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OO 337a - Idee sociali - realtà sociale - prassi sociale - Vol.

SERATE DI STUDIO DELLA LEGA


PER LA TRIPARTIZIONE DELL’ORGANISMO SOCIALE
Prima serata di studio [1]

Stoccarda, 30 luglio 1919

La storia del movimento sociale

Rudolf Steiner: Cari e stimatissimi convenuti! Stasera in realtà non vo-


glio dare delle anticipazioni su quanto affronteremo nelle serate dedicate
allo studio ricollegandoci al libro I punti essenziali della questione sociale,
bensì cercherò di dare una sorta di introduzione, appunto, a tali serate. Con
questa introduzione spero invece di riuscire a suscitare in voi un sentimento
riguardo ai punti di vista che stanno alla base, appunto, di questo libro.
Innanzitutto, esso è stato scritto a partire dall’immediato presente, dalla
convinzione che anche la questione sociale abbia assunto una nuova confi-
gurazione a seguito degli ultimi eventi e che al giorno d’oggi sia necessario
parlare della questione sociale in un modo totalmente diverso da come se ne
è parlato, da qualsiasi angolatura, prima della catastrofe bellica della guerra
mondiale. Con questo libro, in un certo senso, si è fatto un tentativo: in
questo preciso momento dell’evoluzione umana, in cui la questione sociale
si fa sempre più pressante e in cui in realtà chiunque partecipi alla vita in
modo consapevole, chiunque non prenda parte alla vita umana intorpidito
dal sonno o addirittura dormendo, ormai dovrebbe sapere più o meno che
cosa debba succedere riguardo a quella che viene comunemente chiamata ‘la
questione sociale’. Su questo punto, forse, è davvero opportuno che oggi, per
prima cosa, diamo uno sguardo al passato. Forse quindi parlerò di cose che
in parte conoscete già, anche se in realtà le osserveremo sotto una luce un po’
diversa da come è stato fatto finora.
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Probabilmente sapete già che quando, oggi, si parla della questione socia-
le, si ripetono le stesse cose che si dicono già da parecchio tempo. E ancora
oggi si citano i nomi di Proudhon, Fourier, Louis Blanc per indicare i primi
che, fino alla metà del secolo XIX, si sono occupati della questione sociale. E
sicuramente sapete già anche che gli odierni sostenitori, o almeno molti de-
gli odierni sostenitori, della questione sociale, per il modo in cui la questione
sociale è stata trattata fino alla metà del secolo XIX, chiamano quell’epoca
“l’epoca delle utopie sociali”. è bene avere le idee chiare su che cosa si intenda
realmente quando si dice che, nella sua prima fase, la questione sociale si è
presentata in una maniera tale da collocarsi nella “epoca delle utopie”. Ma
non si può parlare di queste cose in senso assoluto, bensì bisogna parlarne,
in realtà, soltanto a partire dai sentimenti che hanno i sostenitori della que-
stione sociale del presente. Ora vi descrivo qual è il loro modo di sentire: essi
hanno il sentimento che tutti i problemi sociali emersi nell’epoca della quale
tratterò per prima fossero nella fase utopistica. E che cosa capisce la gente,
quando essi dicono che a quell’epoca la questione sociale era nella fase uto-
pistica? Capisce (e lo si è già notato anche allora, Saint-Simon e Fourier se ne
sono accorti molto chiaramente) che qui abbiamo, anche dopo la Rivoluzio-
ne Francese, delle persone, appartenenti ad una certa minoranza sociale che
sono in possesso dei mezzi di produzione e anche di altri beni dell’umanità,
e che da quest’altra parte c’è un grande numero di altre persone (anzi, que-
sta è la maggioranza) che non sono in possesso di tali cose. Queste persone
possono lavorare coi mezzi di produzione soltanto mettendosi a servizio di
coloro che, appunto, possiedono i mezzi di produzione e anche il terreno –
questi in sostanza non hanno nient’altro che se stessi e la propria forza lavoro.
Si è notato che la vita di questa grande massa dell’umanità è un’angustia,
che la loro vita trascorre prevalentemente in povertà, al contrario degli altri,
che fanno parte della minoranza; ed è stata richiamata l’attenzione sulle
condizioni della minoranza e su quelle della maggioranza.

Coloro che, dunque, come Saint-Simon e Fourier e anche come Prou-


dhon, hanno scritto a proposito di questa condizione sociale dell’umanità
sono partiti da una certa premessa. Sono partiti dalla premessa che fosse
necessario far notare agli uomini: “Vedete, la grande massa vive in miseria,
in uno stato di mancanza di libertà, di subordinazione economica, e questa,
per la grande massa, non è un’esistenza degna dell’essere umano. Le cose
devono cambiare”. E così si è escogitato di tutto e di più per trovare un
modo per cambiare questo stato di disuguaglianza fra gli uomini. Ma c’era
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sempre una data premessa, e questa premessa era che ci si diceva: “Se si sa
su che cosa si basa tale disuguaglianza e se si trovano le parole giuste, se si
ha abbastanza coscienza morale per richiamare l’attenzione sul fatto che la
maggioranza degli esseri umani vive in uno stato di subordinazione econo-
mica e giuridica e anche di indigenza, questo discorso scuoterà i cuori, le
anime, della minoranza, dei benestanti, dei più fortunati. E per il fatto che
questa minoranza capirà che le cose non possono rimanere così, che bisogna
cambiare le cose, verrà fuori un altro ordine sociale, si imposterà un altro
ordine sociale”. Dunque la premessa era che gli uomini si sarebbero prestati,
partendo dal più profondo impulso dell’anima, a fare qualcosa per la libera-
zione della grande massa dell’umanità. E poi si proponeva che cosa si sareb-
be dovuto fare. E si credeva che se la minoranza, se gli uomini che erano alla
guida, i leaders, avessero capito che era giusto quanto si voleva fare, sarebbe
stato apportato un miglioramento generale delle condizioni dell’umanità.

Sono state dette molte cose straordinariamente intelligenti da questa


parte, soltanto che tutto ciò che è stato intrapreso in questa direzione oggi
viene percepito dalla gran parte dei sostenitori della questione sociale come
utopistico. Cioè, oggi non si conta più sul fatto di dover dire: “Il mondo
andrebbe organizzato nel tal modo, così la disuguaglianza economica, e
politica, e giuridica fra gli esseri umani avrebbe fine”. Al giorno d’oggi non
serve a nulla appellarsi all’intelligenza, alla capacità di capire, delle persone
che sono più fortunate, delle persone privilegiate che sono in possesso dei
mezzi di produzione e cose del genere. Se dovessi esprimere ciò che è andato
perduto nel corso della seconda metà del secolo XIX, dovrei dire: è andata
perduta la fiducia nella ragione e nella buona volontà degli esseri umani. è
per questo motivo che i sostenitori della questione sociale dei quali sto par-
lando si dicono: “Escogitare dei bei piani su come bisognerebbe impostare le
cose nel mondo umano è ben possibile, ma non ne viene fuori nulla, perché
per quanto belli siano i piani che vengono predicati, per quanto toccanti
siano le parole con le quali si fa appello ai cuori, alle anime delle minoranze
dirigenti, non succederà comunque un bel niente. Tutte queste idee non
hanno alcun valore, e le idee senza valore che descrivono il futuro, in realtà,
detto in modo popolare, sono per l’appunto utopie. Pertanto non è assoluta-
mente di alcuna utilità – dicono – descrivere un qualche cosa che dovrebbe
succedere in futuro, perché non ci sarà mai nessuno che rinuncerà ai propri
interessi, che potrà essere toccato dalla sua stessa coscienza, dalla sua visione
morale, ecc .” – Nelle cerchie più vaste, e cioè fra i sostenitori della questione
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sociale, la fiducia nella coscienza e nella concezione morale sono appunto
andate perdute.

Ci si dice che le persone non agiscono affatto sulla base di quanto hanno
capito, per quanto riguarda le istituzioni sociali o mentre stanno vivendo la
loro vita sociale: agiscono secondo il proprio interesse. E gli abbienti ovvia-
mente hanno un interesse a mantenere le loro proprietà. Coloro che sono
socialmente privilegiati hanno un interesse a conservare i propri privilegi
sociali. Perciò è un’illusione, contare sul fatto che basti dire che si dovrebbe
fare questo o quello. Infatti, appunto, non lo fanno, perché non agiscono in
base al ragionamento, bensì in base al proprio interesse.

