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D'Urso Giuseppe Michelangelo

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Ancora sul canale di ritorno


Nomi, tempi e luoghi per consegnare L'Agendina del Presidente

Difficoltà per lo specialista


Sono trascorsi trentacinque anni da quella tragica primavera del 1978 che vide perire per mano delle
Brigate Rosse Aldo Moro e i suoi cinque uomini di scorta. In questo lungo periodo si sono
susseguiti ben cinque processi1 e il lavoro di ben due commissioni parlamentari di inchiesta2.
Hanno inoltre parlato del sequestro Moro, del suo prologo e del suo tragico epilogo, tre membri su
quattro del comitato esecutivo delle Br del tempo, sette su dieci degli uomini la cui presenza è
accertata nell'azione di via Fani e tutti e quattro i carcerieri di via Montalcini, per un totale di dieci
brigatisti su tredici che svolsero un ruolo diretto in quell'operazione.
Le loro dichiarazioni, rese separatamente, nel tempo e in condizioni anche di palese disaccordo
politico, convergono comunque nella descrizione dei fatti, differendo solo in particolari di scarso
rilievo.
La verità giudiziaria che si è cristallizzata nel tempo e l'interpretazione politica della vicenda che è
stata fornita non hanno però soddisfatto né i parenti delle vittime, né una parte considerevole
dell'opinione pubblica italiana.
L'imponente mole di pubblicazioni sul tema ha ingigantito i contorni della vicenda, nutrendola di
sospetti, mitomanie, scarti della memoria. Inoltre ad ogni anniversario di questi eventi il numero dei
soggetti che in un modo o nell'altro fanno ingresso nella vicenda per svolgervi un qualche ruolo o
semplicemente per introdurre nuovi ricordi, aumenta sempre più sensibilmente, con il risultato di
moltiplicare a dismisura il numero delle “presunte verità”, ognuna propria e diversa da tutte le altre,
da far macerare nel calderone dell'opinione pubblica italiana in attesa della stagione successiva,
quando verranno ripetuti i medesimi gesti da una vasta platea, sempre rinnovata, che si estende dai
politici ai criminali comuni, dagli spioni agli spiati, dai brigatisti ai piduisti, passando per maghi,
spiriti, veggenti, passanti occasionali, preti, avvocati e secondini.
Il sospetto che l'invadenza di un simile circo iconografico sia giustificato da evidenti interessi di
carattere commerciale resta pur sempre valido tanto quanto l'auspicio formulato dai congiunti di
Moro all'indomani della sua tragica morte: “la famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio.
Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.
Auspicio validissimo quello rivolto alla storia per la ricerca della verità, come recentemente ribadito
dallo storico Miguel Gotor che ritiene la via della storia l'unica seriamente percorribile, rispetto a
quella giudiziaria e memorialistica, ma che ancora risulta purtroppo ostacolata dalla difficoltà di
accesso ai fondi conservati presso gli archivi giudiziari e a quelli delle commissioni parlamentari,
dei partiti e degli uomini politici3.
Non si può fare a meno di riscontrare il tardivo arrivo degli storici e di analizzare le ragioni
estremamente diverse e diversamente valide che giustificano tale ritardo.
Le prime ricerche di carattere scientifico sul fenomeno del terrorismo italiano furono intraprese
dagli studiosi di scienze sociali fin dalla fine degli anni Settanta, con un ruolo importante nella
promozione di questi studi svolto, fin dal 1977, dall'Istituto Cattaneo di Bologna4.
Questi studi, protrattisi negli anni successivi, hanno avuto il merito indiscutibile di fare piena luce
sugli aspetti “proletari” della lotta armata, decifrandone le radici ideologiche, individuandone le
motivazioni e analizzandone le modalità delle scelte compiute all'interno del variegato mondo della
sinistra extraparlamentare degli anni settanta e ottanta5.

1 Una nuova inchiesta giudiziaria è stata aperta, nella tarda primavera del 2013, dalla procura della Repubblica di
Roma sulla scorta dei “presunti” nuovi elementi d'indagine emersi sulla scorta delle rivelazioni contenute in una
recentissima pubblicazione di Ferdinando Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia. Perché Aldo Moro
doveva morire? La storia vera, prefazione di Antonio Esposito, Roma, Newton Compton, maggio 2013.
2 Prima della pausa estiva dei lavori parlamentari delle due Camere, ha riscosso notevole consenso l'iniziativa
promossa dai deputati Giuseppe Fioroni e Gero Grassi, entrambi del Partito Democratico, di istituire una nuova
commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro, allo scopo di chiarirne “i misteri e gli enigmi”. L'attività
propulsiva dei due deputati si è tradotta in una proposta di legge sottoscritta non solo dai capi-gruppo ma anche da
altri novanta parlamentari appartenenti a quasi tutte le forze politiche presenti in parlamento.
3 Miguel Gotor, Ma la verità ormai è un lavoro da storici, in La Repubblica del 17 giugno 2013.
4 Per quanto riguarda la nascita e i contenuti di questo iniziale dibattito su basi scientifiche del fenomeno terroristico
italiano si rimanda a Giovanni Mario Ceci, Interpretazioni del terrorismo. Il primo dibattito scientifico italiano
(1977-1984), «Mondo Contemporaneo», III, 2009.
5 Si rimanda agli studi pregevoli di Donatella Della Porta e di Raimondo Catanzaro di cui ci si limita in questa sede a
Per quanto concerne invece l'area culturale e sociale appartenente al ceto intellettuale e dirigente
italiano che “solidarizzò” con quella di matrice proletaria, si assistette per lungo tempo ad una sorta
di invisibilità (o di una vera e propria indicibilità) dinanzi ai fari della ricerca scientifica, visto che
inoltrarsi nei meandri di quell'intreccio significava troppo spesso insinuarsi tra ferite non ancora
rimarginate e avventurismi giovanili che si volevano seppellire, e tra drammi e lacerazioni familiari
che si cercava faticosamente di elaborare6.
Un evidente cambio di rotta, quasi un “passaggio di testimone”, si è invece iniziato a registrare nel
nuovo millennio, con l'avvento di studi specialistici condotti da giovani ricercatori i quali, non
avendo vissuto in prima persona l'esperienza dolorosa di quegli anni, riescono a prendere le dovute
distanze dal fenomeno e analizzarlo con criteri critici senza coinvolgimenti di alcuna natura7.
Per quanto riguarda specificatamente la tragedia consumatasi nella primavera romana del 1978,
avviata in via Fani con l'eccidio dei cinque uomini di scorta e il sequestro di Aldo Moro e
conclusasi in via Caetani con il rinvenimento del cadavere dell'uomo politico nel vano portabagagli
di un'autovettura, l'accostamento alla ricerca scientifica da parte degli storici ha registrato
rallentamenti a causa di quell'intricato abbraccio in cui vita e morte di Aldo Moro e Brigate rosse si
sono tragicamente avvinghiate distorcendo per lunghissimo tempo ogni valutazione sulla vicenda.
Moro non è senz'altro vissuto prevedendo tempi e modalità della sua fine, ma certamente è stato
ucciso a causa delle scelte compiute in vita; non risulta perciò possibile ricostruirne la biografia
fingendo di ignorare le circostanze della sua morte, o studiare gli ultimi 55 giorni della sua esistenza
avulsi dal rapporto con il vissuto precedente e con le responsabilità e decisioni politiche assunte da
uomo libero.
Aldo Moro era stato fino a quel momento un uomo politico capace di annullare sul nascere ogni
contraddizione esistente, un campione assoluto dell'arte della mediazione tra poli apparentemente
inconciliabili, attento in maniera spasmodica all'unità della Democrazia cristiana e alle sue fortune,

segnalare, senza pretesa di esaustività, i più significativi: Donatella Della Porta, Gianfranco Pasquino (a cura di)
Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti, Germania e Giappone, Bologna, Il Mulino, 1983;
D. Della Porta, Mario Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Istituto di studi e ricerche Carlo
Cattaneo, Bologna, 1984; D. Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, Bologna, Il Mulino, 1984; Id., Il terrorismo
di sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990; Raimondo Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, Bologna, Il
Mulino, 1990; Id. (a cura di), La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990; Id., Luigi Manconi (a cura di),
Storie di lotta armata, Bologna, Il Mulino, 1995.
6 Basterebbe al riguardo fare riferimento al dramma vissuto in casa Donat Cattin, dentro la quale quotidianamente
sedevano allo stesso desco Carlo, più volte ministro della Repubblica ed esponente di punta della Democrazia
cristiana e Marco, suo figlio, a capo di una delle formazioni guerrigliere di sinistra, Prima Linea, che attentava al
“cuore dello Stato”; sulla vicenda Sandalo/Donat Cattin/Cossiga si rimanda sia a Sergio Flamigni, I fantasmi del
passato. La carriera politica di Francesco Cossiga, Kaos edizioni, Milano, 2001, pp. 180-204; sia a Lanfranco
Palazzolo (a cura di), Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979-1983, Kaos edizioni, Milano, 2004, pp. 53-6.
Questa vicenda non rappresentò un unicum in quella stagione politica se gli stessi quattro figli di Aldo Moro non
solo non votavano per il partito di cui il padre era l'uomo politico di indiscutibile riferimento, ma non facevano
eccezione quanto a simpatie politiche per gli ideali della contestazione ai loro coetanei di quella generazione.
Inoltre, con un percorso di avvicinamento a posizioni estreme sicuramente più allarmanti, i figli del segretario della
Dc Benigno Zaccagnini e del democristiano Paolo Emilio Taviani, il capitano partigiano “Pittaluga”, secondo quanto
riferito da “fonte confidenziale” ai servizi segreti italiani, stavano prendendo la medesima deriva terroristica che li
poteva condurre ad approdare “a movimenti extra parlamentari di sinistra se non proprio alle Br”. Questa relazione
dei servizi segreti italiani, datata ottobre 1978, era nota al tempo solo ad una cerchia ristrettissima di uomini politici
in quanto poneva “seri problemi di sicurezza” per i suoi contenuti atti ad alimentare un clima di sospetti, dubbi e
paure tra gli uomini di partito e i rappresentanti istituzionali, costretti giocoforza a non potersi fidare l'uno degli altri
per evitare che inavvertitamente, in buona fede o per negligenza, informazioni di carattere riservato giungessero,
attraverso la fluttuante galassia della militanza extraparlamentare, fino al nemico. La relazione è oggi reperibile agli
Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e
sul terrorismo in Italia, (da ora in poi useremo l'acronimo CM), Roma, Tipografia del Senato della Repubblica,
1984, vol. CXXVI, p. 75.
7 Sul punto si veda Marc Lazar, Marie-Anne Matard-Bonucci, (a cura di), L'Italie des années de plomb. Le terrorisme
entre histoire et mémoire, Paris, Éditions Autrement, 2010, pubblicato in Italia con il titolo Il libro degli anni di
piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, Milano, traduzione di Christian Delorenzo e Francesco Peri,
Rizzoli, Milano, 2010, pp.10-1. Si vedano inoltre le tesi di Guido Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La
violenza politica nell'Italia degli anni Sessanta e Settanta, 1966-1975, Torino, Einaudi, 2009.
candidato in pectore alla successione di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica.
Ma contemporaneamente Aldo Moro rappresentava un enigma in quanto pur ricoprendo una carica
poco più che formale (presidente della Dc), accettata per giunta a malincuore e per le insistenze di
Zaccagnini, nei giorni della crisi di governo fu lui a dirigere il partito al posto del segretario e si
adoperò più di ogni altro per convincere comunisti e democristiani ad accettare la mediazione; come
pure fu pronto a mettere tutto in discussione (al contrario di Andreotti che teneva più alla nascita e
alla durata del governo che sarebbe andato a presiedere) pur di non rischiare divisioni all'interno del
gruppo dirigente democristiano. Aldo Moro però non nutriva sentimenti di ammirazione verso il
gruppo dirigente della Dc, dei cui profondissimi limiti egli era consapevole più di ogni altro, e i
giudizi che vergherà nelle pagine scritte in via Montalcini e affidate al “memoriale” lo provano al di
là di ogni dubbio. Certamente la sua condizione di “detenuto” delle Br non vai mai dimenticata e
deve sempre indurre chi indaga i documenti scritti a distanza di tempo a riflettere anche sugli stati
d'animo con cui vengono pensate e vergate le righe che decenni dopo vengono passate al vaglio
della storia. Ma pur adottando ogni cautela possibile è innegabile che non si possa attribuire solo ad
uno stato d'animo non certo lieto l'uso dell'espressione “piacere per avervi tutti perduti”, rivolta ai
suoi colleghi di partito, perdita che rallegra a tal punto il prigioniero da fargli formulare l'augurio
che quanto prima “tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti”.
Alla stessa maniera nelle righe successive, quando parlerà dei singoli dirigenti democristiani,
affiancando al loro nome un tagliente e mai indulgente giudizio di valore, senza traccia alcuna di
freni inibitori, descriverà Zaccagnini e la “sua pallida ombra” come “dolente senza dolore,
preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione, il peggior segretario che abbia mai
avuto la Dc” e soffermandosi sulla “grigia carriera” di Andreotti lo rimprovererà del fatto che si
“può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore”, lamentandone appunto
l'assenza di fervore umano; tratteggerà senza pietà Galloni, quale “volto gesuitico che sa tutto, ma,
sapendo tutto, nulla sa della vita e dell'amore” e altrettanto farà con Piccoli, personaggio ambiguo
che sbaglia da sempre e sempre continuerà a sbagliare “perché è costituzionalmente chiamato
all'errore”.
Appare così chiaro che siamo dinanzi a giudizi ancorati su radici profonde che solo minimamente
vengono affidate al sarcasmo feroce, come nel caso in cui Moro prigioniero descrive a Moretti lo
svolgimento di una delle tante riunioni che si tengono nei giorni del suo sequestro ma che a nulla
servono: “Le posso descrivere – parla Moro nei ricordi del brigatista – quel che sta succedendo. In
un angolo c'è Zaccagnini che piange. Piccoli si agita e parla a vanvera. Andreotti sta zitto, fermo,
osserva, scrive, ragiona, non è emozionato. La maggior parte degli altri ha perso la testa”8.
Persino gli amici delle “ore liete” del potere non riusciranno più a riconoscere nelle sue lettere
quell'Aldo Moro a cui erano abituati e lo scriveranno di pugno, senza indugio e con freddo zelo, in
un documento di misconoscimento che Leonardo Sciascia giustamente definirà “mostruoso”9.
Ma oggi noi che leggiamo lontani da quelle ore, un tempo liete e poi divenute solitarie e tragiche,
senza indulgenza, un qualche fondo di verità allo smarrimento che serpeggiò tra “gli amici” del
rapito possiamo riconoscerlo.
L'Aldo Moro che quegli uomini erano abituati a conoscere e venerare, era l'uomo politico di partito

8 Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana. Intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda, Baldini &
Castoldi, Milano 2003, (I ed. 1994, Edizioni Anabasi, Milano), p. 150.
9 Il 25 aprile 1978 venne diffuso da parte di alcuni “amici di vecchia data” di Moro o “a lui vicini in tempi più
recenti” un comunicato che il giorno successivo trovo eco nei quotidiani che lo pubblicarono. L'obiettivo dei
firmatari di questo documento era affermare che l'Aldo Moro da loro apprezzato e conosciuto per la sua “visione
spirituale, politica e giudiziaria” non era minimamente presente nei contenuti della lettera indirizzata a Zaccagnini e
a lui attribuita. Tra i firmatari di questo pubblico disconoscimento, che Leonardo Sciascia definirà appunto
“mostruoso” (L'affaire Moro, con in appendice la Relazione di minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia
a conclusione dei lavori della Commissione Moro, Sellerio, Palermo (I ed. ottobre 1978), 2009, p. 84), si potevano,
tra gli altri, leggere le firme di alcuni alti prelati come l'arcivescovo di Cosenza mons. Selis, il cardinale Pellegrino,
mons. Zama e mons. Rossano, di docenti universitari quali Gabriele De Rosa, Pietro Scoppola e di altri quali Paolo
Prodi, Ermanno Gorrieri, Giuseppe Lazzati, Maria Righetti e Pier Luigi Castagnetti. Per la versione integrale del
documento con il corredo dei nominativi dei firmatari cfr. Stefano Grassi, Il caso Moro. Un dizionario italiano,
Milano, Mondadori, 2008, p. 33.
e di Stato più grande della storia repubblicana per vastità di vedute, profondità di conoscenza del
potere e longevità, fino a quel momento, di carriera politica; forse superiore a De Gasperi la cui
esperienza era stata limitata ad una sola stagione rispetto a Moro, padre costituente e da trent'anni ai
vertici del potere; certamente superiore ad Andreotti il cui limite era e sarebbe stata sempre la
mancanza di larghezza di vedute e la volontà di limitare il proprio agire politico, spesso
diabolicamente, all'immediatezza del risultato e alla politica del giorno per giorno; sicuramente
superiore agli altri “cavalli di razza” (Fanfani, Taviani, Rumor) della scuderia democristiana.
L'uomo che uscì di casa per l'ultima volta il 16 marzo 1978 era stato un profondo conoscitore del
potere, dei suoi angoli oscuri e delle sue sfaccettature, capace di esprimersi con il linguaggio
misterioso delle élite e di elevare lo scambio di favori e di prebende, il dare e l'avere, radice antica
del potere, nell'essenza stessa dell'esistenza politica. A tutto ciò Moro non si era sottratto e aveva
coltivato il potere con dedizione, forte della sua innata capacità di mediare fino all'annullamento di
ogni contraddizione esistente e della presenza di una corte ampia e devota al punto da attribuire il
suo nome, unico caso nella storia democristiana, ad una corrente politica, “morotea” appunto,
contrapposta alla maggioranza “dorotea”10. Riconoscere in quell'uomo quello delle lettere che,
gettata la maschera delle forme e dell'apparenza, si mostrava scandalosamente pubblico nella sua
nudità, era chiedere troppo a quegli uomini.
Restano così aperti gli interrogativi: era allora una trappola quella in cui voleva attirare i comunisti
oppure Moro mirava davvero alla legittimazione del Pci quale forza di governo? Era davvero
intenzionato a ritirarsi dalla vita politica attiva oppure segretamente si preparava all'elezione alla più
alta carica della Repubblica? La politica della solidarietà nazionale da lui sostenuta era il disegno
lungimirante dello statista attento ai vantaggi generali del Paese oppure la strategia di un
capofazione impegnato a confermare la supremazia del proprio partito?11
Se non ci fosse stata via Fani presumibilmente Moro sarebbe stato un democristiano più o meno
longevo che, disquisendo tra “convergenze parallele” e “strategie dell'attenzione”, avrebbe
continuato a mediare tra gli opposti, concludendo la propria carriera con la Presidenza della
Repubblica e successivamente con un seggio di senatore a vita in quanto presidente emerito. Ma via
Fani irruppe nel corso degli eventi e portò con sé anche l'impossibilità di sciogliere gli enigmi
accennati, inchiodando Moro al suo presente, ossia quello di prigioniero politico in mano alle
Brigate rosse.
Non potendoli svelare più Moro quegli enigmi, solo la ricerca documentaria e il lavoro degli storici
potrà fornire le risposte a questi quesiti, rimasti tutt'oggi se non irrisolti quanto meno controversi.
Le prime attività di ricerca condotte dalla fine degli anni settanta e nel corso degli anni ottanta,
condizionate inevitabilmente dalla contemporanea necessità di fronteggiare l'offensiva terroristica
in corso, sono state quelle prodotte dall'inquirente giudiziario e da quello parlamentare.
Purtroppo ai fini di una ricostruzione attendibile della vicenda l'inquirente giudiziario dovette fare i
conti con l'atteggiamento processuale tenuto dai brigatisti, improntato al silenzio protettivo verso i
compagni che non erano stati individuati e che avevano partecipato, anche solo con funzioni
logistiche, alle fasi relative al sequestro, al trasbordo dell'ostaggio e alla dismissione delle armi e
delle autovetture utilizzate. Si trattava di tutta una serie di individui, tra cui i due componenti il
commando brigatista in azione in via Fani a bordo di una moto Honda, che probabilmente non sono
mai entrati in altre vicende sanguinose o comunque mai sono stati chiamati in giudizio per
rispondere, seppur tardivamente, delle proprie responsabilità.
L'inquirente parlamentare si trovò invece a fare i conti con le conflittualità e i condizionamenti di
carattere politico, provenienti dai partiti del cosiddetto “arco costituzionale”, che costituirono, come
disse Leonardo Sciascia che di quella Commissione fece parte in quota radicale, “una grave
remora” e causarono una “incommensurabile perdita di tempo”12.
A queste difficoltà si aggiungano quelle derivanti dalla “tradizionale predisposizione italiana ad

10 Cfr. S. Grassi, Il caso Moro..., op. cit., pp. 463-4.


11 Cfr. Andrea Colombo, Un affare di Stato. Il delitto Moro e la fine della Prima Repubblica, Milano, Cairo ed., 2008,
p. 67.
12 Cfr. L. Sciascia, L'affaire Moro..., op. cit., p. 173.
addossare la colpa delle proprie sofferenze a diavoli stranieri”13, per descrivere, con le parole usate
dall'ex ambasciatore americano in Italia Gardner, il clima politico nazionale e la tentazione, sempre
agente, di attribuire volontà ed etero-direzione delle Brigate rosse e dei fenomeni terroristici italiani
in generale ad entità misteriose, quasi sempre straniere, operanti per destabilizzare l'Italia. Essendo
il quadro politico internazionale del tempo poi quello della “guerra fredda”, ne conseguiva che, a
seconda della cultura politica di riferimento dell'opinionista di turno, i mandanti occulti venivano a
fasi alterne individuati tanto ad ovest quanto ad est del muro di Berlino e talvolta persino in
entrambi i blocchi.
Subordinata a questa chiave interpretativa si è sviluppata una ulteriore lettura del caso Moro,
tendente ad inquadrare la tragica vicenda all'interno di un lungo e doloroso complotto avviato nel
1964 con i progetti “golpisti” del generale De Lorenzo e conclusosi nel dicembre 1984 con
l'attentato dinamitardo al rapido 904. In quest'ottica il sequestro di Moro e la sua eliminazione
sarebbero stati consumati da Licio Gelli e dalle forze piduiste per far fallire lo storico incontro tra le
masse cattoliche e socialiste-comuniste ed imprimere una diversa svolta al corso della politica
italiana, che nei decenni successivi si sarebbe incentrata prima sulla figura di Bettino Craxi, negli
anni ottanta, e poi su quella di Silvio Berlusconi a partire dagli anni Novanta14.
In ultimo, il rinvenimento “a rate” degli scritti di Aldo Moro dalla “prigione del popolo” 15 ha
contribuito ulteriormente a rallentare il lavoro degli storici su questi documenti, impedendo per
lungo tempo la possibilità di verificare il costituirsi e il fluire del pensiero del loro autore, e
contemporaneamente ha consentito che determinate versioni di comodo si cristallizzassero per
lungo tempo al punto da assurgere a verità parallele che non si piegano neppure dinanzi
all'evidenza. Queste difficoltà per lo storico nel raccogliere, ordinare e stendere la sola materia
necessaria, al netto di quel coacervo di misteri e anti-misteri assurto nel tempo ad un vero e proprio
genere saggistico-letterario-cinematografico, hanno consentito per numerosi anni che il campo delle
pubblicazioni fosse dominato dal fronte “cospirazionista”, con un ruolo di primissimo piano
ricoperto dall'ex senatore comunista Sergio Flamigni 16, già membro della Commissione Moro e
negli ultimi anni dall'ex magistrato Ferdinando Imposimato 17, giudice istruttore in uno dei primi
processi Moro, a tutto discapito di coloro che sostenevano che quanto accertato dalla magistratura e

