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TRA GRECITÁ E CRISTIANESIMO: SIMBOLI DI UN ETERNO CONFLITTO

GABRIELE MANTINEO – II C

La conflittualità fra Inconscio e Io ben argomentata prima da Shopenahuer e Nietzsche e poi ripresa
da Freud con la psicoanalisi non è una conflittualità da due spiccioli, bensì quella che anche
culturalmente percorre l’Occidente sin dalle sue radici storiche.
Massime matrici culturali dell’Occidente sono infatti la grecità e il cristianesimo che ha nella terra
della sera [Abensland], quella in cui il sole tramonta, un ruolo di inconscio collettivo ben
psicologicamente e culturalmente interiorizzato, oltre a quello di grande religione monoteistica.
La dimensione greca del mondo non ha dubbi a riguardo: non bisogna oltrepassare il proprio limite e
destino di mortale. Mortale non è, per il greco, un insulto o un aggettivo offensivo, bensì una realtà così
grandemente assodata da divenire più adoperato di altri termini con il significato di comune e
generico uomo [ἀ νή ρ/ἀ νθρώ πος].
Mortali erano infatti soliti chiamarsi fra loro sia gli uomini omerici [βροτοὶ] sia quelli vissuti all’epoca
di Platone [θνητοὶ] il quale, parlando ad ognuno di noi, ci ricorda che:

Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o


uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il
cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra
che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la
felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti
questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la
vita cosmica.

L’uomo è per il greco totalmente iscritto nella natura [φύ σις] e così il tempo che è ciclico perché non
fa altro che riprodurre quel ciclo [κύ κλος] continuo ed innocente di nascite [φύ ω] e abbandoni alla
morte [ἀ φίημι] che sono necessarie per tante altre vite. Proprio perché la natura è per il greco:

Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per


tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu
sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa
secondo misure e si spegne secondo misure.

Nietzsche può scrivere:

Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena,


perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso
non sentire? Il meglio è per te assolutamente
irraggiungibile: non esser nato, non essere, essere niente.
Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire
presto.

Un grande riassunto dell’umanità intera in questo senso e di questa sua tragica esistenza ce la
fornisce Sofocle in una delle sue più famose tragedie, là dove è possibile leggere:

Generazione di uomini, vi conto una dopo l’altra, tutte


uguali, tutte viventi nel nulla. Quale uomo ottiene più che
l’illusione della felicità ? E dopo l’illusone viene il declino.
Il greco è, infatti, ben consapevole di illudersi parecchio nel corso della sua esistenza ed è per questo
che alla domanda del Coro che chiede “Nei doni concessi non sei magari andato oltre?”, la risposta del
titano Prometeo è secca e diretta:

PROMETEO: Sì, ho impedito agli uomini


di vedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco [φά ρμακον]
hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze
[τυφλὰ ς ἐλπίδας].

Mi par qui doveroso sottolineare che il termine greco phármakon [φά ρμακον] adoperato nel testo
significa tanto “farmaco” quanto “veleno”; insomma, il medicinale senza però escludere gli effetti
collaterali impressi sul foglietto illustrativo.
A conferma di ciò vi è anche il famoso mito del vaso di Pandora, il quale contiene tutti [πᾶ ν] i doni
[δῶ ρα]. Quando la possidente del vaso lo aprì da esso fuoriuscirono tutti i mali che da quel momento
in poi inflissero la vita degli uomini, ma solo la speranza [ἐλπίς] rimase all’interno della giara per
volere del sommo Zeus.
Bisogna tuttavia tener ben presente e sottolineare che non a caso la speranza fosse nel Vaso dei Mali.
Si rende così palese l’ambivalenza che per i greci era caratterizzante della speranza: essa è da una
parte ciò che permette all’uomo di distogliere lo sguardo dal suo incorruttibile destino di mortale,
mentre dall’altra si figura come una cortina di fumo che gli impedisce di vedere chiaramente la verità .
Diametralmente opposta alla concezione greca del mondo e della verità è la tradizione cristiana.
In questa la speranza si fa nodale poiché il futuro, sempre positivo, è salvezza. Neppure la morte è più
realmente temuta ma anzi, come vuole il Padre Nostro, “attendiamo l’ora della nostra morte” poiché
subito vi sarà la resurrezione. Tutto nel mondo cristiano è iscritto nel piano di Dio, anche la fine del
mondo, avendo il cristianesimo inaugurato la dimensione escatologica del tempo la quale attende
l’ultimo giorno [ἔσχατον].
Ivi non è possibile né è presente alcuna tragedia [τραγῳ δία] poiché il capro [τραγό ς] che gridava
[ᾄ δω] sul fuoco dei riti dionisiaci è divenuto “l’agnello che toglie i peccati dal mondo”.
Ma la più grande differenza che persiste fra le due massime matrici dell’Occidente è la concezione
della natura e la sua possibilità di essere dominata da parte dell’uomo.
Se, infatti, Prometeo non ha alcuna esitazione nel dichiarare che: “La tecnica è di gran lunga più
debole delle leggi di natura [τέχνη δ'ἀ νά γκης ἀ σθενέστερα μακρῷ ], prima di far l’uomo nel Genesi si
legge:

Poi Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine,


secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del
mare e su gli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su
tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano
sopra la sua superficie.

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