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In copertina:
Disegno di Alberto Savinio.
La memoria
562
Alberto Savinio
Dieci processi
A cura di
Gabriele Pedullà
Sellerio editore
Palermo
© Angelica De Chirico Savinio e Ruggero De Chirico Savinio
2003 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
e-mail: sellerioeditore@iol.it
Savinio, Alberto
10
Socrate
12
La filosofia presocratica ha lo sguardo fisso sul
passato. Interroga le origini del mondo, la qualità
della materia. È una filosofia realista. È un
atteggiamento mentale prettamente italiano. Non per
nulla i presocratici sono per lo più di origine italica.
Non faccio, si badi bene, questione di nazionalismo.
Mi valgo del carattere di una razza per determinare
la qualità di un orientamento ideologico. La filosofia
presocratica è una filosofia plastica, costruttiva. A
noi italiani rimproverano generalmente l’assenza
della mens philosophica. Risponderò per bocca di
Tacito. Dice questi di Agricola: «Memoria teneo
solitum ipsum narrare se prima in iuventa studium
philosophiae acrius, ultraque quam concessum Romano
ac senatori, hausisse, ni prudentia matris incensum ac
flagrantem animum coercuisset». Noi rifuggiamo, è
vero, dalla vana, dalla sterile speculazione. Ma una
filosofia «naturale» è implicita nei nostri atti, nella
nostra scienza dell’azione. Quindi, e le nostre tante
civiltà, e la nostra vitalità straordinaria, inestinguibile.
13
Siamo, in altre parole, dei presocratici persistenti,
incorruttibili.
Socrate, per parte sua, inventa la coscienza.
Sposta lo sguardo della filosofia. Diversamente
orientata, questa mira al futuro. E a quale futuro! al
futuro «interiore» dell’uomo – non faccio freddure.
Socrate ha deviato il fiume della filosofia. Ha
provocato delle inondazioni, le peggiori catastrofi.
Ha scatenato sul mondo l’odioso psicologismo. Ha
insegnato agli uomini l’introspezione dell’anima.
Li ha sfrattati dal sodo, dal fertile terreno della
realtà; li ha ridotti nel più arido deserto. Ivi, rosi dal
dubbio, condannati a pascersi di «stati di animo»,
questi disgraziati bruciano tutto ciò che di reale,
tangibile costituisce l’occupazione, la distrazione,
la consolazione di noi mortali. Poesia, arte,
filosofia «naturale», s’isteriliscono, muoiono.
L’uomo abbandona i suoi giochi divini, si
racchiude tutto nell’esame del «conosci te stesso» –
subdola, arbitraria interpretazione di un grave
insegnamento che, per bocca di Apollo, celava un
ben altro significato! Socrate impone altrui il suo
proprio dramma di artista mancato. Giovine, egli si
destinava alla scultura. Non so qual misteriosa voce
un giorno gli sussurrò: «Ond’è, o Socrate, che tu
tanto fatichi per riprodurre nel sasso la copia
inanimata di un modello estraneo, e non provvedi
piuttosto a scolpire la tua propria anima e a
14
diventare tu stesso quaggiù la statua vivente di ciò
che sono gli dèi immortali?».
Per compenso, Socrate traccia agli uomini una
strada irta di vane, di pericolose preoccupazioni,
d’inutile oscurità, di fallaci miraggi. Dice Weininger
che i Russi sono gli antigreci per eccellenza. Doveva
specificare. Tra il greco Socrate e il russo
Dostoevskij, c’è la stessa relazione come da causa a
effetto.
Resta la tanto conclamata «saggezza» di Socrate.
Per conto mio, ho buone ragioni di diffidare di
questa «saggezza». Essa, anzitutto, si manifesta in
una forma mistica. Socrate vuol essere un
«ispirato», un «dèmone» lo guida. Ma come
associare «saggezza» e «misticismo»?
Questo «saggio», oltre a ciò, specula sulla propria
bruttezza. Tra le mani di questo schermitore
consumato, la bruttezza diventa un’arma dialettica,
un mezzo. Di altri mezzi egli usava ancora, e
altrettanto illeciti: quel suo fare tra popolaresco e
sornione, quel suo modo di porre i problemi più
ardui su un terreno semplicione, quel suo tirer les
vers du nez, quel suo fare da «confessore».
Infine, chi era veramente questo «scopritore
dell’anima»? Egli non ci è noto se non per riferimenti
altrui. Dice Schopenhauer nei suoi Frammenti sulla
Storia della Filosofia: «Mi è difficile credere alla
intelligenza veramente vasta di tutti coloro che non
15
hanno lasciato documenti scritti». Quanto al
Socrate quale risulta dai Memorabili del «generale»
Senofonte, non ci sembra figura degna di tutta la
fama che la esalta e la circonfonde.
Nel nostro disegno, di cui la presente nota vuol
essere il commento, abbiamo figurato il figlio di
Sofronisco davanti al tribunale di Atene. Minerva, a
controvoglia forse, sta a rappresentare quella
«saggezza» che è la giustificazione e assieme il «punto
debole» dell’accusato. Pronunciata la sentenza e inviato,
giusta la legge, a formulare una controproposta,
Socrate chiede la sua ammissione al Pritaneo:
alloggiato e nutrito a spese dello Stato! Rifiuta e la
cauzione che gli amici si offrono di pagare per lui,
e la possibilità di fuggire dalla prigione: preferisce
la condanna che gli garantisce una fama sicura.
Unico atto «realistico» che conosciamo di lui.
Questo «savio», il cui valore intellettuale ci è
così problematico e oscuro, non era forse se non il
tipo perfetto dell’arrivista integrale.
16
Giovanna d’Arco
18
Non è facile parlare di Giovanna d’Arco come
figura storica. Non è facile parlare di Giovanna
come «cosa in sé». Personaggio storico, Giovanna
non ha ispirato se non poeti e artisti di secondaria
grandezza. Noi usiamo per antica esperienza dare
importanza a fatti di questo genere. Soggetto
poetico, Giovanna ci pare un soggetto «a fondo
perduto». Quale «realtà» in questa eroina? Ben è
vero che eroina essa è, ma eroina francese. Come
pure Vercingetorige. Confessiamo che la «praticità»
di questi due guerrieri ci sfugge completamente.
Invano cerchiamo i risultati, gli effetti della loro
azione di capitani. E la guerra, per noi romani
incorreggibili, si spiega solo col proverbio che il fine
giustifica i mezzi. Quanto alla «storicità» di
Giovanna, basti riferirsi a Machiavelli, posteriore, di
un secolo soltanto, Arte della guerra Lib. 4°: «Ne’
tempi de’ padri nostri, Carlo VII re di Francia, nella
guerra che fece contro agli Inglesi, diceva
consigliarsi con una fanciulla mandata da Dio, la
19
quale si chiamò per tutto la Pulzella di Francia».
