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Iraq e Vietnam.

Diversità e similitudini

Da qualche tempo ormai i paragoni tra Vietnam e Iraq si sprecano e di certo le difficoltà
americane a trovare il bandolo della matassa aiutano ad avvicinare i due conflitti. Le
somiglianze però non devono far scordare le tante diversità perché altrimenti si rischia di
sovrapporre alla situazione irachena presente lezioni vietnamite senza un prerequisito
essenziale di qualunque operazione militare: l’adattamento alla situazione sul terreno.

Entrambe le guerre hanno in comune il concetto di controinsurrezione, ma questo non deve


far pensare che lo stesso approccio che avrebbe potuto funzionare in Vietnam possa ora dare
risultati in Iraq. Le insurrezioni nei due Paesi sono profondamente diverse da più punti di
vista e per questo vanno affrontate con mezzi diversi. Per prima cosa la base sociale da cui
gli insorti traggono la loro mano d’opera: in Vietnam la società era rurale e la massa dei
vietcong era contadina, vietnamiti profondamente radicati sul territorio; in Iraq invece molti
insorti sono stranieri arrivati nel Paese per combattere gli americani (in modo simile a cosa
successe negli anni Ottanta in Afghanistan contro l’URSS) e inoltre lo scontro è prettamente
urbano con ovvie ricadute sulle tattiche. Oltre a ciò lo sviluppo delle operazioni belliche è
profondamente diverso. In Vietnam l’intervento americano fu graduale: iniziò negli anni
Cinquanta con qualche consigliere militare, per aumentare lentamente sotto
l’amministrazione Kennedy fino ad arrivare al coinvolgimento militare vero e proprio con
Johnson. in Iraq invece l’insurrezione si è verificata dopo uno scontro tradizionale tra due
eserciti vinto facilmente e rapidamente da quello americano. Non è stato applicato il
concetto di gradualità, anzi la dottrina era quella dello shock and wave: usare subito la forza
per terrorizzare e bloccare il nemico. I problemi sono dovuti semmai allo scarso numero di
truppe di terra impiegate una conseguenza più che di una strategia contingente sbagliata di
una dottrina strategica dominante e di una politica militare troppo fiduciose verso la guerra
tecnologica che oltre a promettere risultati incredibili aveva il non secondario risultato di
permettere una riduzione sostanziale degli effettivi e quindi delle perdite con ricadute più
attenuate sull’opinione pubblica. La diversa dinamica in cui i due conflitti si sono svolti
dovrebbe portare alla mente altre esperienze piuttosto che a quella vietnamita. Spesso nel
dibattito americano a questo punto vengono citati i casi della Germania e del Giappone al
termine della seconda guerra mondiale, ma in quei Paesi mancò completamente
un’opposizione armata ed organizzata cui l’esercito americano avrebbe dovuto scontrarsi.
Un esempio migliore, ma meno incoraggiante, potrebbe essere quello del Blitzkrieg tedesco
contro la Russia, quando un’avanzata strepitosa non riuscì (anche a causa della politica
sconsiderata dei tedeschi) ad ottenere un controllo del territorio nelle retrovie permettendo
così ai partigiani di complicare non poco i flussi di rifornimenti alla prima linea.

Il radicamento sul territorio della guerriglia vietcong faceva sì che oltre all’ideologia
comunista ci fosse una forte e ben presente componente nazionalista. L’obiettivo dichiarato
ed evidente sin dal 1945 era l’indipendenza del loro Paese. Per questo Ho Chi Min e Giap
malgrado utilizzassero tattiche guerrigliere, combattenti irregolari e forze regolari del nord
avevano comunque un controllo sulle operazioni che dovevano seguire un piano strategico
preciso e mirato a quell’obiettivo. In Iraq manca tutto ciò, infatti, sarebbe più corretto
parlare di diverse insurrezioni contemporanee. Manca una regia dietro al movimento poiché
gli stranieri che combattono nel Paese sono legati ad Al Qaeda e gli stessi iracheni sono
divisi tra sciiti, sunniti e curdi ognuno con i propri obiettivi e le proprie priorità. Questo
aspetto complica notevolmente l’approccio americano alla guerra perché se già combattere
un’insurrezione per volta è difficile affrontarne 2-3 contemporaneamente nello stesso teatro
operativo diventa un’operazione proibitiva. Inoltre lo scontro interno tra i diversi insorti
rischia di degenerare (o forse lo è già?) in una guerra civile il che renderebbe la situazione
ingestibile o quasi.

