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Storia economica dell'Europa: dal Mille alla rivoluzione industriale inglese

La popolazione umana è la protagonista dell'attività economica. Alla storia economica interessa lo


studio del suo ruolo di produttrice e consumatrice, la sua entità numerica, la composizione qualitati-
va, la distribuzione territoriale, le variazioni nel tempo di questi elementi.

1. Caratteri generali delle economie preindustriali

L'economia preindustriale si basava prevalentemente sulla sussistenza. La differenza dall'economia


moderna è individuabile da subito in questa differenza: mentre questa è un'economia della produ-
zione e del superfluo, in periodo preindustriale la stragrande maggioranza della popolazione perce-
piva un reddito appena necessario a soddisfare i bisogni primari dell'individuo e della sua famiglia.
Il distacco da questa nostra economia moderna deriva prevalentemente da una serie di vincoli di ca-
rattere tecnico, legati all'impossibilità della popolazione di adattare le risorse ai propri bisogni, per
cui quando le risorse scarseggiano è la popolazione a doversi adattare ad esse: questo porta ad una
stagnazione dei livelli della vita e della produzione; i miglioramenti sono presenti ma discontinui e
facilmente annullabili e l'energia impiegata nella produzione è prevalentemente umana e non inani-
mata.
Oltre alla scarsa tecnologia, i vincoli dell'economia preindustriale derivavano anche dall'assenza di
un mercato espanso capace di integrare i vari mercati locali, dalla prevalenza assoluta del settore
agricolo (capace di generare crisi legate al rendimento della terra in grado di mettere in ginocchio la
popolazione) e dalla mancanza sostanziale di specializzazione del lavoro: per chiudere il quadro, il
settore secondario (basato solitamente su piccole industrie alimentari e tessili) era poco diffuso,
mentre il terziario aveva un ruolo assolutamente marginale come fonte di lavoro e di reddito.
Ricapitolando, si aveva quindi una distribuzione della popolazione prevalentemente rurale, tecnolo-
gie scarse e reddito basso, impiegato quasi esclusivamente in consumi alimentari (con tassi di accu-
mulo irrisori).

Accanto a questi elementi convivevano in ogni modo elementi di modernizzazione, che portano
progressivamente al rafforzamento di metodi e strutture di un'economia di mercato: questi fattori di
modernizzazione nascevano tutti dalle città, centri dinamici della rinascita dell'economia, e si pos-
sono riconoscere come:
• la crescita di gruppi borghesi orientati al profitto;
• innovazioni lente ma in crescita nella manifattura, nella tecnica, nel commercio, ecc.
Il consolidarsi di uno spirito capitalistico all'interno dell'economia medievale pose le basi per la na-
scita della vera e propria società industriale in Europa e altrove: di fatto il capitalismo portò a un ri-
baltamento delle antiche concezioni verso delle nuove come il perseguimento del profitto ed il valo-
re del capitale, e quindi alla razionalizzazione della vita economica in senso individualistico.

Come già detto, ad un determinato livello tecnologico-scientifico, le risorse a disposizione stabili-


scono il limite superiore della popolazione e dei risultati economici da essa conseguibili. Un'ulterio-
re crescita demografica è possibile (e quindi sostenibile nel tempo) solo se si sviluppano nuovi li-
velli tecnologici. Se non si raggiunge questo progresso nella tecnica, in un'economia di mercato si
andrà incontro al cosiddetto “fenomeno dei rendimenti decrescenti” (trappola malthusiana): poiché
la popolazione cresce con progressione geometrica, mentre le risorse necessarie per sostenerla au-
mentano con progressione aritmetica, si andrà in contro a periodi in cui le risorse risulteranno scarse
rispetto ai bisogni della popolazione, e quindi ad un aumento della mortalità (dovuto a guerre, care-
stie, epidemie) che riporterà la popolazione al livello precedente, e così via; a causa di questa “trap-
pola malthusiana” ci sarà quindi un sostanziale equilibrio demografico (con picchi del 30% al mas-
simo) nella popolazione europea tra il 1300 e il 1700.
2. Agricoltura e sistema curtense

Nelle società preindustriali l'agricoltura ha un'importanza fondamentale nell'economia e in generale


nell'approvvigionamento delle risorse. La sua stabilità è però influenzata dai fattori della popolazio-
ne (nel rapporto con la quantità di risorse prodotta), dell'estensione della superficie agraria disponi-
bile nonché dalla quantità di bestiame (sia attivamente, come consumatore di risorse, sia passiva-
mente, nell'aiuto dato al lavoro agricolo).
In generale, si può dire che i tre principali ecosistemi agrari del passato fossero:
• agricoltura discontinua (o sistema del debbio);
Caratteristica di popolazioni con popolazione poco densa (ad esempio i popoli nordici), è
basata sulla coltivazione degli appezzamenti fin quando hanno rendite abbastanza alte da
soddisfare la popolazione: nel momento in cui la fertilità viene meno, si abbandonano gli
appezzamenti coltivati, si disboscano quelli vicini col fuoco fin quando anche la loro ferti-
lità comincia a calare e così via.
• agricoltura idraulica;
E' il tipo di agricoltura caratteristico, ad esempio, dell'agricoltura dell'antico Egitto, delle
risaie lombarde o delle Fiandre: consiste nella coltivazione di terre che periodicamente
vengono allagate per cause generalmente naturali (esondazioni, piogge stagionali) e che
quindi hanno la possibilità di essere rifertilizzate con periodicità fissa senza l'apporto di la-
voro umano.
• agricoltura asciutta/aridocultura (o sistema del maggese).
Sistema tipico dell'agricoltura europea (dove la popolazione non era così poco densa e la
rete idrografica non era così ramificata da consentire una continua irrigazione), l'agricoltu-
ra asciutta garantiva la fertilità del terreno grazie alle normali piogge, alla concimazione e
all'interruzione temporanea delle coltivazioni. Quest'ultimo espediente, sviluppatosi nei se-
coli, era definito sistema del maggese, e il modo in cui essa si alterna con le altre colture
“rotazione”, che poteva essere biennale, triennale o quadriennale, a seconda dei tipi di col-
ture praticati dal contadino nel proprio appezzamento.

Nel tempo, lo stato dei soggetti che coltivavano le terra si era evoluto da quello di servus o prae-
bendarius (non libero, ma di proprietà fisica di un altro individuo) a quello di servo casato, o servo
della gleba (giuridicamente libero, ma legato per vivere alla terra coltivata e al proprietario di essa):
quest'ultimo era il rapporto tipico del sistema curtense.
Da non confondersi col sistema feudale (basato sul rapporto di vassallaggio fra uomini liberi – nobi-
li proprietari terrieri –, per cui il più potente forniva protezione in cambio di fedeltà militare), il si-
stema curtense era un sistema di dominio e sfruttamento della terra, e quindi di comando militare,
basato sul sistema di interessi economici del signore proprietario (su uomini e terre) e di interessi
politici (di natura militare e giudiziaria).

A causa della varietà dei rapporti che si sono sviluppati sotto il nome di sistema curtense/servitù
della gleba, si può dire in generale che esso era un impianto amministrativo costituito dalla terra,
dagli edifici e dalle persone che abitavano la prima e vivevano nei secondi. Dal punto di vista fun -
zionale, la terra era distribuita in arativo, pascolo e prato, bosco, foresta e terreno incolto; dal punto
di vista legale prevedeva una pars dominica (appartenente al signore, che comprendeva solitamente
gli appezzamenti migliori) e una pars massaricia (composta da piccoli poderi di estensione necessa-
ria a soddisfare i bisogni di una famiglia, affidata secondo vari rapporti di lavoro che prevedevano
quasi sempre la presenza di corvées – servizi – dovute al signore gratuitamente).
La comunità rurale di base a cui si riferiva il sistema curtense era il villaggio (curtis), abitato da
contadini con terre nei dintorni, piccoli artigiani, professionisti, parroco. Le terre intorno al villag-
gio potevano essere di due tipi: open/enclosed fields (i primi riferibili a enti religiosi o allo stato e i
secondi a privati o proprietari terrieri) e common lands (riferibili solitamente al demanio, erano di-
vise in poderi gestiti dai vari contadini secondo le decisioni prese dalla comunità o utilizzate per il
pascolo e la caccia).
E' esagerato comunque parlare del sistema curtense come un sistema chiuso: pur basandosi su un
misto di cooperazione e coercizione senza spazio di iniziativa individuale non vuol dire che il com-
mercio non fosse presente, sia all'interno della curtis che tra le curtis. Esso rappresentava comunque
una mera integrazione dell'attività (fondamentalmente agricola, come si è visto) del villaggio.

Dal dodicesimo secolo circa, le caratteristiche del sistema agricolo andarono migliorando anche
grazie all'incremento demografico. In particolare l'efficienza dell'agricoltura e quindi la disponibilità
di prodotti aumentarono per via di:
• aumento della superficie coltivabile;
• aumento della produttività della terra;
• aumento della produttività del lavoro.
Dal punto di vista dell'estensione della superficie coltivabile, congiuntamente all'incremento demo-
grafico che si verificò in Europa dall'anno Mille, ci fu la necessità di colonizzare nuove terre (all'ini-
zio come movimento spontaneo di cittadini isolati, quindi come processo collettivo coordinato) e si
provvide quindi al dissodamento di terreni incolti e di boschi e alla bonifica di paludi.
Dal punto di vista della produttività della terra, il cambiamento fondamentale (che tuttavia si diffuse
lentamente e in modo non omogeneo) fu il passaggio progressivo dalla rotazione biennale a quella
triennale (raramente quadriennale), che forniva due raccolti ogni tre anni e permetteva di ammortiz-
zare il rischio di carestie in tempi di situazioni climatiche sfavorevoli. Anche grazie all'adozione
della rotazione triennale, non ci sono in realtà statistiche che testimoniano un aumento del rendi-
mento cerealicolo di particolare rilievo per tutto il pieno e basso medioevo.
Dal punto di vista della produttività del lavoro, infine, furono messe in pratica, anche se come sem-
pre in modo lento e graduale, tutta una serie di piccole innovazioni tecniche che col tempo contri-
buirono a determinare l'evoluzione sostanziale dell'agricoltura e dell'economia del settore.
Tra queste, sono degne di nota:
• il passaggio dall'aratro leggero (di tradizione mediterranea, adatto a suoli friabili che non ri-
chiedevano lavoro di aratura profondo) all'aratro pesante nelle zone dell'Europa centro-
settentrionale, più complesso ed adatto a terreni pesanti ed argillosi grazie alla presenza di
ruote e componenti in ferro (vomere asimmetrico, versoio);
• la sostituzione al bue del cavallo (più costoso ma più efficiente grazie ai nuovi sistemi di fer-
ratura degli zoccoli e al collare a spalla) per il lavoro di tiro;
• l'uso crescente di attrezzi in ferro, come la zappa, la vanga, la falce lunga, ecc.;
• l'adozione di fonti di energia naturali come l'acqua e il vento per i mulini, che sostituirono l'e -
nergia umana (o tuttalpiù animale) dapprima nei lavori di macina del grano, quindi anche nel-
la produzione manifatturiera (lavorazione del ferro e produzione tessile).

3. Dal declino delle città all'Urbanesimo

Dal IV secolo, la causa della progressiva organizzazione dei territori in curtis fu soprattutto la fine
dell'impero romano e la conseguente decadenza delle città ad esso collegate. Fino al VIII secolo in-
fatti la maggior parte delle città romane cominciarono a spopolarsi mentre altre ridussero la propria
popolazione in gran numero: da questo nacque il fenomeno delle “città retratte”, spesso governate
dall'amministrazione ecclesiastica della diocesi di riferimento, con suscettibili differenze.
Nel Nord-Europa, infatti, la presenza romana era stata storicamente minore o ininfluente, per cui
l'organizzazione delle città era pressoché scomparsa nell'Alto Medioevo, le diocesi erano troppo
grandi da amministrare e le campagne avevano una forte autonomia, mentre nell'Europa Meridiona-
le le città continuarono ad esistere anche se ridimensionate, le diocesi erano più piccole e quindi le
campagne potevano essere controllate dai centri cittadini.
Dal punto di vista economico, politico e culturale, tuttavia, il ruolo delle città rimase per molto tem-
po insignificante: in esse infatti c'era uno scarso uso della moneta (a causa anche delle piccole for-
me di commercio e artigianato presenti), inoltre i centri del potere politico e della cultura erano di-
ventati i castelli imperiali e della feudalità più alta.

La situazione in Europa cominciò a cambiare solo tra il decimo e l'undicesimo secolo, in cui si assi -
stette alla nascita di nuovi centri e al ripopolamento di quelli antichi: il dibattito degli storici ha in-
dividuato come cause di questa rinascita delle città da una parte nella rivoluzione commerciale a cui
si assistette in questo periodo, dall'altra nel progressivo inurbamento delle popolazioni rurali attratte
dalle città e afflitte dalla miseria della campagna.
A causa delle differenze storiche di base e dello sviluppo differenziato non esiste tuttavia un model-
lo tipico di città medievale: esse avevano in varie forme funzioni amministrative, giudiziarie, reli-
giose, militari e politiche, e un'influenza sulle campagne differente di caso in caso; divennero però,
in breve tempo, i centri preferenziali dell'attività manifatturiera e commerciale. A suggellare il na-
scente fenomeno dell'Urbanesimo fu simbolicamente la costruzione in tutti i maggiori centri di
mura cittadine con funzione di difesa dagli attacchi esterni e di divisione amministrativa dalle cam-
pagne.
Per la prima volta però si assistette al coinvolgimento dei borghi cittadini all'interno delle mura: era
questa una novità dal punto di vista amministrativo, ma soprattutto sociale. Grazie alla protezione e
allo sviluppo delle città, infatti, nacquero nuove professioni artigiane (con nuove botteghe) e com-
merciali (con l'espansione dei mercati). Insieme a nuovi organi di governo nacquero quindi dal XI
secolo forme particolari di associazionismo per cui artigiani o commercianti si riunivano in corpora-
zioni (arti, gilde o hanse) a difesa degli interessi collettivi che li accomunavano.

I Comuni furono invece la novità fondamentale dal punto di vista governativo. Nacquero (e si diffu-
sero endemicamente soprattutto in Italia) come accordi tra privati che mettevano in comune una se-
rie di diritti, strappandoli all'autorità originaria (che poteva essere, a seconda dei casi, il feudatario,
il vescovo, ecc.) e ottenevano così autonomia giudiziaria, amministrativa, e finanziaria.
Gli organi di potere principali dei Comuni erano sommariamente:
• i Consoli;
In origine magistrature provvisorie formate da persone fidate destinate a risolvere problemi
contingenti, che si fecero col tempo stabili, al fine di assumere decisioni politiche rilevanti
e mantenere la pace interna.
• il Parlamento.
Poteva avere varie denominazioni ma in ogni caso era l'organo fondamentale della vita dei
Comuni dove si riunivano gli uomini (o le rappresentanze) che godevano di diritti urbani.
La rappresentanza politica, in ogni modo, era garantita comunque al massimo per non più del 20-
25% della popolazione (uomini liberi, nobili, proprietari, ecc.).
Diversi erano inoltre i modi attraverso i quali le città potevano conseguire la propria autonomia:
nell'Europa Nord-Occidentale, ad esempio, il passaggio del potere dal re o dal vescovo avveniva at-
traverso carte di franchigia e le città avevano scarso rapporto con la campagna (erano – appunto –
città più “borghesi”, ovvero città formate più che altro su una necessità di tipo manifatturiero e
commerciale, e come tali prestavano attenzione e tutela soprattutto verso queste attività), mentre in
Italia, ad esempio, l'autonomia delle città del Sud era piuttosto bassa, al Centro-Nord invece le città
avevano avuto uno sviluppo legato fortemente al ruolo delle famiglie nobili e dei proprietari terrieri
dei vari territori.

4. La rivoluzione commerciale

A partire dal XI secolo l'Europa fu teatro di grandi cambiamenti nelle pratiche e nell'intensità del
commercio tali da costituire una vera e propria rivoluzione rispetto alla situazione preesistente.
Nel suo saggio “Maometto e Carlomagno” (1937), lo storico Henri Pirenne attribuisce una grande
importanza ai fini dello sviluppo del commercio europeo e della stessa “nascita dell'Europa” alla ce-
sura profonda che si ebbe tra il mondo occidentale e quello islamico a partire dalle invasioni del VII
secolo. Secondo Pirenne, infatti, le contese tra vicino oriente bizantino e Europa cristiani da una
parte, e sud islamico dall'altra determinarono il blocco sostanziale delle attività commerciali nel
Mediterraneo (che fino ad allora era stato un mare unito dai romani e prospero di commerci): questo
ultimo era infatti diventato un “lago islamico”, e l'Occidente fu costretto per lungo tempo a vivere
su se stesso.
Alla tesi classica di Pirenne si contrapposero nel tempo le tesi successive di Roberto Sabatino Lo-
pez (1943) e di Maurice Lombard (1947): il primo negava l'importanza fondamentale delle invasio-
ni barbare rispetto al blocco del Mediterraneo, ma attribuiva il rarefarsi dei commerci ad altre cause;
d'altra parte, Lombard andò oltre, sentenziando che l'arrivo dell'Impero Ottomano nel Mediterraneo
creò invece condizioni favorevoli alla ripresa dei commerci dopo il periodo di stagnazione della fine
dell'Impero Romano. La sua tesi era sostenuta dalle dinamiche commerciali tra Occidente e Oriente
fino a quel periodo. L'Occidente, infatti, aveva per lungo tempo pagato in oro le merci importate dai
territori extraeuropei e alla lunga questo aveva significato un impoverimento del continente del me-
tallo prezioso, che si era tesaurizzato al contrario in Siria ed Egitto: l'effetto delle conquiste arabe fu
quindi quello di rimettere in circolazione grandi quantità d'oro sottraendole così al tesoreggiamento
e creando così una triangolazione che fu capace di rianimare gli scambi tra le due macro-aree.

Si può dire ancora con più correttezza che l'oro ritrasferito dagli islamici non fu il maggiore respon-
sabile della ripresa con maggiore intensità dei commerci, ma senza dubbio fu un'altra delle cause
che si unì alle condizioni che si andavano sviluppando in Europa e che portarono alla vera e propria
rivoluzione commerciale del Medioevo.
Come abbiamo visto infatti era questo il periodo in cui si vedevano gli effetti dell'aumento demo-
grafico e del nascere ed emergere di una classe mercantile urbana grazie alla quale si riuscì a soppe-
rire ai bisogni di una popolazione in crescita e sviluppo: a poco a poco, quindi, per incoraggiare i
commerci, da una parte i poteri pubblici avevano cominciato ad occuparsi di nuovo dei collegamen-
ti e delle reti stradali (a volte creandone di nuove a volte ristrutturando quelle vecchie di matrice ro-
mana, se presenti), dall'altra la presenza stessa in Europa di grandi fiumi navigabili (che la percorre-
vano verticalmente come il Reno, la Senna, l'Elba e il Rodano, o orizzontalmente come il Danubio,
il Tago, la Loira e non ultimo il Po) e la necessità di comunicazione con l'esterno portarono a tutta
una serie di innovazioni nelle tecniche marittime e fluviali, di struttura portuale, e nella costruzione
delle imbarcazioni che furono capaci in breve tempo di fornire la base pratica per il commercio.
I settori che parteciparono a questo sviluppo furono quindi quelli delle manifatture tessili e delle co-
struzioni edili, che ebbero come veicoli portanti il commercio locale e internazionale (di prodotti
alimentari, tessili, spezie) e il nascente settore finanziario.