L’antonomasia risolve la questione nel modo più
chiaro: Giovanna non conobbe nella sua breve
esistenza altra forma di vita se non quella della più
chiusa verginità. Come tale, le mancava quel modo
di espressione che alla donna è di tutti più naturale.
A questo difetto, Giovanna supplì con altro modo
di espressione che rileva dalla patologia isterica:
sentiva le voci che le parlavano dal cielo. Ma
queste voci Giovanna le sentì pure quando
l’inquisitore maître Loiseleur, nascosto dietro una
tenda, imitò, non diciamo con quanta grazia, le voci
dell’Arcangelo San Michele e di Santa Caterina.
Giovanna probabilmente non si accorse mai di
essere donna, non concepì altro stato se non quello
di ricettore della divinità. Un giorno, sugli spalti di
Orléans assediata, il capitano La Hire, in un
momento di rabbia, chiamò la Pulzella con quella
parola che i francesi scrivono p..., e che noi
significhiamo col nome della città di Priamo.
L’ingiuria per Giovanna fu una rivelazione. La
rivelazione del suo peccato originale. La rivelazione
del suo stato fatale. Manco a dirlo, la fortuna di
Giovanna cominciò da quel giorno a declinare.
Quanto alla sua fine, è quella che ognuno sa.
Giovanna non prevedeva certo che un giorno
sarebbe stata santificata. Non prevedeva che un
giorno, tra pompose e sonore cerimonie, Francesi e
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Inglesi si sarebbero passato di mano in mano il suo
stendardo tra brindisi d’onore e lo scrosciare di
applausi. Ma questi successi, di cui non sappiamo
quanto Giovanna si sarebbe contentata, sono
successi facili, e che particolarmente toccano a chi,
come lei, manca di vera e propria realtà storica.
Perché Giovanna, è bene dirlo ormai, più che una
realtà storica, è un’astrazione, un ideale, un
simbolo, un pio desiderio: il pio desiderio della
Francia. È la personificazione della Francia
cavalleresca, guerriera, generosa, verginale. È
l’immagine di una Francia ideale, quale questa
vorrebbe essere, e quale purtroppo – perché, si sa,
siamo tutti uomini quaggiù – non è.
Coscientemente, abbiamo dato al nostro disegno
un certo aspetto teatrale. Il dramma di Giovanna
d’Arco, processo e supplizio, rileva della tragicità
di uno spettacolo da fiera. L’ombra della croce,
dominante mistica di Giovanna, sovrasta la figura
dell’accusata, la cui faccia è chiusa e senza sguardo
(lo sguardo interiore non ci sembra cosa da
riprodurre plasticamente). Di sotto il palco spunta il
cappuccio di un fratone, forse quello stesso
Loiseleur che all’ingenua ispirata faceva pigliare
fischi per fiaschi. Nel rettangolo della finestra
aperta sul cielo, passa a volo un uccello. Simbolo di
quella libertà cui Giovanna non teneva più che
tanto. L’anima di Giovanna, forse, che dal rogo
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sale in cielo, come la videro i pii abitanti di Rouen.
A questo proposito, ricorderemo che in un chiaro
mattino d’inverno, un soldato che stava di
sentinella sul ponte di Koenigsberga, vide salire in
cielo, e in forma di colomba pure, l’anima,
nientemeno! di Emanuele Kant.
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Tomaso Campanella
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Siamo stati in compagnia di Giovanna d’Arco
nella douce terre de France. Siamo stati nella
morbida, nella cotonosa terra ove la più comune, la
più elementare realtà prende un aspetto di
fotografia sfocata. Abbiamo tentato isolare quel
tanto di vero, di preciso, di giustificato che ci
potesse essere nella vicenda della Pulzella. Invano!
Non solo: stavamo per naufragare noi stessi nel flou
azzurrognolo di quella bonaria leggenda senza
accidenti né fatalità. Non per nulla i francesi hanno
inventato l’impressionismo. Quindi siamo calati
con volo di falco nel meridione d’Italia. Quale
mutamento di clima! Lassù, la realtà più dura si
spappola in innocuo fantasma, in larva innocente?
Quaggiù, i fantasmi medesimi si rassodano nella
geometrica tragicità, nella incisa precisione di
personaggi municipali: portano baffi e magiustrina,
hanno mani pelose, ingemmate, e col biglietto del
tram infilato nell’anello del mignolo, siedono al
caffè a disputare di amministrazione pubblica e
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d’interessi locali, e sono maestri nell’arte di
premunirsi contro la iettatura. Terra di gelo
infocato, di ghiaccio in abito nero – e chi avesse a
stupire del nostro gongorismo, sappia che questo
non è se non un involontario pastiche dello stile di
Tomaso Campanella. La luce qui è tenebrosa,
scavata di abissi. Cupo il cielo, che uccide gli
angeli, come lago vulcanico. E fra questa tetra,
immobile, estemporanea luminosità, serpeggia,
come saetta in cielo nero, il canto lamentosissimo
dei famelici, dei voraci fantasmi del sud – quel
canto che una eufemistica mitologia ha creduto
bene imputare alle sirene. L’abitatore, qui, è
destinato a una tristezza di cristallo; il poeta, alla
metafisica più tralucente. Quanto alla fisiologia
dell’indigeno, si verifica in lui lo stesso adattamento
naturale che nei pesci che vivono sotto i quattromila
metri: natura lo ha provveduto, nonché di una
struttura ossea ben più potente che nel fragile uomo
del nord, di una corazzatura subepidermica che gli
consente di reggere al peso di tanta oscurità solare.
A spiegare perché la sola metafisica che onori
l’Italia nasce da Napoli in giù, basti questo breve
commento.
Tomaso Campanella, autoctono del sud, si è
trovato alle prese con codesti nodi metafisici di cui,
più che conquistarli, fu la vittima. Oscurità di
questa fatta si affrontano con la spada. Ma gli
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accenti poetici di lui, le maggiori performances della
sua mente, non hanno l’acutezza, non il taglio della
spada. Poeta, è tutto avvolto egli stesso, tutto legato
dentro le cose tremende e inesprimibili che invano
si sforzava di esprimere. A leggere taluno dei suoi
versi, sembra vedere Primo Camera che cerca
infilarsi la scarpetta di una ballerina andalusa. La
sua poesia è il gemito di uno che sogna sogni
angosciosi. Ma la qualità di un Nietzsche avant la
lettre non basta forse a onorare l’esistenza di questo
frate calabrese?