13 Cfr. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall'ambasciatore americano a Roma (1977-
1981), traduzione di Aldo Piccato, Milano, Mondadori, 2004, pp. 229-230.
14 Quella del lungo complotto, dei mandanti internazionali, delle complicità italiane e delle loro finalità ultime e
inconfessabili è assunta ormai da tempo ad una vera “scuola di pensiero” capace di resistere al tempo e ad ogni
prova contraria e di riprodursi e moltiplicarsi alla stregua di una mitologica idra dei tempi moderni. Basti pensare
che è questa l'ottica in cui si è mossa per molti anni la Commissione Stragi, in particolare, ma non solo durante la
presidenza del senatore Giovanni Pellegrino; cfr. Paolo Cucchiarelli, Aldo Giannuli, Lo stato parallelo. L'Italia
oscura nei documenti e nelle relazioni della Commissione Stragi, Roma, Gamberetti, 1997; Giovanni Fasanella,
Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000.
Ma sull'onda lunga della teoria del «doppio stato» si sono mossi anche studiosi quali Nicola Tranfaglia, Un capitolo
del «doppio stato». La stagione delle stragi e dei terrorismi, in Francesco Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia
repubblicana, vol. III, L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, tomo II, Istituzioni, politiche, culture,
Torino, Einaudi, 1997, pp. 63 e sgg.
15 Gli scritti di Aldo Moro prigioniero oggi conosciuti sono 97 testi, tra lettere, versioni differenti di alcune di esse,
testamenti, biglietti e un promemoria; ad essi si affianca il copioso manoscritto conosciuto come “memoriale”.
Questa ingente mole di documenti ci è pervenuta in tre momenti differenti: durante il sequestro, il 1° ottobre 1978 e
il 9 ottobre 1990, questi ultimi entrambi nel covo di via Monte Nevoso a Milano; e con tre distinte modalità di
trasmissione: originali manoscritti e autografi, dattiloscritti e non firmati, fotocopie di manoscritto.
16 Le opere dedicate all'argomento da Sergio Flamigni sono, in ordine di pubblicazione: Id., La tela del ragno: il
delitto Moro, Roma, Edizioni Associate, 1988; Milano, Kaos edizioni, 1993; Id. «Il mio sangue ricadrà su di loro».
Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Milano, Kaos edizioni, 1997; Id., Convergenze parallele: le Brigate
rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Milano, Kaos edizioni, 1998; Id., Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto
Moro, Milano, Kaos, 1999; Id. La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario
Moretti, Milano, Kaos edizioni, 2004; Id., Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Milano, Kaos
edizioni, 2006; Id. (a cura di), Dossier delitto Moro. La strage di via Fani e il sequestro del leader Dc secondo le
Commissioni parlamentari d'inchiesta, Milano, Kaos edizioni, 2007.
17 Oltre il già citato volume di Imposimato, segnaliamo Id., Sandro Provvisionato, Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo
Moro. Il giudice dell'inchiesta racconta, Chiarelettere, Milano, 2008.
ricostruito dalle commissioni parlamentari d'inchiesta fosse sufficiente a spiegare il sequestro e la
morte di Moro, a parte alcuni aspetti poco chiari ma del tutto secondari18.
Non che molti di questi contributi non meritino rispetto e attenzione scientifica; anzi, va
riconosciuto al senatore Flamigni l'avere intuito per primo, o tra i primi, tanto l'esistenza di almeno
un quarto carceriere (oltre ai tre precedentemente individuati), circostanza rivelatasi esatta nel 1993
con l'individuazione di Germano Maccari, fino ad allora sottrattosi alla giustizia; quanto l'avere
sostenuto a gran voce l'incompletezza degli scritti di Moro rinvenuti nel 1978, circostanza anche
questa risultata vera nell'ottobre del 1990 con l'ultimo, e forse il più importante rinvenimento di
questi testi. Il limite però della letteratura “cospirazionista” è stato quello di caricare di eccessive ed
inverosimili aspettative i punti controversi, elevandoli a presunti misteri, al punto che quando le
intuizioni invero risultarono felici, la verità tanto ricercata, nello svelarsi, faticò ad affermarsi
perché non risultava più in linea con le aspettative nel frattempo accumulatesi19.
A partire dagli anni novanta il filone “cospirazionista” è stato affiancato da quello della
“memorialistica”, con un ruolo di primissimo piano svolto dagli ex-brigatisti 20, nonché da uomini
politici, religiosi21, collaboratori e familiari del rapito22, tutti con valide ragioni per diluire nel tempo
e nelle pubblicazioni i ricordi e le ammissioni che nelle sedi opportune, temporalmente più vicine
agli eventi, si annebbiavano e sfumavano.
In ogni caso, la lunga durata di questa polemica è il sintomo di un'insoddisfazione e di un problema
di fondo e il modo migliore per porre fine alle "dietrologie" sarebbe quello di definire una verità
storica credibile sulla vicenda.

18 Chi scrive invita alla riflessione sulla contraddizione logica di questa stucchevole contrapposizione: coloro che
ritengono insoddisfacenti le verità ufficialmente accertate per via giudiziaria e parlamentare, ossia Flamigni e
Imposimato, hanno la responsabilità di avere contribuito a formare buona parte delle certezze del fronte opposto. A
questa riflessione si potrebbe maliziosamente aggiungere che se ci si fosse adoperati a svelare per tempo questi tanti
misteri (in quel tempo in cui si era nel pieno dell'attività professionale e delle possibilità di carriera) forse oggi se ne
adombrerebbero di meno. É plausibile pensare che la storia, economicamente parlando, venda e renda meno del
romanzo?
19 Quando nel 1993 venne individuato Germano Maccari quale quarto carceriere di Moro in via Montalcini a Roma, il
fronte “cospirazionista” anziché registrare una vittoria alimentò una delusione che presto si trasformò in incredulità
riguardo all'assenza di un presunto “grande vecchio” e alla presenza, al suo posto, di questo borgataro di Centocelle.
Cosa ancora più strana è che, pur essendo stata dimostrata la partecipazione di Maccari al di là di ogni ragionevole
dubbio, si continui ancora oggi a dubitare del suo ruolo nella vicenda adombrando la copertura di altri misteriosi
personaggi; cfr. Stefania Limiti, Alessio Casimirri stava per raccontare qualcosa sul caso Moro, ma fu bruciato,
comedonchisciotte.org/site/modules.-php?name=News&file=article&sid=10951, 15 ottobre 2012; Alessandro
Forlani, La zona franca. Così è fallita la trattativa segreta che doveva salvare Aldo Moro , prefazione di Filippo
Ceccarelli, Roma, Castelvecchi, 2013, pp. 254-6.
20 Le pubblicazioni di memorie e riflessioni dei brigatisti coinvolti direttamente nella vicenda Moro utili per ricavarne
informazioni sono ad oggi le seguenti: Valerio Morucci, Perché le br uccisero Moro, in L'Espresso, 30 settembre
1984; Silvana Mazzocchi, Nell'anno della tigre: storia di Adriana Faranda, Milano, Baldini e Castoldi, 1994; M.
Moretti, Brigate Rosse..., op. cit.; Barbara Balzerani, Compagna Luna, Milano, Feltrinelli, 1998; Anna Laura
Braghetti, Paola Tavella, Il prigioniero, (I ed. Milano, Mondadori, 1998), Milano, Feltrinelli, settembre 2003; V.
Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Casale Monferrato, Piemme, 1999; Giovanni Bianconi, Mi dichiaro
prigioniero politico. Storia delle Brigate rosse, Torino, Einaudi, 2003 (contiene i ricordi di Bruno Seghetti e
Germano Maccari); V. Morucci, Via Fani, in «Accattone. Cronache romane», III, 2003; Prospero Gallinari, Un
contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Milano, Bompiani, 2006; Aldo Grandi,
L'ultimo brigatista, Milano, Bur, 2007 (contiene i ricordi di Raffaele Fiore).
21 Le memorie e i ricordi ruotano intorno ai tentativi di instaurare contatti con le Brigate rosse e avviare una trattativa
che prevedesse, dietro pagamento di una fortissima somma di denaro, il rilascio dell'ostaggio entro le mura vaticane
o comunque a religiosi. Segnaliamo in merito: Anna Chiara Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia
degli anni di piombo, prefazione di Gian Carlo Caselli, Milano, Rizzoli, 2010; Pasquale Macchi, Paolo VI e la
tragedia di Moro. 55 giorni di ansie, tentativi, speranze e assurda crudeltà, Milano, Rusconi, 1998.
22 Ad eccezione della figlia Anna (oltre che della vedova di Moro, signora Eleonora Chiavarelli), gli altri tre figli di
Moro hanno scritto libri di memorie e ricordi della figura paterna: Maria Fida Moro, La casa dei cento natali,
Milano, Rizzoli, 1982; Id., In viaggio con mio papà, Milano, Rizzoli, 1985; Id. (a cura di), La nebulosa del caso
Moro, Milano, Selene, 2004; Agnese Moro, Un uomo così, Milano, Rizzoli, 2003; Giovanni Moro, Anni Settanta,
Torino, Einaudi, 2007. Sempre nell'ambito ristrettissimo dei Moro, va segnalato anche il testo scritto dal fratello
magistrato dell'uomo politico: Alfredo Carlo Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Roma,
Editori Riuniti, 1998.
Qualche spiraglio in questa direzione si è aperto a partire dai primi anni del XXI secolo grazie alla
possibilità per il pubblico studioso di accedere ad un numero sempre crescente di documenti fino a
quel momento sconosciuti, provenienti dalle fonti più varie: archivi dei servizi segreti italiani e
stranieri, archivi dei partiti politici (in particolare Dc e Pci) 23, diari di uomini politici di primissimo
piano24, raccolte di documenti e testimonianze accumulatesi nel tempo e disperse tra gli archivi
giudiziari e quelli parlamentari.
Questa mole immane di documenti, ancora in minima parte disponibile rispetto a quelli ancora
secretati, ha consentito di avviare una prima attività di ricerca che ha già prodotto il pregevole
risultato di svelare molti “presunti misteri” e di demolire definitivamente alcune false credenze che,
in assenza di documenti, si erano consolidate come verità storiche.
Questo percorso di recupero del tempo perduto da parte di storici e ricercatori è stato scandito da
alcune tappe significative. Una prima tappa è rappresentata dalla decisione assunta dalla
Commissione Stragi di rendere pubblici e consultabili tutti i documenti da essa raccolti e formatisi
nel tempo, in particolare durante il periodo 1998-2001 in cui l'inquirente parlamentare si occupò
quasi esclusivamente del caso Moro. Sono così emerse, nel panorama della pubblicistica
specializzata, due testi ad opera del documentarista Vladimiro Satta che, forte della sua esperienza e
conoscenza di documenti degli archivi della Commissione Stragi, ha ripulito il campo dai tanti
misteri che si erano sovrapposti nel corso del decennio precedente25.
Contemporaneamente venivano declassificati un numero sempre maggiore di documenti di
provenienza americana26, e della Cia in particolare, ed uscivano in Italia nel 2004 a stampa le
memorie dell'ex-ambasciatore americano Richard N. Gardner, che facendo il paio con l'altrettanto
analogo comportamento di apertura degli archivi tenuto dai paesi dell'ex-Patto di Varsavia e del
Kgb, hanno contribuito a delineare in misura meno romanzesca il reale atteggiamento delle
amministrazioni americana e sovietica nei confronti della politica italiana e in particolare
dell'attività svolta da Aldo Moro, molto meno ostile di quanto finora dipinto dai “cospirazionisti”27.

23 Per quanto riguarda la Direzione del Pci cfr. Luciano Barca, Cronache dall'interno del vertice del PCI, 3 voll.,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; i verbali delle riunioni della dirigenza comunista nei giorni del sequestro Moro,
conservati dall'Istituto Gramsci, sono stati pubblicati in tre puntate dal settimanale L'Espresso, a partire dal numero
uscito l'11 maggio 2000; infine per quanto riguarda gli appunti e le note riservate che Antonio Tatò scrisse a Enrico
Berlinguer, segretario del Pci tra il 1969 e il 1984, cfr. Caro Berlinguer, con saggio introduttivo di Francesco
Barbagallo, Torino, Einaudi, 2003.
24 Tra le tante memorie e riflessioni qui ci interessa sottolineare, per la carica di presidente del Senato che ricopriva in
quella primavera del 1978 e per l'indiscusso peso politico all'interno della direzione della Democrazia cristiana, gli
stralci delle pagine dei diari di Amintore Fanfani relative ai giorni del sequestro Moro che furono anticipate e
pubblicate dal quotidiano La Stampa il 19 marzo 2000.
25 Facciamo riferimento qui solo alle due opere a stampa di Vladimiro Satta, di cui pregevoli risultano anche i tanti
contributi presenti, ma non solo, nella rivista Nuova Storia Contemporanea: Id., Odissea nel caso Moro. Viaggio
controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, prefazione di Giovanni Sabbatucci, Edup
edizioni, Roma, 2003 e Id., il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.
26 In Italia molti documenti secretati dall'amministrazione americana sono apparsi sulle pagine di due grandi quotidiani
nazionali, il Corriere della sera e La Stampa. Per quanto riguarda il primo giornale, ci riferiamo agli articoli firmati
da Ennio Caretto intitolati «Berlinguer? Un artista di partito». Firmato CIA pubblicato l'8 settembre 2003 e
Contrordine americani, il pericolo non è rosso apparso nel numero del 18 dicembre 2003. Per quanto riguarda
l'attività di pubblicazione svolta dal quotidiano torinese, a cura dei giornalisti Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari,
questa si sviluppò in ben sei uscite nel settembre 2003. I due giornalisti sono autori di un volume che raccoglie i loro
articoli e altra documentazione reperita negli USA: L'Italia vista dalla CIA, Roma-Bari, Laterza, 2005.
27 L'ipotesi che dietro la vicenda Moro vi fossero la mano del Kgb e il perseguimento di interessi sovietici, trascurata
dalla pubblicistica sviluppatasi a partire dal 1978 rispetto a quella cosiddetta “pista atlantica”, dinanzi ad una attenta
riflessione storico-politica perde ogni efficacia. Sarebbe bastato leggere i commenti apparsi sul principale organo di
stampa sovietico, la “Pravda” (tradotti in italiano nell'edizione de L'Unità del 24 marzo 1978), all'indomani del
rapimento di Moro per comprendere come il suo sequestro fosse considerato una vera sciagura per gli interessi
sovietici dato che nell'U.R.S.S. tutti conoscevano Moro “come un attivo partigiano dello sviluppo delle relazioni
d'amicizia” tra l'Italia e Mosca. La solidità di rapporti e relazioni internazionali esistenti tra l'amministrazione
sovietica e l'Italia che “migliorarono quando a capo del Governo ci fu Aldo Moro, persona con cui i capi sovietici
ritenevano di poter trattare” è attestata anche da qualificati osservatori stranieri quali lo storico britannico Andrew e
l'ex-agente segreto russo Gordievskij anche se le loro affermazioni hanno sempre registrato una scarsa eco nel
dibattito e nella pubblicistica del nostro paese; cfr. C. Andrew, O. Gordievskij, La storia segreta del KGB, Milano,
Inoltre, a cura del professor Agostino Giovagnoli, veniva edita la prima storia politico-istituzionale
della vicenda Moro, basata sui documenti dell'archivio della Democrazia cristiana e di altri fondi
archivistici di partiti e di uomini politici28.
Quanto ai testi scritti durante il sequestro da Moro, nel 2008 a cura dello storico Miguel Gotor è
stata pubblicata la prima edizione critica dell'epistolario di Moro che, rispetto ai precedenti lavori
realizzati da Flamigni e da Tassini29, ha consentito, tra le altre inedite scoperte su cui torneremo, la
ricostruzione di quell'ordine di unità e consequenzialità, condizione necessaria tanto per la
demolizione dell'interdizione imposta dagli ex brigatisti che ebbero la possibilità di decidere
autonomamente cosa rendere pubblico, cosa consegnare riservatamente, cosa censurare e cosa far
scomparire per sempre, contribuendo così a formare l'immagine del prigioniero presso l'opinione
pubblica durante il sequestro; quanto per aggirare quelle ragioni di “riservatezza”, se non di
opportunità, che indussero familiari, amici del rapito ed esponenti politici destinatari delle lettere a
renderle note in tempi e modalità differenti, spesso a distanza di anni dal loro ricevimento.
All'interno di questo clima non interessato a fornire versioni alternative ma a chiarire, sulla scorta
dei documenti e delle evidenze eziologiche, aspetti poco chiari o travisati che sono stati rivestiti di
aloni misteriosi, si colloca il presente lavoro che è stato stimolato da una domanda che l'autore si è
posto e che non ha trovato risposta o riscontro in nessuno dei seppure numerosi atti giudiziari e
audizioni condotte dall'inquirente parlamentare: se, al momento del sequestro, l'uomo politico fosse
o meno in possesso di certi documenti e effetti personali: in particolare di un'agenda o rubrica, o
qualcosa di simile. E, in caso contrario, come facesse Moro ad essere in possesso, durante la
prigionia, di un numero così elevato di numeri di telefono e indirizzi; tanto più che trattavasi di
persone che, come gli studenti universitari, i giovani amici che lo accompagnavano alla messa
domenicale, gli assistenti universitari, certamente non erano quotidianamente oggetto di telefonate
da parte dell'uomo politico al punto da giustificarne una memorizzazione per consuetudine.
Lo scopo della presente ricerca diventa dunque quello di fornire elementi utili a confermare che:
1) durante il sequestro dell'onorevole Moro si aprì sicuramente almeno una via di comunicazione da
e per la “prigione del popolo”, diversa da quella finora ipotizzata;
2) questo “canale di ritorno” che si cercherà di individuare funzionò, e consentì la consegna in
un'occasione di un'agendina (o elenco) con un estratto dei contatti telefonici e degli indirizzi di
persone vicine all'uomo politico prigioniero a cui egli avrebbe fatto riferimento per far giungere le
sue lettere a destinazione;
3) questa via di comunicazione in entrambi i sensi di marcia si attivò non più tardi della prima
decade di aprile, quindi senz'altro prima di quanto fino ad ora ipotizzato;
4) le notizie relative ad un transito di scritti verso la prigione, proveniente o da ambienti familiari o
dallo studio di Moro in via Savoia, che tanto irritarono l'allora ministro Cossiga, sono fondate ma
riconducibili appunto a questo documento che entro la prima decade di aprile venne fatto pervenire
al prigioniero.
“Difficile era la ricerca – scriveva Tucidide - perché quelli che avevano partecipato ai fatti non
dicevano tutti le stesse cose sugli avvenimenti ma parlavano a seconda del loro ricordo o della loro
simpatia per una delle due parti”30.

Rizzoli, p. 640. il volume è stato dai due autori pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 1990 mentre in
Italia è apparso tradotto in diverse edizioni.
28 Cfr. Agostino Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2005.
29 Facciamo riferimento al già citato S. Flamigni, Gli scritti di Aldo Moro..., op.cit. e ad Eugenio Tassini, Ultimi scritti,
Piemme, Casale Monferrato, 2003.
30 Tucidide, Le storie, I, 21-22. Trent'anni dopo i fatti di quella primavera del 1978 Corrado Guerzoni, uno dei
protagonisti di quei giorni, rilasciò una serie di interviste esattamente il 16 marzo e il 9 maggio 2003 ad Alessandro
Forlani e a Francesco Graziani, ed il 10 ottobre 2007 e il 4 marzo 2008 al solo Alessandro Forlani. Guerzoni in una di
quelle occasioni affermerà di conoscere “dettagli” che non intende minimamente rivelare in quanto la loro conoscenza
non modificherebbe “il significato politico o giudiziario del delitto”; questi “aspetti” metterebbero però “in luce un
tratto meno disumano dell'atteggiamento dei brigatisti”. I contenuti delle interviste sono stati utilizzati dal giornalista
Forlani per la realizzazione del suo A. Forlani, La zona franca. Così è fallita la trattativa segreta che doveva salvare
Aldo Moro, prefazione di Filippo Ceccarelli, Roma, Castelvecchi, 2013, pp. 161-2.
Le borse del presidente
Chi scrive tocca malvolentieri l'argomento relativo alle cinque borse che quotidianamente
accompagnavano gli spostamenti del presidente democristiano e i suoi contenuti. Il fastidio,
doloroso ma come vedremo necessario, nasce dal rappresentare, quello delle borse, uno dei luoghi
di maggiore esercizio della pubblicistica “cospirazionista”. Il semplice parlare di “mistero delle
borse scomparse”31 rappresenta già un inganno terminologico in quanto le borse mancanti non sono
“scomparse” o svanite nel nulla, terminologia questa che possiamo concedere all'Andreotti che
annota riflessioni nel suo diario alla giornata del 2 aprile 1978 32, ma che diventa inaccettabile se
protratta per decenni. Le due borse, sic et simpliciter, furono prelevate la mattina del 16 marzo 1978
dal commando brigatista in azione, e in particolare da Valerio Morucci al quale, in sede di
pianificazione, era stato assegnato questo compito; la circostanza fu confermata dallo stesso
Morucci nel luglio 1984, allorché depose davanti al giudice istruttore Ferdinando Imposimato, al
quale appunto dichiarò di essere stato lui, nonostante un iniziale momento di esitazione e sconcerto,
ad occuparsi del prelevamento delle due borse di pelle del presidente democristiano e di averle
prima deposte nella Fiat 128 blu alla cui guida si pose per allontanarsi da via Fani e
successivamente affidate a Mario Moretti allorché questi si mise alla guida del furgone Fiat 850 in
cui era rinchiuso, all'interno di una cassa di legno, Aldo Moro33.
Alla stessa stregua il chiedersi dove materialmente siano finite le due borse, interrogarsi sulla loro
sorte e sulla circostanza che esse non sono mai più state ritrovate nonostante le decine di covi
brigatisti scoperti nel tempo, per vedervi dietro qualche misterioso destinatario delle stesse,
significa elevare le due borse ad una sorta di oggetto di culto da parte dei brigatisti, da portare in
processione da covo a covo, da città in città, quasi fosse uso dei brigatisti trasmettersi quali lasciti
alle nuove generazioni brigatiste oggetti e non documenti. Prova ne è al riguardo che tra i materiali
caduti nelle mani degli inquirenti nel 2004 nell'ambito degli arresti che colpirono il nuovo gruppo
brigatista costituitosi negli anni di fine XX secolo, non sono stati rinvenuti oggetti fisici ma
documenti ad uso interno, anche relativi al caso Moro, tramandati dalle vecchie alle nuove Br e
archiviati da queste ultime in formato elettronico34.
Poiché ai fini del presente lavoro è importante appurare cosa effettivamente ci fosse all'interno delle
borse per comprendere di cosa il prigioniero potesse disporre tramite i suoi carcerieri e di cosa
necessitasse, faremo riferimento non tanto alle supposizioni di chi quelle borse non le ha mai viste,
e possibilmente nemmeno mai frequentato il loro proprietario, ma alle dichiarazioni in merito ai
contenuti rilasciate, in sede giudiziaria o parlamentare, da chi quotidianamente era in strettissimo
contatto con Moro, ossia la moglie Eleonora Chiavarelli (e i familiari) e il capo della sua segreteria
politica e suo assistente universitario alla Facoltà di Scienze politiche dell'Università La Sapienza di
Roma, avvocato Nicola Rana (e gli altri collaboratori).
Secondo la dichiarazione resa da Nicola Rana in Commissione Moro, era abitudine dell'onorevole
Moro accompagnare i propri spostamenti con il conforto di cinque borse. Di queste, due erano
destinate ad accogliere libri e pubblicazioni varie e spesso, ma non sempre, trovavano posto nel
vano portabagagli; altre due invece le teneva sempre sotto stretta sorveglianza in quanto
contenevano una i farmaci di cui quotidianamente bisognava e l'altra gli atti urgenti della giornata o
i documenti riservati; la quinta, infine, destinata a raccogliere notiziari su questioni estere, non era
sempre tra quelle sotto rigido controllo visivo e alternativamente trovava posto tanto nel

