tensione orizzontale al confine tra Stato e
Stato — è la tensione dei corpi collettivi in concorrenza. Era da prevedersi che questa doppia
tensione, latente in tutti i paesi Occidentali e compensata ovunque con lo stesso mezzo, militarismo
e imperialismo, dovesse condurre a una conflagrazione. Chi interroga la propria intima coscienza,
si ricorderà di una sensazione del periodo precedente la guerra, che assomigliava alla percezione
dell’elettricità atmosferica. E allora qualcuno di voi si sarà forse reso conto, non semplicemente nel
subconscio ma in lucida consapevolezza e riflessione, che la tensione sotto la quale tutti i paesi
civilizzati tremavano, doveva condurre ad una terribile scarica. E la scarica è venuta! Le potenze di
mezzo e quelle orientali sono annientate, le tre corone imperiali dell’Oriente sono rotolate nella
polvere.
Le parole di Machiavelli: « Gli Stati sono mantenuti con quei mezzi con i quali sono stati creati »,
sono vere quando le si limita a brevi periodi, non sono piu vere quando l’epoca si trasforma. I re
prussiani avevano creato il loro Stato — quello prussiano, e di conseguenza quello tedesco — con
mezzi che precorrevano i loro tempi, traendo prematuramente e completamente, sia in modo
conscio che inconscio, le conseguenze della meccanizzazione che iniziava ad espandersi. Essi
fondarono lo Stato sull’organizzazione, sulla disciplina, sul denaro, sulle armi: su quelle grandezze,
dunque, sulle quali si basera e deve sempre basarsi ogni organismo meccanizzato, nella misura in
cui si intenda con armi un qualsiasi mezzo di difesa, il quale, a seconda delle circostanze, può essere
una qualsivoglia forza concorrenziale che poggia sul potere о sui rapporti giuridici. La conseguenza
del periodo meccanicistico era stata tratta così precocemente, che il vantaggio durò piu di un
secolo, e durante questo tempo esso rimase senza rivali. Infatti, gli altri popoli procedettero piu
lentamente nella trasposizione delle conseguenze della Meccanizzazione sulla totalità statale; e
questo fu loro possibile per il fatto che in nessun altro luogo lo spazio vitale era così ristretto come
da noi; in nessun luogo la pressione demografica sull’unità territoriale era così forte come in questo
paese che racchiude così poco nelle sue falde e che ha così bisogno dell’aiuto esterno. Era la forza
di un monopolio che combatteva per la Prussia-Germania, la forza di un monopolio originario, sorto
tramite la conversione dei principi meccanicistici nell’amministrazione, nella difesa, nella politica
dello Stato.
Ma l’epoca si era mutata, e nel periodo che ora sta per concludersi la pressione era cresciuta, non
solo presso di noi, ma ovunque, soprattutto da popolo a popolo, così fortemente che questi mezzi
non poterono rimanere monopolio; gli altri popoli se ne impadronirono: non eravamo piu l’unico
paese dove i treni erano puntuali e le tasse pagate con regolarità, in cui ogni manovra
aveva successo e in cui l’industria degli armamenti era esemplare. La forza del monopolio si era
indebolita, la forza opposta della concorrenza s’era risvegliata. Fummo vittime della spensieratezza
che negli altri diminuiva. Pensammo solo all’ultimo compimento e allestimento del nostro sistema
meccanizzato. Ci rallegravamo dei superlativi come è proprio delle popolazioni piu giovani;
tenevamo le cose dello spirito in minor conto di quelle che si misurano con il metro, con i
chilogrammi e i cavalli a vapore. Stato e politica li lasciavamo ai funzionari, il successo della
disciplina soffocava qualsiasi desiderio di autoresponsabilità.
Cosi la conflagrazione ci colpì nel modo piu duro e ci ridusse nella piu spaventevole delle
condizioni.
Se osserviamo le costellazioni del dopoguerra europeo da Oriente verso Occidente, allora troveremo
che sorge in Oriente un nuovo mondo di idee. Nel 1917, quando ci giunsero le prime notizie della
rivoluzione russa, molti sentirono che una nuova epoca si stava avviando. « Ex oriente lux », si
disse, e in ciò v’era qualcosa di vero. Il vecchio Oriente si era sollevato: un po’ consapevolmente,
un po’ inconsapevolmente, esso contrappose all’Occidente supermeccanizzato e superattivo il
concetto della pazienza e della sopportazione, alla violenza del potere, alla schiavitù del lavoro e
alla disciplina l’umanità, alla subordinazone di una classe a un’altra il diritto dell’uomo.
Ma le cose non si sono realizzate cosi come il primo raggio faceva sperare; il regno millenario non
sorge nel mondo d’improvviso, non prima che gli uomini abbiano compiuto per intero il loro
apprendistato e superato tutti gli esami. Alle pure aspirazioni che dominavano profondamente e
oscuramente nell’anima di questo popolo, si accompagnarono sentimenti ignobili. Sorse il
risentimento. Si cercò e si trovò l’avversario. Era il Burjui, il borghese. L’appello del risentimento
alla vendetta non ha mai lasciato indifferente un popolo. In questa vendetta si esaurì la prassi
sociale della rivoluzione, il resto divenne messa in scena politica. Ben presto, infatti, vi fu la
necessità di nuovi poteri politici; ogni Stato vuole mantenersi, deve difendersi. Non v’è nessun’altra
difesa se non quella della spada, e così esso, lo Stato senza potere, afferrò tutte le armi che l’epoca
meccanizzata procurava al militarismo apparentemente sociale.
