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ISBN 978-88-6959-730-5
Si ringrazia Beniamino Zidarich, per la sua squisita ospitalità e la condivisione della sua
poetica vista sul Carso e il mare di Trieste.
Paola Pepe 15
Gabriella Vaglieri 21
Laura Thermes 35
Eva Kail 61
Paolo Alessi 75
Emilia Garda 83
Caterina Franchini 91
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provocatorie per stimolare ad una comprensione individuale e collettiva dei
rapporti tra organizzazione dello spazio e sviluppo della morfologia urbana,
anche in relazione ai tracciati storici dei modelli culturali e di quelli di
potere (economico e/o politico). In quest’arco temporale che va dalla East
Coast (la Boston di Lynch) alla West Coast dei visionari contemporanei, si
trova forse risposta alla domanda iniziale, ovvero se siamo dei dottori al
capezzale della città malata oppure dei naturalisti in attesa che si schiuda il
bozzolo di una nuova forma di vita. Certo, come sottolineato negli intenti
del convegno («ripensare al futuro guardando e recuperando le qualità
espresse nei progetti del passato, come guida per l’innovazione») occorre
ripercorrere il tracciato della riflessione sulla città sviluppatosi nel
Novecento, ed segnatamente di quello particolarmente fecondo, a cui
appartiene anche Lynch, dei “favolosi anni ’60”.
Periodo di dibattito fecondo, quello che si sviluppa per un ventennio dalla
fine degli anni cinquanta, fra visioni di sviluppo incontrastato e prime
intuizioni di suoi indesiderati effetti collaterali: esso si traduce in una
irripetibile sequenza di studi, ricerche e pubblicazioni sulla realtà urbana che
resteranno nella storia e segneranno delle pietre miliari nella didattica delle
discipline ad essa correlate. È agli inizi di quel periodo che Edward T. Hall
dava il via alla ricerca che lo avrebbe portato alla definizione della
“prossemica”, delineata tramite l’analogia dei meccanismi di relazione
spaziale (prevalentemente a carattere biologico ed istintuale) presenti tanto
nelle comunità animali come in quelle umaneii. Con questa ricerca, Hall
dimostrava tra l’altro sia il limite posto dalla natura nella formazione di
gerarchie di potere, prevalentemente disatteso nelle culture umane, sia i
fattori di devianza, quali sovrappopolazione o scarsità di risorse, causa
dell’insorgere di comportamenti aggressivi o violenti. Per quanto Hall
ritenesse gli urbanisti i destinatari primi del suo studio, il messaggio è stato
raccolto principalmente in ambito psicologico ed antropologico (aprendo la
via agli studi sui cosiddetti “linguaggi non verbali”), determinandone così
sviluppi a compartimenti stagni e scarsamente comunicanti. Pari destino ha
subìto a livello internazionale il pionieristico lavoro di Jane Jacobs, con il
suo The death and life of great american cities del 1961iii dove, forse per la
prima volta ed un po’ profeticamente, si paventava l’ipotesi della fine del
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modello urbano scaturito dalla rivoluzione industriale. Jane Jacobs ha
conservato fama ed importanza, incredibile dictu, proprio in patria, dove
viene considerata la precorritrice delle moderne battaglie per città più
vivibili ed a cui si ispirano molti dei movimenti ecologisti e di
rinnovamento urbano. A sostegno della visione critica della Jacobs, pochi
anni dopo, intervenne Arnold Toynbee con uno dei suoi ultimi lavori ed il
cui titolo originale viene parafrasato in quello di questo contributo: Cities on
the move, del 1970iv. Toynbee è stato uno degli storici a cultura universalista
del Novecento, fautore dell’impegnativo metodo comparativov, e nel
redigere quel testo ha improntato la lettura storica e la proiezione futura
della città (seppur in chiave critica) sulle basi dell’ekistica, una teoria nata
pochi anni prima nell’Athens Center of Ekistics per gestire l’espansione
urbana come fenomeno globale e planetario. Tale teoria fu poi pienamente
configurata nel saggio “Ecumenopolis, the inevitable city of the future“
(Doxiadis e Papaioannou, 1974) in cui, in base alle proiezioni del modello
ekistico, la Terra viene vista come un pianeta destinato a diventare un unico
continente urbanizzato, come risultato finale del processo di
sedentarizzazionevi. Tale profilo non poteva non affascinare uno storico
della civiltà come Toynbee, la cui preoccupazione si rivolse però alla sorte
del genere umano di fronte alla “città aggressiva” (da cui il titolo della
versione italiana), la cui espansione planetaria determina appunto il
contraddittorio concetto di «movimento di una sommatoria di beni
immobili». Contraltare teorico alla città planetaria fu la pubblicazione delle
ricerche commissionate, sempre nello stesso periodo, dal Club di Roma
diretto da Aurelio Peccei, i cui modelli di analisi portarono invece alla
pubblicazione de “I limiti dello sviluppo”vii. Nessuno avrebbe potuto
immaginare all’epoca che quello studio, sviluppato presso il MIT di Boston,
avrebbe determinato la nascita di un nuovo concetto organizzativo della vita
sociale e, questa volta sì, a livello globale: quello della sostenibilità.
