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Il Fedro di Platone

a cura di B. Di Leo

biagiodileo@tiscali.it

Quaderno Filosofi & Classici


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B. Di Leo – Il Fedro di Platone

I dialoghi platonici vengono tradizionalmente suddivisi in tre gruppi: primi dialoghi


(chiamati spesso aporetici, in quanto si arriva all’impossibilità della risposta al
problema iniziale, ma che hanno carattere metodologico e tratteggiano più chiaramente
la figura di Socrate; tra cui Eutifrone, Liside, Carmide); i dialoghi di mezzo (in cui
prevale lo spirito costruttivo, più platonico e meno socratico; tra di essi Gorgia, Fedone,
Simposio, Repubblica); dialoghi tardi (prettamente filosofici e più densi
concettualmente e meno ricercati stilisticamente; tra i quali Teeteto, Timeo, Leggi). Tra
essi il Fedro occupa sicuramente un posto di rilievo insieme al Fedone e al Simposio.
Venne composto dopo la Repubblica in quanto ad essa si fa cenno; dunque la datazione
è con ogni probabilità tarda, attorno al 360 a. C., anno in cui Platone ritorna ad Atene
dal suo terzo viaggio in Sicilia. Invece la data in cui si svolge il dialogo tra Socrate e
Fedro è probabilmente il 420-410.
In esso vengono a tema molte delle tematiche proprie della filosofia platonica,
quali la dottrina delle Idee e quella dei Principi primi, il metodo della dialettica, la
concezione dell’anima, i temi dell’anamnesi, dell’eros e della bellezza.
Diamo innanzitutto uno sguardo all’impianto narrativo del dialogo, mettendo in
luce così i contesti in cui vengono trattate le singole tematiche su elencate. Noteremo
inoltre la grande efficacia della scrittura platonica, che fa del nostro non solo un grande
filosofo ma anche uno dei più celebrati scrittori della grecità classica.
Il dialogo prende avvio dall’incontro di Fedro e Socrate. Il deuteragonista, che dà
il nome al dialogo, ha ascoltato un discorso di Lisia, grande retore dell’Atene del tempo,
e ne è rimasto affascinato tanto da leggerlo a Socrate per conoscere le sue impressioni.
Il discorso di Lisia pone una domanda su un tema d’amore: un giovane deve
concedere i suoi favori a chi è innamorato? Ricordiamo che presso i Greci la pratica
della pederastia era più che comune e accettata, anche se non mancavano persone che
come Platone la combattevano. Ma ciò che più sconvolge è la tesi difesa nel discorso: il
giovane si deve concedere a chi non è innamorato e non a chi lo è! E a favore di questa
tesi vengono esposti gli svantaggi che derivano dal concedersi ad un innamorato, di
contro ai vantaggi che provengono dal concedersi a chi non lo è. Gli innamorati sono
come dei malati che meritano compassione ma a cui non va dato ciò che cercano; per
contro i non innamorati hanno gli esatti pregi contrari degli innamorati. Socrate subito
bolla questo discorso: ottima forma retorica ma vuota di contenuto. (230 E – 236 B)