Nel senso più ampio, si può dire, a poco a poco (ma veramente solo a
poco a poco) Karl Marx ha riconosciuto questo punto di vista. Nella vita di
Karl Marx si possono descrivere veramente parecchie fasi. Nella giovinez-
za, Marx fu anche un pensatore idealista e pensò, anche nel senso che ho
appunto caratterizzato, alla realizzazione delle utopie. Ma fu proprio lui, e
dopo di lui anche il suo amico Engels, a dissociarsi nel modo più estremo
da questo far affidamento alla capacità di comprensione delle persone. E se
caratterizzo in generale quella che in realtà è una grande storia, posso dire:
Karl Marx alla fine ha maturato la convinzione che nel mondo le cose non
possano migliorare altrimenti che facendo appello a quelle persone che non
hanno un interesse a conservare i propri beni e i propri privilegi. Non si
può assolutamente badare a coloro che hanno un interesse a conservare per
sé i propri beni, anzi, bisogna non tenerne affatto conto, perché in qualche
modo non acconsentiranno mai ad aderire a nessuna delle prediche che ri-
cevono, per quanto belle esse siano. D’altra parte c’è proprio la grande massa
dei proletari [che non hanno alcun bene da perdere]. Karl Marx stesso fece
sua questa convinzione all’epoca in cui in Europa centrale iniziò a formarsi
in nuce quello che oggi si chiama ‘proletariato’; egli vide come, in Europa
centrale, il proletariato fosse sorto da altri contesti economici. Quando poi
andò a vivere in Inghilterra, là la situazione era un po’ diversa. Ma all’epoca
in cui Karl Marx passò dagli idealisti ai materialisti economici, in realtà in
Europa centrale si era ancora appena alla nascita del proletariato. Ed egli
si disse: “Questo proletariato moderno ha proprio interessi molto diversi
rispetto a quelli della minoranza che dirige, che guida, perché consiste di
uomini che non possiedono nient’altro che la propria forza lavorativa, di uo-
mini che non hanno altro sostentamento, per vivere, che quello di mettersi a
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servizio degli abbienti, cioè di mettersi a servizio di coloro che possiedono i
mezzi di produzione. Se questi operai lasciano il proprio lavoro, rimangono
(il che quella volta valeva nel senso più assoluto) letteralmente per strada.
Non hanno davanti a sé nient’altro che la possibilità di una corvée per quelli
che possiedono i mezzi di produzione. Questi uomini hanno un interesse
molto diverso da quello degli abbienti. Essi hanno interesse a che tutto l’or-
dine sociale precedente abbia fine, a trasformare questo ordine sociale. A
loro non serve predicare in modo da stimolare la loro capacità di pensiero,
ma soltanto in modo da stimolare il loro egoismo, il loro interesse. A questo
ci si può affidare. Far prediche a coloro per affidarsi ai quali bisognerebbe
contare sulla comprensione non serve proprio a nulla, perché gli uomini
non agiscono in base alla propria capacità di pensare, bensì in base ai propri
interessi. Dunque, non ci si può rivolgere a quelli per i quali bisognerebbe
far leva sull’intelletto, bensì agli interessi di quelli che non possono far altro
che iniziare una nuova epoca partendo proprio da una forza interiore. Tale
forza interiore, che infine Karl Marx ha trovato, è l’egoismo. Perciò egli non
credette più che l’umanità sarebbe stata in grado di compiere quel passo in
avanti verso nuovi condizioni sociali se non, appunto, grazie alle azioni del
proletariato stesso. Il proletariato poteva, così pensava Karl Marx, aspirare
ad un rinnovamento delle condizioni sociali umane soltanto a partire dai
propri interessi, dai propri interessi del tutto egoistici. E così il proletariato
libererà (ma ora non per benevolenza umana, bensì per interessi egoistici)
anche tutto il resto dell’umanità, perché non ha altro da offrire che ciò che
producono gli uomini che non rimangono attaccati ai vecchi beni e che con
il cambiamento non hanno alcun vecchio bene da perdere.

Ci si dice dunque: “Da questa parte, qui, ci sono le cerchie dei dirigenti,
dei leaders, essi hanno certi diritti che sono stati loro conferiti in tempi
precedenti, o che in tempi precedenti hanno acquisito, e ai quali sono tena-
cemente attaccati. Queste cerchie di dirigenti, di leaders, sono in possesso
di questo o di quello, se lo passano in eredità all’interno della loro cerchia,
della loro famiglia, e così via. Queste cerchie, se c’è un cambiamento, hanno
sempre da perdere, per il semplice fatto che, se non perdessero niente, non
avverrebbe appunto alcun cambiamento. Si tratta proprio del fatto che colo-
ro che non possiedono nulla dovrebbero ricevere qualcosa, perciò quelli che
hanno qualcosa non possono che perderla. Quindi si potrebbe fare appello
alla comprensione soltanto se tale capacità di comprensione della classe degli
abbienti, dei dirigenti, apportasse l’impulso a voler perdere qualcosa. Ma
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loro non accondiscendono”. Così vedeva le cose Karl Marx. Perciò bisogna
fare appello a quelli che non hanno niente da perdere. è per questo motivo
che nel 1848 il “Manifesto comunista” si conclude con le seguenti parole: “I
proletari non hanno altro da perdere, che le loro catene, ma hanno tutto da
guadagnare. Proletari di tutto il mondo, unitevi!”

Ora, vedete, dal momento in cui fu pubblicato il manifesto comunista,


questa è diventata in un certo senso una convinzione. E oggi, ché nella gran
parte del proletariato vivono certi sentimenti che subiscono già l’influsso,
appunto, di questo modo di vedere le cose, oggi non si riesce proprio più a
rappresentarsi correttamente quale enorme cambiamento sia avvenuto nelle
concezioni socialiste verso la metà del secolo XIX. Ma sarebbe bene che
vi andaste a leggere qualcosa come il “Vangelo di un povero peccatore” di
Weitling, un garzone, che è stato scritto non molto prima del manifesto
comunista, e che poi lo confrontaste con tutto ciò che è stato scritto dopo
la pubblicazione del manifesto comunista. In questo “Vangelo di un povero
peccatore”, ispirato da un sentimento schiettamente proletario, predomina
un linguaggio, si potrebbe dire, in un certo senso perfino poetico, ardente,
ma in tutto e per tutto un linguaggio che vuole fare appello alla buona vo-
lontà, alla comprensione degli uomini. è convinzione di Weitling che con
la buona volontà degli esseri umani si possa intraprendere qualcosa. E tale
convinzione è sparita solo verso la metà del XIX secolo. E l’atto che ne ha
provocato la sparizione è appunto la pubblicazione del manifesto comunista.
E da quel momento, dal 1848, in realtà possiamo seguire quella che oggi
chiamiamo ‘la questione sociale’. Infatti se noi, oggi, volessimo parlare come
Saint-Simon, come Fourier, come Weitling – ecco, ci troveremmo veramen-
te a predicare ai sordi. Infatti, fino ad un certo grado, è del tutto giusto che
nella questione sociale non si possa intraprendere nulla, appellandosi alla
comprensione delle cerchie dei dirigenti, dei leaders, che hanno qualcosa.
è così. Le cerchie dei dirigenti, dei leaders, non hanno veramente mai ri-
nunciato, non rinunceranno nemmeno oggi – non hanno la minima idea
di farlo, perché qui nell’anima umana le forze incoscienti giocano un ruolo
straordinariamente importante.

Vedete, nel corso del XIX secolo la nostra cultura spirituale è diventata
del tutto frase fatta. E il fatto che riguardo alla cultura spirituale viviamo
nella frase fatta è un dato di fatto molto più importante di quanto comu-
nemente si pensi. E così, i membri delle cerchie dei dirigenti, dei leaders,
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naturalmente pronunciano ogni tipo di belle parole anche sulla questione
sociale e spesso essi stessi sono convinti di averla, la buona volontà. Ma in
realtà lo credono e basta, è soltanto una loro illusione; nel momento in cui si
pone realmente mano a qualcosa a questo riguardo, salta subito fuori che è
un’illusione. Di questo parleremo ancora. Comunque, come ho detto, oggi
non possiamo più parlare come si parlava al tempo delle utopie. Questa è la
reale conquista raggiunta grazie a Karl Marx: il fatto che egli ha mostrato
quanto l’umanità di oggi è impelagata nell’illusionismo, a tal segno che
non ha senso contare su nient’altro che sull’egoismo. Bisogna una buona
volta farci i conti; perciò non si può ottenere assolutamente niente se in
qualche modo si vuole far leva sull’altruismo, sulla buona volontà, sulle basi
morali degli esseri umani (dico sempre “in relazione alla questione socia-
le”). E questo cambiamento improvviso, che ci ha portati a dover parlare
della questione sociale, ai giorni nostri, appunto in un modo totalmente
diverso da come si poteva ancora parlarne, per esempio, nella prima metà
del secolo XIX, questo cambiamento improvviso si è verificato appunto con
il manifesto comunista. Però non si è verificato tutto in un colpo, ma era
sempre ancora possibile che, anche dopo il manifesto comunista, e ancora
fino agli anni Sessanta, come tutti saprete già (alcuni socialisti più giovani
hanno già dimenticato quei tempi), era dunque ancora possibile che questo
genere totalmente diverso di pensare sociale, il tipo di Ferdinand Lassalle,
afferrasse i cuori, le anime. E anche dopo la morte di Lassalle, avvenuta nel
1864, è ancora continuato quello che era il socialismo di Lassalle. Lassal
fa in tutto e per tutto parte di quegli uomini che, anche se l’altro modo di
pensare si era già manifestato, contavano ancora sulla forza d’urto delle idee.
Lassalle voleva senz’altro ancora scuotere gli uomini nella loro capacità di
capire, soprattutto nella loro volontà sociale. Ma questa sfumatura lassaliana
scemò sempre più mentre l’altra, la sfumatura marxista, che voleva far leva
soltanto sugli interessi di quella parte della popolazione umana che posse-
deva solamente se stessa e la propria forza lavoro, prendeva sempre più piede.
Però comunque non fu un passaggio così veloce. Tale maniera di pensare si
sviluppò soltanto gradualmente nell’umanità.

