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Per una pedagogia dell’uomo ‘musicale’

Giovanni Mocchi

Nuovi confini dell’acculturazione


La scuola sta attraversando un’incalzante fase di transizione, specchio di trasformazioni sociali e di
innovazioni tecnologiche che mettono in discussione il senso globale della cultura e,
conseguentemente, le scelte inerenti le finalità, i saperi di base, le metodologie e gli strumenti per la
sua trasmissione e il suo incremento. L’accelerazione tecnologica, l’imprevedibilità degli eventi e
del futuro, anzi, lasciano prefigurare l’inattualità di qualsiasi riforma epocale, che risponda a una
progettazione di società futura, in direzione piuttosto dell’esigenza di un adattamento permanente
delle istituzioni educative ai bisogni sociali. Non è solo il flusso migratorio verso l’Occidente e la
conseguente società multietnica a mettere in crisi il concetto di contesto, e quindi di cultura e
formazione. Esiste un flusso che si muove in direzione inversa, che agisce lungo le nuove vie di
comunicazione, attraverso il quale si costruiscono identità culturali che sfuggono al controllo e alla
pianificazione sociale. La ‘navigazione’ prefigura un nomadismo virtuale in uno spazio senza
confini, in cui l’identità individuale non si coniuga più con i concetti tradizionali di collettività e
territorialità da cui si traevano i quadri culturali di riferimento. La circolazione culturale ha già
offerto un interessante modello di integrazione. In campo musicale, difatti, la circolazione di
musiche provenienti da ogni parte del globo ha fatto cadere i motivi di conflittualità legati, nella
storia, alle distinzioni etniche e culturali, ha aperto la via all’accettazione di altri mondi sonori e a
‘contaminazioni’ particolarmente feconde. Non va tuttavia dimenticato il rovescio della medaglia
nell’utilizzo indiscriminato dei territori della globalizzazione informatica e multimediale: l’imporsi
dei modelli più forti, l’allentamento dei legami sociali, il potenziale isolamento del singolo, per
citarne solo alcuni. A differenza delle società nomadi, fortemente coese entro il gruppo di
riferimento, il nuovo nomadismo è un viaggio individuale all’interno di ambienti e gruppi
eterogenei, senza garanzia che si strutturino legami culturali e senza la necessità di partecipazione,
condivisione di valori e responsabilità individuale nei confronti del gruppo. Non è un caso, dunque,
che vengano messi contemporaneamente in discussione il concetto di cultura e il senso di identità
(1). Con il moltiplicarsi di occasioni di conoscenza attraverso la libera e a volte casuale scelta dei
percorsi in internet, stanno concretizzandosi impreviste modalità di apprendimento autonomo,
favorite da forme comunicative multimediali ed interattive. Stanno modificandosi, e forse
amalgamandosi a livello di rete, lessici, linguaggi, stili della comunicazione e, conseguentemente, le
stesse strategie mentali che consentono l’accesso, la gestione dei dati, la loro catalogazione ed
elaborazione. L’interattività sta scavalcando la massificazione della comunicazione unidirezionale
che ha contraddistinto la radio, il film e la televisione dell’ultimo secolo. Come l’invenzione della
scrittura alfabetica prima, e della stampa poi, hanno prodotto trasformazioni irreversibili nella
cultura, nel modo di concepire la realtà, nei processi della mente (2), così l’avvento della
comunicazione globale e interattiva ripropone il problema della forma mentis, dei parametri
culturali e dell’identità. (3).
Stanno nascendo le condizioni per lo sviluppo di processi mentali e metodi di ricerca scientifica dei
quali non abbiamo ancora piena consapevolezza. E’ comprensibile, dunque, che l’assenza di quadri
di riferimento certi e sedimentati sulle forme e i contenuti della conoscenza creino nella scuola un
clima di sconcerto e provvisorietà, soprattutto per il fatto che essa, tradizionalmente, si è mossa sul
terreno di culture consacrate dal tempo e, perciò stesso, ritenute formative.
In questo scenario occorre chiedersi quale sia il perimetro spazio-temporale di ciò che, in una
comunità, possa definirsi cultura (e di conseguenza cultura di base) e quali siano i saperi e le
competenze che possano, al contempo, soddisfare le due direttive della formazione di base:
ricollegare l’individuo alle proprie radici o comunque ad un background comune e predisporre un
suo efficace inserimento nel mondo contemporaneo e futuro, declinando perciò il senso di identità
con quello di convivenza e adattamento, la continuità con l’innovazione.
Che cosa è la musica?