Contemporaneamente iniziò la terza fase, l’adattamento a un ordine nuovamente imborghesito. Già
oggi è ripresa la vita commerciale. Il paese, che era e rimane un paese agrario, si è reso conto che su
150 milioni di contadini il numero degli operai non raggiunge il milione; oggi comprende che
un’organizzazione realizzata per meno dell’uno per cento degli individui, può essere soltanto una
facciata decorativa. 150 milioni di contadini russi sanno della rivoluzione soltanto che essa ha
garantito loro la proprietà privata della terra; essi mietono il loro grano, bene о male come il tempo
permette, e l’hanno spuntata di poterlo vendere sul mercato libero, a condizione che consegnino allo
Stato un contributo in natura. Una repubblica all’incirca come quella dei Boeri, con un rivestimento
sociale in rapida decadenza, splendido e negletto, che fu costruito per far piacere ad una ex-
classe lavoratrice che era appena piu numerosa di quella del regno di Sassonia; ex-lavoratori che si
sono trasformati in parte in prebendari di Stato, in parte in lavoratori di Stato e, in parte minore, in
una casta di governo.
Non possiamo tuttavia disconoscere il movimento spirituale che proviene dall’Oriente e che da là
trae nutrimento. Ora è accaduto — ed è stato veramente essenziale — che un paese volesse e
facesse seriamente il tentativo di emanciparsi da tutte le tradizioni della meccanizzazione
economica e statale europea. Non ha importanza che questo tentativo riesca о fallisca; decisivo è
che lo si abbia voluto fare, che, in nome di questa volontà, si sia abbattuto il vecchio, e che si tenda
al nuovo senza tener conto delle vittime. Uomini capaci di tali idee e tali sacrifici hanno, per il resto
dell’Europa, quasi il significato di una coscienza; il loro movimento significa mantener desto un
contrasto e un dubbio il cui effetto si estende lungo i secoli. Nella stessa misura in cui questo
movimento sarebbe dannoso per un paese sovrappopolato e povero di territorio come il nostro,
altrettanto significativo è il fatto che esso sia nato e che almeno apparentemente ancora sussista in
un paese con una minima popolazione industriale, dove certamente è in sé indifferente se vi sarà о
no sviluppo industriale. In un altro paese questo esperimento non si dovrebbe semplicemente fare;
in Russia potè esser fatto in modo dimostrativo, ed è importante che sia stato fatto.
Se contrapponiamo l’Oriente all’Occidente, allora vediamo una crescita del capitalismo,
imperialismo e militarismo che il mondo non si sarebbe mai sognata. Stati che a noi parevano
totalmente smilitarizzati, hanno fatto sorgere dal nulla il loro militarismo. Sforzi imperialistici sono
stati sempre di casa nell’Occidente, le tendenze industriali avevano segnato il passo in alcuni singoli
paesi, specialmente in Inghilterra. Tutto ciò è stato recuperato e superato e noi vediamo vibrare e
ansimare l’Occidente sotto un’armatura di imperialismo, militarismo e meccanizzazione, come mai
era stato dato vedere.
Incastrata nel mezzo la Germania.
Abbiamo sognato. Sognato che sia stata rivoluzione. Ci risvegliamo, ci ritroviamo in una
democrazia e non sappiamo che cosa ci è accaduto. I piu dicono: molto peggio di prima. È vero. Ma
dimenticano che hanno perso la piu grande delle guerre. Noi entriamo nella democrazia nel
momento in cui il mondo Occidentale ha quasi superato questa condizione; entriamo nella
classe scolastica del 1830 e del 1840 e dobbiamo recuperare quello che quei popoli hanno imparato
al tempo di Dickens e di Balzac. Ci sarà difficile; perché apparentemente v’è mancanza di uomini.
Così come siamo incapaci di pensiero qualitativo, di giudizio di valore, così siamo doppiamente
incapaci di una valutazione qualitativa degli uomini. Questo paese di 60 milioni di abitanti
esprimerebbe tutt’altre forze dello spirito e della volontà, se vivesse in una democrazia capace di
giudizio. Ma noi siamo scolari. Non possiamo distinguere. Scambiamo capacità con popolarità. Se
qualcuno è popolare nella cerchia dei suoi compagni d’associazione e se — come noi ci esprimiamo
—.non v'è nulla da obiettare nei suoi confronti, allora crediamo che debba essere capace e
ci meravigliamo se non si rivela tale. La gente popolare, contro cui non vi sono obiezioni, è sempre
incapace, soprattutto da noi; poiché è popolare chi pronuncia quello che tutti pensano, dunque il
mediocre, e non incontra obiezioni chi è senza intelletto; poiché la ragione da noi è un difetto.
Impareremo queste cose. Ci vorranno alcune generazioni, ma ci riusciremo.
Nel frattempo chiediamoci: siamo entrati, nel mezzo alla rivoluzione mondiale, in una nuova
epoca? Viviamo ancora nella forma sociale ed economica del grande capitalismo? Oppure abbiamo
superato quest’epoca, almeno interiormente?
Io non credo che lo si possa ancora dire. Qui si dimostra che le epoche non procedono per capitoli.
In ogni ambito ci sono passaggi: nell’ambito della politica, nell’ambito dell’autoamministrazione,
nell’ambito del lavoro teoretico, nell’ambito della disposizione psicologica, nell’ambito
dell’economia. Ma mentre abbiamo dato via libera ad ogni controversia, mentre le sale e i luoghi
di riunione risuonano delle discussioni tra tutte le idee, ci rendiamo conto che le conoscenze, che
erano rimaste a lungo nascoste, si sarebbero davvero liberate se avessimo continuato a condurre la
nostra esistenza in pace, tranquillità e silenzio sotto la protezione di autorità ereditate.