Negli anni Sessanta, Settanta, e ancora anche negli anni Ottanta, di


regola, chi faceva parte del proletariato o comunque faceva parte del gruppo
di persone politicamente o socialmente subalterne (anche se non proprio
proletarie) giudicava il proprio essere subalterno in senso morale, e giudicava
in senso morale anche le cerchie non subalterne della popolazione umana.
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Stando alla loro coscienza, era cattiva volontà delle cerchie dei dirigenti, dei
leaders della popolazione umana, il fatto di lasciare la grande massa dei
proletari in uno stato subalterno, che li pagavano male ecc. Per esprimermi
in modo banale, direi che negli anni Sessanta, Settanta e fino agli anni
Ottanta, si produsse molta indignazione sociale e si parlava dal punto di
vista dell’indignazione sociale. E solo più tardi, a metà degli anni Ottanta,
avvenne realmente quel notevole cambiamento. Le personalità guida più
importanti del movimento sociale negli anni Ottanta smisero definitiva-
mente di affrontare la questione sociale a partire dall’indignazione morale.
Fu proprio il periodo in cui erano grandi e più o meno ardevano ancora
di fervore giovanile quei leaders sociali che voi, che siete più giovani, siete
riusciti soltanto a veder morire: Adler, Pernerstorfer, Wilhelm Liebknecht,
Auer, Bebel, Singer ecc. Questi vecchi leaders allora smisero sempre più,
negli anni Ottanta, di predicare questo socialismo dell’indignazione. Vorrei
esprimerlo in questo modo: questi leaders del socialismo stavano esprimen-
do il loro convincimento più profondo, quando all’epoca fecero passare il
vecchio socialismo dell’indignazione alla nuova concezione socialista. Quel-
lo che vi sto dicendo non lo troverete in nessun libro sulla storia del socia-
lismo. Ma chi ha vissuto quel periodo e vi ha partecipato sa che la gente, se
era lasciata a se stessa, parlava così.

Immaginiamo che negli anni Ottanta questi leaders socialisti si fossero


riuniti per discutere con altre persone dall’animo (puramente) borghese e
immaginiamo che fosse presente anche un terzo tipo di persone: borghesi
che erano idealisti e che speravano nel bene per tutti gli esseri umani, che
fossero d’accordo di fare il bene per tutti gli esseri umani. In un caso del
genere sarebbe potuto succedere che i borghesi spiegassero che ci sarebbe
sempre dovuta essere gente povera e gente ricca, ecc., perché solo così si po-
teva salvaguardare la società umana. Poi forse si sarebbe levata la voce di uno
di quelli che erano idealisti, che erano scandalizzati dal fatto che così tante
persone dovessero vivere in povertà e come subalterni. Allora forse qualcuno
avrebbe detto: “Certo, bisogna riuscire a far capire a questa gente abbiente,
agli imprenditori, ai capitalisti, che devono rinunciare ai loro beni, che devo-
no stabilire dei regolamenti che consentano alle grandi masse di cambiare la
propria situazione” e altro del genere. Si sarebbero potuti tenere dei discorsi
molto belli, di questo tenore. Poi, però, avrebbe alzato la voce qualcun altro,
che in quel momento si era appena adattato al socialismo e al suo sviluppo,
e avrebbe detto: “Ma che cosa andate dicendo! Ma siete proprio infantili!
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Tutto ciò è infantile, non ha alcun senso! I capitalisti, gli imprenditori, non
sono altro che poveri diavoli che non sanno nient’altro che quello che è stato
loro inculcato da generazioni. Anche se sentono dire che dovrebbero fare di-
versamente, non ci riescono affatto, perché non saprebbero nemmeno come
farlo. Non entra loro nel cranio, che sia possibile fare qualcosa di diverso.
Non si deve accusare, non si devono dare dei giudizi morali, queste persone
non devono essere giudicate dal punto di vista morale; questi tizi, questi
poveri diavoli, sono cresciuti in tutto un ambiente che ha loro instillato le
idee che hanno. Giudicarli dal punto di vista morale significa non capire
nulla delle leggi della crescita dell’essere umano, significa darsi alle illusio-
ni. Queste persone non vorranno mai che il mondo assuma un’altra forma.
Parlare di loro con sdegno è puro infantilismo. Le cose sono diventate così
per necessità, e possono anche cambiare soltanto per necessità. Vedete, con
questi tipi infantili, che credono di poter fare delle prediche agli abbienti,
ai capitalisti, sul fatto che bisognerebbe tirare su un nuovo ordinamento
del mondo, con questi tipetti infantili non si può far nulla; con loro non si
riuscirà ad impostare alcun nuovo ordinamento del mondo; essi credono di
poter accusare questi poveri diavoli di capitalisti perché in realtà dovrebbero
fare un mondo diverso”. Devo esprimere tutto ciò in modo chiaro, perciò ho
descritto tutto con contorni netti, ma certamente in un modo che rispecchia
bene i discorsi che si sentivano fare dappertutto. Quando venivano scritti,
venivano un po’ ritoccati, venivano scritti in modo leggermente diverso, ma
questo è quello che c’era alla base. Poi continuavano: “Con questi tizi – ora
parlano gli idealisti, che si raffigurano il mondo nel senso di una ideologia –,
con questi non si può far nulla. Dobbiamo affidarci a quelli che non hanno
niente, che quindi, proprio per interesse, vogliono qualcosa di diverso da
quello che vogliono coloro che sono legati ai propri interessi capitalistici. E
neanche questi aspireranno a un cambiamento delle condizioni di vita sulla
base di un qualche principio morale, ma soltanto per cupidigia, per avere più
di quanto hanno avuto finora, per avere un’esistenza autonoma”.

Negli anni Ottanta prendeva sempre più piede questo modo di pensare,
di non concepire più il mondo nel senso che il singolo individuo sia parti-
colarmente responsabile di quello che fa, bensì che egli fa quello che deve
fare a seconda della sua situazione economica. Il capitalista, l’imprenditore,
sfrutta gli altri nella massima innocenza. Chi è proletario non farà rivoluzio-
ni per un principio morale, bensì, nella massima innocenza, a partire da una
necessità umana e prenderà i mezzi di produzione, il capitale togliendoli di
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mano a quelli che appunto li hanno. Questo deve succedere come necessità
storica. Sorse questo modo di pensare.

Ora, vedete, in realtà fu soltanto nell’anno 1891 al Congresso di Erfurt,


che tutto il lassalianismo, che appunto si basava ancora sulla comprensione
delle persone, passò alla fede nel cosiddetto “Programma di Erfurt”, che
aveva lo scopo di fare del marxismo la concezione ufficiale del proletariato.
Leggetevi bene i programmi di Gothaer, del Congresso del partito ad Ei-
senach: vi troverete due pretese, come pretese veramente proletarie di quei
tempi, che sono ancora connesse con il lassallianismo. La prima pretesa era:
l’abolizione del rapporto di salariato; la seconda esigenza era: l’uguaglianza
politica di tutti gli uomini, l’abolizione di tutti i privilegi politici. Da queste
due pretese procedevano tutte le pretese proletarie fino agli anni Novanta,
fino al Congresso di partito di Erfurt, che portò il grande cambiamento.
Osservate bene queste due pretese, e confrontatele con le pretese principali
del Congresso di Erfurt. Quali sono, ora, le pretese principali del Congres-
so del partito di Erfurt? Sono: il trasferimento della proprietà privata di
mezzi di produzione alla proprietà pubblica; l’amministrazione di tutta la
produzione di beni, di tutta la produzione, attraverso una specie di grande
cooperativa, cooperativa che il precedente Stato deve diventare. Confrontate
il programma precedente, che era il programma proletario degli ani Ottanta,
con quello che è stato portato avanti dal programma di Erfurt e che esiste
dagli anni Novanta. Vedrete che nei programmi di Gothaer e Eisenach le
pretese del socialismo sono ancora pretese prettamente umane: l’uguaglian-
za politica di tutti gli uomini, l’abolizione dei rapporti di salariato umilianti.
Ha già avuto effetto quello che vi ho caratterizzato come l’atteggiamento
interiore sorto nel corso degli anni Ottanta. A quel punto, quella che era
ancora una pretesa umana si è trasformata in una pretesa meramente econo-
mica. Non vi trovate scritto più nulla sull’ideale di eliminare il rapporto di
salariato, vi trovate scritte solo le pretese economiche.

Ora, vedete, queste cose dipendono dal modo in cui comunemente le


persone si formavano delle idee su come creare esteriormente una condi-
zione sociale migliore per l’umanità. è anche stato detto spesso, da parte
di quelle persone che avevano ancora degli ideali: “Ah, che male c’è, se si
sfascia tutto, bisogna costituire un altro ordinamento; perciò bisogna fare
una rivoluzione, bisogna fare tutto a pezzi subito, deve succedere un grande
patatrac, perché solo in tal modo si può costituire un ordinamento sociale
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migliore”. Così dicevano ancora alcuni buoni socialisti idealisti negli anni
Ottanta. A questi, gli altri, che erano all’altezza del loro tempo, che erano
diventati leaders, quelli che ormai, come vi ho detto, sono tutti sottoterra,
rispondevano: “Tutto questo è senza senso, le rivoluzioni improvvise sono
senza senso. L’unica cosa che ha senso è che noi lasciamo il capitalismo a
se stesso. Sappiamo che una volta c’erano solo piccoli capitalisti, che poi
sono diventati grandi; si sono uniti agli altri, si sono formati dei gruppi di
capitalisti. I capitalisti si sono concentrati sempre di più. Noi ci troviamo
all’interno di questo processo, in cui i capitalisti si concentrano sempre di
più e di più ancora. Poi verrà il tempo in cui in realtà non rimarranno che
pochi grandi trusts e consorzi capitalisti. A quel punto basterà solo che il
proletariato, in quanto classe nullatenente, un bel giorno in modo molto
pacifico, per vie parlamentari, trasferisca la proprietà capitalistica, i mezzi
di produzione, alla proprietà collettiva. è una cosa che si può fare benissimo,
solo che bisogna aspettare. Fino a quella volta bisogna che le cose si evolvano.
Il capitalismo, che in realtà è un bimbetto innocente, non può farci nulla,
se è un avvoltoio: questo dipende dalla necessità storica. Però fa anche un
lavoro preparatorio, perché concentra i capitali; sono così belli, insieme! Ba-
sterà semplicemente che la comunità se ne impossessi. Non dunque violente
rivoluzioni, bensì una lenta evoluzione”.