Non è arbitrio da parte nostra l’avere rappresentato
il frate di Silo in forma di campana. La suggestione
era già di per se stessa troppo tentatrice. Non per
nulla ci si chiama Campanella, non per nulla si è
nati per squillare, non per nulla i suoi benefattori di
Francia lo chiamavano Monsieur Thomas Clochette.
Lui stesso, oltre a ciò – nietzscheano anche in
questo! – ha sfruttato abbondantemente la facile
freddura del suo nome.
Squilla la campana davanti al doppio potere
dell’esercito e del clero. Annuncia la suprema felicità
di una repubblica perfetta. Ma è come parlare al
muro! Dietro, inanellata di nubi come un qualunque
San Graal, sorge l’ideale costruzione di questo
prigioniero che sogna a occhi aperti: la città a pan di
zucchero ove gli uomini, sterilizzati da una morale ad
alta potenza, vivono in disciplina esemplare sotto la
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tutela di una specie di prefetto modello, che non è
altri se non Domineddio in persona.
Ci resterebbe da esprimere le condoglianze d’uso
sul Campanella martire. Egli soffrì, si dice, perché
combatté la scolastica, propugnò il metodo
sperimentale. Formule da manualetto di filosofia!
Quale metodo sperimentale – lui che era metafisico
fino al midollo! Quale metodo sperimentale – lui
che aveva imborghesito il Padreterno, il Paradiso e
i Santi solo per sostituire a queste forme, già
irrigidite dall’età, una metafisica più fresca e di
fabbricazione propria!
L’avere passato ventisette anni in carcere, non è
cosa che ci possa muovere a pietà. Campanella è
prigioniero nato, ha la psiche del prigioniero nato:
non guarda le cose, guarda al di là delle cose. In
carcere uomini di questo genere ci stanno come il
topo nel parmigiano. Per amore deferente, e perché
in vita non aveva avuto il bene di avvicinarlo,
questo fratone muscoloso passò una notte intera
accanto al cadavere di Bernardino Telesio.
Discepolismo qui non spiega nulla, e nemmeno la
necrofilia. Gli è che fra corpo prigione dell’anima
per Tomaso Campanella non era affatto una
locuzione vana. Tanto valeva dunque starsene dentro
le celle di Castel dell’Ovo. Stato favorevolissimo a
lui, balistica necessaria per dare sfogo alla sua
utopia, alla Città del Sole.
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Libero, ricco, onorato, Campanella perde ogni
efficienza, si svuota – come l’Anteo che non pesta
più sua madre Terra. Il quale risultato, manco a
farlo apposta, doveva proprio toccare ai Francesi: a
questi addomesticatori, a questi corruttori di ogni
metafisica più tenace.
29
N.S.G.C.
32
Se avessi dato ascolto al mio primo sentimento,
questa nota non mi sarei mai determinato non
dico a scriverla, ma nemmeno a formularla
mentalmente.
Il cristianesimo, specie per chi è nato ed è
cresciuto nella tradizione cristiana, costituisce tale un
monumento morale, che non è consentito parlarne,
né affrontarlo tanto meno, con quella libertà di
giudizio che così necessaria è alla valutazione di
qualunque fatto o storico o spirituale.
Finora non mi era capitato mai di parlare di Cristo
– se volutamente o involontariamente non so. Il caso
che ora mi tocca mi ha bruscamente dimostrato che
anche una lunga pratica di scetticismo (dico
scetticismo in mancanza di parola più acconcia) non
basta a risolvere il problema del cristianesimo, ma
solo a tacitarlo momentaneamente.
D’altra parte però, perché obbedire a quella
insanabile vigliaccheria di cui nessuno di noi, credo,
riesce mai completamente a liberarsi?
33
È nell’«idea» Cristo una verità così profondamente
stabilita, che stimo inutile ogni tentativo di rimetterla
in discussione. Inutili del pari, e non solo inutili
ma odiosi, reputo quei facili appigli di cui taluni
hanno voluto rivalersi per giustificare il proprio
atteggiamento anticristiano. Meschino e antipatico il
foetor judaïcus di cui si servì Schopenhauer. Falso
filosoficamente il decadentismo cristiano denunciato
da Nietzsche. Quanto alle reazioni ataviche di uno
Strauss, agli isterismi seminaristici di un Renan, non
è questo il luogo di parlarne.
36
Frine
38
Il gesto di Frine che si denuda davanti all’Areopago,
l’opinione pubblica l’ha avvilito all’infima statura
dell’aneddoto galante. Deformazione necessaria di
una abbagliante verità. Questo «soggetto da
operetta» cela un significato non men riposto che
profondo. Frine fu assolta: non dalla voce della
ragione, non dalla voce della giustizia: dalla voce
del sesso – imperiosa e inappellabile voce, davanti
ai cui decreti giustizia e ragione si riducono a ben
poca cosa.
L’uomo non si esprime soltanto con la parola, col
gesto, con lo sguardo. L’uomo possiede un altro e
non men potente mezzo di espressione: l’espressione
del sesso. Ma su questo, l’universale e tuttora
imperante ipocrisia vuole che si taccia.
Sia chiaramente inteso che qui non si parla di
una generica manifestazione sessuale: della libido
erotica. No: il sesso ha una espressione sua, una sua
voce, una sua eloquenza ineffabile. Esso talvolta si
esprime, sì, indirettamente e per mezzo della
39
parola, del gesto, dello sguardo: è uno stile ancora
umano e tinto di sessualismo, una sorta di pittura
veneziana. Ma quando l’espressione sessuale ha
raggiunto il suo pieno, quando ha toccato il suo
zènit, la parola tace, il gesto manca, lo sguardo si
spegne, e il sesso si esprime da sé, direttamente,
isolatamente; e tutto chiuso nella sua metafisica,
nel suo supremo accento musicale, nel fortissimo
della morte di Isotta.
È l’ora dell’espressione sessuale, di questa voce
senza suono che appena si avverte, come il
rabdomante avverte la polla sotterranea, la
misteriosa colonna d’acqua. È l’ora in cui più
potente e solenne risuona la voce del sesso; è l’ora
in cui il sesso (si parla del sesso mascolino, il solo
che abbia un’importanza di personaggio, di
dramatis persona: il sesso femminile non è se non
l’ambiente, la decorazione, lo scenario) non è più la
forma simbolica dell’imbecillità umana (e per che
altro si elegge il sesso a simbolo d’imbecillità, se
non per suscitare l’ironia mediante il contrasto, tra
l’imbecillità e l’attributo più venerabile della vita?)
ma sale alla paludata grandezza di un protagonista
di tragedia, alla togata severità di un sacerdote che
celebra il più solenne dei riti.
