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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in

Filosofia

TITOLO DELLA TESI

La dignità del reo


Dalla disposizione teorica del principio morale-giuridico alla concretezza del suo
diniego

Tesi di laurea in

Bioetica

Relatore Prof: Marina Lalatta Costerbosa

Presentata da: Caterina Rossi

Appello
primo

Anno accademico
2017-2018

1
2
Il carattere sacro dell’essere umano apparirà con
maggior chiarezza quando ci accosteremo all’essere
umano nella sua nudità e nella sua debolezza, all’essere
umano disarmato, così come lo incontriamo nel bambino,
nell’anziano, nel povero.
Gabriel Marcel

3
4
INDICE

Introduzione p. 5

1. Storia del concetto p. 8


1.1 Premessa p. 8
1.2 La dignità nella filosofia antica p. 8
1.3 La ​dignitas​ romana p. 10
1.4 Cristianesimo e dottrina dell'​imago dei p​ . 12
1.5 La centralità dell'uomo nell'umanesimo rinascimentale p. 14
1.6 Il diritto naturale giusnaturalista p. 16
1.7 La dignità nella filosofia di Kant p. 20

2. Declinazioni teoriche e pratiche ​ p. 24


2.1 Dignità nei contesti settecenteschi di Francia e America p. 24
2.2 Il tramonto della persona p. 27
2.3 La dignità come principio p. 28
2.4 Rispetto della dignità umana nella pratica p. 31

3. La realizzazione della persona p. 37


3.1 Rieducazione e reinserimento sociale p. 37
3.2 Cenni sul pregiudizio p. 41
3.3 La reclusione fuori dal carcere p. 44

Conclusione p. 48

Bibliografia p. 50

5
6
Introduzione

Il presente lavoro nasce dalla convinzione che tutti, a prescindere dalla loro storia, debbano
essere considerati uomini nel senso di esseri con pari dignità. Tuttavia tale idea non viene
sempre rispettata, comportando, in molti casi, un’impossibilità concreta del pieno realizzarsi
della persona umana e ciò manifesta la propria veridicità in particolare nei confronti di colui
che ha commesso un reato.
La trattazione del tema è proposta in ottica multidisciplinare, ricostruendo da un lato lo
sviluppo storico del concetto di dignità a livello filosofico e dall’altro la sua declinazione a
livello giuridico, giungendo a concludersi con una riflessione inerente alla problematica
concreta della sua tutela. Seguendo questo sviluppo, il lavoro è stato suddiviso in tre capitoli.
Nel primo, a motivo della complessità del termine “dignità” e al fine di comprenderne il
significato e le sue diverse interpretazioni, si proporrà una ricostruzione del concetto in chiave
storica, declinandone lo sviluppo dalle origini a Kant.
Nel secondo capitolo il tema della dignità umana, precedentemente trattato a livello filosofico,
verrà affrontato, sempre in chiave storicistica, sotto il profilo giuridico. In quest’ambito, si
parlerà dell’importanza rivestita dalle rivoluzioni francese e americana e di come i valori
istituiti dalle due rivoluzioni sarebbero poi stati distrutti dal fascismo e dal nazismo i quali,
per il tramite delle loro ideologie e delle loro pratiche (emblematica è quella dei campi di
concentramento), annullarono di fatto la dignità della persona. Si farà infine riferimento alla
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 che sancisce la rinascita e l’assoluta
intangibilità della dignità della persona, la quale viene ad essere garantita nell’ambito del
Consiglio d’Europa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo.
Muovendo, dunque, dai fondamenti teorico-giuridici della dignità dell’uomo, si proporrà una
rassegna della sua applicazione pratica, con particolare riferimento al rispetto del disposto
dell’articolo 3 della Convenzione in un ambiente di reclusione come la casa circondariale, alla
luce delle statuizioni della sentenza Torreggiani del 2013. Nel terzo capitolo, seguendo il filo
rosso del concetto di dignità, l’analisi si estenderà all’idea ad esso annessa della realizzazione
della persona attraverso il momento lavorativo. Laddove nel secondo capitolo si sarà parlato
della violazione “in concreto” della dignità del detenuto da parte dell’entità statale, nel terzo si
tratterà della violazione della sua dignità come negazione di possibilità nell’ambito della
realtà sociale. In particolare, si illustrerà la condizione all’esterno del luogo fisico di

7
reclusione, affrontando il tema della dignità del reo in relazione alla problematica del suo
reinserimento sociale, alla luce di due studi confermativi della situazione di limitazione dello
stesso a motivo anche della stigmatizzazione impostagli dalla società.

8
1. Storia del concetto

1.1​ Premessa
La dignità umana è di per sé un concetto controverso, da sempre discusso ed in continua
evoluzione. A motivo della sua complessità, che deriva non tanto dalla scarsità di
interpretazioni quanto dalla loro abbondanza, è estremamente difficoltoso fornirne una
definizione esaustiva e che sia in grado di includerle tutte. La problematicità della
comprensione di tale concetto risiede, inoltre, nell’​inattuabilità di un’analisi sufficientemente
comprensiva e completa, a causa delle interconnessioni con ulteriori nozioni estremamente
ampie e complesse, quali quelle di libertà, di autodeterminazione o di uguaglianza. Al fine di
raggiungere una maggior chiarezza, quindi, si procederà cercando di ricostruire la storia del
significato di tale concetto, prendendo in considerazione principalmente l’idea occidentale di
dignità umana, dall’antichità classica fino alla modernità, menzionando gli insigni pensatori
delle rispettive epoche. Inevitabilmente, non sarà possibile prendere in esame il pensiero dei
singoli filosofi per intero, fornendone dunque un profilo completo, ma si metterà in luce il
tema della trattazione e gli elementi ad esso annessi.
Generalmente, la dignità è suddivisa in due categorie distinte: quella di dotazione e quella di

prestazione. La prima indica una tipologia di dignità egualmente conferita a tutti gli uomini da

parte di un Dio o dalla natura; viceversa, nella seconda si fa riferimento a quella determinata

dall’agire umano1.

1.2​ La dignità nella filosofia antica


Ad un primo sguardo, sin dal IV secolo a.C., nella Grecia classica sembra prevalere una
2
concezione elitaria della dignità , che potrebbe essere ricondotta alla categoria di prestazione.
La dignità di tale specie si fonda sullo stato sociale del singolo e sul riconoscimento da parte
della comunità nella quale, e soprattutto per la quale, egli esercita il suo ruolo. Alla luce di
ciò, la suddetta non sarebbe, quindi, innata, bensì propria dell’uomo dacché entra in contatto
3
con la società compiendo azioni di valore per gli altri . Esempio emblematico di dignità
umana del periodo classico non può che vivere nella voce cantante più importante: quella di
Omero, che conferisce ad Ettore le caratteristiche dell’uomo virtuoso, che non si arrende

1
U.Vincenti,​ Diritti e Dignità umana,​ Bari, Laterza, 2009, p. VI​.
2
​K. Bayertz,​ Sanctity of Life and Human Dignity,​ Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, 1996, pp. 73-90​.
3
​U. Vincenti,​ Diritti e Dignità umana​, p. 7.
9
ricercando l’onore4.
A riprendere, perlomeno in parte, siffatta concezione elitaria è Aristotele, per il quale la
dignità è caratteristica di tutti gli uomini, sebbene in gradi diversi conformemente alle loro
azioni. Se nell’​Etica Nicomachea ne espone la teoria, è nell’​Etica Eudemea che ne propone
un perfezionamento, specificando e ribadendo come le differenze tra gli uomini non siano il
frutto della loro distinta qualità, quanto delle loro azioni.
E’ ragionevole comparare tale specifica accezione di dignità ad una scala gerarchica «ai cui
vertici si collocano gli uomini degni, nel senso capaci di cose grandi»5, e nella quale, inoltre,
vi è la possibilità di ascendere o discendere, migliorandosi o declassandosi, non solo per
mezzo del compimento di azioni, ma persino tramite la consapevolezza che se ne ha6. Alla
luce di quanto affermato non stupisce, quindi, che Aristotele nella ​Politica stabilisca come,
sin dalla nascita, taluni uomini siano diversi da altri, motivo che adduce anche per giustificare
la schiavitù7.
Nonostante la preminenza dell'idea della dignità intesa come dinamica, ovverosia come
soggetta a variazioni, è opportuno tenere in considerazione il fatto che già in questo periodo
ha inizio il delinearsi di un pensiero controcorrente che concentra la sua attenzione sulla
figura dell’uomo, dando vita ad una sorta di antropocentrismo. Più precisamente, si sta
facendo riferimento alla corrente filosofica dello Stoicismo, che vede come suo iniziatore
Zenone di Cizio (III sec. a.C.). I contenuti della filosofia della Stoà, in parte ripresi dalla
filosofia naturale ionica, si fondano, tra gli altri, su due principi cardine che rinvengono
nell’uguaglianza di tutti gli uomini dalla nascita e nella loro appartenenza ad uno stesso
8
universo, due necessari presupposti di partenza nella costruzione di pensieri . Un accento
particolare è posto dalla filosofia stoica sull'universo che, fondato sull’essenza razionale della
9
natura umana, estende il concetto di ​nomos​ a legge cosmica .
Nella sua formulazione, quindi, la Stoà teorizza un’uguaglianza che sussiste fin dalla nascita

4
Ivi, p. 10. Vincenti per chiarificare questo concetto riprende Aristotele nell'​Etica Nicomachea​:
«Il magnanimo (come ogni uomo portatore di virtù) è divenuto tale per effetto dell'assunzione di una
corrispondente abitudine di vita; non fugge atterrito e non commette ingiustizie; quando è grande il pericolo,
non teme la morte; cerca di eccedere nel bene perché ciò porta onore» cit. 4.3.1123b- 1124 b.
5
​Ivi, p. 11.
6
Aristotele,​ Etica Eudemia​, trad. Armando Plebe, Bari, Biblioteca Universale Laterza, 1988, III, 5, 1232 b-1233
a, pp. 141-144.
7
Aristotele, Politica​, in Opere,vol. IX, tr. it. R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 1973, 1254a 8-1255a 2; 1255a
5-12; 1255 b 5-15, pp. 9-14.
8
​E. Bloch, ​Diritto naturale e Dignità umana​, Torino, Giappichelli, 2005, p. 12.
9
Ivi, p. 1​.
10
di tutti i cittadini e pone a suo fondamento la natura razionale umana.
Se, da una parte, Aristotele propone una gerarchia organizzativa e strutturale, anche e
soprattutto all’interno dell’organizzazione della polis, dall'altra, l’etica ellenistica si dirige
verso l'universalizzazione teorica, dando l'avvio all'affermarsi dell'idea per cui sono assenti i
concetti di esclusione e limitazione quando si tratta di virtù e valori. Basti a questo proposito
pensare allo stesso Zenone di Cizio e al suo allievo Epitteto, il primo di provenienza semitica
10
e l’altro schiavo liberato . Nonostante tale tendenza universalizzante dell’individuo morale,
non sarebbe tuttavia ancora appropriato pensare che i “limiti gerarchici” siano stati
11
completamente infranti .
La tradizione filosofica greca ha complessivamente guardato all’uomo in maniera benevola,

collocandolo in un universo che ha alla sua base il logos, dando vita così ad un'etica

immanente che deriva da una metafisica razionalistica: l’uomo ha in sé una base razionale,

che lo eleva al di sopra di tutti gli altri animali e che determina la fratellanza e uguaglianza,
12
senza però che sia garantita un'altrettanto pari dignità tra gli uomini .

1.3​ La ​Dignitas​ romana


E’ solamente a Roma che appare per la prima volta la parola “​dignitas​”, presente più che in
13
testi giuridici, in quelli letterari . Il termine in un primo momento, afferisce all’affidabilità,
all’integrità o al merito. Nel periodo repubblicano, ad esempio, la ​dignitas veniva utilizzata in
14
riferimento a personaggi di rilievo come senatori o magistrati romani . In questo senso è
significativo che per mezzo di suddetta parola non si indicassero altri se non coloro
appartenenti ad alti ranghi, da cui si può dedurre, pertanto, come ancora sia assente nel
contesto della Roma imperiale una condizione di dignità che possa prescindere dallo stato
sociale.
Nel ​De inventione la ​dignitas assume il significato, attribuitogli da Cicerone, di «riconosciuta

10
​M.Vegetti, ​L’etica degli antichi​, Bari, Laterza, 2010, p. 8.
11
Ivi, p. 8.
12
​H. Baker, ​The Image of a man- a study of the idea of human dignity in Classical Antiquity,​ ​ The Middle Ages
and the Renaissance​, New York, Harper, 1961, p. 109.
13
​C. R. Miguel, ​Human Dignity: History of an Idea​, in « Jahrbuch des offentlichen Rechts», 50, 2002, p. 283.
14
​Ivi, p. 283.
11
15
autorità di una persona, una qualità a sua volta meritevole di ossequio, onore, rispetto» . Tale
definizione comporta il figurarsi la dignità come un qualcosa di visibile, che si scorge nella
qualità della persona e colloca in primo piano non tanto valori antropologici, ma marca
piuttosto quelli sociali e politici, come il prestigio o il merito16.
Risulta evidente come a Roma la dignità sia una nozione permeata da un connotato

prevalentemente socio-politico di cui Cicerone stesso si fa promotore; ciò, tuttavia, non ha

precluso la possibilità di conferirle un connotato anche morale17.