Da quando è entrata nel circuito della telecomunicazione, la musica ha dunque superato i confini
degli Stati, delle classi, delle etnie e, prima ancora di internet e della lingua inglese, è divenuta
linguaggio comune delle giovani generazioni, subendo certamente i fenomeni di massificazione di
tutte le forme comunicative a target generalizzato, ma aprendosi a molteplici prospettive, in una
sorta di jam-session mondiale senza intolleranze, in cui tutto potenzialmente può assurgere a
stimolo creativo e può immediatamente riverberarsi lungo il tam tam delle tecnologie della
comunicazione. Se e in che misura l’esito che la musica ha subìto possa anche divenire o sia
auspicabile che divenga il destino di altri ambiti culturali, non è oggetto di questa riflessione.
Certamente esso implica un ripensamento sul concetto di musica e, conseguentemente, sulle sue
funzioni educative. Nell’ultimo secolo, un forte impulso a ridiscutere lo statuto disciplinare
proviene da campi di indagine che offrono prospettive particolarmente utili all’educazione musicale
in età evolutiva.
Al tradizionale approccio estetico o storico, si sono difatti affiancate altre chiavi di lettura dovute
alla psicologia, alla sociologia, all’etnografia, all’antropologia culturale, alla semiotica.
Emblematiche, per aprire il dibattito sul problema della natura della musica in rapporto
all’educazione musicale, sono due definizioni, tra loro molto simili, che derivano l’una da un
compositore contemporaneo, l’altra da un etnomusicologo vissuto per anni a contatto con la civiltà
africana. Il primo, Edgard Varèse, così definisce la musica: "Mi sembra che il termine 'suono
organizzato' colga più precisamente l'aspetto duplice della musica,che è insieme un'arte e una
scienza " (E. Varèse,1985, pag 117-118). La musica è qui un oggetto culturale che si costruisce con
proprie regole interne, un linguaggio sonoro che, una volta prodotto dal compositore, assurge a vita
autonoma. La seconda definizione di John Blacking aggiunge un avverbio: "La pretesa
dell'etnomusicologia di rappresentare un nuovo metodo per analizzare la musica e la sua storia deve
fondarsi sul concetto, ancora non accettato da tutti, che se la musica è suono umanamente
organizzato, devono esistere dei rapporti tra le strutture dell'organizzazione umana e quelle sonore,
prodotte come risultato di interazioni umane". (Blacking, 1986, pag. 47). Qui l’accento è posto sui
soggetti e sulle strutture sociali che si riverberano su quelle sonore. La differenza di prospettiva è
essenziale, in quanto Blacking sposta l’attenzione dal senso e dalle strutture musicali, cioè dalla
musica come oggetto, alla relazione tra soggetto e oggetto, società e cultura (4).
L’idea secondo cui la struttura delle relazioni sociali ha il suo corrispettivo nella struttura delle
relazioni tra i suoni è certamente un fenomeno africano, ma non solo. La stessa rispondenza
strutturale si ripete all’interno di un gruppo di bambini ai quali si chiede di comporre
autonomamente un brano con strumenti ritmici. Fin dalla scelta dello strumento emergono le
gerarchie sociali: il ‘capo’ si impossessa dello strumento che gli consente di dominare il campo
sonoro ( es. il tamburo), mentre gli ultimi della scala gerarchica devono accontentarsi di ciò che
resta e del ruolo sussidiario che il ‘capo’ concede loro. Più interessante ancora è notare che i ruoli
sociali si riverberano nella frequenza e nell’intensità d’utilizzo dello strumento all’interno
dell’esecuzione collettiva. All’occhio attento, l’attività spontanea di musica di gruppo diventa
dunque un indice delle relazioni interpersonali (5).