Questo hanno oscuramente significato gli Stoici
con il loro logos spermaticòs; questo si vuole
significare ai nostri giorni con una frase che
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sciaguratamente è venuta in mano ai compilatori di
riviste illustrate: sex appeal.
Quale la ragione, il fine della voce del sesso?...
Non si sa. Oltre che, per essere così lontana questa
voce dalla ragione, non è possibile valutarla
secondo un criterio di ragione. Si escluda però che
la voce del sesso è l’appello della volontà di
fecondazione; si escluda la moralistica logica che
vuole mettere un fenomeno così squisitamente
metafisico, illogico e disinteressato, al servizio
della conservazione della specie.
La voce del sesso è la facoltà più grande che ci
metta in piena comunione col tutto. Essa sola
dispone il nostro animo alla massima generosità,
alla magnanimità assoluta, al bene, all’amore di
uomini e di cose. Sotto il suo segno soltanto si può
stabilire quella concordia universale, quella
fratellanza tra gli uomini che, altrimenti, non sono
se non pallide utopie.
E Frine, che questa voce ha saputo suscitare, gli
areopagiti l’assolvono – è il caso di dire: senza
neppur pensarci.
41
Giudizio di Paride
44
Luciano di Samosata, con quello stile tra
superficiale e isterico che era emanazione diretta del
suo animo piccino, ebbe a scrivere, fra tante altre
cose, anche sul Giudizio di Paride. Questo «pezzo»
dell’acrimonioso alessandrino noi altre volte avemmo
occasione di leggerlo in traduzione francese.
Minerva, Giunone e Venere – cicogne in
migrazione – si conducono a volo e sotto la scorta di
Mercurio (cicogna-guida) alla volta del monte Ida.
Mercurio a un tratto punta il dito e annuncia: «Ecco
l’isola di Creta». Venere aggiunge: «E il monte, e la
grotta». E Minerva: «E il pastore che, seduto, ci
aspetta». Giunone guarda a sua volta, ma dell’isola,
del monte, della grotta, del pastore, non vede neppure
l’ombra. Il traduttore a questo punto (homme de
lettres del XVII secolo) rimanda con un asterisco a piè
di pagina e maestosamente commenta: «Giunone
aveva vista corta, perché era Boòpis».
È a ragion veduta che abbiamo riferito questo
impareggiabile commento. Il Giudizio di Paride
45
(pagina della mitologia greca più di tutte degenerata
in episodio galante, in pannello decorativo, in
illustrazione da ventaglio) non è facile vederlo
altrimenti se non attraverso la fessaggine dotta dei
petits maîtres del XVII secolo.
Cionondimeno, anche il Giudizio di Paride è
un processo; e come tale, invita ad alcune
considerazioni tardive, sì, e purtroppo inoperose,
ma necessarie ad una più paziente sopportazione
della nostra sorte.
Officiato a eleggere la più bella delle tre, Paride
donò la mela ad Afrodite.
Facciamo conto che l’avesse donata a Giunone.
La faccia del mondo ne risultava mutata.
Governati, sì, dalla donna (di qui non si scappa!),
ma dalla casalinga, dalla massaia, dai suoi conti di
cucina e di bucato, dalla sua mania del risparmio,
dal suo glorioso peso di donna onesta, dai suoi
principii igienici e dal suo sano regime alimentare,
dalle sue basse gelosie di sposa e madre, di
morbida e costante protettrice, di bambinaia del
marito, di nutrice per adulti.
Supponiamo adesso che la mela fosse capitata a
Minerva. Quale vita mai la nostra sotto l’imperio
della donna militaresca e saccente, maestra di virtù e
professoressa di pedagogia! quale rispetto dell’orario
e della disciplina! quali voluttà disinfettate e regolate
secondo il manuale del perfetto igienista! quale
46
rigorosa osservanza dei principii fisici e morali! quale
clinica modello! quale frigidario! che scuola e che
ospedale!
L’oporico premio andò invece a compensare le
alogiche qualità di Venere, di colei che nacque da
un ribollire di sanguinanti genitali: madre di Eros e
iddia del piacere.
Così fu. Sentenza che nessuna Cassazione potrà
giammai mutare. Noi tutti quaggiù viviamo sotto
il segno venereo – e dal momento in cui apriamo
gli occhi alla luce fino al momento in cui li
serriamo nell’ombra della morte, non altro è il
nostro vivere se non un continuo rivolgerci tra
lotte, spasimi, stragi, calamità, delitti e nefandezze
di ogni sorta – e a base di tutto la febbre dell’oro,
la battaglia economica: perché il tempo è denaro,
e il denaro è piacere, e il piacere è lei: Venere,
Venere, Venere.
47
Galileo Galilei
50
Nell’introduzione a queste note, dicevamo:
«Ognuno di questi grandi accusati, prima di
diventare vittima della giustizia umana, è stato
vittima di una sua particolare forma di misticismo».
Queste parole sembra non abbiano a riguardare
Galileo Galilei, il creatore della «filosofia naturale».
Eppure...
Misticismo non è poi una parola così oscura,
equivoca, «compromettente» – benché misticismo,
come pure isterismo, sieno parole che hanno avuto
una cattiva sorte. Misticismo è l’amore, è la
passione, è la fede che l’uomo nutre per la Verità
Unica: questa problematica amante del fidente,
dell’ingenuo, del pavido mortale. Credere nella
santità di questo idolo evanescente e tenuissimo, è
adottare un atteggiamento mistico, è assumere tutte
le conseguenze mentali, psicologiche, patologiche
che simile atteggiamento porta con sé. Ora, benché
questa Verità, questo supremo miraggio, questo
punto obbligato sia chiamato a volta a volta Cesare
51
Augusto o Budda, Gesù Cristo o Democrazia,
Maometto o Scientia, gli effetti presso i fedeli del
culto unico e delle sue infinite varianti, sono presso
a poco sempre gli stessi. Tra Santa Caterina da Siena
e Alberto Einstein, c’è somiglianza come tra fratello
e sorella. Quanto al famoso «dubbio filosofico», che
a rigor di logica dovrebbe essere l’antitesi di quanto
si è detto sopra, noi per conto nostro lo mettiamo tra
le molte varianti della Verità Unica. E basta
guardare all’U.R.S.S. per convincersi come anche il
«materialismo dialettico», cioè a dire la concezione
più fredda, più clinica della vita, che ci fosse mai
dato di vedere, può trasformarsi, scaldato che sia dal
pàtos dell’uomo, nel più ardente, nel più cupo
misticismo.