Vedete, il mistero dell’idea, il mistero pubblico dell’idea che si trova alla


base di tutto ciò, lo aveva già spiegato Engels negli anni Novanta. Egli aveva
detto: “A che pro fare rivoluzioni repentine? Quello che succede lentamen-
te durante lo sviluppo del nuovo capitalismo, questo assembramento dei
capitali, questa concentrazione di capitali, va tutto a nostro favore. Non
abbiamo bisogno di cominciare a creare una comunanza, ci pensano già i
capitalisti. Dobbiamo soltanto trasferirla in proprietà al proletariato. Perciò
– dice Engels – in realtà i ruoli si sono scambiati. Noi, che rappresentiamo
il proletariato, non abbiamo nulla di cui lamentarci riguardo allo sviluppo
delle cose, sono gli altri che hanno da lamentarsi. Perché quei tizi che oggi si
trovano nelle cerchie degli abbienti devono dirsi: noi ammassiamo i capitali,
però li ammassiamo per gli altri. Vedete, questi tipetti devono realmente
crucciarsi per il fatto che perderanno il loro capitale; si scava loro il viso,
diventano emaciati per queste preoccupazioni, per ciò che deve succedere.
Proprio in quanto socialisti andiamo avanti molto bene in questa evoluzione
delle cose. Ci vengono, dice Engels, muscoli così forti e guance così piene da
farci sembrare la vita eterna”. – Questo dice Engels in un’introduzione che
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scrisse negli anni Novanta, mostrando come fosse del tutto giusto quanto
si andava preparando e come bastasse solo aspettare quell’evoluzione delle
cose che in realtà stava portando avanti il capitalismo stesso. Tale evoluzione
sarebbe poi sfociata nel trasferimento dei beni inizialmente ammassati alla
proprietà collettiva di coloro che fino a quel momento non avranno avuto
nulla. – Questo era, in reatà, lo stato d’animo dei leaders del proletariato
all’inizio del XX secolo.

E così si è pensato soprattutto a partire dai tempi in cui il marxismo


non era più stato preso come negli anni Novanta, ma era stato sottopo-
sto, come si soleva dire, ad una revisione, cioè ai tempi in cui apparvero i
revisionisti, dunque quelli che oggi sono ancora vivi, che però sono vecchi,
come per esempio Bernstein. Ecco che arrivarono quindi i revisionisti. Essi
dicevano che si può favorire un pochino l’intera evoluzione, perché se gli
operai si limitano a lavorare fino al momento in cui i capitalisti avranno
raspato tutto, prima di quel momento patiranno ancora grandi difficoltà,
soprattutto in vecchiaia non avranno niente. Allora si fecero delle assicura-
zioni, ecc.; e soprattutto si fece attenzione ad appropriarsi anche di quanto
le classi dominanti possedevano in termini di istituzioni della vita politica.
Sapete, allora sorse, di fatto, anche la vita sindacale. E all’interno del Partito
socialista c’erano due orientamenti fortemente divergenti: lo spiccato partito
dei sindacati e il vero e proprio (come si diceva allora) partito politico. Il
partito politico era più dell’idea che una rivoluzione improvvisa non sarebbe
servita a niente, che l’evoluzione dovesse procedere da sé, come appunto ho
descritto. Perciò si trattava di fare in modo che tutto fosse pronto per il mo-
mento in cui il capitalismo si fosse concentrato abbastanza e il proletariato
avesse la maggioranza in Parlamento. Di portare avanti il tutto sulla via
del parlamentarismo, dell’acquisizione della maggioranza, in modo che nel
momento in cui i mezzi di produzione dovessero essere trasferiti alla pro-
prietà collettiva, fosse presente anche la maggioranza per tale trasferimento.
Soprattutto in questo gruppo di persone, che vedevano tutto dalla parte del
partito politico, alla fine del XIX secolo non fu preso molto in considera-
zione il movimento sindacale. Questo, a quell’epoca, puntava appunto ad
organizzare una specie di competizione, in maniera ordinata, fra sé e gli
imprenditori, per riuscire a strappare di volta in volta e sempre di nuovo
alle imprese aumenti di salario e cose del genere. In breve, ci si proponeva
di imitare quel sistema di negoziazioni reciproche come quello che c’era fra
le cerchie dominanti, dirigenti, fra loro, e di estenderlo anche al rapporto
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fra le cerchie dominanti e il proletariato. Certamente sapete che quelli che
venivano più accusati da parte dei sostenitori del sistema socialista politico
vero e proprio erano quelli che poi divennero in gran parte borghesi sotto
il movimento sindacale. E alla fine degli anni Novanta e all’inizio del XX
secolo si poteva osservare dappertutto, fra coloro che erano prevalentemente
orientati verso il sistema politico, il grande disprezzo per quelle persone che
si erano del tutto impratichite nella vita sindacale, specialmente come per
esempio i tipografi che avevano a loro volta costituito un sistema di vita
sindacale del tutto diverso, fino all’estremo .

Nella vita sociale c’erano due orientamenti molto severamente distinti


l’uno dall’altro: I sindacalisti e quelli che si avvicinavano prevalentemente
al partito politico. E, fra i sindacalisti, i tipografi nell’associazione dei ti-
pografi erano proprio i ragazzi modello; erano quei ragazzi modello che si
erano anche guadagnati il pieno riconoscimento della cerchia borghese. E
credo che così come si aveva una certa paura, una certa preoccupazione a
causa del partito politico socialista, così, a poco a poco, con grande soddi-
sfazione si videro venir fuori brave persone come le persone dell’associazione
dei tipografi. Di loro ci si diceva: “Questi si borghesizzano, con loro si può
sempre trattare, va molto bene così. Se alzano i loro salari, noi alziamo i
nostri prezzi, che decidiamo noi. Va bene così”. – E, nevvero, negli anni
seguenti funzionò anche, e la gente poi non ci pensò più. Dunque in questo
caso si era molto soddisfatti con questa formazione esemplare dello sviluppo
sindacale. Ora, se tralascio quelle che sono piuttosto delle sfumature, si può
dire che poi questi due orientamenti si sono più o meno sviluppati fino al
momento in cui sono stati sorpresi dalla catastrofe bellica. Ma purtroppo
allora da questa catastrofe bellica le persone non hanno imparato tutto ciò
che in realtà si sarebbe dovuto imparare in relazione alla questione sociale.

Nevvero, non appena, ora, si osserva la situazione in Europa Orientale,


in Europa Centrale, se si prescinde da quello che è il mondo anglo-ame-
ricano e in parte anche il mondo latino, se dunque ci si limita all’Europa
centrale e orientale, si può dire che non si è verificato niente di tutta quella
storia che diceva: i capitali si concentrano, e quando nei Parlamenti si avrà
la maggioranza, i capitali verranno trasferiti alla proprietà della società, ecc.
– A che oggi non ci si possa aspettare che le cose filino così lisce ha provve-
duto la guerra mondiale. Sono stati spesso considerati infantili quelli che
si aspettavano una qualche rivoluzione, ma, in sostanza, che cos’è successo
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negli ultimi quattro-cinque anni? Teniamolo ben presente in modo chia-
ro, quello che è successo. Nevvero, avete già sentito dire spesso che cosa è
successo negli ultimi quattro-cinque anni: in luglio 1914 i governi sono
diventati un po’ “confusi” – o molto “confusi” e hanno incitato la gente alla
guerra mondiale. Allora la gente ha creduto che ci fosse una guerra mon-
diale, che ci fossero dei combattimenti, ma con i moderni mezzi bellici, coi
mezzi meccanici, c’era qualcosa di molto diverso che nelle guerre precedenti.
Non c’è davvero più stata alcuna possibilità che qualcuno diventasse un
generale particolarmente famoso, perché alla fine si trattò solo del fatto che
una parte avesse una quantità maggiore di munizioni e di altri mezzi per
fare la guerra, che una parte fabbricasse meglio dell’altra gli strumenti bel-
lici, o che avesse scoperto un gas e cose del genere, che gli altri non avevano.
Prima vinceva uno, poi l’altro scopriva qualcos’altro; poi di nuovo il primo;
si ebbe tutta una conduzione spaventosamente meccanica della guerra. E
tutto ciò che le persone hanno detto a proposito di quanto era successo qua
e là l’hanno detto sotto l’influsso della frase, era solo frase fatta. E a poco a
poco l’umanità moderna capirà, anche in Europa centrale, tutto quello che
si è andato ad infilare come frase fatta, quando in Europa centrale l’uno o
l’altro è stato promosso grande generale, mentre in realtà non era altro che
un soldato qualsiasi un po’ confuso. Queste cose sono diventate possibili
solo sotto l’influsso della frase fatta. Ecco, è andata proprio così.