L'articolazione del commercio internazionale all'interno dell'Europa si snodava tre zone principali:
• Scandinavia ed Europa Nord-Occidentale (Inghilterra, paesi baltici e territori tedeschi);
• Italia mediterranea (centri portuali storici di Amalfi, Venezia, Messina, Napoli, …);
• Andalusia e area catalana.
La zona del Mare del Nord e del Mar Baltico avevano un'importanza tale per quei luoghi da poter
essere avvicendata a quella del Mediterraneo per le città portuali italiane. Lo sviluppo del commer-
cio in questa zona dal dodicesimo secolo partì fortemente dall'iniziativa dei mercanti tedeschi (riu-
nitisi corporativamente nella Lega Anseatica a discapito dei mercanti scandinavi) che pose le basi
per lo sviluppo di attività trainanti e caratteristiche come le attività minerarie e metallurgiche e la
formazione di un surplus agricolo in Europa Orientale, nonché un'ulteriore espansione verso est
(nell'area di Lubecca e Riga).
Nell'area del Mediterraneo invece erano le repubbliche marinare ad avere il controllo dei mercati,
svolgendo di fatto il ruolo di punto di contatto tra il Vicino Oriente progredito (e quindi il mondo
arabo) e l'Europa ancora economicamente arretrata. Le principali repubbliche marittime erano:
• Amalfi, centro commerciale di antico sviluppo (precedente al Mille), che fu però affossata
dalla conquista normanna del 1073 e da cui mai si riprese;
• Venezia, il centro del commercio più avanzato nell'Adriatico, la cui potenza aumentò di molto
dal 1082, quando ottenne privilegi commerciali da parte dell'imperatore di Bisanzio e divenne
il principale attore del commercio Oriente-Occidente: scambiava infatti beni di lusso orientali
con merci pesanti di provenienza europea;
• Genova e Pisa, affacciatesi sulla scena internazionale solo grazie al saccheggio di basi sarace-
ne in Corsica e Africa settentrionale, agirono spesso di comune accordo e seguirono Venezia
nello sviluppo grazie ai privilegi che anch'esse avevano ottenuto prima in cambio dell'abban-
dono dei territori conquistati agli arabi, poi dai bizantini.

Un ruolo importante (anche se non fondamentale) nella svolta dell'economia europea fu quello rico-
perto dalle crociate: anche se gli stati europei e l'Impero Ottomano avevano già avuto scontri vio-
lenti precedentemente (come la conquista normanna della Sicilia o la Reconquista in Spagna), le
Crociate (dalla prima, indetta da Papa Urbano II in aiuto dell'imperatore bizantino Alessio Comne-
no, in poi) portarono a grandi vantaggi dal punto di vista economico per le città marittime italiane
che avevano prestato aiuto a Bisanzio con la nascita di numerosi Stati crociati d'Oltremare e la con-
cessione di piazzeforti e privilegi commerciali (ad esempio il non pagamento di dazi a cui erano in-
vece soggetti gli altri mercanti). Particolarmente importante fu la quarta Crociata, indetta da Papa
Innocenzo III nel 1198, il cui successo significò per Venezia (che aveva finanziato ingentemente la
spedizione) il guadagno di ben 3/8 dell'impero di Costantinopoli con conseguenti benefici nel com-
mercio e nell'apertura alla navigazione del Mar Nero.

La conseguenza della nuova espansione del commercio navale fu quella di intensificare anche il
commercio nell'entroterra: dall'Italia, dalla Provenza e dalla Catalogna (le zone che erano state di-
rettamente interessate dal commercio marittimo) questa nuova ondata di commercio si diffuse quin-
di nella Pianura Padana e in tutto il Centro-Nord Italia, dalle Alpi alla Francia meridionale e centra-
le, in tutta la Catalogna e la Spagna riconquistata, nonché nel nascente polo commerciale dei Paesi
Bassi meridionali, il cui fiore all'occhiello era la produzione tessile specializzata sull'utilizzo di lane
inglesi di qualità: in quest'ultima zona rivestirà sempre più importanza col tempo il porto di Bruges.
Il Mediterraneo, come già visto, era il forte punto di contatto con l'Oriente islamico e non: allo stes-
so modo le merci che vi passavano in entrata erano spezie, sete grezze, cotone e stoffe di pregio,
cuoio, pellicce, cera, grano, allume e non ultimi gli schiavi: tutta merce dall'elevato valore aggiunto,
rispetto anche ai prodotti che dal Mediterraneo uscivano verso i mercati esterni, ovvero panni e tele
(dall'Italia e dalle Fiandre), metalli, olio e vini; le piazze di riferimento, oltre alle città marinare ita -
liane, erano soprattutto Alessandria per gli scali marittimi e Bagdad per quelli terrestri. Il mercato
dell'area Settentrionale (Paesi Bassi, ma anche Inghilterra e Scandinavia) accoglieva invece merci
più generalmente europee (o tuttalpiù baltiche e russe): i mercanti anseatici, che la fecero per molto
tempo da padroni, in quest'area commerciavano legnami scandinavi, cereali, cuoio e pellami, ma
anche ferro, sale e pesce salato.
Le due aree commerciali del Sud e del Nord erano collegate lungo un itinerario terrestre che dal
Mediterraneo attraversava i valichi alpini per seguire la via di Marsiglia e il corso del Rodano per
scambiarsi con le merci provenienti dal Nord in dei luoghi strategici ben precisi: le fiere della
Champagne. Animate soprattutto da mercanti italiani e provenzali, le fiere della Champagne si svol-
gevano in quattro località nella Francia Settentrionale (Lagny-sur-Marne, Troyes, Bar-sur-Aube e
Provins, non distanti da Parigi e più o meno a metà strada tra i due poli del commercio) che per la
loro organizzazione ineccepibile con grandi servizi per i mercanti (si parla di funzionari stipendiati
che controllavano che gli scambi si svolgessero correttamente, ospedali attrezzati sulla strada per i
mercanti in viaggio, centri di cambia-valute) divennero ben presto un centro veramente florido del-
l'attività commerciale, attivo complessivamente nove mesi all'anno e da cui passava ogni specie di
merce: dalle spezie ai prodotti alimentari, ma la cui specializzazione era il commercio dei tessuti.

Accanto alle già citate migliorie apportate nelle vie terrestri e praticate per le vie marinare sono de-
gne di nota anche molte piccole innovazioni nelle pratiche commerciali e dei trasporti che contribui-
rono a determinare la rivoluzione commerciale. Dal punto di vista della navigazione, tra la fine del
1200 e l'inizio del 1300 si diffusero alcuni utili strumenti rimasti, per la loro importanza, alla base
del mestiere nautico per cui addirittura si parla di una “rivoluzione nautica” parallela ma coordinata
con la rivoluzione commerciale. E' questo infatti il periodo in cui nel Mediterraneo e oltre si diffon-
de l'uso della bussola e della clessidra, nascono le tavole trigonometriche per la navigazione e si co -
minciano a produrre anche le prime carte nautiche attendibili; ancora, oltre alle nuove tecniche di
costruzione di imbarcazioni (vela triangolare, timone posteriore centrale – “dritta di poppa”, miglio-
rie alla capienza, alla gestibilità, …), i mercanti e i navigatori cominciarono ad utilizzare anche i co-
siddetti “portolani”, ossia mappe che riportavano tutti i porti in cui si poteva attraccare nel tragitto.

La rivoluzione commerciale, in un paio di secoli, fu anche la portatrice di numerosi cambiamenti


nei rapporti economici e nella cultura economica stessa. Da una parte infatti si videro innovazioni
prettamente pratiche – anche se comunque importanti – come la differenziazione dei noli sulle im-
barcazioni (che adesso venivano affittate non più in base al volume della merce trasportata ma in
base alla grandezza della nave) e la diffusione di manuali pratici di mercatura e d'abaco (i primi
contenenti informazioni sulle piazze commerciali, le merci ivi scambiate, sulla moneta, gli usi com-
merciali, ecc.; i secondi la conoscenza più o meno basilare della matematica commerciale dell'epo-
ca), dall'altra si verificarono veri e propri cambiamenti sostanziali nel pensiero economico: da un'e-
conomia tesoreggiatrice e di sussistenza, si stava infatti passando alla trasformazione degli utili
conseguiti in investimento tramite nuovi istituti in grado di convogliare i risparmi a scopi produttivi,
e la nascita di una vera e propria visione economica-imprenditoriale degli affari e dell'azienda.
Sull'onda di questi cambiamenti notevoli furono anche i progressi nell'organizzazione aziendale. Si
sviluppavano parallelamente due scuole aziendali a seconda dei luoghi:
• la commenda, tipica delle città marinare italiane, era basata sull'apporto di capitali da parte di
un soggetto finanziatore che non si muoveva dalla propria città a un altro soggetto che svolge-
va l'attività mercantile classica in viaggio; al termine dell'operazione generalmente l'accordo
terminava (non erano quindi compagnie stabili). La collegantia di Venezia e la societas maris
genovese permettevano inoltre la possibilità che il viaggiatore apportasse finanziamento;
• la compagnia, più diffusa nell'entroterra europeo, si fondava sull'accordo tra più soci che co-
stituivano un capitale iniziale, si ripartivano gli utili della loro attività proporzionalmente al
capitale apportato in costituzione e avevano una responsabilità legale solidale e illimitata: si
tende a guardare alla compagnia come alla struttura anticipatrice delle odierne società in
nome collettivo.

Si svilupparono, quindi, anche meccanismi, strutture e istituti che diventeranno fondamentali nel
commercio: per dare maggiore sicurezza all'attività mercantile, ad esempio, nacquero e si diffusero
gli istituti assicurativi, che in breve tempo diventarono da semplici mezzi di garanzia a fonte diretta
di profitto; nella struttura aziendale inoltre col tempo e con gli errori dei più sfortunati ci si accorse
che non era conveniente mantenere il modello di azienda unica indivisa con delegati in tutta Europa,
ma si elaborarono ovunque modelli organizzativi di sistemi di aziende simili alle moderne holding,
con stretti legami di interdipendenza ma giuridicamente autonome e separate: la succursale di una
famiglia di mercanti fiorentina, ad esempio, non era più composta da un ramo appartenente all'a-
zienda stessa, ma gli operatori, i mercanti e i fattori di stanza a Bruges o nella Champagne, pur es-
sendo ovviamente legati all'azienda originaria, non facevano più parte giuridicamente dell'azienda
con sede a Firenze.
Al fine di controllare in modo più efficiente possibile l'attività gestionale dell'azienda, inoltre, fu
sempre nel periodo della rivoluzione commerciale che si resero necessario strumenti contabili in
grado di fornire in ogni momento una valutazione esatta della ricchezza dell'azienda e dei risultati di
ogni operazione: l'introduzione nelle pratiche commerciali del sistema della partita doppia fu ap-
punto una di queste grandi innovazioni.
5. La moneta e la nascita del credito

La moneta è lo strumento inventato dall'uomo al fine di misurare, conservare e trasferire il valore


necessario a concludere degli scambi commerciali: in misura generale, il credito può essere definito
come un allargamento dello scambio al di là di quanto sarebbe consentito dalla moneta circolante, e
l'accessibilità ad esso ha determinato nei secoli la presenza o meno delle risorse necessarie all'avvio
di una fase di crescita.

Nel Medioevo i parametri generali sulla purezza di una moneta erano il peso in libbre e la lega.
Quest'ultima era espressa (e lo è tutt'ora), nel caso dell'oro, in carati, mentre, per quanto riguarda
l'argento, era espressa in denari (grani) per oncia. L'importanza dell'argento in Europa fu cardinale
per un lungo periodo: tra il 781 e 795, infatti, venne varata e fatta applicare in tutto il Sacro Romano
Impero la riforma monetaria carolingia, che regolamentava ordinatamente la disciplina monetaria e
prevedeva la presenza di un solo tipo di moneta in argento – da qui la definizione di monometalli-
smo argenteo – , il denaro, ottenuta coniando 240 monete da un quantitativo iniziale di una libbra
d'argento di lega 950/1000. Anche se non coniate, in ogni modo, erano previste ed usate come mo-
nete di conto il soldo (12 denari) e la lira (20 soldi, ovvero 240 denari).
Dall'anno Mille in poi, anche a causa dell'aumento demografico, ci fu un massiccio aumento della
domanda di moneta che portò in breve tempo al fiorire in Europa di nuove zecche: con lo sfalda-
mento dell'impero carolingio, le zecche, nei vari distretti, iniziarono però a produrre denari con per-
centuale di argento più bassa, o di minore qualità (e quindi con minore potere d'acquisto). A lungo
andare questo provocò un processo di svalutazione della moneta che accelerava, mentre all'aumen-
tare delle differenti coniazioni divenne indispensabile la presenza in ogni piazza commerciale di ri-
lievo dei campsores, ovvero i cambiavalute: la svalutazione era dovuta principalmente a politiche
monetarie nazionali (ad esempio nell'aumento della quantità di moneta in circolazione) e al fenome-
no del “signoraggio” della moneta effettuato dalle zecche (secondo la formula M = P + C + S, dove
M rappresenta l'ammontare di moneta coniata con il metallo portato in zecca, P l'ammontare di mo-
neta consegnata, C i costi della lavorazione e S – appunto – il signoraggio).

Degni di nota sono alcuni cambiamenti nella diffusione e nell'utilizzo della moneta che si sono veri-
ficati tra il XII sec. e il XIII sec.:
• intorno al 1200 le zecche iniziarono a coniare monete più grosse (da cui, banalmente, il nome
“grosso”) in contrapposizione ai vecchi denari “piccioli”, e monete multiple del denaro: nac-
quero così la treina, il quattrino, il grosso da un soldo, da due soldi, ecc.;
• per tutto questo periodo si verificò un aumento della produzione mineraria di argento per la
necessità di tenere testa alle richieste sempre più larghe del mercato;
• nel 1252, Genova e Firenze cominciarono a produrre monete proprie in oro (ovvero il genovi-
no e il fiorino) e si ritornò così al bimetallismo aureo e argenteo: progressivamente le due città
furono seguite anche da Lucca, Milano, Stato Vaticano, ecc.;

Il credito si sviluppò quindi in Europa dapprima sotto le forme contrattuali di mutuo o censo, quin-
di, frenato dalla chiesa che condannava il prestito a interesse (e quindi inizialmente anche dagli or-
dinamenti giuridici che ad essa si rifacevano) si diffuse principalmente sotto mascherando gli inte-
ressi di credito dietro ad operazioni di cambio. Sotto la spinta irrefrenabile del mercato (che aveva
largo bisogno di questo strumento finanziario in crescita), in ogni modo, riuscì ad avere una larga
diffusione grazie all'utilizzo della cambiale tratta: questo titolo, pur nelle sue varie forme a seconda
dei casi, rimase a lungo lo strumento finanziario più usato dagli operatori del passato.
Da cambiavalute e proprietari terrieri, quindi, i soggetti alla base del meccanismo creditizio diven-
nero quindi i mercanti-banchieri. Senza dubbio i pionieri di quest'attività furono i commercianti ita-
liani (conosciuti nelle piazze Europee con il medesimo nome di “Lombardi”), che praticavano l'atti-
vità bancaria essenzialmente come estensione di quella mercantile effettuando prestiti ad altri mer-
canti o artigiani ed avevano gran bisogno degli strumenti creditizi per meglio concludere le proprie
trattative a lunga distanza con ingenti capitali che non sempre avevano a disposizione sul momento
a causa del loro continuo alternare il possesso di merci (immobilizzi) e liquidità: per questo motivo
l'attività creditizia trovò largo spazio a Genova come a Firenze e a Venezia.

La progressiva riduzione della quantità di moneta in rapporto alla mole degli scambi portò però
l'Europa del XIV secolo a una seria crisi deflattiva che portò alla caduta dei prezzi delle merci e
quindi alla diminuzione dei tassi di profitto delle aziende e all'aumento dei tassi di interesse per le
stesse. La critica storica ha individuato le cause di tale crisi in vari fattori tutti più o meno legati:
alla caduta della produzione mineraria e quindi alla diminuzione della quantità di monete coniate si
accompagnò come risultato dei commerci il deflusso di grandi quantità di metalli preziosi verso
Oriente, portando così alla crescita del valore dei metalli preziosi (secondo la legge di Gresham).
Anche per questo il credito divenne fondamentale nell'economia europea, e nacquero nuovi stru-
menti bancari (anche più semplici rispetto ai macchinosi sistemi del passato) al fine di aumentare la
produttività delle aziende e contemporaneamente ridurre i costi del sistema dei pagamenti e dello
spostamento della moneta. Accanto alla già citata cambiale tratta (o girata cambiaria), si svilupparo-
no così le formule di credito d'esercizio, conto corrente bancario, ordine scritto (precursore dell'as-
segno bancario), si affermò l'uso della moneta scritturale, e della lettera di cambio: quest'ultima ad
esempio rendeva molto più semplici e veloci i trasferimenti di denaro da una città all'altra senza bi-
sogno di trasferimento fisico. Il suo funzionamento era infatti basato su un doppio rapporto tra un
soggetto datore della somma, il beneficiario e il prenditore:
1. il datore consegnava la somma al prenditore operatore di una filiale bancaria nella prima città
che aveva una società collegata nella città del beneficiario; il prenditore dava quindi la lettera
di cambio al datore e spediva una lettera con istruzioni al trattario nella seconda città;
2. il datore spediva la lettera di cambio ed una sua lettera con istruzioni al beneficiario della sua
somma di denaro che si recava quindi dal trattario con la lettera di cambio e riceveva il paga-
mento della somma che gli era dovuta da parte di quest'ultimo.

6. Il settore secondario

Indifferentemente dal momento storico, i fattori che condizionano livelli e produzione del settore
secondario nelle sue varie forme sono la popolazione, in base alla mera considerazione del livello
demografico, ma anche ai caratteri della preparazione ecc.; le materie prime e i fattori produttivi,
nei vari aspetti della loro disponibilità e accessibilità, e il livello di tecnologia e tecniche di trasfor-
mazione impiegate nella produzione. In base ai rapporti fra questi elementi, si possono individuare
tre tipologie cardinali di industria a cui rispondeva anche la produzione del Medioevo: l'artigianato,
l'industria domestica (o decentrata, a domicilio, disseminata: un raggruppamento identico per indi-
care molte varianti ma con piccoli cambiamenti) e l'industria capitalistica (nel senso contemporaneo
di manifattura centralizzata e razionale). Le differenza tra queste forme di produzione avevano ma-
trice istituzionale, economica e tecnica: si basavano, infatti, sulla relazione tra titolare dell'attività e
lavoratori, sui diritti di proprietà dei mezzi utilizzati per la produzione, sulla disposizione spaziale e
l'ubicazione dell'azienda, nonché sulle tecniche utilizzate nel processo.
Nella maggior parte dei casi l'attività produttiva era svolta dai membri di una famiglia per far fronte
ai bisogni che non riuscivano a soddisfare con l'attività contadina: in questo senso, si può dire che
nel Medioevo e per tutta l'età moderna spesso l'unità di produzione del mercato coincideva con l'u-
nità consumatrice.