L'oratore latino impiega il termine ​dignitas per far riferimento al genere umano nel suo
18
complesso unicamente nel ​De Officiis . Il conferire alla dignità il carattere di valore comune

a tutta l’umanità significa attribuire all’uomo, come essere dotato di ragione ed il cui sforzo

razionale è proprio l’elemento che ne determina la sua superiorità rispetto a tutti gli altri

animali, una posizione speciale nel cosmo19. Tuttavia, la primazia della specie non fonda

l’intangibilità della dignità della singola persona: la ​dignitas rimane soggetta a corruzione o

accrescimento, permane una dignità-merito e, se è possibile scorgere una qualche forma di

universalizzazione, essa si poggia ancora sul riconoscimento sociale.

Affinché la dignità venga riconosciuta come qualità intrinseca alla persona a prescindere da

qualsiasi altro aspetto, rispecchiando in questo senso la concezione moderna di egualitarismo,

sarà necessario attendere ulteriori sviluppi nella costruzione dell'idea di valore del singolo nei

rapporti orizzontali tra gli uomini, e del valore incomparabile di ciascuno20.

Seneca, accanto agli stoici, provvede, nelle ​Epistulae morales o​ ​Epistulae ad Lucilium e​ più

specificamente nella sezione in cui tratta degli schiavi, alla divulgazione della ​dignitas

15
​Cic. Inv. 2.166,
http://www.documenta-catholica.eu/d_Cicero,%20Marcus%20Tullius%20-%20De%20inventione%20-%20LT.p
df.
16
​H. Cancik,​‘Dignity of Man’ and ‘Persona’ in Stoic Anthropology: Some Remarks on Cicero, De officiis I,
105-107,​ in D.Kretzmer e E. Klein, ​The concept of human dignity in Human right discourse,​ The
Hague-London-New York, Kluwer Law International, 2002, X, p. 23.
17
C. R. Miguel, ​Human Dignity: History of an Idea,​ p. 284.
18
​H. Cancik,​ ‘Dignity of Man’ and ‘Persona’ in Stoic Anthropology: Some Remarks on Cicero, De officiis I,
105-107,​ p. 24.
19
​Ivi, p. 25.
20
​J.Habermas, ​Dignità dell’uomo e diritti dell’uomo,​ in ​Questa Europa è in crisi​, Bari, Editori Laterza, 2012, p.
20. Per quanto riguarda i passaggi sopra citati l’autore sostiene che: «Per la generalizzazione collettiva doveva in
primo luogo aggiungersi l’individualizzazione [...] In secondo luogo, al posto della superiore valenza relativa
all’umanità e dei suoi singoli membri doveva subentrare il valore assoluto della persona», p. 20.
12
ribadendo come, dal momento in cui è sufficiente una condotta retta affinché si abbia dignità,

tutti gli uomini ne siano dotati. Viceversa, nel momento in cui essi ne sono privi, è necessario
21
creare le condizioni tali favorevoli alla sua acquisizione .

Una decisiva evoluzione dal punto di vista semantico prende le mosse dalla critica radicale

alle ​dignitates​, termine con cui Boezio fa riferimento, nella maggioranza dei casi, alle cariche
22
civili o militari prettamente romane . In esse il filosofo non percepisce null’altro fuorché
23
un’esternazione sfrenata del potere che avrebbe portato gli uomini ad esserne indegni .

Boezio, allora, dopo aver criticato aspramente le ​dignitates,​ tentando di riformulare e ridare

un valore esemplare alla ​dignitas nel ​De Consolatione Philosophiae conclude con l'affiancarla
24
al senso classico di virtù ​.

Nel trarre delle conclusioni che tengono in considerazione queste prime fasi storiche, emerge

l'idea per cui la dignità riveste due distinte connotazioni: da una parte quella socio-politica che
25
si riferisce al merito e all’onore, dall’altra quella prettamente morale .

1.4​ Cristianesimo e dottrina dell’​Imago Dei


La comparsa e l'affermarsi della religione cristiana pongono in essere un deciso ripensamento
della concezione classicista di ​dignitas.​ Il cristianesimo, difatti, promuove l'idea per cui gli
26
individui, alla luce della loro comune ​humanitas​, sono uguali tra loro , e il fondamento del
modello che invoca il principio di universalizzazione della dignità risiede nel passo della
27
Genesi:​ «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» . Tale asserzione è rinvenibile
nella teoria dell'​imago dei, p​ er la quale la dignità umana, almeno in un primo momento, è
28
considerata come riflesso della dignità divina . Ancor più dettagliatamente, ciò deriva dal
fatto che nella tradizione biblica la dignità dell’uomo non è un qualcosa di innato, ma un dono
concesso da Dio al momento della creazione. A quanto detto si affianca inoltre l'idea del

21
​Seneca, ​Lettere a Lucilio,​ a cura di P. Sanasi, Milano, Edizione Acrobat,
http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/TestiDiFilosofia/TestiPDF/Seneca/LETTERE.PDF, 5.47.15, p. 36.
22
U.Vincenti, ​Diritti e dignità umana,​ p. 18.
23
​Ivi, p. 19.
24
​U.Vincenti,​ Diritti e dignità umana​, p. 19​.
25
​C. R. Miguel,​ Human dignity: History of an Idea​, p. 284.
26
​U. Vincenti, ​Diritti e dignità umana​, p. 19.
27
​Genesi,​ https://www.jw.org/it/pubblicazioni/bibbia/bi12/libri/genesi/1/, 1,26.
28
​ ​K. Bayertz, ​Sanctity of life and Human dignity​, p. 74.
13
rispetto per l'altro, dacché anche l’uomo, a prescindere dal proprio stato sociale o dalle proprie
29
capacità, possiede un poco di quella divinità aggiunta alla sua umanità .
Nel cristianesimo si realizza la reale svolta nell’idea di dignità, non più vincolata a ruoli o
meriti, né più comparabile ad una scala per cui la si può perdere o conquistare. La dignità
diviene una dote da rispettare: l’uomo ad ora non solo è somigliante a Dio e per questo
ontologicamente degno di rispetto, ma detiene anche l'incarico di custodire quel mondo da
Dio stesso creato.
La teoria dell’​imago dei è chiaramente riscontrabile in vari esponenti, tra cui emblematico è
Agostino d’Ippona, il quale rinviene l’immagine di Dio, o meglio della Trinità, nell’anima
30
razionale dell’uomo e non nel corpo, che invece è proprio a tutti gli esseri ​.
Analogamente ad Agostino, anche Tommaso d'Aquino, esponente della corrente della

Scolastica, assume una particolare rilevanza in questo contesto. Tommaso d'Aquino ribadisce

l'universalizzazione della dignità umana soffermandosi sull’​imago dei, ponendo in rilievo il

momento in cui Dio dona all'uomo il suo attributo più importante, ovverosia l'intelletto.

E’ esattamente tale dote intellettiva a conferire superiorità all'individuo ed essendo questa non
31
accidente, bensì sostanza, non permette il raffronto con una scala gerarchica di perfezione .

Nella ​Somma Teologica,​ dopo aver sancito l'uguaglianza di tutto il genere umano, Tommaso

d’Aquino elabora una specifica sull'origine della primazia della persona che si fonda non sugli

atti, ma piuttosto sulla sola e stessa essenza della sua natura intellettiva, alla luce del fatto che
32
l'immagine di Dio è salda nella mente, contrariamente alla temporaneità delle azioni .

Pertanto, è la caratteristica umana stessa di essere un soggetto di natura intellettiva con una

connaturata attitudine a conoscere e amare Dio, che conferisce all’uomo il titolo di persona,
33
dunque di individuo costituito in dignità :

29
​M. Gibney, R. E. Howard-Hassmann, Jean-Marc Coicaud, N. Steiner, ​The age of apology: facing up to the
past​, Philadelphia, ​University of Pennsylvania Press, 2008,​ p. 99.
30
Sant’Agostino,​ La Trinità​, XII, 7.12, https://www.augustinus.it/italiano/trinita/index2.htm.
31
Tommaso d’Aquino, ​Somma Teologica​,
https://www.edizionistudiodomenicano.it/Docs/Sfogliabili/La_Somma_Teologica_Prima_Parte/files/assets/basic
-html/index.html#362, q. 29 art. 1-2, pp. 358-362.
32
​Ivi, q. 93, art. 7, p. 1056.
33
Ivi, q. 29, art. 3, p. 364.
14
34
«E’ una grande dignità sussistere come soggetto di natura razionale» .

La corrente teologico-filosofica cristiana manifesta, dunque, l’idea di ​dignitas quale proprietà

innata all’uomo e a ciò conseguentemente segue che, proprio per il fatto di essere elemento in

senso biologico, riconosciuta quindi senza limitazioni, la dignità risulta non più principio

discriminatorio tra gli uomini, bensì ne diviene fondamento di uguaglianza. Quanto affermato,
35
tuttavia, non comporta la mancanza di impegno nel meritare tale dignità .

1.5​ La centralità dell’uomo nell’umanesimo rinascimentale


Con l'affermarsi del pensiero rinascimentale irrompe una visione focalizzata maggiormente

sull'uomo e sulle sue problematicità, senza, d'altra parte, essere meno religiosa del periodo
36
medioevale .

Indubbiamente, sebbene il momento storico si presenti estremamente vario, con il recupero di

aspetti della grecità che si affiancano a elementi cristiani, l'attenzione posta sull'uomo e sulla
37
sua dignità diviene più radicale e sistematica : nel corso del rinascimento si ha una continua e

sempre più profonda scoperta del soggetto, della sua potenza e del suo dinamismo.

Uno tra gli esponenti principali dell’epoca, di cui troviamo una trattazione del concetto di

dignità nella ​Orazione​, è Pico della Mirandola. Nella prima parte dell’opera, che verrà

successivamente intitolata ​Discorso sulla dignità dell’uomo,​ l’autore si domanda in cosa

consista realmente l’essenza dell’uomo, arrivando a definirla come un qualcosa dai confini

labili, flessibili e che può essere determinata esclusivamente a seconda della volontà

dell'uomo stesso.

«L’uomo ha in sé tutte le possibilità. Il suo compito è superare le forme più basse di vita e
38
elevarsi verso Dio» .

34
Ivi, q. 29, art. 3, p. 364.
35
H. Höffe, ​Il principio di dignità,​ «Iride», Agosto 2001, fascicolo 2, p. 244.
36
P. O. Kristeller, ​Concetti rinascimentali dell’uomo ed altri saggi​, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 4.
37
Ivi, p. 9.
38
Ivi, p. 16​.
15
Da ciò è possibile avvedere l'importanza che inizia ad assumere il concetto di

autodeterminazione, che si incentra sulle possibilità e libertà di scelta dell'uomo, libertà di

scelta che, allo stesso tempo, non implica che qualsiasi azione sia giusta, al contrario, la

massima realizzazione della dignità si avrà proprio nel momento in cui si compiranno le scelte
39
più alte possibili in campo morale e intellettuale . Tale autodeterminazione potrebbe

potenzialmente comportare una superiorità dell’uomo non solo nei confronti degli altri
40
animali, che devono sottostare a specifiche leggi divine , ma anche nei confronti degli angeli
41
che, a differenza degli uomini, non hanno altra possibilità di scelta al di fuori del bene . La

dignità umana così intesa, contrariamente a quella esposta dalla corrente religiosa cristiana,

non è l’essenza dell’uomo conferitagli al momento della creazione, ma è una dote di cui
42
l'individuo si deve appropriare riuscendo, per mezzo di azioni, a decidere il proprio essere e
43
dunque la propria storia, come illustrato nell’​Heptaplus . E’ per l'appunto questa flessibilità a

rendere l'uomo il più fortunato tra gli esseri. Si potrebbe intendere la concezione di Pico della

Mirandola come una sorta di connubio tra la teoria della dotazione e quella della prestazione

poiché, da una parte, fonda la dignità umana come possibilità offerta nel momento della
44
creazione e, dall'altra, la stessa deve esser conquistata .

Tra il XVII e il XVIII secolo si afferma nel contesto filosofico europeo un esponente rilevante

alla stregua di Pico della Mirandola: Blaise Pascal. Nei ​Pensieri l’autore colloca la figura

dell’uomo al centro delle sue riflessioni, lo stesso uomo che si trova in una condizione di
45
«nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla» .

L’uomo, nella sua posizione di medietà e nel suo essere precario, si perde in distrazioni che lo

distolgono dal suo dovere e dalla sua stessa natura da cui deriva la sua dignità, più

precisamente:

39
Ivi, p. 18.
40
C. R. Miguel,​ Human Dignity: History of an Idea,​ p. 289.
41
Ivi, p. 289.
42
P. O. Kristeller, ​Concetti rinascimentali dell’uomo ed altri saggi​, p. 26.
43
E. Ripepe,​ Sulla dignità umana e su alcune altre cose​, Torino, Giappichelli, 2014, p. 18.
44
F. Viola,​ I volti della dignità,​ in ​Colloqui sulla dignità umana ​a cura di A. Argiroffi, P. Becchi e D.Anselmo,
in ​Atti del convegno internazionale​ (Palermo, Ottobre 2007), Roma, Aracne, 2008, p. 106.
45
B. Pascal,​ Pensieri,​ a cura di P. Serini, Torino, Einaudi, 1966, p. 99.
16
«Tutta la nostra dignità sta, dunque nel pensiero. In esso dobbiamo cercare la ragione per
elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non potremmo riempire. Lavoriamo,
46
quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale» .

