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A casa di Polemarco, Socrate comincia a conversare con l'anziano Cefalo, che ha appena finito di
celebrare un sacrificio. Cefalo dice di apprezzare molto la compagnia di Socrate perché «quanto più i
piaceri del corpo appassiscono, tanto più aumentano il desiderio [epithymia] e il piacere
dei discorsi» (328d). Interrogato da Socrate, Cefalo aggiunge che la vecchiaia non gli pesa perché,
liberandolo dai desideri, lo libera dalla schiavitù di «molti e pazzi padroni» (329d).
Cefalo, come Polemarco, è un homo oeconomicus, condannato a vivere nel regno della necessità e delle
pulsioni. Ma perfino lui sperimenta l'interesse per i "discorsi" come una liberazione, di cui, tuttavia, non
è autore egli stesso, bensì il corso della natura. La vecchiaia, con il suo tempo libero, offre una forma di
libertà negativa nel suo senso più puro: il padrone ha mollato la presa e ha lasciato un vuoto da
riempire.
Socrate prende spunto dalla narrazione di Cefalo per chiedere se la dikaiosyne, cioè la giustizia come
virtù personale, si possa delimitare o definire correttamente identificandola con il dire la verità e il
restituire le cose ricevute: sarebbe giusto, per esempio, restituire un coltello a un amico impazzito ed
essere completamente sinceri con lui (331c)? Cefalo, in difficoltà, lascia la discussione per proseguire
con i suoi sacrifici. Nel suo mondo, che è quello della cultura tradizionale, le regole non sono frutto di
autodeterminazione, ma necessità cieche, nei cui confronti si deve agire nel modo più conveniente dal
punto di vista individuale, senza preoccuparsi d'altro.
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