Ora, cos’è successo, invece, in realtà? Le persone, davanti ai meri eventi


esteriori, non ci hanno fatto caso. Mentre la gente credeva che fosse av-
venuta una guerra mondiale (che in realtà non era che una maschera), in
realtà si è compiuta una rivoluzione. In realtà in questi quattro-cinque anni
è successa una rivoluzione. Solo che questo, la gente ancora oggi non lo sa,
ancora oggi non ci fa caso. La guerra è il lato esteriore, la maschera; la verità
è che si è compiuta una rivoluzione. E giacché si è compiuta una rivoluzione,
oggi la società in Europa centrale e orientale si trova in una condizione del
tutto diversa e non ce ne si può far nulla, con ciò che la gente aveva pensato
per situazioni precedenti. Oggi è necessario che tutti i pensieri che ci si era
fatti prima vengano ordinati in modo totalmente nuovo, che si pensino le
cose totalmente ex novo. E si è cercato di farlo con il libro: “I punti essen-
ziali della questione sociale”: si è cercato di fare i conti in modo del tutto
corretto con la situazione nella quale ci siamo venuti a trovare a seguito
degli eventi più recenti. Perciò non fa nessuna meraviglia, che le persone
dei partiti socialisti, che non riescono a tener dietro agli eventi abbastanza
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velocemente, portino incontro a questo libro un malinteso dietro l’altro. Se
soltanto le persone accondiscendessero a verificare i propri pensieri (a veri-
ficare un po’ quanto dicono di volere), capirebbero bene che stanno ancora
vivendo sotto l’influsso delle idee che si erano fatti prima dell’anno 1914.

Nevvero, queste idee, che si sono avute fino al 1914, si sono talmente
insinuate in modo corrosivo nell’ambiente degli uomini, che questi non ne
saltano più fuori. E cosa ne consegue? Ne consegue che, anche se al giorno
d’oggi è necessario un nuovo agire, anche se in Europa orientale e centrale
è avvenuta una rivoluzione, anche se oggi dobbiamo mettere in atto una ri-
costruzione (non secondo idee vecchie, ma secondo idee nuove), nonostante
tutto ciò, la gente predica idee vecchie. E che cosa sono, oggi, i partiti, anche
i partiti socialisti? I partiti socialisti sono quelli che ancora oggi predicano
questo o quel vangelo socialista nella stessa vecchia maniera in cui hanno
predicato fino al luglio del 1914, perché non c’è una differenza fra questi
programmi di partito e quelli precedenti – tutt’al più una differenza che vie-
ne da fuori. Per chi sa come stanno le cose, nei singoli gruppi di partito viene
detto tremendamente poco di nuovo, o perfino niente del tutto, di nuovo. I
vecchi avanzi di pensieri vengono tirati fuori ancora oggi. Ora sì, certo, una
piccola differenza c’è: se uno ha un paiolo di rame e ci batte dei colpi, esso
suona; se si batte nello stesso identico modo su una botte di legno, essa suo-
na diversamente; ma il modo di battere i colpi può essere esattamente lo stes-
so. Dipende da cosa si batte, se il suono è diverso. E così è oggi, quando la
gente espone i suoi progetti di partito. Quanto è contenuto in questi vecchi
programmi di partito in realtà sono i vecchi rimasugli di partito; solo perché
adesso ci sono altre condizioni sociali il suono è un po’ diverso, ed è la stessa
differenza che si ha battendo su un paiolo di rame invece che su una botte di
legno. Che parlino i socialisti indipendenti o i socialisti di maggioranza o i
comunisti, quello che dicono sono comunque appunto vecchi motti di par-
tito, che suonano diversamente perché invece di esserci un paiolo di rame,
c’è una botte di legno. In realtà, per molti versi non si è imparato proprio
niente, assolutamente niente. Ma si tratta di imparare qualcosa, bisogna che
questa spaventosa guerra mondiale, come la si chiama, ma che in realtà è
stata una rivoluzione mondiale, ci dica qualcosa.

E a questo punto si può realmente dire: nelle grandi masse si è preparati,


a sentir dire qualcosa di nuovo. Ma nelle grandi masse succede così: si dà
ascolto a quello che dicono i leaders. C’è una buona capacità di compren-
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sione, un buon intelletto umano sano, nelle grandi masse incorrotte, e in
realtà si potrebbe sempre contare sulla capacità di comprensione, quando
si esprime qualcosa di veramente moderno, qualcosa che si possa definire
moderno nel senso migliore della parola. Questo dipende in parte dal fatto
che le masse non sono istruite. Ma non appena le persone entrano nel tipo
di istruzione che si può avere a partire dagli ultimi tre o quattro secoli, que-
sta caratteristica della mancanza di istruzione ha fine. Se si osserva quella
che è l’attuale formazione scolastica pubblica, dalla scuola elementare in
su, fino all’università (e il peggio sarà quando adesso verrà fondata la scuola
unica socialista, nella quale sarà presente in massima misura quanto è stato
combinato nella scuola elementare pubblica), si vede che quello che viene
comunicato nelle scuole corrompe le teste, le estranea dalla vita. Bisogna
venire fuori da tutta questa roba, bisogna veramente stare sulle proprie gam-
be nella vita spirituale, se si vuole venir fuori da questa diseducazione. Però,
vedete, attraverso questa diseducazione i grandi e i piccoli leaders proletari
sono diventati così. Hanno dovuto far propria questa formazione; questa
formazione si è infilata nelle nostre scuole e negli scritti popolari, si è infilata
dappertutto. E così i cervelli rinsecchiscono a tal segno da diventare inacces-
sibili alle cose, e a fermarsi ai programmi di partito e alle opinioni che ci si
è ficcati in testa e inculcati. Ed ecco che allora anche se viene la rivoluzione
mondiale si continua a fischiettare i vecchi programmi.

Vedete, questo destino ha sostanzialmente attraversato quello che è stato


voluto in tutti i modi con questo libro “I punti essenziali della questione
sociale” e con le conferenze. Qui sono stati veramente fatti i conti con ciò
di cui oggi il proletariato ha veramente bisogno, con ciò che i tempi stessi
rendono necessario. Questo è stato inizialmente anche capito [dal proletaria-
to], ma poi non lo hanno capito quelli che sono i leaders del proletariato nei
diversi gruppi di partito. Cioè, non voglio affatto essere ingiusto, e non vo-
glio spremere la verità; non sto dicendo, per esempio, che questi leaders non
capiscano questo libro, perché non posso pensare che lo abbiano letto, che
lo conoscano. Non direi una cosa giusta, se affermassi che loro non possano
capire questo libro. Però non possono affatto decidersi a capire che sarebbe
necessario qualcosa di diverso di quello che loro pensano da decenni. Il loro
cervello si è rinsecchito troppo, è troppo rigido per riuscirci. Ed è per questo
che si fermano a quello che hanno pensato per molto tempo e ritengono
essere un’utopia proprio quella che è il contrario di tutte le utopie. Perché,
vedete, il libro “I punti essenziali” tiene pienamente conto del fatto che oggi
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non ci si può più muovere nelle utopie nel senso di Saint-Simon, Fourier,
Proudhon e così via, ma tiene anche conto del fatto che non ci si può più
attenere al punto di vista che l’evoluzione avverrà di per sé. Perché ciò che
hanno visto Marx ed Engels, ciò che si è sviluppato [al loro tempo], e da cui
essi hanno tratto le loro conclusioni, da tutto questo oggi non si possono
più trarre conclusioni, perché la guerra mondiale lo ha spazzato via; tutto
questo, nella sua vera forma, oggi non esiste più. Chi, oggi, dice le stesse
cose che dicevano Marx ed Engels dice qualcosa che Marx non avrebbe mai
detto. Marx ha una grande paura proprio dei suoi seguaci, perché ha detto:
per quanto mi riguarda, io non sono un marxista. – E oggi direbbe: Quella
volta le cose erano ancora diverse; quella volta io ho tratto le mie conclusioni
da dati di fatto che non erano ancora così modificati, così cambiati, come in
seguito li ha modificati la guerra mondiale.

Ma vedete, quelle persone che non riescono a imparare niente dagli even-
ti, e che oggi hanno una disposizione d’animo simile a quella che i vecchi
cattolici avevano nei confronti dei loro vescovi e dei loro papi, queste perso-
ne non possono affatto capacitarsi del fatto che qualcosa come il marxismo
debba anch’esso essere sviluppato nel senso della realtà oggettiva. Essi han-
no davanti a sé sempre la vecchia realtà, e perciò le persone fischiano e sibi-
lano sempre le stesse cose che hanno fischiato e sibilato prima della guerra
mondiale. Così fanno i socialisti, ma anche i borghesi. Lo fanno le cerchie
più vaste. I borghesi ovviamente lo fanno molto assonnati, con l’anima del
tutto addormentata, gli altri lo fanno in modo da trovarsi comunque in
mezzo e da vedere il crollo, ma in modo da non voler fare i conti con la re-
altà che grazie a ciò si manifesta. Oggi è appunto necessario che gli uomini
accolgano qualcosa di nuovo. E perciò è necessario capire qualcosa [come la
tripartizione], che non è un’utopia, bensì che fa proprio i conti con la realtà
oggettiva. Se da quella parte ciò che fa i conti con la realtà oggettiva viene
definito come una cosa che si mette di traverso, in realtà si potrebbe essere
davvero soddisfatti. Perché se la gente definisce linea retta ciò che la porta
avanti, allora bisogna, per fare qualcosa di sensato, mettersi di traverso, per
portare ciò che è insensato in una direzione sensata. Però, vedete, quelli che
capiscono ancora ciò che è sensato, dovrebbero approfondire quanto viene
detto qui. E queste serate servono a questo.