Sebbene l’uomo viva in una condizione miserevole, il pensiero gli permette di averne
47
consapevolezza a differenza degli altri animali , e grazie ad esso sa che tale miseria non è
48
innata, ma è «miseria di re spodestato​» .

Se negli ultimi autori presi in esame è riscontrabile un avvicinamento al processo di

laicizzazione del concetto di dignità, Pascal ne rappresenta l’interruzione: la religione

cristiana infatti aiuta l’uomo nella comprensione della sua natura, delle motivazioni della sua
49
finitezza e della sua propensione a Dio .

1.6​ Il diritto naturale giusnaturalista


Avverso alla teoria della dotazione per cui la dignità umana si fonda su un valore ontologico

assoluto è Hobbes, autore fondamentale del giusnaturalismo del XVII secolo che, sostenendo

la teoria della prestazione, considera la dignità come valore acquisito sulla base di azioni e

comportamenti umani. Nel ​Leviatano,​ Hobbes descrive innanzitutto lo stato di natura come un

terreno di perenne lotta tra uomini che solo in un secondo momento si sono uniti, conferendo
50
il potere ad un sovrano in cambio della difesa della propria vita e per un interesse di pace ,
51
dando vita, conseguentemente, al Leviatano, o per meglio dire allo Stato . Nonostante

l’aggressività, o probabilmente proprio per l’aggressività, tale Stato risulta necessario, da un

lato, per reprimere gli istinti feroci propri dell'uomo e, dall'altro, per proteggerlo. Riferendosi

all’uomo nello stato di natura, una tra le poche cose che lo accomuna agli altri suoi simili

sono le passioni, ma non gli oggetti di queste, che sono invece peculiari del carattere del

46
Ivi, p. 162.
47
Ivi, p. 161: «Conoscere di essere miserabile è, quindi, un segno di miseria, ma in pari tempo, un segno di
grandezza».
48
Ivi, p. 16: Pascal crede che la condizione di re spodestato è propria dell’uomo dopo la sua caduta dal paradiso,
sancita dal peccato originario.
49
Ivi, XIX.
50
T. Hobbes,​ Il Leviatano,​ a cura di R. Giammanco, Torino, Utet, 1955, Vol. I, Prefazione pp. 5-6.
51
​Ivi, p. 40.
17
52
singolo individuo . Nel capitolo VIII, inoltre, si asserisce la diversità tra gli uomini e a tal

proposito Hobbes sostiene che: «se tutte le qualità fossero uguali in tutti gli uomini, nulla
53
potrebbe essere stimato secondo il suo valore» . A partire da questo estratto si intuisce,

sebbene ancora non chiaramente, il sostegno alla teoria della prestazione, ma ancor più

nitidamente lo si estrinseca dalla definizione di valore dell'uomo o tramite quella che Hobbes

dà di dignità. Il valore o pregio dell’uomo, analogamente ad altre cose, risiede nel suo prezzo,

cioè in quello che si pagherebbe per comprare l’utilizzo del suo potere, ragion per cui non

sussiste oggettività, bensì il valore è strettamente dipendente dall’opinione altrui, «e come

nelle altre cose, così anche riguardo gli uomini, non è colui che vende, ma il compratore
54
quello che fa il prezzo» .

Giungendo invece al punto di interesse principale di questa trattazione, Hobbes delinea la


dignità come

«Il valore pubblico di un uomo, che è quello conferitogli dallo stato [...]. E questo suo
valore, a lui concesso dallo stato, si manifesta attraverso le cariche del comando del foro,
dei pubblici impieghi oppure mediante gli appellativi ed i titoli introdotti per definire tale
55
valore» .

E’evidente che per Hobbes il vero valore dell’uomo è dato dalla considerazione che se ne ha

all’interno della società sulla base della sua condotta, ed è dunque un giudizio fondato su una

considerazione esterna.

In parte distante da Hobbes, è Samuel von Pufendorf, anch'esso esponente giusnaturalista che,

procedendo ad una sempre più importante secolarizzazione del concetto, si può considerare il

precursore principale della filosofia kantiana. Nel suo lavoro principale ​De officio hominis et

civis juxta legem naturalem​, Pufendorf opera una netta distinzione tra ciò che è il diritto

naturale e la teologia morale. Le differenze che intercorrono tra queste due discipline sono

varie, ma tra le più importanti ve ne è una che determina la distinzione alla base della

52
Ivi, p. 42.
53
Ivi, p. 101.
54
Ivi, p. 119​.
55
​Ivi, p. 120.
18
separazione, ed è data dalla fonte da cui derivano i rispettivi dogmi: per quanto riguarda il

diritto naturale vi è la ragione, mentre per la teologia morale, la rivelazione nelle sacre
56
scritture .

Inoltre, la teologia, inoltrandosi al di là della ragione, che da sola non potrebbe scoprire i

processi della rivelazione divina, considera la legge come proporzionata in quanto è congiunta
57
a una promessa divina . Un’altra fondamentale differenza è il contesto d’azione e il suo

oggetto: per il diritto naturale, che riguarda esclusivamente le azioni esterne dell’uomo, è la

persona in qualità di cittadino in una società composta da più persone. Viceversa, la teologia

morale si occupa del cristiano, di cui definisce il comportamento durante la sua esistenza

terrena, ma soprattutto si pone come obiettivo la speranza del Paradiso dopo la morte: la vita

terrena è considerata esclusivamente come soggiorno temporaneo, in cui è necessario


58
occuparsi di regole interiori, oltre che esteriori ​.

A seguito di tali distinzioni, l'autore propone la definizione dell’uomo quale cittadino,

evidenziando, da una parte, l’uguaglianza tra gli uomini e, dall’altra, la differenza che

intercorre tra questi e l’animale. Per ciò che concerne quest'ultima, Pufendorf sostiene che

l’uomo non solo è l’animale più devoto alla propria preservazione, ma quello in cui si è
59
sviluppata una particolare stima di sé . Allo stesso tempo, l'uguaglianza tra gli uomini risiede

sicuramente nella loro somigliante forza fisica, per esempio, ma soprattutto nel fatto che,

sebbene un individuo sia stato dotato dalla natura di diversi doni della mente o del corpo, non

viene mai a mancare il rispetto dell'altro. Tale affermazione prende le mosse dal precetto per

cui l'individuo presume di avere lo stesso trattamento che egli riserva al suo simile, dunque di
60
rispetto reciproco .

Dalla riflessione sulla pari condizione degli uomini derivano necessariamente dei corollari di

cui sono conseguenze dirette il non dover trattare l’altro come inferiore o il dover arrecare

56
S. Pufendorf, ​De officio hominis et civis juxta legem naturalem libri duo​, trad. it. di Frank Gardner Moore,
New York, Oxford University Press, 1927, p. VII.
57
Ivi, p. VII.
58
Ivi, p. VIII.
59
Ivi, p. 42.
60
Ivi, p. 42.
19
61
vantaggio agli altri , diventando il rispetto e l’uguaglianza tra gli uomini due presupposti

necessari per il funzionamento della società. In sostanza, la dignità è pensata anche come

categoria giuridica da cui derivano le massime appena citate. Pufendorf ritiene che la

realizzazione di questa società sia possibile grazie alla superiorità dell’uomo rispetto agli altri

animali, che deriva dalla sua capacità di poter rispettare le leggi che esso stesso formula62,

senza le quali non sarebbero presenti, per esempio, né bontà né decoro63 .

Nel XVIII secolo è David Hume ad attaccare la tradizione della filosofia trascendentale

ponendo le basi per la fondazione dell’empirismo e dell’utilitarismo. Di ciò si trova riscontro


64
nel concetto di dignità esposto nel saggio ​Della dignità o bassezza della natura umana , in

cui vengono rigettate le concezioni metafisiche. Nel saggio XI Hume illustra come

l’interpretazione dell’essenza e sostanza della dignità della natura umana abbia diviso filosofi,
65
poeti e teologi nel corso della storia del pensiero . La definizione della dignità umana

proverrebbe dal continuo confronto tra l’uomo e gli animali oppure tra gli uomini stessi. Tali

visioni hanno portato, da un lato, a un’idea sprezzante di uomo da cui necessariamente deriva

una bassa opinione della sua natura e, dall’altro invece hanno condotto al pensarne in chiave

ottimista, positiva. E’ proprio quest’ultima concezione ad essere per Hume più vantaggiosa

perché:

«quando un uomo è ossessionato da un alto posto e dal carattere che occupa nel creato,
egli naturalmente si sforzerà di agire conformemente ad esso e si degnerà di compiere
un’azione bassa o viziosa, la quale può farlo scendere al di sotto di quella figura che dalla
66
natura umana egli si è fatto nella sua immaginazione» .

La questione diviene anche, in un qual modo, di convenienza: è preferibile che l’uomo abbia

un’alta visione di sé e della dignità della sua specie affinché questo, conseguentemente, lo

61
​Ivi, p. 43.
62
S. Pufendorf, ​De jure naturae et gentium libri octo,​ Boston Public Library BRL,
https://archive.org/details/samuelispufendor1672pufe, II, I, IV, pp. 134-136.
63
Ivi, II, I, V, p. 136.
64
​C. R. Miguel,​ Human Dignity: History of an Idea​, p. 292.
65
D. Hume,​ Saggi e trattati morali, politici e letterari,​ a cura di M. Dal Pra e E. Ronchetti, Torino, Utet, 1974, p.
265.
66
Ivi, p. 266​.
20
possa indurre ad agire nel miglior modo possibile, mentre l’inverso può accadere quando

l’uomo avrà una bassa idea di sé. Quanto affermato può portare alla conclusione per cui

l’uomo è degno non per nascita, bensì è nel corso della sua vita che egli diviene meritevole di
67
dignità .

1.7 ​La dignità nella filosofia di Kant


In epoca illuminista hanno luogo trasformazioni fondamentali che porteranno al delinearsi di
una nuova concezione di dignità, la stessa con cui tuttora ci si confronta. Determinante a tal
proposito è Immanuel Kant, per l’impostazione laica e limpidamente universalistica che
conferisce al suo discorso morale. ll filosofo di Köningsberg è riuscito a conferire «​ un
68
fondamento razionale a un principio della morale: la dignità della persona umana» , con la
cui definizione si giunge all’espressione più alta della dottrina giuridico-politica
69
dell’illuminismo .
Kant non solo è fautore del passaggio dalla dignità come categoria etica alla dignità come
70
categoria anche giuridica , ​ma definisce persino la dignità come attributo innato e
71
inalienabile dell’uomo per la sua stessa natura (homo noumenon) di essere dotato di ragione
e in grado di scegliere di comportarsi moralmente. E’ proprio nell’uomo, considerato come
72
persona , che risiede la sua dignità:

«L’uomo dotato di ragione è elevato al di sopra di ogni prezzo perché come tale, egli
dev’essere guardato non come un mezzo per raggiungere i fini degli altri e nemmeno i
suoi propri, ma come un fine in sé; cioè egli possiede una dignità (un valore interiore
assoluto), per mezzo della quale costringe al rispetto di se stesso tutte le altre creature
ragionevoli del mondo, ed è questa dignità che gli permette di misurarsi con ognuna di
73
loro e di stimarsi loro uguale» .