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Allora Fedro spinge Socrate a fare un suo discorso contro quello di Lisia. Il
filosofo parte da una precisa definizione: in noi ci sono due opposte tendenze, il piacere
e l’opinione del bene; a seconda che prevalga una delle due avremo dissolutezza nel
primo caso e temperanza nel secondo. Su questa base metodologica definisce i vantaggi
e gli svantaggi per un giovane che si conceda ad una persona innamorata o meno. Al
termine del discorso Fedro convince Socrate ad andare avanti a discutere di questo
argomento.(236 B – 242 B)
A questo punto per Socrate si è resa necessaria una palinodia, un canto espiatorio
in onore di Eros per porre rimedio a ciò che è stato precedentemente affermato, cioè
averlo descritto come un male: egli invece è qualcosa di divino. Eros è una mania, e una
mania divina. Ci sono infatti manie umane e divine: laddove le prime sono spesso un
male, le seconde di contro sono un bene (ad esempio profetesse e sacerdoti sono presi
da una forma di mania divina durante le loro funzioni sacre; gli artisti sono ispirati dalle
Muse). In questo contesto Eros si inserisce come la migliore delle manie date dagli dei
agli uomini. Ma per ben spiegare questa asserzione Socrate ha bisogno di guadagnare il
concetto di anima immortale e lo fa con una prova diversa da quelle che porterà nel
Fedone e nella Repubblica. Nel Fedone l’autore esibisce ben tre prove: poiché abbiamo
in noi conoscenze che non possono derivare dall’esperienza in quanto sono
metempiriche (le Idee), l’anima deve averle ricevute prima di incarnarsi e deve dunque
preesistere al corpo; l’anima riesce a conoscere le cose immortali ed eterne e per poterle
conoscere deve avere un carattere ad esse affine, deve essere immortale e eterna; le Idee
sono la vera causa delle cose e in quanto idee contrarie non possono stare insieme e
poiché l’anima partecipa in tutto all’Idea di vita, essa esclude quella di morte ed è
pertanto immortale. Nella Repubblica invece si fa leva sul principio di male: ogni cosa
ha un suo proprio male e da esso solo può essere distrutta ma se qualcosa non viene
distrutta dal suo male allora è propriamente immortale; l’anima ha il suo male nel vizio
e questo non la distrugge anche se la fa vivere in maniera cattiva: dunque essa è
incorruttibile. Infine nel Fedro si fa leva sul principio del movimento: l’anima è auto-
muoventesi, cioè ha in sé il principio del movimento di sé stessa e di tutto ciò che
muove; un principio per essere tale ha bisogno di non essere generato e quindi deve
essere incorruttibile. L’anima è dunque immortale e incorruttibile. Dopo di che si passa
ad una raffigurazione mitica che spieghi l’essenza dell’anima: l’immagine famosissima

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della biga alata e del suo auriga. L’auriga è la parte razionale dell’anima, mentre il
cavallo bianco e docile rappresenta la forza irrazionale positiva e quello nero e inquieto
rappresenta la forza irrazionale negativa. La biga-anima è poi alata perché è capace di
portare alla visione del divino, con la sola interferenza della sua stessa struttura: infatti
avendo dei cavalli misti, e non entrambi buoni come quelli degli dei, la biga non è
stabile nel suo tragitto nel cielo. Cielo che è diviso in dodici schiere di dei e demoni,
con a capo un dio e dietro a seguire tutte le anime; queste schiere compiono un giro
completo della volta celeste per arrivare alla sommità e contemplare il mondo
dell’Iperuranio, il mondo della Verità; ma per la sua instabilità la biga umana non è
sempre capace di arrivare a contemplare totalmente la Pianura della Verità e intanto o
riesce a contemplarla solo per un attimo, o a vedere solo qualcosa, oppure si spezza le
ali prima e non arriva al termine del giro; la responsabilità di tutto ciò è posta
nell’auriga, nella parte razionale che deve riuscire a mantenere il controllo della biga, e
quanto più è maldestro tanto meno riesce a contemplare la Verità, nutrendosi
dell’opinione. Ma è nella pianura della Verità che si trova il nutrimento per le ali
dell’anima: si diventa veri uomini in proporzione alla quantità di Verità contemplata.
(242 B – 258 E)
Ora, la mania d’amore deriva dalla visione della bellezza di un corpo che richiama
la bellezza intelligibile; e questa anamnesi è tanto più completa quanto maggiore è la
quantità di Verità che l’anima ha contemplato nell’aldilà. La Bellezza a sua volta
scatena l’amore: ma perché proprio la Bellezza è l’Idea che ha questo potere?
Essenzialmente perché essa è la sola che si manifesta anche nella realtà sensibile.
Adesso si può tornare al discorso di Lisia: comprendiamo ora come i criteri di
ricerca dell’innamorato e del comportamento nei suoi confronti siano opposti a quelli
delineati da Lisia. Ognuno ricerca i caratteri del dio di cui era al seguito nell’aldilà e si
innamora di colui che ha quei caratteri nel grado più alto; con questi presupposti è
chiaro che ci troviamo ben oltre la momentanea infatuazione scatenata dal piacere:
siamo invece sul piano della piena corrispondenza con la realtà divina dell’Eros
determinata in ordine alla Verità. L’auriga riesce dunque a piegare il cavallo nero, che
spinge verso il piacere sessuale, e a condurlo in accordo col cavallo bianco: il pudore e
la ragione, le caratteristiche dell’amore secondo filosofia. Le idee di Lisia sono