Nevvero, già da lungo tempo si è cercato di mettere in pratica quan-


to viene tratto dai dati di fatto. E così ci riuniamo da settimane (non ho
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bisogno di ripetere queste cose, alla fine di questa conferenza potrete fare
delle domande o discutere pro o contro), ci siamo riuniti da settimane per
rimettere in piedi quello che chiamiamo il consiglio di fabbrica. Abbiamo
cercato di fare questo consiglio di fabbrica partendo dalla realtà oggettiva
attualmente necessaria, di farlo veramente in modo che i dati di fatto ven-
gano dalla mera vita economica, non dalla vita politica, la quale non può
dare fondamento alla vita economica. Infatti, se oggi si guarda in faccia la
realtà, bisogna stare saldi sulla base dell’organismo sociale tripartito. E chi
oggi non vuole questa tripartizione agisce contro la necessità storica dell’e-
voluzione umana. Oggi deve essere così come ho detto spesso: che la vita
spirituale poggi su se stessa, che la vita economica poggi su se stessa, che la
vita del diritto o la vita politica venga amministrata in modo democratico. E
nella vita economica dovrebbe essere dato il primo avvio ad una configura-
zione veramente sociale con i consigli di fabbrica. Ma che cosa è necessario
affinché ciò avvenga? Ciò può avvenire solo se prima ci si chiede: ora, ecco,
qua c’è l’impulso dell’organismo sociale tripartito, esso è una novità, rispet-
to a tutte le precedenti mummie di partito; c’è anche qualcos’altro di nuovo,
qua? Gli scemi oggi affermano che le idee si limiterebbero a svolazzare per
l’aria. Se ascoltate queste discussioni, vedrete che queste persone portano
ogni tipo di giudizio negativo, ma non offrono niente di accostabile alla
tripartizione dell’organismo sociale. è tutto un discorso senza capo né coda,
quando da parte dei socialisti si dice che le idee svolazzino così nell’aria e
basta – come è stato detto in un giornale fondato da poco in una discussione
sulla triarticolazione.

Si tratta prima di tutto di chiedersi (e di avere le idee chiare in merito):


“Non c’è nient’altro?” Allora ci si fermi per ora alla tripartizione dell’orga-
nismo sociale, fino a che non si riesca a contraddirla in modo sostanziale,
fino a che non le si possa mettere accanto qualcosa che sia oggettivamente
di pari valore. Sui vecchi programmi di partito non si può più discutere, ne
ha discusso la guerra mondiale; chi capisce realmente le cose sa che que-
ste vecchie mummie di partito sono state confutate dalla catastrofe bellica.
Ma se poi non si può rispondere a questa domanda dicendo che c’è anche
qualcosa di diverso e che abbia oggettivamente lo stesso valore e se si vuole
andare avanti, allora ci si può dire sinceramente: “Allora lavoriamo nel senso
della tripartizione dell’organismo sociale”. Diciamocelo con tutta sincerità:
i vecchi nessi di partito hanno perso il loro significato; bisogna lavorare nel
senso della tripartizione.
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Quando, l’altro ieri, ho parlato a Mannheim, alla fine si è fatto avanti
un signore, che ha detto: “Quello che ha detto ora Steiner è bello, ma non è
quello che vogliamo; non vogliamo ancora un altro partito nuovo oltre a tut-
ti i partiti vecchi. Chi vuole una cosa del genere dovrebbe entrare negli altri
partiti e agire all’interno di essi”. – Non potei rispondere altro che così: “Ho
seguito molto a lungo la vita politica con assoluta precisione, da ben prima
che questo signore, che ha parlato adesso, nascesse. E, nonostante nella mia
vita io sia venuto a conoscere ciò che socialmente, in qualche modo, ha agito
come forza, non ho proprio mai operato all’interno di un qualche partito né
ci sono potuto stare dentro, e non mi viene in mente, adesso che sono alla
fine del mio sesto decennio di vita, di diventare in qualche modo un uomo
di partito: né di avere a che fare con un altro partito né con uno fondato da
me stesso. Quindi, non vorrei avere a che fare neanche con un partito fon-
dato da me stesso; nessuno deve temere che accada una cosa del genere, cioè
che io fondi un altro partito. Perché il fatto che ogni partito, per necessità
naturale, dopo un certo tempo, diventi sciocco, questo l’ho imparato, pro-
prio per il fatto che non mi sono mai inserito in alcun partito. E ho imparato
a compatire le persone che non lo capiscono. Perciò nessuno deve aver paura
che ai partiti vecchi se ne aggiunga uno nuovo. Ed è per questo che non
l’abbiamo nemmeno fondato, un nuovo partito, ma invece è stata fondata
l’associazione per la tripartizione dell’organismo sociale per rappresentare le
idee dell’organismo sociale tripartito, il cui carattere non-utopistico, il cui
carattere realistico, appunto, viene capito proprio da un certo numero di
persone. Le persone che lo capiscono, però, dovrebbero anche sinceramente
e lealmente professarsi a favore.

Perché non deve succedere neanche così: c’è un pezzo teatrale, in cui il
gallo canta al mattino e ogni volta, dopo che il gallo ha cantato, sorge il Sole.
Ora, certo, il gallo non può capire i nessi, perciò crede che quando lui canta
il Sole risponda al suo richiamo, che esso sorga perché lui ha cantato, crede
di essere stato lui, a far sorgere il Sole. – Dopotutto, se qualcuno nella vita
non-sociale si dà a una tale illusione come questo gallo, che canta sul letame
e vuole far sorgere il Sole, non importa. Ma se qui, in questo contesto, suc-
cedesse che l’idea veramente economica del consiglio di fabbrica procedesse
bene sul terreno dell’organismo tripartito, ma che quelli che se ne occupano
volessero rinnegarne l’origine, e cioè che è stato l’impulso della tripartizione
a mettere in moto questa idea, e se queste persone credessero che i consigli
di fabbrica siano sorti per il fatto di aver cantato, ecco che farebbero lo stesso
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errore, e sarebbe davvero un errore fatale. Ma questo non deve succedere.
Ciò che avviene in questa direzione [dei consigli di fabbrica] ciò a cui qui
si è messo mano, non deve essere separato, deve restare in relazione con
l’impulso correttamente inteso della tripartizione dell’organismo sociale. E
chi vuole realizzare i consigli di fabbrica nel senso di questo impulso non
potrà mai accettare che ci si limiti solo a costituire i consigli di fabbrica in
modo più o meno unilaterale e che si gracchi in continuazione: “Consigli di
fabbrica, consigli di fabbrica!” Questo non basta. Ha senso solo se contem-
poraneamente si aspira a tutto ciò a cui si dovrebbe aspirare grazie all’im-
pulso dell’organismo sociale tripartito. Si tratta di questo. Perché, se volete
realmente capire ciò che si trova nei “Punti essenziali”, dovete acquisire quel
punto di vista che si può acquisire appunto grazie agli eventi che sono av-
venuti negli ultimi quattro-cinque anni. Chi capisce bene questi eventi ha
come l’impressione che in questi quattro o cinque siano trascorsi i secoli, e
davanti ai programmi di partito ha l’impressione che chi li rappresentava
abbia dormito per secoli. Oggi bisogna capire tutto questo con chiarezza e
senza riserve.

Ciò che vi ho detto ora ovviamente avrei anche potuto scriverlo nella
prefazione di questo libro. Solo che è soltanto negli ultimi mesi, che si è visto
quanto i programmi di partito al presente siano rigidi e sterili. Ma sarebbe
già di una certa utilità, se nella prefazione al libro ci fosse scritto proprio
questo. Molte delle cose che non stanno scritte in questo libro ve le ho dette
oggi, dato che voi, mi pare, avete deciso di riunirvi qui per studiare in modo
adeguato le serie questioni sociali del presente riallacciandovi a questo libro.
Ma prima di cominciare bisogna già aver chiaro che non si può più conti-
nuare a trotterellare nel vecchio stile dei programmi di partito e dei modelli
di partito, ma che bisogna decidersi ad affrontare le cose, oggi, per come esse
sono nella realtà e a eliminare tutto ciò che non tiene conto di queste cose
nuove. Soltanto così capirete correttamente che cosa si vuole raggiungere
proprio con questo impulso dell’organismo sociale tripartito. E lo capirete
correttamente se vi accorgerete che ogni frase di questo libro è fatta in modo
da poter diventare azione, da poter essere tradotta direttamente in realtà. E
la gran parte di coloro che dicono di non capirlo o che siano utopie o altro
del genere sono solo persone alle quali manca il coraggio, proprio il coraggio,
di pensare, oggi, con tanta forza che i pensieri possano intervenire nella real-
tà. Quelli che continuano a sbraitare: “Dittatura del proletariato”, “Conqui-
sta del potere”, “Socialismo”, per lo più pensano molto poco, mentre dicono
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queste cose. è per questo che con queste frasi fatte non si può intervenire
nella realtà. Ma poi questi vengono e dicono che qui [con i I punti essenziali
della questione sociale] verrebbe dato qualcosa che è mera utopia. Un’utopia
lo diventa solo nelle teste di chi non ne capisce niente.

Perciò bisognerebbe chiarire a queste persone ciò che, in una forma un


po’ modificata e in relazione a qualcos’altro, ebbe a dire Goethe, ridendo del
fisiologo Haller, che era un ricercatore naturale impenitente. Haller aveva
detto:

All’ interno della natura


Non penetra alcuno spirito creatore.
Beato colui al quale essa
Mostra solo la scorza esterna!

Goethe controbattè, dicendo:

“All’ interno della natura” –


Oh, tu, filisteo! –
“non penetra alcuno spirito creatore.”
...
“Beato colui al quale essa
Mostra solo la scorza esterna!”
Lo sento ripetere da sessant’anni,
Io inveisco, ma in segreto.
...
La natura non ha nè cuore
Né scorza,
essa è tutto in una volta.
Verifica bene se tu stesso
Sia cuore o scorza!