67
C. R. Miguel,​ Human Dignity: history of an Idea​, p. 293.
68
M. A. Cattaneo, ​Dignità umana e pace perpetua: Kant e la critica della politica,​ Padova, CEDAM, 2002, p.
16.
69
​Ivi, p. 19.
70
U. Vincenti,​ Diritti e dignità umana​, p. 28.
71
I. Kant,​ La Metafisica dei costumi​, a cura di G.Vidari, Roma, Laterza, 1991, p. 275.
72
M. A. Cattaneo in​ Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, M ​ ilano, A.Giuffrè, 1981, p.6: «Gli esseri la
cui esistenza poggia non sulla nostra volontà ma sulla natura, in quanto sono privi di ragione, hanno un valore
solo relativo, come mezzi, e si chiamano perciò cose;mentre gli esseri razionali si chiamano persona perché la
loro natura le caratterizza come fini in se stessi. sono fini oggettivi in quanto la loro esistenza è un fine in se
stesso cioè un fine tale, al cui posto non ne può venire collocato nessun altro, al quale essi dovrebbero servire
come meri mezzi».
73
I. Kant, ​La metafisica dei costumi,​ p. 294.
21
74
Affinché l’uomo si possa considerare come fine in sé è necessario che la volontà dell’essere
75
razionale sia legislatrice, ovverosia che l’uomo, all’interno del regno dei fini , sia insieme
legislatore e rispettoso dell’altro, reputandolo mai semplicemente come mezzo ma anche, al
76
tempo stesso, come fine . La condizione necessaria per cui è possibile che l’uomo sia fine in
77 78
sé è garantita dalla moralità , giacché solo in essa si è membri legislatori del regno dei fini .
Nel suddetto regno la dignità si rivede in ciò che sta al di sopra di ogni prezzo, e per questo
79
non ha equivalenti : «ciò che costituisce la condizione a cui soltanto qualcosa può essere un
fine in sé ha non soltanto un valore relativo, cioè un prezzo, bensì un valore intrinseco, cioè
80
una dignità» .
Dal principio formale per cui si deve agire come se la propria massima debba servire da legge
81
universale per tutti gli altri esseri razionali deriva l’idea per cui la dignità di questo essere
razionale implica che le sue leggi debbano sempre essere assunte sia dal punto di vista suo
82
proprio, sia da parte di tutti gli altri uomini membri come legislatori . Pertanto, la
particolarità della dignità risiede nella considerazione dell’uomo come fine in sé e, come tale,
è necessario che egli rispetti l’altro e se stesso riconoscendo allo stesso tempo che il rispetto
dovuto alla dignità delle persone non può essere subordinato a quello per nessun altro valore o
83
cosa . L’uomo, in questo senso, non viene considerato come fenomeno, ma come noumeno,
quindi appartenente al mondo intellegibile e, alla luce di ciò, trattato in modo non
deterministico84.
La dignità dunque risiede nella persona come caratteristica essenziale che si dispiega nella
capacità di «agire moralmente per il perseguimento di quei fini o scopi che la ragione
individua non arbitrariamente, ma in funzione di promuovere e realizzare l’unione sistematica
degli uomini liberi e razionali per il tramite della comune formulazione e soggezione a leggi

74
M. A. Cattaneo​, Dignità umana e pena nella filosofia di kant​, cfr. p. 5.
75
I.​ ​Kant, ​Fondazione della metafisica dei costumi, a​ cura di V. Mathieu, Milano, Bompiani, 2003, pp.155-161.
Per regno dei fini Kant intende: «L’unione di più esseri razionali tramite leggi comuni, luogo in cui l’uomo è
libero rispetto a ogni legge della natura dovendo obbedire solo alla legge che esso si dà».
76
I. Kant, ​Fondazione della metafisica dei costumi,​ p. 155.
77
M. A. Cattaneo, ​Dignità e Pena nella filosofia di Kant, ​cfr​.​ p. 9.
78
I. Kant, ​Fondazione della metafisica dei costumi, p​ . 159.
79
Ivi, p. 157.
80
Ivi, pp. 158-9.
81
Ivi, p. 167.
82
Ivi, p. 167.
83
F. Viola, ​I volti della dignità,​ in ​Colloqui sulla dignità umana, ​p. 101.
84
A. Pirozzoli,​ Il valore costituzionale della dignità,​ Roma, Aracne, 2007, p. 27.
22
85
​ ell’uomo razionale che sceglie di seguire la legge morale che esso stesso si
universali» . N
impone si evidenzia la sua libertà e quindi la sua dignità86. In altre parole, la dignità, nelle sue
molteplici definizioni, «consiste proprio nella capacità di essere universalmente legislatrice e
87 88
contemporaneamente sottoposta a tale legislazione» , ed ha a suo fondamento l’autonomia .
E’ facile comprendere che anche Kant, insieme ai giusnaturalisti, pone la ragione dell’uomo
quale origine dei principi morali e di norme e per questo i doveri che ne conseguono devono
89
avere sempre il carattere della razionalità .

«La dignità kantiana ha in effetti, valore assoluto e, diremmo oggi, è di tipo oggettivo ,
che si impone su qualunque diversa opzione individuale: è cioè destinata a prevalere sulla
90
personale concezione della dignità umana che ciascuno di noi ha o può avere» .

Il concetto di dignità umana è dunque sempre esistito, seppur si sia modificato nel corso dei
secoli. Nonostante la presenza di teorie contrastanti, di cui una vede l’origine del concetto di
dignità con l’affermarsi del cristianesimo e l’altra ne colloca l’origine nell’antichità classica91,
si possono complessivamente identificare vari momenti a seconda della teoria a cui si fa
riferimento. Per quanto riguarda la prima i passaggi fondamentali per cui il significato del
termine varia sarebbero tre: la prima fase conferisce alla dignità umana intesa come dono
divino un connotato prettamente religioso, per poi svilupparsi invece in un processo di
secolarizzazione iniziato con l’illuminismo e divenuto sempre più forte con l’ingresso in
ambito giuridico della dignità92. Se invece si volesse prendere in considerazione il periodo
ancor più remoto, allora si dovrebbe includere anche il pensiero greco antico, tenendo conto
delle due visioni divergenti che caratterizzano il significato del concetto. La prima è di
carattere prettamente elitario, sostenuta tanto da Platone quanto da Aristotele, mentre la
seconda, sviluppatasi nell’epoca seguente, sancisce la dignità come insista alla stessa natura
umana, indi, comune a tutti gli uomini.
Usualmente, sono diversi i ruoli conferiti al concetto di dignità; tuttavia essi possono essere

85
U. Vincenti, ​Diritti e dignità umana​, p. 39.
86
A. Pirozzoli,​ Il valore costituzionale della dignità: un’introduzione,​ p. 27.
87
M. A. Cattaneo,​ Dignità umana e pena nella filosofia di Kant​, p. 10.
88
Ivi, p. 12. Qui il termine “autonomia” viene inteso come «capacità della persona di essere legislatore per se
stesso».
89
U. Vincenti, ​Diritti e dignità umana​, p. 30.
90
Ivi, p. 39.
91
​C. Stark, ​Religious and Philosophical Background of Human Dignity,​ in ​The concept of human dignity in
Human right discourse​, D.Kretzmer and E. Klein, Kluwer Law International, 2002, p. 180.
92
A. Pirozzoli, ​Il valore della costituzionale della dignità,​ p. 20.
23
ricondotti a due aree di appartenenza, ovverosia quella della libertà e quella dell’uguaglianza93
, pensate come due concetti inscindibili sebbene a volte vi sia la prevalenza dell’uno
sull’altro. Rispettivamente, nella prima si può ritrovare la teoria dell’​imago dei,​ da cui
consegue un’uguaglianza per somiglianza di tutto il genere umano; nella seconda invece
basterebbe pensare ad esempio a Tommaso d’Aquino o allo stesso Pufendorf, che nella
dignità scorge la partecipazione alla ragione che muove alla ricerca della condizione di
socievolezza pacifica94.
Sarò solo con Kant che si giungerà ad un momento di equilibrato connubio tra le due aree;
infatti: «la dignità corrisponde all’umanità, ossia alla dimensione essenziale ed esclusiva
dell’uomo in quanto essa è propria solo dell’essere autonomo che agisce secondo morale»95.
La dignità umana, dipoi, inizierà ad assumere una sempre maggiore importanza in contesti
giuridici, prendendo forma nelle costituzioni emergenti come in Francia e in America. Si
sancisce così la nascita e lo sviluppo del discorso dei diritti umani, permettendo una sempre
maggiore uniformità nei paesi, e garantendo, almeno a livello teorico-giuridico, una sempre
più estesa uguaglianza e libertà.

93
Ivi, p. 28.
94
Ivi, p. 29.
95
Ivi, p. 29.
24
2. Declinazioni teoriche e pratiche

2.1​ Dignità nei contesti costituzionali settecenteschi di Francia e America


Solo dagli anni '40 del Novecento si inizierà a citare sistematicamente la dignità dell'uomo

nell'ambito giurisprudenziale; tuttavia, già nelle costituzioni settecentesche se ne può scorgere

un riferimento96. La fine del XVIII secolo, che racchiude in sé anni di agitazione politica e

culturale in cui l’uomo rivendica la sua autonomia e libertà, inaugura una nuova epoca dei

diritti riferiti all’uomo inteso come ​homo iuridicus e, allo stesso tempo, si assiste ad un

cambiamento decisivo scandito dal passaggio dalla pura riflessione filosofica del concetto di

dignità alla sua trasposizione giuridica. Tale svolta è sancita ufficialmente dalla rivoluzione

americana del 1776 e da quella francese del 1789, dalle quali sorgeranno le rispettive

Dichiarazioni. Nelle carte francese e americana, difatti, nonostante l'assenza di riferimenti

espliciti, si riesce ad afferrare la forza del concetto di dignità come valore imprescindibile e

motivo ispiratore97.

La Dichiarazione americana, il cui fondamento teorico trova le sue radici nella linea di
continuità che parte dalla tradizione inglese della ​Magna Charta del 121598 e della ​common
law99, tratta giuridicamente la visione dell'uomo come essere dotato di dignità, da cui deriva la
pretesa naturale di diritti innati100, nella prima sezione della Dichiarazione dei diritti della
Virginia (12 Giugno 1776) prima, e nella Dichiarazione di indipendenza delle colonie inglesi
d’America del 4 Luglio del 1776 poi101:

«Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro creatore di
alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà, e la ricerca della felicità.
Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli Uomini i Governi, i quali derivano i
loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando un qualsiasi Sistema di Governo
diventa distruttivo di questi fini, è Diritto del Popolo di alterarlo o di abolirlo e di istituire
un nuovo Governo, ponendone il fondamento su questi principi ed organizzandone i
poteri in una forma tale che gli sembri la più adeguata per garantire la propria sicurezza e

96
A. Pirozzoli,​ Il valore costituzionale della dignità: un’introduzione​, p. 30.
97
Ivi, p. 32.
98
M. Fioravanti,​ Appunti di storia delle costituzioni moderne​, Torino, Giappichelli, 1995, p. 18.
99
Ivi, pp.19-21. La common law è il diritto comune inglese, «la caratteristica legata al costituzionalismo inglese
è il posto privilegiato che conferisce alle libertà civili, patrimoniali e personali, ovvero la libertà come
sicurezza».
100
A. Pirozzoli, ​Il valore costituzionale della dignità: un’introduzione​, p. 33.
101
Ivi, p. 34.
25
la propria Felicità»102.

La ​Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, ​approvata il 26 Agosto del 1789 e il cui

testo fu redatto da La Fayette, è invece il frutto di una più sistematica unione dei fermenti

rivoluzionari dell’epoca tra cui quello liberale, democratico e sociale e determinanti nella sua

disposizione sono stati l’illuminismo quanto il giusnaturalismo più radicale e l’idea di uomo

che ne è cuore pulsante, estremamente influenzata dalle visioni di Rousseau e Montesquieu.

Esempio emblematico di quanto affermato sono gli articoli 1 e 4, rispettivamente:

Art. 1: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non

possono essere fondate che sull’utilità comune.

Art. 4: La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei

diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri

della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo

dalla Legge.

La diversa storia costitutiva103 delle dichiarazioni francese e americana è esito, in primo luogo,

delle modalità e delle motivazioni che danno vita all’organizzazione dei diritti fondamentali,

in Francia prodotta, anziché da una riforma, da una rottura scandita da una situazione

rivoluzionaria. Di seguito a tale rottura, inoltre, non si da vita ad un nuovo Stato indipendente,

ma anzi è già presente una struttura politica unitaria104, contrariamente a quanto avviene nel

contesto americano per cui non si vuole distruggere nessun ordine precedente di diritto, né

tantomeno alcuna precedente pratica rappresentativa di tipo corporativo105.

La Dichiarazione del 1789 rivendica tanto il principio di uguaglianza tra gli uomini, affiancata

dall’idea di universalità del diritto umano divenuta sistematica106, quanto, allo stesso tempo,

102
​Dichiarazione d’Indipendenza americana,
http://docenti.unior.it/doc_db/doc_obj_19067_09-01-2011_4d2a0a7278ed6.pdf.
103
M. Flores, ​Storia dei diritti umani,​ ​ ​Bologna, Il Mulino, 2008, p​ . 67.
104
​G. Peces Barba, ​Il tempo della storia, i​ n​ Teoria dei diritti fondamentali​, ​a cura di Vincenzo Ferrari,
traduzione di Letizia Mancini, presentazione di N. Bobbio, Milano, A. Giuffrè, 1993, ​cit. p. 132.
105
M. Fioravanti, ​Appunti di storia delle costituzioni moderne​, Torino, Giappichelli, 1991, p.77.
106
G. Peces- Barba, ​Il tempo della storia,​ p. 108: «Con il termine universalità, affiancato ai diritti umani si
intendono almeno tre accezioni di diverse tipologie: logiche, temporali, spaziali. La prima implica la possessione
del diritto da parte di tutti gli uomini, le cui radici sono la razionalità e l’astrazioni. la seconda invece riguarda
26
l’imprescindibilità del diritto dell’uomo alla libertà, alla proprietà, alla sicurezza e alla

resistenza all’oppressione107. Emerge così, inequivocabilmente, l'idea per cui tali diritti si

riferiscano ad ogni persona108 e, alla luce del fatto che la dignità si presenta come caratteristica

propria dell'uomo in quanto tale, si ha un inoppugnabile riconoscimento delle libertà e dei

diritti inalienabili109.

Il nucleo delle Dichiarazioni delle rivoluzioni liberali non è tuttavia unicamente il prodotto di

un’ampia riflessione razionale, ma la risposta a situazioni concrete dell’Europa e delle sue

colonie tra il XVI e il XVII secolo110.