Lo scienziato è tra i tipi più puri del mistico.
Pronto a sacrificare la propria vita in difesa della
Scientia: della «dea» Scientia. Mistico non è solo
chi non crede alla Verità Unica: noi per esempio,
che non ci crediamo affatto. Crediamo invece che
le verità sono tante, che le verità sono infinite, che
«una» verità non esiste. Il quale atteggiamento,
dicono i più, è atteggiamento negativo, sfavorevole
a qualunque fattività. E l’uomo, ben si vede quanto
daffare si dà per lasciare tracce di sé in questo
mondo, cioè a dire opere. Quanto a noi, cui
l’operare piace e conviene al più alto grado, stiamo
sperimentando il modo di operare pur senza
52
l’ausilio di una fede cieca nell’Unica Verità – senza
misticismi di sorta. E il nostro sperimento, abbiamo
ragione di credere, non è fallito al tutto.
C’è una frase che, presso tutti i manualetti di
coltura spicciola, presso tutti i Novissimi Melzi è
valsa a corroborare la fama dell’inventore del
termometro: «Eppur si muove». Strano! Questa
frase dà lo stesso suono di un’altra frase non meno
celebre: «Se non è vero è ben trovato». Il Dottor
Cabanès nega che Galilei abbia mai pronunciato
questa fiera battuta – che l’abbia pronunciata
soprattutto nelle condizioni che gli assegna la
cronaca leggendaria: al finire dell’interrogazione
inquisitoriale. A noi, il Dottor Cabanès, questa tarla
della mitologia perpetua, ispira l’antipatia più nera,
la più violenta repulsione. Pure, per quel che è
dell’«Eppur si muove», siamo costretti a
malincuore a dargli ragione. No: Galilei è italiano,
è toscano. Scienziato, egli adora sì la Verità, ma
non mai con quel furore sacro, con quella dedizione
cieca dei suoi colleghi di lassù, gli abitatori delle
zone artiche. Pagano in religione, l’italiano porta il
suo salutare paganesimo pur nella religione della
scienza.
Sulla illustrazione che risponde a questa nota, non
abbiamo nulla da letterariamente aggiungere – salvo
che se all’Inquisitore inquadrato sul cavalletto
abbiamo dato un aspetto di morto che parla, di
53
dormiente perpetuo, di annegato che torna a galla, è
perché in noi l’idea Inquisitore si è sempre associata
all’idea dell’abisso: dello spaventoso, del mostruoso
fondo del mare.
54
Anassagora
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Siamo passati tra aule di tribunale e prigioni, in
mezzo a torture e a iniquità perpetrate in nome di
Giustizia, tra orrende testimonianze della scelleratezza
umana e il monotono, l’infinito ripetersi della
malvagità universale.
Oggi, nell’evocare la memoria di colui che per
ironica antonomasia era chiamato il signor Nous, ci
sembra passare dall’ombra a una luce d’aurora, respirare
non più il lezzo delle carceri ma l’aria pulitissima delle
vette – abbandonare l’età del ferro e riaccostarsi
all’età dell’oro. Come mai tal mutamento di clima?
Fermiamoci e apriamo gli occhi: l’illusione è
svanita.
La Grecia ha creato dei miti: altri si sono creati
intorno ad essa.
Questa primavera storica, questo momento di
felicità rarissima, questo intermezzo di umanità
suprema, questo lago lucidissimo in cui si è specchiato
ancorché brevemente il sorriso degli dèi, questa oasi
così singolarmente serena in mezzo ai torbidi annali
57
del mondo – insomma, questa ara di poesia che altro è
se non un mito brillante ma sospetto?
Mito altresì la tanto decantata liberalità di Atene.
È il 460 a. C. circa quest’anno, nella ionia città di
Clazomene nasce uno di quegli uomini singolari,
che per cercare la felicità altrove che nelle cose
apprezzate dai più, vanno sotto il nome di saggi.
Anassagora abbandonò i beni di cui fortuna lo
aveva provveduto, per dedicarsi alla sapienza.
(Voltaire stimava per parte sua che la condizione
del filosofo ha da essere confortata da un reddito di
centomila franchi: chi dei due avrà ragione?). A
testimonianza di Aristotele, sappiamo che già nel
IV secolo Anassagora era considerato come uno
che pratica la «vita teoretica».
Questi fu il primo filosofo, o come dire il primo
«uomo di scienza», che si venne a stabilire ad
Atene. La capitale dell’Attica, benché fosse per
diventare il centro politico del mondo greco, non
aveva ancor creato quanto a sé «uomini di scienza».
Non solo: l’ateniese era ostilissimo a qualunque
forma di ricerca. Nel tempo del suo massimo
splendore, Atene era ben lungi dal costituire un
centro in cui la libera ricerca si potesse sviluppare
senza ostacoli. Socrate, Anassagora, Aristotele,
sebbene imputati di delitti più politici che religiosi,
e condannati meno come eretici che come novatori
in materia di religione di Stato, furono vittime,
58
ciascuno in grado diverso, della bigotteria
democratica di Atene.
Capitato in un ambiente di tal genere, non è da
maravigliare che il «signor Nous» finisse di lì a poco
tra le grinfie di quei magistrati musoni, cui
incombeva la salutifera mansione di far rispettare le
deità ufficiali. Oscuri i particolari del processo,
contradittorie le versioni di Satiro e di Sozione. Dice
questo: accusatore, Cleone; accusa: aver chiamato il
Sole una massa incandescente; sentenza: multa di
cinque talenti. E quello: accusatore, Tucidide figlio
di Melesia; accusa: empietà e medismo; sentenza:
condannato a morte per contumacia. Da Platone
sappiamo che si rimproverava ad Anassagora di
insegnare che il Sole è una pietra incandescente e
che la Luna è fatta di terra.
Tuttavia, in mezzo a questo folto «medievale»,
che così sintomaticamente macula la tersità del più
fulgido secolo della Grecia, una felice radura si apre,
brilla d’un tratto un particolare leggendariamente
greco: l’amicizia, e non sentimentale soltanto ma
efficace e operosa, di Pericle per il filosofo
perseguitato. Anassagora, dice Ermippo, era in
prigione e condannato a morte, quando Pericle lo
liberò e rimproverò assieme agli ateniesi il loro
vergognoso comportamento.