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perfettamente capovolte: l’amicizia di chi è innamorato, retta dalla temperanza, innalza


l’anima e la fa volare verso il vero.
Vale la pena riportare forse il passo più poetico dell’intero dialogo: “il flusso
d’amore, scorrendo abbondante verso l’amante, dapprima penetra in lui, e, dopo che lo
ha completamente riempito, trabocca. E come un colpo di vento o un’eco, rimbalzando
da corpi levigati e solidi, ritornano proprio là da dove sono pervenuti, così procede il
flusso della bellezza, ritornando per rimbalzo, attraverso gli occhi, al bello amato. E
attraverso gli occhi può per sua natura arrivare all’anima; e, dopo esservi giunto e averla
sollecitata, irriga i condotti delle penne e le fa rinascere, e riempie d’amore anche
l’anima dell’amato.” (Fedro, 255 C-D; trad. di G. Reale)
A questo punto Platone inserisce due “intermezzi” per introdurre la parte finale del
dialogo che mira alla risoluzione del seguente problema: qual è il modo più corretto di
scrivere discorsi? La definizione è precisa e inequivocabile: un discorso che possa dirsi
tale deve essere composto secondo Verità. Si innesta qui una palese polemica con la
sofistica: non si può pretendere di fare discorsi seguendo l’opinione e cercando solo di
convincere, facendo apparire le stesse cose ora giuste ora ingiuste con i soli artifici
retorici. Questa definizione generale è poi applicata ai tre discorsi fatti in precedenza. Il
primo di Lisia è del tutto scorretto per forma e contenuto: la definizione di amore su cui
ci si basa non è fondata e in più si parte da quelle che dovrebbero essere le conclusioni,
senza esibire i collegamenti tra gli argomenti. I due discorsi di Socrate sono entrambi
corretti quanto alla forma, mentre quanto al contenuto la palinodia è più veritativa. Ciò
che rende i discorsi corretti è l’utilizzo del metodo dialettico: si parte da una definizione
di amore che viene poi analizzata secondo i due movimenti propri della dialettica
socratica: sinottico (dal molteplice all’unità) e diairetico (dall’unità al molteplice).
Socrate in entrambi i discorsi ha definito Eros come una mania, ma nel primo come
malattia umana e nel secondo come mania divina, mostrando dunque come arrivare alla
definizione di Eros come mania (raccogliendo sinotticamente il concetto sotto un’unica
idea) e poi definendo le articolazioni che essa ha al suo interno (diaireticamente
scomponendo il concetto).
I discorsi dei retori non sono invece basati su questi principi, ma badano solo alla
struttura formale, attenendosi alla categoria del verosimile. Viceversa il vero oratore
dovrà conoscere non soltanto la verità dell’idea che va descrivendo, ma anche le anime