L’atmosfera della rivoluzione è svanita. Non v’è oggi in Germania piu nessuna seria forza
rivoluzionaria da cui ci si possa aspettare una trasformazione radicale del nostro ordine economico e
sociale. La critica, che nei giorni rivoluzionari si era impadronita di tutto il passato e di tutto ciò che
era accaduto e accadeva, si decanta. Si decanta forse troppo nel suo contrario. Per ciò che riguarda il
capitalismo, contro cui si sono rivolti tutti gli attacchi, io credo che oggi sia venuto il momento in
cui è possibile farsi un quadro imparziale di ciò che esso ha prodotto, di quale sia il suo compito e
in quali forme possa essere trasformato.
In Europa dall’epoca delle grandi scoperte del XV e XVI Secolo il fenomeno dei conquistatori non
è mai cessato; conquiste e acquisizioni in ogni ambito della vita divennero di anno in anno, di
decennio in decennio, il compito che le razze europee s’erano assunte per compensare la loro
sovrapopolazione. Il fenomeno dei conquistatori rappresentò l’essenza dell’evoluzione capitalistica.
Gli uomini, gli interessi, gli strumenti, i capitali si unirono. Sorsero complessi di grande potere.
Società, associazioni, gruppi industriali. Si imposero come compito: scoprire, ricercare, conquistare,
acquisire. Scavalcarono i continenti, penetrarono in ogni paese sconosciuto, crearono strade
commerciali e porti, filiali e colonie, fabbriche e centri abitati, trasformarono villaggi in città,
città in centri internazionali. Per ogni idea che si dimostrava, come si diceva, economicamente
valida — mentre, per lo piu a ragione, la sua ammissibilità veniva commisurata alla sua capacità di
profitto — v’erano mezzi a disposizione. Il capitalismo, nella sua qualità di fenomeno di conquista
in grande stile, non aveva bisogno di risparmiare; per esso era piu importante esplorare un
paese, sfruttare un’invenzione о aprire un’industria che dava nutrimento a migliaia di persone, che
tenersi stretto l’ultimo Pfennig; poiché il suo compito si muoveva all’interno del programma
meccanicistico. Esso era proprio una parte del programma generale, di cui abbiamo parlato:
superare l’addensamento incommensurabile dell’umanità nell’Occidente.
Cosi il capitalismo è riuscito a dare nutrimento, vestiario, abitazioni, servizi per i milioni di nuovi
nati della sua popolazione in incessante crescita. Si è inoltre impadronito della vita e del pensiero, ci
ha educato al pensiero e all’azione dispositivi, all’astratta comprensione e valutazione di tutti gli
avvenimenti e di tutti i fatti. La sua azione ci ha fatto sentire amministratori di mezzi a noi familiari,
ci troviamo inseriti in un lavoro universale. Ognuno di noi, anche chi compie il piu puro e
libero lavoro spirituale, prende parte attivamente e passivamente all’onnipotente processo
lavorativo universale. Era impossibile assolvere a questi compiti in forma diversa da quella adottata
dal capitalismo, dal grande capitalismo. Era impossibile soddisfare il bisogno di vestiario di
milioni di persone con la tessitura a mano e il fuso usato nelle case dei contadini. I boschi
dell’Europa non sarebbero neppure lontanamente bastati per le nostre abitazioni. Era impossibile
gettare ponti sui fiumi, tendere sul mondo una rete di ferro, se gli altoforni non avessero fuso
i metalli e i laminatoi non avessero laminato l’acciaio. Era impossibile assicurare il nutrimento al
mondo occidentale, se rotaie e battelli a vapore non avessero unito i continenti. Tali potenze e
masse, capitali e cavalli a vapore, materie prime e schiere umane, dovettero essere messe in moto in
tali proporzioni.
Il capitalismo ha adempiuto a questi compiti, e possiamo dire che li ha realizzati relativamente a
buon mercato. L’affermazione è paradossale; sentiamo spesso parlare di lusso inaudito, di sperpero
smisurato del capitalismo e delle sue spese. E tuttavia il capitalismo ha consumato per sé
straordinariamente poco di ciò che ha prodotto, non per buon cuore, non per disinteressata bontà,
ma perché ciò caratterizzava la sua natura. Un numero relativamente piccolo di uomini, poche
decine di migliaia, erano responsabili dell’economia dei singoli paesi. Consumavano certo qualcosa
per sé, e alcuni anche molto, ma comunque certamente solo una piccola parte di ciò che
contribuivano a produrre. Il resto veniva accumulato, reinvestito in macchine, ciminiere, fabbriche,
navi, ferrovie, edifici. Il capitale, autoproduttivo, aumentava nel processo capitalistico fino a
raggiungere una inaudita accumulazione dei beni, e anche questa accumulazione era indispensabile;
ché, se l’arsenale del lavoro pietrificato non fosse stato disponibile, la produzione dei beni
non avrebbe potuto sostenere il suo ritmo. Non era possibile adempiere ai compiti, di cui ho parlato,
senza questa accumulazione: di capitali, finanziariamente parlando; e di edifici e strumenti, dal
punto di vista economico. Lo spirito di conquista, di cui l’epoca era piena, non fu dissipato, non
sperperò ciò che aveva guadagnato e conquistato, bensì lo accumulò e aprì la via al processo
economico. Tuttavia, non agì con parsimonia quando doveva costruire a piene mani e non ebbe
bisogno di fare attenzione all’effetto d’utilità. Era piu importante scoprire, acquistare, conquistare
piuttosto che concentrarsi sui fattori economici interni; l’apertura di un nuovo ambito economico
stimolava la produzione internazionale piti che l’applicazione metodica del risparmio. Una terra
economicamente inesplorata richiede un lavoro estensivo, l’intensità inizia quando non v’è piu nulla
da conquistare. Per la conquista, però, non v’era nessun altro mezzo piu adeguato di quello della
lotta individuale, della concorrenza e della illimitata libertà personale. Liberalismo, imperialismo,
spirito di conquista, economia concorrenziale e capitalismo sono — nell’intimo — la
medesima cosa: sono le manifestazioni di epoche di conquista e di acquisizione.