A quelli che parlano della tripartizione dell’organismo sociale come di


un’utopia, verrebbe da dire: verifica bene se quello che ti frulla nella testa sia
esso stesso un’utopia o sia realtà. – E si troverà che tutte le cornacchie hanno
in testa in gran parte utopie e che perciò la realtà stessa nelle loro teste di-
venta un’utopia o una ideologia o come la vogliono chiamare. Perciò oggi è
così difficile affermarsi con la realtà, perché la gente si è cementata per bene
21
l’accesso alla realtà.

Però dobbiamo dircelo: dobbiamo lavorare seriamente, altrimenti non ri-


usciremo a mettere in atto la nostra volontà; e si tratta proprio di questo, del
fatto che noi vogliamo mettere in atto la nostra volontà. E se dovessimo la-
sciar perdere tutto, perché riteniamo che sia sbagliato, dovremmo, per poter
passare dal volere all’agire, volgerci a quella verità che vogliamo considerare
appunto reale, perché non c’è nient’altro che possa portarci dalla volontà
all’azione, che il seguire coraggiosamente e spregiudicatamente la realtà. In
realtà questo dovrebbe essere scritto prima degli studi di queste serate, come
una specie di insegna, come un motto. Stasera volevo fare una premessa per
queste serate di studio. Spero che questa premessa non vi trattenga dall’oc-
cuparvi di questi studi in modo da far sì che alla fine veramente, prima che
sia troppo tardi, quei pensieri che portano in sé il germe dell’azione possano
penetrare nel mondo in modo fruttuoso.

Viene data la possibilità di intervenire.

Rudolf Steiner: Il libro I punti essenziali della questione sociale è stato


scritto in un modo specifico sotto due aspetti. Per prima cosa, è stato scritto
in modo che, di fatto, esso sia tratto totalmente a partire dalla realtà. Alcune
persone che leggono il libro non riflettono su questo aspetto. E lo posso an-
che capire, che al giorno d’oggi non ci riflettano sopra. Qui, in questo circolo,
ho già parlato una volta (ma non c’erano tutti quelli che sono presenti oggi),
di come ora veramente pensa la gente al giorno d’oggi. Precisamente, ho
citato l’esempio del professore di economia nazionale, Lujo Brentano, che lo
ha mostrato in modo così simpatico nel numero scorso del “Gelben Blattes”
(il foglio giallo); lo ripeto molto brevemente, perché mi ci voglio riallacciare
un attimo. Questo luminare della moderna economia politica dell’univer-
sità (è per così dire il primo) vi ha sviluppato il concetto di imprenditore e
ha cercato, sulla base del suo pensare illuminato, di caratterizzare i tratti
salienti dell’imprenditore. La prima e la seconda caratteristica non serve che
io le enumeri; la terza caratteristica, secondo lui, è che l’imprenditore è colui
che mette i propri mezzi di produzione, a suo rischio e pericolo, a servizio
dell’ordinamento sociale. Ora, egli ha questo concetto di imprenditore, e
poi lo applica. E poi giunge al notevole risultato che il lavoratore proletario
di oggi, in realtà, è anch’egli un imprenditore, perché corrisponde a questo
suo concetto di imprenditore per quanto riguarda la prima, la seconda e la
22
terza caratteristica. Infatti il lavoratore possiede la sua stessa forza lavoro
come mezzo di produzione; egli ne dispone, e in relazione ad essa egli si ap-
plica al progresso sociale a proprio rischio e pericolo. – Così questo luminare
dell’economia politica inserisce molto bene il concetto del prestatore d’opera
nel suo concetto di imprenditore. Vedete, così appunto pensano le persone
che si fanno dei concetti che non hanno senso alcuno; non hanno alcun sen-
so, se si vogliono dei concetti che siano veramente applicabili alla realtà. Ma
anche se forse non vi piacerà molto, si può tranquillamente dire: molto più
del 90% di tutto quello che oggi viene insegnato o stampato opera con con-
cetti del genere; se si vuole applicarli alla realtà, funziona tanto poco quanto
il concetto di imprenditore di Lujo Brentano. è così nella scienza, è così nella
scienza sociale, è così dappertutto, perciò la gente ha proprio disimparato a
capire ciò che agisce con concetti corrispondenti alla realtà.

Prendete ora i fondamenti della tripartizione dell’organismo sociale.


Nevvero, si possono mettere nei modi più diversi, questi fondamenti, per-
ché la vita ha bisogno di molti fondamenti. Ma uno dei modi è questo: che
si sappia che nell’epoca moderna è sorto quello che si potrebbe chiamare
l’impulso alla democrazia. La democrazia deve consistere nel fatto che ogni
uomo divenuto maggiorenne possa stabilire il suo rapporto giuridico nei
parlamenti democratici, in modo mediato o diretto, con ogni altro uomo
divenuto maggiorenne. Ma proprio quando si vuole seriamente e sincera-
mente inserire nel mondo questa democrazia, non si riesce ad amministrare
le questioni spirituali nel senso di questa democrazia, perché qui ogni uomo
divenuto maggiorenne dovrebbe poter decidere su ciò che non capisce. Le
faccende spirituali devono essere regolate sulla base della comprensione delle
cose, cioè devono essere fatte poggiare su se stesse; quindi non possono af-
fatto essere amministrate in un parlamento democratico, bensì devono avere
la loro propria amministrazione, che non può essere democratica, ma che
deve venire dalle cose. Lo stesso avviene nella vita economica; qui le cose
devono essere amministrate sulla base dell’esperienza economica e del vivere
dentro la vita economica. Perciò dal parlamento democratico devono essere
separate da un lato la vita economica e dall’altro la vita spirituale. Da ciò
sorge l’organismo sociale tripartito.

E ora qui c’è, a Tubinga, il professor Heck, che è quello che (ne ho già
parlato) che ha detto che non c’è affatto bisogno di prestarsi a dire che gli
usuali rapporti di salariato, nei quali si viene retribuiti per il proprio lavoro,
23
avrebbero qualcosa che abbassa il lavoratore, perché anche Caruso è in un
rapporto di salariato. La differenza non sarebbe di principio: perché Caruso
canta e prende la sua paga, e anche il proletario lavora e prende la sua paga;
e anche lui, in qualità di professore, prende la sua paga, se insegna. La dif-
ferenza fra Caruso e il proletario sarebbe solo che Caruso per una serata
prende da trenta a quarantamila marchi e il proletario un po’ di meno. Ma
questa non sarebbe una differenza di principio, ma solo una differenza rela-
tiva alla somma percepita. E quindi non serve – questo è quello che pensa
questo illustre professore – sentire niente di degradante nella retribuzione;
lui stesso non la vive così. – Tutto questo solo per inciso. Ma ora questo
professore tanto intelligente ha anche scritto un lungo articolo contro la
tripartizione. Dice: “Se dividiamo in tre, avremo tre parlamenti”. – E allora
mostra che non va bene, che ci siano tre parlamenti, perché dice: “Nel par-
lamento per l’economia, il piccolo artigiano non capirà il punto di vista del
grande industriale”, ecc. – Così il buon professore si è fatto le sue idee sulla
tripartizione, e contro queste idee (che io trovo ancora molto più stupide di
quanto le trovi stupide il professor Heck; le criticherei anch’io da cima a fon-
do), contro queste idee lui si scaglia, ma sono idee che ha creato lui stesso. Si
tratta proprio del fatto che non ci siano tre parlamenti uno accanto all’altro,
bensì di togliere quanto non appartiene a nessun parlamento. Egli fa sem-
plicemente tre parlamenti e dice: “Non va bene” – Così si vive in concetti
estranei alla realtà e su questa base si giudica anche il resto.

Ora proprio nell’economia nazionale, nell’economia politica, sono en-


trati quasi solo quelli che sono concetti non reali. Ma vedete, adesso, che il
tempo stringe, non potrei mettermi a scrivere tutta un’intera biblioteca che
spieghi tutti i concetti dell’economia politica. Perciò nei “Punti essenziali”
ovviamente si trova una grande quantità di concetti che devono essere trat-
tati in modo adeguato. Per esempio basta prendere in considerazione quanto
segue:

Nevvero, in un’epoca dalla quale ormai siamo già usciti, determinate


condizioni sociali sono state stabilite, sostanzialmente, solo ed esclusiva-
mente attraverso la conquista. Un determinato territorio apparteneva ad un
popolo o a una razza; un altro popolo lo invadeva e si conquistava una certa
zona. Quelle razze o quei popoli che lo abitavano prima venivano costretti al
lavoro. Il popolo che aveva conquistato il territorio ne assumeva il possesso
e in seguito a ciò si stabiliva un determinato rapporto fra conquistatori e
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conquistati. I conquistatori, per il fatto che erano conquistatori, ottenevano
il possesso del territorio. Così erano quelli economicamente forti, mentre i
conquistati erano quelli economicamente deboli, e si venne formando quel-
lo che divenne un rapporto giuridico. Perciò in quasi tutte le epoche antiche,
nel divenire storico, attraverso la conquista si configurarono dei rapporti
giuridici, cioè dei privilegi giuridici e degli svantaggi giuridici. Poi vennero
i tempi in cui non si poteva più conquistare liberamente. Potete studiare la
differenza fra la conquista libera e la conquista vincolata per esempio pren-
dendo in considerazione l’inizio del Medioevo. Potete studiare come certe
popolazioni, i Goti, venivano spinti verso sud, ma in territori che erano
interamente in possesso di qualcuno; lì, per quanto riguarda l’ordinamento
sociale, ricevevano una posizione diversa da quella dei Franchi, che migra-
rono verso occidente, dove trovarono dei territori che non erano totalmente
già di proprietà di altri. In questo modo sorsero diritti di conquista diversi.
Nei tempi moderni agirono poi non soltanto i diritti che dipendono dal ter-
reno, dal territorio, che erano sorti attraverso le conquiste, ma si aggiunsero i
diritti di coloro che avevano dei privilegi dovuti a quanto possedevano e che
ora, grazie al potere economico, poterono acquisire i mezzi di produzione.
A questo punto a quello che nel senso odierno è il diritto legato al terreno,
si aggiunse la proprietà dei mezzi di produzione, cioè la proprietà privata
dei capitali. Da ciò risultarono poi rapporti giuridici derivati da rapporti
economici. Vedete, questi rapporti giuridici sono sorti esclusivamente dai
rapporti economici.