31 Così intitola il suo saggio Myung Soon Terranera, Il mistero delle borse scomparse, in Maria Fida Moro (a cura di),
La nebulosa del caso Moro, Selene edizioni, Milano, 2004. Dove siano finite le borse s'interroga S. Flamigni, La
tela del ragno..., 1988, op. cit., pp. 29-30.
32 Cfr. Giulio Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Milano, Rizzoli, 1981, p. 199 (2 aprile 1978).
L'uomo politico testualmente annotava la notizia secondo la quale “Moro avesse in macchina cinque borse, due delle
quali sono scomparse” affermazione comprensibile dato che l'allora presidente del Consiglio non ne conosceva la
sorte e s'interrogava sui contenuti delle stesse: “Una conteneva – pare – medicinali: e l'altra? C'è chi parla di
documenti, ma sembra che vi fossero invece tesi di laurea perché dopo la seduta alla Camera Moro pensava di
andare all'Università”.
33 A riguardo cfr. F. Imposimato, S. Provvisionato, Doveva morire..., op. cit., p. 61.
34 Cfr. ANSA, Terrorismo: «file» Br, anche documenti su sequestro Moro, del 24 ottobre 2004.
portabagagli quanto a bordo della vettura35. La testimonianza di Rana risulta autorevole non solo per
la quotidiana vicinanza all'uomo politico ma anche perché Rana, per conto di Moro, si occupava
anche del disbrigo delle faccende più quotidiane al punto che Cossiga arrivò a dire che si occupasse
persino dei cambi di biancheria del presidente democristiano36.
Chiarito cosa generalmente contenevano le cinque borse del presidente, occorre ora cercare di
stabilire cosa contenessero specificatamente quel 16 marzo 1978, anche facendo riferimento agli
impegni che aveva in agenda l'uomo politico democristiano che, ricordiamo, era anche docente
universitario37.
La giornata del 16 marzo per Aldo Moro si presentava ricca di impegni 38: il primo era previsto alla
Camera dei deputati per la presentazione del quarto governo Andreotti alla cui formazione e al
conseguimento del necessario appoggio esterno del Pci aveva contribuito non poco nelle settimane
precedenti, al punto da dedicarsi alle ultime limature fino alla sera precedente 39; era poi atteso dai
suoi studenti che quel giorno avrebbero dovuto discutere le loro tesi di laurea alla Facoltà di Scienze
politiche dell'Università “La Sapienza” di Roma, passaggio a cui l'uomo politico, sempre presente ai
suoi impegni accademici, non intendeva minimamente mancare, anche a costo di qualche ritardo;
era anche possibile che prima di andare alla Camera dei deputati l'uomo politico volesse fare una
sosta al Centro Studi Dc “Alcide De Gasperi” alla “Camilluccia”, per incontrare il segretario della
Dc Benigno Zaccagnini, intenzionato a rassegnare formalmente le dimissioni40 subito dopo il voto
35 Cfr. S. Grassi, Il caso Moro..., op. cit., p. 600.
36 L'affermazione di Cossiga è contenuta nel dialogo-intervista alla base del volume F. Cossiga, C. Sabelli Fioretti,
L'uomo che non c'è, Reggio Emilia, Aliberti, 2007 ed è riportata da A. Forlani, La zona franca..., op. cit., p. 166.
37 Aldo Moro dal 1963 insegnava Istituzioni di diritto e Procedura penale alla Facoltà di Scienze politiche
dell'Università “La Sapienza” di Roma, tenendo regolarmente lezione tre volte la settimana.
38 Aldo Moro esce diversi minuti prima delle ore 9 dalla sua abitazione di via del Forte Trionfale 79 e vedendolo
comparire dall'ascensore, il maresciallo Leonardi, che stava fruendo del telefono presente in portineria per parlare
con la moglie, chiude rapidamente la conversazione e aprendogli la portiera della vettura lo fa accomodare come di
consueto, con accanto le diverse borse. La mattina del 30 settembre 1980 vennero ascoltate, dalla Commissione
Moro, prima la vedova Ricci e a seguire la vedova Leonardi. Quest'ultima, riguardo la telefonata intercorsa tra i
coniugi la mattina del 16 marzo 1978, quando il maresciallo Leonardi chiamò casa dalla portineria di via di Forte
Trionfale 79, dichiarò che in casa loro avevano due telefoni e per questo il marito le chiese da quale apparecchio
rispondesse ma non poté completare la richiesta di andare, immaginiamo a prender qualcosa, dalla sopraggiunta
presenza dell'onorevole Moro. La telefonata s'interruppe con la promessa da parte del militare di richiamare a breve
(“ti richiamo tra cinque minuti”) la moglie. La vedova Leonardi ipotizza che il marito, che negli ultimi tempi non
riusciva ad ostentare tranquillità neanche in casa e che proprio quella mattina aveva preso ulteriori pallottole di
scorta, avesse forse “dimenticato qualche cosa degli appunti, perché quella mattina c'erano le tesi all'università ed
era lui che teneva i documenti di questi ragazzi”. La vedova continua il racconto sottolineando che però le
successive ricerche non riuscirono a sciogliere l'enigma di cosa avesse quella mattina dimenticato il maresciallo
Leonardi; cfr. Giovanni Bianconi, Eseguendo la sentenza. Roma, 1978. Dietro le quinte del sequestro Moro,
Einaudi, Torino, 2010, pp. 92-3. Per ogni buon conto la signora Moro il 22 marzo 1978 si vide recapitare a casa gli
oggetti personali del marito rinvenuti a bordo della Fiat 130, tra cui le copie delle tesi di laurea che gli studenti
avrebbero dovuto discutere quella mattina.
39 Il 15 marzo 1978, in via Chiana a Roma, poco dopo le 23, alla fioca luce di un lampione, appoggiati al cofano di
un'autovettura in sosta, due uomini parlano tra loro, in un'atmosfera più da congiurati che da collaboratori fidati dei
due più importanti esponenti politici italiani. Il funzionario parlamentare Tullio Ancora sta dettando un messaggio di
Aldo Moro a Luciano Barca, uno dei più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer. Obiettivo di quella
comunicazione notturna del presidente democristiano era quello di rassicurare il segretario comunista del fatto che
Moro si farà “personalmente garante che il rinnovamento andrà avanti nonostante la lista di governo che ha dovuto
tener conto di tutte le correnti della DC” esortandolo a non mutare “la linea decisa, passando sopra i nomi di alcuni
uomini”; cfr. L. Barca, Cronache dall'interno del vertice del PCI, op. cit., vol. II, pp. 720-1.
40 Zaccagnini la sera del 15 marzo si era incontrato con il deputato e direttore de Il Popolo, Corrado Belci, e con gli
altri suoi fedelissimi proprio nella sede distaccata di via della Camilluccia confessando loro la volontà di dimettersi
a fiducia ottenuta dal governo ritenendo la composizione del nuovo governo incompatibile con l'indirizzo di
rinnovamento del partito che voleva dare alla propria segreteria; cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit.,
p. 9. Questo probabile incontro mattutino con Zaccagnini alla Camilluccia ha alimentato una serie di misteri perché,
se effettivamente conosciuto in anticipo dai brigatisti, avrebbe dato loro la certezza che la mattina del 16 marzo il
corteo di autovetture avrebbe percorso obbligatoriamente via Fani. Il primo riferimento in ordine cronologico a
questo incontro in cui “secondo alcune voci Zaccagnini lo attende per presentargli ufficialmente le dimissioni da
segretario politico” è contenuto nella prima edizione dell'istant book di Gustavo Selva ed Eugenio Marcucci (Il
martirio di Aldo Moro. Cronaca e commenti sui 55 giorni più difficili della Repubblica , Bologna, Cappelli, maggio
di fiducia delle Camere al nuovo governo Andreotti nei cui confronti i malumori non provenivano
solo dal fronte comunista41; ma prima di ogni altro impegno sarebbe andato in piazza dei Giochi
Delfici alla chiesa di Santa Chiara, dove solitamente non manca mai di fermarsi per la messa o
anche solo per qualche minuto di raccoglimento prima di affrontare ogni nuova giornata.
Oltre che dalle inseparabili cinque borse, e dal consueto fascio di quotidiani e riviste, il presidente
democristiano quella mattina era appesantito anche da una cartellina di cartone di colore verde
chiaro, con l'intestazione “Democrazia cristiana”, rigonfia di fogli, e da un'altra di colore rosa,
contenente altri fascicoli, come evidenziano le foto scattate dalle forze dell'ordine e dai fotografi
subito dopo l'agguato.
Circa quindici minuti dopo l'agguato, quando ormai l'allarme era ampiamente scattato e la zona era
letteralmente gremita di forze dell'ordine, giornalisti, autorità, passanti, testimoni e curiosi di ogni
risma, senza che ci si adoperasse da subito nelle più elementari misure di restrizione della scena del
crimine, giunse in via Fani anche la moglie di Moro, signora Eleonora Chiavarelli, proveniente
dalla vicina chiesa di S. Francesco 42, per chiedere notizie del marito. La donna vide i corpi degli
uomini uccisi e riconobbe i volti a lei familiari delle guardie di scorta. Avvicinandosi alla vettura di
Moro notò che mancavano delle borse e che il sangue degli uccisi aveva lasciato un contorno netto
attorno al punto in cui, di solito, esse venivano collocate43. Questo particolare, riferito dalla moglie
di Moro e ribadito sia in sede giudiziaria sia in audizione davanti la Commissione Moro, ha
alimentato nel tempo tutta una serie di dubbi e misteri dal momento che la testimonianza della
vedova Moro riguardo la loro assenza contraddiceva le prove fotografiche che invece
immortalavano le due borse proprio nello spazio tra le due file di sedili della vettura.
Chi scrive ritiene senza dubbio alcuno che, nelle fasi immediatamente successive alla strage e
all'accorrere delle prime autorità sul posto, le due borse in oggetto e una terza superstite trovata
fuori dalla vettura vennero prelevate per verificarne l'eventuale contenuto e subito nuovamente
riposte nel luogo originario per i rilievi che sarebbero seguiti ad opera della polizia scientifica,
aprendo così una finestra temporale in cui le borse di fatto non furono viste dalla signora Moro nel
luogo dove dovevano certamente essere, ma vennero puntualmente immortalate tra le due file di
sedili dai primi scatti fotografici effettuati successivamente alla strage.
Quello del prelevamento delle borse di una figura di rilievo vittima di attentato, dell'osservazione
del suo contenuto e della periodica scomparsa di documenti, agendine e quant'altro è un copione
che accompagna la storia italiana, dalla strage di via Fani del marzo 1978 a quella di via D'Amelio
del luglio 1992, vittime il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, passando per lo
svuotamento della cassaforte del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa nel settembre 1982 e per la
1978, p. 8). Ma nella seconda edizione dello stesso volume, le “voci” si disperdono e del passaggio alla Camilluccia
resta solo un'ipotesi senza scopo (ottobre 1978, p. 14). Il riferimento a questo incontro e alla possibilità che le Br ne
fossero venute a conoscenza, intercettando i telefoni della famiglia, era stato avanzato anche dalla vedova Moro nel
corso del primo processo Moro mentre gli ambienti investigativi guidati dal generale Dalla Chiesa ritenevano che
l'informazione fosse indirettamente “filtrata” alle Br dagli ambienti vicini a Moro, come fece intendere il pentito
storico Patrizio Peci nei verbali delle sue confessioni; cfr. BR sapevano di incontro il 16 con Zaccagnini?, ANSA, 16
marzo 2008.
41 Andreotti annotò nel proprio diario nella tarda serata del 15 marzo che la disputa sui sottosegretari aveva prodotto
ulteriori strascichi polemici all'interno del partito democristiano che lo avevano costretto a due ore e mezza di opera
di persuasione “per convincere tutti i ministri ad accettare la lista”, a riprova, a suo avviso, che molti nel partito non
si stessero rendendo conto “delle difficoltà che incontreremo alla Camera”; cfr. G. Andreotti, Diari..., op. cit., p. 191
(15 marzo 1978). La stessa contrarietà per il comportamento dei notabili della DC, per la nuova polemica sulla lista
dei ministri e dei sottosegretari, Aldo Moro la confessava, quella sera del 15 marzo, a cena discutendo con il figlio
Giovanni; cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit., p. 10.
42 La notizia alla signora Eleonora Chiavarelli in Moro venne data dal parroco della chiesa di S. Francesco, padre
Quirino Di Santo, dove la signora si recava tutti i giovedì mattina per conferire con i genitori dei bambini che
seguivano le sue lezioni di catechismo.
43 Nel corso dell'audizione davanti alla Commissione Moro svoltasi il 1° agosto 1980, resocontata in CM, vol. 4, la
signora Eleonora disse che le due borse mancavano già al momento del suo arrivo sul posto, avvenuto circa quindici
minuti dopo la sparatoria (p. 28); che stando alle conversazioni da lei successivamente avute con gli abitanti del
quartiere, nessuno avrebbe notato il prelevamento (p. 15); che, benché ci fosse “un caos tale” che “chiunque poteva
portarsele via”, ella “ebbe la sicurezza assoluta che erano [stati] i brigatisti, o chi per loro” quando le furono
restituiti gli oggetti appartenuti al marito (p. 29); cfr. V. Satta, Odissea nel caso Moro..., op. cit., p. 361, n. 241.
manomissione dell'agenda elettronica e del pc personale del giudice Giovanni Falcone nel maggio
1992. Anche in quella rovente estate siciliana vi fu chi, incurante delle fiamme ancora vive e dei
corpi straziati e disseminati ovunque, si recò in ciò che restava della vettura di servizio del
magistrato ed ebbe cura di prelevarne la borsa e, possibilmente, ma qui si naviga tra le ipotesi,
prelevarne parte del contenuto, prima di riporla nuovamente. Sia che si agisca nel supremo interesse
dello Stato democratico (ed è lecito dubitare che tali azioni si confacciano sempre a questo supremo
interesse), sia che si ubbidisca ad altri interessi o centri di potere, in questi casi, perso il corpo (o
posto fine alla sua esistenza), si deve mettere in salvo (o far scomparire per sempre) il documento.
Una delle cinque borse fu ritrovata subito dopo la strage, a terra, abbandonata a diversi metri di
distanza dall'automobile, come dimostrano una delle fotografie scattate da Antonio Ianni, primo
fotografo ad arrivare il giorno della strage 44, e la cronaca in diretta realizzata quella mattina da
Paolo Frajese per il Tg145.
Le altre due borse, di cui una in pelle marrone chiaro con manici e una valigetta ventiquattrore
scura, appaiono nelle altre foto scattate quella mattina dal fotoreporter Attilio Cristini, allocate nello
spazio tra il sedile anteriore passeggero della Fiat 130 blu, occupato dal corpo senza vita del
maresciallo Leonardi, e i sedili posteriori, colmi di carpette, giornali, e documenti vari.
Questo ritrovamento fa supporre a chi scrive che quel giorno tutte le borse fossero al fianco del
presidente Dc e che all'atto del prelevamento, che avvenne appunto dalla parte sinistra della vettura,
dove l'uomo politico era seduto, si deve presumere che i brigatisti presero anche quella terza borsa
poi rinvenuta per strada e che questa nella concitazione della fuga sia sfuggita a Morucci, come
detto turbato e sconcertato dall'azione di cui era stato uno dei protagonisti, e rimasta abbandonata
sull'asfalto, dato che è da escludere che questa fosse stata scartata dopo una rapida perlustrazione
del suo contenuto46.
Da questa probabile presenza di tutte e cinque le borse al fianco o nelle immediate disponibilità
dell'uomo politico, acquista valore l'interrogativo posto dalla signora Moro circa l'oculata scelta
delle borse da prelevare da parte dei brigatisti i quali, evidentemente “sapevano bene, dovevano
sapere dove e come cercare, perché in macchina c'era una bella costellazione di borse” 47, oppure, e
resta pur sempre un'ipotesi valida, si affidarono semplicemente al caso.
Dinanzi quindi alla precisa domanda circa il reale contenuto delle due borse del marito prelevate,
alla Commissione Moro la signora Moro rispose che una certamente conteneva medicinali mentre
l'altra “era quella dei suoi documenti personali, dei suoi occhiali, i denari, le chiavi di casa, tutte
quelle cose che riteneva riservate e che si portava sempre dietro” 48. Sempre in quella stessa sede la
vedova Moro ebbe occasione di rispondere al parlamentare Bosco, il quale dichiarava
comprensibilmente di far fatica ad immaginare che Moro si portasse negli spostamenti “un archivio
riservato sempre con sé”, precisando che ella non possedeva “la prova che lì dentro ci fossero cose
importanti: ci poteva anche non essere niente”49.

44 La foto comparve nella Domenica del Corriere, supplemento del Corriere della Sera del 30 marzo 1978.
Imposimato parla anche di una foto scattata da un fotografo dell'Ansa che ritrae, appoggiata al marciapiede di via
Fani, poco distante l'auto di Moro, una delle borse del politico; cfr. F. Imposimato, S. Provvisionato, Doveva
morire..., op. cit., pp. 62-3.
45 Riportiamo solo la parte di nostro interesse: «Ecco la macchina con i corpi degli agenti che facevano parte della
scorta dell'on. Moro... I carabinieri stanno facendo i rilievi. (...) Ecco per terra ancora... andiamo qui a destra per
piacere... i bossoli... vedete, e poi... ancora a destra... vediamo la borsa, evidentemente la borsa di Moro.. .». Il testo
per intero è trascritto in Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Rai-Eri, Roma, 1992, pp. 270-1.
46 Anche questa borsa, di man fuggita, ha originato pagine di misteri per il semplice fatto che, compiuti i rilievi
fotografici qualcuno degli agenti della scientifica la tolse dalla strada e presumibilmente per evitare dispersioni la
ripose nel vano portabagagli della vettura dove, dimenticata, venne recuperata cinque giorni dopo; cfr. Atti del
Processo Moro (da ora in avanti ApM), fascicolo dei rilievi tecnici, foglio 4, cart.1, vol. I, fasc. 3/b, fogli 795-6.
Questa dimenticanza, al massimo sintomo di poca professionalità o zelo, diventa per alcuni “incredibile”; cfr. S.
Flamigni, La tela del ragno..., 1988, op. cit., p. 29.
47 Myung Soon Terranera, Il mistero delle borse scomparse, op. cit., p. 22.
48 CM, vol. IV, p. 4; cfr. V. Satta, Odissea nel caso Moro..., op. cit., p. 361, n. 243.
49 CM, vol. IV, p. 39; cfr. V. Satta, Odissea nel caso Moro..., op. cit., p. 361, n. 244. Di diverso avviso, riguardo
l'ipotetico contenuto delle due borse, fu invece uno dei collaboratori di Moro, il giornalista Rai Corrado Guerzoni,
che quella mattina chiamò a casa Moro per parlare con il presidente Dc ed “aggiornarlo sulla questione dello
Chi certamente conosce la verità sul contenuto delle due borse sono i brigatisti ed in particolare
Mario Moretti (che le portò nella prigione di via Montalcini), Anna Laura Braghetti, Germano
Maccari e Prospero Gallinari, che costituirono il gruppo dei quattro carcerieri di Moro.
Ne vennero inoltre senz'altro a conoscenza i brigatisti che componevano il comitato esecutivo delle
Br, Rocco Micaletto, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, riuniti in seduta permanente e
costantemente in rapporto con Moretti per la gestione del sequestro Moro, e coloro che li ospitarono
nelle basi di Firenze prima e di Rapallo successivamente.
Nel novero dei testimoni di quei contenuti vanno annoverati anche coloro che ne furono senz'altro
messi a conoscenza anche se non ebbero modo di vederli direttamente. Tra questi di certo Barbara
Balzerani, che oltre a dividere l'appartamento di via Gradoli a Roma con Moretti ed essere la sua
compagna al tempo, era la dirigente della colonna romana delle Br e poi Valerio Morucci e Adriana
Faranda, entrambi a stretto contatto con Moretti per il ruolo di “postini” di comunicati
dell'organizzazione e di lettere di Moro che rivestirono in quei 55 giorni per tutta la città di Roma.
Infine, vi sono un numero imprecisato di personaggi che, de relato, vennero a conoscenza del
contenuto delle borse seppure in modo parziale o sommario, tra cui non solo i brigatisti che ebbero
modo, nei mesi se non negli anni successivi, di parlare con i compagni interessati in prima persona
nell'esecuzione dell'operazione Moro, ma anche figure non certamente arruolate tra le Br, ma che
ebbero contatti con le aree contigue e per questo sempre informatissime sulle vicende brigatiste,
quali il giornalista Mario Scialoja. Questi al tempo risultò in più di un'occasione “informatissimo”
sulle vicende relative alle Brigate Rosse e a molti degli episodi e delle circostanze relative al
sequestro Moro e ai suoi scritti, in quanto attingeva a fonti qualificate quali Franco Piperno e Oreste
Scalzone, elementi di rilievo dell'autonomia romana e in contatto seppur sporadico con il Morucci e
la Faranda che dallo stesso movimento provenivano, e gli avvocati Eduardo Di Giovanni e
Giannino Guiso, difensori dei brigatisti sotto processo a Torino. Il giornalista, in sede di audizione
in Commissione Stragi, il 14 marzo 2000 dichiarò, dopo averlo - disse - scritto “decine di volte”,
che in quelle borse “non c'era nessun documento segreto; c'erano soltanto delle tesi di laurea, dei
medicinali e altro”50.
Il proprietario delle cinque borse, ormai prigioniero delle Br, ebbe modo diverse volte di ritornare
nelle sue lettere scritte dalla “prigione del popolo” sulla sorte delle stesse, di cui era ignaro dato che
le riteneva rimaste nella macchina dalla quale era stato prelevato.
In una delle primissime lettere che Aldo Moro scrisse alla moglie Eleonora, datata “27-3-78”,
l'uomo politico fa più di un accenno alla sorte e al contenuto delle borse. Su questa lettera, che non
risulta recapitata, ma certamente scritta immediatamente dopo quelle indirizzate alla moglie
Eleonora, al collaboratore Nicola Rana e al ministro Cossiga (a loro volta scritte probabilmente il 26
marzo 1978, domenica di Pasqua) avremo modo di ritornare successivamente, allorché parleremo
dei tentativi che Moro fece da subito per stabilire un canale di comunicazione.
Per il momento piuttosto si vogliono puntualizzare quei passaggi della lettera in cui Moro ritornava
a parlare di “alcune cose pratiche” (quali dove trovare lo stipendio e camicie da ritirare in
lavanderia) e dei suoi affetti, per poi interrompere questo ritmo cadenzato da attività domestiche e
private con l'invito, rivolto alla consorte, di rivolgersi a Rana per “cercare di raccogliere 5 borse che
erano in macchina. Niente di politico, ma tutte attività correnti, rimaste a giacere nel corso della
crisi”.
Il passaggio acquista valore perché viene sottolineato con un tratto di biro da Moro nella stesura
della lettera, come a volerne sottolineare l'importanza a dispetto dei termini “niente di politico” e