Le valenze relazionali della musica divengono un importante strumento di lavoro nella scuola. Il
rapporto che si instaura tra il docente e la classe implica che l’educazione musicale non possa che
essere prevalentemente musica d’insieme, fatte salve alcune potenzialità offerte da progetti
sperimentali, ad esempio nelle scuole ad indirizzo musicale, dove esiste la possibilità di operare
individualmente o a piccoli gruppi. Nella formazione strumentale tradizionale vige, difatti, la
relazione ‘uno a uno’, un decente per un alunno. Nella scuola si attua, necessariamente, la relazione
‘uno-tutti’, con l’impossibilità oggettiva di seguire ciascun alunno, se non nei casi di particolari
difficoltà, in un clima di cooperazione e di crescita collettiva, condizione questa per il
raggiungimento di obiettivi comuni. Nella scuola, l’educazione musicale non ha fini professionali,
quindi non si fonda sulla competitività, né sull’emulazione di modelli sociali (strumentista,
cantante, ecc.). In quanto attività collettiva e musica d’insieme, deve potersi fondare su un’efficace
autovalutazione, indispensabile per ottimizzare gli interventi individuali del docente. La
collaborazione di gruppo diviene la risorsa da valorizzare ai fini del risultato collettivo, che fa
coincidere la sintonia musicale con quella relazionale. Sull’altro versante, la convergenza
nell’attività di gruppo trova il suo equilibrio nella valorizzazione dell’accettazione di punti di vista
differenti, dell’apporto individuale e della divergenza, a superamento degli stereotipi. L’insegnante,
difatti, deve saper cogliere e socializzare le intuizioni individuali, che spesso si discostano dalle
soluzioni più scontate e diffuse nel gruppo, ma che possono contenere interessanti spunti di
arricchimento collettivo. In altre parole, per la crescita collettiva, le differenze non si trasformano in
graduatorie, ma diventano risorse per la crescita collettiva.

Logica ed emozione
A questa funzione estroversa e socializzante dell’educazione musicale fa da contraltare l’esigenza
della musica come percorso dell’interiorità e realizzazione del sé. Per questo è opportuno ora
ritornare sull’interrogativo ‘che cosa è la musica’, introducendo, tra le risposte dei vari autori che si
sono occupati della questione, quella di Eggebrecht, che ci consente di fare un passo ulteriore nella
direzione del suo significato culturale e formativo: "Ovunque risuoni musica in senso occidentale,
sono all'opera (...) quei due fattori contrastanti che sono stati qui resi con i concetti di emozione e
mathesis.. (…) Ambedue sono radicate nella natura: l'emozione nella natura dell'uomo, la mathesis
in quella del sonoro (...) La musica in senso europeo è emozione matematizzata, o mathesis
emozionalizzata. (…) Essa è psiche e natura, anima in senso creaturale e ordine in senso
cosmologico. Induce la sensualità alla ragione, l'emozione all'armonia". (Dahlhaus C. - Eggebrecht
H.H., 1988, pag. 29-30).
La dialettica tra emozione e logica traccia due linee irrinunciabili nel percorso educativo: lo
sviluppo di competenze inerenti le strutture logiche della sintassi musicale, affiancate allo sviluppo
del gusto e del coinvolgimento emotivo. L’uno senza l’altro comporta o un eccessivo tecnicismo o
un cieco spontaneismo. Occorre riconoscere che, quand’anche si siano conquistate abilità e
competenze a scapito della tenuta del livello di motivazione o in assenza di una tensione emotiva, si
è forse fatto un passo avanti a livello cognitivo, ma a scapito del potenziamento, a tempi lunghi,
della musicalità della persona.
Questa interazione tra emozione e logica, offre lo spunto per una riflessione pedagogica più
generale. La nostra cultura scolastica tende a concretizzare, nel curricolo, il solo principio
cartesiano di mathesis, che declina l’ordine del mondo in termini di logica e vede la conoscenza
umana costruirsi attraverso un rigoroso metodo analitico, con la conseguente rimozione delle
emozioni, da considerarsi elementi di perturbazione delle chiarezza razionale. Spesso le proposte
culturali della scuola e gli stessi testi scolastici non appassionano. Gli spazi per un equilibrato gioco
logico ed emotivo sono relegati a momenti marginali, se non extrascolastici.
Di tutt’altra tensione vive invece la cultura del ricercatore, dell’artista e perfino dell’hobbista. Alle
certezze cartesiane si sostituiscono il dubbio che diviene motore di esplorazione di nuovi orizzonti,
all’inibizione delle emozioni, il gusto e la passione per la propria disciplina, alla fede incontrastata
per i successi della ragione, l’apertura alla trasgressione e alla divergenza. La consapevolezza di
un’unitarietà psicofisica e logico-emotiva dell’uomo è particolarmente sentita dai compositori:
"L'origine dell'arte non sta nella ragione, sta in quel tesoro sepolto che è l'inconscio (...)
quell'inconscio che contiene più intelligenza della nostra lucidità. Un eccesso di ragione è esiziale
per l'arte, non si può far scaturire la bellezza da una formula". (E. Varèse, op. cit. pag. 108-109).
‘Bisogna allo stesso tempo scoprire la trasgressione ed usarla deliberatamente per distruggere le
rigidità del sistema e creare una sorta di imperfezione, digoffaggine, tanto necessaria per produrre la
vita. Occorrono disciplina e rigore nei fondamenti, e l’anarchia deve costantemente combattere la
disciplina. Da questa lotta nasce la poesia (…); una poesia che trascende il conflitto tra ordine e
caos’ (Pierre Boulez,1990, pag. 127).