Esiliato, Anassagora ritornò nella Jonia
originaria e si ridusse a Lampsaco. Fondò ivi una
59
scuola e morì carico di anni. In memoria di lui, i
cittadini edificarono un tempio «allo Spirito e alla
Verità». (In quale data precisa si fa nascere la
massoneria?). L’anniversario della sua morte era
giorno di festa per gli scolaretti di Lampsaco. Così
aveva voluto lo stesso «signor Nous». La scienza,
opinava costui, è una gioia grandissima; ma
opinava altresì che il rinunciare a questa gioia,
costituisce forse una gioia anche più grande.
60
Luigi XVI
62
Il punto debole della Rivoluzione Francese, è di
essere una rivoluzione francese. Con questa frase
che ha l’aria di una freddura, vogliamo dire
semplicemente che tutto quanto avviene nella terra
di Francia, sono fatti il cui valore «apparente»
supera di molto il valore «effettivo». I francesi sono
maestri nell’arte di creare l’affaire. E la rivoluzione
del 1789 che altro è se non un’affaire, e di tutte la
più grossa?
Si è fatto un gran parlare dell’esecuzione di Luigi
XVI. Ma questo tragico romanzo è stato compilato
dagli emigrati monarchici, da gente che nel fatto
rivoluzione non aveva voce in capitolo: non era di
loro competenza. Oltre a ciò, questo tragico
romanzo è stato alimentato e dalle lunghe
tergiversazioni che hanno inutilmente preceduto la
morte del re, e dalla patetica prigionia della famiglia
reale nel Tempio, e dal mistero che abilmente è
venuto a circondare la sorte del Delfino. Questo per
dimostrare che la morte di Luigi XVI non ha se non
63
un’importanza romantica. Quanto a importanza
politica, essa rientra tra le pratiche di ordinaria
amministrazione. Ammesso il fatto rivoluzionario,
la persona del re doveva sparire immediatamente. E
quale sparizione più radicale di quella ottenuta
mediante l’ordigno del famigerato Guillotin? È
assurdo che Luigi XVI sia riuscito a campare in
regime di dittatura carmagnolesca. È assurdo che
egli abbia usato tanti ripieghi per evitare la soluzione
fatale – tra i quali, pietosissimo, l’aver accettato lo
stato civile del «cittadino Capeto».
Affacciato a un mezzanino della rue de Ricbelieu,
Chateaubriand vede avanzare dal fondo della strada
un folto di popolo. Marcia in avanguardia una specie
di sanculotto. Questi, che in cima a una pertica regge
una testa mozza, la solleva verso il mezzanino del
«visconte» e lo invita a farle le feste.
Questo episodio delle Memorie di Oltretomba
illustra meglio di qualunque disquisizione storica il
carattere vero della rivoluzione francese. Fatto
storico, sì, ma pieno di orrore e di sangue, più che
di risultati pratici. Vero è che alla fine del XVIII
secolo, l’arte della rivoluzione era ancora in fasce.
Più che alla tecnica della nuova ideologia, si
mirava alla scannatoria. Rivoluzione plebea,
rivoluzione fatta male. A tal segno, che in capo a
pochi anni, ciò che doveva essere il frutto della
rivoluzione, sparisce in mezzo all’imperialismo più
64
tronfio. E non per nulla, nell’edilizia di Parigi,
piazza della Bastiglia è così poca cosa in confronto
a piazza della Stella.
Nel nostro disegno, le teste – teste e non più capi
– di Luigi e di Maria Antonietta, sono caduti come
frutti troppo maturi dall’albero della ghigliottina.
Questo disegno è una natura morta. Gli occhi dei
sovrani sono revulsi dalla morte. Può darsi però si
volgano a quella Provvidenza, a quel Diritto Divino
che sono genitore e nutrice dei regnanti. E sulle
loro labbra fiorisce quel sorriso «monarchico», che
in mancanza di qualità più corpose, era il massimo
decoro, la grazia suprema di quel re, di quella
regina.
65
Landru
68
Nella teratologia dei nostri tempi, Landru si è
assicurato un incontestabile primato. Così ha voluto
la Corte d’Assise del dipartimento della Senna; così
ha voluto l’opinione pubblica del mondo intero. In
mezzo a tanta unanimità, noi alla «mostruosità» di
Landru non ci crediamo affatto.
Il caso Landru non è un semplice caso di
antropofagia. L’uomo civile dice di avere soppresso
l’antropofagia, dice di avere soppresso la schiavitù.
Ma l’uomo civile è un contemplatore di miraggi.
D’altra parte, perché condannare una forma di
alimentazione, che tante ragioni serie intervengono a
giustificare?
Nel caso psicologicamente più ricco, l’uomo
mangia il proprio simile per assimilare le virtù del
defunto.
In Polinesia e nella regione dell’Amazzone, la
comunione si compie in modo razionale e completo.
A Roma essa comunione si riduce a espressione
oratoria: «Ti mangerò il core!». Ma l’intenzione, il
69
fine psicologico sono salvi. Circa un vent’anni fa, un
norcino di non sappiamo più quale paese del Lazio,
si mangiò una coppia di carabinieri sotto forma di
salsicce. Ambiva quel norcino ad assimilare le
provate virtù della Benemerita? Non possiamo
asseverare. Abbiamo ricordato il fatto solo per dare,
in barba agli idealisti, un esempio di antropofagia.
Talvolta però, l’uomo mangia l’uomo per semplice
curiosità: è un atto dilettantesco, è un caso di
snobismo, di stendhalismo antropofagico. Non ci
soffermeremo sull’antropofagia per fame: si
giustifica da sé.
Quanto a Landru, egli non si sarebbe mai
sognato di mangiarsi un paio di carabinieri; e
nemmeno un paio di brigadieri; e nemmeno un paio
di generali. No. Landru non è un gastronomo della
carne umana. L’uomo egli non lo mangiava in
quanto entità umana e commestibile. Il maschio,
anzi, Landru non lo mangiava affatto. (Che
bellissimo esemplare di maschilità!). Landru
mangiava la donna. Non basta: mangiava la donna
amata. Il caso Landru è un caso passionale.
I casi di landruismo sono rari. Ma anche il genio è
raro; e così pure l’amore perfetto. Un esempio di
landruismo naturale, sebbene rovesciato, lo troviamo
invece tra gli scorpioni languedocensi. Dopo avere
copulato col maschio, lo scorpione languedocense
femmina se lo divora amorosamente, a cominciare
70
dalla testa. È da notare che tra gli scorpioni
languedocensi, o scorpioni bianchi, la femmina è più
grande e più robusta del suo compagno. Natura stessa
nella sua eccelsa saggezza ha provveduto così, perché
all’atto amoroso potesse seguire con piena efficienza
di mezzi l’atto alimentare. Tra la specie umana si
verifica il contrario. Che cosa dedurre da questa
comparazione?