scandalo Lockheed” ma invano perché andato via appena in quel momento; cfr. intervista a Guerzoni in A. Forlani,
La zona franca..., op. cit., p. 153. Guerzoni, riguardo ai possibili documenti contenuti nelle borse, avanzò l'ipotesi
che all'interno vi fossero documenti che riguardassero l'affare Lockheed almeno “per la parte in cui era stato
coinvolto il presidente”; cfr. S. Flamigni, La tela del ragno..., 1993, op. cit., p. 37.
50 Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione
dei responsabili delle stragi. Resoconti stenografici degli atti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul
terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi (da qui in poi sintetizzato
con la formula Steno), audizione n. 65, 14 marzo 2000, p. 3039; cfr. V. Satta, Odissea nel caso Moro..., op. cit., p.
361, n. 245.
“attività correnti” con cui ne descrive sommariamente il contenuto.
Ma il passaggio successivo, dove Moro presumibilmente stava avviandosi alla descrizione del
contenuto parlando della presenza anche di “vari indumenti da viaggio”, la frase s'interrompe
bruscamente con l'ultima parola ad occupare l'angolo estremo del foglio, senza la presenza di
nessun segno d'interpunzione.
Di questa lettera non si possiede né l'originale né il dattiloscritto ma solo la fotocopia del
manoscritto, rinvenuta a Milano nel covo di via Monte Nevoso nell'ottobre 1990, e dall'analisi della
copia e dalla prassi di conservazione 51 si può certamente affermare che essa è incompleta, in quanto
senz'altro priva almeno del foglio successivo in cui l'uomo politico continuava con la descrizione
del contenuto delle borse.
In una successiva lettera al collaboratore Nicola Rana (anch'essa non recapitata ma di cui
possediamo il dattiloscritto e la fotocopia del manoscritto, di incerta datazione ma vergata intorno
alla prima metà del mese di aprile) Moro ritorna, in un esergo posto dopo la firma, sul tema delle
borse chiedendogli se sono “state recuperate delle borse in macchina” e interrogandosi se invece
non “sono state sequestrate come corpo di reato”. La lettera si chiude con il quesito rivolto al
collaboratore per sbloccare questa situazione che il prigioniero crede di stallo.
Questo insistere sulla sorte toccata alle borse:
- testimonia che l'uomo politico è all'oscuro dell'esito di questa vicenda e dello smembramento tra
casa e “prigione” delle stesse e dei suoi contenuti;
- desta curiosità, appare quasi una stonatura, in un uomo che ha appena redatto testamenti a favore
dei suoi familiari, nominato esecutori testamentari e vergato lettere d'addio per i suoi cari, come
questa in cui quasi si congeda dal suo fidato interlocutore ringraziandolo dell'affetto e della
collaborazione profusa nel passato e nella tragica vicenda presente.
Resta la circostanza che quello riportato è comunque l'ultimo riferimento conosciuto che l'uomo
politico fa alle borse, senza che si riesca da parte nostra a sapere come e quando e da chi questa
curiosità sia stata soddisfatta, se di curiosità solo si trattava.
Non potendocisi basare sulla testimonianza del diretto interessato circa il contenuto delle due borse
prelevate si dovrà necessariamente ripiegare sulla testimonianza certamente interessata dei brigatisti
che ebbero la disponibilità di questo materiale, cercando di leggere tra le righe e di cogliere al volo

51 Allo storico Miguel Gotor va attribuito il merito di avere realizzato la prima edizione critica dell'intero corpus delle
lettere dalla prigionia scritte da Aldo Moro a tutt'oggi conosciute, dal titolo Aldo Moro. Lettere dalla prigionia,
pubblicato nel 2008 a Torino per i tipi Einaudi. Questo lavoro era stato precedentemente realizzato sia da Sergio
Flamigni (Gli scritti di Aldo Moro..., op. cit.) sia da Eugenio Tassini (Ultimi scritti, op. cit.) ma entrambi gli autori
scontavano il peccato originale di non aver lavorato sugli originali o sulle fotocopie e i dattiloscritti dal vivo bensì
sulla riproduzione e sul commento delle stesse per come riprodotte nel volume CXXII degli atti della Commissione
Moro e nel volume II degli atti della Commissione Terrorismo e Stragi. Lavorando sugli originali delle lettere a
disposizione, conservati nell'archivio della Corte d'Assise presso l'archivio generale del Tribunale penale di Roma,
Gotor è riuscito a fornire informazioni interessanti e mai emerse all'attenzione in passato sia in merito ai tempi e
modalità di stesura delle lettere, sia su altri aspetti di altrettanto interesse quali l'identità del dattilografo, i tempi di
battitura delle lettere e la prassi di conservazione “archivistica” di dattiloscritti e fotocopie di manoscritti delle
lettere di Moro adottata dalla Brigate Rosse. Riguardo l'identità del dattilografo, Gotor lavorando sugli originali ha
potuto vedere i soventi e ripetitivi errori di ortografia, di grammatica e di battitura che il dattilografo commetteva e
che nelle edizioni a stampa venivano puntualmente corretti. Dal confronto con gli errori presenti nelle lettere che il
brigatista Prospero Gallinari scriveva ai familiari durante la galera sono emersi delle verosimiglianze tali da rendere
certa e inequivocabile la sua identificazione. Dal lavoro sempre su questi dattiloscritti in originale in un caso è
emersa una notazione autografa di Moretti, apposta probabilmente durante gli spostamenti in treno tra la “prigione
del popolo” e il luogo dove si riuniva il Comitato esecutivo delle Brigate Rosse. Questo elemento fornì l'ulteriore
conferma che i dattiloscritti venivano realizzati per consentire a Moretti di discutere con gli altri componenti senza
dover portare con sé, per immaginabili ragioni di sicurezza, gli originali o le fotocopie delle lettere di Moro. Durante
il sequestro perciò, come evidenziato da Gotor, i brigatisti seguirono in linea di principio (dato che esistono
comunque delle eccezioni) la seguente prassi di archiviazione dei documenti autografi di Moro: delle lettere rese
pubbliche ad opera delle Brigate Rosse in corso di sequestro e allegate ai loro comunicati non venne conservata
copia di nessun genere; delle lettere divulgate riservatamente ai loro destinatari si possiedono sia le copie
dattiloscritte sia le fotocopie di manoscritto delle stesse; delle lettere scritte ma mai divulgate esistono solo le
fotocopie di manoscritto. In nessun caso, ad eccezione di quelle pervenute sequestro durante, si sono mai ritrovate
lettere di Moro in originale.
qualche voce inopinatamente dal “sen fuggita”, visto che dalla mancata consegna delle due lettere
analizzate e dall'opera di censura applicata alla prima, la più importante, si evince che nella gestione
del sequestro mantenere l'alone di mistero su questo argomento fu ritenuto strategico per far sorgere
il dubbio nel fronte istituzionale che materiale sensibile fosse caduto nelle mani del nemico.
Secondo Anna Laura Braghetti, intestataria dell'appartamento di via Montalcini e una dei quattro
carcerieri durante i giorni del sequestro, Moro appena giunto nella casa prigione chiese subito “di
una delle sue borse, quella in cui erano custoditi i farmaci.” In una delle borse c'erano
effettivamente alcune medicine, continua la Braghetti, “ma non quelle che Moro cercava. Non tutte
le borse erano state prelevate da via Fani, noi ne avevamo solo due. Lui insisteva che erano cinque”.
Moro manifestò l'esigenza di alcune medicine, in particolare di un “tranquillante del quale non
sapeva fare a meno” dato che “negli ultimi tempi gli era stato molto difficile dormire”52.
Sempre secondo la Braghetti, le borse di Moro furono innanzitutto oggetto di attenta perquisizione
“per assicurarsi che non contenessero una microspia” e subito dopo di verifica del contenuto: nella
prima borsa “trovammo alcune tesi di laurea, due paia di occhiali di ricambio, francobolli, articoli di
cancelleria, poche medicine. Nella seconda pratiche ministeriali, il testo del progetto di riforma
della polizia, lettere di raccomandazione e di ringraziamento e... la sceneggiatura di un film”53.
Grosso modo la Braghetti confermò, a distanza di tempo, quanto dichiarato precedentemente nel
luglio 1984 da Morucci al giudice Imposimato, ossia che il contenuto della prima borsa era
rappresentato dai farmaci che si portava dietro l'uomo politico, mentre nella seconda vi erano tesi di
laurea, lettere di raccomandazione, il copione di un film e un progetto di unificazione delle forze di
polizia, materiale quest'ultimo che Moretti, successivamente, indicò come uno dei più importanti
documenti trafugati54.
Alla presenza di un progetto sulle forze dell'ordine tra i contenuti delle borse prelevate dai brigatisti
aveva fatto riferimento anche il brigatista pentito Patrizio Peci, il quale riferì che nelle borse
prelevate all'atto del sequestro di Moro venne rinvenuto un programma sull'ordine pubblico e sul
coordinamento tra polizia e carabinieri55. Germano Maccari, durante il processo a suo carico, sul
punto dichiarò che questo piano di riordino delle forze armate venne portato da Moretti fuori dalla
prigione di via Montalcini e custodito a Firenze, dove in quei giorni si riuniva l'esecutivo delle Br,
per valutarlo assieme agli altri; circostanza questa che venne confermata dalle dichiarazioni di
Franco Bonisoli il quale dichiarò di conservare un chiaro ricordo di quelle carte56.
Quanto alla sorte di questo materiale, i brigatisti affermarono che lo distrussero nell'appartamento di
via Montalcini, bruciando “nella tazza del gabinetto le carte trovate nelle borse” di Moro e identica
sorte subirono gli occhiali di riserva di Moro “frantumati e bruciati in un piccolo braciere
casalingo”. Le borse di pelle furono invece ridotte a brandelli con l'uso di un trincetto e bruciate “in
giardino con le sterpaglie”57.
Ma non tutto il contenuto delle borse seguì la sorte appena descritta e gli effetti personali superstiti
vennero recapitati ai familiari assieme al corpo di Moro, ormai esanime, fatto ritrovare nel vano
portabagagli di una Renault 4 rossa posteggiata in via Caetani a Roma. Nell'occasione i brigatisti
riconsegneranno gli oggetti personali del defunto non distrutti, infilati dentro un borsello di pelle
(che originariamente conteneva lo strumento per misurare la pressione) che supponiamo fosse
all'interno della borsa dedicata ai medicinali di cui bisognava l'uomo politico58.

52 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, op. cit., p. 8.


53 A. L. Braghetti , P. Tavella, Il prigioniero, op. cit., pp. 11-2.
54 Romano Bianco, Manlio Castronuovo, Via Fani ore 9.02. 34 testimoni oculari raccontano l'agguato ad Aldo Moro,
Nutrimenti, Roma, marzo 2010, p. 15.
55 Myung Soon Terranera, Il mistero delle borse scomparse, op. cit., p. 22.
56 F. Imposimato, S. Provvisionato, Doveva morire..., op. cit., p. 62.
57 A. L. Braghetti , P. Tavella, Il prigioniero, op. cit., p. 46.
58 Nel borsello, come ricorda la figlia Maria Fida Moro, erano presenti un portatessere, una fiaschetta per liquori in
metallo e pelle in cui l'uomo politico teneva un po' di whisky utile a contrastare gli abbassamenti di pressione, tre
paia di occhiali da vista e uno da sole, due orologi, una penna Parker, una matita, un accendino, un rosario in legno
conservato dentro una custodia di lana, un pettine, una catenina con medaglietta della Madonna, vari mazzi di
chiavi, la fede matrimoniale, monete per complessive seicentodieci lire, un portafogli con dentro il ricordino di una
parente defunta, una cartolina postale, un foglietto di carta bianca con la scritta “Per papà”, la foto di quattro
Alla luce delle plurime e diverse testimonianze possiamo fare un primo bilancio degli elementi in
nostro possesso:
 Aldo Moro non era solito tenere in nessuna delle cinque borse che quotidianamente lo
accompagnavano alcuna agenda o rubrica o altro supporto con annotati indirizzi e recapiti
telefonici;
 le Brigate rosse prelevarono la mattina del 16 marzo in via Fani due delle cinque borse
dell'uomo politico e le portarono nel covo-prigione di via Montalcini dove venne condotto
anche il rapito;
 i sequestratori ebbero modo di esaminare subito le due borse, per cercarvi eventuali
segnalatori di posizione e analizzarne il contenuto;
 i brigatisti carcerieri ebbero cura di distruggere in loco tanto le borse quanto tutto ciò che
esse contenevano che non fosse strettamente necessario al rapito e alla gestione del suo
sequestro o che rappresentassero oggetti di valore affettivo.
Eppure, come vedremo nelle righe successive, un'agenda o rubrichetta con elencati alcuni precisi
indirizzi e recapiti telefonici compare nella vicenda del sequestro e giunge in via Montalcini.

Ipotesi intorno al canale di ritorno


La possibilità di una comunicazione in entrambi i sensi di marcia tra la “prigione del popolo” e
l'esterno, comunemente definita “canale di ritorno”, è una delle ipotesi che con maggiore vigore è
stata sostenuta sia in sede di pubblicistica, sia in sede istituzionale dalla Commissione Moro 59 prima
e successivamente dalla Commissione Stragi60 e, seppur decisamente negata dai brigatisti in ogni
sede, memorialistica e giudiziaria61, e dagli stessi familiari62, non solo non si è indebolita ma ha

bambini e tre assegni bancari. Maria Fida, nel rievocare il momento in cui vennero consegnati ai familiari gli effetti
personali del defunto, continua il proprio racconto descrivendo dove vennero conservati gli stessi in casa: tranne la
fede nuziale, che rimase alla vedova, il resto degli oggetti venne riposto nel cassettino nascosto di una chiffonière
che si trovava nella camera da letto dei suoi genitori. Il 13 novembre 1978 casa Moro fu visitata da un ladro, molto
abile e informato, mai identificato, mentre i familiari e complessivamente una decina di persone erano all'interno
dell'appartamento. L'inusuale furto desta curiosità non solo per la dinamica (il ladro si arrampicò lungo balconi,
grondaie, supporti dei rampicanti fino ad una finestra del terzo piano da cui, passando per una scala interna, salì al
quarto piano dove, compiendo questa silenziosissima effrazione percorse tutto il corridoio fino all'ultima stanza, la
stanza da letto, scegliendo il mobile e il vano segreto giusto), ma anche per la refurtiva in quanto vennero trafugati
esclusivamente tutti gli effetti personali riconsegnati la mattina del 9 maggio assieme al cadavere di Moro. A
completare le cospicue stranezze presenti nella dinamica di questo furto, il ladro lasciò una busta lì presente,
contenente un milione di lire, ad ulteriore riprova che la rapina aveva scopi ben precisi. Compiuta la missione e
uscito di casa senza che venisse mai incrociato dai familiari di Moro e dai loro ospiti, prese l'ascensore, superò la
porta principale dell'androne e solo dopo che il ladro si fu lasciato alle spalle la guardiola della vigilanza un
poliziotto s'insospettì, e dopo avergli intimato l'alt gli sparò alle spalle mancandolo. Solo la fede nuziale di Moro, in
quanto saldamente al dito della vedova, si salvò dal furto; cfr. M. F. Moro, Il tesoro del morto, in M. F. Moro (a cura
di), La nebulosa..., op. cit., pp. 73-4.
59 La Commissione Moro, nella sua relazione conclusiva nel 1983, da un lato prese atto che non esisteva “alcuna prova
diretta dell'esistenza di tale canale”, e che al contrario “esso era escluso da tutti”; dall'altro non poteva “non dar atto
degli elementi che potrebbero far propendere per una tesi positiva”; cfr. CM, Relazione di maggioranza, paragrafo
intitolato L'ipotesi di un canale riservato tra le BR ed il mondo esterno, pp. 111-2. Questi elementi derivavano da
frasi contenute in alcune delle lettere e dalle dichiarazioni rilasciate in audizione dai collaboratori di Moro Sereno
Freato, Nicola Rana e Corrado Guerzoni.
60 In sede di Commissione Stragi il presidente senatore Giovanni Pellegrino concluse che “il complesso delle
acquisizioni conferma” l'esistenza di un canale di ritorno, e riguardo all'identità del tramite giudicò “certi almeno
contatti di Don Mennini, se non direttamente con Moro prigioniero, con i BR o con loro emissari”; cfr. Giovanni
Pellegrino, Ultimi sviluppi dell'inchiesta sul caso Moro, del 12 settembre 2000 in CTS, vol. 1, Tomo I, pp. 27-71 in
particolare p. 50.
61 Moretti al riguardo nel suo libro di memorie ha affermato che è “pericoloso ma possibile far arrivare una lettera, e
anche avvertire il destinatario che è personale, ma il contrario non si può fare. Se andassimo a ritirare una lettera, il
rischio di farci agganciare sarebbe altissimo”. Riguardo poi all'ipotesi che qualcuno, nella fattispecie don Mennini,
avesse potuto avvicinare Moro, il diniego è ancora più categorico: “figurarsi se facessimo venire una persona
qualsiasi nella base. Ma neanche un prete. Si è detto che aveva parlato con un sacerdote, perché fa cinema. Non è
mai successo”; cfr. M. Moretti, Brigate Rosse..., op. cit., p. 152.
62 La signora Eleonora in sede di audizione alla Commissione Moro affermò che magari “Dio avesse voluto che fosse
trovato riferimenti cospicui dall'analisi di alcune delle stesse lettere che il prigioniero scriveva e
che, guarda caso, quando i riferimenti che ivi vi faceva erano palesi, mai venivano consegnate ai
destinatari da parte dei brigatisti, e ciò nonostante gli si consentisse di scriverle.
Quanto detto potrebbe certamente avvalorare l'ipotesi che i brigatisti facessero credere a Moro che
questo canale esistesse e dunque gli consentissero di scrivere quelle lettere con quei precisi
riferimenti, ma questo gioco non poteva certo durare per tutto il sequestro dato che Moro, resosi
conto prima o dopo di essere stato sempre buggerato, avrebbe finito con il non credere più
all'esistenza di detto canale di comunicazione. Cosa che invece non avvenne, a riprova che, nel
corso del sequestro, il prigioniero ottenne riscontri alle richieste che indirizzava all'esterno della
prigione.
Va comunque precisato che la sola circostanza che Moro, nelle sue lettere, ritenesse possibile
almeno l'esistenza se non l'efficacia di questo “canale di ritorno”, non è una prova sufficiente a
dimostrarne l'esistenza. Ma è altrettanto vero che per tutta la durata del sequestro Moro restò
comunque convinto che tale canale di comunicazione fosse attivo e dalla lettura delle sue lettere
emergono tali e numerosissimi riscontri che consolidano l'ipotesi, altrimenti certe conoscenze e
informazioni da parte del rapito resterebbero inspiegabili.
L'ipotesi del “canale di ritorno” merita però di essere presa in seria considerazione perché, fin dalla
prima lettera al collaboratore Nicola Rana, Moro si preoccupò di stabilire questo canale “riservato”,
con il chiaro consenso dei brigatisti che, non solo garantirono un recapito “riservato” della missiva
(e di quella destinata alla moglie), ma si impegnarono a mantenerlo tale, diffondendo alla stampa
solo lo scritto rivolto a Francesco Cossiga.
Diversa e meno certa è l'individuazione dell'intermediario, ma qui occorrerebbe parlare al plurale
giacché senz'altro furono coinvolte più figure, che nel corso del sequestro vennero di volta in volta
attivate. La platea a questo punto si allarga considerevolmente e, come si vedrà, non è detto che sia
esaustiva di tutti i protagonisti.
La pubblicistica ha unanimamente collocato la presunta apertura di questo “canale” a partire dalla
seconda metà del mese di aprile. In questo scenario Moro in un primo momento credette di aver
attivato questo canale di comunicazione attraverso il collaboratore Corrado Guerzoni, come
sembrerebbe attestare il biglietto, indirizzato alla moglie ma non recapitato, scritto intorno al
mercoledì 12 o giovedì 13 aprile e nel quale Moro chiede alla moglie “la felicità di un messaggio
tramite Guerzoni per sabato mattina”.
Il prigioniero ha ricevuto la notizia della sua condanna a morte e ha, per l'appunto, steso tutta una
serie di testamenti e lettere di addio a figli e nipoti, e vedendo approssimarsi la fine cerca un'ultima
consolazione in un messaggio da fargli pervenire tramite Guerzoni. L'ipotesi che Moro possa far
riferimento ad un messaggio tramite giornale è molto fragile, sia perché nelle occasioni in cui è
stato utilizzato questo mezzo egli lo ha espressamente specificato, sia perché se si fosse riferito ai
giornali non avrebbe avuto motivo di precisare il “sabato mattina”, essendo ovvio che i quotidiani
escono la mattina, e avrebbe scritto solo “sabato”: il riferimento invece sembra rimandare ad un
appuntamento preciso sul piano temporale del quale non solo Guerzoni è informato ma che appare
allo stesso Moro un atto normale63.
Guerzoni ha sempre negato non solo di essere a conoscenza di un appuntamento, come ipotizzato
dal passaggio della lettera in questione, ma anche di avere svolto questa funzione “di ritorno” nel
corso del sequestro, ipotizzando invece che detto compito venne probabilmente assolto dal