La forma produttiva dell'artigianato rappresenta quella forma di azienda individuale in cui il titolare
dell'azienda svolge materialmente – del tutto o in parte – il processo produttivo; in suo aiuto parteci-
pano un numero limitato di lavoratori e l'intera trasformazione avviene grazie a strumenti manuali.
L'attività artigianale rimase presente nei borghi cittadini dalla caduta dell'Impero Romano, ma già
dal Mille ci fu una sostanziale rinascita di questo settore che andò incontro a una relativa specializ-
zazione nei maggiori centri e (praticamente ovunque) a un'organizzazione territoriale secondo ordi-
namenti professionali.
Le corporazioni (chiamate talvolta anche arti, gilde, ecc.) erano appunto associazioni pubbliche
composte da pari in cui si riunivano i liberi artigiani che attendevano a una stessa fase del processo
di lavorazione di una materia o svolgevano la stessa professione: di fatto i singoli bottegai compri-
mevano in una certa misura la loro libertà e autonomia ai fini di prestarsi mutuo soccorso in caso di
necessità ma soprattutto tutelare gli interessi economici collettivi ed ottenere un maggiore riconosci-
mento nell'organizzazione cittadina. Rientrando nell'organizzazione corporativa, infatti aveva alcuni
obblighi particolari, come quello di svolgere la propria attività in una bottega accessibile ai compra-
tori e ai rappresentanti dell'Arte, o quello di organizzare la sua manovalanza secondo criteri definiti.
Si diffuse così la struttura gerarchica che sarà tipica dell'attività artigianale per lungo tempo: ad at-
tendere alla direzione e allo svolgimento stesso del processo stava il maestro artigiano che aveva
aderito alla corporazione; quindi il maestro poteva accogliere nella sua bottega un giovane appren-
dista a cui, col tempo, insegnava il mestiere, e che poteva quindi dopo un certo periodo aprire una
propria bottega; da ultimo venivano i lavoranti pagati dall'artigiano che svolgevano le mansioni
meno nobili di facchinaggio ed altro; in alcuni casi (per attività particolarmente complesse, ad
esempio l'edilizia), inoltre, poteva esistere un capomastro che dirigeva l'attività dei vari maestri.
L'organizzazione della corporazione avveniva inizialmente per accordi e consuetudini, più avanti,
però quasi tutte le corporazioni delle maggiori città europee stilarono degli “statuti delle Arti” che
regolamentavano le attività della corporazione: come già detto, prevedevano la reciproca solidarietà
fra gli iscritti, la loro uguaglianza e la difesa degli interessi comuni dalla concorrenza sia esterna
che interna (per esempio determinando in alcuni casi un numero massimo di iscritti all'arte), ma an-
che altri principi fondamentali come la definizione di comuni pratiche di culto e attività sociali non-
ché la determinazione del monopolio del mestiere. In breve tempo le corporazioni diventarono,
quindi, associazioni molto riconosciute dalle istituzioni cittadine e dal forte peso sul piano sociale e
contrattuale: un ruolo, complessivamente, che (con differenze a seconda dei vari territori) non ab-
bandoneranno a lungo fino al cambiamento delle situazioni commerciali in Europa.

La forma dell'industria disseminata può convivere con l'artigianato o rappresentarne, in alcune zone
geografiche un'evoluzione positiva, con la sostanziale differenza che viene meno, la compresenza
nella stessa persona delle funzioni di imprenditore, lavoratore e (anche se in misura minore nel caso
dell'artigiano) mercante.
Sebbene siano esistite varie sottospecie di questo tipo di industria (da cui si ricavavano più che altro
prodotti tessili e di abbigliamento), il meccanismo generale può essere ricondotto al modello del
verlag system, un sistema di origine olandese con un funzionamento articolato in più fasi e sezioni:
1. il titolare dell'attività (verlager) è l'organizzatore della produzione e (innovativamente) anche
il successivo commercio dei prodotti finiti; è oltretutto proprietario della materia prima, dei
prodotti che vengono realizzati e spesso anche dei mezzi di produzione degli stessi;
2. la manodopera è dapprima sia urbana che rurale, ma a lungo andare sempre più contadina:
l'attività viene quindi svolta a domicilio dalla popolazione rurale che abbina l'attività agricola
a quella rurale.
Di fatto, l'industria decentrata nacque come espansione del sistema basato essenzialmente sull'arti-
gianato che avvenne in seguito durante e oltre la rivoluzione commerciale, e che trova le sue cause
nella più vasta concorrenza che maturava nel periodo. In genere, il soggetto responsabile di una pro-
duzione disseminata poteva essere o un artigiano che nella sua pratica si era trovato a dare molta
importanza al ruolo di mercante ed esportatore della sua produzione o un mercante molto legato con
l'attività di esportazione dell'artigianato della sua zona: in entrambi i casi lo sviluppo rispetto al
semplice artigianato (come si vede) è quello di un forte legame con il mercato. Scavalcando la clas -
sica impostazione, quindi, il mercante esportatore organizza personalmente un ciclo produttivo, ma
per esigenze – appunto – concorrenziali si trova a scontrarsi con le norme corporative della profes-
sione a cui ha “rubato” la produzione: l'organizzazione del suo ciclo sarà quindi (con le differenze
del caso) simile a quella che si è mostrato sopra, con il mercante-imprenditore a capo della struttura
che delega la produzione ad esponenti della popolazione rurale.
Ma quali erano i motivi ed i vantaggi di produrre con un sistema tale? Ai produttori dei Paesi Bassi
e delle Fiandre, dall'Inghilterra e dall'Italia settentrionale (dove questa tecnica era più diffusa) face-
vano comodo la possibilità di eludere molte delle norme corporative che non consentivano salti
competitivi ai singoli artigiani cittadini (situazione che sarà responsabile, ad esempio, della progres-
siva decadenza – su larga scala – dell'artigianato dei comuni dell'Italia centrale), la possibilità di ri-
durre i costi, cosa difficilmente effettuabile in città, nonché la forte affinità che questo sistema ave-
va con il momento economico, che richiedeva rapidità, competitività, economicità. Da parte dei la-
voratori risultava comunque vantaggioso, poiché l'impiego nell'industria poteva essere un buon
mezzo per integrare gli introiti dell'attività contadina (che aveva rendite non sempre stabili ed ab-
bondanti), specialmente per chi aveva la possibilità di lavorare a cottimo senza grossi obblighi con-
trattuali.

Per concludere l'argomento, è necessario, quindi, riportare alcune delle innovazioni che si produsse-
ro nel campo della produzione industriale del settore tessile: queste nuove tecniche erano per lo più
piccole modifiche e miglioramenti, ma sommati insieme, in ogni modo, si rese possibile quell'au-
mento nella produzione e nella competitività del settore che lo portò ad essere uno dei settori trai -
nanti della crescite preindustriale. Questi miglioramenti nella tecnica, nel caso della lana (che in ge-
nerale dopo il quattordicesimo secolo non avrò grossi cambiamenti nei metodi quanto nei tipi di
prodotti realizzati), erano stati l'invenzione del telaio orizzontale e del filatoio a ruota, come le mo-
difiche nei processi di cardatura e follatura; nel caso del cotone (introdotto in Europa dal XI secolo)
la produzione con i fustagni; nel caso della seta l'invenzione di un torcitoio più efficace per un mer-
cato (pur destinato a fasce alte della popolazione) in crescita.
I fattori che contribuirono all'espansione del mercato tessile (ma soprattutto laniero) furono molte,
per lo più legate a caratteristiche stesse della sua produzione e del suo commercio: da una parte, in-
fatti, la razionalizzazione della produzione è facilmente effettuabile grazie ai processi di realizzazio-
ne divisibili in fasi specifiche ed integrabili fra unità produttive (con un uso di macchinari tutto
sommato semplici), dall'altra tessuti e capi d'abbigliamento, non essendo una merce particolarmente
pesante né voluminosa, avevano costi unitari per il trasporto piuttosto bassi, e l'ampia differenzia-
zione dei prodotti li rendeva protagonista di un mercato molto duttile e vario, con consumatori di
ogni tipo e classe sociale.

7. 1300-1400: La fine dell'espansione

Dalla prima metà del quattordicesimo secolo l'Europa fu colpita da una grave crisi che arrestò l'on-
data di sviluppo causata della rivoluzione commerciale e dalle innovazioni compiute nei settori
agricolo e industriale. Alla base di questa crisi ci furono tre fattori non difficilmente individuabili
nella storia.
Questi fattori erano:
• le crisi alimentari;
• le guerre diffuse e le crisi finanziarie;
• le epidemie (specialmente la peste);

Alla base della crisi alimentare stava una serie rapidissima di cattive annate (accusate già a fine '200
e che continuarono per gran parte del '300) che in breve misero in ginocchio la popolazione rurale,
da sempre legata ai prodotti del proprio lavoro (e quindi della terra) per vivere. Storici e climatologi
hanno individuato la causa di queste carestie diffuse in un fenomeno che è stato definito “piccola
glaciazione del '300”, che appunto fu responsabile di un generale abbassamento delle temperature
medie stagionali rovinando così molte delle culture praticate dai contadini del tempo.
A complicare la situazione si aggiunsero quindi un'enorme quantità di guerre su tutto il territorio eu-
ropeo: a cominciare dall'estenuante Guerra dei Cent'Anni tra Francia e Inghilterra (cominciata nel
1337 e protrattasi – anche se con frequenti pause – fino al 1453), passando per le guerre dinastiche
nella penisola iberica e tutti gli scontri, più o meno estesi, che si verificarono in Italia nel Mezzo-
giorno, nello stato della Chiesa e fra i ducati del Nord. Sorvolando sul generale aumento dei debiti
pubblici di tutta Europa (dovuti anche e soprattutto al mantenimento delle guerre di cui sopra, che
non venivano più combattute da milizie nazionali, bensì da compagnie di ventura stipendiate dai so-
vrani), il '300 fu anche il secolo in cui si cominciarono a vedere i primi risultati delle speculazioni
finanziarie: a testimonianza di ciò rimangono i fallimenti colossali di alcune compagnie bancarie
che, arrischiatesi troppo nel prestare denaro alle nazioni finirono per rimetterci l'intero patrimonio.
Tuttavia c'è da dire che le crisi finanziarie del '300 contribuirono al superamento delle vecchie strut-
ture commerciali indivise a gestione familiare, portandole verso una gestione più moderna.
La mazzata definitiva fu però l'immane epidemia passata alla storia come Peste Nera. Arrivata alle
porte del continente dalle steppe della Mongolia toccò per prima l'Italia (grazie a navi genovesi che
avevano raccolto il batterio dalla penisola di Crimea) intorno al 1347-'48: da qui si diffuse ammor-
bando tutta l'Europa nel giro di mesi fino a toccare addirittura le zone più remote dell'Est-Europa
nel 1352-'53.
Le zone più colpite dalla peste furono Italia e Francia del Sud, che registrarono tassi di mortalità tra
il 35% e più della metà della popolazione, e anche se non tutti i paesi furono colpiti con la stessa in-
tensità, in generale la popolazione europea si ridusse di un terzo, e continuò a diminuire fino ai pri-
mi decenni del secolo successivo: la peste, infatti, rimase endemica in tutto il continente e continuò
a causare epidemie fino all'inizio del '700 (l'ultima epidemia registrata fu infatti nel 1720 a Marsi -
glia).

La crisi determinata da tutti questi fattori ebbe serie ripercussioni sulla popolazione europea e portò
a sconvolgimenti nella composizione dei villaggi e delle campagna: in ogni dove infatti la gente era
fuggita dalle città (in cui la peste si poteva contrarre molto più facilmente) lasciandone intere quasi
del tutto disabitate e causando quindi una ricomposizione dei territori rurali. Dall'altra parte la dimi-
nuzione sostanziale dei lavoratori diede ai superstiti grandi vantaggi dal punto di vista del potere
d'acquisto dei salari e forte peso contrattuale con i padroni. La risposta non si fece però attendere: il
livello di vita tornò a scendere quando a fronte di questa situazione si imposero limiti salariali con-
dizioni di lavoro nuovamente dure e restrittive. In ogni modo, i conflitti sociali non terminarono: in
tutta Europa infatti nacquero rivolte, sia nelle campagne, in particolar modo in Francia (con le Jac-
querie, dal nomignolo – Jacques Bonhomme – che veniva dato ai contadini dai proprietari terrieri) e
Inghilterra, che nelle città, dove venivano portate avanti soprattutto dai lavoratori tessili sfruttati:
episodi del genere si verificarono nelle Fiandre e in numerose città italiane (famoso è appunto l'epi-
sodio del “Tumulto dei ciompi”, i lavoratori tessili che bloccarono la produzione nella Firenze del
1378).

Una crisi che alla critica storica sembra quindi a metà tra una “trappola malthusiana” e il risultato
della transizione tra un'economia feudale a una di tipo capitalistico fu quindi la responsabile dello
stallo (se non del regresso) dello sviluppo europeo nel '300, e lasciò in eredità al secolo quindicesi-
mo una situazione non invidiabile.
Il 1400 vide infatti una leggera ripresa demografica (grazie anche all'aumento della produttività
agricola per via della diffusione delle coltivazioni intensive, l'aumento dell'allevamento e dell'esten-
sione di boschi e pascoli, il miglioramento dei livelli minimi di vita, la riorganizzazione delle
città, ...) ma anche notevoli cambiamenti nell'organizzazione politica. La ristrutturazione dell'Euro-
pa dopo la peste portò infatti alla nascita di nuovi modelli istituzionali come evoluzione di quelli
esistenti: se ad esempio in Italia dall'esperienza dei comuni e dalla loro progressiva espansione nac-
quero numerosi Principati regionali (in cui tuttavia i vari regnanti finirono per arroccarsi su posizio -
ni conservatrici e trascinare la popolazione nella decadenza), Francia, Spagna e Inghilterra comin-
ciarono più o meno in questo momento la vera e propria organizzazione in stati nazionali con un po-
tere presente e significativo: fu migliorata o a volte creata dal niente un'amministrazione interna con
l'obiettivo di muovere meglio la macchina statale, furono studiate e portate avanti politiche econo-
miche a livello statale e in alcuni casi (come in Inghilterra) la presenza di un potere statale effettivo
che non apparteneva più unicamente al sovrano rese possibile la razionalizzazione del debito pub-
blico che venne quindi separato nettamente dal patrimonio personale del re e amministrato (anche
se in mancanza di una gestione accurata) dalle istituzioni politiche.
La configurazione dell'Europa cambiava così radicalmente: da un modello che faceva forte affida-
mento sul Mediterraneo come punto di scambio commerciale e cardine economico del continente,
lentamente il baricentro produttivo si stava spostando verso Nord: sul panorama internazionale era-
no apparse le nuove potenze statali, capaci ora di determinare da sole l'andamento della storia e di
diventare le future motrici del grande sviluppo dei secoli successivi.

8. Le grandi scoperte

Con la rinascita del '400, come si è visto, rifiorirono di pari passo il tasso demografico e le attività
commerciali. La nuova stagione del commercio internazionale portò quindi verso una crescita della
domanda di prodotti e beni orientali (e quindi anche di metalli preziosi per la moneta, di cui l'Euro-
pa non aveva grande disponibilità) che si scontrava però – nuovamente – con le storiche difficoltà
del commercio con l'Oriente. L'acquisto e il trasporto di merci dalle Indie non era infatti cosa facile:
basate ancora sull'intermediazione di arabi o asiatici, le rotte carovaniere che spostavano le ricchez-
ze verso il Medio Oriente per andare in Europa erano un sistema fragile, sempre più esposto ai ri-
schi degli assalti dei briganti, in generale frammentato e soprattutto dai costi elevati.
Già in passato erano stati fatti viaggi di esplorazione verso l'Oriente e l'Africa Sahariana (altro luo-
go di transiti carovanieri): possiamo citare a titolo d'esempio il celebre viaggio di Marco Polo in
Cina (1271-'95), o il viaggio – fallito – della famiglia genovese dei Doria attraverso la costa africa-
na (1291-'92), così come la conquista delle Canarie da parte di Niccolosio da Recco (1300). Tutti
questi erano stati, in ogni modo, i frutti dell'intraprendenza di singoli mercanti (per lo più genovesi
o veneziani) che partivano all'avventura in cerca di nuove vie commerciali: era mancata, a questi
mercanti una solida base organizzativa capace di coordinare i vari sforzi isolati; sarebbe servita
quindi una forte tensione internazionale che bloccasse momentaneamente la mole di traffici rag-
giunta perché l'Europa mettesse in moto energie e mezzi molto più grandi.

La storia seppe trovare la propria strada poco tempo dopo: a metà Quattrocento, infatti, l'Impero Ot-
tomano, invadendo e conquistando Costantinopoli (1453) e le basi genovesi tra il Mar Nero e l'Asia
Minore, di fatto diede il pretesto per l'inizio delle grandi esplorazioni navali che gli stati europei av-
viarono quando vennero a mancare i nodi del commercio Oriente-Occidente.
Il primo motore dell'espansione fu il piccolo Regno del Portogallo al tempo del principe Enrico il
Navigatore. Dopo essersi infatti liberato dagli arabi alla fine del XIV secolo, stipulò nel 1411 un
trattato di pace con la Castiglia che gli permise di concentrarsi sul contrasto degli arabi nelle loro
basi dell'Africa: l'esito vittorioso di queste missioni portarono al regno grandi quantità d'oro e di
schiavi che suscitarono un forte interesse e uno stimolo per il moderato mercato portoghese. Le spe-
dizioni successive furono quindi coordinate e sorrette dallo stato, che si arrogava così il monopolio
delle attività marittime: le finalità militari furono però presto sostituite da quelle commerciale, e il
Portogallo cominciò così un'intensa attività di commercio degli schiavi e di ricerca di oro e di una
via alternativa per le Indie. In poco tempo quindi navi portoghesi conquistarono basi su tutta l'Afri-
ca atlantica mentre scendevano verso il Capo Tormentoso, la punta a Sud del continente: il raggiun-
gimento di quest'ultimo nel 1487, dopo un quarantennio di esplorazioni, significò un grande tra-
guardo, per celebrare il quale il capo venne rinominato “Capo di Buona Speranza”; il dominio por-
toghese veniva intanto avallato da una bolla pontificia (1452). Nel 1497 fu quindi completata la cir-
cumnavigazione dell'Africa da parte di Vasco da Gama, la cui flotta rientrava a Lisbona nel 1499
col primo carico di merci orientali.
Con un pizzico di ritardo rispetto al Portogallo cominciava, invece, la Spagna, che nel 1942 acco-
glieva la proposta di Cristoforo Colombo di finanziare una spedizione che avrebbe permesso di rag-
giungere le Indie dall'Ovest: come è arcinoto, Colombo non raggiungerà mai l'Asia che credeva di
trovare, ma, sbarcando dopo più di due mesi di viaggio a Hispaniola (l'odierna Santo Domingo),
scopriva così il continente che tutta l'Europa aveva fino ad allora ignorato: l'America.