La separazione tra i metodi propri dell’arte e della scienza, tra i luoghi e i tempi in cui è lecito
esercitare l’emozione e la logica ha costituito una forma mentis dell’uomo moderno, messa in crisi
soltanto a inizio Novecento dai dibattiti sui limiti della razionalità. Seppure come proposta culturale
marginale, più volte nella storia occidentale è emersa l’esigenza di equilibrare le sorti tra i due poli.
Portmann (1993) cataloga due funzioni esercitate dall’uomo occidentale: la funzione teoretica - tesa
al dominio del mondo e allo sviluppo tecnologico ed economico e decollata in Occidente a partire
dall’era moderna - e la funzione estetica, il sapere attraverso il cuore, che richiama da vicino
l’esprit de finesse di Biagio Pascal (6).

La cultura come mathesis emozionalizzata?


Da quanto si è detto si può ipotizzare un interrogativo pedagogico più generale: è possibile
estendere alla cultura tout court la definizione di mathesis emozionalizzata originariamente
concepita per la musica? E’ una sfida prima ancora antropologica che metodologica. Se l’uomo è
insieme emozione e razionalità, simbolismo e realismo occorre sviluppare armonicamente le due
dimensioni, senza relegare ad alcune aree disciplinari il compito di compensare gli eccessi di
razionalità. La musica e il teatro insegnano, ad esempio, che il senso di un’opera dipende
profondamente dalle capacità e dalle scelte interpretative. A scuola la comprensione del testo
letterario si realizza attraverso l’analisi e la contestualizzazione, quasi mai invece attraverso la
interpretazione a viva voce, che nulla ha a che fare con la lettura tradizionale. L’interpretazione è
molto di più della comprensione: investe l’approfondimento del senso del testo, l’immaginazione,
implica scelte espressive, ricostruzione del pathos che soggiace alla parola scritta, formulazione di
ipotesi che vanno sottoposte a prove e controprove. E’ il medesimo lavorio che deve affrontare ogni
compositore che si accinge a mettere in musica un testo letterario (cfr. Delfrati C., 2001).
Si tratta dunque di ripensare alla cultura come un percorso dinamico, in cui il soggetto svolge un
ruolo attivo e motivato, nella costruzione del proprio sapere come del proprio essere.
Per la maggior parte degli utenti scolastici la musica non costituisce una professione futura e la loro
educazione musicale ha senso se migliora la qualità della vita. La cultura, nella sua globalità, non
dovrebbe rispondere a questa stessa finalità (7)?

Musica e simbolismo
La dialettica ragione-emozione viene studiata da un’altra angolazione da Imberty (1990) nella
dinamica tra adattamento alla realtà e investimento affettivo. Piaget (1967) ha individuato una
evoluzione nel rapporto conoscitivo tra soggetto e realtà che si articola in due fasi: la prima strategia
del soggetto, nella sua relazione con l’ambiente esterno, consiste nella assimilazione, cioè
nell’adattamento della realtà alle proprie strutture intellettuali e alle proprie esperienze pregresse; in
seconda battuta si rende necessario unaccomodamento alla realtà fattuale, ovvero un adeguamento
delle proprie risposte alla realtà, modificando così i propri schemi assimilativi. Per Piaget soltanto
questa seconda strategia risulterebbe pienamente adeguata. La gerarchizzazione tra fantasia e realtà,
tra simbolismo e realismo per Piaget fonda una superiorità sia genetica che metodologica della
rappresentazione cognitiva del reale. Se questa prospettiva può valere in ambito scientifico, non
consente di spiegare la genesi dell’opera d’arte e, più in particolare, la produzione musicale. “La
funzione simbolica – precisa Imberty – non è una funzione di equilibrio negli scambi del soggetto
con l’ambiente esterno, poiché gli scambi simbolici non sfociano in una conservazione cognitiva del
reale, ma, proprio al contrario, in una deformazione soggettiva, di cui l’opera è, in arte, il principio
e la “visione” C’è, in questo caso, una proprietà specifica delle attività simboliche ed artistiche che
si accorda male con gli schemi di Piaget sul funzionamento del pensiero, ed in particolare con quelli
della rappresentazione cognitiva”. (Imberty, 1990 pagg. 37-38).
Da qui Imberty conclude che “L’opera d’arte contrappone al mondo scientifico e tecnico un anti-
universo che è la testimonianza della supremazia dell’uomo, e non del mondo rappresentato.