Nonostante l’affermarsi di tali diritti all’interno di un numero sempre crescente di stati, non

sempre è stata coerente o naturale conseguenza la loro reale osservanza e attuazione. Uno dei

casi più evidenti di questa mancata corrispondenza tra teoria e pratica è data, per esempio,

dall’evento del 10 Agosto del 1792, ovverosia il momento in cui in Francia si concesse il

diritto di voto a tutti gli uomini, lasciando però ancora esclusi dal quadro le donne oltre ai

servi e ai disoccupati, «per non parlare degli schiavi cui solo successivamente si concesse di

venire trattati, in linea di principio, come persone»111.

L'epoca delle rivoluzioni, cercando di infrangere i limiti alla realizzazione della persona da
parte delle teorie filosofiche, scientifiche o giuridiche, dà la vita e sostiene con una sempre
maggior forza e determinazione il principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani e della loro
uguale dignità che trae le sue origini dal diritto naturale stesso, ad ora riconosciuto all'intera
umanità112.
La relazione tra i diritti dell'uomo e la dignità della persona è dunque evidente, specialmente
nel momento in cui il richiamo ai diritti umani si nutre dell'indignazione di coloro offesi per la
violazione della dignità, questione che emerge in tutta la sua esplicitezza negli anni '40113.

l’uomo il cui carattere razionale ed astratto è valido al di là dei limiti del tempo, dunque in qualsiasi momento
della storia e della sua storia. Infine, con la terza accezione ci si riferisce all’estensione dei diritti umani a tutte le
società politiche senza alcuna eccezione».
107
​Flores, ​Storia dei diritti umani,​ pp. 70-71.
108
​Ivi, p. 65.
109
Ivi p. 33.
110
​G. Peces-Barba, ​Etica pubblica e diritti fondamentali​, ​a cura di M. Zezza, prologo di Mario G. Losano,
Milano, Angeli, 2016, ​p. 96.
111
Ivi, p. 79.
112
G. Peces-Barba, ​Etica pubblica e diritti fondamentali,​ p. 87.
113
J. Habermas, ​Questa Europa è in crisi​, p. 6.
27
2.2 ​Il tramonto della persona
Con l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania viene a mancare la stabilità
europea dei regimi liberali, così come tutti i diritti conquistati nel secolo precedente, diritti
che, come commenta Hannah Arendt, nessuno tra i governi era disposto a garantire114.
Solamente la Società delle Nazioni tentò di preservare le minoranze seppur con scarsi,
scarsissimi risultati. Durante il nazismo viene negato lo ​status politico dell'individuo e,
divenendo esso nient’altro che uomo, sembra che abbia perso, di pari passo, le qualità che
spingevano gli altri a trattarlo come simile115. La Arendt è convinta che la vera privazione dei
diritti dell’uomo avvenga nel momento in cui il soggetto viene sottratto da un luogo che dà
spazio alle proprie opinioni e azioni116. Quando ciò si verifica viene a mancare un ​«​qualcosa
di molto più essenziale della libertà e della giustizia, che sono dei diritti dei cittadini​»​: viene a
mancare la possibilità di scelta di appartenenza ad una comunità e il trattamento a cui si è
sottoposti è attuato a prescindere dal proprio comportamento. Nel momento in cui una
persona è privata dei propri diritti umani, quindi, non solo gli viene strappata via la libertà, ma
gli si nega anche la possibilità d’azione così come il diritto di opinione117.
L’organizzazione dell’uomo durante il nazismo, i cui luoghi d’azione principale a tal fine
sono i campi di concentramento e di sterminio, mira a eliminare le sue caratteristiche,
negando sistematicamente la sua dignità118. Perseguendo l'obiettivo di far divenire l'uomo una
“cosa”, si elimina conseguentemente e, soprattutto, consapevolmente, la sua natura di
persona.

«L’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere
trasformati in esemplari dell’animale umano […]. Distruggere l’individualità è
distruggere la spontaneità, la capacità dell’uomo di dare inizio coi propri mezzi a
qualcosa di nuovo che non si può spiegare con la reazione all’ambiente e agli
avvenimenti. Allora non rimangono altro che sinistre marionette con volti umani, che si
comportano tutte come il cane dell’esperimento di Pavlov, che reagiscono tutte con
perfetta regolarità anche quando vanno incontro alla propria morte, e che si limitano a
reagire»119.

114
​H. Arendt, ​Le origini del totalitarismo,​ ​introduzione di Alberto Martinelli, tr. it. di Amerigo Guadagnin,
Torino, Edizioni di Comunità, 1999, ​p. 404.
115
Ivi, pp. 415-416.
116
​Ivi, p. 410.
117
Ivi, p. 410.
118
Ivi, p. 599.
119
Ivi, p. 623.
28
Analogamente, durante il periodo fascista, il cui momento di caduta in questo senso è il 1938,
anno in cui si emanano le leggi razziali, si annulla la dignità dell’uomo affianco al principio di
uguaglianza e al valore come persona, arrivando a rappresentare in particolare gli ebrei come
coloro che non sono meritevoli neppure di valersi dei diritti fondamentali. La dignità non è
più universalmente appartenente a tutti per natura, ma unicamente a coloro a cui il governo la
concede, trasformandosi quindi in privilegio riservato ad una ristretta minoranza120. Tuttavia,
sarà proprio da questa più profonda umiliazione dell’umanità che inizieranno ad essere posti
in primo piano il riconoscimento e la tutela dei diritti dell’uomo ed un suo ancor più cauto e
drastico ripensamento121. La politica, in altre parole, non può più trovare giustificazione nella
natura o nella storia, ma deve essere invece sottoposta al giudizio del genere umano122.

2.3​ La dignità come principio


A seguito della sua più completa negazione, la dignità trova una nuova ristrutturazione e
sistematizzazione nel periodo che segue la II Guerra mondiale e attestazione di ciò sono tanto
le discussioni affrontate in sede costituente quanto gli atti che ne emergono, focalizzati, nella
loro stesura, sulle forme di tutela dei diritti dell’uomo e della sua dignità123 . A tal proposito,
basti pensare all’Italia stessa che negli anni 40, contestualmente ai lavori dell’Assemblea
costituente, fonda uno dei punti imprescindibili della nuova costituzione, individuato
dall’onorevole Dossetti. Innanzitutto si deve riconoscere la precedenza sostanziale della
persona umana rispetto allo Stato e il suo servizio nei confronti della persona stessa e allo
stesso modo, il nuovo statuto dell’Italia deve affermare ​«​l’esistenza sia dei diritti fondamentali
delle persone sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione dello Stato​»124.
Con suddetti presupposti si giunge all’assunto per cui la Costituzione deve assicurare
l’autonomia, la libertà e la dignità della persona, riconoscendone dunque i diritti inalienabili e
sacri sia come singolo sia all’interno delle dinamiche e strutture sociali in cui esso vive.
In tal modo si compie il passaggio determinante nella formulazione costituzionale della
dignità umana, precedentemente collocata esclusivamente nella sfera del pensiero puro.
Nonostante il suo formale ed esplicito ingresso nell’ordinamento costituzionale, il concetto,

120
A. Pirozzoli,​ Il valore costituzionale della dignità: un’introduzione​, p. 50.
121
Ivi, p. 52.
122
Ivi, p. 120.
123
Ivi, p. 60.
124
Ivi, p. 62.
29
tuttavia, non perde la sua controversa ambiguità, e in questo contesto se ne distinguono due
ordini principali: la dignità intesa come il valore morale del popolo civile e, dall’altra parte,
come valore e principio costituzionale.
La prima accezione sta ad indicare un sentimento comune e condiviso che sancisce il
riconoscimento della dignità come valore innato in ogni uomo, dunque in sé e negli altri, da
cui deriva inoltre la centralità del concetto di rispetto reciproco125. La seconda, invece, si
dispiega a partire dalla trasposizione della dignità, concepita alla luce della prima accezione,
al contesto costituzionale, divenendo valore supremo su cui si fondano i diritti inviolabili126.
Di conseguenza, è evidente che la dignità così appresa non può che ricollocarsi nella teoria
della dotazione, per cui essa è elemento innato nell'uomo; ciononostante, si pretende da parte
dell'individuo un impegno al suo mantenimento, anzi si «pretende una condotta attiva del
singolo ai fini di un suo accrescimento individuale e sociale»127.
Indicativi sono i luoghi in cui esplicitamente viene menzionata la dignità, più
specificatamente gli articoli 3, 36 e 41 della Costituzione italiana128. I suddetti articoli si
declinano diversamente a seconda del contesto a cui si riferiscono, a partire per esempio da
quello sociale (​«​Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.[...]​»129), per poi passare, con l’articolo 36, a quello economico-lavorativo
(​«​Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e
dignitosa[...]​»130), ed infine ad uno generalizzante (​«​[..]​Non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana​»131)132
. La continua difficoltà di definizione e la persistenza dell'alone di ambiguità che ruota attorno
al concetto di dignità, da cui deriva l'assenza di una sua chiara e concisa definizione, tuttavia

125
Ivi, p. 69.
126
Ivi, p. 79.
127
Ivi, p. 84; Ci si riferisce agli articoli 2 ([...]​richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale); art. ​4 co ([..] ​Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità
e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società);​ art.
54 (Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando
giuramento nei casi stabiliti dalla legge).
128
A. Pirozzoli, ​Il valore costituzionale della dignità: un’introduzione​, p. 88​.
129
​Art. 3, Costituzione.
130
Art. 36, Costituzione.
131
Art. 41, Costituzione.
132
A.Pirozzoli, ​Il valore costituzionale della dignità: un’introduzione, p​ . 88.
30
non determina, contemporaneamente, la presenza di un vuoto circa la sua importanza, i suoi
contenuti e le garanzie di tutela che ad essa spettano133.
Sebbene prima della guerra i diritti umani e la dignità fossero protetti dalla legge di alcuni
paesi, lo stesso non si verificava per mezzo del diritto internazionale134, al contrario, ad oggi,
nel momento in cui si tratta della dignità dell’uomo, difficilmente si può pensare di
prescindere dal piano internazionale. Il processo di internazionalizzazione dei diritti nasce
dalla volontà di promuovere una loro tutela completa per mezzo di testi, come le
Dichiarazioni liberali, ampliati con nuovi diritti che rappresentano il prodotto del processo di
generalizzazione. Tra questi testi vi sono anche Dichiarazioni che hanno un forte valore
morale, essendo ciononostante prive di valore giuridico concreto, come la Dichiarazione
universale dei diritti umani sancita dalle Nazioni Unite i​l 10 Dicembre del 1948135.
E’ proprio la Dichiarazione universale dei diritti umani che istituisce la dignità umana come
uno tra gli elementi fondamentali a livello internazionale e che, differentemente dalle
dichiarazioni settecentesche a cui precedentemente si accennava, ne propone riferimenti
espliciti e sistematici nella stesura giuridica136. ​All'interno della Carta, difatti, si rinvengono
cinque richiami alla dignità di cui due nel preambolo137, uno nel primo articolo a altri due
all'interno delle sezioni riguardanti il contesto sociale ed economico, più specificatamente
negli articoli 22 e 23.
Nel preambolo la dignità è ritenuta come un qualcosa che deve esser riconosciuto all’uomo,
che è a fondamento della libertà, della giustizia e della pace e, concludendo, la dignità è
valore comune a tutti gli uomini138. Nonostante il preambolo rivesta un'importanza
considerevole, il passo realmente decisivo in termini di innovazione è l’Articolo 1:

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di
ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza»139.

133
Ivi, p. 100.
134
A. Chaskalson, ​Human Dignity as a Constitutional Value,​ in ​The concept of human dignity in human
discourse,​ p. 133.
135
G. Peces-Barba, ​Teoria dei diritti fondamentali​, p. 156.
136
K. Dicke,​ The Founding Function of Human Dignity i​ n ​The concept of Human Dignity in Human Rights
Discourse​, pp. 111-112.
137
La sezione del preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani a cui si sta facendo riferimento
cita letteralmente: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia
umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace
nel mondo”.
138
K. Dicke, ​The founding Function of Human Dignity,​ p. 114.
139
Art. 1, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo​, ​p.2.
31
Tale principio nasce dall'idea di ​dignitas come cerniera concettuale che unisce la morale con

il diritto positivo e la sua legislazione democratica, ed è proprio da questo connubio che è nato

un ordinamento politico basato sui diritti dell’uomo140, ponendo, dunque, la dignità alla base

dell’indivisibilità dei diritti fondamentali141.

2.4​ Rispetto della dignità umana nella pratica


I diritti non sono entrati nella storia al fine di tutelare le persone più forti, dunque in grado di

potersi difendersi da sé, piuttosto questi sono necessari soprattutto in vista della protezione di

persone più deboli142. Se si prende in considerazione il drammatico e disumano Olocausto,

sovviene spontaneamente la riflessione che, probabilmente, senza tale tragedia non sarebbe

nata, come sue conseguenza, neppure la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948

o la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali,

firmata dai membri del Consiglio d’Europa il 4 Novembre del 1950. Sempre in termini

ipotetici, se così fosse stato non si sarebbe dato la vita ad una società giusta, come ideale, in

cui la dignità umana di quei soggetti in cui è maggiormente difficoltoso scorgerla, si riconosce

e tutela: nei poveri, nei malati, nei carcerati ed è proprio riguardo di questi ultimi che in

questo contesto si discuterà. Sono i rei coloro, forse, tra i più svantaggiati dal momento in cui

vengono ritenuti colpevoli della propria condizione di esclusione dalla società143.