Un’altra grande differenza tra le due tipologie di insorti risiede nel loro retroterra. Il
Vietnam al momento dei primi interventi americani aveva alle spalle 10 anni di guerra
contro la Francia che si ritirò nel 1954 dopo Dien Bien Phu e lasciò il Paese diviso in due.
La guerra continuò fino al 1975, ovvero fino a quando il Vietnam divenne un unico Paese.
Questo significa che i guerriglieri erano una forza addestrata, motivata ed esperta, tutte
caratteristiche solo in parte applicabili in Iraq. Qui, infatti, se sulle motivazioni di chi si fa
saltare in aria non ci possono essere dubbi, sull’esperienza e sull’addestramento invece
rimangono molte perplessità. Questo spiega anche le diverse tattiche impiegate nei due
Paesi poiché i vietcong adottarono una tattica guerrigliera derivata dagli insegnamenti di
Mao (una prima fase di propaganda, una seconda di guerriglia e infine creazione di una
forza regolare per sconfiggere il nemico), mentre in Iraq non c’è nulla di tutto questo. Le
forze combattenti vengono quasi ignorate mentre c’è una forte predilezione verso obiettivi
morbidi: principalmente civili, forze di sicurezza locali, contractors e convogli militari. Pur
senza dimenticare Nassirya, tutti i caduti della coalizione e i diversi abbattimenti di
elicotteri la cronaca quotidiana mostra una predilezione per obiettivi più semplici e più
“mediatici” nel senso che procurando molti morti vengono subito ritrasmessi in tutto il
mondo grazie ai media. Manca comunque una forza guerrigliera organizzata che coordini il
tutto e prospetti un’azione massiccia contro le forze della coalizione come invece avvenne
in Vietnam. In Iraq la scelta della tattica da usare è sempre caduta, sin dall’inizio, su atti
terroristici il più delle volte diretti contro la popolazione. In Vietnam invece la scelta degli
obiettivi era molto più selettiva (anche se i vietcong utilizzarono l’arma del terrorismo)
poiché l’obiettivo era di conquistarsi il sostegno della popolazione. Inoltre l’insurrezione in
Vietnam così come in Algeria e in gran parte delle guerriglie di quel periodo aveva alle
spalle un’organizzazione politica ben radicata che deteneva il controllo sull’ala armata.
Questo elemento era tanto fondamentale che secondo Trinquier la sua distruzione avrebbe
dovuto essere il principale obiettivo, anche se il più difficile. In Iraq pur senza negare
l’esistenza di infrastrutture dietro i diversi attacchi manca un qualcosa di paragonabile ai
governi ombra presenti in Vietnam e Algeria. In Indocina il movimento vietcong coinvolse
gran parte della popolazione, grazie alla propaganda e all’intimidazioni, ma in Iraq non
esiste un movimento di massa di questo genere proprio per i motivi prima ricordati: scarsa
coesione tra le diverse anime dell’insurrezione; mancanza di un nazionalismo di fondo che
come in Vietnam possa compattare la popolazione; tattiche mirate a colpire i civili.