Ora le persone vengono a chiedere i concetti di potere economico, del si-


gnificato economico del terreno, vogliono avere i concetti di mezzi aziendali,
di mezzi di produzione, dei capitali ecc. Certo, però non hanno una reale e
profonda comprensione di come vanno le cose. Così finiscono per prendere
le cose più superficiali e non riescono a cogliere che cosa realmente si na-
sconda dietro i diritti sul terreno, dietro i rapporti di potere in relazione ai
mezzi di produzione. Naturalmente tutte queste cose sono state contemplate
nel mio libro. Lì si è pensato in modo corretto; lì, quando si parla di diritti,
se ne parla a partire dalla consapevolezza di come il diritto è sorto attraverso
i secoli; lì, quando si parla di capitale, se ne parla a partire dalla consape-
volezza di come è nato il capitale. Si è evitato accuratamente di applicare
concetti che non fossero concepiti interamente a partire dal momento in
cui sono sorti; perciò questi concetti si presentano in modo diverso che nei
manuali comuni al giorno d’oggi.
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Ma si tiene conto anche di qualcos’altro. Prendiamo un determinato
dato di fatto, nevvero, il dato di fatto di come è sorto il protestantesimo.
Molto spesso nei libri di storia si racconta che Tetzel abbia viaggiato nell’Eu-
ropa centrale e che la gente era indignata per la vendita di indulgenze e altre
cose del genere. Ma non c’era soltanto questo, questo è solo ciò che appariva
in superficie. La cosa principale, che vi si nascondeva dietro, era il dato di
fatto che a Genova c’era una banca per conto della quale (non per conto del
papa) era venuto in Germania questo rivenditore di indulgenze, perché quel-
la banca aveva fatto credito al papa per altre necessità. Tutta la faccenda era
un’impresa capitalistica. Con questo esempio del commercio di indulgenze
come impresa capitalistica, dove si è addirittura fatto commercio dello spi-
rito, con questo esempio potete studiare (o meglio, se si comincia a studiare
da qui, se ne viene lentamente a capo) che infine tutto il potere del capitale
si rifà allo strapotere dello spirituale. Se studiate come in realtà il capitale è
arrivato al potere, troverete sempre lo strapotere dello spirituale. Ed è real-
mente così. Nevvero, chi è furbo, chi è ingegnoso, ha un potere maggiore di
chi non è furbo, di chi non è ingegnoso. E in questo modo sorge in modo
giustificato (o anche ingiustificato) molto di quello che è l’ammasso del capi-
tale. Bisogna tenerne conto, quando si considera il concetto di capitale. At-
traverso studi reali di questo genere si viene a scoprire che il capitale poggia
sul dispiegamento del potere spirituale e che ai diritti sul terreno e sul suolo,
ai diritti di conquista, si è aggiunto da un’altra parte il potere dell’antico
spirito teocratico. Dall’antica Chiesa è provenuto molto di quello che poi
è in realtà confluito nel capitalismo moderno. C’è un nesso occulto fra il
potere capitalistico moderno e il potere dell’antica Chiesa. E tutto ciò si è
poi riunito in un unico minestrone nel moderno potere di Stato. Lì dentro
trovate i rimasugli dell’antica teocrazia, i rimasugli delle antiche conquiste.
E infine si sono aggiunte le conquiste moderne, e la conquista più moderna
di tutte dovrebbe ora essere la conquista dello Stato da parte del socialismo.
Ma nella realtà non si dovrebbe procedere in questo modo. Deve venire
qualcosa di nuovo, a spazzare via del tutto questi vecchi concetti e impulsi.
Perciò si tratterà quindi che noi, nei nostri studi, ci occupiamo anche dei
concetti che ci sono alla base. Oggi, a chiunque voglia parlare di questioni
sociali, dobbiamo dare un chiarimento preciso su che cosa sia il diritto, su
che cosa sia il potere e su che cosa sia nella realtà un bene [economico], un
bene sotto forma di merce, e altro del genere. In questo ambito vengono fatti
gli errori più grandi. Voglio per esempio portarne uno alla vostra attenzione;
se non siete attenti a questo, capirete male molte cose del mio libro.
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Oggi prevale l’opinione che la merce sia lavoro immagazzinato, e che an-
che il capitale sia lavoro immagazzinato. – Potete dire che non faccia danno,
avere dei concetti del genere. Ma non è innocuo, perché concetti del genere
avvelenano tutto il pensare sociale. Vedete, come stanno realmente le cose,
col lavoro – col lavoro come impiego di forza lavoro? Certo, qui si ha una
gran bella differenza, se io per esempio utilizzo la mia forza fisica muscolare
facendo sport, oppure se vado a far legna. Se faccio sport, consumo la mia
forza muscolare; posso stancarmi e aver bisogno di ripristinare la mia forza
muscolare esattamente nello stesso modo di uno che va a far legna. Posso
impiegare la stessa quantità di lavoro sia per fare sport che per far legna. La
differenza non sta nel fatto che io devo ripristinare la forza lavoro, è ovvio
che bisogna ripristinarla, la differenza consiste nel fatto che in un caso la
forza lavoro viene impiegata solo per me, in senso egoistico, nell’altro caso
in senso sociale per la comunità. Queste cose si distinguono attraverso la
funzione sociale. Dicendo, ora, che qualcosa è lavoro immagazzinato, non
tengo conto del fatto che il lavoro in realtà smette di essere dentro una de-
terminata cosa nel preciso momento in cui si smette di lavorare. Non posso
dire: “Il capitale è lavoro immagazzinato”, bensì devo dire: “Il lavoro c’è solo
fino a quando viene svolto”. Ma nel nostro attuale ordine sociale il capitale
conserva il potere di richiamare in qualsiasi momento altro lavoro. L’errore
fatale non sta in ciò che dice Marx, che il capitale è lavoro immagazzinato,
bensì nel fatto che il capitale dà il potere di mettere al proprio servizio nuo-
vo lavoro (non lavoro immagazzinato), bensì lavoro fresco sempre di nuovo.
Molte cose dipendono, e molte altre dipenderanno, dal fatto che si pervenga
a formarsi su queste cose dei concetti chiari, che poggino sulla realtà. E da
tali concetti, che ora sono del tutto intrisi di realtà, proviene questo mio
libro. Esso non poggia su quei concetti che sono stati molto utili per l’edu-
cazione del proletariato. Ma oggi, che si dovrebbe costruire qualcosa, non
hanno più alcun senso, questi concetti.

Vedete, se dico: “Il capitale è lavoro immagazzinato”, questo va bene per


educare il proletariato; esso ne ha ricavato i sentimenti che doveva ricavarne.
In quel caso non si trattava del fatto che il concetto sia del tutto sbagliato
(si può educare anche con concetti del tutto sbagliati). Però per costruire
qualcosa è necessario che si abbiano dei concetti giusti. Perciò oggi abbia-
mo bisogno in tutti i settori dell’economia politica di concetti giusti e non
possiamo più continuare a lavorare con concetti sbagliati. Non dico per
frivolezza, che si può educare anche con concetti sbagliati, ma da principi
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generali dell’educazione. Vedete, quando raccontate delle storie ai bambini,
non volete anche costruire qualcosa con queste cose che sviluppate in quel
modo; nell’educazione si osserva qualcosa di diverso da quello che si osserva
quando si costruisce nella realtà fisica. In questa è necessario lavorare con
concetti reali. Un concetto come ‘il capitale è lavoro immagazzinato’ non
è un concetto. Il capitale è potere e conferisce il potere di porre a proprio
servizio in qualsiasi momento nuovo lavoro fresco. Questo è un concetto
vero con logica obiettiva. In questi ambiti bisogna lavorare con concetti
veri. è quello che si è cercato di fare nei “Punti essenziali”. Perciò credo che
molto di ciò che non vi è contenuto in termini di definizione dei concetti, di
caratteristica dei concetti, debba essere rielaborato. E chi poi sarà in grado
di contribuire a tale rielaborazione, della quale si ha bisogno per capire qual
è il modo di pensare, il fondamento, di questo libro, apporterà un gran bene
a queste serate di studio. Si tratta dunque, carissimi convenuti, proprio di
questo.

Certo, nevvero, bisognerebbe scrivere un dizionario, se si volessero chia-


rire tutti i concetti, – ma che cosa sia il ‘capitale’ lo si può dire ora in una
sola di queste serate di studio. Se oggi non si hanno dei concetti chiari: cos’è,
in realtà, il capitale? Che cos’è la merce? Che cos’è il diritto? – senza questi
concetti non si va più avanti. E questi concetti sono totalmente confusi nelle
cerchie più vaste; devono per prima cosa essere rettificati. Oggi ci si dispera
proprio, quando si parla con la gente dell’ordinamento sociale; le persone
non seguono, perché non hanno imparato a padroneggiare la realtà. E pro-
prio a questo bisogna appunto provvedere.

Note:
[1] Questa conferenza coincide praticamente
con la 14° conferenza del ciclo noto come OO 330. N.d.C.

Fonte:
http://www.tripartizione.it/pubblicazioni/OO337A_IV.html

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