Nonostante la numerosità dei fondamenti teorici che tendono non solo al rispetto

dell'universalizzazione della dignità umana, ma anche alla sua tutela, nella pratica non sempre

si concretizza tale obiettivo. Affinché i diritti sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti

140
Ivi, p. 13.
141
​J. Habermas,​ Questa Europa è in crisi,​ p. 11.
142
​L. Ferrajoli, ​Manifesto per l’uguaglianza,​ Bari, Laterza, 2018, p.7: «Dalla ridefinizione qui proposta
dell'uguaglianza giuridica come uguaglianza nei diritti fondamentali, possiamo trarre quattor implicazioni,
corrispondenti a quattro valori politici che dell’uguaglianza formano altrettanti fondamenti assiologici: in primo
luogo la dignità di tutti gli esseri umani solo perchè persone; in secondo luogo le forme e i contenuti della
democrazia quali provengono dalle diverse classi di diritti fondamentali a tutti egualmente attribuiti; in terzo
luogo la pace, grazie alla tutela e al rispetto di tutte le differenze personali e alla riduzione delle disuguaglianze
materiali; in quarto luogo la tutela dei più deboli, essendo i diritti fondamentali altrettante leggi del più debole in
alternativa alla legge del più forte».
143
​F.Viola,​ I diritti del carcere,​ in ​ ​Il senso della pena: ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU​:
atti del Seminario AIC di Roma, Casa circondariale di Rebibbia nuovo complesso, 28 maggio 2014, Napoli,
Editoriale Scientifica, 2014​, p. 94.
32
dell'Uomo vengano rispettati, i Governi firmatari hanno istituito la Corte Europea dei Diritti

dell'Uomo, più brevemente CEDU o Corte EDU, che opera in modo permanente144.

In Italia, inoltre, nel 2014 è stato istituito, per mezzo della legge n.10 del medesimo anno, il

Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale,​ figura che era già

prevista dal Trattato delle Nazioni Unite, che ha esplicitamente richiesto agli Stati di creare un

organismo di controllo degli istituti penitenziari145. Il Garante, tra altri incarichi, ​«vigila,

affinché l'esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, dei soggetti sottoposti a

custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata

in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni

internazionali sui diritti umani ratificate dall'Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti​»146

. ​Nel momento in cui si ritiene che siano stati violati i diritti della Convenzione dei Diritti

dell’Uomo da parte di uno o più firmatari, è possibile rivolgersi alla CEDU facendo ricorso o

come singolo o come gruppo di persone oppure come organizzazioni non governative (ONG)
147
. Esempi di violazione degli articoli della Convenzione sono numerosi, ma dato l'argomento

della trattazione, si prenderanno in esame le sentenze afferenti specificatamente l’Articolo 3

riferito, in particolare, al contesto reclusivo148. Principalmente, sono i detenuti stessi a

reclamare la violazione dell'articolo, specialmente in Italia, paese che più volte è stato

condannato dalla Corte di Strasburgo.

Il primo caso, ma non il più noto, che ha suscitato preoccupazione sulla situazione detentiva

italiana alla Corte, è stato il ricorso di Sulejmanovic contro l’Italia del luglio del 2009.

Il ricorrente è stato recluso nel carcere di Rebibbia, a Roma, dividendo con altre cinque

persone una cella di 16,20 mq, avendo dunque a propria disposizione una superficie di soli

2,70 mq. Successivamente fu trasferito in una seconda cella con altre quattro persone,

arrivando a poter usufruire di circa 3,40 mq. Il ricorrente vinse il ricorso contro l’Italia, che

144
​Art. 19,​ C​ onvenzione Europea dei diritti dell’uomo, p. 15.
145
I. Nicotra, ​Pena e reinserimento sociale,​ in ​Il senso della pena,​ p. 87.
146
Ministero della Giustizia, https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_21_2.page
147
Art. 34​, C​ onvenzione Europea dei diritti dell’uomo, p. 21.
148
​Art. 3, Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: « ​ ​Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o
trattamenti inumani o degradanti​»​.
33
venne condannata per la violazione dell’art.3 della Convenzione europea dei diritti umani e,

allo stesso tempo, fu costretta a risarcire il danno morale inflitto al ricorrente con una somma

pari a 1.000 euro.

Analogamente, caso emblematico di violazione dell’articolo 3 della Convenzione è la

sentenza Torreggiani del 2013, indetta contro la Repubblica Italiana da parte di sette ricorrenti

contestando le condizioni nelle quali erano stati detenuti negli istituti penitenziari di Busto

Arsizio e di Piacenza. I ricorrenti sono rispettivamente: il signor Torreggiani, detenuto nel

carcere di Busto Arsizio dal 2006 al 2011, il signor Bamba dal 2008 al 2011, e il signor

Biondi, dal 2009 al 2011, anch’essi ivi detenuti. Si assiste ad una situazione in cui ciascuno di

loro occupava una cella di 9 mq con altre due persone e disponeva, quindi, di uno spazio

personale di 3 mq, nei quali è incluso anche il mobilio. In aggiunta, il signor Torreggiani

sostiene che era costretto a dormire su di un letto a castello distante dal soffitto della cella di

soli 50 cm, distanza che quindi non permetteva nemmeno di avere la minima possibilità di

movimento, come girarsi o piegarsi o coricarsi su di un fianco149.

«Nei loro ricorsi i ricorrenti sostenevano inoltre che l'accesso alla doccia nel carcere di
Busto Arsizio era limitato a causa della penuria di acqua calda nell'istituto penitenziario.
Per quanto invece riguarda i detenuti nel carcere di Piacenza sono quattro ricorrenti che
affermano di aver occupato delle celle di 9 mq con altri due detenuti. Denunciano anche
che nell'istituto penitenziario mancava l’acqua calda, il che per svariati mesi avrebbe
impedito loro di far regolarmente uso della doccia, e che nelle celle non vi era luce
sufficiente a causa delle barre metalliche apposte alle finestre»150.

Tale ricorso viene affiancato da quello del signor Ghisoni e altri due ricorrenti che, detenuti

anch’essi nel carcere di Piacenza, si rivolgono al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia

sostenendo che le loro condizioni all’interno del carcere violavano il principio di parità di

condizioni tra i detenuti, garantito dall’articolo 3 della legge n.354 del 1945 sull’ordinamento

penitenziario151. Il magistrato, pertanto, accoglie i reclami, accertandosi della violazione

149
A. Pugiotto, ​Il volto costituzionale della pena​ ​(e i suoi sfregi),​ in ​Il senso della colpa​, p. 41.
150
​Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, In Sentenza
Torreggiani, a cui il governo rispose che le celle occupate dai ricorrenti hanno invece un’ampiezza di 11 mq.
151
​Art. 3, Ordinamento penitenziario. Parità di condizioni fra i detenuti e gli internati:
«​Negli istituti penitenziari è assicurata ai detenuti ed agli internati parità di condizioni di vita. In
34
dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo che consegue alla reclusione di detenuti in

uno spazio di circa 3 mq, quindi non conforme alle dimensioni che, per convenzione, il

Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti

(CPT) stabilisce essere di almeno 7 mq152.

La suddetta sentenza viene definita “pilota” e con ciò si intende una sentenza adottata in base

ad una procedura che il Regolamento della Corte prevede nei casi in cui la violazione degli

articoli della CEDU sia dovuta ad una carenza strutturale del sistema ordinamentale o della

sua applicazione153.

I ricorsi di Sulejmanovic e Torreggiani ​rappresentano soltanto degli esempi della violazione

dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, violazione che, seppur di

cardinale importanza, non si riduce esclusivamente ad una problematica di spazi, come si

potrebbe intuire dalla sentenza Torreggiani che154, come si è documentato, obbliga la

convivenza in una cella di più persone, negando completamente la privacy del singolo e tutto

ciò che tale negazione infligge, come anche per quanto riguarda i rapporti sessuali155. Di fatto,

la violazione dell'articolo 3 comporta, nella maggioranza dei casi, anche la violazione

dell’articolo 1, comma 1 della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975) per cui

il «trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto

della dignità della persona».

Violazioni di articoli di tale entità non possono e non devono essere scusate dalla condizione

di sovraffollamento del carcere italiano. Adducendo a motivazione il sovraffolamento viene

giustificata, il più delle volte, anche la situazione sanitaria e la non osservanza delle norme

igieniche di base comporta inevitabilmente un numero sempre crescente di malattie croniche e

degenerative, sebbene in questo particolare caso il sovraffollamento potrebbe anche essere

particolare il regolamento stabilisce limitazioni in ordine all'ammontare del peculio disponibile e dei
beni provenienti dall'esterno​»​, http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/op/opitaliano.htm#ART3.
152
​M. Ruotolo, ​Dignità e carcere​, ​Napoli, Editoriale scientifica, 2011, p​ . 45.
153
​M.Palma, ​Cosa chiede la corte europea?​, in ​Il senso della pena​, p. 129; art. 61 par. 3 del Regolamento della
Corte EDU.
154
A. Pugiotto, ​Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi),​ in ​Il senso della pena​, p. 26.
155
Ivi, p. 87.
35
solamente un alibi per giustificare pratiche illegali fondate sull’idea che il rispetto della

dignità dell’uomo sia solo da garantire al soggetto libero156.

«Non siamo pezzi di carne che devono soddisfare gli istinti più primitivi nè tanto meno
siamo tenuti a fare i “contorsionisti” per adattarci a qualsivoglia imposizione del forzuto
passante istituzionale. Siamo persone che conservano la propria dignità, proprio perché la
pena detentiva deve essere dignitosa»157

La struttura fatiscente e inadeguata degli istituti di detenzione e il sovraffollamento che li

caratterizza, oltre alla scarsità di risorse economiche e umane, hanno sancito la sconfitta dei

principi costituzionali volti a razionalizzare e a umanizzare il trattamento sanzionatorio158.

Nonostante il sovraffollamento venga inoltre assunto come indice rivelatore dell’impossibilità

di soddisfare tutti gli altri diritti, esso ha tuttavia il vantaggio di poter essere dimostrato in

maniera chiara e quantitativa, indiscutibile, dunque, a livello giuridico159. A tal riguardo, lo

Stato ha l’obbligo etico-giuridico di intervenire al fine di garantire al detenuto l’esercizio dei

propri diritti personali di libertà, d’identità, di integrità psico-fisica, particolarmente difficili

nella situazione di reclusione160. L’impossibilità di esercitare tali diritti può dare luogo ad esiti

rovinosi, come ad esempio un elevato tasso di decessi in carcere, per cui l’Italia nel 2015 fu

l’ottavo paese in Europa, e sempre ottavo fu per quanto riguarda invece le morti dovute ai

suicidi (36.1%)161. Sebbene suddetti dati rendano evidente un miglioramento della condizione

carceraria rispetto al 2012, anno in cui l’Italia era arrivata addirittura ad essere il secondo

Paese in Europa per il tasso di decessi e di suicidi in carcere162, non è scontato ribadire la

fondamentale importanza della condizione carceraria, del lavoro svolto al suo interno e del

dovere del rispetto della dignità dell’uomo detenuto, poiché deve essere chiaro che:

«il carcere non è un luogo di sopraffazione o degradazione della personalità ma luogo in

156
Ivi, p. 121.
157
G. Perrone, ​Se tutto questo ha un senso, che qualcuno me lo spieghi,​ in ​Il senso della pena,​ p. 159.
158
I. Nicotra,​ Pena e reinserimento sociale,​ in ​Il senso della pena,​ p. 71.
159
​F. Viola, ​I diritti in carcere​, in ​Il senso della pena,​ p. 98.
160
​M. Ruotolo, ​Dignità e carcere​, p. 87.
161
​Council of Europe- Annual penal statistic​,
http://wp.unil.ch/space/files/2018/03/SPACE-I-2016-Final-Report-180315.pdf, p. 115.
162
​V. Bamberale, ​Lavoro e Carcere,​ in ​Il senso della pena,​ p. 117.
36
cui le persone, rispettate come tali, che scontano una pena legalmente inflitta, sono messe
in grado di cercare e di percorrere la via del loro riscatto e del loro reingresso nella
comunità dei liberi [...] La legalità e la cultura della legalità sono la premessa perché ciò
possa avvenire»163.

163
​V. Onida, ​Carcere e legalità​ in «Dignitas», n. 11/12, Milano, 2002.
37
3. La realizzazione della persona

3.1 ​Rieducazione e reinserimento sociale


L’articolo 27, comma 3 recita letteralmente:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato»164.

Prendendo in esame il suddetto articolo emergono più elementi di decisiva importanza: in

primo luogo, in aggiunta all'esplicita espressione di inviolabilità della dignità del detenuto, si

estrinseca anche la funzione rieducativa della reclusione, che non può essere pensata a

prescindere dagli intenti e dalla finalità del carcere in uno stato evoluto165.

Inoltre è rilevante, se non fondamentale, il verbo “tendere”, il quale non fa riferimento ad un

indefinito atteggiamento riguardante solo il trattamento, bensì è precisamente una delle

qualità essenziali che «caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano

da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue»166.