L’opera d’arte sostituisce all’ordine razionale della attività logica e conoscitiva una contro-
razionalità che scaturisce dall’investire il reale esterno con i desideri e le rappresentazioni interiori,
invece di inibire quest’ultime attraverso l’accomodamento cognitivo. Il tipo di equilibrio che la
funzione simbolica realizza è quindi di una natura diversa rispetto all’equilibrio dello sviluppo del
pensiero cognitivo”. (idem, pag. 39). In altre parole, il pensiero cognitivo condiziona il soggetto ad
adattarsi al mondo, mentre il pensiero simbolico indirizza il pensiero e l’azione sui desideri e sui
bisogni del soggetto.
Dunque l’arte, nel rapporto tra soggetto e ambiente, svolgerebbe un percorso verso la soggettività,
una funzione comunque complementare ed indispensabile a qualsiasi adattamento: “Quella di una
compensazione dell’investimento della realtà, ottenuta attraverso una derealizzazione del pensiero
che permette l’investimento del soggetto stesso ed il momentaneo ritorno alla priorità del principio
del piacere, nella modalità ludica, con una presa di coscienza che lo controlla e lo trasforma in
principio di valori” (Imberty, 1990 pag. 39). Come si può notare la simbolizzazione non investe
unicamente il campo estetico, ma, più in generale, quello dei valori e della Weltanschauung, una
visione del mondo interiormente costruita, più che comparata con le coordinate della realtà, più
umana che asetticamente oggettiva. Si comprende perciò il bisogno individuale di musica, come
cammino verso l’interiorità, risposta ad una esigenza intimamente sentita che si esprime ai vari
livelli di età e nei più vari modi e contesti. Ma si spiega parallelamente perché essa diviene lo
scenario culturale in cui si dispiegano i miti e i valori, l’emozione razionalizzata, il gioco e il
dramma dell’umanità.
L’apertura al simbolo e al principio di piacere non significa rinuncia alla mathesis, alla coerenza e
razionalità interna all’opera. Piuttosto il pensiero simbolico costituisce “un potente mezzo per
controbilanciare la presa del reale sullo stesso pensiero cognitivo” (idem, pag. 39).
Nella scuola la musica, insieme alle discipline che coinvolgono il corpo, la sensibilità e l’emozione,
ha, per sua costituzione, l’opportunità di mettere in gioco l’emozione e la derealizzazione del
pensiero, che, come afferma Imberty, è essenza di ogni creazione artistica e scrittura del tempo
dell’uomo. L’educazione musicale potenzialmente realizza dunque un duplice percorso: verso
l’interiorità, a risposta dei bisogni di identità della persona, e verso il mondo degli uomini, in quanto
è testimonianza del ‘sentire’ sociale, che fa riconoscere l’uomo nel più ampio tessuto
dell’‘umanità’.
Un’altra conseguenza, derivante dal superamento del confine del cognitivismo, è il superamento
metodologico del principio di non contraddizione. Le valutazioni estetiche non rientrano, difatti
nelle antitesi vero/falso, corretto/errato, si/no, ma nella flessibilità e soggettività dei giudizi
(convincente-artificioso, bello-brutto, valido-inefficace). Tanto l’interpretazione semantica, quanto
la scelta di alternative nel momento compositivo, lasciano difatti ampi spazi alle scelte soggettive.
Un brano può dar luogo a interpretazioni personali molto diverse e anche contrastanti. Sono letture
legittime?. Vanno corrette, oppure il momento interpretativo va rimandato alla fase in cui esistono
gli strumenti cognitivi adeguati, oppure va addirittura evitata qualsiasi attribuzione di senso, come il
primo Stravinsky sosteneva? Educare all’ascolto significa esporre il punto di vista del docente,
motivato a livello analitico e sostenuto da pareri autorevoli, oppure aiutare il soggetto a giustificare
le proprie scelte interpretative e ad aprirle gradualmente a nuove strategie interpretative? Una
didattica che intende rendere partecipe il soggetto alla costruzione culturale, lo pone nelle
condizioni, in prima istanza, di trovare le giustificazioni interiori a sostegno del proprio modo di
sentire e, in un secondo momento, di approfondire l’analisi, sapendo accogliere le interpretazioni e
le giustificazioni alternative, espresse dagli altri componenti del gruppo e, più oltre, nelle
pubblicazioni degli studiosi, fino a riuscire a comprendere l’opera dal punto di ascolto del
compositore e dell’epoca che l’ha accolta.