Senza lo scatenarsi di queste forze sarebbe stato impensabile nutrire e mantenere le masse che
popolano i nostri continenti.
Se ci domandiamo se questo fenomeno debba continuare e progredire, la prima risposta che
incontriamo è quella che sostiene che la meccanizzazione stessa non debba interrompersi; poiché la
meccanizzazione è la risposta dell’umanità al numero. Il numero della popolazione è dato. Per
compensarlo c’è un’unica possibilità: organizzare meccanicamente il processo vitale. Ma la vecchia
metodica del capitalismo rimarrà immutata?
In un certo senso il compito s’è trasformato. L’acquisizione in grande stile è finita, non solo per noi,
non solo a causa della nostra debolezza politica. Il numero dei territori geografici non sfruttati è
diminuito, il mondo è quasi del tutto spartito. Tramite la guerra, inoltre, molti dei paesi che in
precedenza erano economicamente dipendenti, sono diventati autonomi; essi, che finora erano stati
territori d’acquisizione, entrano concorrenzialmente nel mercato mondiale. La tecnica, chiaramente,
non sta ferma; tuttavia, che il suo passo si sia rallentato lo dimostrano gli incredibili costi dello
sviluppo, i tempi lunghi di sviluppo delle piu recenti imprese. Così, dal punto di vista economico,
l’epoca futura non sarà condotta secondo metodi estensivi e d’acquisizione, bensì secondo quelli
intensivi e di concentrazione; questo compito ha inizio nel punto debole dell’individualismo grande-
capitalistico: nell’organizzazione. E con questo compito dell’organizzazione, non solo della
produzione, ma anche del consumo e della circolazione, con il compito del lavoro collettivo al posto
di quello individuale-associativo, l’epoca apre al futuro di un nuovo sistema sociale.
Contemporaneamente a questo riconoscimento intellettuale, sorgono nella coscienza generale
impulsi che cercano affannosamente di esprimersi. Sentiamo che nell’infuriare della concorrenza,
dell’acquisizione, del guadagno, non si fanno valere tutti i diritti umani. Lo sentiamo
piu chiaramente di prima: scopo finale di tutta l’economia è l’uomo, solo lui. La stessa economia
non può essere fine a se stessa. Parliamo della nostra attività come di qualcosa che è al di fuori di
noi, qualcosa che ci domina, che è obiettivamente presente, inevitabile. Certo, noi siamo creati per il
lavoro, ma il lavoro è creato per noi. In fondo, non siamo custodi di macchine, non siamo guardiani
di beni che arrugginiscono e marciscono; in ultima istanza, siamo responsabili di fronte ad anime.
Allora l’economia non può rimanere semplicemente una competizione, una gara. È impensabile che
la vita economica debba essere concepita eternamente come un riduttivo concorrenziale vivere degli
Stati, come una lotta incruenta di tutti contro tutti. L’economia deve limitarsi a ciò che è
indispensabile, e cioè creare i beni necessari alla vita, e provvedere al fabbisogno umano. Suo
compito non è la lotta, ma la produzione.
In tal modo l’economia non rimarrà piu affare del singolo: l’economia riguarda la comunità. Non
nel senso, per il momento, che la comunità statalizzi i mezzi di produzione — ciò non accadrà né
fra anni, né fra decenni —, bensì nel senso che non può piu essere affidato all’arbitrio del singolo
ciò che egli intraprende con i beni economici: che costruisca fabbriche о fondi imprese in modo
insensato, che faccia un uso irrazionale о antieconomico dei suoi beni. Ciò non sarà piu affare
dell’arbitrio, sarà invece affare di una coscienza e di un ordine comuni.
Nei meandri della nostra coscienza si fa strada la cognizione che, alla lunga, il dominio non può
essere prerogativa di una classe. Il legame dei monopoli, che separano ceto da ceto, deve essere
eliminato tramite un ordinamento della società che assegni ad ognuno la possibilità, ma anche la
responsabilità, di una libera scelta professionale. Sentiamo che la nostra vita collettiva non è
semplicemente un vincolo a determinati interessi, prevalentemente interessi materiali, e che in
questa vita collettiva sono le forze spirituali e del cuore a rimetterci, se ci riuniamo semplicemente
in associazioni occasionali ed esteriori, motivate dal lavoro, dal guadagno, dalla ricerca, о dalla
volontà politica. L’esistenza collettiva trova il suo senso e la sua dignità soltanto in una vera
fusione, in una comunità umana che deve poggiare sul sentimento della solidarietà, della
responsabilità generale e della fiducia reciproca. In ciò consiste il più forte contrasto con l’epoca
della lotta individuale, della concorrenza capitalistica, del diritto del più forte. Sentiamo che anche
il nazionalismo non è giunto alle sue forme ultime. Questa struttura della concorrenza armata, che
oggi chiamiamo Stato, si trova anacronisticamente nella stessa condizione del medievale diritto del
più forte. In futuro, dopo una lunga lotta, si produrrà un nuovo equilibrio delle nazioni sulla base
della divisione del lavoro, e allora i beni e gli interessi materiali diverranno questione comune delle
nazioni, come oggi lo sono arte e scienza. Fare una simile affermazione al giorno d’oggi, quando si
miete solo il raccolto dell’odio, è temerario, e tuttavia è concesso, non perché riponiamo le nostre
speranze in utopie, ma perché deve esservi utopia affinché la vita umana raggiunga il suo valore e il
suo fine.