La scarsa conoscenza geografica del tempo portò Spagna e Portogallo a contendersi due territori di-
versi credendoli lo stesso (il Portogallo raggiungerà infatti il Brasile soltanto nel 1499, grazie a Pe-
dro Alvarez Cabral): per risolvere il problema i due regni furono costretti a rimettersi all'autorità di
papa Alessandro VI, che nel 1493 divise il mondo conosciuto in due emisferi secondo una linea
ideale creata appositamente (la Raya), passante 100 leghe ad ovest delle Azzorre: alla Spagna sa-
rebbero toccati i territori ad Ovest, mentre al Portogallo quelli ad Est. Successivamente, la bolla
venne rettificata (su richiesta dei portoghesi) con il trattato di Tordesillas (1494), che spostò la linea
270 leghe ulteriori ad Ovest.
Quando fu chiaro che le terre a cui si era arrivati attraversando l'Oceano Atlantico non erano le In-
die (il primo a rendersene conto fu probabilmente Amerigo Vespucci), si ipotizzò l'esistenza di un
altro oceano dietro le terre del Nuovo Mondo: la ricerca di un “passaggio a Nord-Ovest” divenne
quindi oggetto, stavolta, delle missioni di tutta Europa, anche da parte della Francia, le cui missioni
furono guidate da Jacques Cartier e Giovanni da Verrazzano, e dall'Inghilterra, che nel 1497 rag-
giunse il Labrador ed esplorò il Canada grazie a Giovanni Caboto. La ricerca del passaggio a Nord-
Ovest non ebbe comunque successo: avranno più fortuna gli esploratori iberici che dapprima scopri-
ranno il Pacifico oltre l'istmo di Panama (Balboa, 1513) e quindi circumnavigheranno il Sud-
America passando dallo stretto divenuto “di Magellano” in onore dell'esploratore spagnolo che nel
1519 vi guidò la sue navi e raggiunse le Filippine.

Dopo i successi nelle esplorazioni, per qualche decennio il Portogallo diventò il più grande protago-
nista del commercio internazionale con l'Oriente. Il suo impero coloniale si basava non sulla con-
quista e l'occupazione militare dei territori scoperti, ma sulla fondazione di stazioni commerciali
nelle città (a Goa, in India, a Malacca e Hormuz, in Iran, a Macao, in Cina, a Nagasaki, in Giappo-
ne, ...) che col tempo divennero gradualmente fortezze che avevano anche funzione difensiva, e solo
più tardi la creazione di semi-colonie: grazie a queste basi dominava non solo i commerci tra Asia e
Europa, ma in qualche caso riuscì anche ad immischiarsi nei commerci propri delle regioni asiati-
che.
Il funzionamento dei traffici era regolato da un sistema di semi-monopolio della Corona: la gestione
era infatti affidata alla Casa da India, organismo regio che aveva anche il compito di impedire la
presenza di armatori stranieri nelle terre (ora immense) di proprietà del Portogallo. Le spedizioni
avvenivano annualmente e i mercati di vendita erano di solito le piazze di Anversa e Amsterdam.
Dalle Indie i portoghesi prelevavano soprattutto spezie (pepe, cannella, noce moscata, chiodi di ga-
rofano) e vi portavano invece minerali, corallo, monete e metalli di vario pregio come rame, piombo
e argento. Grande importanza aveva anche il commercio con i territori africani, dai cui i portoghesi
portavano in Europa merci ricercate come schiavi, oro e avorio.
In non molto tempo, il sistema portoghese cadde in decadenza: pressati dalle piraterie e dai contrab-
bandi di Inghilterra, Francia e Olanda, svantaggiati dalla loro propria gestione monopolistica che
consegnava le cariche ufficiali tramite appalti che nascondevano frodi e inefficienze, il piccolo re-
gno venne progressivamente affossato fino a quando non venne definitivamente conquistato e an-
nesso dalla Spagna, determinando la perdita dei mercanti che venivano così svenduti a imprenditori
stranieri, come avvenne per parte del commercio orientale delle spezie, concesso in appalto al mer-
cante tedesco Konrad Rott nel 1575.

Come abbiamo visto, quindi, le grandi scoperte e l'espansione significarono per l'Europa intera un
ribaltamento degli equilibri economici internazionali: con l'allargamento degli scambi e la nuova e
fitta rete del commercio atlantico insieme alla raggiunta padronanza dell'Oceano Indiano, il Medi-
terraneo perdeva così l'importanza fondamentale che aveva avuto nell'economia fino a tutto il XV
secolo, finendo così relegato al ruolo di lago chiuso per le decadenti repubbliche marinare italiane;
parallelamente, mentre si sviluppavano sempre di più i Paesi atlantici, gli stati continentali europei
rimarranno indietro e col tempo andrà a decadere anche l'asse del commercio via terra che era anda-
to consolidandosi fra l'Italia settentrionale, l'Austria e i territori dell'attuale Germania.

9. La Spagna nell'Età Moderna

Dalla metà del quindicesimo secolo notevoli fattori diedero una possibilità di rinnovamento al Re-
gno Spagnolo, che purtroppo, come vedremo, non verrà colta in pieno segnando i secoli a venire di
questo paese. Due avvenimenti importanti segnarono questo periodo: il primo, l'unificazione dei
due regni dopo decenni di guerre dinastiche grazie al matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isa-
bella e Castiglia (1469); il secondo, il completamento del processo di Reconquista dei territori
musulmani sulla penisola iberica (1942).
Come già detto, l'unificazione dei regni di Aragona e di Castiglia sarà un passaggio importante per
il Regno delle Due Corone, ma (in modo simile a quello che succederà in Italia dopo la missione dei
Mille), pur unificate, le due regioni continuarono a mantenere forti diversità nella composizione
della popolazione e nell'economia. La regione aragonese, relativamente alla Castiglia, era più svi-
luppata e organizzata: all'interno di essa un'attiva borghesia dava vivacità al commercio; al suo in-
terno coesistevano vari assetti istituzionali. La regione castigliana era invece più omogenea nella
giurisdizione ma generalmente più arretrata, basata ancora sugli assetti feudali retti da un'aristocra-
zia militare provinciale e nullafacente.
Dopo l'unificazione, per volontà stessa di Ferdinando (che addirittura si arrogò il controllo dei tre
più importanti ordini religioso-cavallereschi), aumentò generalmente l'autorità regia. In questo sen-
so avvennero notevoli cambiamenti istituzionali:
• generale perdita di importanza delle Cortes, ovvero gli organismi di consulenza che si riuni-
vano negli Stati Generali;
• istituzione dell'Inquisizione spagnola (1478) come strumento di controllo;
• generale aumento della burocrazia dovuta allo stato centrale (che sarà causa poi di irregolarità
e truffe dovute alla vendita delle cariche);
• introduzione del sistema dei Consigli di corte affiancati al re, che agivano più o meno come
gli attuali ministeri.
Anche a causa di questo sollevamento da alcuni poteri tradizionali, l'aristocrazia spagnola si disinte-
resserà sempre di più agli affari produttivi diventando una zavorra per lo stato unitario.

Con l'avvento di Carlo V (figlio di Filippo il Bello d'Asburgo e Giovanna la Pazza, nipote dei re cri-
stiani unificatori della corona spagnola) agli inizi del '500, la Spagna, insieme alle sue colonie, si ri-
trovò ad essere parte dell'impero di un sovrano a cui facevano riferimento quasi tutta Europa e una
serie sconfinata di colonie in Asia e America. Alla sua abdicazione il regno fu diviso fra i figli Filip -
po e Ferdinando: al primo toccò la sovranità sulla Spagna, e con essa le sue colonie più le Fiandre,
mentre al secondo i territori propri della dinastia degli Asburgo. Con Filippo sul trono, Madrid di -
venne la capitale stabile del regno, e sarà questo l'inizio delle spese folli che la Spagna dovrà soste-
nere, ad esempio, per mantenere le frequenti guerre che saranno necessarie per sottomettere le Fian-
dre e l'Italia.

I territori dell'Impero coloniale spagnolo erano composti al loro arrivo da una vasta gamma di popo-
lazioni indigene (Indios) dalle diverse qualità: comunità di una certa potenza erano quella dei Chib-
cha sull'altopiano di Bogotà o quella dei Maya nel Sud del Messico; comunità di un'estensione rile-
vante erano invece quella degli Aztechi (probabilmente i più potenti fra le popolazioni Indios, o
quella degli Inca nei territori andini. Vari altri popoli di minore sviluppo vivevano nel Cile e nelle
zone della foresta amazzonica.
La conquista di questi territori non fu omogenea ma si articolò in più tappe. I primi territori ad esse-
re sottomessi furono le isole caraibiche alla fine del primo decennio del 1500, quindi fu la volta del
Messico, conquistato senza troppa fatica dai soldati di Hernàn Cortés tra il 1519 e il 1521: da qui in
poi, in più o meno tempo a seconda dei casi, tutte le popolazioni del Sud-America furono sconfitte e
schiavizzate barbaramente, dalla civiltà Maya nello Yucatàn, ad opera di Francisco de Montejo
(1527-'45), ai territori degli Inca, ad opera di Francisco Pizarro (1532-'48), fino alle zone diversa-
mente popolate di Colombia, Paraguay, Cile e Argentina. L'impresa della conquista non richiese tut-
tavia grandi stanziamenti di forze e uomini: lo spietato modo di condurre la guerra degli europei era
infatti cosa ignota alle popolazioni indigene, così come le armi da fuoco; i conquistadores spagnoli
furono abili oltretutto nello sfruttare i dissidi interni e le faide fra i vari popoli a proprio vantaggio.
Con buona pace degli storici che hanno visto nella conquista coloniale un momento glorioso della
storia europea, l'assalto spagnolo significò un vero e proprio genocidio gli Indios, che videro la pro-
pria popolazione cadere da circa 25 milioni all'inizio del '500 a poco più di un milione nel 1609: a
giocare un ruolo fondamentale furono prima le guerre di conquista, quindi le nuove epidemie porta-
te nel Nuovo Mondo dagli invasori (anche se l'importanza di questo fatto è stata col tempo ridimen-
sionata dalla storiografia) e il terribile lavoro di schiavitù a cui erano obbligati gli indigeni.

Tramite l'atto dell'encomienda, in nome del re venivano affidati dei territori e un certo numero di
schiavi a un proprietario (di solito un conquistador) che acquistava quindi di ritti feudali su questo
complesso di beni. Nelle varie regioni, quindi, la produzione agricola era organizzata in haciendas
(singole unità produttive) in cui lavoravano gli schiavi che erano stati affidati al proprietario.
L'agricoltura nelle colonie era un'attività molto redditizia: se in principio i conquistatori non aveva-
no trovato le spezie che cercavano per il mercato europeo, si accorsero presto che nelle terre scoper-
te si coltivavano non solo piante del luogo (come il pomodoro, il mais, la patata, ecc.) che in seguito
verranno introdotte anche in Europa, ma, inoltre, il clima caldo dell'America centro-meridionale si
prestava molto bene anche a coltivazioni di tradizione asiatica che invece in Europa non avevano
avuto fortuna (caffè, banane, canna da zucchero, ecc.). Un'altra pianta “scoperta” nel Muovo Mondo
(era già ovviamente coltivata e utilizzata dagli Indios) era il tabacco, il cui uso si diffuse in Europa,
non senza controversie e tentativi di bandirlo, a partire da questo periodo.
Se l'agricoltura era molto redditizia, tuttavia, ci si accorse che un altro settore era esponenzialmente
più produttivo: il settore della produzione mineraria e metallurgica. Scoprendo le miniere utilizzate
in precedenza anche dalle popolazioni locali, gli spagnoli si trovarono di fronte a ricchezze immen-
se capaci i sfornare quantità enormi di oro (in Colombia ed Ecuador), di perle e di coralli (soprattut-
to in Venezuela, Perù e a Panama), e miniere sterminate di argento: per quanto riguarda quest'ulti-
mo, la sua produzione divenne ben presto altissima nelle zone minerarie di Potosì (Bolivia), Zacate-
cas e Guanajuto (Messico); da Huancavelica, in Perù, arrivavano inoltre rifornimenti in abbondanza
di mercurio, materiale fondamentale per la fusione e la purificazione dell'argento. C'è da dire che
l'estrazione mineraria non fu l'unico modo con cui gli europei importarono ricchezze del Nuovo
Mondo, ma molti furono anche i tesori degli Indios d'oro e metalli preziosi che vennero trafugati per
essere rivenduti sul mercato europeo o semplicemente rifusi per altri scopi.

L'organizzazione per il commercio con le colonie che anche la Spagna adottò dopo pochi anni fu la
gestione monopolistica statale. Come era stato per il Portogallo con la Casa da India, quindi, nacque
la Casa de Contractatiòn con sede a Siviglia, l'organismo regio per il rapporto con le colonie. La
Casa de Contractatiòn aveva diverse funzioni:
• aveva competenza sulle cause commerciali sia civili che penali;
• aveva funzione di ufficio delle imposte e di tesoreria;
• controllava i movimenti finanziari Europa-America;
• curava la formazione dei capitani e degli alti ufficiali navali;
• sovrintendeva al traffico atlantico delle merci.
A tal proposito, il sistema di navigazione oceanica era centralizzato, e avveniva secondo uno sche-
ma preciso di due convogli annuali di Flotas o Galeones con itinerari e attracchi diversi.
Come si è visto, grazie alla scoperta delle miniere nel Nuovo Mondo, la produzione e l'importazione
in Europa aumentarono vertiginosamente: si stima che l'argento e l'oro americani triplicarono le
scorte europee di metalli per la monetazione (sebbene le cifre possano essere falsate dai fenomeni i
contrabbando). Di tutti questi metalli circa un quarto passava senza scorciatoie alla corona spagno-
la, mentre i restanti tre quarti arrivarono in Europa come domanda effettiva i beni i vario tipo.
Questo enorme apporto di metalli preziosi partecipò al fenomeno cinquecentesco della “rivoluzione
dei prezzi”: per più di un secolo (fino ai primi decenni del 1600), infatti, si verificarono in pratica-
mente tutti gli stati del Vecchio Continente massicci fenomeni inflattivi. Sebbene per molto tempo
si è ritenuto che l'apporto di metalli fu la causa unica di questo innalzarsi repentino dei prezzi, col
tempo si è ridefinito il suo ruolo: responsabili infatti furono anche il generale aumento della popola-
zione europea per tutto il '500 e l'allargarsi di condizioni di vita più borghesi con un conseguente
aumento della domanda (da cui si sviluppò così, in mancanza di comparti produttivi organizzati,
l'aumento dei prezzi).

Anche in presenza di un florido commercio internazionale, inevitabilmente, la Spagna andava in-


contro dal XVII secolo a un periodo di decadenza e crisi dovuta alla scarsa base produttiva che ave-
va all'interno dei suoi territori propri e alle guerre sempre più gravi che dovrà affrontare.
Nel campo dell'agricoltura, ad esempio, tutta una serie di fattori contribuirono allo stagnamento (se
non al regresso) di questo settore: con la cacciata degli ebrei (1492) e dei musulmani dieci anni
dopo, la Spagna perse infatti una vasta e buona manovalanza agricola nonché a una seria perdita di
conoscenze nel settore (per non parlare dell'artigianato). Le terre abbandonate da questi vennero di
fatto lasciate ad i già grandi proprietari terrieri, e la maggior parte dei terreni si concentrava così
nelle mani dell'assenteismo e del disinteresse di aristocrazia e clero: si diffuse ulteriormente la colti-
vazione estensiva di cereali (che non richiedevano troppe attenzioni), ma la successiva imposizione
di un prezzo massimo per il grano (1539) rovinò il settore e espresse un disincentivo alla cerealicol-
tura. Ulteriori danni furono causati quando la diatriba tra contadini e allevatori di bestiame (per lo
più greggi da cui si ricavava lana merinos per l'esportazione) si risolse con provvedimenti regi che
concedevano privilegi speciali ai pastori transumanti, in vista di maggiori entrate fiscali.
Un'altra molteplicità di fattori rendeva il settore commerciale interno ed estero (sia in entrata che in
uscita) assolutamente insostenibile e poco competitivo. Una pesante ancora da cui il regno non riu-
sciva a distaccarsi era, soprattutto per ragioni fiscali), il controllo monopolistico e corporativo dei
commerci: oltre alla già vista Casa de Contractatiòn (fautrice di un sistema inizialmente efficiente
ma sempre più ingestibile, che lasciò spazio a un contrabbando fuori controllo), le corporazioni cit-
tadine erano ancora attive, così come attivo era già da molto tempo il Consulado di Burgos, una cor-
porazione mercantile che gestiva monopolisticamente il commercio in uscita della lana grezza.
L'ambigua politica economica spagnola, in certi periodi protezionista, in altri liberista, contribuì
quindi a distruggere quell'embrione di manifattura e industria presente in Spagna: per risolvere il
problema della scarsità di produzione tessile, infatti, dapprima si provvide ad abolire i dazi sui pro-
dotti esteri (lasciando i mercanti stranieri liberi da qualsiasi concorrenza), quindi il divieto di espor-
tazione dei prodotti nazionali (1552) segnò la mazzata definitiva che distrusse la produzione interna.
Ancora da ribadire è, inoltre, la necessità ingente di denaro di cui la Corona aveva bisogno per risa-
nare i debiti contratti nelle guerre continue in Italia e Mediterraneo, Germania, Francia e Paesi Bas-
si; all'elenco si aggiunsero anche l'Inghilterra, ai tempi di Filippo II, e le guerre di conquista. Il pro-
blema era che le entrate dello stato unitario erano generalmente basse: se da una parte infatti l'ini-
quo sistema di tassazione spagnolo escludeva dalle contribuzioni dirette i rappresentanti di clero e
nobiltà (proprietari complessivamente del 97% dei terreni agricoli e di beni e capitali in abbondan-
za), dall'altra i metalli americani praticamente venduti ancora prima che vedessero l'Europa. L'inde-
bitamento progressivo non fu quindi stabile ma si alternò a gravose bancarotte che misero i sovrani
in condizioni tali da dover concedere ai già potenti creditori internazionali ulteriori privilegi di ri-
scossione fiscale o garantendo concessioni e diritti di sfruttamento.
La situazione divenne critica quando questo sistema pericolante si trovò a dover fronteggiare la di-
minuzione dell'afflusso di metalli pregiati dalle colonie (sia perché utilizzate dalle colonie stesse
che diventavano progressivamente indipendenti, che per colpa dei successi endemici che Inghilter-
ra, Francia e Olanda riscuotevano con il contrabbando), gettando così la Spagna in un'epoca di de-
cadenza da cui a stento si riprenderà in futuro.

10. L'Italia nell'Età Moderna

Avevamo lasciato l'Italia alle prese con la peste e tutti i drammi della crisi del 1300: come avevamo
visto, in ogni modo, le risposte alla crisi non mancheranno sia dal punto di vista economico (col set-
tore tessile in crescita, quello commerciale che tutto sommato, grazie all'abilità dei mercanti italiani,
continuava a reggere e quello della finanza che continuerà ad essere un'attività centrale di alcune
città, come Genova, che avranno un ruolo fondamentale nel finanziamento delle guerre fino al
'600), che politico (nell'irrigidimento degli stati regionali e il loro aumento di potere su tutto il con-
tado).