Questo metodo, esplorativo-euristico mette in gioco il ruolo del docente nella sua relazione con gli
allievi, perché ne mette in crisi l’autorità indiscussa. Nel campo simbolico, nessuno ha ragione in
assoluto, ma ciascuno ha le sue ragioni che è invitato a chiarificare a se stesso e agli altri. Ne risente
anche lo stile di insegnamento, che non può che essere insieme rigoroso e appassionante, coerente e
coinvolgente, consapevole dell’obiettivo da raggiungere, ma anche pronto a valorizzare intuizioni,
imprevisti e alternative.
Gli universali musicali
L’esame delle definizioni di musica ci ha portati ad ampliare gli orizzonti del fenomeno oltre i
confini della civiltà occidentale. Le ragioni di questo sconfinamento non rispondono tanto
all’internazionalizzazione della cultura musicale, che pure è un dato di fatto, quanto all’esigenza di
dare risposta alle esigenze del vissuto musicale che si esprime attraverso manifestazioni simili in
ogni parte del mondo. Come esistono tratti espressivi nel disegno infantile riconoscibili a livello
mondiale, indipendentemente dalle culture, così anche nell’area musicale si è cercato di classificare
gli ‘universali’, intesi come le costanti che emergono all’interno delle variabili di ciascuna civiltà.
Il problema è stato affrontato da diverse angolature. Un primo gruppo di ricercatori ha cercato di
individuare gli universali nelle strutture interne alla musica. K. Sachs, ad esempio, individua nelle
melodie a picco e ad intervallo unico l'origine della produzione melodica mondiale, poi evolutasi in
differenti direzioni e complessità. M. Schneider riconosce nell’intervallo di quinta la base dei
sistemi scalari universali. Giannattasio riscontra le costanti nell’opposizione tra suono e rumore,
nell’organizzazione dei suoni in sistemi di altezze e durate, nella distinzione tra produzione vocale e
strumentale. Dowling e Harwood le rintracciano, invece, nell’intervallo di ottava con suddivisioni
in 5 o 7 altezze, nelle differenze timbriche e nelle pulsioni ritmiche.
Una seconda prospettiva incentra l’attenzione sui meccanismi della psiche umana i quali, nella veste
di strutture profonde, producono ovunque effetti riconoscibili. “La nostra esperienza prova –
afferma J. Blacking – che ci sono alcune possibilità di comunicazione interculturale. Sono convinto
che la spiegazione di ciò vada cercata nel fatto che nella musica, a livello di strutture profonde,
esistono elementi che sono comuni alla psiche umana, anche se non traspaiono dalle strutture di
superficie”. (Blacking, 1986, pag. 120)
L’uso di forme largamente diffuse, come la simmetria e la specularità, la presenza di un tema e
della sua variazione, la ripetizione, la forma binaria sarebbero indice di tali strutture profonde, non
riconoscibili a livello dei sistemi musicali specifici, nelle loro specificità melodiche, armoniche e
ritmiche.
Secondo J.J.Nattiez. (1989), invece, gli universali vanno individuati nei processi di produzione e
recezione, ovvero nelle strategie da lui definite poietiche ed estesiche (8).

L’oralità, archetipo della musica


La ricerca di universali come meccanismi psichici che operano secondo processi costanti, ma che
producono infinite varianti a seconda della cultura locale conduce ad accostare la musica alla oralità
primaria, propria delle epoche e delle civiltà che, non conoscendo alcuna forma di scrittura,
necessitavano (e ancora necessitano) di strategie di memorizzazione orale del patrimonio culturale
da trasmettere di generazione in generazione. “Ciò che serve – afferma Havelock (1986, pag 91-92)
- è un metodo di discorso ripetibile (nel senso di schemi sonori acusticamente identici) che sia
nondimeno in grado di modificare il proprio contenuto onde esprimere significati diversi. La
soluzione scoperta dall’intelletto dell’uomo primitivo fu quella di convertire il pensiero in discorso
ritmico. Ciò forniva quanto era automaticamente ripetibile, l’elemento monotono in una cadenza
ricorrente creata da corrispondenze nei valori puramente acustici del linguaggio così com’era
pronunciato, indipendentemente dal significato. Enunciati variabili potevano quindi venire intessuti
in identici schemi sonori, in modo da costituire uno speciale sistema linguistico che era non solo
ripetibile, ma richiamabile per il reimpiego”.