Se allarghiamo un po’ lo sguardo cogliamo altre differenze di fondo tra le due situazioni. La
prima e la più ovvia è il contesto internazionale. La guerra in Vietnam fu combattuta
all’interno della guerra fredda, di una politica internazionale ben chiara, delimitata e tutto
sommato statica (riguardo alle sfere di influenza, alle alleanze principali e alla libertà di
azione dei singoli attori) mentre l’Iraq avviene in un mondo non più bipolare, fortemente
regionalizzato, scosso da movimenti di riscoperta religiosa e da trasformazioni economiche
e tecnologiche sempre più veloci. Tutto ciò ha forti ripercussioni sulla situazione irachena
poiché se la guerriglia nel sud del Vietnam era appoggiata dal Nord che a sua volta aveva
alle spalle principalmente la Cina ma anche diversi Paesi del blocco socialista, gli insorti
iracheni non possono contare su un appoggio di tale entità. Certo Paesi come l’Iran e la Siria
e organizzazioni come Al Qaeda non sono estranei al conflitto e appoggiano più o meno
apertamente una delle fazioni in lotta, ma tutto ciò non è nemmeno da paragonare al flusso
di aiuti militari, e non solo, di cui disponeva il Vietnam. La massa è profondamente diversa.
Alle diverse componenti dell’insurrezione irachena manca un protettore simile alla Cina e
manca soprattutto un Paese come fu il Vietnam del Nord in grado di coordinare, gestire e
comandare le operazioni sul campo e di sobbarcarsi il peso e la fatica della guerra oltre che
portare sull’arena internazionale le proprie ragioni. Quello che invece, da questo punto di
vista, accomuna le due situazioni è il fatto che sia per il Vietnam sia per l’Iraq l’America si
è trovata in disaccordo con i suoi alleati, anche i più stretti, che di conseguenza non hanno
appoggiato o lo hanno fatto solo in minima parte l’intervento. Nonostante l’invio di soldati
in entrambi i casi non si è riusciti a creare un consenso internazionale sul tema.

Un’altra differenza sostanziale tra le due situazioni riguarda il teatro operativo. Oltre al fatto
che in Indocina l’insurrezione, come già detto, fu contadina, condotta nelle campagne o
nella giungla mentre in Iraq è principalmente urbana, i due Paesi sono profondamente
diversi per posizione strategica. Il Vietnam era ai margini del blocco dominato dell’America
e l’intervento fu giustificato quasi esclusivamente con la teoria del domino (se cade il sud
poi cadrà la Cambogia, poi il Laos e via così). L’Iraq invece è situato nel cuore dell’area di
maggior crisi del mondo post-89 ed è un Paese ricco di petrolio perciò è una situazione
strategica centrale per gli equilibri futuri sia del Medio Oriente sia globale.

Sottolineate le profonde diversità è ora utile concentrarsi sulle similitudini che sono da
ricercarsi più che nella situazione militare in sé nella riflessione che ne può nascere. Infatti,
una prima riflessione riguarda l’intelligence, un aspetto fondamentale di ogni guerra e ancor
di più all’interno di una controinsurrezione. In Vietnam l’America non riuscì a distinguere il
nemico dalla popolazione civile e impiegò le sue forze a terra e la sua enorme potenza di
fuoco contro obiettivi inesistenti nella migliore delle ipotesi, sbagliati nella peggiore. In
questo modo il nemico si disperse e fu ancora più difficile da trovare, ma inoltre, ed è questa
la seconda riflessione, non riuscì conquistare il cuore e le menti della popolazione, il vero
obiettivo di ogni operazione di controinsurrezione. Per quanto si può vedere e capire in Iraq,
ma i recenti episodi in Afghanistan ci costringono ad allargare la nostra visuale, oggi la
situazione non è molto diversa: l’intelligence è piuttosto debole e la popolazione non è
amichevole. Giungere ad una conclusione non è facile perché la guerra in Vietnam è finita
da più di trent’anni e ha prodotto una miriade di ricerche e riflessioni, mentre l’operazione
in Iraq è in pieno svolgimento e nessuno può sapere come muterà la situazione. Certo è che
malgrado le differenze profonde le poche similitudini dovrebbero far riflettere poiché
riguardano porprio i punti focali della tipologia di conflitto che si dovrebbe condurre. Infine
l’ultima somiglianza tra le due riguarda le forze in campo: da una parte una grande potenza
dall’altra un nemico molto piccolo e debole. Una situazione simile non è una novità il
problema è che come disse Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. Un esercito
convenzionale perde se non vince”. E il fattore tempo, centrale per le democrazie, gioca a
favore del debole.

Originariamente pubblicato su Pagine di Difesa il 9/03/07


http://www.paginedidifesa.it/2007/beccaro_070309.html

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