Nel 1450 la Pace di Lodi (promossa e voluta fortemente da Lorenzo de' Medici) riuscì a appianare i
dissidi interni alla penisola, ma quando, nel 1494, l'esercito francese discese di nuovo in Italia gui-
dato da Carlo VIII, cominciava un nuovo periodo di carestie e di distruzione di traffici che si ac-
compagnavano usualmente con le guerre di cui, per scelta altrui (Spagna, Francia e Sacro Romano
Impero), l'Italia era diventata teatro. Fu chiaro in questo periodo che il territorio italiano non aveva
alcuna autonomia, e gli stati regionali ancora meno, ma la soluzione che i regnanti del tempo trova-
rono (e che probabilmente fu in realtà la peggiore delle scelte che potevano essere fatte) di fronte
alla contesa degli stati europei, fu quella di tessere alleanza singolarmente con gli stessi sovrani de-
gli stati nazionali in modo vario e disordinato, come ricerca di una legittimazione esterna al proprio
potere sul territorio: così come altre città, ad esempio, Firenze era ancora formalmente una repubbli-
ca, ma i Medici ottennero il dominio effettivo del territorio grazie agli accordi che fecero con Carlo
V, che li elevò al grado di Granduchi di Toscana. Il potere diventò così ufficiale e dinastico, ma que-
sto rese le regioni ancora più incapaci di allearsi tra loro e quindi impotenti di fronte ai nemici co-
muni e alle guerre che venivano dall'esterno.
Le guerre, per l'Italia, finirono comunque nel 1559, con la pace di Cateau-Cambrésis: nel periodo
successivo (che verrà chiamato dagli storici “Estate di San Martino dell'Italia”, ad indicare la preca-
rietà di una buona situazione di cui già si vede la fine) ci sarà un'effettiva, anche se modesta, ripre -
sa, veicolata ancora dai settori classici dell'attività economica della penisola: da un parte la manifat-
tura (soprattutto per l'esportazione e di alta qualità, in cui l'Italia poteva ancora per poco vantarsi di
essere all'avanguardia – è questo infatti il periodo in cui in Europa stanno nascendo meccanismi
propri del commercio più capitalistico, improntato ai bisogni della classe media), quindi il commer-
cio e la finanza, che si legherà molto al finanziamento delle guerre e del commercio transatlantico
spagnolo, e che vede in questo periodo un lieve sviluppo grazie alla diffusione delle fiere finanziarie
di Besançon. Il tardo '500 ha forse anche il titolo di essere il periodo in cui nacque il capitalismo fi-
nanziario: con l'affermazione delle prime società unicamente finanziarie e lo sviluppo di un com-
mercio di area l'attività finanziaria diventa finalmente autonoma e si slega dal commercio.

La fine della (modesta) crescita non si fece quindi aspettare. Dal secondo-terzo decennio del Sei-
cento, infatti, la situazione si capovolse nuovamente per l'economia italiana per lo più a causa di fat-
tori esterni come la Guerra dei Trent'anni fra Francia e Germania (cominciata nel 1618), la guerra
Turco-Persiana (1623-1638) e le frequenti bancarotte del Regno di Spagna. Tutti questi avvenimenti
colpiranno in diverse misure l'economia italiana nella forma manifesta di un calo drastico delle
esportazioni: così come le piazze dei territori tedeschi raccoglievano un'importantissima fetta dei
prodotti tessili fiorentini, genovesi e veneziani, stessa funzione avevano i mercati spagnoli, distrutti
dall'interno, come si è visto, da un'amministrazione poco accorta che portava lo stato in continua
bancarotta; con la guerra Turco-Persiana ancora si ridimensionò l'estensione dell'Impero Ottomano,
e con essa la capacità commerciale di uno dei partner storici del commercio della penisola.
Come se non bastasse, si vide che ben presto i prodotti italiani videro le loro esportazioni diminuire
radicalmente non solo in questi territori, ma anche da tutti gli altri mercati europei e del Vicino
Oriente, Nord-Africa compreso: a danneggiare l'attività erano infatti i prodotti tessili di stati come
l'Inghilterra e i Paesi Bassi che avevano puntato sull'innovazione e stavano rapidamente portando
sul mercato merci di qualità più bassa ma anche a prezzi minori, grazie alle sostanziali innovazioni
che avvenivano in quei territori (nella produzione materiale come nell'organizzazione di essa).
Dove stava lo scarto di competitività dell'Italia? Si può dire che si basasse su tre cause centrali.
• L'organizzazione prima in Comuni e poi in stati regionali non aveva permesso nel tempo uno
sviluppo diffuso e omogeneo fra città e campagne: in questo modo la produzione manifattu-
riera era ancora concentrata quasi del tutto nelle città, dove però sussisteva un controllo cor-
porativo eccessivo che proteggeva i produttori dal farsi concorrenza fra loro, ma di fatto im-
pediva che la competitività si sviluppasse rispetto alle produzioni estere
• La pressione fiscale sembra essere stata generalmente gravosa e mal congegnata
• Le frequenti epidemie che si protrarranno per tutto il '600 terranno il livello della popolazione
più o meno uguale e basso per molto tempo: in questa situazione le organizzazioni dei lavora-
tori riuscivano ad imporre minimi salariali molto alti, a volte addirittura sproporzionati alla
produttività effettiva. Questa fu a lungo una seria spesa in più dei produttori italiani, che rima-
nevano sempre più indietro rispetto ai loro colleghi esteri che risparmiavano nell'abolizione
delle corporazioni e nell'organizzazione decentrata

Insieme alla caduta radicale delle esportazioni, quindi, i possidenti smisero di investire nei settori
produttivi ritornando alla terra, più sicura in tempi di crisi, ma certamente con meno possibilità di
sviluppo per l'economia. La mentalità imprenditoriale si era modificata troppo nel tempo, e i ricchi
e i proprietari non avevano più lo spirito di avventura e di ricerca del profitto che aveva animato i
connazionali del '200; si adagiavano ora sul patrimonio racimolato e sulla conquista dei titoli nobi-
liari ereditari: in questo modo la classe medio-agiata italiana sarà la responsabile dello sfacelo in cui
verserà nei secoli successivi la penisola, riportando l'economia di questi territori allo stato acerbo
per cui si esportavano materie prime e si importavano prodotti finiti dal valore aggiunto, si disinve-
stiva sulla produzione mentre aumentava la produzione rurale e non emergeva una borghesia capita-
listica in grado di diventare protagonista dello sviluppo, come avveniva ora nelle altre nazioni.

11. La crisi del Seicento e la politica economica

Parallelamente alla crisi in Italia, anche in Europa, nel Seicento, si vedranno flettersi fattori che per
tutto il Cinquecento erano stati ampiamente in crescita: mentre il livello della popolazione ristagna-
va, cominciava a diminuire l'afflusso dei metalli dalle Americhe, e insieme all'aumento generale
della pressione fiscale, diffusamente si ridusse la produzione industriale e alimentare (anche se que-
st'ultima carenza veniva risolta dallo sviluppo in corso delle nuove potenze marittime importatrici);
in molti stati erano in corso guerre o rivolgimenti politici.
Presentata dalla storiografia come una crisi connaturata al sistema, tipica del passaggio da un siste-
ma preindustriale ad uno capitalistico industriale, investì i vari campi dell'economia: da quello de-
mografico, a quello della produzione agraria e industriale, a quello commerciale e finanziario.
1. Crisi demografica.
Dal punto di vista demografico nel Seicento si acuisce la forbice tra la crescita demografica
del Nord e del Sud dell'Europa, ma ancor più importanti sono le rilevazioni riguardo all'ur-
banizzazione: in rapida crescita al Nord, in crollo nell'Europa meridionale.
2. Crisi agraria.
Le difficoltà nella produzione agricola (pur integrate dalle importazioni) si esprimevano in
termini di cattive annate molto frequenti. Alcuni hanno parlato di questo periodo come l'apice
della “piccola glaciazione”, da cui poi le temperature sarebbero cominciate a rientrare.
3. Crisi produttiva.
Come si è visto anche per l'Italia, centri tradizionalmente sviluppati (anche le Fiandre, ad
esempio) cedono progressivamente il mercato alle nuove potenze commerciali innovatrici (In-
ghilterra e Paesi Bassi).
4. Rivolgimenti nel commercio.
Notevoli furono i cambiamenti nel commercio: mentre infatti si accentuava lo scarto di valore
fra lo scambio di merci nazionale e internazionale, le rotte commerciali nodali di un tempo
(quelle terrene europee e orientali) sono state tutte sostituite da nuove rotte tutte marittime,
portando così alla decadenza del Mediterraneo ma anche allo spostamento dei centri commer-
ciali e dei porti (quello fondamentale che era inizialmente Bruges passò prima ad Anversa e
poi divenne Amsterdam).
5. Credito e finanza.
Con l'aumento dei commerci stavano aumentando vertiginosamente il fabbisogno della mone-
ta e dei mezzi di pagamento, anche quando cominciava a diminuire l'afflusso dei metalli ame-
ricani: si manifestò la necessità di potenziare un circuito di moneta fiduciaria pubblica e di ti-
toli privati.

Il ritorno alla terra diffuso in tutto il continente e la crescita generale del settore finanziario nella
forme del commercio, dei prestiti a interesse (anche a nazioni) e della finanza speculativa a discapi-
to delle attività di trasformazione spiegano bene il problema alla base della crisi: l'assenza di fatto di
stabili occasioni di investimento produttivo, nei vecchi come nei nuovi centri, di fatto bloccava il
potenziale sviluppo in senso industriale. Il rapporto tra finanza e capitalismo mercantile sarebbe
quindi rimasto così altalenante (come lo fu per tutti i secoli XVI e XVII) fino a che non si fosse rag-
giunti i livelli e le tecnologie necessari per portare avanti il cambiamento.

Il seicento però fu anche il secolo dello sviluppo degli stati nazionali, ed insieme ad essi lo sviluppo
di politiche economiche che, diventando statali, acquisivano ora un'importanza fondamentale sia per
l'economia interna che per quella internazionale. Questo fatto, insieme ancora all'aumento dell'uso e
della circolazione del denaro e all'espansione sempre più veloce dell'economia e dei traffici, fu di
grande rilevanza nella formazione del pensiero economico del tempo.
Il doppio obiettivo delle politiche economiche degli stati nazionali divenne quello di rafforzare la
potenza economica per rafforzare lo stato, e quindi di utilizzare la potenza dello stato per favorire la
crescita economica. Di fatto, furono politiche di nazionalismo economico: le funzioni di ammini-
strazione e controllo sull'economia passeranno sempre più dalla dimensione locale legata ancora
agli schemi medievali a quella nazionale che caratterizza gli stati moderni.
La dottrina economica dominante in questo periodo, era il Mercantilismo. Obiettivi e principi di
questa erano:
• il raggiungimento di una bilancia commerciale favorevole, o tuttalpiù in pari (dovremo
aspettare fino alla crisi del '29 perché questo principio venga messo in dubbio);
• l'approvazione, da una parte, di dazi doganali a protezione dell'economia interna, e dall'altra,
di monopoli e sussidi all'attività di esportazione (bounties);
• il potenziamento delle flotte mercantili e l'approvazione di leggi sulla navigazione (cosa che
avverrà ottimamente in Inghilterra, come vedremo);
• l'affermazione delle colonie come di una immane risorsa e un fattore di ricchezza;
• l'accumulazione da parte degli stati di riserve consistenti di oro e argento (bullionismo).

Il testo di riferimento che teorizzò maggiormente il Mercantilismo e il liberismo economico fu “La


ricchezza delle nazioni”, del filosofo inglese Adam Smith. Smith basava le sue convinzioni sull'im-
portanza del non intervento dello stato su principi come quello della “mano invisibile” (ovvero la
capacità del mercato di autoregolarsi se non disturbato) o l'idea che dalla ricerca diffusa del bene in-
dividuale nascesse il bene collettivo.
Storici ed economisti più vicini a noi hanno dato invece altre interpretazioni alla politica economica
secentesca, anche in chiave storica: il tedesco Gustav von Schmoller, ad esempio, considerò nell'Ot-
tocento l'importanza del mercantilismo al fine di forgiare gli stati nazionali europei e di dare loro la
rilevanza sul territorio che ancora non avevano ottenuto; il francese Maurice Dobb, più avanti, diede
un'importanza fondamentale al mercantilismo come politica economica dell'accumulazione origina-
ria di capitale che, anche se non eccellente, era indispensabile per creare le condizioni iniziali per lo
sviluppo industriale.
In realtà non si può attribuire tutta questa abilità pianificatrice all'economia del tempo: più che la si-
stematicità delle azioni veniva ricercata molto generalmente la ricchezza e il profitto, sia da parte
dei singoli che degli stati; lo stesso concetto di stato era ancora piuttosto sfumato, le sue funzioni in-
certe, e il suo operato era ancora molto legato agli interessi della classe e dei poteri dominanti.

12. I Paesi Bassi nell'Età Moderna

Alle porte dell'Età Moderna, i Paesi Bassi non costituivano ancora uno stato nazionale omogeneo
come poteva esserlo l'Inghilterra, ma erano divisi in varie regioni che facevano riferimento alle Pro-
vince Unite (regioni settentrionali) o alla corona spagnola (regioni meridionali): per via delle diver-
se vicende a cui erano andate e andavano incontro erano diverse per attività economiche, composi-
zione sociale e lingua.
• Paesi Bassi meridionali: contee delle Fiandre, di Namur, di Hainut e di Artois, ducati di Lus-
semburgo e di Lingurg, la signoria di Mechlin e i vescovati di Liegi e Cambrai. Erano stati a
lungo uno dei poli di sviluppo europei, con importanti manifatture che esportavano in tutto il
continente e i famosi porti di Bruges e Anversa. Dalla seconda metà del '500 (anche e so-
prattutto a causa del dominio spagnolo) andranno incontro al declino e alla crisi economica.
• Paesi Bassi settentrionali: province di Olanda, Zelanda, Frisia, Utrecht, Gronia, Gheldria,
Drenthe e Overijssel. Al tempo della rivoluzione commerciale avevano avuto uno sviluppo
meno brillante delle regioni meridionali ma comunque consistente; il centro principale delle
attività commerciali era Amsterdam.

Il dominio spagnolo sulle Fiandre, si è già fatto notare, avrà serie ripercussioni sullo sviluppo di
queste regioni Già dal 1559 cominciarono i dissidi quando il trasferimento stabile della corona a
Madrid mostrò quanto insufficienti fossero i legami tra i due territori e quanto scarso fosse l'interes-
se di adottare una seria politica economica da parte dei sovrani esteri. Le contese si inasprirono
quando, a partire dalle prime conversioni calviniste (anni '60 del Cinquecento), le stesse idee prote-
stanti furono prontamente condannate dal governo cattolico della Spagna che mise in pratica perse-
cuzioni, normative contro gli eretici e roghi di libri: non fermandosi l'ondata di conversioni, ancora
una volta si vide costretto a intervenire con la forza. Oltre al danno della guerra, quindi, ci fu anche
la beffa dell'imposizione di severe tasse di cui il regno aveva bisogno per mantenere gli scontri.
Mentre quindi le province del Sud venivano severamente danneggiate dalla guerra (basti pensare al
sacco di Anversa da parte degli spagnoli, nel 1576, o al blocco del porto della stessa Anversa, questa
volta da parte delle province del Nord), le province di Olanda e Zelanda stipulavano un primo trat-
tato di mutuo appoggio in difesa della propria autonomia (1575), e pochi anni dopo, nel 1579, si
riunivano a Utrecht i rappresentanti di tutte le regioni settentrionali per stipulare il trattato che le
avrebbe fatte diventare Province Unite.

La guerra ebbe fine solo nel 1609, quando le Province Unite firmarono l'armistizio con la Spagna,
lasciando le Fiandre vallone in mano agli spagnoli cristiani e le Province Unite nella loro autono-
mia, con una egemonia olandese e calvinista, e un'economia diventata progressivamente la più mo-
derna e dinamica d'Europa. Di fronte al fanatismo dei governanti spagnoli, però, ci fu un'emigrazio-
ne di massa dei Valloni dal Sud al Nord, di cui beneficiarono soprattutto le Province Unite, oltre che
l'Inghilterra e la Germania: per le province meridionali questo rappresentò un'enorme fuga di capita-
le umano, con alte conoscenze commerciali e spirito imprenditoriale. Una schiera di artigiani, mer-
canti, marinai e finanzieri portarono le conoscenze al Nord, che si preparava adesso per realizzare il
miracolo economico che lo caratterizzò nel XVII secolo.

Il centro fondamentale dell'attività economica dei Paesi Bassi divenne in questo periodo il porto di
Amsterdam: già importante scalo di legname, grano e pesci nel Cinquecento, divenne nel Seicento il
porto di riferimento del commercio sia europeo che internazionale. Vero e proprio “emporio del
mondo”, il porto di Amsterdam era il principale mercato dell'epoca, le cui quotazioni di merci in
borsa (nata, quest'ultima, nel 1609) influenzavano tutto il mondo. C'è da dire che nel loro secolo
d'oro, le Province Unite diventarono anche un importante centro di cultura: come i fiorentini aveva-
no fatto nel Duecento, gli olandesi daranno grossi contributi all'arte, alla scienza e alla filosofia del
periodo. Passiamo ora ad analizzare nel dettaglio i vari settori dell'economia olandese.
L'agricoltura dei Paesi Bassi era nel Seicento la più produttiva d'Europa: non solo procurava alla na-
zione i prodotti di maggior valore (come burro e formaggi) ed evitava di praticare colture estensive
come i cereali (il frumento era infatti importato dai paesi baltici), ma grazie alle progredite tecniche
di canalizzazione e irrigazione, nonché nella rotazione dei raccolti, riusciva ad ottenere ogni anno
rendimenti fino a tre volte più elevati dei rendimenti degli altri paesi europei.
Il settore secondario aveva ancora alla fine del '500 una bassa diffusione e costi non troppo competi-
tivi a causa anche del sistema corporativo. Con un'accorta imprenditorialità, dal '600 cominciò però
a svilupparsi il tessile manifatturiero, grazie anche alla capacità che i produttori ebbero di ridurre i
costi: per raggiungere questo obiettivo, infatti, fu progressivamente abbandonato il sistema corpora-
tivo, per privilegiare l'industria disseminata (descritta al secondo capitoletto). Le fonti di energia di
questo settore in crescita erano i depositi di torba, molto diffusi in tutto il territorio, e i mulini a ven-
to (anche questi largamente utilizzati, sfruttavano l'energia eolica per produrre energia meccanica).

La ragione del successo dei Paesi Bassi nel Seicento era tuttavia il commercio, in cui operavano con
successo grazie anche alla specializzazione che avevano raggiunto nel campo della cantieristica na-
vale. Il risultato e simbolo della bravura dei produttori del settore era il “fluyt” (flauto), la nuova
imbarcazione mercantile che gli olandesi avevano cominciato ad adottare a fine Cinquecento: grazie
alle innovazioni tecniche di questo modello erano addirittura riusciti a decuplicare il tonnellaggio
delle navi, abbattendo così i costi di trasporto delle merci.
Anche a causa di questa eccellenza nella carpenteria (oltre al non avere una produzione interna più
di tanto estesa), in questo secolo i mercanti olandesi di specializzarono nel commercio e nella rie-
sportazione di merci altrui: per questo lavoro era quindi necessaria una grande neutralità e l'assoluta
libertà da dazi e tasse in entrata o in uscita: a tal scopo si mobilitarono anche filosofi e pensatori
dell'epoca. Fu infatti Huig van Groot (Ugo Grozio, come era chiamato in Italia) a teorizzare il prin-
cipio del Mare Liberum, secondo cui i mari erano territori internazionali in cui tutte le nazioni do-
vevano essere libere di commerciare attraverso le rotte marittime e usufruire dei vantaggi offerti dal
commercio.
Il commercio primario da cui nacque l'esperienza e la prima ricchezza dei Paesi Bassi era quello di
antica tradizione navale del Mare del Nord e del Baltico. Con alle spalle secoli di commerci in que-
ste zone, gli olandesi vi avevano un controllo senza pari e vi movimentavano tutti i giorni merci di
tutti i tipi, dal sale, al legname scandinavo, ai pesci, e non ultimo il grano baltico, che arrivava in
Europa per l'85% su navi sventolanti la bandiera delle Province Unite.