Se consideriamo da questo punto di vista i dogmi del marxismo ortodosso, allora sentiamo che
molte cose non coincidono con i nostri sentimenti. In guerra abbiamo imparato a conoscere cosa
significa spingere all’estremo il principio della organizzazione. Non vogliamo tramutare l’umanità
in una burocrazia. Con ciò non si vuole difendere l’individualismo capitalistico, tanto meno
però ammettiamo che l’ultimo resto di iniziativa debba essere affidato a funzionari. Certo il
funzionario, soprattutto quello del vecchio stato prussiano-tedesco, era un uomo altamente fidato e
degno di stima. Da lui però non si pretendeva l’iniziativa, e del resto mai avrebbe potuto averne. La
nostra epoca non ha ancora prodotto funzionari educati all’iniziativa, e resteremo sempre delusi
se non pretendiamo dagli impiegati quello che essi possono dare nel modo più perfetto, ovverosia
l’amministrazione, bensì pretendiamo da loro quello che essi non sono in grado di fare, ovverosia
rischio, iniziativa, decisione rapida, comprensione intuitiva del futuro. Difficilmente ci avvieremo,
in un tempo prossimo, ad una nuova forma di società che sostituisca il meccanismo organizzato
alla personalità individuale.
La dogmatica socialista, però, ha vissuto un contrattempo che supererà, ma che momentaneamente
frena la sua corsa. Il pilastro scientifico della dogmatica socialista era il concetto di plusvalore.
Questo concetto si è dissolto nel momento in cui la ricerca esatta se ne è occupata. Certo il
plusvalore esiste. Ma non ha alcun rilievo, ed è stato utilizzato finora quasi esclusivamente per
l’accumulazione, cosa che la scienza marxista non aveva assolutamente supposto.
Così fu un grave errore quando la teoria ammise che l’espropriazione del plusvalore avrebbe mutato
qualcosa nella struttura economica, nella divisione dei beni, о nel benessere generale. Se si voleva
sottrarre il plusvalore al suo compito, essere cioè portatore dell’accumulazione, la conseguenza
sarebbe stata una veloce e inarrestabile decadenza delle nostre strutture economiche. Lo
smantellamento di patrimoni immensi può essere valido come richiesta di giustizia, tuttavia questo
fa parte dei compiti della politica finanziaria, non dell’ordinamento economico. Ora non si creda
che questo smantellamento renda considerevolmente piu benestante la comunità; il calcolo dimostra
che si tratta di grandezze minime.
Tuttavia, il piu grave errore della dogmatica socialista consiste nel credere che qualsiasi piu
desiderabile ordinamento della società sia di per sé in grado di stimolare il processo della
produzione e pertanto di rendere la comunità piu benestante e piu forte consumisticamente. Al
contrario, anzi! In uguali condizioni fisiche e tecniche, soltanto lo stato dell’accumulazione e
l’intensità del lavoro, ovverossia il loro grado di rendimento, decidono il benessere di un paese.
Ogni trapasso verso una nuova forma di società, se essa deve essere piu libertaria della precedente,
implica il fatto che la partecipazione al consumo aumenta a spese dell’accumulazione e che si
riduce l’intensità del lavoro. L’aumento del tasso di rendimento del lavoro, che è illimitato ed è la
nostra unica salvezza e il nostro piu grande impegno economico, non può in sé riferirsi a qualsiasi
forma di società — non si lascia cioè applicare a ogni forma di società —, bensì
dipende dall’ordinamento economico. Perciò qualsiasi unione di lotta per una qualsiasi forma di
società non ha il diritto di promettere ai suoi seguaci, come pura conseguenza della sua riforma, un
progresso economico.
La dogmatica socialista è fallita. Dovrà aggiungere al suo edificio nuovi sostegni e puntelli. Il suo
sistema ne guadagnerà in stabilità se riesce a sostituire la pretesa della scientificità con la forza di
una Weltanschauung che non si fondi sulla questione del mio e del tuo.
Innanzitutto non realizzeremo alcuna teoria. Vi fu un momento in cui, grazie al potere statale, fu
possibile imprimere allo sviluppo dell’economia un piu rapido corso. Questo avvenne nel periodo in
cui il socialismo politico aveva nelle mani le redini del Reich e degli Stati. Il socialismo ha
disdegnato questo momento. Non so per quali motivi. Ha preferito seguire la politica del ‘ tutto о
niente ’ e si è rifiutato di collaborare all’introduzione di un’economia comunitaria, che non sarebbe
stata un’economia marxista, bensì un’economia di trapasso tra quella del grande capitalismo e
quella futura. Il momento non tornerà tanto presto, e forse non è un male; poiché è necessario che
prima si verifichi una riorganizzazione delle istituzioni, un riordinamento del pensiero. La
scienza non aveva compiuto alcun lavoro preparatorio. Per ragioni che non voglio discutere, ci si
era occupati delle questioni del giorno, sia da parte della scienza ufficiale sostenuta dallo Stato, la
quale si era semplicemente eretta a difesa dell’esistente, come pure nella pubblicistica di fronda
(che era ancora tollerata), la quale si adattò al fenomeno dell’economia della grande
meccanizzazione e del grande capitalismo; e la speranza di mutarla praticamente rimase incerta
quando addirittura non svanì.
Quando arrivò l’inatteso, quando si cercò di manifestare apertamente i pensieri maturati nel
silenzio, l’opinione pubblica, e con essa il governo, non furono pronti ad accoglierli.