Difatti, per mezzo del verbo “tendere” si indica l'acquisita consapevolezza della discrepanza

che può sussistere tra la teoria giudiziaria e la pratica del processo di rieducazione167. Il

reinserimento sociale e la rieducazione del detenuto, che sono caratterizzati da proprietà

universali, nell'accezione per cui esse debbono essere garantite senza distinzioni tra reati

commessi168, sono dei diritti che il detenuto è libero di esercitare o meno. Pertanto in tale

contesto è assente qualsiasi forma di coercizione da parte dello Stato, non vi sono imposizioni

e limitazioni alla libertà di scelta del detenuto. Se ciò avvenisse, si instaurerebbe un rapporto

164
Art. 27, comma 3, Costituzione. .
165
Sentenza 313, 1990, http://www.giurcost.org/decisioni/1990/0313s-90.html.
166
Ivi.
167
Ivi.
168
A. Pugiotto, ​Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi),​ in​ Il senso della pena,​ p. 20.
38
di supremazia-subordinazione dell'ordinamento penitenziario nei confronti del reo condannato

(sentenza 26/1999)169. E’ questo dunque ciò che si vuole rendere evidente tramite l'utilizzo del

verbo “tendere”: la rieducazione del detenuto deve svolgersi nel rispetto

dell'autodeterminazione del singolo.

La difficile condizione di individui, la quale scaturisce dalla limitazione della loro libertà in

un ambiente che li separa dalla società civile, richiede la necessità di un intervento dello Stato

nel provvedere un sostegno al detenuto in vista del suo reingresso nella società170.

Lo Stato, a tal proposito, ha l'onere di creare programmi di intervento affinché il tempo

impiegato per lo sconto della pena sia proficuo, tanto a livello rieducativo, quanto sul piano

del reinserimento sociale di soggetti che infrangono norme penali a causa di, per esempio,

problematiche economiche o sociali. Alla luce di ciò, è di immediata comprensione

l'importanza che in tale contesto assume il principio di uguaglianza sostanziale, che promuove

il riconoscimento di vari diritti al fine di garantite pari opportunità di realizzazione in

confronto alle persone libere:

«E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese»171.

Il principio di uguaglianza è un diritto che sancisce l'uguaglianza tra gli uomini, asserendo la

pari dignità e il pari valore, in concomitanza alla tutela delle differenze che intercorrono tra

gli individui. In ​primis​, dunque, il principio consiste sostanzialmente nell'«uguale valore

associato a tutte le differenze che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli

169
Ivi, p. 19.
170
I. Nicotra, ​Pena e reinserimento sociale,​ in ​Il senso della pena,​ p. 65.
171
Art. 3 comma 2, Costituzione, https://www.senato.it/1025?sezione=118&articolo_numero_articolo=3.
39
altri e di ciascun individuo una persona uguale a tutte le altre»172.

Da ciò si evince che, da una parte, l'uguaglianza implica uguale dignità tra gli uomini,

dall'altra, la stessa dignità comporta l'attribuzione dello stesso valore alle differenze,

estrinsecandosi nella riduzione delle loro disuguaglianze173. L'innegabile presenza di

disuguaglianze che si manifesta, per esempio, nei contesti di povertà, dipende certamente

dall'efficacia dei diritti fondamentali, tuttavia è particolarmente decisiva anche la strutturale

debolezza dei diritti sociali e l’assenza di adeguate garanzie174.

Uno tra gli intenti alla base della politica rieducativa è l'insegnamento dei valori fondamentali

e fondanti della società che favoriscono, affianco al contatto con l'ambiente esterno al luogo di

reclusione, che è preferibile avvenga non subito prima del termine della pena, piuttosto

durante la sua fase iniziale175, il reinserimento sociale garantito dall’ordinamento penitenziario

(art.1 comma 6)176 .

I mezzi tramite cui viene perseguito l'obiettivo rieducativo e di reinserimento sono

prevalentemente la formazione e il lavoro che, a loro volta, possono fornire strumenti tramite

cui il reingresso del reo all'interno della società civile risulta essere meno difficoltoso177.

Per la persona che, avendo scontato la pena, è fuoriuscita dall'istituzione carceraria, la

funzione del lavoro è di vitale importanza affinché si possa costruire una “nuova vita”.

Tale asserzione si riferisce in ​primis ​alla funzione del lavoro in termini di sostentamento,

ancor più necessario se l'ex-detenuto è privo di supporto familiare, amicale o, più in generale,

172
​L. Ferrajoli, ​Manifesto per l’uguaglianza,​ p. 4.
173
​L. Ferrajoli, ​Manifesto per l’uguaglianza,​ pp. 9-10.
174
​Ivi, p. 26.
175
I. Nicotra, ​Pena e reinserimento sociale,​ in​ Il senso della pena,​ p. 66.
176
Ordinamento penitenziario, art. 1, comma 6: «​Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere
attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento
sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche
condizioni dei soggetti​»​.
177
Ordinamento penitenziario, art.15 Elementi del trattamento: « ​ ​Il trattamento del condannato e dell'internato è
svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e
sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia​»​.
40
affettivo; in secondo luogo, il lavoro può accrescere l'autostima e la gratificazione personale,

avviando il percorso verso l'emancipazione178. In aggiunta a ciò, è degno di nota il fatto che

soprattutto per mezzo del lavoro è possibile eliminare, o almeno ridurre, la recidività del reo.

«Il lavoro, in quanto strumento principale della realizzazione della persona, costituisce
l’aspetto più significativo ai fini della responsabilizzazione dei detenuti. Il lavoro è infatti
il mezzo più adeguato, forse l’unico, per costruire una società di uomini liberi e uguali
[...] Il lavoro proprio nella prospettiva del reinserimento del reo nella società diviene un
elemento assolutamente insostituibile»179.

Durante il periodo di reclusione viene offerta la possibilità di lavorare sia all’interno della

struttura che al suo esterno. Inoltre, per favorire il loro reingresso nel mondo del lavoro i rei

vengono ricondotti nella “categoria svantaggiata”, ovverosia il gruppo che include persone in

condizioni di svantaggio sociale e che quindi hanno difficoltà nell’introdursi in contesti

lavorativi180. I membri di questa particolare categoria ​possono usufruire della possibilità di

inserimento in cooperative sociali di tipo B, che ​si occupano della gestione di attività

finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate nei settori di industria,

commercio, servizi e agricoltura. Affinché venga favorita la loro entrata nel mondo

lavorativo, la legge Smuraglia del 2000, per esempio, ha esteso il sistema di sgravi fiscali per

chi impiega manodopera detenuta organizzando attività lavorative all’interno o all’esterno del

carcere. A simili norme nazionali si affiancano anche quelle regionali, che possono

intervenire per facilitare l’integrazione lavorativa delle persone in condizioni di difficoltà

occupazionale. Nonostante tutto ciò, ad oggi, solo il 31% dei detenuti lavora181. Un’ulteriore

problematica si profila nel fatto che la figura del reo, durante o posteriormente allo sconto di

178
I. Nicotra,​ Pena e reinserimento sociale,​ in ​Il senso della pena,​ p. 77.
179
​Ivi, p. 78.
180
Legge Smuraglia-Legge n. 193 del 2000, http://www.parlamento.it/parlam/leggi/00193l.htm.
181
Ministero della giustizia,
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=1_5_36&contentId=SST168616&previsious
Page=mg_1_14.
41
pena, nella maggioranza dei casi, viene stigmatizzata e il suo trattamento da parte della

società si fonda su pregiudizi ​«​frutti di automatismo culturale più che etico-politico»182.

La società, generalmente, non considera il reo come persona con pari dignità, né come

meritevole di fiducia, nonostante la legislazione la affermi e garantisca. Quanto detto è

particolarmente evidente se si prendono in esame, ad esempio, le difficoltà in cui si imbattono

i detenuti durante il loro reinserimento sociale seppure, teoricamente, gli scopi rieducativi

debbano imporsi nel concreto sul «carattere di difesa sociale che la reclusione porta scritto in

fronte»183.

3.2 ​Cenni sul pregiudizio


La definizione da dizionario intende il pregiudizio come:

«​opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una
conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la
valutazione, e da indurre quindi in errore​»184.

Il pregiudizio indica generalmente un atteggiamento ostile, superficiale e generalizzante, così

come anche rigido, soprattutto quando si rifiuta di metterne in discussione la validità e

l’appropriatezza.

Anche Brown definisce il pregiudizio come «qualsiasi atteggiamento, emozione o

comportamento nei confronti di un gruppo che si esprima direttamente o indirettamente in

negatività e antipatia nei confronti del gruppo stesso»185.

Per prima cosa, il pregiudizio deve essere preso in esame oltre che a livello della percezione,

dell’emozione e dell’azione individuale, come fenomeno di gruppo, alla luce del fatto che

esso indica un orientamento nei confronti di categorie complessive. Anche nell’istante in cui

182
I. Nicotra,​ Pena e reinserimento sociale,​ in ​Il senso della pena,​ p. 70​.
183
​F. Viola, ​I diritti in carcere​, in ​Il senso della pena,​ p. 96.
184
Vocabolario Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/pregiudizio.
185
R. Brown, ​Psicologia del pregiudizio,​ tr. it. G. Stella, Bologna: Il Mulino, 2013, p. 39.
42
ci si riferisce concretamente ad una singola persona, le sue caratteristiche personali contano

meno rispetto alle peculiarità che lo inseriscono in un gruppo piuttosto che in un altro.

Un’ulteriore motivazione per definire il pregiudizio come processo di gruppo risiede nel fatto

che questo rappresenta, almeno nella maggioranza dei casi, un orientamento socialmente

condiviso186.

Tuttavia, il fatto che le affermazioni dettate dai pregiudizi siano socialmente condivise non le

rende oggetto di verifica a livello fattuale, dunque non se ne può stabilire la correttezza o

l'erroneità, e ciò deriva dal fatto che sono fondate su giudizi di valore anziché su quelli

contestuali di merito187. A giocare un ruolo fondamentale nella costruzione di pregiudizi è

anche la minaccia, che viene intesa non solo come danno incombente nei confronti di beni

tangibili come la sicurezza personale o gli standard di vita; ci si riferisce piuttosto a quella nei

confronti del senso di identità, oppure, in altri casi ancora, la minaccia può essere implicita188.

Affianco ai pregiudizi si collocano gli stereotipi, ovverosia dei modi in cui gli individui

conferiscono un senso e una giustificazione al mondo sociale in cui vivono189. Più

specificatamente, gli stereotipi sono un particolare tipo di atteggiamento della società e «sono

delle credenze su attribuiti personali di una categoria sociale e vengono acquisiti tramite la

socializzazione o tramite i mass media piuttosto che tramite esperienze personali»190. Per

comprenderne la provenienza si utilizzano diversi approcci tra cui quello psicodinamico, che

definisce gli stereotipi e i pregiudizi come manifestazione di conflitti della psiche; quello del

conflitto realistico, secondo cui i pregiudizi dell’​out-group191 e le discriminazioni intragruppo

sono espressione di conflitti di interesse che hanno luogo nel momento in cui due o più gruppi

sono in competizione per risorse o beni limitati.

186
​Ivi, pp. 39-41​.
187
Ivi, p. 10.
188
​R. Brown,​ Psicologia del pregiudizio,​ p. 319.
189
​Ivi, p. 27. Gli stereotipi derivano da processi di categorizzazione.
190
A. Maass, ​Gli stereotipi​, in ​Gli atteggiamenti sociali: teoria e ricerca,​ a cura di R. Trentin, Torino, Bollati
Boringhieri, 1991, p. 165.
191
Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/etnocentrismo_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/. Se vi
sono due gruppi uno è quello di appartenenza, cioè l’in-group, mentre quello di cui non si fa parte è definito
out-group,
43
Recentemente, tuttavia, è stato confermato che i pregiudizi intergruppo si verificano anche in

assenza di conflitti reali e possono avere origine semplicemente dalla ripartizione in gruppi

arbitrari, da cui deriva una maggior simpatia per la propria categoria, anziché per l’​out-group​.

L’approccio che si occupa di quest’ultima classe di pregiudizi ne riscontra la nascita negli

interessi autoprotettivi e ne delinea il fine ultimo nel mantenimento di un’immagine positiva

di sé e dell’​in-group192.

Un ulteriore filone di ricerca è quello cognitivo, che individua la provenienza degli stereotipi

nei processi di percezione, di memoria e di categorizzazione, in cui le informazioni

sull’​in-group vengono organizzate intorno a singoli individui o sottogruppi di persone,

viceversa le informazioni sull’​out-group​ sono associate a categorie più generali.

A rispondere alla questione del perché tali atteggiamenti abbiano una connotazione

decisamente negativa è l’approccio delle correlazioni illusorie, per il quale, alla luce della

sporadicità sia dei contatti con minoranze sia dei comportamenti socialmente indesiderabili, la

cittadinanza potrebbe, conseguentemente ma non giustificatamente, associare la minoranza ai

comportamenti dannosi, seppur la generalizzazione di quanto detto della società non sia

immediata193. Lo stereotipo viene dunque prodotto da vari processi cognitivi, comportamentali

e linguistici194, che difficilmente permettono una sua modificazione, nonostante vi sia una

realtà che lo possa contraddire195.