L'avventura nel commercio coloniale cominciò successivamente a causa dell'innalzamento dei prez-
zi delle spezie che si era verificato durante il '500, come necessità di entrare in rapporti diretti con
l'Asia: a differenza della gestione avevano adottato Spagna e Portogallo, invece, l'Olanda, nel defi-
nire i rapporti di potere per le colonie, delegava la gestione commerciale e politica delle colonie a
compagnie privilegiate che oltre a partner commerciale stabilirono anche un controllo territoriale
sulle colonie. Ben presto, a causa della crescente rilevanza che assumeranno nelle vicende delle pro-
vince, le compagnie privilegiate acquisiranno sempre più potere politico all'interno del parlamento
olandese, diventando di fatto “uno stato dentro allo stato”, capace di condizionare molto le decisioni
circa le politiche economiche e mercantili.
Dopo l'esperienza della prima Compagnie Van Verre (compagnia per il commercio a lunga
distanza), nata nel 1594 da alcuni mercanti di Amsterdam e delle successive che vennero create, per
motivi di troppa concorrenza, nel 1602 il governo decise di formare un'unica compagnia chiamata
Vereenidge Oost-Indische Compagnie (compagnia delle indie orientali), comunemente chiamata
Voc, a cui fu concesso il monopolio del commercio tra il Capo di Buona Speranza e lo Stretto di
Magellano, oltre che poteri politici e militari sulle zone interessate. Nel 1621 sarà formata anche
una West-Indische Compagnie (WIC), con competenza sulle Indie occidentali (ossia la Guinea e le
Americhe) ma quest'ultima non ebbe molto successo.

La Voc era un organismo federativo le cui decisioni erano prese da sei camere rappresentanti le città
olandesi di Amsterdam, Delft, Rotterdam, Hoorn, Enkhuizen e della zelandese Middelbug. Il capita-
le iniziale era quindi completamente delle Province Unite, ma venne data a chiunque la possibilità
di investire: nella Compagnia figuravano infatti anche soci tedeschi, inglesi o fiorentini; inoltre, da
“compagnia regolata” divenne giuridicamente “società a capitale comune”, trasformandosi così
sempre più in una moderna società per azioni con quote uguali, nominative e cedibili, vendute e
quotate in borsa.

L'obiettivo prefisso dell'impresa coloniale olandese era attaccare il potere e le entrate che le nazioni
iberiche ricavano tramite il dominio in Asia. Grazie all'impegno della Voc e ai mezzi conferitegli
dalle Province, quindi, in pochi anni furono conquistate molte basi portoghesi come Amboina, Tido-
re, Ternate e altre isole delle Molucche indonesiane, e vi furono costituite basi commerciali fortifi-
cate: l'Impero coloniale portoghese riuscì a raggiungere la supremazia soprattutto nel commercio di
spezie (e in particolare la noce moscata e i chiodi di garofano), il cui traffico verso l'Europa divenne
quasi monopolistico.
La ripresa degli scontri con la Spagna nel 1621 fu poi quasi una botta di fortuna per i Paesi Bassi,
che, in scarsità d'argento, furono costretti ad approfondire i rapporti commerciali col Giappone, che
successivamente chiuderà i suoi commerci a tutti i mercanti europei tranne che agli olandesi (dalla
base nel porto di Nagasaki) e diventerà per essi un partner privilegiato dell'attività commerciale. Da
qui in poi riuscì anche nell'impresa di interporsi nel commercio regionale fra India, Indonesia, Giap-
pone e Cina, con risultati anche migliori di quelli che avevano avuto i portoghesi prima di loro.

Già dagli ultimi decenni del secolo, in ogni modo, con l'inasprirsi delle barriere doganali e le ag-
gressive politiche coloniali di Inghilterra e Francia, insieme ai cambiamenti che rapidamente avve-
nivano in Asia – lo spostarsi dei poli produttivi dal Giappone a Cina e India – portarono l'economia
delle Province a rimanere indietro, fino al cambiamento della domanda europea verso materie prime
come la seta e il cotone grezzi, tè e caffè (prodotti lontani dai centri di potere della Voc, che non
aveva possibilità di muoversi dal Giappone e dalle sue basi delle spezie): dapprima quindi quello
dei Paesi Bassi fu un declino relativo, rispetto all'avanzamento più veloce che stavano avendo altri
stati europei (su di tutti l'Inghilterra), si arrivò quindi al declino in senso assoluto quando dalla metà
del Settecento Amsterdam perse il suo ruolo di scalo centrale provocando così discontinuità nei ri-
fornimenti per le industrie interne e una generale decadenza.

13. L'Inghilterra nell'Età Moderna

All'inizio del '400 l'Inghilterra poteva dirsi ancora un paese sottosviluppato: con una popolazione
decisamente più bassa della media europea e un'agricoltura che solo lentamente si avviava verso la
modernizzazione (con il graduale passaggio dagli open fields alle enclosures, che sarebbe stato re-
sponsabile di una sostanziale razionalizzazione delle colture), basava inoltre il suo commercio uni-
camente sul commercio di lana grezza e pannilana. Grazie a leggi regie, però, l'economia inglese
aveva già cominciato a praticare una buona politica delle risorse per cui veniva favorita l'esportazio-
ne dei pannilana (prodotti finiti) rispetto a quella di lana grezza (materia prima), che veniva invece
generalmente prodotta sempre più per il mercato locale.
Il commercio inglese, in ogni modo, era ancora piuttosto arretrato (si parla di un 40% del totale dei
traffici in mano a stranieri), ma si avviava dalla fine di questo secolo verso un lento ma consistente
cambiamento. Mentre, infatti, i traffici dell'Europa continentale si spostavano verso il porto di An-
versa (molto pratico per lo scambio con il porto di Londra, e con cui si sviluppò quindi un efficiente
asse commerciale), anche a causa della crisi del settore nell'Italia del periodo, il tessile inglese (so-
prattutto laniero, come si è visto) ebbe un boom in tutta Europa: le merci venivano scambiate ad
Anversa, e gli acquirenti più entusiasti erano soprattutto i mercanti tedeschi.
Questo sviluppo dell'economia ebbe, tuttavia, una prima battuta di arresto intorno alla metà del Cin-
quecento: la mole delle esportazioni tessili (rapidamente cresciute, nel frattempo) diminuì notevol-
mente per un certo periodo. Alla base di questo momentaneo calo c'erano da una parte il ritorno sul
mercato europeo dei mercanti e delle merci italiane (nel breve periodo di ripresa che ebbero con
l'”Estate di San Martino”) e un consistente calo della domanda da parte dei mercanti tedeschi (legati
a doppio filo con l'economia spagnola allora in crisi), dall'altra il periodo di guerra che si stava veri -
ficando nelle province meridionali dei Paesi Bassi: la devastazione di Anversa fu un duro colpo an-
che per l'economia inglese. Anche se piuttosto limitata nel tempo, questa crisi servì comunque di le-
zione per i mercanti di oltre-manica che, accortisi dell'errore commesso, cominciarono in questo pe-
riodo a differenziare maggiormente la produzione per ridurre il rischio.

Per comprendere appieno il grande sviluppo successivo che avrà l'Inghilterra successivamente biso-
gna analizzare vari tratti di una società già di per sé ricettiva culturalmente, desiderosa di emulare le
altre potenze e capace di non ripiegarsi sulle difficoltà ma reagire con innovazione.
L'Inghilterra trasse notevole beneficio dalle persecuzioni religiose che praticarono alcuni stati euro-
pei (su di tutti Francia e Paesi Bassi spagnoli) contro i protestanti. L'emigrazione di Ugonotti e Val-
loni portò infatti un'ondata di buona – e spesso anche ricca – manovalanza che sviluppò le proprie
qualità nel paese che le ospitava: gli artigiani e i mercanti francesi espressero così la loro bravura
nelle arti del vetro, della seta, dell'orologeria; quelli delle Fiandre, molto abili nel settore tessile, svi-
lupparono la new drapery come sintesi dell'esperienza inglese ed europea.
Più nel dettaglio, quest'ultimo settore (grazie anche ai contributi dell'immigrazione) si sviluppò no-
tevolmente andandosi a diffondere sul territorio in forma di industria disseminata e con un ridimen-
sionamento del potere corporativo: ridimensionamento che si cercò di abbattere nel 1563 con lo
“Statuto dei mestieri”, che avrebbe bloccato la mobilità occupazionale nell'artigianato (ad esempio
con normative che legavano il lavoro a lunghi periodi di apprendistato) e garantito le corporazioni
istituzionalmente. In ogni modo questa legge fu generalmente poco applicata, specialmente fuori
dalle città, nei luoghi propri dell'industria decentrata, non determinando quindi perdite rilevanti.
Rimanendo nel secondario, un altro settore importante era quello metallurgico, che, con notevoli
progressi, vide la produzione nazionale di ferro triplicare, e aumentare consistentemente anche quel-
la del piombo: questa alta disponibilità di metalli diventerà ben presto uno stimolo non solo alla
esportazione, ma anche all'industria bellica, nella quale l'Inghilterra andò specializzandosi.
C'era tuttavia alla base del sistema produttivo un problema energetico. L'Inghilterra, per la sua
estensione e la sua morfologia non abbondava di foreste, e dal 1630 circa questa scarsità di legname
da carbone per l'industria si trasformò in un problema serio a cui si reagì potenziando i traffici nava-
li con la Scandinavia e aumentando l'uso del carbone fossile, molto diffuso invece in Inghilterra.

Dal punto di vista politico, fu proprio in questi anni che si svilupparono i cambiamenti nella struttu -
ra dello stato che caratterizzeranno lo stato inglese fino ad oggi. Dalla morte di Enrico VIII, infatti,
cominciò lo sviluppo del parlamento come organo politico e legislativo rilevante che si esprimeva
sull'autorizzazione di nuove tasse: in questo senso, mentre in Francia e Spagna si andava sempre più
verso l'assolutismo regio (e quindi non c'erano problemi per il re nel fare decisioni politiche contro-
verse o introdurre nuove imposte), in Inghilterra si progrediva lentamente verso una forma monar-
chica costituzionale che raggiungerà verso la fine del XVII secolo.
Come nella maggior parte degli stati europei, anche in Inghilterra l'avvento della riforma protestante
fu un affare di stato: al contrario ad esempio di Francia e Spagna, il parlamento inglese si schierò
radicalmente a favore della religione anglicana (fondata dal re Enrico VIII) e tra il 1532 e il 1535
promulgò una vasta serie di atti preposti di tagliare tutti i ponti con la religione cattolica romana.
Oltre, quindi, ad elevare la figura del re al ruolo di capo supremo dell'ordine religioso, vennero sop-
pressi tutti gli ordini monastici presenti nel territorio nazionale e sequestrati i beni clericali, la cui
successiva vendita contribuì a risanare le casse dello stato e a far nascere una nuova classe sociale,
la gentry, di piccola nobiltà (o alta borghesia), che si occupava sia di agricoltura che di industria.
Dal 1630 avverranno però i rivolgimenti maggiori. Dopo il tentativo di Carlo I di governare e am-
ministrare lo stato senza il parlamento, scoppiò una guerra civile che vide battersi da una parte la fa-
zione realista (fedele a Carlo, formata da aristocrazia e clero) e dall'altra l'opposizione parlamentare
appoggiata dalla classe media. Con l'esecuzione del re (1649), l'Inghilterra avrà un breve periodo re-
pubblicano (il Commonwealth di Oliver Cromwell) dopo il quale si ritornerà nuovamente alla mo -
narchia. L'avvento sul trono del re cattolico Giacomo II riportò però in auge le polemiche religiose:
sotto la minaccia di un ritorno al cattolicesimo, nel 1689 il parlamento destituì con la propria autori-
tà Giacomo II e offrì il trono nazionale al principe olandese Guglielmo III d'Orange, scelto ed eletto
dalle camere (fatto importantissimo per l'epoca, tra i primi in tutta Europa ad affermare la volontà
popolare sovrana), che accettò. Il grande risultato della Seconda Gloriosa Rivoluzione inglese (pas-
sata alla storia come gloriosa per il non aver suscitato guerre e spargimenti di sangue), nonché la
condizione con cui fu offerto alla casata d'Orange di regnare fu la promulgazione del Bill of Rights
(la “carta dei diritti”), un fondamentale testo legislativo che toglieva la libertà al re di imporre tasse
e mantenere un esercito senza l'approvazione del parlamento ed affermava la libertà di elezione e di
parola dei singoli parlamentari.
Grazie al riordinamento di poteri della Gloriosa Rivoluzione, il parlamento diventò definitivamente
l'organo decisionale che controllava finanza e politica economica dello stato: con questi termini, fu
giuridicamente istituita, nel 1693 (per primi in tutta Europa), la presenza di un debito pubblico sta-
tale ben distinto da quello del patrimonio personale del sovrano; fu creata la Banca d'Inghilterra
(1694) e, contemporaneamente con la diffusione della carta moneta, si affermò un mercato organiz-
zato per i titoli pubblici e privati quotati.

L'avventura coloniale, invece, cominciò per l'Inghilterra già da metà Cinquecento. Non avendo
quindi, a causa della sua tardiva dedizione alle esplorazioni, possedimenti diretti nel Nuovo Mondo
più ricco (ovvero i territori che stavano conquistando Spagna e Portogallo) né in Asia (giacché la
conquista di basi in Oriente comincerà solo in questo periodo), la marina inglese, attratta comunque
dalle ricchezze provenienti dalle colonie, si dedicò a lungo alla pirateria: chiamata anche “guerra di
corsa”, era legittimata dallo stato e anche per questo accolse un numero sempre crescente di imbar-
cazioni corsare che tentavano la fortuna con questa forma di navigazione mista tra il militare e il
commerciale.

Parlando più in generale del commercio, è necessario citare un importante provvedimento che prov-
vide a modificare molto la natura del commercio inglese e porrà le basi per lo sviluppo futuro: gli
Acts of Navigation. Gli Acts vennero approvati nel 1651 con l'obiettivo di proteggere la marina in-
glese e di strappare all'Olanda lo strapotere che aveva sui mari e nel commercio di spezie, legname
e pesci. Conteneva radicali normative che sancivano che:
• tutte le merci importate in Inghilterra dovevano arrivare su navi inglesi o tuttalpiù provenienti
dal paese d'origine delle merci;
• anche le navi inglesi importatrici dovevano provenire solo dal paese d'origine delle merci e
non da porti intermedi (con un preciso intento anti-olandese);
• le navi che usufruivano dei servizi portuali inglesi dovevano essere inglesi;
• il commercio con e tra le colonie britanniche, il commercio costiero e quello di pesce doveva
avvenire esclusivamente su navi inglesi;
• le importazioni delle colonie britanniche dovevano essere prima trasportate in Inghilterra, e
stessa cosa doveva avvenire per le loro esportazioni.
Le severe normative degli Acts of Navigation, pur riducendo temporaneamente gli introiti del com-
mercio, riuscirono negli obiettivi iniziali di potenziare la marina nazionale ed ottennero grandi risul-
tati nel commercio in generale; anche le Province Unite nel medio termine furono molto penalizzate
da questi provvedimenti (ancora con molta soddisfazione dell'Inghilterra). L'unico effetto collaterale
che produssero nel momento della loro intensificazione, e anche a causa del regime fiscale stringen-
te, fu la dichiarazione d'indipendenza delle tredici colonie che il Regno Unito aveva nell'America
settentrionale, che avevano raggiunto un significativo sviluppo economico e demografico già dagli
inizi del Settecento.

Il commercio coloniale proprio britannico era basato soprattutto sulla riesportazione di prodotti
esteri e sul country trade, ovvero il commercio regionale fra varie zone dell'Oriente. Esattamente
come aveva fatto l'Olanda, l'Inghilterra gestì l'organizzazione dei traffici internazionali tramite com-
pagnie monopolistiche: per lo stato era un vantaggio poiché gli permetteva di fatto di ampliare la
flotta, le entrate e i commerci in generale; ciò che ricevevano invece le compagnie era ovviamente il
monopolio sulla zona di concessione e l'aiuto militare in caso di scontri, la legittimazione statale
dava inoltre fiducia agli investitori, e permetteva di avere deroghe riguardo ad alcune leggi in mate-
ria di commercio.
Le due maggiori compagnie monopolistiche inglesi erano:
• la Muscovy Company, fondata nel 1555 e diventata nel 1566 Compagnia di Russia (che aveva
delega per il commercio dalle vie terrestri per l'Asia, e quindi in Persia, Armenia e nella zona
del Mar Caspio);
• la Levant Company, fondata nel 1581 (che ottiene nel 1593 il permesso di commerciare e tra-
sportare merci orientali via mare e via terra);
• la Eastern India Company, a cui venne concesso un privilegio ulteriore (charter) sulle Indie il
giorno di San Silvestro del 1600.

La Compagnia delle Indie inglese avrà un percorso simile a quello della Voc (pur riferite a due Paesi
diversi, infatti, interessi e priorità erano identiche): da compagnia regolata passò prima allo stato di
compagnia con azioni sottoscritte per un periodo limitato, fino ad arrivare nel 1657 allo stato di
joint stock company, ovvero società anonima per azioni a capitale azionario fisso. Il percorso fu
completo quando nel 1709, col cambio di nome in Company of merchants trading to East Indies, le
venne data la possibilità di accogliere chiunque tra i propri azionisti e finanziatori (e non solo ai
londinesi come avveniva precedentemente) e le furono accollati molti altri privilegi come la possi-
bilità di riunire milizie militari, stabilire zecche, conseguire trattati diplomatici di propria iniziativa
e gestire le colonie anche dal punto di vista giuridico, sia civile che penale. Anche per questa var-
ranno, quindi, le riflessioni fatte precedentemente a proposito della Voc sul potere reale di uno “sta-
to dentro allo stato”.
Il traffico nel Mar Mediterraneo veniva gestito invece già dalla fine del Cinquecento dalla Levant
Company, prevalentemente tramite il porto franco di Livorno, fondato dai Medici (a causa del pro-
gressivo interramento di Pisa) a metà del XVI secolo e diventato col tempo lo snodo principale della
riesportazione inglese in Europa.
Su queste due piste commerciali, lasciavano l'Europa erano prevalentemente l'argento (di cui l'In-
ghilterra esportava i tre quarti del totale), pochi panni lavorati, metalli grezzi e opere d'arte; dall'O-
riente entravano invece in Europa varie spezie (anche se la Voc ne aveva quasi il monopolio) ma
sempre più caffè, tessuti di cotone indiani, tè e porcellane cinesi.
Il terzo aspetto del commercio inglese (che peraltro lo caratterizzerà moltissimo in futuro) era il
commercio triangolare nell'Atlantico:
1. dalla madrepatria le navi partivano cariche di merci lavorate come stoffe, liquori, manufatti,
armi e tabacchi lavorati;
2. nelle basi africane sull'Atlantico venivano scambiate con schiavi da traghettare in America,
destinati al lavoro nelle piantagioni del Sud;
3. in America venivano scaricati gli schiavi e le navi ripartivano verso Londra cariche di mate-
rie prime.
In Inghilterra avveniva quindi la lavorazione delle materie prima e il ciclo poteva ricominciare.
Il potere dell'Inghilterra nel commercio internazionale la portò a ricavare notevoli vantaggi sia nel
breve che nel medio-lungo termine. Lo smercio delle colonie dei prodotti lavorati in patria era già
da solo un'importante domanda e fonte i ricchezza, così come il possedimento delle basi rendeva
possibile l'accesso a materie prime a buon mercato che abbassarono allo stesso tempo i costi per i
prodotti finiti nazionali (comprabili anche dai paesi sottosviluppati grazie ai capitali spesi per le ma-
terie prime ora in mano loro). Così, mentre si sviluppavano trasporti e nuove attività in campo assi -
curativo, si ingrandivano sempre di più le grandi città (Londra supererà Amsterdam in questo perio-
do): i capitali accumulati nei commerci erano ora disponibili per essere investiti in agricoltura e ma-
nifattura, ed insieme ai progressi fatti nella gestione e nell'imprenditorialità si ponevano le basi in
questo momento per lo scatto di produttività necessario per superare i vincoli economico-demo-
grafici e dare inizio alla rivoluzione industriale.