A ciò si aggiunge un’ulteriore considerazione. Abbiamo lasciato che spaventosi numeri, che
determineranno nei prossimi decenni il nostro destino, penetrassero a poco a poco nella nostra
coscienza. Abbiamo iniziato a capire quale terribile devastazione abbia causato la guerra non solo
presso gli altri, non solo da noi, non solo per il presente, ma anche per il futuro. Un adattamento e
uno sforzo senza pari sono indispensabili per risanare questo paese e sarebbe una inaudita
vigliaccheria se non avessimo ben chiaro davanti agli occhi che dipende semplicemente dalla nostra
volontà, tesa ad una sovrumana energia, se possiamo esistere о meno. Se, dunque, qui non si tratta
soltanto di una ricostruzione del mondo, bensì del nostro essere о non essere, allora una
questione guadagna priorità rispetto alle altre: la questione della produttività. Ammesso che oggi si
passi ad un totale rinnovamento della nostra economia e società, due cose restano certe: esso non
potrà avere buon esito senza provocare un notevole turbamento della nostra produzione economica.
Questo l’abbiamo visto abbastanza chiaramente nell’Est.
Ma ancor più: il processo d’accumulazione, il processo del benessere crescente, senza il quale
nessuna società può vivere, e tanto meno una che è in via di crescita, viene frenato in un momento
pericoloso. Se verranno consumati tutti i beni della nostra produzione, allora cesserà
l’accumulazione e si estinguerà il processo del nostro sviluppo economico. Un paese come il
nostro dovrebbe usare per lo meno un sesto di ciò che produce per il miglioramento, completamento
e ampliamento del suo apparato produttivo, che consiste in edifici, impianti, macchine, installazioni,
scorte e valori dell’economia agraria. Questo è accaduto nei tempi del benessere. Oggi che la nostra
produzione è considerevolmente calata, diviene doppiamente necessario sottrarre una
parte maggiore della produzione al consumo e indirizzarla all’accumulazione. Ma è proprio qui che
l’avversario fa valere le sue pretese contro di noi. Conserveremo abbastanza poco di questa parte
della produzione.
Non c’è alcun dubbio, allora, che il compito primario della totale ristrutturazione della nostra
economia consista nell’aumento della produttività, e certo, visto che la nostra forza lavorativa è
molto limitata, nell’aumento del rendimento. A tal riguardo però siamo molto piu arretrati di quanto
vogliamo ammettere. Al grande capitalismo bastava solo stendere le mani, per afferrare.
Era Mida. Ciò che toccava diventava d’oro, e poiché dove posava le mani creava valori, era
indifferente se guadagnava la sua ultima percentuale d’interesse nella produttività del lavoro. Per
questo il nostro processo produttivo non è un processo di natura sufficientemente economica;
contrariamente a quello che viene insegnato nelle nostre scuole, e cioè che il nostro processo
produttivo è all’apice dello sviluppo, dobbiamo riconoscere che siamo dei principianti: « Fier si je
me compare, humble si je me considère », diceva Pascal. Orgoglioso se mi confronto, umile se mi
osservo. Lo stesso vale per il nostro processo economico. Se ci raffrontiamo siamo in una buona
posizione, se ci osserviamo allora constatiamo l’insufficienza del rendimento. Non è il tema di
questa esposizione spiegarvi in quali ambiti e con quali mezzi si debba provvedere. Ma è chiaro: lo
sperpero di lavoro, di forze, di materie, non è causato solo dalle macchine poco efficienti, bensì in
primo luogo da un processo produttivo condotto in modo irrazionale, nel quale ogni singolo
elemento ha bisogno di riorganizzazione. Dovrà sorgere una nuova scienza, una scienza
della produzione che è appena agli inizi; si partirà da quell’unità su cui possiamo contare, l’unica
che rimane incrollabile, ovverossia l’ora lavorativa. Certo è che abbiamo sessanta milioni di uomini
e che fra di loro gli adulti, i 15 о 16 milioni di lavoratori, sono in grado, lavorando otto ore al
giorno, di lavorare 2.000 ore all’anno. Questo dunque sappiamo, e l’unica cosa certa è che abbiamo
a disposizione 32 miliardi di ore di lavoro. Qui si deve introdurre la scienza della produzione ed
essa deve dimostrare in che modo debba mutare tutta la nostra struttura industriale e di consumo, la
nostra attività e la nostra disposizione produttiva, per ricavarne il genere e la quantità di prodotti di
cui abbiamo bisogno, facendo attenzione all’uomo, ai suoi muscoli, ai suoi nervi e alla sua anima.
Questo problema finora non è stato posto né in Germania, né in qualsiasi altro luogo. Ed è stato
proprio questione di ignoranza il fatto che, nelle trattative di Bruxelles in cui si doveva stabilire la
capacità produttiva del popolo tedesco, non si sia fatta menzione dell’ora lavorativa. A ciò si è
rimediato in una qualche misura nelle successive consultazioni e si sono avuti validi enunciati
riguardo all’attuale valore produttivo dell’ora lavorativa. Questo sarà il punto centrale della nostra
futura economia: politica di produzione, col-legamento alla quantità delle nostre ore lavorative,
aumento del grado di rendimento umano.
Questo si realizzerà innanzitutto per mezzo dell’economia privata. Non lo dico con particolare
gioia. Io sono uno di quelli che speravano che l’affrontare unitariamente il problema, un’iniziativa
comunitaria e una volontà nazionale avrebbero eretto il nuovo edificio della nostra economia.
Questo non si è verificato. Siamo stati ricacciati sulla via dell’economia privata e si
percorrerà questa via. Saranno usati mezzi noti, i mezzi dell’organizzazione e della concentrazione,
che sono già attivi e che aumenteranno in misura considerevole. Ma coloro che pretendono una
futura sostanziale trasformazione dell’economia, trarranno speranza dal fatto che le grandi
agglomerazioni in via di sviluppo diverranno materia prima plasmabile nelle mani di un futuro
legislatore, che oggi-giorno non abbiamo ancora e che non potremmo certo aspettarci per i prossimi
anni.