possibile per noi comunicare! Non ci saremmo dovuti ridurre a scrivergli lettere sui giornali”, come di fatto
avvenne; cfr. CM, vol. LXXVII, p. 66. Resta il fatto che allorché sia Freato (intorno al 29 aprile 1978) sia Rana (in
circostanza non databile con esattezza), convocati dalla signora Moro per consegnare delle lettere del marito, le
chiesero come queste fossero pervenute alla sua abitazione, ella in entrambe le occasioni rispose che li “dispensava
dal saperlo” e questo allo scopo di evitare situazioni di “imbarazzo in seguito”; cfr. dichiarazione estrapolata dai
Resoconti stenografici delle audizioni e contenuta in CM, Relazione di maggioranza, paragrafo intitolato L'ipotesi
di un canale riservato tra le BR ed il mondo esterno, p. 112.
63 Questa ipotesi è stata sostenuta sia da A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato..., op. cit., p. 241; sia da M. Gotor,
Lettere dalla prigionia..., op. cit., p. 57 e note 1-2.
sacerdote don Antonello Mennini, vice parroco della chiesa di S. Lucia 64, ubicata nel quartiere
Trionfale a Roma, come ebbe a dichiarare in audizione alla Commissione Stragi il 6 giugno 199565.
In un secondo momento, verosimilmente intorno al 20 aprile 66, probabilmente perché ritenne che il
precedente canale fosse ormai bruciato dai controlli della polizia, Moro pensò di potersi servire di
don Mennini, che conosceva in quanto studente dei suoi corsi universitari. Riguardo quest'ultimo,
dalle lettere evinciamo che Moro riteneva il sacerdote non solo un utile canale per far pervenire le
sue lettere, cosa che effettivamente avvenne, ma anche interlocutore al quale poter rivolgere delle
domande e attraverso il quale ricevere degli scritti dall'esterno67.
In una lettera indirizzata al sacerdote, non recapitata ma scritta intorno al 24 aprile, Moro oltre a
scusarsi del fatto di approfittare “così spesso di te”, avendo don Mennini già consegnato le lettere
del prigioniero il 20 e il 24 aprile, gli chiede di raccogliere “notizie sulla salute di casa e di” tenersi
“pronto a rispondere, quando mi sarà possibile di domandartelo. Mi potrebbero scrivere qualche
rigo? tramite te?”. In una successiva missiva a don Mennini, non recapitata ma scritta dopo il 25
aprile, Moro ritiene possibile addirittura “chiamare” il sacerdote e “consegnargli il pacchetto” in cui
ha riunito le lettere ai familiari affinché le tenga intanto per sé e le consegni alla moglie a tempo
debito, dopo avergliene parlato solo ed esclusivamente a voce.
Moro evidentemente crede che le sue lettere siano costantemente oggetto di sequestro e non solo i
64 Antonio Mennini, familiarmente chiamato Antonello, è uno dei quattordici figli di Luigi, amministratore delegato
dello Ior e stretto collaboratore di monsignor Paul Marcinkus. Nominato sacerdote nel 1974 da monsignor Ugo
Poletti, durante il sequestro Moro era vice parroco della chiesa di S. Lucia e, conclusasi questa vicenda, venne
ammesso nel ristretto numero degli allievi della Scuola Diplomatica Vaticana. Dal 1981 è nel servizio diplomatico
della Santa Sede e in questi decenni si è distinto per gli incarichi sempre più delicati e prestigiosi che gli sono stati
assegnati in Uganda, in Turchia e in Bulgaria fino al 2002 quando, ricevuta l'ordinazione episcopale, è stato inviato
come rappresentante della Santa Sede presso la Federazione Russa, e nominato recentemente Nunzio apostolico da
Benedetto XVI. Riguardo al comportamento complessivo e alla reticenza di don Antonello Mennini a partire dagli
anni Novanta occorre fare la seguente breve riflessione. Quando nell'ottobre 1978 vennero ritrovati
nell'appartamento di via Monte Nevoso a Milano parte delle lettere e del memoriale di Aldo Moro, molti dei
protagonisti di quella vicenda si convinsero che il materiale superstite di quella tragica primavera di quell'anno fosse
tutto lì, ignari che ben altro si stava inabissando dietro un pannello di cartongesso. Don Mennini infatti al tempo non
fu per nulla reticente, anzi non si fece scudo dell'abito talare e delle prerogative e immunità di cui beneficiava e
rispose sia alle convocazioni in sede giudiziaria sia dinanzi all'inquirente parlamentare. Don Mennini fu ascoltato
dalla Commissione Moro nell'audizione del 22 novembre 1980 (CM, vol. 5) ma nella favorevole condizione di
essere chiamato a rispondere più per un coinvolgimento derivante da intercettazioni telefoniche che non per il
sospetto di essere stato tramite, sequestro in corso, di un contatto tra il prigioniero e il mondo esterno. La relativa
disponibilità del sacerdote cessò del tutto, indipendentemente dagli incarichi sempre più prestigiosi e diplomatici
che nel tempo gli vennero affidati, allorché nell'ottobre del 1990 vennero alla luce decine di lettere finora
sconosciute e quasi tutto il memoriale di Moro così come lo conosciamo. Da quelle lettere emergevano
corrispondenze tra Moro e l'allora giovane vice parroco che testimoniavano un coinvolgimento enormemente
superiore a quello ipotizzato. Da quel preciso momento in poi don Mennini si chiuse a riccio, iniziò a far valere tutte
le prerogative e le immunità di cui godeva e si sottrasse sistematicamente ad ogni possibile indagine sull'argomento.
65 CTS, XII legislatura, audizione del 6 giugno 1995 pp. 762 e 768. In questa sede, oltre a fare riferimento a don
Mennini, Guerzoni tirò in ballo anche il fratello di un magistrato “che aveva frequentato ambienti di sinistra” senza
fornirne comunque le generalità; cfr. ibid. p. 761.
66 Il sacerdote, come dichiarato in Commissione Moro, era stato in pellegrinaggio a Lourdes, durato una settimana, e
aveva fatto rientro a Roma il 19 aprile; cfr. CM, vol. XLI, p. 523, audizione di Antonio Mennini, 2 giugno 1978.
67 Questa possibilità venne per la prima volta indirettamente confermata dall'avvocato Nino Marazzita, legale della
famiglia Moro, il quale dichiarò che la signora Eleonora durante il sequestro cercò di far pervenire al marito una
trentina di lettere, ma solo per pochissime di queste ebbe il riscontro dell'avvenuta consegna dei suoi messaggi. La
conferma dell'avvenuto recapito veniva dal prigioniero riversata e diluita tra le righe delle comunicazioni che dalla
prigione prendevano la via esterna; cfr. Silvana Mazzocchi, Moro poteva ricevere le lettere della moglie, in La
Repubblica, 21 ottobre 1990, p. 7. Queste tardive dichiarazioni risentono chiaramente della scoperta, avvenuta
qualche giorno prima, delle lettere inedite di Moro nel covo di via Monte Nevoso, dove giacevano fin dal 1978
dietro un pannello di cartongesso. Se davvero scritti autografi della signora Eleonora giunsero al marito prigioniero,
cosa che a tutt'oggi non ha mai trovato un riscontro oggettivo, si aprirebbe un ulteriore capitolo d'indagine su che
fine abbiano fatto questi scritti provenienti dall'esterno della prigione e se non siano proprio questi scritti ed essere
stati bruciati nel rogo di Moiano nel novembre-dicembre 1978 e non, come sostengono i brigatisti, gli originali
autografi di Moro mai ritrovati. Va detto comunque che l'eventuale ruolo nella consegna di queste lettere da parte di
don Mennini, giacché egli stesso viene individuato quale possibile intermediario, non poté essere svolto prima del
19 aprile, perché, come detto, il sacerdote rientrò in quella data a Roma dal pellegrinaggio a Lourdes.
carcerieri glielo lasciano credere ma gli permettono anche di scrivere una lettera in cui si possa
ipotizzare un contatto fisico con una persona proveniente dall'esterno68.
In questo stesso periodo il prigioniero ritenne di poter attivare, quale canale di comunicazione
dall'esterno, anche l'amico avvocato Giuseppe Manzari, al tempo presidente di Sezione del
Consiglio di Stato e Capo del contenzioso diplomatico, al punto da invitarlo a raccogliere
informazioni sullo stato di avanzamento e ad attivarsi per promuovere iniziative utili alla sua
liberazione, iniziative che nei giorni intorno al 21 aprile si stavano svolgendo riservatamente in sede
Onu, e di tenersi pronto a fornire la risposta “ché ti sarà domandata a momento opportuno”.
Anche questa lettera, come le altre che rimandano al “canale di ritorno” finora analizzato, non
venne recapitata probabilmente perché avrebbe posto, già al tempo del sequestro, il quesito, tuttora
irrisolto, su come Moro e i suoi carcerieri fossero a conoscenza dello stato di una pratica riservata e
interna alla vita dell'Onu, quali quelle che riguardano il Consiglio di sicurezza.
Anche l'allieva Maria Luisa Familiari, allieva dell'uomo politico e destinataria di sue missive che la
destinataria dichiarò sempre di non avere mai ricevuto, fu ritenuta da Moro un plausibile vettore di
comunicazioni. La donna, deceduta ormai da molti anni, per inciso, non è mai stata ascoltata da
nessuna commissione parlamentare; ma questo particolare non deve destare sorpresa dato che con
molta probabilità vi sono altre figure di sconosciuti rimasti ufficialmente del tutto estranei a questa
storia, come sarebbe accaduto allo stesso don Mennini se non fosse stato chiamato in ballo dalle
intercettazioni telefoniche che dal 22 aprile lo interessarono.
Ma se la domanda sui possibili intermediari ha ricevuto tante ipotesi di risposta, nessuno si è
seriamente chiesto cosa dovesse transitare per questo “canale” dato che la sua attivazione comporta
per i brigatisti seri rischi di sicurezza a cui non si sarebbero mai sottoposti per fare giungere al
rapito lettere o oggetti di carattere affettivo. La stessa consegna delle lettere del sequestrato è
attività pericolosa ma possibile come “anche avvertire il destinatario che è personale, ma il
contrario non si può fare. Se andassimo a ritirare una lettera - afferma Moretti - il rischio di farci
agganciare sarebbe altissimo”69, rischio che dimostreremo tra qualche pagina i brigatisti corsero
solo per fare pervenire nel covo una rubrica con i numeri di telefono e gli indirizzi tra cui
individuare i potenziali intermediari delle lettere di Moro.
68 La tesi che don Mennini abbia incontrato Moro nella prigione è apparsa in questa vicenda nell'ottobre del 1990
quando, in seguito al secondo ritrovamento di via Monte Nevoso a Milano, è emerso dalle lettere a lui indirizzate e
dagli incarichi che dalla prigione gli assegnò Moro un ruolo per nulla secondario dell'allora giovane sacerdote.
Questa tesi, invero, è stata decisamente smentita da Moretti che è stato categorico tanto nel negare che Moro abbia
ricevuto qualunque cosa dai suoi familiari proveniente dall'esterno, tanto nell'escludere che il rapito ricevette visite:
“E figurarsi se facessimo venire una persona qualsiasi nella base. Ma neanche un prete. Si è detto che aveva parlato
con un sacerdote, perché fa cinema. Non è mai successo.”; cfr. M. Moretti, Brigate Rosse..., op. cit., pp. 151-2.
Nonostante ciò è altrettanto vero che esistono dichiarazioni di soggetti, per nulla sospetti o interessati ad affermare il
falso, che fanno supporre che questa ipotesi sia plausibile: la vedova Leonardi affermò di avere ricevuto una lettera
da un brigatista nella quale il mittente le assicurava che un sacerdote aveva portato i conforti della religione al
prigioniero (cfr. Moro/25 anni: la lettera di Paolo VI dopo una telefonata, ANSA, 12 marzo 2003); mons. Loris
Capovilla, già segretario particolare di papa Giovanni XXIII e nel 1978 vescovo di Loreto, ebbe a dichiarare di
avere incontrato don Mennini in Vaticano pochi giorni dopo l'uccisione di Moro e intrattenendosi con lui a parlare di
quei dolorosi giorni e del suo ruolo nella vicenda, don Mennini si scusò con l'autorevole interlocutore se non poteva
parlargli nei dettagli “perché era vincolato al segreto” lasciando comunque intendere “chiaramente” a mons.
Capovilla che egli “aveva potuto visitare e confortare Moro, durante la sua prigionia” (intervista rilasciata da mons.
Loris Capovilla ad Alessandro Forlani il 10 giugno 2010 ora in A. Forlani, La zona franca..., op. cit., p. 200). Delle
due l'una: o effettivamente don Mennini non incontrò mai Moro durante la prigionia e ugualmente (per ragioni
personali?) ha alimentato l'equivoco; oppure più che di mistero bisognerebbe parlare di segreto ben custodito dai
depositari, come quelli che Guerzoni non intese mai rivelare (vedi nota 27) e che, a meno di memorie da lui scritte e
al momento secretate, si è portato nella tomba il 1° ottobre 2011. Per completare il quadro delle informazioni è
necessario riferire che, dopo la morte nel gennaio 2013 di Prospero Gallinari, uno dei quattro carcerieri di via
Montalcini, è apparso a stampa, nella tarda primavera di quest'anno, un presunto diario apocrifo del brigatista.
L'autore dell'opera si firma con lo pseudonimo Edmond Dantès e si definisce “profondo conoscitore dei misteri
d'Italia”; nelle ultime pagine afferma che effettivamente don Mennini trascorse con Moro nella preghiera la notte
precedente l'esecuzione e si descrivono le modalità con cui il sacerdote, consenziente, venne prelevato, condotto al
covo e successivamente accompagnato fuori; cfr. E. Dantès (pseudonimo), Ho sentito Aldo Moro che piangeva,
Imprimatur editore, 2013.
69 Cfr. M. Moretti, Brigate Rosse..., op. cit., p. 152.
Nel paragrafo successivo dimostreremo invece come il canale di ritorno si attivò tra la fine di marzo
e la prima decade di aprile (e forniremo ipotesi utili all'individuazione del latore - o latori - di queste
comunicazioni) ed è proprio perché almeno in quella circostanza si rivelò sicuro ed efficace che
possono essere considerate valide anche le altre ipotesi fin qui esposte, dato che, come ribadito, è
impossibile pensare che un uomo come Aldo Moro, pur sottoposto ad un “dominio pieno e
incontrollato”, come si definisce nella lettera a Cossiga del 29 marzo, possa essersi fatto buggerare
per quasi due mesi dai brigatisti.
Occorrerà così affrontare la vicenda Moro rileggendo appunto le prime settimane del sequestro e
sfuggendo alla suggestione che il numero delle persone coinvolte a livello giudiziario esaurisca la
platea degli effettivi protagonisti in quanto “si tratta soltanto di un fascio di luce che ha illuminato
una parte del quadro, lasciando nell'ombra una zona di cui non è possibile conoscere l'estensione e i
contorni”70.

Il tempo della cautela e dell'accortezza


16-29 marzo 1978
Fin dalle prime ore successive l'agguato di via Fani, quando l'unica certezza era che Moro fosse
stato sequestrato per opera delle Brigate rosse, ma non si possedeva alcuna notizia circa la sua
salute, l'attico di via del Forte Trionfale 79 divenne una sorta di quartier generale di cui la signora
Moro assunse immediatamente il controllo al punto che, annotò un'ammirato Fanfani nei suoi diari,
alla data del 18 marzo, quando si recò a farle visita e darle conforto, si trovò dinanzi ad una
“meraviglia di fortezza, fede e serenità” che le derivava dal fatto di essere lei e il marito “da anni
(…) preparati a un simile evento”71.
La famiglia al completo si strinse intorno alla signora Eleonora dando luogo ad una serie di
interminabili riunioni a cui all'inizio parteciparono anche i fratelli del rapito: Alfredo Carlo,
presidente del tribunale dei minori di Roma, e Maria Rosaria, docente di lettere, distaccata al
ministero della Pubblica istruzione72, anche se poi questi ultimi, nei giorni successivi, furono
sempre più emarginati dalla gestione della vicenda al punto che “per motivi che tuttora ignoro”
ebbe modo in seguito di lamentarsi il fratello Alfredo Carlo, Eleonora Moro ritenne “opportuno
tenere all'oscuro me e gli altri miei fratelli, sia durante il sequestro che dopo il suo tragico epilogo,
di quanto avesse in quei giorni appreso e di quanto, con l'aiuto dei suoi consiglieri”, avesse fatto73.
Anche nella cerchia dei collaboratori del marito si registreranno, per volontà esclusiva della signora
Moro, chiamate ad un'intensa collaborazione (Sereno Freato, Nicola Rana, Mario Giacovazzo,
Corrado Guerzoni e Giuseppe Manzari) ed esclusioni inspiegabili74.
Tra questi due estremi si collocano alcune figure che furono relegate in secondo piano, tra cui le due
figlie maggiori di Moro, Maria Fida e Anna; la vedova Moro ebbe modo di giustificare la sua
decisione di evitare un loro più intenso coinvolgimento nella vicenda riferendosi alle loro
condizioni personali, Anna in attesa di una bambina e Maria Fida, madre del piccolo Luca, e afflitta
da mesi da una dolorosissima ernia al disco che l'avrebbe costretta all'intervento chirurgico nei