Assonanze, echi, cornici ritmiche, formulari, frasi fatte sono gli strumenti reiterativi e memorabili
della poesia come della musica, sono gli universali su cui si articolano abbellimenti, variazioni,
giochi di suoni e parole, fino ad arrivare a sistemi complessi ed epocali come la tonalità, i generi
musicali e gli stili. La sintassi profonda delle culture orali è la stessa della musica che, per millenni,
ha esercitato il ruolo di supporto sonoro dei saperi da tramandare. Con il decollo del pensiero
logico-analitico inizia la decadenza della oralità, che sopravvive nelle civiltà contadine, nelle
società tribali e nel bambino fino all’età della alfabetizzazione.A partire dal VI secolo a.C., in
Grecia si assiste a un fenomeno di trasformazione culturale molto rapida: l’invenzione dell’alfabeto,
della filosofia, della moneta metallica, della grammatica, della musica pitagorica. Sono tutte il
risultato dell’applicazione del pensiero analitico di scomposizione-ricomposizione e dei graduali
processi di astrazione. Inizia così la scissione tra il supporto acustico e il contenuto culturale: alla
orecchiabilità della memoria sociale si sostituisce il pensiero interiore, afono, come strumento di
pianificazione del discorso logico, che richiede autovalutazione e anticipazione delle eventuali
critiche. Luria (1976) afferma che nasce in questa fase quello spazio mentale che noi conosciamo
come coscienza individuale. La parola abbandona il suono memorabile - e il suo corollario, il
conservatorismo - e trova il nuovo vincolo nella coerenza logica. La ridondanza era lo strumento
per con-vincere, letteralmente per ‘legare insieme’ passato e futuro, individuo e società. Il testo
scritto, potenzialmente leggibile in spazi e tempi imprevedibili, ha bisogno di divenire
autosufficiente e autoreferenziale, e trova nella logica la migliore garanzia di coerenza. In
prospettiva, vale la pena di essere trascritto soltanto ciò che è nuovo. La scrittura e la logica
diventano propulsori e strumenti della trattazione scientifica, che procede per ragionamenti
irreversibili.
La musica e la poesia proseguono invece il loro gioco acustico nei secoli. Perduto il ruolo di veicoli
privilegiati della cultura ufficiale, si avviano a divenire linguaggi autonomi, contenitori della
sensibilità individuale e sociale e si orientano a rispondere ad un metro di giudizio prevalentemente
estetico. “La musica occidentale va intesa come sopravvivenza dei meccanismi della memoria
acustica propri della oralità primaria, in assenza tuttavia degli ormai desueti contenuti culturali che
pur ne avevano favorito la sistematizzazione e l’affermazione sociale. Rimane dunque gioco
intelligente di attivazione della sintassi dell’oralità, forma di conservazione-reimpiego della
informazione sonora allo stato puro e deverbalizzato, esplorazione ritualizzata della reiterazione,
vissuta in un campo puramente acustico”. (G. Mocchi, 1989, pag. 10). Dal punto di vista delle
strutture percettive l’oralità primaria, la musica, la poesia condividono strutture percettive similari.

Linguaggio della ridondanza


Giovanni Belgrano, geniale pedagogista dei linguaggi dell’espressione, evidenziava quanto
l’orecchio sia molto più tradizionalista dell’occhio: l’occhio si abitua alla novità e sa riconoscere
anche a grande distanza di tempo un volto, un paesaggio e perfino un quadro di stile fortemente
innovativo. L’occhio dunque si ambienta rapidamente di fronte alle novità e alle trasgressioni.
L’orecchio, invece, non solo non ricorda una melodia se non dopo ripetuti ascolti, ma non accetta
che quelle innovazioni che, in vario modo rientrano in schemi consolidati. Si serve dunque, come
strategia di conoscenza, prevalentemente della assimilazione. Questa discrepanza tra linguaggi, ne
va affiancata un’altra, forse meno evidente, ma più significativa. La ripetizione, che per la musica è
una risorsa insostituibile, è invece uno spreco nella comunicazione scritta e in qualsiasi trattato
scientifico. La sintassi profonda della logica e della musica risultano, in definitiva, tra loro opposte.