Il più che si possa imputare a Landru, il più che si
possa imputare a questo petrarchista integrale, a
questo adoratore assoluto della donna, a questo
cavalleresco vendicatore di Don Giovanni (questi
conquistava la donna per poi buttarla via come un
limone spremuto; Landru, il fedelissimo Landru, la
conquistava per integrarsela), il più che gli si possa
imputare è che le metafore lui le interpretava troppo
alla lettera. Deficienza veramente inesplicabile in un
oratore così fiorito, in quell’impeccabile stilista.
Quando Landru diceva all’eletta: «Tu sei mia», il
significato della metafora lo applicava nelle sue
conseguenze estreme: le sole che contino. E la
donna amata egli se la faceva veramente sua, cioè a
dire carne della sua carne. Che tra i giurati che
condannarono Landru alla pena di morte si celasse
una giuria di grammatici facinorosi? che sia stato il
processo Landru il processo dello stile? Il dubbio ci
lascia perplessi. Comunque sia, qual menestrello
mai, qual trovatore, quale Corte d’Amore seppero
71
rendere omaggio così bello a Eva e alle sue figlie? Il
ventre di Landru, diciamo noi che le donne nonché
astenerci dal cibarcene lasciamo che esse medesime
amabilmente ci divorino, è l’altare più fulgido che
sia stato consacrato giammai al culto dell’eterno
femminino.
A meno che (come l’ipotesi fu avanzata a suo
tempo) il caso Landru, ginofagia processo e
condanna, non fosse se non un ripiego escogitato
dal ministero degli interni, per distrarre l’opinione
pubblica dai fatti più gravi che occupavano la
Francia. Ma dallo scetticismo del man in the street
noi rifuggiamo per principio.
72
Processo alla Verità
di
Gabriele Pedullà
La passione per le cause perse (innanzitutto la
propria) accompagna ogni avanguardia artistica –
inconsciamente presaga, si potrebbe persino
ipotizzare, del destino che attende anche il suo
progetto di palingenesi radicale delle forme. È per
questo che sono così numerose le condanne nei
Dieci processi raccontati e illustrati da Alberto
Savinio per la rivista giuridica «I Rostri» tra il
1932 e il 1935? 1 Nella quasi totalità dei casi, con
la sola eccezione di Landra e di Paride, siamo in
presenza di «errori giudiziari» ai quali il tribunale
della Storia ha accordato «una postuma
riabilitazione». Eppure Savinio si guarda bene dal
costruire una galleria di martiri del libero pensiero
e dell’Ideale – un’impostazione che avrebbe fatto
1
Di questi testi dispersi era stata approntata, una ventina di anni fa,
una raccolta stampata quasi clandestinamente ad Amsterdam presso le
“Edizioni del sole nero” a cura e con un’introduzione di Maurizio
Fagiolo dell’Arco (elegante plaquette di 51 pagine più le illustrazioni).
Da allora i Dieci processi sono stati riproposti soltanto sul numero 5 de
“Il Caffè Illustrato”, marzo-aprile 2001, a cura di chi scrive.
75
molto Risorgimento italiano, molto Francesco
De Sanctis, autore che Savinio, si sa, anche
altrove mostra di non amare troppo (al punto che
Campanella per esempio viene descritto come
«un prigioniero nato», che invece «libero, ricco,
onorato [...] perde ogni efficienza»; e allo stesso
modo Galileo è evocato non tanto come vittima
illustre dell’Inquisizione quanto piuttosto come
il liberatore della scienza dalla mistica della
verità).
Savinio non è soddisfatto del processo d’appello,
lo infastidisce la certezza con cui sono proclamate le
assoluzioni, come un tempo lo fu la condanna. Alla
difesa degli accusati si sostituisce così un’inedita
riabilitazione delle giurie che proclamarono il
verdetto, in una sorta di secondo ribaltamento di
prospettiva. «Ma è così accertata poi l’iniquità di
queste condanne?»: l’interrogativo rimbomba in
ciascuno dei dieci casi giudiziari da lui analizzati.
Savinio, beninteso, non è un colpevolista, così come
non è nemmeno un innocentista. L’unica cosa che
gli interessa è riaprire i processi, far saltare le
convinzioni consolidate, mettere in luce la forza dei
nostri preconcetti. Dove il giudizio sull’accusato non
è suscettibile di trasformazione, si accontenterà di
sovvertire almeno alcune delle altre certezze che
accompagnano la vicenda giudiziaria: Anassagora ci
mostrerà allora un volto meno noto della
76
democraticissima Atene («La Grecia ha creato dei
miti: altri si sono creati attorno ad essa»), Galileo
verrà apprezzato per la sua italica capacità di
scendere a compromessi negando ogni credibilità
all’aneddotica sull’«Eppur si muove», mentre il
processo di Cristo sarà chiamato a svelare la vera
indole dello stesso Savinio, che si intrattiene
pubblicamente con gli Dei dell’Olimpo, ma in
segreto coltiva un’«amicizia più vera, più profonda»
che «è fuori di quei personaggi dorati, di quegli iddii
brillantissimi» («Ma questa amicizia unica, di cui
oggi soltanto mi risolvo a rivelare l’esistenza non è
di quelle che si mettono in pubblico, non è di quelle
che si portano in piazza»).
Il rifiuto programmatico delle certezze
precostituite ci aiuta a comprendere che cosa
affascinasse tanto l’autore in questi processi, dal
momento che al di fuori della contesa giudiziaria
non è possibile trovare nessun altro minimo comun
denominatore nelle dieci storie da lui narrate.
Savinio, bisognerà riconoscere, è attratto dal
processo in quanto schema vuoto – situazione
astratta in cui convergono in uno stesso luogo, per
determinare che cosa è la verità, due parti in lotta
(l’accusa e la difesa), un personaggio fuori dal
comune e una giuria, ovvero la pubblica opinione.
Laddove un romantico si sarebbe appassionato per
la figura della vittima (un romantico come De
77
Sanctis), Savinio si lascia conquistare invece dalla
purezza geometrica della situazione. Il processo
rappresenta per eccellenza un momento aperto, in
cui ci si riunisce per accordarsi sulla verità, ma che
appunto per questo, fin quando il rito non sarà stato
completamente officiato con l’emissione della
sentenza, circoscrive la sospensione della verità.