70 M. Gotor, Lettere dalla prigionia..., op. cit., p. 217.


71 Stralci dei diari di Amintore Fanfani, relativi ai dolorosi giorni di quella primavera 1978, sono stati pubblicati dal
quotidiano La Stampa nell'edizione del 19 marzo 2000. Per questa e altre citazioni dei diari di Fanfani, salvo diversa
indicazione, faremo sempre riferimento a questo numero del quotidiano. La solidità mostrata da Eleonora Moro non
mancherà di colpire anche Andreotti che il 16 marzo - come annoterà nel suo diario - la chiamò al telefono
trovandola “fortissima” (cfr. G. Andreotti, Diari..., op. cit., p. 192) e nei giorni successivi eviterà di recare visita a
casa Moro “per non turbare l'intimità della famiglia ed anche per non fare esibizionismo”, limitandosi all'invio di un
biglietto; cfr. G. Andreotti, Diari..., op. cit., p. 195 (24 marzo 1978).
72 S. Grassi, Il caso Moro..., op. cit., p. 469.
73 A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato..., op. cit., p. XIV.
74 Tullio Ancora si lamentò pubblicamente dinanzi alla Commissione Stragi della decisione presa dalla signora Moro
di escluderlo dalla vicenda, quando invece il suo apporto, riguardo ai rapporti tra la famiglia del rapito e il Partito
comunista, sarebbe senz'altro, a suo avviso, stato prezioso; cfr. CTS, Steno, n. 46, audizione di Tullio Ancora, 10
febbraio 1999. Sempre in sede di inquirente parlamentare, ascoltato sul punto di questa esclusione e delle relative
lamentele, Giovanni Moro si limitò ad etichettarle come esagerazioni; cfr. CTS, Steno, n. 48, audizione di Giovanni
Moro, 9 marzo 1999, p. 2122.
primi giorni di maggio. Ma se la prima, anche perché oggettivamente lontana, accettò le decisioni
materne, la seconda ebbe modo nell'immediato e nel tempo di manifestare il proprio disappunto per
la gestione della situazione da parte della madre, ritenendo che essa subì più l'influenza dei cattivi
consiglieri che le indicazioni dettate dal marito rinchiuso nelle segrete brigatiste75.
É in questa prima fase, in cui ancora la famiglia è immersa nelle testimonianze di affetto e di
solidarietà provenienti dal mondo politico76 e non ancora sottoposta a misure stringenti, che
vengono approntate le prime strategie rivolte ad attivare e alimentare un canale di contatto con i
rapitori, per avviare in seguito quelle trattative che dovranno portare, si auspica, alla liberazione del
congiunto.
Quando in Commissione Stragi venne sentito Francesco Cossiga, questi affermò che egli allora,
seppur “dolorosamente”, dovette “adottare delle misure per sapere cosa la famiglia Moro facesse”
precisando comunque che riconosceva ad essa “il diritto e il dovere di cercare qualsiasi via” 77. Ma
queste “misure”78, al contrario di quanto comunemente si pensa, non furono particolarmente
stringenti, almeno durante le prime settimane del sequestro79.
Chi scrive ritiene che una speranza inconfessabile serpeggiava tra i vertici democristiani, quella che
i brigatisti, dinanzi al fallimento della loro strategia di destabilizzazione del quadro politico (che
75 In una recente intervista rilasciata al settimanale Panorama, Maria Fida, senza dubbio la più loquace dei quattro
fratelli, è ritornata sulle tensioni di quei giorni, sugli screzi e sulla sua progressiva ma inarrestabile relegazione in
secondo piano nella gestione della vicenda del padre. In particolare la donna (che punta il proprio indice accusatorio
verso il Movimento Febbraio '74 a cui era molto legato il fratello Giovanni, e sul ruolo di “occupazione” e
“condizionamento” che i suoi esponenti, Giancarlo Quaranta in testa, esercitarono nella gestione della vicenda),
racconta che un primo screzio ebbe luogo quando la stessa Maria Fida acconsentì che la giornalista Dina Luce, del
settimanale L'Europeo, seguisse lo sviluppo delle vicende al fianco della famiglia, decisione questa a cui
fermamente si opposero tutti gli altri membri della famiglia; cfr. Maria Fida Moro: «Le divisioni in casa mia non
aiutarono mio padre», in Panorama, 20 marzo 2012. Maria Fida intendeva da subito gestire la vicenda in modo
pubblico, come arriverà anche a chiedere il padre nelle sue lettere dalla “prigione del popolo” invitando appunto la
moglie a protestare “con tutto il fiato in gola, senza sentire i consigli di prudenza di chicchessia e dello stesso
Guerzoni” (lettera n. 56, recapitata alla signora Eleonora il 24 aprile da don Mennini che aveva provveduto a ritirarla
in via Volturno, angolo piazza dei Cinquecento; cfr. M. Gotor, Lettere dalla prigionia..., op. cit., p. 97), a riprova che
anche segregato, conclude la figlia Maria Fida, suo padre si era accorto di qualche strana interferenza. Ad ogni modo
la tensione raggiunse tali punte acutissime che la signora Eleonora arrivò a supplicare la figlia, in ginocchio e in
lacrime, di lasciare casa sua. Cosa che ella puntualmente fece.
76 Quanto entusiasmo queste visite recassero alla signora Eleonora è facile immaginarsi visto che i protagonisti di quel
mondo politico, tranne rarissime eccezioni, ella non amava minimamente frequentare; comportamento, questo, che
per decenni venne politicamente contrabbandato come desiderio di riservatezza della sposa, ma che in realtà
nascondeva un severo e drastico giudizio. I sentimenti che animavano la signora Moro verso la Democrazia cristiana
non erano solo all'insegna della sfiducia, ma dell'aperto disprezzo verso quella formazione politica, in quanto ella la
riteneva indegna di annoverare tra le sue file un uomo dalle indiscutibili qualità e doti come suo marito e a malapena
riusciva a mascherare questa ripugnanza nelle obbligatorie occasioni pubbliche e solo per ragioni di quieto vivere.
Casa sua conseguentemente era stata elevata a fortino inavvicinabile per tutti, tranne appunto per quella
ristrettissima cerchia di uomini politici amici della famiglia come i Cervone e i Dell'Andro, ammessi per questo a
frequentare la casa. Il motto con cui marciava spedita la signora Moro era semplice ma efficace e consegnava alla
politica suo marito come “vedovo, orfano e senza figli”, espressione questa che valeva anche come rimprovero al
marito per avere sacrificato alla causa della Democrazia cristiana la propria vita; cfr. S. Grassi, Il caso Moro..., op.
cit., p. 468.
77 CTS, Resoconti stenografici delle audizioni, Legislatura XI, seduta del 21 dicembre 1993, p. 399.
78 Il 21 marzo 1978 il Consiglio dei ministri approvava il decreto legge n. 59 intitolato Norme penali e processuali per
la prevenzione e la repressione di gravi reati, costituito in tutto da 13 articoli firmati in tutta fretta da Andreotti e dai
cinque ministri competenti, con il sigillo del Presidente della Repubblica. Tra le norme estremamente restrittive e
perfino allarmanti sotto il profilo delle garanzie costituzionali (gli “amari frutti del terrorismo” le definiranno gli
opinionisti sui quotidiani; cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit., p. 94), in vigore da subito per via della
“necessità e urgenza”, vi era la possibilità, in materia di intercettazioni telefoniche, non solo di poterle estendere
praticamente a tempo indeterminato, con il semplice nulla osta del magistrato, ma in qualche caso (quello in oggetto
per l'appunto per il quale era stato istituito un apposito nuovo reato, quello di “sequestro di persona a scopo di
terrorismo o eversione”) potevano anche essere disposte anche dallo stesso ministro dell'Interno.
79 Corrado Guerzoni molti anni dopo ricorderà che nonostante i telefoni fossero sotto controllo e tanto lui e gli altri
collaboratori quanto i familiari fossero pedinati, i margini di manovra erano estremamente ampi ed in particolare
“sul recupero e la consegna delle lettere dell'onorevole Moro la sorveglianza era scarsissima”; cfr. intervista a
Guerzoni in A. Forlani, La zona franca..., op. cit., p. 154.
invece al contrario si compattò a tal punto da dotare della fiducia di entrambe le Camere il governo
Andreotti già nella notte tra il 16 e il 17 marzo) e della società italiana (compattata dallo sciopero
generale proclamato seduta stante dalla confederazione dei tre maggiori sindacati italiani e difesa
dal muro di trincea inespugnabile eretto istantaneamente dalla stampa nazionale con il rifiuto di
qualunque genere di trattativa provenisse dai rapitori80), si limitassero a sottoporre a processo Aldo
Moro, come da loro sbandierato nei loro comunicati diffusi il 18 e il 25 marzo, e “una volta ottenuta
da lui qualche dichiarazione compromettente per la Dc”, o spingendo il sequestrato “ad accentuare
certe sue recenti vene ispiratrici” critiche verso i socialisti e gli americani, dopo averle rese di
pubblico dominio, lo lasciassero andare81, magari dietro pagamento di una forte somma di denaro,
come in cuor suo aveva sperato il collaboratore Rana fin dalle prime ore successive alla strage di
via Fani, adoperandosi di conseguenza82.
La linea improntata ad una fattiva collaborazione con la famiglia dell'ostaggio con la quale
concordare ogni mossa da compiere era caldeggiata dal sardo Giuseppe Pisano, deputato
democristiano a capo della segreteria politica di Zaccagnini, avvezzo tanto alle tattiche e alle
strategie dei partiti quanto, per essersi occupato nella sua Sardegna di sequestri di persona, alle
logiche che scattano nelle menti dei sequestratori, dei rapiti e dei loro cari, vittime del ricatto83.
Del resto fino a quel momento i sequestri di persona messi a segno dalle Brigate rosse avevano
avuto o la finalità estorsiva (l'industriale Vittorio Vallarino Gancia e l'armatore Pietro Costa) oppure
quella di sottoporre a processo i rapiti per ricevere da loro conferme dei loro precedenti assunti e
magari particolari a loro sconosciuti che i sequestrati non esitavano a rivelare pur di salvarsi la vita.
Così era stato per il sequestro del sindacalista neofascista Bruno Labate da cui avevano ottenuto la
conferma degli accordi tra il sindacato di destra Cisnal e la dirigenza Fiat; così era avvenuto per il
dirigente Fiat Ettore Amerio che aveva ammesso l'esistenza di politiche aziendali riservate per
domare e reprimere la rivolta operaia; così era stato con il giudice genovese Mario Sossi che aveva
confermato l'esistenza all'interno della Procura della Repubblica di Genova di un indirizzo
giudiziario tendente ad infliggere a tutti i terroristi della XXII Ottobre le pene più severe.
Occorreva però riflettere che in nessuno di quei precedenti sequestri di persona si era dovuto
ricorrere ad una strage e che quei cinque morti lasciati sull'asfalto di via Fani alla fine sarebbero
pesati come un macigno sulle spalle di tutte le parti in causa nella gestione del sequestro. Inoltre il
sequestro di Moro non poteva essere catalogato come vicenda privata, questione che interessasse
privatamente i rapitori e la sua famiglia; era a tutti gli effetti un affare di Stato, una partita
istituzionale che vedeva fronteggiarsi da un lato i brigatisti e i loro attacchi terroristici e dall'altro
l'ordine democratico e la sua difesa.
Aldo Moro trascorse così i primi giorni della sua inedita condizione di prigioniero sottoponendosi
all'interrogatorio condotto da Mario Moretti, in nome e per conto delle Brigate rosse all'oscuro “né
del modo né di quanto accaduto dopo il prelevamento”, e solo dopo una decina di giorni, in
concomitanza con la Pasqua (domenica 26 marzo), gli venne concesso di scrivere alla famiglia, al
80 Per quanto riguarda la linea editoriale improntata al rifiuto di qualunque trattativa con i rapitori che allineò i
maggiori quotidiani nazionali cfr. Alessandro Silj, Brigate Rosse – Stato. Lo scontro spettacolo nella regia della
stampa quotidiana, Firenza, Vallecchi, 1978.
81 G. Andreotti, Diari..., op. cit., p. 198 (30 marzo 1978).
82 Nicola Rana, dopo essere stato quel 16 marzo a vedere i corpi senza vita della scorta di Moro, si recò nello studio
privato dell'uomo politico in via Savoia e lì, nel dubbio e nella speranza che, come nel caso del sequestro
dell'armatore Pietro Costa dell'anno precedente, si trattasse di un rapimento da parte delle Brigate rosse a scopo di
estorsione, contattò telefonicamente l'avvocato Agnelli chiedendogli se si potesse fare eventualmente affidamento su
di lui per recuperare una ipotetica somma necessaria nel caso di richieste economiche da parte dei sequestratori. Il
presidente della Fiat si mise a disposizione delegando un suo funzionario di fiducia ad adoperarsi per ogni richiesta
proveniente da Rana; cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit., pp. 28-9. Questa speranza, che risulterà
vana, accompagnerà tutto il corso del sequestro fino al suo tragico epilogo e vedrà disponibile alla “corresponsione
di mezzi”, per usare le parole di Andreotti (Diari..., op. cit., p. 217), tanto il petroliere Bruno Musselli, attivato dal
fedele Sereno Freato, quanto gli ambienti politici e vaticani (“se fosse questione di denaro, sia noi che il Vaticano
saremmo all'altezza”, annotava sempre Andreotti nelle note relative alla giornata del 5 maggio, Diari..., op. cit., p.
220), con il tacito avallo comunista sintetizzato dal “fatelo ma non ditecelo” pronunciato dal “ministro dell'Interno
ombra del Pci” Ugo Pecchioli.
83 Cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit., p. 45.
collaboratore Rana e al ministro Cossiga.
Concordiamo con Gotor, che ha individuato nella scelta di questi primi destinatari delle lettere e
nelle modalità di diffusione adottate in questa circostanza una sorta di “prezioso fossile”, o di
“impronta originaria” non ancora contaminata dall'evoluzione successiva84. Emerge così, nitida,
l'iniziale volontà del rapito di non coinvolgere direttamente la famiglia, a cui invia una lettera di
carattere privato, affettivo e consolatorio. Inoltre, dalla lettera a Rana, appare evidente che Moro ha
iniziato ad escogitare la maniera di ricevere messaggi e documenti dall'esterno, di attivare insomma
il famoso “canale di ritorno”, volontà questa approvata dai brigatisti che consentirono a questa
lettera un recapito riservato proprio perché, come supponiamo nell'avanzare la nostra tesi, si
rendevano conto che il loro prigioniero aveva bisogno di potere attivare sempre nuovi contatti man
mano che i precedenti sarebbero stati bruciati dalle intercettazioni e allo scopo necessitava di
attingere questi nominativi da uno strumento, un'agenda o comunque una raccolta di indirizzi e
recapiti telefonici utili allo scopo. La lettera a Cossiga, politicamente la più interessante per le Br,
venne invece, ad insaputa di Moro che l'aveva scritta pensandola riservata, resa pubblica attraverso
la diffusione alla stampa, a riprova ulteriore che il piano “riservato” era dettato solo dalla necessità e
dall'impossibilità di potere avanzare pubblicamente una simile richiesta.
La scelta di Rana e la telefonata brigatista all'utenza telefonica di via Savoia erano chiaramente un
rischio calcolato in quanto era presumibile che quelle utenze, come quelle di casa Moro, fossero
sotto controllo, circostanza che noi, a posteriori, sappiamo non vera ma che non era conosciuta né
da Moro né dai brigatisti. Ma non si poteva fare altrimenti finché Moro non fosse entrato in
possesso di quella rosa di numeri telefonici e di indirizzi di collaboratori, allievi e amici da cui
scegliere quelli che offrissero dei margini minimi di sicurezza ai “postini brigatisti”. Lo stesso
Moretti, riluttante all'idea che il prigioniero scrivesse lettere ora come lo era al tempo del sequestro
Sossi, in quanto questi recapiti esponevano a rischi di pedinamento potenzialmente devastanti, si
rese conto, e con lui l'Esecutivo delle Br, che dopo dieci giorni di sequestro e due comunicati in cui
si proclamava l'avvio del processo ad Aldo Moro non si era ottenuto nulla, e occorreva fare
assumere un ruolo anche al rapito perché concorresse alla sua salvezza, contribuendo a sgretolare il
blocco della situazione che si era prodotto.
Secondo il racconto in sede di memorialistica fornito dalla Braghetti, in via Montalcini si utilizzò
“la sua agenda, o almeno una delle sue agende”, perché – suppose la ex brigatista - una persona
come lui difficilmente avrebbe potuto racchiudere “tutti i suoi contatti in un libretto così sottile”,
aggiungendo inoltre che l'agenda “che arrivò in via Montalcini, comunque, conteneva pochi nomi,
indirizzi e numeri di telefono”85 che Moro consultò selezionando da essa “una serie di nomi e di
indirizzi” a cui scrivere. Questa agendina privata di Moro, riferisce nel suo racconto la Braghetti,
“sopravvisse soltanto per il tempo strettamente necessario” al sequestro tanto che di essa si
servirono Adriana Faranda e Valerio Morucci che “avevano a lungo studiato l'agenda di Moro”
segnandosi “i numeri telefonici delle persone amiche del presidente Dc delle quali” appariva “meno
probabile che il telefono fosse controllato” 86. Sempre nei ricordi della carceriera, l'agenda venne in
seguito bruciata senza essere stata ricopiata. Occorre soffermarsi su questi passaggi perché
contengono alcuni spunti interessanti per la ricerca che stiamo conducendo.
Tra tutte le opzioni che le forniva la lingua italiana, la brigatista ha adottato, riferendosi all'agendina
di Moro, l'espressione: “quella che arrivò”, frase che dal punto di vista semantico non è tra le più
appropriate data la dinamica con cui questa “agendina privata” giunse in via Montalcini.
Espressioni più idonee a fotografare lo svolgimento dei fatti sarebbero state “quella che fu
rinvenuta” nelle borse oppure “quella che possedeva” il prigioniero all'atto del sequestro.
Dato che il testo non riporta per iscritto una conversazione orale, quale un'intervista o una
deposizione davanti ad un tribunale, ma il brano di un libro che, proprio per le dinamiche che sono
proprie alla sua stesura è luogo di meditazione e riflessione su ogni singola espressione usata, l'uso,
quanto meno disinvolto, di questa formula sembra quasi una chiamata d'appello per tutti coloro che

84 Cfr. M. Gotor, Lettere dalla prigionia..., op. cit., p. 196.


85 Cfr. A. L. Braghetti , P. Tavella, Il prigioniero..., op. cit., p. 76.
86 Franco Alfano, Tutto sia calmo, Roma, Rai-Eri, 2008, pp. 27-8.
sostengono che durante il sequestro esistette un cosiddetto “canale di ritorno” ossia una o più
modalità attraverso le quali fosse possibile far entrare, e non solo uscire, testi scritti dalla “prigione
del popolo”.
Partendo dal ricordo della Braghetti su cui stiamo ragionando, questo “libretto così sottile” ma tanto
utile per la trasmissione delle missive che Moro scriveva da via Montalcini non poteva certamente
racchiudere, come ipotizzava la stessa carceriera, tutti i contatti di un uomo politico del calibro
dell'onorevole Moro, che alla carriera politica trentennale affiancava quella pluridecennale di
professore universitario. In questo libriccino erano, per sua stessa ammissione, contenuti “pochi
nomi, indirizzi e numeri di telefono” di cui, continua la ex brigatista, il prigioniero si servì
estraendone “una serie di nomi e di indirizzi” a cui indirizzare le proprie lettere.
L'ipotesi che proprio questo documento preziosissimo nella gestione della consegna delle lettere del
prigioniero sia transitato dall'esterno verso la “prigione del popolo” acquista maggiore suggestione
se viene correlata ad una delle primissime lettere, ufficialmente non recapitata, che Aldo Moro
scrisse alla moglie Eleonora, recante la data del “27-3-78”, in cui ci siamo già imbattuti nel
tentativo di ricostruire il contenuto delle due borse “sequestrate” dai brigatisti.
In quella fase della ricerca, la nostra attenzione fu attirata dalla brusca troncatura operata proprio in
corrispondenza del passaggio in cui l'uomo politico poteva sciogliere l'enigma.
Questa lettera è immediatamente successiva nella stesura alle tre lettere universalmente riconosciute
come le prime uscite dalla prigione di via Montalcini e recapitate nella giornata del 29 marzo a
Nicola Rana, che in quel momento si trovava nello studio di Aldo Moro in via Savoia87.
In quel primo contatto, o almeno nel primo certamente noto, Moro fornì come detto ai rapitori il
numero di telefono del suo studio di via Savoia, utenza telefonica che era senz'altro tra i numeri
conservati a memoria dal prigioniero. Sicuramente Moro escluse, per ragioni legate ai rischi che
potevano correre, i familiari; i brigatisti d'altra parte fecero ricorso alla stampa per rendere pubblica
la lettera indirizzata a Cossiga (scritta da Moro pensandola riservata), mentre attivarono una
consegna “riservata” per le altre due, allo scopo di non compromettere l'unico varco al momento
utilizzabile.
Nella lettera a Rana, infatti, esauriti i ringraziamenti per il sostegno profuso a lui e ai suoi familiari
e descrivendo le lettere accluse alla stessa, Moro lo informa della sua “idea e speranza” di riuscire
ad allacciare “questo filo” dalla prigione alla portineria di Rana che deve chiaramente restare
“segreto il più a lungo possibile” per sottrarlo alle “pericolose polemiche” che egli fatalmente
immagina. Questo canale, negli auspici di Moro, dovrebbe “già dalla prima volta” non essere
sottoposto a “sorveglianza alcuna”, impegno che solo Cossiga può garantire e che almeno
“verbalmente, dovrebbe impegnarsi” a mantenere, bloccando “ogni sorveglianza nel corso
dell'operazione”, visto che un eventuale “incidente farebbe crollare tutto con danno incalcolabile”88.
Ma se la portineria di Rana poteva essere uno dei poli esterni, occorreva al tempo stesso individuare
un luogo alternativo per la consegna dell'agenda, estremamente promiscuo ma in cui tanto gli
uomini di Moro quanto quelli delle Br potessero muoversi senza attirare l'attenzione di sguardi
indiscreti; un luogo quale la Facoltà di Scienze politiche o comunque l'ateneo La Sapienza. In questi

87 L'interlocutore informò Rana che doveva recarsi in piazza Sant'Andrea della Valle dove, nell'intercapedine tra il
muro e un'edicola di giornali, avrebbe trovato una busta arancione. Rana dichiarò dinanzi alla Commissione Moro di
essersi recato a casa Moro e di avere personalmente consegnato le tre lettere alla signora Eleonora, la quale trattenne
con sé, “per motivi sentimentali e affettivi”, le missive rivolte a lei e al collaboratore del marito e fece consegnare a
Cossiga, tra le 18 e le 18.30, quella a lui indirizzata; cfr. CM, vol. XLI, pp. 397-8 e 426. Si veda M. Gotor, Lettere
dalla prigionia..., op. cit., p. 5, n.1.
88 Le citazioni provengono dalla lettera che Aldo Moro indirizza a Nicola Rana e che può essere letta integralmente in
M. Gotor, Lettere dalla prigionia..., op. cit., p. 6. Recapitata come detto il 29 marzo 1978, la lettera venne pubblicata
per la prima volta dal giornalista Mino Pecorelli nella rivista che egli dirigeva Osservatorio Politico (da ora in poi ci
si riferirà ad essa con l'acronimo OP) il 13 giugno 1978. La riproduzione dell'originale è in CM, vol. CXXII, pp.
463-4. Di questa lettera non sono stati rinvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano né il dattiloscritto
nell'ottobre del 1978, né la fotocopia del manoscritto nel successivo rinvenimento del 9 ottobre 1990. Gotor ha
ampiamente dimostrato che questo modus operandi caratterizzò la gestione delle lettere di Moro ogni qual volta le
stesse venivano “bruciate”, ossia consegnate al destinatario o rese direttamente pubbliche come nel caso della lettera
al ministro Francesco Cossiga che venne diffusa dai brigatisti assieme al loro comunicato n. 3.
ambienti infatti le Brigate rosse godevano di una serie vasta e fluttuante di coperture derivanti dai
numerosi simpatizzanti dell'area dell'Autonomia e vi tenevano permanentemente quale raccordo il
brigatista Bruno Seghetti, militante regolare ma non clandestino 89. Sarà lui, nella nostra
ricostruzione, a ricevere da una figura appartenente all'entourage di Moro – che proveremo ad
individuare di qui a breve – la preziosa rubrica, e a consegnarla a Moretti (oppure alla coppia
Morucci – Faranda affinché la consegnassero a Moretti) che la porterà in via Montalcini. Da parte
sua Moro riteniamo abbia individuato alcuni possibili intermediari nello stesso ambiente
universitario. Tra questi Franco Tritto, nemmeno ventottenne, il più giovane fra i suoi assistenti e
come tale abitualmente avvicinato dagli studenti. avvicinabile e avvicinato da parte degli studenti90.
Ma la delicatezza e la necessità della consegna dell'agendina imponevano a Moro di non
circoscrivere al solo Tritto il campo dei possibili intermediari, ipotizzando anche la possibilità di
servirsi, allo scopo, di alcuni dei suoi allievi, come sembrerebbe dimostrare la lettera alla moglie del
“27-3-1978” nella quale Moro, dopo avere dispiegato saluti a familiari, collaboratori e amici, fa un
preciso riferimento alla sua “rubrichetta verde” dove la moglie avrebbe trovato il numero di
telefono di Maria Luisa Familiari91, allieva tra le più care, chiedendo alla moglie di “telefonarle di
sera per un saluto a lei ed agli amici” che lo accompagnavano tutte le domeniche a Messa.
In una sua pubblicazione, il giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, specializzato in
cronaca giudiziaria, nel descrivere il dietro le quinte del sequestro di Aldo Moro, fa riferimento
spesso alle particolari vicende di una studentessa del professore della quale non svela l'identità
chiamandola genericamente “Tiziana”. L'autore non svela la vera identità di “Tiziana”, così come
nel corso della narrazione si riferisce ai brigatisti utilizzando i loro pseudonimi, nonostante ormai
identità, ruoli e responsabilità siano stati definitivamente accertati. Solo per i collaboratori di Moro,
politici e universitari, ricorre ai veri nomi.
La studentessa “Tiziana”, che chi scrive identifica con quasi assoluta certezza con Maria Luisa
Familiari, la mattina del 16 marzo avrebbe dovuto conseguire la laurea in Scienze politiche
discutendo la tesi, relatore il professor Aldo Moro, in Istituzioni di diritto e procedura penale dal
titolo Infermità di mente e pericolosità sociale: trattamento e rieducazione secondo il codice penale
nel nuovo ordinamento penitenziario. Il lavoro di preparazione della tesi era stato estremamente