Già oggi, intanto, lo Stato, che lo voglia о no, non può tenersi in disparte. Una politica di
produzione razionale può essere creata solo in rapporto con una razionale politica di consumo e di
distribuzione. Regolare tale politica spetta allo Stato, tramite un ordinato sistema di importazione ed
esportazione, tramite la legislazione doganale e fiscale.
Se perciò dobbiamo prendere le mosse dal fatto che l’iniziativa economica privata domina le prime
trasformazioni della produzione, tuttavia dobbiamo ritenere come fatto certo che una serie di
principi resteranno indelebili nella coscienza pubblica, principi che trasformano l’antico concetto
proprio dell’economia privata.
L’idea della democrazia è penetrata più profondamente nella vita economica che in quella politica,
il concetto della cooperazione paritaria tra i due ceti della nostra società è realizzato, non senza
lacune, non senza residui, non senza contraddizioni; tuttavia è realizzato. Il concetto del minimo di
sussistenza non svanirà più. Nessuna congiuntura economica di qualsiasi tipo potrà più giustificare
che non si dia ad un uomo il minimo necessario per vivere.
Ma diviene anche naturale l’idea che la vita non possa essere semplicemente una lotta per i beni di
consumo. Vivacchiare di beni di consumo, senza tempo libero, è indegno. Anche se in definitiva
non dovesse rimanere molto dei nostri tentativi economici, la nostra epoca può arrogarsi il merito di
essere stata quella che per la prima volta da millenni si è presa cura della forza-lavoro umana, del
problema del tempo libero e dell’ozio, introducendo la giornata lavorativa di 8 ore a livello
internazionale. Certamente, il momento in cui è stata fatta questa scelta è paradossale: poiché è una
contraddizione diminuire il lavoro proprio quando il mondo lotta per la ricostruzione, quando è
richiesta la massima prestazione. Non sempre la storia sceglie il momento all’apparenza più logico:
e poiché essa richiede questa volta la massima prestazione in un tempo più breve, ci
mostra chiaramente che occorre raggiungere un maggior grado di efficienza.
Si muterà inoltre il nostro concetto al diritto. Abbiamo raggiunto una diversa posizione riguardo al
preteso diritto al reddito eccessivo e non ricavato dal lavoro. Non riconosciamo più il privilegio di
famiglia a cent’anni di possesso e consumo senza lavoro e fatica, in ragione del fatto che un
antenato ha acquisito molto. Non consideriamo più giusta la pretesa di uno che dice: uso e spendo il
mio patrimonio a mio piacere, la mia economia è affar mio. Un concetto, non voglio dire
accettabile, però giustificabile in un’epoca che esercitava teoricamente l’economia politica e
produceva a pieno ritmo; un tale concetto diventa delittuoso in un’epoca che nella sua miseria è
necessitata alla conoscenza dei rapporti economico-politici. Ogni consumo è consumo da una
misera economia comune; ciò che in una parte viene sciupato о consumato in modo antieconomico,
viene meno nell’altra. Ogni bene consumato è sottratto alla scorta della comunità; ogni uomo deve
esaminare in ogni momento se il bene di cui si serve può essere preso giu-stificatamente. Si
assumerà nel modo migliore questa responsabilità, domandandosi se questo bene è
realmente richiesto per il mantenimento e l’aumento della sua esistenza e della sua prestazione e se
il sottrarlo non sarà causa di difficoltà per gli altri. Analoga considerazione vale per l’uso di beni per
impianti industriali e investimenti.
In tal modo nella nostra vita economica si imporranno pensieri e tendenze diverse, che la
trasformeranno internamente, anche nel caso dovessimo rimanere avversi a trasformazioni radicali.
Sotto la spinta delle sollecitazioni incombenti, l’ambito del tenore di vita verrà considerato piu
attentamente di quanto si sia fatto finora. Già si profila una tendenza al puritanesimo. Essa
non ostacolerà l’ostentazione sfacciata del lusso, propria delle grandi città; la balcanizzazione
dell’Europa non è semplicemente politica, ma anche morale. Tuttavia, queste degenerazioni
giocheranno il ruolo di vizi perseguibili legalmente e solo limitatamente tollerati, e non piu quello
odierno di un dispotismo che si vanta del suo buon diritto e del suo denaro.
I paesi anglosassoni non hanno avuto di che pentirsi del periodo puritano che hanno attraversato. Il
meglio delle poche cose buone che dalla fine della guerra abbiamo appreso dall’estero, lo dobbiamo
alle conseguenze di tali epoche: il lavoro dei quaccheri.
Se la nostra vita si conterrà in forme piu austere, se la nostra esistenza saprà trasformarsi dalla
precedente disposizione estensiva ad una intensiva in senso proprio, diretta verso l’interno, tesa in
se stessa, se ciò avverrà tramite il riconoscimento crescente della nostra responsabilità nei confronti
della produzione e del consumo, attraverso l’introduzione di nuove tendenze nel
processo economico, la pressione esterna e la preoccupazione interna, allora da ciò sorgerà per noi
la garanzia morale, e perciò assoluta, del nostro futuro.
A Londra uno statista ha posto al nostro ambasciatore l’ironica domanda: « Quando inizia la storia
mondiale? ». Una domanda da Pilato. Cos’è la verità, cos’è la storia mondiale? Non si può
rispondere a questa domanda. Ma una cosa si può replicare: supposto che la storia mondiale sia
iniziata о meno, certo è che non è ancora alla fine. Un paese come la Germania non è perduto se
non si arrende. Siamo sessanta milioni e sappiamo chi siamo. Fu vano il detto a cui abbiamo
a lungo creduto: il Signore è con gli eserciti piu forti. Verità è che il destino è con la piu profonda
responsabilità. Per questo la nostra missione non è finita, come non lo è la storia mondiale. Penso
naturalmente a fatti del tutto pacifici, all’evoluzione della storia e alla giustizia immanente.