La comprensione completa ed esaustiva del fenomeno è possibile tenendo conto del

192
Ivi, pp. 165-166​.
193
Ivi, p. 173.
194
Ivi, p. 176, in particolare: «tra i processi cognitivi che impediscono la revisione degli stereotipi figurano
l’attenzione la selezione, l’interpretazione e la memorizzazione differenziale dell’informazione. In situazioni di
scelta le persone in genere danno la preferenza a informazioni che confermano le loro aspettative stereotipiche
rispetto a quelle che le disconfermano. I soggetti poi vanno alla ricerca di conferme alla propria visioni, non
disconferme. ma in realtà anche il nostro comportamento può creare una realtà che rispecchia le nostre
aspettative, cioè i nostri atti sono in grado di produrre nell’altro reazioni che conformano le nostre credenze
stereotipiche».
195
​Ivi, pp. 176-177.
44
complesso intreccio di forze storiche, politiche, economiche e sociali che si dispiegano in ogni

contesto196. La storia, per esempio, è determinante dacchè tramanda le tradizioni, le norme

culturali e le istituzioni sociali, giocando un ruolo chiave nella costruzione del mondo in

termini di categorie sociali diversificate, «ponendo con ciò le basi prime e necessarie di ogni

forma di pregiudizio». Allo stesso tempo la politica, che promuove la stipulazione delle leggi

sui diritti civili, influenza in maniera diretta la vita dei gruppi di minoranza197.

E’ imprescindibile, pertanto, la presenza di un forte sostegno sociale ed istituzionale che

garantisca una maggiore integrazione da cui possa nascere un nuovo clima sociale.

3.3 ​La reclusione fuori dal carcere


Oggetto di studio in questa sede, come già accennato, non è solo la violazione della dignità

della persona all’interno del carcere, ma anche, e soprattutto, la sua violazione al di fuori del

luogo fisico. Fino ad ora si è discusso prevalentemente dei diritti su carta, giuridicamente e

legalmente inviolabili, che negano e rifiutano categoricamente qualsiasi lesione della dignità

dell’uomo a prescindere dalle azioni da esso compiute. Difatti, il principio generale dei diritti

prevede che chiunque sia responsabile della violazione di quelli altrui non deve perdere, a

seguito di ciò, tutti i propri diritti e con essi la sua dignità198; ciononostante, va rilevato che

nella pratica non sempre tale principio di umanità viene rispettato.

La trattazione, pertanto, intende focalizzare la propria attenzione sulla discrepanza tra

momento teorico e pratico, sostenendo di pari passo l'idea per cui il reo, ovverosia colui che

ha commesso reati considerabili anche estremamente gravi, come quello di ledere alla vita o

addirittura negarla ad un altro essere umano, deve avere la possibilità, o meglio, la garanzia

totale e indiscutibile di esser considerato uomo; a tal fine, è necessario che, seppur escludendo

il momento di reclusione199, gli vengano assicurate le medesime possibilità e trattamento di

196
​R. Brown,​ Psicologia del pregiudizio,​ p. 43.
197
Ivi, pp. 43-44.
198
F. Viola, ​I diritti in carcere, ​in​ Il senso della pena​, p. 95.
199
​Il momento di reclusione comunque deve assicurare al detenuto la tutela ed il rispetto della sua dignità.
45
colui che non ha infranto norme penali. Seppur vari tentativi, come la riforma del 1975,

abbiano introdotto alcune novità finalizzate, da una parte, a fornire una risposta effettiva

all’esigenza concreta di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e, dall'altra, ad

assottigliare la distanza tra carcere e società libera ponendo il detenuto come soggetto di diritti

e non più solo come soggetto passivo dell'esecuzione penale, l’analisi dell’esperienza

applicativa della legge sull'ordinamento penitenziario fornisce dati, nel complesso, deludenti
200
. E’ evidente che non può essere analizzato ogni singolo caso e risulta complesso proporre

un discorso sufficientemente completo al fine di avere una precisa visione della tesi senza che

questa appaia semplicistica o superficiale. Non per questo non possono essere messi in risalto

degli aspetti che, seppur in termini generalizzanti, emergono in simili circostanze.

Ad esemplificare quest'ultima constatazione, si propone un esempio concreto che riesce ad

evidenziare la restrizione che deriva dallo stigma impresso sul reo, sia all'interno sia

all'esterno del luogo fisico di reclusione.

Innanzitutto, una delle possibilità lavorative disponibili all'assunzione del reo è quella della

cooperazione sociale e del ​non profit che però si rivela spesso insufficiente e limitata201, da cui

deriva la necessità di ricerca di altri spazi all’interno del mondo dell’impresa ​for profit​. La

drammaticità del problema sorge, come dimostra la ricerca effettuata dall’Agenzia di

Solidarietà per il Lavoro, nel momento in cui all'ex-detenuto, che sta tentando di inserirsi in

ambienti lavorativi, viene negata la possibilità di assunzione anche a causa della

stigmatizzazione sulla sua persona.

Uno tra i problemi riscontrati da parte degli imprenditori intervistati durante la ricerca è

quello dell’«assenza di esperienza professionale e l’inadeguatezza della formazione

acquisita», ma a questo si affianca la mancanza di informazione riguardo gli strumenti di

mediazione al lavoro, come i tirocini formativi (precedentemente chiamate “borse lavoro”)

I. Nicotra, ​Pena e reinserimento sociale,​ in ​Il senso della pena,​ pp. 70-71.
200
201
​Agenzia di Solidarietà per il lavoro,​ I problemi dell’inserimento lavorativo di persone provenienti da percorsi
penali​, rapporto di ricerca a cura di A. Naldi, Milano, 2006.
46
per l’inserimento di persone appartenenti a categorie svantaggiate.

Ciò che è interessante far emergere è la pressoché totale ignoranza sul tema del carcere, di cui

si ha un’idea confusa a partire dalla questione delle fasce di età di coloro che vi sono reclusi,

fino ad arrivare al livello culturale o sociale dei detenuti, confermando la considerazione del

carcere come “discarica sociale”202. Nella maggior parte delle interviste emerge, affianco ad

idee indeterminate del carcere, la paura nei confronti delle persone che sono al suo interno.

Un imprenditore, ad esempio, sostiene che ha timore della parola “carcere” e che per quanto

riguarda i detenuti è sempre presente il preconcetto e sicuramente non lo assumerebbe203.

Sono rare le interviste in cui si assiste a discussioni in cui un imprenditore, senza aver mai

avuto alcun contatto durante la sua vita con le case circondariali e i detenuti, sostiene che a

tutti debba esser data una possibilità. Complessivamente, emerge anche la paura di non essere

ricambiati da una persona che non merita fiducia, e il «tipo di reato sembra essere un

discriminante fondamentale nel dichiararsi disponibile o meno all’inserimento nella propria

azienda»204. Analizzando i dati forniti dalla ricerca emerge che, difatti, le imprese assumono

prevalentemente extracomunitari e risultano essere praticamente assenti assunzioni di ex

detenuti.

Inevitabilmente, questa negazione del lavoro e di fiducia non permette all’ex detenuto di

potersi ricostruire o di continuare la propria vita, come se non ne fosse degno in

considerazione delle azioni compiute in precedenza. ​L’ex detenuto d'altronde, non può che

sentirsi spaesato dopo che, una volta scontata la pena, fuoriesce dalla casa circondariale.

Secondo un’ulteriore ricerca condotta da A.li. - Associazione Accoglienza per le libertà Onlus

di Parma205, ​molti ex detenuti intervistati hanno lamentato il mancato appoggio o aiuto da

202
​Ivi​, p​ . 38.
203
Ivi, pp. 42-44.
204
Ivi, p. 46.
205
​Dopo il carcere, Una ricerca sul reinserimento a Parma, a​ cura di M. Deriu, D.Rossi, E. Vecchione, Giugno,
2002, http://www.ristretti.it/areestudio/territorio/ali/ricerca.htm.
47
parte delle istituzioni appena usciti dal carcere:

«In particolare si lamenta un’assenza delle istituzioni sul piano della predisposizione di
strumenti di assistenza e di aiuto per le persone che escono dal carcere e che non possono
contare nell’immediato su risorse autonome. Questo mancato aiuto crea spesso un grande
risentimento nei confronti delle istituzioni pubbliche e statali dalle quali ci si sente
abbandonati e presi in giro»206.

Il disagio del reo è conseguenza di svariati fattori, a partire da quelli economici fino ad

arrivare a quelli psicologici, sociali e affettivi.

Suddetta condizione può essere modificata t​ramite un intreccio di forze sociali, politiche ed

economiche, come per esempio interventi statali che puntino al reinserimento effettivo del reo

non solo quando è in carcere, ma nell'immediatezza della scarcerazione. Allo stesso tempo va

osservato che «investire sulla vita degli esseri umani, permettendogli di reinserirsi nella

società, significa anche, indirettamente, investire sulla sicurezza»207. In caso contrario, si

tratterebbe di abbandonare quei figli che precedentemente si erano seppelliti nelle carceri208.

Non si tratta, dunque, solo di mettere in discussione i propri orientamenti personali, ma di

sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti del trattamento delle persone che si trovano,

per diverse circostanze di vita, in condizione di debolezza, di minorità e di svantaggio sociale


209
. Analogamente, questo discorso non implica la volontà di forzare il pensiero del singolo,

ma il cercare di riflettere su quei meccanismi di repulsione che caratterizzano il rapporto tra la

società ed il reo. L'infrazione delle norme penali del carcerato e la sua conseguente detenzione

​«non comportano una perdita totale della titolarità di diritti, interessi e obblighi giuridici;
e in particolare, non determina la completa privazione della sua libertà»210.

206
​Ivi.
207
​M. Ruotolo, ​Dignità e carcere​, p. 122.
208
​S. Cuffaro, ​Testimonianze dal carcere,​ in ​Il senso della pena​, p. 156.
209
Ivi, p. 93.
210
​M. Ruotolo,​ Il senso della pena,​ p. 70.
48
Conclusioni

Al termine della trattazione è possibile, pur nell'innegabile problematicità della tematica,

trarre alcune brevi considerazioni.

In primo luogo, risulta difficile parlare di dignità come principio unitario, estrinsecandosi il

suo contenuto in una molteplicità di dimensioni e significati, ai quali precedentemente si è

fatto riferimento. Accanto a tale problematica ne sorge una seconda che concerne l'istituzione

reclusiva in relazione alla propria finalità e alla sua reale capacità di attuazione e promozione

dei principi su cui è fondata e che ne dovrebbero presiedere al funzionamento. Data la scarsità

di risultati soddisfacenti all'interno dell'ambiente carcerario, considerato alla stregua di una

“discarica sociale”, si impone con decisione la questione delle possibili alternative che

potrebbero riuscire validamente a rispettare e tutelare la persona e che siano concretamente

finalizzate alla rieducazione. A tale proposito, data la concreta fallacia del sistema, sarebbe

auspicabile un percorso di riforma della materia penale che abbia a suo fondamento un

ripensamento politico e morale della persona nel momento della carcerazione e in vista del

suo reinserimento.

Lo Stato non può, chiedere il sacrificio della dignità della persona211, e il suo lavoro nei

riguardi del reo non può e non deve limitarsi esclusivamente entro le mura del carcere.

L’intento nella trattazione è stato, da una parte, quello di mostrare come tutti, a prescindere

dalle proprie azioni, siano meritevoli di dignità, come aspetto sacro ed inviolabile dell’uomo,

insito in lui per il solo fatto di essere uomo; dall’altra, quello di porre in luce la discrepanza

sussistente tra momento teorico e momento pratico, evidente nonostante la presenza di un

presidio giuridico a garanzia della dignità. Non sempre, si è constatato, il dogma della dignità

211
​G. Silvestri, ​La dignità umana dentro le mura del carcere,​ in ​Il senso della pena,​ pp. 177-178.
49
è rispettato anche da parte del cittadino, oltre che dello stato, addivenendosi così nella

maggioranza dei casi alla concreta impossibilità di realizzazione della persona e dello stesso

principio di uguaglianza s​ostanziale in violazione della ​dignitas​ umana.

Un ulteriore scopo del lavoro è mettere in evidenza il fatto che la violazione della dignità

umana, anche a motivo della sua complessità, ambiguità e labilità di confini, non si riscontra

solo in comportamenti plateali, dunque oggettivamente evidenti di cui si riconosce

istantaneamente il mancato rispetto della dignità della persona.

Ciò che è di difficile riscontro è quando la dignità umana viene violata per mezzo di

atteggiamenti che apparentemente risultano non essere annessi alla stessa ed in particolare

quando tali comportamenti decretano la morte sociale di un individuo come per esempio

l'umiliazione, le privazioni di possibilità di realizzazione, oppure quando viene a mancare nei

confronti dell'altro il rispetto, in cui si fondono libertà ed uguaglianza. ​Tale questione è

evidente nel contesto di reinserimento sociale del reo che, una volta scontata la pena, viene

abbandonato a se stess​o, senza dunque un concreto supporto, ​di cui gioverebbero lo Stato, che

per quanto riguarda strettamente la prospettiva affrontata, assisterebbe ad una diminuzione

della criminalità, la società, che d'altra parte constaterebbe un ambiente più sicuro, ed infine

del reo, che troverebbe possibilità di realizzazione della sua persona e un trattamento degno di

esser definito “da uomo”.

«In ogni caso[...] l’investimento in umanità è il migliore degli investimenti possibili»212.

212
Ivi, p. 186.
50
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