Concetto il cui processo di ricaduta sulla dimensione urbana non si è ancora
esauritoviii ma di cui fu subito intuita la profondità del monito.
Possiamo qui ricollegarci (senza alcuna pretesa di aver esaurito il profilo)
con il nucleo tematico proposto nell’incipit: nella vasta rete di pubblicazioni
oggi disponibili (tradizionali e multimediali che siano), tanto architettoniche
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quanto urbanistiche e paesaggistiche, assistiamo ad una scoordinata
impostazione dicotomica, in cui si fronteggiano opposte “visioni” del futuro
della città. Ne vediamo ottimistiche previsioni (“future cities” e “smart
cities”, autosufficienti e sostenibili, dotate di foreste verticali e parchi urbani
lineari) e sperimentali realizzazioni in Cina come negli Emirati Arabi, pur
con la cautela di chi sa che la gestione temporale corre oggi sul filo del
rasoioix.
Ne riscontriamo però, al tempo stesso, segnali di segno opposto, relativi ad
un presunto declino del modello urbano, legato all’attuale modello di
sviluppo. In occasione del convegno “Index urbis” tenutosi a Roma nel
giugno del 2010, Bernardo Secchi attestò che “stiamo assistendo ad un
passaggio epocale” e Leonardo Benevolo avanzò l’ipotesi, sulle pagine del
quotidiano La Repubblica, che ci si possa trovare di fronte alla chiusura di
un ciclo: «Dietro di noi ci sono due fasi che durano entrambe, grosso modo,
cinquemila anni: l’età neolitica e l’età che comincia, fra IV e III millennio a.
C., con la nascita delle città, e questo secondo ciclo sta arrivando a
conclusione sotto i nostri occhi». Indubbiamente la città è mutata, come nei
casi-studio delle “città globali” proposti da Sasskia Sassen, ma già presenta
aspetti critici in questa “mutazione” (non guidata, se non dalla logica
finanziaria), come il consumo di suolo o l’indifferenziazione degli spazi
marginali, con la dissoluzione dei confini, dei “limiti”, nell’indifferenziato
della “città diffusa” (secondo la definizione di Francesco Indovina). Per non
parlare del crescente disagio urbano diffuso in sempre più larghi strati della
popolazione o l’intensificarsi delle esplosioni di violenza (e non più solo
nelle cosiddette aree “periferiche”). Se è vero, come sostiene Lewis
Mumford nel monumentale “La città nella storia”, che “all’alba della storia
la città è già una forma matura”, è anche vero, per lo stesso storico
americano, che quando nell’Occidente conosciuto si verificò il declino
dell’Impero Romano, la città, da strumento di vita, si tramutò in trappola
mortale per i suoi abitanti (leggansi pestilenze, carestie, assedi e
saccheggi)x. In effetti, la ripresa medievale ci lascerà in eredità la nuova
morfologia urbana che costella i rilievi del paesaggio europeo (meridionale
in particolare).
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Quale delle due visioni è più realistica? La risposta non è univoca: siamo a
un bivio epocale ed il futuro dipende dalla capacità di gestione della
complessità che abbiamo creato. Secondo Mumford, la città è la culla della
civiltà, nella forma evolutiva che abbiamo conosciuto. Ma questa forma
evolutiva sembra non essere più sostenibile (dal pianeta come dalla
psicologia umana): oggi sappiamo che al variare del modello di vita
collettiva varierà il modello della forma urbis. E che occorrerà una più
distribuita forma di responsabilità sociale: più diritti e più doveri meglio
distribuiti e condivisi. Abbiamo, forse per la terza volta nella storia delle
rivoluzioni sedentarie, il potere demiurgico in affidamento temporaneo. Così
come in passato è (quasi) scomparso l’originario modello nomadico, così il
futuro dell’attuale modello sedentario è nelle nostre mani. A seconda delle
scelte che ne conseguiranno, si determinerà il domani della vita collettiva e
quindi del suo “luogo”. Una cosa è certa: in ognuno dei due possibili
sviluppi antitetici, vita o morte del modello urbano, nulla sarà più come
prima.
Tanto la città quanto noi.
Note
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