Finché il dibattimento andrà avanti nelle aule del
tribunale, ci saranno soltanto accusati ma non
colpevoli né innocenti – dal momento che la
medesima presunzione di innocenza che tutela
l’imputato, lo separa dalla completa assoluzione non
meno che dalla condanna. Per tutti questi motivi
Savinio potrà riconoscere nel processo una sorta di
incunabolo della condizione intrinsecamente
politeistica del sapere, una sorta di vero e proprio
modello conoscitivo in un mondo in cui sembra si
sia avverata la profezia di Nietzsche, tenace
avversario di ogni distinzione metafisica tra verità e
apparenza: «La verità non esiste».
I giudizi acquisiti andranno dunque sovvertiti
non tanto per sorprendere i lettori con uno
spiazzamento in qualche modo meccanico e alla
lunga prevedibile, quanto piuttosto perché ogni
ribaltamento della vulgata contribuisce alla
riapertura di un’inchiesta che è bene non si chiuda
mai, alla ricerca di un equilibrio perfetto tra le due
parti che assicuri l’eternità della contesa e dunque
78
della ricerca. Come ha insegnato Montaigne: «chi
non ha godimento se non nel godimento, chi non
vince che col massimo dei punti, chi non ama la
caccia se non nella presa, non gli si addice unirsi
alla nostra scuola» (Essais, III, 5).
L’eroe di questo percorso sarà allora Galileo
Galilei, non in quanto grande scienziato ma come
nemico di ogni misticismo. È lui il vero padre
spirituale di Savinio: «Lo scienziato è tra i tipi più
puri del mistico. Pronto a sacrificare la propria vita
in difesa della Scientia: della “dea” Scientia.
Mistico non è, solo chi non crede alla Verità Unica:
noi per esempio, che non ci crediamo affatto.
Crediamo invece che le verità sono infinite, che
“una” verità non esiste. Il quale atteggiamento,
dicono i più, è l’atteggiamento negativo,
sfavorevole a qualunque fattività. E l’uomo, ben si
vede quanto daffare si dà per lasciare tracce di sé in
questo mondo, cioè a dire opere. Quanto a noi, cui
operare piace e conviene al più alto grado, stiamo
sperimentando il modo di operare pur senza
l’ausilio di una fede cieca nell’Unica Verità – senza
misticismi di sorta. E il nostro esperimento,
abbiamo ragione di credere, non è fallito al tutto.
[...] Galilei è italiano, è toscano. Scienziato, egli
adora sì la Verità, ma non mai con quel furore
sacro, con quella dedizione greca dei suoi colleghi
di lassù, gli abitatori delle zone artiche. Pagano in
79
religione, l’italiano porta il suo salutare paganesimo
pur nella religione della scienza».
Che Savinio a conti fatti, raccontando con le
parole e con le immagini questi dieci processi,
intendesse parlare soprattutto di sé, avremmo potuto
anche intuirlo dai soggetti scelti, che ci restituiscono
un po’ la mappa dei suoi spostamenti per il
continente europeo, dalla Grecia (con Socrate, Frine,
Paride e Anassimandro) alla Francia (con Giovanna
d’Arco, Luigi XVI e Landra) all’Italia (con
Campanella e Galilei, ai quali va aggiunto anche il
Nazzareno, dal momento che «l’essenza vera del
cristianesimo, l’essenza più polita, più netta, più alta,
alligna, a mio parere, più che nella Palestina, nella
terra cattolica, apostolica, romana: l’Italia»).
Impossibile stupirsi d’altronde. I moralisti francesi
del Seicento come La Bruyère lo avevano intuito con
grande anticipo: i viaggi, mettendo in contatto con
usi e costumi diversi da quelli consueti, conducono
all’incredulità religiosa. Uccidono appunto quello
che Savinio definisce il «misticismo» («Alcuni
finiscono di corrompersi per effetto dei lunghi viaggi
e perdono così quel poco di religione che rimaneva
loro. Da un giorno all’altro vedono un nuovo culto,
costumi diversi, cerimonie diverse; assomigliano a
quanti entrano nei negozi, incerti sulla scelta delle
stoffe che vogliono acquistare; il gran numero di
quelle che vengono loro presentate accresce
80
l’indifferenza; ciascuna di esse ha una sua attrattiva e
una sua convenienza: non riescono a risolversi,
escono senza aver comprato nulla», Les Caractères:
Des ésprits forts, 4).
Sicuramente il nomade Savinio è imbevuto di
politeismo, ma non è facile rispondere alla domanda
se il relativismo gli sia stato inoculato dagli
spostamenti continui o se invece abbia viaggiato
tanto nel corso della sua vita mosso dal desiderio di
conoscere nuove divinità. La volontaria messa in
questione di tutte le certezze giunge infatti ad
insinuarsi all’interno delle parole stesse. Che
cos’altro è il suo giocare con le etimologie dei
vocaboli, se non appunto un modo per instaurare un
conflitto tra il significato originario (e spesso
letterale) e quello invalso nell’uso? Da qui alla
freddura – alla freddura metafisica, per cui Savinio
non esita a evocare il nome di Nietzsche, ma
avrebbe potuto ricordare anche il riso raggelante di
Leopardi – il passo è davvero breve, e Tommaso
Campanella sarà rappresentato in forma di piccola
campana mentre annuncia la propria filosofia. Il
procedimento opposto ma complementare a questa
strategia dissociativa è la definizione con cui si
concludono buona parte di questi Dieci processi.
Socrate come Arrivista, Giovanna d’Arco come
Vergine, Frine come lògos spermatikòs o sex
appeal, Galileo come Italiano, Campanella come
81
nuovo Anteo, Anassagora come Mente (Nous),
Landra come Petrarchista integrale... Definizioni
basate tutte su di un impiego metaforico del
linguaggio del tutto affine a quello che guidava le
sue etimologie, e che oggi può far pensare persino
ad una parodia della critica crociana del genitivo di
specificazione (Ariosto «poeta dell’armonia»,
Carducci «poeta della storia», D’Annunzio
«dilettante di sensazioni»...). Definizioni duplici e
non univoche, giocate sulla coesistenza di un senso
letterale e di un senso spirituale in conflitto tra loro.
Politeiste e dunque, senza ombra di dubbio (almeno
nell’ottica di Savinio), vere.
GABRIELE PEDULLÀ
82
Indice
Dieci processi 7
Socrate 11
Giovanna d’Arco 17
Tomaso Campanella 23
N.S.G.C. 31
Frine 37
Giudizio di Paride 43
Galileo Galilei 49
Anassagora 55
Luigi XVI 61
Landru 67
Processo alla Verità di Gabriele Pedullà 73
Questo volume è stato stampato
Su carta Grifo vergata
delle Cartiere Miliani di Fabriano
nel mese di gennaio 2003