89 Che Bruno Seghetti sia per le Brigate rosse “l'uomo alla Sapienza” è confermato dalla circostanza che allorché
Lanfranco Pace (ex dirigente romano di Potere Operaio, con una brevissima esperienza nelle Br e nel 1978 uno dei
leader di Autonomia operaia) cercherà di prendere contatto, assieme a Franco Piperno, con gli ex compagni Morucci
e Faranda nell'ambito delle iniziative condotte dagli ambienti socialisti, non andrà a cercare casa per casa i due
vecchi commilitoni di Potere operaio, irreperibili tanto per lui quanto per le forze dell'ordine, ma si recherà alla
Sapienza e prenderà contatto con Bruno Seghetti, che tutti nella galassia autonomista presente nell'ambiente
universitario sanno essere delle Brigate rosse. Interrogarsi su come questa “notorietà” sfuggisse agli inquirenti è
oggi stucchevole e per chi si sforza di adombrare su questa e altre inefficienze investigative tanti presunti misteri
basta la risposta che Gallinari in carcere diede a Cossiga in uno dei tanti colloqui che l'ex-presidente ebbe con i
protagonisti di quella terribile stagione: “voi cercavate Moro in una casa isolata, ordinavate perquisizioni ai corpi
speciali, ma avreste dovuto affidarvi ai vigili urbani”; cfr. Aldo Cazzullo, «Il caso Moro e i comunisti. In mille
sapevano dov'era». «Gallinari mi disse: non avete idea dei nostri protettori». «Craxi voleva Dalla Chiesa ministro»,
intervista a Francesco Cossiga, in Corriere della sera, 14 novembre 2007.
90 Racconterà anni dopo Rana che il generale Dalla Chiesa, in un colloquio avuto con lui dopo la morte di Moro, aveva
sospettato che vi fossero nella cerchia di coloro che frequentavano l'uomo politico persone vicine alle Br e il
generale aveva puntato gli occhi, tenendoli sotto osservazione, tanto su Tritto quanto su quei giovani che venivano
con lui in contatto; cfr. intervista rilasciata da Nicola Rana ad Alessandro Forlani il 20 settembre 2010 e ora
contenuta in A. Forlani, La zona franca..., op. cit., pp. 166-7. Alla stessa stregua anche Bruno Seghetti aveva
ricevuto le attenzioni degli investigatori al punto che, nella retata disposta dagli inquirenti all'alba del 3 aprile 1978,
anche il suo nome risultò tra quelli da perquisire; ma gli agenti che si recarono all'unico indirizzo che possedevano,
quello dei genitori, constatatane l'assenza ed effettuata una sommaria perquisizione lasciarono agli increduli
familiari un generico invito per il figlio a comparire per accertamenti. Questi puntualmente si presentò su
disposizione di Moretti il quale aveva deciso, come in una mano di poker, di cercare di scoprire le carte
dell'avversario anche a costo di “bruciare” un militante, cosa che comunque non avvenne in quanto Seghetti, giunto
in commissariato, non trovò nessuno in grado di riferirgli le ragioni per le quali era stato convocato.
91 Maria Luisa Familiari, allieva di Moro che egli pensò di coinvolgere nel recapito di alcune missive. Nel corso del
sequestro le scrisse tre lettere, ritrovate solo nell'ottobre 1990, che la donna ha sempre dichiarato di non avere mai
ricevuto. Ha lavorato alla Rai ed è deceduta una decina di anni fa.
lungo ma era stato seguito con particolare interesse da Moro, il quale in origine aveva avuto qualche
perplessità sul fatto che una donna affrontasse un argomento “pesante” quale quello dei manicomi
giudiziari. Ma la determinazione della ragazza aveva avuto la meglio e il professore, per le visite ai
manicomi giudiziari, l'aveva affidata spesso al suo giovane assistente, Saverio Fortuna, magistrato
distaccato al ministero di Grazia e Giustizia in via Arenula92.
La sera della vigilia della seduta di laurea la studentessa, in preda alla naturale agitazione da vigilia,
aveva deciso di telefonare all'assistente del professore per sincerarsi appunto che egli fosse presente
alla discussione, data la particolare coincidenza con la presentazione alla Camera dei deputati del
nuovo governo Andreotti. Rincuorata dalla certa presenza del professore, che “magari con un po' di
ritardo ma verrà”, assicuratale dal dottor Fortuna, la ragazza si restituì alle immancabili attività di
ripasso93.
La mattina della tragedia di via Fani, la prossima dottoressa e i familiari erano talmente presi dagli
ultimi preparativi che ricevettero la notizia dell'accaduto solo per telefono ad opera di una cugina
della ragazza, dipendente del Viminale94. Recatasi lo stesso in facoltà per apprendere notizie al
riguardo e indicazioni circa lo svolgimento della seduta di laurea, le venne comunicato che per gli
studenti del professore Moro la prova era stata rinviata a data da destinarsi95.
Appare dunque naturale che il pensiero dell'uomo politico andasse alla giovane studentessa al punto
da invitare la moglie a “telefonarle di sera per un saluto” e che questo pensiero si potesse coniugare
nella mente del prigioniero con la possibilità di servirsi eventualmente anche di lei per attivare una
via di comunicazione con l'esterno, sicura e non rintracciabile nell'immediato dalle forze dell'ordine.
Secondo la versione finora conosciuta, quando Eleonora Moro il 22 marzo ricevette, su disposizione
del magistrato, gli effetti personali rinvenuti nella vettura, tra questi vi erano anche le copie delle
tesi di laurea che quella mattina alcuni allievi del professore avrebbero dovuto discutere, prese delle
informazioni in merito e apprese che i detti allievi non intendevano sostenere la prova finché il loro
amato professore non fosse stato restituito alla libertà. Tra loro c'era appunto “Tiziana” la quale,
accompagnata dall'assistente universitario di Moro, Franco Tritto, si era anche recata in visita, dopo
l'agguato, alla vedova del maresciallo Leonardi, figura sempre presente al fianco dell'uomo politico,
che gli studenti avevano imparato nel tempo e con la frequentazione ad apprezzare e stimare.
La signora Eleonora a questo punto decise di scrivere una lettera a “Tiziana” e ad ognuno di questi
allievi per ringraziali dell'affetto e della solidarietà, e persuaderli a sostenere l'esame di laurea anche
in assenza del marito. Anche in virtù di questo accorato e affettuoso appello epistolare “Tiziana”
deciderà, il 31 marzo, di sostenere la discussione della tesi che la gratificherà con un 110 e lode
carico di angoscia.
Non si può in questa sede mettere minimamente in dubbio la bontà d'animo o la purezza di pensiero
della signora Moro che corre verso gli allievi del marito, soprattutto quando, per contro, si avanzano
solo delle ipotesi di lavoro; desta comunque attenzione che l'identico, affettuoso pensiero verso
questi sfortunati allievi universitari corra, quasi negli stessi giorni, in entrambi i coniugi, senza che
l'uno sappia dell'attività dell'altra visto che “ufficialmente” la lettera del 27 marzo di Moro alla
moglie non è stata mai recapitata.
In questa sede ipotizziamo che Moro, nelle righe scomparse della citata lettera alla moglie datata
“27-3-1978”, avanzasse la richiesta alla moglie di individuare la “rubrichetta verde” e di operare
una trascrizione minima di alcuni contatti, probabilmente quelli che nella stessa lettera sono
destinatari dei saluti, ossia l'assistente universitario Saverio Fortuna, la citata Maria Luisa Familiari
e gli amici delle domeniche a messa “Mimmo, Matteo, Manfredi e Giovanna”96.

92 Cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit., pp. 6-7. Saverio Fortuna conosce Aldo Moro da quando era
ragazzino, dato che sua madre è amica di gioventù della moglie dell'uomo politico. La fiducia che Moro nutre nei
confronti di questo giovane è tale da delegarlo a guidare le visite nelle carceri che ritualmente organizza per fare
comprendere meglio ai suoi allievi le implicazioni reali ed umane delle teorie che studiano sui libri; cfr. Ib, p. 37.
93 Ibidem, pp. 7-8.
94 Ibidem, pp. 24-5.
95 Ibidem, pp. 37-8.
96 Si tratta dei giovani allievi di Moro che lo accompagnavano a messa ogni domenica nella chiesa di Santa Chiara,
insieme con la Familiari: Domenico Cina (secondo Flamigni probabile destinatario di una telefonata da parte delle
Una riflessione fatta dinanzi la Commissione Stragi da Giovanni Moro il 9 marzo 1999 ci fornisce
ulteriori elementi a suffragio dell'ipotesi relativa al possesso di una rubrica da parte di Moro,
durante il suo sequestro, che qui avanziamo.
Alla precisa domanda se ritenesse possibile che il padre avesse avuto un contatto con don Mennini,
il figlio dell'uomo politico affermò che non avevere elementi sufficienti per poter escludere questa
possibilità, che, detto per inciso, era a parere del figlio di Moro estendibile per le identiche ragioni
anche ad “un'altra ventina o trentina di persone che avrebbero potuto essere coinvolte, perché
magari allievi dell'università con i quali [il padre] aveva rapporti”. Giovanni Moro aggiunse inoltre
che di questi allievi il padre “certamente aveva durante il sequestro l'elenco con i numeri di telefono
(perché da lì furono chiaramente individuate alcune delle persone a cui furono recapitate le
lettere)”97. Ma di come il padre sia venuto in possesso di questo “elenco con i numeri di telefono”
che tanto somiglia al “libretto così sottile” corredato di “pochi nomi, indirizzi e numeri di telefono”
di cui parla Braghetti, il figlio dell'uomo politico non parla e nessun elemento è emerso, come
abbiamo già visto, a suffragio della possibilità che lo avesse all'interno delle due borse.
Chi scrive ritiene che queste riflessioni non siano precedentemente emerse perché i passaggi che
stiamo evidenziando (il riferimento ad una “rubrichetta verde” e i nomi e i recapiti in essa trascritti
e la mancata descrizione del contenuto delle borse di Moro) presenti nella lettera alla moglie del
“27-3-1978”, ritrovata solo nell'ottobre 1990, per lungo tempo sono rimasti celati a causa di una
erronea lettura in cui si imbatterono i primi studiosi dell'epistolario di Aldo Moro, i quali
considerarono come un'unica missiva sia questa lettera tronca sia il successivo foglio, sempre
indirizzato da Moro alla moglie Eleonora, che apparteneva invece ad un'altra lettera il cui primo
foglio è a tutt'oggi scomparso. Rimettiamo perciò ordine alla vicenda.
Quando nell'ottobre del 1990 vennero rinvenute, celate dietro un pannello di cartongesso, le
fotocopie dei manoscritti di Aldo Moro, lettere e “memoriale”, queste erano collocate in una
carpetta e disposte, supponiamo da mano brigatista, in ordine cronologico. Nonostante la
Commissione Stragi, nel riprodurle nel suo volume II dedicato ai documenti, le considerasse
senz'altro due lettere distinte, sia Flamigni sia Tassini le considerarono invece come appartenenti ad
un'unica missiva98. Il lavoro inedito dello storico Gotor sugli originali ha evidenziato l'uso ricorrente
nella scrittura di più penne, diverse per marca, tratto e inchiostro, da parte di Moro, senza che
questo cambio di penna trovasse giustificazione se non in un unico caso in cui era palese
l'esaurimento dell'inchiostro stesso.
Questa informazione ha permesso, nelle occasioni in cui il cambio di penna all'interno della stessa
lettera è stato ripetuto più volte, di scoprire che la numerazione autografa presente sui fogli, per
distinguerli e numerarli progressivamente, veniva posta dall'autore mentre sviluppava il suo
pensiero, quindi contemporaneamente alla stesura e non successivamente, a lavoro finito, come si
era precedentemente ipotizzato. L'intuizione di Gotor si fonda altresì sui ricorrenti errori di
numerazione che assai difficilmente si sarebbero verificati se appunto la numerazione fosse stata
“aggiunta” da Moro dopo avere completato la stesura delle lettere.
Nel nostro caso l'informazione ci attesta che nella lettera parziale (e di impossibile datazione
attualmente) il numero “2” a contrassegnare il foglio fu posto dall'autore mentre la componeva e
non è ipotizzabile un suo inserimento successivo. Il che significa che la lettera è appunto priva di un
primo foglio vergato dal prigioniero.
Per comodità riportiamo di seguito il testo contenuto in questo foglio, per lungo tempo accorpato
alla lettere alla moglie datata 27 marzo 1978, così come riprodotto da Gotor99:

Br; cfr. S. Flamigni, Gli scritti..., op. cit., p. 63, n. 8); Matteo Pizzigallo, allora assistente universitario a Scienze
politiche di cui l'uomo politico era stato nel 1974 testimone di nozze; Manfredi Lo Jucco, che doveva discutere la
tesi di laurea proprio la mattina del rapimento e Giovanna Costabile che Tassini erroneamente identifica in un uomo
dal nome “Gianni”; cfr. E. Tassini, Ultimi scritti..., op. cit., p. 159.
97 Cfr. CTS, Steno, n. 48, 9 marzo 1999.
98 Si veda S. Flamigni, Gli scritti..., op. cit., pp. 63-4 e E. Tassini, Ultimi scritti, op. cit., p. 159.
99 I soli elementi presenti, l'assenza del primo foglio e la mancanza di indicazioni temporali ci impediscono di datare
questa lettera. Gotor la colloca, assegnandole un numero progressivo “5” nel corpus delle lettere, tra la lettera alla
moglie “27-3-1978” e la lettera a Zaccagnini, ricalcando di fatto la collocazione che una mano misteriosa le aveva
«/ Ora credo di averti stancato e ti chiedo scusa. Non so se e come riuscirò a sapere di voi. Il meglio
è che per rispondermi brevemente usi giornali. Spero che l'ottimo Giacovazzo si sia inteso con
Giunchi. Ricordatemi nella vostra preghiera così come io faccio.
Vi abbraccio tutti con tanto tanto affetto ed i migliori auguri.
vostro
Aldo

P.S. Accelera la vendita dell'appartamentino di Nonna, per provvedere alle necessità della sua
malattia.»

Prima dei saluti e di un post scriptum che fa riferimento a vicende private, come vediamo Moro
introdusse con un breve rigo un grosso punto interrogativo, manifestando la speranza che “l'ottimo
Giacovazzo” abbia avuto modo d'intendersi con Giunchi.
Agli assertori del complotto filoamericano nella gestione del sequestro Moro, e della lunga mano
dell'ex segretario di Stato americano, Henry Kissinger, sui destini del politico pugliese,
(notoriamente e più volte nel passato avversato) non parve vero di ritrovare, autografo, un simile
riferimento. Il professor Mario Giacovazzo era infatti il medico personale di Aldo Moro, mentre il
professor Giuseppe Giunchi era il medico personale del Presidente della Repubblica Giovanni
Leone. Entrambi i due medici avevano assistito Moro in occasione del viaggio negli Stati Uniti nel
settembre 1974, quando l'uomo politico, dopo l'incontro con il segretario di Stato americano Henry
Kissinger, fu colpito da un malore che lo indusse ad anticipare il suo rientro in Italia100.
Quando il professor Giacovazzo poté conoscere questa frase a lui rivolta, successivamente al
ritrovamento dell'ottobre 1990, ipotizzò che Moro intendesse non tanto riferirsi alle proprie
condizioni di salute ma indicare un legame tra le minacce americane e la propria situazione, o anche
investire il Presidente della Repubblica e il suo potere di concedere la grazia a un terrorista detenuto
per ragioni di salute; concessione di grazia di cui comunque si parlerà solo nella fase finale del
sequestro e che non era minimamente oggetto di discussione nel momento in cui Moro vergava
queste righe. Il professor Giacovazzo, sempre in questa circostanza, ricordò come Moro fosse stato,
nel passato, oggetto di pesanti minacce per la sua linea politica di “apertura” verso il Partito
comunista, minacce queste confermate anche dalla moglie di Moro sia in sede di Commissione
Moro sia in sede processuale.
Chi scrive ritiene che l'ipotesi di una vendetta dell'ex segretario di Stato americano Kissinger a
distanza di ben quattro anni dai fatti sia da scartare, perché in essa vi si legge una concezione
tipicamente italiana del potere, che cristallizza l'uomo del potere forte come “sempre verde” e
immune all'alternanza delle stagioni politiche. Questa visione fotografa perfettamente la mappa del
potere italiano, ma risulta inefficace nel tradurre l'analoga americana, ricca di lobbies e di poteri
forti tra loro contrastanti, che subiscono notevolmente l'effetto del risultato delle elezioni
presidenziali; risultato che sancisce in modo deciso l'orientamento dell'amministrazione americana
per i successivi quattro anni.
Dal 1976 era Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, e ricopriva l'incarico di ambasciatore
americano in Italia Richard G. Gardner. La politica estera dell'amministrazione americana a guida
Carter, pur mostrandosi particolarmente attenta all'avanzata elettorale e di consensi nell'opinione
pubblica del Partito Comunista Italiano, aveva stigmatizzato i precedenti comportamenti americani
di intromissioni “moleste” e poco opportune negli affari interni dei paesi alleati e assunto una
posizione di “non interferenza, non indifferenza” verso di essi, segnando così un netto cambio di
rotta rispetto alla politica estera di Kissinger, che aveva rappresentato invece la linea dell'intervento,
in ogni caso e con qualunque mezzo, al fine di indirizzare gli eventi e le vicende dei paese stranieri
ed alleati in senso favorevole agli interessi americani. A dispetto delle molte perplessità la teoria
della cospirazione americana e della regia di Kissinger nelle vicende che interessarono le sorti di

assegnato riponendola nella carpetta celata dietro la parete di cartongesso nel covo di via Monte Nevoso.
100 Cfr. CM, vol. CVI, pp. 450 e 456.
Aldo Moro ebbe una consistente fortuna che, seppur affievolita, non è del tutto venuta meno nel
tempo, e nonostante i documenti d'archivio trova ancora in tempi recenti qualche sostenitore101.
Il riferimento all'ottimo Giacovazzo invece potrebbe celare una precedente e a noi sconosciuta
richiesta del prigioniero alla moglie di inserire anche il medico tra i possibili destinatari di lettere
riservate, ipotesi questa avvalorata anche dalla dichiarazione rilasciata da Cossiga in sede di
audizione alla Commissione Stragi, quando, parlando dei collaboratori di Moro – segnatamente
Giacovazzo, Rana, Freato, Guerzoni e Manzari – l'ex Presidente della Repubblica non si pose
dubbio alcuno circa la capacità di questi uomini di “coniugare la loro fedeltà all'onorevole Moro e
la collaborazione primaria con la famiglia” con la disponibilità a fornire agli inquirenti “ogni utile
informazione che non danneggiasse la ricerca comunque di salvare l'onorevole Moro” 102. Quindi
“l'ottimo Giacovazzo” veniva chiamato in ballo non per riferirsi a Kissinger e ad anni ormai lontani
nel tempo, ma per attivarlo in ben più pratiche incombenze utili a salvare la vita dell'uomo politico,
ma a noi purtroppo ignote.
Restituendoci al foglio/i mancanti nella lettera di Moro alla moglie, datata 27 marzo 1978, abbiamo
ipotizzato che questo/i, prima di concludersi con i saluti e le immaginabili manifestazioni d'affetto
verso la moglie e i propri cari, contenesse la descrizione sommaria dei contenuti delle cinque borse
che quella mattina, come di consueto, immancabilmente lo seguivano, e abbiamo altresì ipotizzato
che proseguisse con indicazioni utili a far pervenire al prigioniero la “rubrichetta verde” con un
corredo minimo essenziale di nomi, recapiti telefonici ed indirizzi a cui potesse attingere Moro per
tessere “questo filo, che cerco di allacciare” tra la prigione dove è detenuto e il mondo esterno.
Nel foglio che invece risulta al momento scomparso, nella lettera che stiamo analizzando, Moro
pone ad incipit del foglio superstite delle scuse alla moglie perché suppone che le indicazioni e le
procedure di comportamento che ha finora, immaginiamo dettato, possano aver “stancato” la
consorte, già in preda alla normale angoscia derivante dal tragico rapimento dell'uomo politico.
Nel pensiero successivo Moro intuisce che detto canale, ammesso che funzioni fin dal primo
recapito, non è detto che resterà segreto per molto e nel caso malaugurato di fallimento il
prigioniero sa che non potrà facilmente accedere alle informazioni di cui necessita per tessere la sua
trama, con il rischio concreto di non sapere se riuscirà “a sapere di voi”. Per questo predispone, fin
dalla data di questa stesura, che la migliore soluzione da adottare per la moglie è “che per
rispondermi brevemente usi giornali”.
Quanto detto finora ci consente di fare un ulteriore bilancio: Aldo Moro è riuscito a persuadere i
suoi carcerieri a fargli scrivere delle lettere di carattere affettivo, di natura tattica e di spessore
politico; ha dimostrato con la consegna senza incidenti che persone e luoghi che indica, seppur
controllati, sono comunque affidabili; li ha convinti che la via di comunicazione non può essere
unica e che egli necessita dei contatti dei nomi di cui intende avvalersi.
Da ciò possiamo desumere che la lettera in oggetto può tranquillamente collocarsi nel periodo che
va dal 26 al 30 marzo, non oltre perché collimerebbe con la data di stesura della lettera a

101 Per un quadro completo delle posizioni e delle ipotesi sul ruolo svolto nella vicenda Moro da “agenzie governative”
americane o dai servizi segreti di altri paesi stranieri; cfr. V. Satta, Odissea nel caso Moro..., op. cit., pp. 17-49.
Paradossalmente invece passò sotto assoluto silenzio un recente ricordo di Maria Fida, la quale rivelò che il 3 agosto
del 1974 il padre, in procinto di raggiungere la famiglia in vacanza a Bellamonte, località del Trentino dove la
famiglia Moro possedeva una casa, si trovava sul convoglio ferroviario del treno Italicus in attesa di partire dalla
stazione Termini di Roma, quel treno che a distanza di poche ore sarebbe stato oggetto di un attentato terroristico al
quale si sottrasse solo perché, prima del fischio di partenza, venne fatto scendere dalla carrozza ferroviaria da alcuni
funzionari appositamente inviati per farlo rientrare al ministero e apporre la firma ad alcuni documenti. Sarebbe
stato piuttosto questo episodio ad apparire più verosimile quale “vendetta” di Kissinger, visto che, a quella data, era
ancora un uomo potente e segretario di Stato americano; cfr. M. F. Moro, Se papà per miracolo tornasse vivo, lo
ucciderebbero ancora e ancora e ancora..., pp. 113-126 (il riferimento in oggetto è riportato nelle pp. 114-5) in
Giovanni Fasanella – Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Bur, Milano, 2006.
102Cfr. CTS, Resoconti stenografici delle audizioni, Legislatura XI, seduta del 21 dicembre 1993, pp. 398-9.
Zaccagnini103, alla quale, stando alla brigatista Braghetti, Moro “lavorò per giorni, stendendola in
più riprese e in quattro versioni”104.

“Troncare, sopire... sopire, troncare...”