Abbiamo considerato il grande capitalismo nell’ambito della nostra vita meccanizzata.
Difficilmente arriveremo alla conclusione che oggi quest’epoca sia finita. Avviene che epoche
raggiungano apparentemente il loro culmine quando in realtà sono già dissolte. Io credo che il
grande capitalismo svilupperà innanzitutto ancora le sue forme piu grandiose, dico forme perché già
alcune cose si contrappongono al suo contenuto. Poi si tramuterà lentamente in un capitalismo
collettivo, in un capitalismo di responsabilità comunitaria.
Andiamo incontro a tempi difficili. È possibile che la nostra cultura sprofondi molto piu di quanto
ci aspettiamo. Non sappiamo che aspetto avrà la futura generazione, tuttavia sappiamo che lo
sviluppo demografico sta rallentando, e inoltre sappiamo che una generazione è stata pesantemente
danneggiata nel suo processo evolutivo. Sappiamo soprattutto che il nostro paese è impoverito, che
si dovrà combattere duramente per proteggere dalla decadenza tradizioni e strumenti, le cui
generazioni vanno di pari passo con lo sviluppo delle generazioni umane. Gli strumenti con cui noi
lavoriamo si creano nel cambio delle generazioni, come il genere umano. Lo strumento sofisticato
genera uno strumento sofisticato, quello rozzo ne genera uno rozzo. Un’interruzione della tradizione
nell’abilità, formazione, cultura, sapere, giudizio, gusto, il venir meno dello strumento è un
pericolo altrettanto grave quanto l’estinzione delle generazioni umane. Il pericolo di uno
sprofondamento della cultura è presente e non soltanto da noi.
Comunque sia non possiamo fare a meno della meccanizzazione. I nostri territori rimangono
sovrappopolati come prima e perciò non possiamo eliminare la macchina, non possiamo ritornare al
fuso e alla candela. E neppure possiamo realizzare il romanticismo che avvolge alcuni di noi nelle
ore del silenzio: ritorno alla natura, in un angolo del mondo lontano dalla meccanizzazione e
dall’azione. Questo sogno non è ingenuo, bensì intimamente falso. L’uomo che si ritira in un
paradiso artificiale, che lo voglia о meno, vive del sudore degli altri. Anche se porta con sé solo una
zappa, una vanga, un foglio di giornale, un libro, un fiammifero, tuttavia rimane beneficiario della
meccanizzazione, poiché questi oggetti non esisterebbero senza il sudore dell’epoca meccanizzata.
Chi dunque si rifugia in un paradiso artificiale non è un redento, bensì un disertore, un
parassita. Dalla meccanizzazione non torneremo indietro. La macchina continuerà ad esistere, solo
che non deve essere, come la scopa magica, il nostro demone, bensì il nostro strumento.
Il processo della meccanizzazione racchiude qualcosa di terribile e di pericoloso, ma, in quanto
conseguenza e compensazione unilaterale del fenomeno naturale di concentrazione della
popolazione, ha esso stesso il carattere di un avvenimento naturale. È naturale che al rifiuto del
mondo, alla negazione del futuro, al credo della decadenza dell’umanità si accompagnino, come
ad ogni pessimismo, un sentimento di abbandono, un sentimento di autocondanna.
Alcuni avvenimenti naturali si possono controllare, altri permettono un adattamento, tuttavia la
creazione stessa non soggiace ad alcuna critica. Critica della natura equivale a critica di se stessi. È
stupido trovare carina la luna, ma desiderarla piu piccola, oppure lamentarsi del fatto che la terra
gira troppo lentamente intorno al sole. La natura esige un timore reverenziale, anche lì ove essa ci
impone disagio.
Natura, istinto umano e spirito hanno voluto l’incremento della popolazione secondo la legge della
fecondità. Se la densità è diventata grande rispetto al territorio — e aumenterà ancora su tutta la
terra abitabile — e se ci costringe a integrare le nostre membra con strumenti, a porre al nostro
servizio forze e masse, non dobbiamo lamentarci, bensì accettare l’avvenimento come un anello
della catena dell’evoluzione umana, con l’orgogliosa gioia di partecipare ad un atto senza
precedenti della creazione.
Dobbiamo ben servirci del diritto che è concesso nel bisogno ad ogni creatura pensante, del diritto
della coscienza. Ogni epoca naturale inizia con travagli; è proprio questo travaglio che solleva ogni
creatura al suo sommo livello. All’inizio di ogni epoca dell’umanità non vi è solo indigenza, ma
anche cognizione intellettiva.
Questa coscienza illumina criticamente il tratto che si percorre; qui essa deve e può essere
unilaterale, come il giudizio dei figli contro i padri, poiché essa si libera; scorge nel passato piu
ombra che luce. Guardando innanzi e sperando, scorge solo luce; dimostra la sua forza vitale e da
questa trae il diritto di non scorgere ombre nel futuro.
Cosi noi giudichiamo l’epoca trascorsa secondo le sue debolezze e da quella futura pretendiamo
l’adempimento dei nostri desideri. Vogliamo che non sia piu un’epoca di lotta, di concorrenza, di
competizione per il potere personale, per i beni e per la felicità, costretta nella dipendenza reciproca
di uomo e macchina; pretendiamo che un’epoca si formi al lavoro comunitario e alla responsabilità
di tutti per ognuno, di ognuno per tutti, alla solidarietà umana nella fortuna e nella necessità, per
creare spazio alla via dell’anima.

[Conferenza tenuta all’Istituto superiore tedesco di studi politici il 27 aprile 1921. Pubblicata in
Gesammelte Reden cit., pp. 151-190.]

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