14. La Francia nell'Età Moderna

Dalla fine del XV secolo il Francia il re si era arrogato il diritto di aumentare le imposte e istituire
nuove tasse a suo piacimento, senza il consenso di qualsivoglia assemblea rappresentativa: per que-
sta condizione alla fine del Cinquecento le entrate tributarie si erano decuplicate rispetto a un secolo
prima, ma ancora non erano abbastanza per coprire le spese complessive dello stato e quelle belli-
che. Per avere questa disponibilità finanziaria la Francia era quindi costretta a indebitarsi frequente-
mente (a tal punto da dover addirittura affidare la riscossione delle imposte a esattori privati, nono-
stante la moltiplicazione degli uffici) e a vendere numerose cariche nobiliari. Se quest'ultimo prov-
vedimento poteva rendere denaro sul momento fu assai controproducente nel medio periodo: si ven-
ne a creare, infatti, una nobless de robe improduttiva che era anche esentata da tributi accanto ad
una nobiltà d'armi con le stesse prerogative. Al cambiamento della situazione contribuirà per grande
parte il ministro dell'economia Jean-Baptiste Colbert (1619-1683) con vari provvedimenti che ve-
dremo più avanti.

Analizzando i vari settori dell'economia francese nel Seicento, l'agricoltura rimaneva ancora il setto-
re principale, che determinava anche il basso livello di urbanizzazione francese. In questo periodo si
passa compiutamente all'affermazione di nuovi contratti agrari (come la mezzadria e l'affitto breve)
che sostituirono la signoria feudale. L'aumento della pressione che si è visto limitò però l'accumula-
zione di capitali consistenti nel settore, lasciandolo così in uno stato stagnante.
Dopo la crisi di inizio secolo, di cui fu responsabile in Francia anche la fuga degli Ugonotti, le già
esigue manifatture francesi si videro ulteriormente ridotte; la ripresa, per le aziende sopravvissute e
più sviluppate, comincerà dalla seconda metà del Seicento grazie alla politica dei sussidi e alla cre-
scente domanda coloniale.

Nell'ambito del commercio coloniale, dopo la flebile opposizione al dominio spagnolo e portoghese
(per lo più limitata a brevi esplorazioni e ad opere di pirateria), conquisterà parte dell'odierno Cana-
da (nelle missioni di Jacques Cartier tra 1534 e 1543 più ingenti zone dell'Africa mediterranea e
atlantica: l'insediamento in queste zone avvenne negli anni '30 del Seicento; luoghi significativi di
conquista erano ad esempio la Guinea, il Senegal o la Sierra Leone. Il colonialismo francese di que-
sto periodo era, però, ancora un colonialismo molto marginale rispetto all'efficienza dei sistemi in-
glesi e olandesi o all'estensione delle conquiste spagnole, e almeno per ora non intaccherà in alcun
che il loro predominio sugli oceani.
Sotto Luigi XIV, con l'avvento di Colbert, il potenziamento del settore divenne invece una priorità:
la creazione della Compagnie des Indies Orientales (1664) significò la fusione degli affari della ma-
rina, ma aveva caratteri notevolmente diversi rispetto a quelli delle compagnie omologhe di Olanda
e Inghilterra: la sua non era infatti un'organizzazione indipendente di mercanti “legati” ad uno stato,
anzi, era una creatura dello stato stesso con Luigi XIV fra i maggiori finanziatori, fondata non solo
per il profitto ma anche per raggiunger importanza diplomatica. Con la Compagnie vennero conqui-
state ulteriori colonie sulle coste dell'India e varie isole nell'Oceano Indiano.
Venne creata anche una Compagnia delle Indie Occidentali che aveva possedimenti coloniali nelle
Antille, ma fu meno importante nel futuro ed ebbe generalmente meno successo.
Almeno inizialmente l'impresa coloniale francese non fu in ogni modo particolarmente brillante.
Molti erano gli scogli che si intraponevano al suo operato (primo fra tutti la concorrenza spietata di
inglesi e olandesi e i vari scontri che fu costretta a fronteggiare) e molte erano anche le condizioni
pregresse che la collocavano un gradino più in basso rispetto alle altre potenze:
• i mercanti francesi non erano propriamente interessanti alla Compagnie e, mentre si faticava
ad ottenere investimenti dal settore, erano ancora impegnati nel contrastarsi;
• la Francia non aveva a disposizione l'alta formazione del capitale umano che potevano avere
le Province Unite, poiché la sua marina aveva avuto uno sviluppo più tardivo;
• la sede della Compagnie, situata a Parigi, era lontana dal mare e questo rendeva più lunghe
le operazioni e le comunicazioni con i porti.
La dipendenza del re esacerbava questa situazione, ma nel 1723 almeno questo problema venne ri-
solto affidando al re solo la nomina dei direttori, sottoposti poi ad un commissario.

Grazie alla figura di Colbert, la Francia fu lo stato europeo che più di tutti seguì i principi del mer -
cantilismo in politica economica, per due semplici necessità inderogabili: la riduzione le finanze e il
debito pubblico, le prime più dissestate che mai e il secondo a livelli mai visti; la necessità di dotare
lo stato di un settore manifatturiero e di una marina che fossero in grado di competere con le più
grandi potenze del momento sul mercato e nella lotta coloniale.
In 20 anni, quindi, grazie all'opera di Colbert il debito pubblico scese da 27 milioni di livres a 8 mi-
lioni di livres: per raggiungere quest'obiettivo il ministro mise in pratica i tre provvedimenti fonda-
mentali dell'istituzione della Chambre di Justice come organo di sorveglianza sulle speculazioni sul
debito della Corona (afflitto infatti da una seria rete clientelare di finanzieri), della – necessaria –
riorganizzazione dell'apparato burocratico preposto alla riscossione dei tributi e dell'eliminazione
dei registri di nobiltà per diminuire sostanzialmente il numero di esentati dalle imposte.
Anche nel settore produttivo riuscì a stimolare molto l'ambiente, effettuando interventi in ogni am-
bito con incentivi di varia natura, spesso nelle forme di esenzioni fiscali, commesse pubbliche o
prestiti agevolati; un altro provvedimento capitale fu l'introduzione di dazi doganali protettivi come
stimolo all'attività nazionale.
Colbert si fece promotore di una vasta indagine sullo stato economico della Francia che durò tre
anni e al termine della quale fu decisa la strategia di rilancio della produzione, che si sarebbe basata,
quindi, sulla specializzazione in prodotti di qualità a costi medio-alti. Per incentivare questo settore
si istituirono quindi manifatture reali sovvenzionate dallo stato (che dovevano essere il fiore all'oc-
chiello della produzione) e un rigido sistema di controlli di qualità compiuti da funzionari statali e
dalle corporazioni cittadine, di cui venivano quindi ampliati i poteri a livello burocratico.
Nel campo del commercio, invece, pur con altrettanti incentivi, non si conclusero gli stessi risultati
positivi che si avranno nella manifattura: anche se si riuscirà a raddoppiare il tonnellaggio delle navi
commerciali, l'indifferenza della nobiltà e della ricca borghesia non permise altissimi livelli di inve-
stimento e quindi radicali cambiamenti.

Se alla grande intelligenza di Colbert va reso merito, nonostante i suoi sforzi non ci fu ancora per un
po' in Francia una crescita brillante, anche a causa dell'assenza di una classe imprenditoriale nume-
rosa e capace che potesse essere partecipe dello sviluppo: rimaneva inoltre il problema del potere
nobiliare, solo lievemente attenuato e ancora fondamentale. L'opera del grande statista sarà comun-
que la base indispensabile per il futuro sviluppo francese.
Cacciato Colbert alla fine del secolo, si ricominciò nuovamente a sperperare risorse e capitali, ridi-
mensionando, purtroppo, notevolmente gli effetti benefici della sua politica, e allontanando ulterior-
mente la realizzazione della Francia.
15. Una panoramica riassuntiva sui traffici

15.1 Il Mediterraneo
Con la scoperta delle rotte oceaniche dal Cinquecento, e poi definitivamente dal secolo successivo,
il Mar Mediterraneo diventò un mare periferico, di appoggio ai traffici oceanici, e popolato non più
dalle marine locali delle città marinare e della Spagna (che persero il ruolo egemone non avendo le
une una grande potenza di riferimento e l'altra essendo stata affossata dagli sforzi militari e dalle
inefficienze dello stato), ma dalle nuove potenze “nordiche” affacciatesi sul mercato. L'economia
dei Paesi mediterranei stava lentamente rimanendo indietro, trasformandosi da in un'economia di
sottosviluppo produttrice di materie prime per l'esportazione: l'asse commerciale si era infatti spo-
stato verso l'Atlantico, e gli antichi protagonisti della rivoluzione commerciale svolgevano ora un
ruolo di secondo piano.
Le potenze nordiche erano ovviamente quelle di Inghilterra e Olanda, la prima impegnata – attra-
verso il porto di Livorno – nel commercio tra gli stati italiani e quelli del Nord Europa, la seconda
impegnata nel commercio del grano della zona del Baltico. A fianco alle potenze stavano altre tre
realtà degne di nota: l'Impero Ottomano, il regno francese e l'Impero Asburgico.
L'Impero Ottomano non aveva partecipato alla “rivoluzione nautica” della prima Età Moderna, e la
sua scarsa potenza si rifletteva nell'utilizzo di navi europee (o tuttalpiù di appaltatori greci interni al-
l'impero) per il basso commercio marittimo tra le sue regioni; il commercio estero era invece del
tutto gestito dagli europei: nel Seicento l'impero intratterrà rapporti commerciali privilegiati con la
Francia colbertista, che verrà sostituita più tardi dall'Inghilterra. Non ci sarà quindi, a causa di que-
sto quasi completo affidamento del commercio ad appaltatori esterni, lo sviluppo di una buona clas-
se mercantile del gigante arabo, che progressivamente si avvierà alla decadenza.
Per quanto riguarda la Francia, invece, ampliò la mole dei commerci mediterranei grazie alla riorga-
nizzazione dell'era Colbert: oltre ai già visti rapporti con l'Impero Ottomano, mete preferenziali dei
traffici erano anche gli stati barbareschi dell'Africa settentrionale; il porto di riferimento in patria di-
venne, in questo periodo, quello di Marsiglia. Concludendo, l'Impero Asburgico, per sua natura es-
senzialmente un grande impero terrestre, cominciava a sentire in ritardo il bisogno di potenziare il
commercio marittimo: per inseguire lo sviluppo si puntò sui porti di Fiume e successivamente Trie-
ste (porto franco nel 1719).

15.2 L'Atlantico
Fu soprattutto l'Oceano Atlantico a sostituire l'antico ruolo del Mediterraneo di luogo principale del
commercio marittimo, sia per la proficuità delle nuove rotte principali che per alcune caratteristiche
naturali che rendevano la sua navigazione pratica ed efficacie, ovvero la presenza nell'oceano di
venti e correnti marine regolari facilmente sfruttabili, oltre alla presenza, sulle coste degli stati
atlantici, di una serie di grandi fiumi navigabili molto utili per gli spostamenti di merci.
I principali attori del commercio nell'Atlantico erano:
• la Spagna;
Gestiva i traffici col Nuovo Mondo in senso monopolistico attraverso la Casa de Contrac-
taciòn di Siviglia: il ruolo delle sue colonie era quello di fornire materie prime a buon mer-
cato per la produzione nazionale e di accogliere lo smercio delle produzioni stesse.
• il Portogallo;
Aveva in realtà un ruolo secondario rispetto all'America (limitata allo sfruttamento del suo
territorio brasiliano per l'esportazione di canna da zucchero); molto più attiva era invece
nel commercio con le coste dell'Africa occidentale.
• l'Inghilterra;
Mostrava una grande capacità di coordinazione dello sviluppo di madrepatria e colonie
(che acquisiranno nel '700 l'indipendenza), allo stesso tempo luogo di produzione delle ma-
terie prime e di riesportazione dei lavorati inglesi. Il “capolavoro” dell'organizzazione
commerciale inglese era il collaudato sistema del commercio triangolare, prima tra Inghil-
terra, Africa e America, quindi anche quello proprio delle colonie tra New England, isole
caraibiche e Africa (più o meno con le stesse prerogative del primo).
• le Province Unite;
Il cui intervento in questo oceano era in realtà piuttosto esiguo, limitato a piccole zone del
Nord dell'America meridionale con Curaçao come porto franco di riferimento.

15.3 L'Oceano Indiano


Già luogo di floridi scambi fra gli operatori locali prima dell'arrivo degli europei, l'Oceano Indiano
era una zona commerciale capace di offrire molto alla fama di ricchezza delle potenze del nostro
continente. Scoperte le vie marine per esso, quindi, molti stati ingaggiarono una competizione per
acquisire il monopolio della gestione del commercio con l'Europa, alcuni cercando addirittura di in-
serirsi nei vivaci scambi che avvenivano tra le varie zone. I circuiti locali principali erano, in sintesi,
tre: il primo e più esteso era quello della zona del Sud-Est asiatico compreso tra i porti di Canton e
Macao fino a Malacca, comprendendo anche il vicino Giappone e le isole portoghesi delle spezie; il
secondo, da Malacca a Calicut (nell'India meridionale), comprendeva l'isola di Ceylon – oggi Sri
Lanka – e la prospera regione del Bengala; quindi, procedendo verso Occidente, si trovava il traffi-
co dell'Ovest-India che si congiungeva con le rotte di terra dell'Impero Ottomano, che mantenevano
i propri rischi e la scarsa organicità, tanto che il loro uso, ancora praticato per un paio di secoli, ri-
marrà comunque del tutto marginale come sistema di trasporto delle merci.
A queste rotte si univano anche quelle di tradizione prima musulmana e poi portoghese dell'Africa
Orientale, con la zona del Mozambico e i porti di Mombasa e Malindi.
Come si è visto, i primi europei a giungere nell'Oceano Indiano furono i portoghesi, che gestivano il
commercio con l'Oriente a loro volta monopolisticamente, attraverso la Casa da India come istitu-
zione regolamentatrice dei commerci e il più recente Estado da India, branca dell'amministrazione
portoghese creata appositamente per la gestione delle colonie commerciali.
Il declino del Portogallo avvenne sia per le ragioni interne della difficoltà nella gestione di un terri-
torio così grande per uno stato così piccolo che per le attività inglesi e olandesi prima di contrab-
bando e pirateria e poi di concorrenza istituzionalizzata con le compagnie privilegiate. Subentrando
all'organizzazione portoghese, quindi, la Voc ricalcò l'organizzazione in basi commerciali acquistan-
do il quasi monopolio del commercio delle spezie per l'Europa; l'Inghilterra, che per diretta conse-
guenza poteva fruttare meno sulle spezie, scommise sul successo sulle piazze europee dei tessuti di
cotone indiani. Dalla seconda metà del '700 inizierà poi la dominazione territoriale effettiva delle
colonie attraverso l'impianto della East India Company, che rappresenterà la base per il successivo
dominio imperiale la cui pratica si diffonderà nell'Ottocento.

15.4 Il Pacifico
L'Oceano Pacifico rimase per molto tempo poco trafficato e generalmente escluso dai grandi traffici
del Seicento. L'unico stato che aveva un ruolo stabile in questa grande zona del globo era la Spagna,
che aveva conquistato a metà Cinquecento le isole delle Filippine: quest'arcipelago rappresentava il
crocevia commerciale tra un luogo di florida estrazione di argento com'era il Centro-America e uno
di argento costoso e scarso, dipendente dall'apporto estero, com'era invece il territorio cinese e del
Sud-Est asiatico. Il porto principale degli spagnoli nelle Filippine era quello di Manila.
L'unico altro personaggio dell'attività economica di rilievo nel Pacifico era il Giappone, che chiuse,
tuttavia, nel 1640 qualsiasi traffico con mercanti europei in patria (eccezion fatta per gli olandesi,
che mantenevano buoni rapporti e che intrattenevano i commerci dal porto di Nagasaki).

16. Fatti e caratteri della rivoluzione industriale inglese

I cambiamenti nella produzione e nella trasformazione delle materie prime che si sono verificati in
Inghilterra a partire dalla metà del secolo diciottesimo sono stati talmente vasti e innovativi da con-
durre gli storici di tutti i periodi successivi a parlare di una “rivoluzione industriale” (c'è addirittura
chi parla del “cambiamento più significativo dai tempi dell'invenzione della ruota”) che avvenne in
questo paese, tale da modificare in senso radicale il lineare andamento della storia e dell'economia.
Questi cambiamenti riguardarono sia i processi produttivi che i meccanismi intrinseci del mercato e
per la loro varietà possiamo individuarne solo alcuni fondamentali, come l'aumento della produzio-
ne grazie all'applicazione della tecnica e della conoscenza empirica ai processi, la specializzazione
dell'attività economica per lo smercio sul mercato, il progressivo inurbamento della popolazione in-
sieme all'aumento delle dimensioni delle unità produttive: queste diventano quindi spersonalizzate,
e vengono meno istituti produttivi che fino ad allora erano stati fondamentali, come la famiglia (che
diventa da unità produttrice a unità consumatrice, la bottega artigiana, l'industria disseminata, così
come diventa marginale la figura del mercante-produttore, sostituita da quella dell'imprenditore ca-
pitalista (apportatore del capitale appunto, che diventa a sua volta fondamentale), e insieme a questa
nuove classe sociale – dei proprietari dei mezzi di produzione/imprenditori – nasce anche la nuova
classe degli esecutori materiali del processo produttivo, degli attendenti alle macchine operatrici, gli
operai, appunto.

Grazie a questi cambiamenti (indipendentemente dal dibattito storiografico sul se e sul come della
rivoluzione industriale) si è visto che tutti i principali parametri economici (popolazione, ricchezza
pro-capite, ricchezza mossa, ritmo di crescita, ...) aumentarono in modo mai visto per tutto il – largo
– periodo della rivoluzione (più o meno 1750-1850) provocando cambiamenti strutturali anche nella
società stessa.
Ciò che è certo è che non fu un cambiamento isolato a suscitarla, ma un lungo processo avvenuto
nei secoli e nei decenni precedenti. In relazione all'importanza data ai vari aspetti del cambiamento,
tuttavia, sono state definite più scuole di pensiero, ad esempio:
• la scuola del cambiamento sociale, che individua come fattore fondamentale alla base della ri-
voluzione il definirsi di nuovi rapporti economico-sociali tra gli attori dell'industria;
• la scuola dell'organizzazione industriale, che fornisce maggiore importanza al venir meno del-
le forme di produzione tipiche dell'industria dell'Età Moderna e alla relativa affermazione del-
la produzione nel complesso della fabbrica;
• la scuola macroeconomica, che attribuisce la responsabilità del cambiamento al mutamento a
monte dei fattori della macroeconomia, come la crescita degli investimenti, il livello del P.I.L.
pro-capite;
• la scuola tecnologica, secondo cui a determinare la svolta hanno contribuito più di tutti le in-
venzioni e le innovazioni applicate al processo produttivo (che furono numerosissime nel pe-
riodo);
La possibilità matematica che avvenissero cambiamenti improvvisi era, in ogni modo, assente: a te-
stimonianza di questo fatto bisogna notare che, pur sviluppandosi vertiginosamente la produzione
capitalistica, essa coesistette a lungo con le forme più antiche utilizzate fino a quel momento. Il
cambiamento fu quindi graduale, e dipese sicuramente (in rapporti più o meno definiti) da tutti que-
sti fattori insieme.