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delle persone a cui è diretto, in modo da modulare la portata del discorso a seconda
della capacità recettiva degli uditori. Pertanto il migliore oratore è il filosofo: egli agisce
in conformità alla verità e secondo le regole della dialettica. Platone però critica anche
la scrittura in generale: anche i discorsi scritti dai filosofi (quindi anche i suoi dialoghi)
sono inferiori all’oralità dialettica in cui viene meglio alla luce la verità. Il filosofo
dunque se è tale, non deve consegnare alla scrittura tutte le sue dottrine ma tenere per sé
e per la comunicazione orale la parte più importante del suo pensiero (dunque anche
Platone deve avere volutamente tralasciato la parte più importante del suo pensiero, le
cosiddette “dottrine non scritte”, di cui ha fornito solo accenni nei suoi dialoghi).
Chiude il dialogo la preghiera di Socrate al dio Pan (al quale era consacrato un
tempietto nel luogo dove si trovavano). In essa Socrate chiede di raggiungere la bellezza
interiore e che questa bellezza traspaia nel perfetto accordo dell’esterno con l’interno
della sua anima; inoltre chiede che possa considerare il sapiente come il vero ricco, in
quanto l’unica vera ricchezza è la sapienza, e infine di conseguire tanto oro-sapienza
quanto è possibile per un mortale.
Si notino infine le principali implicazioni del dialogo con le dottrine platoniche
citate all’inizio:
• Dottrina delle Idee: tutta la metafora della biga alata e dell’Iperuranio, altro non
è che un’esemplificazione mitica della dottrina platonica. Iperuranio sta per
“sopra” (uper) e “cielo” (ouranos); dunque un luogo al di sopra del cielo fisico, e
quindi metafisico, propriamente il luogo della realtà delle Idee. Di esso Platone
dice: “L’Iperuranio, il luogo sopraceleste, nessuno dei poeti di quaggiù lo cantò
mai, né mai lo canterà in modo degno […] L’essere che realmente è, senza
colore, privo di figura e non visibile, e che non può essere contemplato solo
dalla guida dell’anima, ossia dall’intelletto, e intorno a cui verte la conoscenza
vera, occupa tale luogo.”(247 C; trad. cit.)
• Dottrina dei Principi primi: in stretta correlazione alla dottrina delle Idee, che
dipendono esse stesse dai due principi di Uno e Diade indefinita di grande e
piccolo; chiari i riferimenti ad essi in tutto il discorso della superiorità
dell’oralità sulla scrittura: sono queste le cose di maggior valore.

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• Metodo dialettico: già si è detto cosa sono sinossi e diairesi; resta da dire sul
loro rapporto con le Idee: questi due procedimenti rendono dinamici i rapporti
tra le Idee stesse, non riducendole a pure ipostatizzazoni astratte.
• Concezione dell’anima: ne viene dimostrata l’immortalità, la struttura e le
funzioni (cfr. racconto della biga alata). “Ogni anima è immortale. Infatti ciò che
sempre si muove è immortale […] è fonte e principio di movimento anche per le
altre cose che si muovono. Ma il principio non è generato […] e poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorruttibile.” (245 C-E; trad. cit.)
• Anamnesi, amore e bellezza: anamnesi è ricordo della realtà che l’anima ha
contemplato nell’aldilà. Questo ricordo è più facilitato nell’idea di bellezza, la
sola che può essere visibile anche con il corpo. Eros si configura proprio come
desiderio della verità dell’essere, risvegliato dalla visione della bellezza terrena
che genera il desiderio di ritornare presso gli dei nella dimensione intelligibile.
“Bisogna che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata Idea,
procedendo da una molteplicità di sensazioni a un’unità colta con il pensiero. E
questa è una reminiscenza di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto.”
(249 C) “Per quanto riguarda la Bellezza splendeva fra le realtà di lassù come
Essere. E noi venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre
sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo”(250 D)

Ci sembra di notevole interesse riportare un passo di F. Nietzsche a commento del


Fedro, contenuto in Einleitung in das Studium der platonischen Dialoge (tradotto in
Plato amicus sed, a cura di P. Di Giovanni), che sembra perfettamente sintetizzare il
contenuto del dialogo: “Il Fedro affronta due temi diversi –l’amore e l’arte oratoria- di
cui il primo ha solamente valore di esempio per il secondo. Platone collega qui le cose
più disparate in base all’idea che sia l’amore sia l’oratoria bella vadano respinti qualora
non costituiscano un ponte verso il concetto, ma siano invece semplicemente al servizio
del piacere: si tratta in certo qual modo di due esempi di una sentenza non direttamente
pronunciata. Il rapporto tra retorica e filosofia in senso stretto è il medesimo che corre
tra bellezza e verità: come la bellezza, quando non è riflesso della vita eterna, si riduce a
un’ingannevole apparenza, così la retorica comune e l’amore che le si porta sono solo
una forma di gretto materialismo. Se però la retorica si presenta come sorella della

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verità, allora l’amore nei suoi riguardi, pur senza rappresentare di per sé la saggezza,
costituisce il mezzo più idoneo per rendere gli uomini attenti ad essa: ma in questo
modo la bellezza del discorso si rivela già un’utile via per condurre alla perfezione
l’anima della moltitudine incapace di un pensare autentico”.

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