30 marzo – 8 aprile
L'atteggiamento del governo e le disposizioni “ufficiosamente” impartite alle forze dell'ordine erano
stati all'insegna della estrema prudenza mista ad accortezza, cautele che nel pomeriggio del 29
marzo discretamente assistettero Rana, contattato telefonicamente dalle Brigate rosse, nel ritirare le
prime lettere dalla “prigione” di Aldo Moro105.
Annoterà il giorno successivo Andreotti nei suoi diari, riferendosi appunto all'episodio di Rana, che
occorreva muoversi con estrema cautela ed attenzione in quanto “se cercassimo apertamente di
catturare il corriere di Rana potrebbero aversi ritorsioni tragiche su Moro” 106. Atteggiamento a cui
le forze dell'ordine si attennero alla lettera.
Ma i contenuti della lettera di Moro a Cossiga iniziano a nostro avviso ad incrinare questo clima di
“non interferenza” in quanto dalle righe emerge chiaramente che ogni speranza fino ad allora
riposta da parte del governo che gli unici rischi consistessero nell'essere Moro “chiamato o indotto a
parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”, inizia a
vacillare in quanto lo stesso Moro sottopone ai lettori della sua lettera “alcune lucide e realistiche
considerazioni” per invitarli a “riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori”. La
tanto temuta richiesta di trattativa, non pronunciata ancora dai brigatisti (dato che, lettera alla mano,
è Moro che ne paventa per primo la possibilità), ma paventata invece fin dalle primissime ore dalla
stampa nazionale, dai dirigenti comunisti e dai sindacati confederati e giudicata “irricevibile” fa
capolino, costringendo necessariamente Andreotti e Cossiga a ridefinire la gestione del sequestro.
A questo punto rileviamo un cambio di atteggiamento nei confronti dei familiari e amici del
prigioniero, che fino a quel momento avevano goduto di “sorveglianza scarsissima”, con l'iniziale
invito a Rana a rendere noti (a Cossiga e ad Andreotti che tale circostanza annota nel suo diario alla
data del 3 aprile107) i contenuti della lettera a lui rivolta e a riferire ogni utile informazione in suo
possesso; fino ad operare una repentina e definitiva accelerazione, con l'adozione appunto delle
dolorose “misure” di pedinamento e intercettazione108 dopo il recapito, il 4 aprile, della lettera di
Moro a Zaccagnini ad opera di Rana e Guerzoni che avevano provveduto a ritirarla in un bar di
Trastevere109. La stessa lettera, inviata per conoscenza dalle Brigate rosse ai giornali, verrà resa
103La lettera a Zaccagnini venne recapitata in originale a Rana nel pomeriggio del 4 aprile mentre copie della stessa
vennero diffuse con l'usuale sistema delle telefonate alle redazioni di giornali che la pubblicarono il giorno dopo. Si
ritiene che la stesura ebbe inizio intorno al 31 marzo; cfr. M. Gotor, Lettera dalla prigionia..., op. cit., pp. 14-5; S.
Flamigni, Gli scritti..., op. cit., p. 69; CM, vol. XXX, p. 831.
104Cfr. A. L. Braghetti , P. Tavella, Il prigioniero, op. cit., p. 122. Qualora il ricordo della Braghetti fosse esatto ci
fornirebbe la notizia di due ulteriori versioni della lettera a Zaccagnini a noi sconosciute, dato che di questa lettera se
ne conoscono solo due
105Contrariamente a quanto inizialmente si pensava (cfr. S. Flamigni, La tela del ragno..., 1993, pp. 124-5) l'utenza
telefonica di via Savoia non era sotto intercettazione telefonica e lo stesso Rana, conclusa la telefonata con il
brigatista Valerio Morucci che gli indicava dove recuperare la prima corrispondenza del presidente democristiano
(piazza S. Andrea della Valle), chiama il capo della polizia Parlato (Flamigni non riusciva a spiegarsi come lo stesso
fosse venuto a conoscenza di questa telefonata se non vi erano intercettazioni in corso; cfr. S. Flamigni, La tela del
ragno..., 1988, op. cit., pp. 107-8) legato a lui da amicizia e frequentazioni (Parlato era stato in via Savoia proprio il
pomeriggio del 15 marzo per rassicurare Rana, e tramite lui l'onorevole Aldo Moro, che non vi era alcun pericolo
all'orizzonte e nemmeno dodici ore dopo era passato a prendere Rana a casa per condurlo in via Fani) per informarlo
della telefonata ricevuta; cfr. G. Bianconi, Eseguendo la sentenza..., op. cit., p. 134. Parlato detta disposizioni al
capo della Digos, Domenico Spinella, affinché disponga una discreta sorveglianza, a debita distanza, ma senza
interferire o ostacolare il ritiro della corrispondenza, come in effetti avviene.
106G. Andreotti, Diari..., op. cit., p. 198 (30 marzo 1978).
107G. Andreotti, Diari..., op. cit., p. 200 (3 aprile 1978).
108Le prime trascrizioni di intercettazioni all'utenza telefonica di Rana risalgono al 7 aprile mentre per quanto riguarda
le diverse linee telefoniche della segreteria di via Savoia le intercettazioni prendono avvio dall' 8 aprile 1978.
109Nicola Rana, ricevuta la telefonata delle Brigate rosse che lo informava della presenza di nuova corrispondenza,
contattò Corrado Guerzoni per chiedergli di assisterlo nel ritiro da effettuarsi in un bar di Trastevere, a poche decine
di metri da quella via Foà dove verrà rinvenuta, pochi giorno dopo l'eccidio di Moro, una tipografia allestita con
pubblica il giorno seguente: in essa Moro rompe ogni indugio e oltre a definirsi “prigioniero
politico”, prospetta quale “unica soluzione possibile” la liberazione “di prigionieri di ambo le parti”.
Tornando alle modalità di recapito della lettera a Zaccagnini, il perseverare su Rana quale tramite
per il recapito degli originali ci conferma direttamente che fino a quella data Aldo Moro non è
venuto in possesso della rubrica a cui attingere i nominati “sicuri” e indirettamente che lo stesso
Rana (e Guerzoni che nell'operazione lo assiste), seppur sottoposto a controllo da parte delle
autorità, godeva ancora di una certa elasticità di movimenti. Ma la lettura e l'analisi delle lettere
successive a questa data ci testimoniano che qualcosa di nuovo deve essere avvenuto in questa
giornata del 4 aprile e che la consegna della rubrica sia andata a buon fine.
Il giorno successivo, se non addirittura il 4 aprile stesso, viene recapitata alla moglie Eleonora una
lettera del marito. Questa missiva corrobora ulteriormente la tesi che stiamo avanzando in quanto,
dall'inizio dell'attività epistolare del prigioniero, questa è la prima lettera che, seppur recapitata (ma
a tutt'oggi si ignorano le modalità di consegna alla famiglia), non sarà conosciuta per tutto il periodo
del sequestro e verrà resa pubblica solo nel 1979, tramite una pubblicazione a stampa degli scritti
politici di Moro e anche delle lettere dalla “prigione del popolo” a cura della Fondazione Aldo
Moro110.
Nell'incipit della lettera Moro si affida alla benevolenza degli uomini che lo detengono prigioniero
per far pervenire alla moglie “questo caro saluto e le connesse indicazioni, le quali sono date per la
mia relativa tranquillità”. Le connesse indicazioni a cui il prigioniero fa riferimento sono i
testamenti che egli, in via precauzionale come avvisa nella lettera, ha vergato, ma che non verranno
conosciuti dalla famiglia se non nell'ottobre 1990, quando degli stessi verranno rinvenute le
fotocopie111.
Nel seguito della lettera Moro chiede espressamente alla moglie di fargli pervenire loro notizie
anche tramite “due righe di messaggio per giornale”, desiderio che la famiglia esaudirà prontamente
rivolgendosi al direttore Gaetano Afeltra del quotidiano Il Giorno, con cui Moro collaborava fin dal
1972 e che il 7 aprile pubblicherà una lettera della famiglia indirizzata al prigioniero.
Questa lettera della signora Moro al marito, con il riferimento “alla fiducia negli uomini” che
ancora nutre la famiglia, mostra un palese richiamo alla “benevolenza degli uomini” alla quale
Moro si era appellato per la consegna della lettera alla moglie e rappresenta, ad avviso di chi scrive,
il primo documentato scambio di comunicazioni a distanza tra i due coniugi Moro.
Tornando alla breve lettera di Moro alla moglie, egli, dopo diverse righe affettuose indirizzate ai
familiari, li ammonisce, sottolineato con una riga, a non far parola “alla stampa o a chiunque di quel
che scrivo” e inserisce nel testo una frase ambigua: “Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non
dovesse mai finire”. Sergio Flamigni, che per primo realizzò uno studio delle lettere dalla prigionia
di Aldo Moro, risolse l'ambiguità immaginando che l'uomo politico facesse riferimento ad una foto,
magari dell'amato nipotino Luca e questa chiave di lettura, non essendoci altri elementi a

denaro delle Brigate rosse e frequentata da Mario Moretti. La lettera destinata a Zaccagnini era stata riposta dietro
un apparecchio jukebox ma, benché visibilissima, il macchinario era talmente grande e pesante da non potersi
facilmente spostare per consentirne il recupero. Il proprietario dell'attività, vedendoli in difficoltà, anziché turbarsi
per le manovre che nei suoi locali si stavano compiendo porse un manico di scopa per agevolare l'operazione. Il
tutto, ricorda Guerzoni, sotto il vigile sguardo di quattro motociclisti in tuta nera che se ne andarono solo quando si
accertarono dell'avvenuto recupero della missiva; cfr. intervista a Corrado Guerzoni in A. Forlani, La zona franca...,
op. cit., p. 154.
110La lettera, molto breve, catalogata tra quelle scritte nel periodo “30 marzo – 4 aprile”, venne per la prima volta
pubblicata in L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, introduzione di George L. Mosse, note di Gianni
Baget Bozzo, Mario Medici e Dalmazio Mongillo, a cura della Fondazione Aldo Moro, Garzanti, Milano, 1979, pp.
403-404. Di questa lettera non risulta copia dattiloscritta e la fotocopia del manoscritto venne ritrovata nel 1990 nel
secondo rinvenimento all'interno del covo di via Monte Nevoso a Milano. Detta fotocopia è presente agli atti della
CTS, vol. II, p. 1.
111Moro per ben due volte nel corso del sequestro redigerà questi testamenti perché i suoi carcerieri, che non volevano
che la famiglia li ricevesse nel timore che la situazione precipitasse, gli fecero credere che fossero stati oggetto di
sequestro da parte delle autorità di polizia. La stessa seconda stesura non verrà mai recapitata perché, ucciso Moro e
consegnato il cadavere, un contatto per consegnare questi scritti non sarebbe stato più sicuro. Si potevano
consegnare, come si fece per gli altri oggetti insieme al cadavere in via Caetani ma probabilmente a quella data i
detti testamenti non erano più nelle disponibilità del covo-prigione di via Montalcini.
contrastarla è apparsa plausibile, in quanto tra gli effetti rinvenuti la mattina del 9 maggio assieme
al cadavere era presente una fotografia che immortalava quattro bambini112.
D'altra parte, se l'azione del posare gli occhi si sposa perfettamente con l'osservazione di una
fotografia, è anche possibile che oggetto dello sguardo e del successivo auspicio, “vorrei che non
dovesse mai finire” possa anche essere una lettera (magari scrittagli dalla moglie e fattagli pervenire
assieme alla rubrica) che l'uomo, per meglio affrontare la disperazione in cui è precipitato, legge e
rilegge più volte sempre desiderando che la stessa non si concluda mai. Occorre cautela perché qui
si naviga nel campo delle ipotesi, ma qualche elemento capace di corroborare la nostra ipotesi di
lavoro, ossia che oltre all'agendina anche una lettera sia giunta al prigioniero, esiste. In due articoli
apparsi sul quotidiano La Repubblica113 viene avanzata prima l'ipotesi che la moglie sia riuscita a far
giungere una lettera al marito da cui attenderebbe risposta e nell'articolo successivo, apparso due
giorni dopo, si comunica la notizia che la trasmissione di questa comunicazione non è andata a buon
fine perché intercettata e impedita dall'intervento della polizia. Se la circostanza fosse vera, la
signora Moro poteva essere in effetti in attesa di una risposta che potrebbe esserle pervenuta con la
lettera appunto del “5 aprile” la cui ricezione, come detto, sarà resa nota solo nel 1979, ma questo
“canale riservato” potrebbe essere stato bruscamente interrotto in conseguenza dell'improvviso
cambio di atteggiamento del governo e delle forze dell'ordine.
Il possesso da parte di Moro e dei suoi sequestratori della rubrica della cui esistenza abbiamo
argomentato fino ad ora ci consente di leggere le lettere di Moro con lenti nuove. L'inedita lettura
ci permette di notare che da questo momento in poi con le successive lettere:
 entrano in campo protagonisti che nella prima fase del sequestro non potevano essere
attivati, a riprova che la consegna è andata a buon fine114;
 le lettere iniziano a contenere elementi prima assenti quali l'esatto indirizzo del destinatario,
con tanto di numero civico del destinatario115;
 appare un riferimento alla rubrica (definita “catalogo”) alla sua preziosità e ai suoi limiti116.
Ma contemporaneamente il rapporto tra la famiglia (e i collaboratori) e il governo e la Dc si è
definitivamente guastato e le “dolorose misure” cossighiane iniziarono ad essere sempre più
stringenti, sottoponendo a rigoroso controllo tutti coloro che si riteneva potessero svolgere un ruolo
nella vicenda.
Il primo a sperimentare questo nuovo clima fu il giovane dott. Tritto il quale, ignaro di essere da
qualche giorno sotto rigorosa sorveglianza117, il pomeriggio dell'8 aprile, recatosi in piazza Augusto
112Probabilmente a nostro avviso i figli. Che il prigioniero non avesse con sé una foto del nipotino Luca è confermato
dalla stessa Maria Fida, per la quale il fatto era ragione di rammarico; cfr. Maria Fida Moro, La casa dei cento
natali, prefazione di Leonardo Sciascia, Milano, Rizzoli, 1984, p. 109.
113Facciamo riferimento a due articoli, entrambi a firma del giornalista Sandro Viola, pubblicati su La Repubblica, il
primo in data 8 aprile 1978 con il titolo La moglie di Moro aspetta la risposta, e il secondo in data 10 aprile 1978
con l'eloquente titolo La polizia ha intercettato il messaggio della moglie.
114Il 6 aprile viene recapitata alla famiglia una nuova lettera del prigioniero e questa volta il latore della missiva non è
più Rana ma l'assistente di Moro Francesco Tritto, il quale, avvisato telefonicamente del deposito di una lettera in
piazza Risorgimento, si attiva per il recupero della stessa provvedendo prontamente a consegnarla alla giovane
Emma Amiconi, al tempo fidanzata di Giovanni Moro. Il cambio di intermediario e la consegna della missiva alla
famiglia per il tramite di una figura quale la giovane Emma Amiconi, senz'altro vicina ma non certamente
annoverabile tra i congiunti del rapito, ci attesta che la situazione è mutata nella prigione di via Montalcini e Moro
ha la disponibilità degli strumenti che gli consentono di allargare la platea dei destinatari delle sue lettere grazie alla
dote di contatti telefonici e indirizzi che la rubrichetta gli portò in dono.
115Facendo riferimento alla numerazione adottata da Gotor (Lettere..., op. cit.) ci riferiamo alla lettera indirizzata a
Maria Luisa Familiari (n. 31), a Nicola Rana (n. 35), a Sereno Freato (n. 36), a Tullio Ancora (n. 50).
116Quando la memoria di Moro non può fornire il numero civico dell'abitazione di Guerzoni, nella lettera n. 55 lo
scrivente invita chi deve occuparsi dello smistamento della sua corrispondenza a rinvenire appunto nel “catalogo”
l'informazione mancante; quando invece la rubrica non lo può soccorrere nelle indicazioni degli esatti indirizzi,
come nel caso della lettera (la n. 88) al deputato democristiano Elio Rosati di cui Moro purtroppo ricorda solo che
abita in una “casa non lontano dalla” sua e si rivolge a Guerzoni (con la lettera n. 92) per ovviare alla consegna
secondo quelle esigue indicazioni in suo possesso.
117Dal testo di un'intercettazione telefonica effettuata sul telefono dell'abitazione di Rana l'8 aprile alle 9 del mattino
apprendiamo che l'interlocutore, probabilmente Sereno Freato, informava Nicola Rana che “mentre eravamo a casa
[Moro] l'altra sera, dalla sala stampa [del Viminale] si sapeva tutto su Tritto”; cfr. Giuseppe Zupo, Vincenzo Marini
imperatore a seguito della telefonata ricevuta intorno alle 18 dalle Br che lo informava dell'arrivo di
nuova corrispondenza, non solo si vide preceduto dalla polizia, ma venne condotto in
commissariato per le ordinarie operazioni di identificazione e accertamento118.
“Non mi pare giusto che s'impedisca in queste circostanze di parlare tra persone che si vogliono
bene” scrisse Moro in una lettera ufficialmente non recapitata a don Mennini alla fine del mese di
aprile, quando dispiegava le sue ultime energie per perforare il compatto muro che era stato eretto
attorno alla sua prigione. Aveva scritto a tutti i suoi cari in punto di morte per “lasciare qualche
certezza di amore e qualche motivo di riflessione” prima di venire consegnato morto alla storia.

Chi muore giace e chi vive si dà pace


Il 17 febbraio del 1980 il settimanale L'Espresso pubblicò un articolo, a firma del sempre bene
informato Mario Scialoja, in cui il giornalista avanzava l'ipotesi che “a circa un mese dall'inizio del
sequestro” (quindi intorno quasi alla metà del mese di aprile) “attraverso messaggi che riuscirono ad
aggirare la rete di sorveglianza degli inquirenti” Moro fece pervenire “ai suoi intimi un elenco di
documenti riservati contenuti nella sua biblioteca dello studio di via Savoia” o in quella personale
del suo Istituto alla Facoltà di Scienze Politiche. Secondo la ricostruzione del giornalista, “alcuni
fascicoli furono consegnati dai suoi collaboratori universitari ad emissari delle BR”, suscitando le
ire dell'allora ministro Cossiga il quale, oltre ad adirarsi verso il prigioniero che privatamente
deteneva documenti sensibili, “fece sapere che sarebbe stato severissimo se un tentativo di
consegnare altri documenti si fosse ripetuto”. Interrogato al tempo sul valore di questi ammanchi e
se la sensibilità degli stessi fosse tale da far mutare addirittura la strategia fino a quel momento
seguita dal Governo, egli tranquillizzò gli interlocutori affermando che “degli specialisti avevano
condotto un'analisi per valutare i documenti scomparsi”119, e da questa ricognizione erano emersi
elementi che facevano tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.
La vicenda narrata da Scialoja fu oggetto di indagine nei primi due processi Moro e il giornalista e
la sua fonte, il dott. Stefano Silvestri, componente del Comitato di crisi istituito dal ministro
Cossiga all'indomani del sequestro per fronteggiare e gestire la vicenda Moro, furono ascoltati come
persone informate dei fatti. Allora in sede giudiziaria erano stati grosso modo chiariti i termini della
vicenda con Silvestri che riferiva a Scialoja che tra le ipotesi vagliate dal Comitato di crisi era stata
fatta anche quella inerente una possibile fuga di documenti riservati che potevano essere nelle
disponibilità di Moro, e con Scialoja che dalla necessità di fare una verifica così approfondita da
parte di specialisti ne ebbe a desumere che questa fuga effettivamente doveva aver avuto luogo.
La vicenda non venne più approfondita e ritornò all'attenzione molti anni dopo, in sede di
Commissione Stragi, quando il presidente, senatore Giovanni Pellegrino, la prese in seria
considerazione e decise di audire il giornalista. Pellegrino, rinfrancato dal supporto dell'onorevole
Fragalà, si spinse con quest'ultimo a considerare fatto avvenuto quella che era solo un'ipotetica
narrazione e a sostenere che questi documenti fatti pervenire alle Brigate Rosse fossero alla base di

Recchia, Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale, Milano, Franco Angeli, 1984, p.
354. Inoltre lo stesso Tritto, in una lettera inviata nel 1999 al magistrato Rosario Priore nell'ambito della vicenda
relativa al dossier Mitrokhin ricordò che l'ufficiale che si stava occupando di effettuare i controlli sullo studente
russo Sokolov lo ricontattò il 7 aprile (il giorno successivo al primo contatto telefonico con le Br che gli consentì di
recuperare la corrispondenza di Moro senza intoppi) per fissare un incontro per il giorno successivo, l'8 aprile,
appuntamento che ebbe luogo al mattino, tra le ore 11 e le 12 al bar Canova in piazza del Popolo. L'ufficiale gli
chiese se avesse qualcosa di nuovo da riferirgli, essendo evidentemente a conoscenza del contatto telefonico con le
Br, ma Tritto rispose evasivamente perché temeva di “interrompere il filo di speranza che [gli] sembrava si andasse
edificando ai fini della salvezza del professor Moro”; cfr. F. Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia...,
op. cit., p. 80.
118Quel pomeriggio, contemporaneamente a Franco Tritto, sperimentava le attenzioni delle forze dell'ordine, passando
un brutto quarto d'ora, anche un giovane ventenne che, visto dalla polizia aggirarsi in zona con atteggiamento parso
sospetto, venne fermato e messo dagli investigatori sotto torchio finché non si appurò che, avendo il giovane litigato
qualche ora prima con la fidanzatina, come un novello Enrico a Canossa si aggirava penitente in cerca di perdono.
L'episodio è riportato da M. Gotor, Lettere..., op. cit., p. 33, n. 1.
119Mario Scialoja, Cinque segreti su Moro e dintorni, in L'Espresso, anno XXVI, n. 7, del 17 febbraio 1980.
un testo brigatista sulla ristrutturazione e sulla consistenza delle forze Nato rinvenuto nell'ottobre
1978 nel covo di via Monte Nevoso.
Sentito in Commissione Stragi, Scialoja fornì un'interpretazione della vicenda di basso profilo,
sostenendo che in fondo “queste carte potrebbero non essere così importanti” o almeno tali da poter
riscrivere la storia del sequestro Moro come ipotizzavano i due citati autorevoli componenti
dell'inquirente parlamentare, ma certamente avrebbero messo “pesantemente nei guai persone che
finora sono rimaste fuori, delle persone perbene, come eventuali assistenti o amici della famiglia
Moro”120.
Opinione di chi scrive è che un fondo di verità in questa vicenda ci sia e sia rintracciabile appunto
nella famosa “rubrichetta verde” di cui abbiamo parlato e che secondo la ricostruzione che qui si
propone sarebbe stata oggetto della navigazione dall'esterno verso la “prigione del popolo”. Voci su
una certa libertà di movimento erano del resto emerse subito dopo la consegna delle tre lettere a
Rana, anche perché l'utenza telefonica di via Savoia non era sotto intercettazione e anche quando
diverse furono le utenze sotto stretto monitoraggio non si riuscì mai ad afferrare i “postini”. Scialoja
nel suo articolo parla inizialmente di “messaggi” di Moro verso l'esterno a cui dopo sarebbe seguita
la consegna di documenti scritti. La notizia, o l'intercettazione, probabilmente trapelò e diede luogo
appunto a quegli approfondimenti per valutare la natura e la sensibilità del materiale consegnato,
perché altrimenti non si spiegherebbe cosa, in astratto, avrebbero dovuto valutare questi esperti
sulla possibile mole di documenti che un uomo politico come Moro, più volte Presidente del
Consiglio e che aveva ricoperto la carica di ministro in diversi altri governi, poteva, in ipotesi,
possedere privatamente in copia o in originale. Risulta per questo plausibile che, appurata la natura
del documento, un'agendina con un estratto di nomi e contatti come ipotizziamo, il ministro Cossiga
si sia tranquillizzato sulla natura del trasporto e si sia limitato solo ad ammonire severamente amici,
studenti e collaboratori del rapito, informandoli che l'indulgenza mostrata in quella circostanza non
avrebbe avuto ulteriori repliche.
“Ed ora temo – scrisse profeticamente Moro - che tutto quanto sia disperso, per ricomparire, se
comparirà, chissà quando e come”. E così fu.
Giuseppe Michelangelo D'Urso

120Cfr. CTS, Steno, n. 65, audizione di Mario Scialoja del 14 marzo 2000, p. 3040-1.

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