Analizzando più nel particolare il passaggio da un'economia preindustriale a una di stampo capitali-
stico-industriale nel caso dell'Inghilterra, possiamo fare una panoramica su quelli che erano i fattori
caratterizzanti di un'economia preindustriale (povertà, stagnazione, dipendenza dal settore primario,
mancanza di specializzazione del lavoro, scarsa integrazione geografica) in questo paese alla metà
del Settecento: se si considera come indicatore della povertà il livello della ricchezza pro-capite,
quest'ultimo non era certo alto, ma sicuramente in sensibile crescita, così come il potere d'acquisto
reale delle famiglie rispetto al resto d'Europa; in crescita era infatti l'economia in generale, stimolata
dai mercati interni ed esterni la cui domanda aumentava ogni giorno e assorbiva sempre più lavora-
tori a discapito del settore agricolo, che vide la percentuale di popolazione impiegata scendere
dall'80% al 68%; anche il livello di specializzazione del lavoro andava crescendo, mentre l'integra-
zione geografica era l'unica pecca per l'economia di un paese le cui regioni avevano uno sviluppo
differente e inorganico.
Un altro tipo di lettura può essere fatta tenendo conto della tesi della storica inglese Phillys Deane
nel suo saggio sulla rivoluzione industriale del 1961: la Deane teorizzò che alla base del radicale
cambiamento nella produzione e nel commercio del '700 inglese ci fossero quattro precedenti ma-
cro-rivoluzioni necessarie ad innestare la scintilla per la rivoluzione industriale: una rivoluzione de-
mografica, una rivoluzione agricola, un rivoluzione commerciale ed una rivoluzione dei trasporti.

Una rivoluzione demografica in Inghilterra ha effettivamente avuto luogo: dai primi anni del Sette-
cento, infatti, la popolazione cominciò ad aumentare con alti tassi di crescita senza più fermarsi. Le
cause di questo aumento demografico sono da trovarsi sia in ragione di minore mortalità (grazie an-
che all'attenuarsi della frequenza delle epidemie: il virus della peste, ad esempio, adottati i ratti
come veicolo al posto dei topi domestici, stava lentamente scomparendo) che – probabilmente – an-
che di maggiore natalità. A contribuire alla crescita demografica furono anche il progressivo miglio-
ramento delle condizioni igieniche (anche se per vedere un significativo sviluppo della medicina bi-
sognerà aspettare almeno l'Ottocento) così come una serie di buonissimi raccolti nelle stagioni tra il
1730 e il 1760: a queste stagioni ne seguirono altre peggiori, ma il commercio internazionale era or-
mai abbastanza maturo da poter ammortizzare egregiamente questa scarsità.
Aumentando il valore assoluto della popolazione inglese cresceva di pari passo sia la quantità di
forza lavoro disponibile che la domanda di beni sul mercato: il mercato faceva fronte a questa do-
manda aumentando la produzione e si chiudeva così un ciclo generatore di ricchezza.
Mentre la popolazione cresceva, quindi, l'Inghilterra si trovò con una tecnologia in pieno sviluppo, e
contemporaneamente riserve di forza lavoro da reclutare nell'industria, riserve di terre da coltivare
in modo intensivo, riserve di capitali accumulati nel commercio impiegabili per l'industria.

Per quanto riguarda il settore agricolo, si era innestato in Inghilterra già dalla metà del XVII secolo
un processo di sviluppo molto rapido riassumibile in tre punti:
1. sostituzione degli open fields con unità consolidate di grandi dimensioni;
2. estensione della superficie arabile alle terre incolte e alle common lands e adozione dell'alle-
vamento intensivo;
3. trasformazione delle comunità di villaggio contadina in forza lavoro agricola dipendente le-
gata al mercato più che al clima.
Questi cambiamenti provocarono un graduale ma notevole aumento della produttività dei campi in-
glesi, anche grazie a nuove tecniche produttive e all'introduzione nel settore di nuove pratiche im-
prenditoriali. Dal punto di vista tecnico, ad esempio, oltre alla famosissima seminatrice meccanica
di Jethro Tull (1701), vennero sperimentati ed adottati nuovi marchingegni come l'aratro triangolare
(dal 1730) ed altri tipi di trebbiatrici sperimentali (nel tardo Settecento). Ulteriori vantaggi si otten-
nero migliorando il sistema della rotazione delle colture sostituendo i campi a riposo con coltivazio-
ni “povere” come quelle dei legumi.
Un ruolo fondamentale nello sviluppo del settore fu inoltre quello delle già citate enclosures, ovvero
il fenomeno (anche questo progressivo) di recinzione dei campi agricoli cominciato già nel Cinque-
cento: lo sviluppo successivo di questa pratica, poi consolidato compiutamente nel 1801 con il pri-
mo General Enclosures Act, fu una condizione necessaria – anche se non la sola – perchè i proprie-
tari fossero spinti ad adottare nuove tecniche agricole e quindi portassero il primario inglese ad es-
sere il primo in Europa e nel mondo: con l'urbanizzazione e l'espansione della popolazione, infatti,
era richiesto un salto nella produttività che era possibile soltanto sperimentando ed investendo nel-
l'innovazione a discapito della tradizione, producendo per il mercato estero, aumentando la specia-
lizzazione sia del lavoro che delle colture.
In questo modo l'Inghilterra si trovò con un comparto agricolo senza dubbio autosufficiente (per-
mettendo così di rimpiazzare l'importazione di alimentari con quella di materie prime), capace di
garantire redditi agricoli alti che stimolassero il consumo interno e capace anche di fornire gli in-
genti capitali necessari per avviare l'industrializzazione; quando poi l'organizzazione fu ultimata, la
diminuzione della manodopera necessaria per il settore liberò una grande quantità di ex-contadini
pronti adesso per diventare la forza lavoro dell'industria.
Che ci fosse stata, ancora, una rivoluzione commerciale, non è certo in dubbio: la rivoluzione com-
merciale dell'Inghilterra non fu quella del '200-'300 dell'Europa mediterranea, ma quella che stava
nascendo nel Cinquecento ma che produsse i cambiamenti più ampi tra la fine del Seicento e la
metà del Settecento. L'espansione commerciale del Regno Unito era stata, in questo periodo, senza
pari. Da una parte il meccanismo sempre più affinato del commercio triangolare con l'Africa atlanti-
ca e l'America, dall'altra il dominio sempre più largo sulla regione indiana avevano portato al com-
mercio della corona:
• un aumento della gamma di beni e servizi disponibili sul mercato interno;
• la possibilità di accrescere rapidamente il prodotto nazionale, accrescendo così anche i livelli
di vita;
• la specializzazione nel settore e lo sviluppo di tecniche di organizzazione economica;
• una gestione attenta delle risorse e l'ottimizzazione dei fattori produttivi, comprati a prezzi
sempre più bassi dalle colonie (e non più dall'Europa), fatto che condusse ulteriormente alla
possibilità di realizzare economie di produzione su larga scala.
Se nel 1750 i prodotti in lana costituivano ancora circa la metà delle esportazioni, in realtà il com-
mercio estero era molto più articolato, e basato molto sulla riesportazione tra l'Africa e le Indie
Orientali ed Occidentali. La grande risorsa del settore, tuttavia, era l'altissimo livello del capitale
umano (sia dal punto di vista dei mercanti, che dei marinai e dei navigatori), che insieme al solido
sistema creditizio e a dei governi concilianti fecero spiccare il volo al commercio estero inglese, la
cui mole crebbe esponenzialmente per tutto il Settecento.

Per completare il quadro della Deane, quindi, rimane soltanto il quadro sui trasporti. Questi ultimi
non erano ancora perfettamente collaudati nel Settecento: il grande sviluppo si ottenne nella riorga-
nizzazione delle strade dissestate e facilitando la navigazione costiera, ma le più grandi opere ven-
nero effettuate nell'ambito dei canali navigabili, che rimangono tuttora quasi come un simbolo della
rivoluzione industriale.
Per fare tutto questo, lo stato inglese fu abile nell'affidarsi quasi completamente ai privati: imprendi-
tori e industriali, bisognosi di vie efficienti per i trasporti, furono i più grandi finanziatori per la co-
struzione di porti, ponti, ferrovie; furono loro i primi ad investire in servizi utili al Paese, di cui poi
avrebbero usufruito essi stessi con grandi vantaggi: sebbene questo affidamento ai privati provocò
molte speculazioni, sia nella finanza che nell'edilizia stessa, il clima economico del periodo era tal-
mente euforico che questi sembravano semplici incidenti di percorso, incapaci di arrestare lo svilup-
po in corso. In ogni modo ancora molto era necessario fare per riuscire a creare un sistema rapido
ed efficiente di trasporto delle merci, più adatto alla mole di trasferimenti che conosciamo oggi.

Quello che però fu veramente propulsivo per la rivoluzione industriale inglese fu lo sviluppo della
tecnologia applicata alla produzione. Se è vero che, per la loro incisività e innovatività, tutte le nuo -
ve invenzioni si classificano secondo lo schema di macro- e micro-invenzioni, fu l'abilità di un si -
stema capace di rinnovarsi dall'interno a sviluppare il nuovo nell'industria dell'Inghilterra settecen-
tesca: sebbene, infatti, questo Paese non avesse allora un livello di istruzione tecnica particolarmen-
te alto, la voglia di innovazione veniva direttamente dai produttori e dagli imprenditori specialmente
di basso livello: fu grazie a loro che, citando Ashton, “un'ondata di congegni si abbatté sull'Inghil-
terra”, andando ad affinare specialmente la tecnica della lavorazione del cotone, che da settore mar-
ginale si diffonderà sempre più e diventerà il motore della rivoluzione, anche grazie alle minori re-
strizioni corporative sulla lavorazione rispetto ad un settore tradizionale come quello laniero.
La prima invenzione di rilievo riguardava il processo di filatura: era il 1733 quando John Kay intro-
duceva sul mercato la prima versione della sua flying shuttle (navetta volante), una semplice mac-
china dai componenti in legno che velocizzava moltissimo il meticoloso processo di filatura dei tes-
suti; da qui in poi, e specialmente nel trentennio 1760-'90 (quello proprio del boom industriale), im-
mediatamente si produssero marchingegni per colmare lo stacco con le altri fasi produttive. Per la
cardatura nasceva la macchina di Lewis Paul (1748) e per la filatura la celebre Jenny di Hargraves
(1764, brevettata nel 1770); il filo di Jenny era però poco resistente inizialmente (tanto che si utiliz -
zava un misto tra lino e cotone per fare il filo), inconveniente poi risolto dal filatoio idraulico di
Arkwright (1769), che produceva un filo più resistente. Con il filatoio intermittente di Crompton
(passato alla storia come spinning mule per il suo fermarsi a intermittenza, un po' come l'ostinato
animale) e il successivo telaio meccanico di Cartwright (1787), il processo di rinnovamento poteva
ritenersi concluso, valutando i vantaggi che queste macchine avevano suscitato: all'inizio dell'Otto-
cento, la produttività per operaio impiegato nella filatura, ad esempio, era aumentata di più di due-
cento volte rispetto al periodo precedente all'introduzione della Jenny.
I cambiamenti furono rivoluzionari anche nella struttura e l'organizzazione stessa dell'industria: con
l'uso di macchinari costosi e ingombranti (come era ad esempio quello di Cartwright) veniva meno
la possibilità di far realizzare i prodotti a domicilio dai lavoratori, la dimensione ottimale della pro-
duzione diventava adesso la fabbrica cittadina, in cui il lavoro veniva svolto collettivamente a ritmi
cadenzati. Lo sviluppo rapidissimo della filatura, oltretutto, permise di risparmiare sull'importazione
dei filati (ora prodotti anch'essi in patria) e di limitare l'importazione alla materia “primissima”, il
cotone greggio, di cui l'Inghilterra aveva una vasta disponibilità a bassi prezzi dalle piantagioni del-
le colonie meridionali dell'America e dall'India, riducendo drasticamente i costi di produzione.
Se per gli imprenditori lo sviluppo fu straordinario, stessa cosa non si può dire per coloro che effet-
tivamente realizzavano i prodotti. I lavoratori del settore, infatti, con l'automatizzazione del proces-
so produttivo, non erano più i “semi-artigiani” autonomi molto liberi di lavorare a loro piacimento
(specie se cottimisti): da utilizzatori di utensili per la produzione diventavano “utilizzati” dalle mac-
chine tessili, attendenti al marchingegno con il compito non più di creare prodotti, ma di controllare
che la macchina svolga il lavoro. Questo cambiamento nelle condizioni di vita provocò non poco
malcontento in Inghilterra, che fu teatro in questo periodo di moti numerosi e diffusi contro l'utiliz-
zo dei telai e delle macchine meccaniche, responsabili di svilire la dignità dei lavoratori manuali e,
come sarà evidente successivamente, di minare seriamente alla loro salute.

L'altra industria trainante della prima rivoluzione industriale inglese fu l'industria del ferro, pur su-
bendo (rispetto a quella cotoniera) modifiche meno radicali perché già abbastanza strutturata e ge-
stita in senso capitalistico, anche dal punto di vista energetico: la risorsa utilizzata prevalentemente
era infatti il carbone fossile, di cui, a differenza del legname, l'Inghilterra era molto fornita.
Già piccoli miglioramenti erano stati fatti grazie al processo inventato da Abraham Darby nel 1709
per ottenere ghisa tramite il trattamento del carbone fossile in carbone “coke”, ma la ghisa ottenuta
tramite quel procedimento era piuttosto impura e fragile, tanto che poteva essere utilizzata solo per
produrre piccoli oggetti e non grandi prodotti di fucina: ancora per qualche decennio, per questo ti-
po di prodotti, l'Inghilterra fu costretta ad importare ed utilizzare ferro e ghisa di provenienza russa.
La svolta fondamentale – anche questa diventata praticamente un simbolo della rivoluzione indu-
striale, per il significato quasi metafisico del dominio dell'uomo sulla natura – avvenne quando nel
1775 (dopo un processo decennale di sperimentazione e perfezionamento) venne introdotta nel set-
tore la macchina a vapore di Boulton e Watt. Nonostante non fosse la prima macchina a vapore, la
macchina di Boulton e Watt fu la prima abbastanza pratica da poter essere utilizzata nell'industria
(la prima applicazione di cui si ricorda fu quella delle ferrerie di John Wilkinson): questa macchina,
infatti, a differenza delle altre, poteva essere adibita a più funzioni oltre al pompaggio dell'acqua
fuori dalle miniere, con una notevole riduzione di costi e consumi.
Quando nel 1783 fu brevettato il sistema di puddellaggio Cort per la raffinazione della ghisa, l'indu-
stria siderurgica fu in grado, grazie a questo nuovo procedimento che aveva anche il pregio di esse-
re relativamente semplice, di produrre ghisa di ottima qualità utilizzando unicamente carbone coke:
lo sviluppo fu talmente rapido da permettere alle produzioni inglesi di quadruplicare la produzione
negli anni tra il 1788 e il 1810 (raggiungendo la quantità di 1.000.000 di tonnellate prodotte) e por-
tando il peso del settore sul prodotto nazionale dall'1,5% circa al 6% dei primi anni dell'Ottocento.
Mentre quindi gli stabilimenti diventavano sempre più grandi e le tecniche sempre migliori, la di-
sponibilità di ingenti quantità di metalli a buon mercato fu di grande stimolo sia per il commercio
verso l'esterno che per la produzione e l'innovazione in patria di macchinari per l'industria di qual-
siasi tipo (costruiti – appunto – in ghisa e metalli).
L'ultimo obiettivo da raggiungere rimanente era quindi, per un'Inghilterra in pieno sviluppo indu-
striale, creare un efficiente sistema di trasporti capace di fornire una solida base ai traffici e ai com-
merci crescenti di pari passo con la produzione e l'economia in generale.
La soluzione innovativa si trovò in un'altra formidabile applicazione della macchina a vapore qual
era la locomotiva e quindi il sistema ferroviario: la risorsa principale del settore – ovvero il ferro –,
come abbiamo visto era sovrabbondante, e le prime reti ferroviarie nacquero così dal 1925 (anno di
inaugurazione della linea Darlington-Stockton).
Dopo la canalizzazione, la rete ferroviaria fu il nuovo grande campo di investimento dei privati,
che, pur accogliendo a sua volta i fenomeni speculativi e di disorganicità visti per le opere prece-
denti, ebbe un grande sviluppo per tutti i primi decenni dell'Ottocento, fino a raggiungere l'invidia-
bile cifra di 10.500 km di ferrovie alla metà del secolo.
La nascita e lo sviluppo del trasporto su binari, nell'immediato, fu di grande stimolo per l'industria
pesante e il sistema creditizio, ora abbastanza sviluppati per sopperire alle necessità del mercato; fu
inoltre, nel lungo periodo, il motivo per cui si riuscì ad abbattere i costi dei trasporti e si verificò in
tutta la nazione un aumento significativo del volume dei traffici, sia delle merci (anche quelle di
scarso valore), sia delle persone.
Autore: Marco Pierri
E-mail: mp.marco.mp@gmail.com

Basato sulle lezioni tenute dal Prof. F. Ammannati nell'ambito del corso di studi in Economia e
Commercio dell'Università degli Studi di Firenze, anno accademico 2010/2011.
Bibliografia ulteriore: R. Cameron – L. Neal, Storia economica del mondo, Dalla preistoria ad
oggi; P. Malanima, Uomini, risorse, tecniche nell'economia europea dal X al XIX secolo; G. Felloni,
Profilo di storia economica dell'Europa; C. M. Cipolla, Storia economica dell'Europa preindustria-
le; G. Piccinni, I mille anni del Medioevo; F. Braudel, Espansione europea e capitalismo, 1450-
1650; M. Rosa – M. Verga, Storia dell'Età Moderna; J. Mokyr, Leggere la rivoluzione industriale.

Indice:
1. Caratteri generali delle economie preindustriali
2. Agricoltura e sistema curtense
3. Dal declino delle città all'urbanesimo
4. La rivoluzione commerciale
5. La moneta e la nascita del credito
6. Il settore secondario
7. 1300-1400: La fine dell'espansione
8. Le grandi scoperte
9. La Spagna nell'Età Moderna
10. L'Italia nell'Età Moderna
11. La crisi del Seicento e la politica economica
12. I Paesi Bassi nell'Età Moderna
13. L'Inghilterra nell'Età Moderna
14. La Francia nell'Età Moderna
15. Una panoramica riassuntiva sui traffici
16. Fatti e caratteri della rivoluzione industriale inglese

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