Dal livello più elementare della ripetizione, che può essere reiterazione di un frammento - processo
attuato in poesia dalla rima - fino al più complesso sistema sintattico che fa da scheletro portante di
infinite varianti, in musica si attiva la sintassi del riferimento riconoscibile e rassicurante, sul quale
far perno per l’esplorazione dell’ignoto. La musica potrebbe essere immaginata come un viaggio di
allontanamento reiterato dal luogo originario sicuro e conosciuto, per una esplorazione dell’ignoto,
ma con la garanzia, più o meno prossima, di un ritorno ‘a casa’. Ogni nuova eplorazione si
riequilibria in un rientro, tanto più frequente quanto più l’ignoto diviene insopportabile. La
filastrocca infantile gratifica ampiamente l’eco del noto, garantisce nel ritmo, nelle assonanze, nelle
rime, nel verso e nella strofa un appiglio sicuro all’errare delle parole, a volte addirittura basate su
non-sense. Il ritorno sul ‘già detto’ e ‘già udito’ è tempestivo. Questa reiterazione ad alta
ridondanza, che per nel bambino genera sicurezza, si dilata nella musica adulta in respiri più ampi,
in espansioni verso orizzonti nuovi e sconosciuti. Lungo il percorso sono collocati segnali per non
perdersi: alcuni landmark, luoghi sonori che facilitano il riorientamento. La cadenza, il tema, il
ritornello, la variazione sono altrettanti stratagemmi per legare acusticamente il flusso sonoro, fino
a quel gratificante ritorno a casa, che nella musica occidentale la tonica ha garantito per secoli.
Mozart è maestro nell’elegante gioco di reiterazioni soppesate e proprio per questo si fa ascoltare ad
ogni età. La musica contemporanea invece, quando non fornisce la chiave di accesso ai nuovi
mondi sonori e sviluppa un percorso senza ritorni, lascia sgomento l’ascoltatore non esercitato al
disorientamneto. Nella veste di sistema di attese che può venire gratificato o disatteso con
l’introduzione di aperture sorprendenti, la musica si libra tra i sentimenti di angoscia/sorpresa per
l’ignoto e sicurezza/noia per il già noto. Imberty dà un significato esistenziale a questo viaggio nel
tempo. Muove dall’ipotesi che “Lo stile di un’opera musicale costituisca la testimonianza degli
atteggiamenti inconsci fondamentali dell’uomo di fronte alla irreversibilità del divenire,
dell’invecchiamento e della morte, così come vengono filtrati dalla sensibilità, di un’epoca e
l’immaginazione creatrice di un artista di genio”. (Imberty,1990, pag. 23).
Disponiamo ora di una chiave di lettura che ci consente di capire perché molte musiche africane,
che ripetono all’infinito gli stessi schemi ritmici, a noi paiono ossessive. La nostra tolleranza alla
ridondanza è bassa. Viviamo sempre in attesa di novità. Inverso è l’atteggiamento dell’africano che
gusta la ripetizione come sintonia fisica e collettiva con il presente vissuto. Un buon ritmo non ha
bisogno di essere cambiato fino a che continua ad essere appagante. Non diversa è la percezione del
popolo delle discoteche, che balla per ore su ritmi fondamentalmente simili tra loro e che, per molti
versi, ridà vita a rituali propri del tribalismo (9).
D’altronde la nostra civiltà vive un tempo in accelerazione e declina la felicità al futuro, mentre per
i popoli di cultura orale il senso del tempo è sintonia con il passato che rivive ciclicamente.
Ricaviamo ora alcune riflessioni di ordine metodologico, riferibili all’ascolto. Se la musica si
articola sintatticamente sulla ridondanza, diventa tanto più comprensibile quanto maggiori sono i
sistemi di attesa che riusciamo ad attivare. L’ascoltatore distratto coglie, forse, il momento di inizio
e fine della musica e qualche suo tratto superficiale, se non addirittura la avverte come rumore di
fondo. L’ascolto è l’integrazione tra vissuto soggettivo e oggetto musicale, tra suono emesso e
quello percepito. Si struttura grazie alle strategie percettive che l’ascoltatore riesce a mettere in atto.
Educare all’ascolto significa, dunque, offrire all’ascoltatore le strategie per orientarsi nel labirinto
dei suoni e moltiplicare i sistemi di attesa nel continuum sonoro, sia sul versante dell’analisi testuale
che in quello dei significati impliciti.

Le condotte universali
Giungiamo ora a considerare una terza tipologia di universali musicali. Se la prima poneva
l’attenzione sulle strutture del costrutto musicale e la seconda sui meccanismi della percezione,
quest’ultima interpreta la musica come risultato di atti finalizzati, riscontrabili in ogni cultura e,
potenzialmente, in ogni età, a partire dai tre anni. Anzitutto andrebbe sottolineato che il
comportamento musicale, come piacere che nasce dalla combinazione dei suoni in costrutti che
perciò stesso acquisiscono un senso, è specifico dell’uomo. Con questo non si intende sostenere che
non esistano costruzioni sonore anche presso gli animali. Come non cogliamo il senso del canto
degli uccelli, così le sintassi sonore umane lasciano indifferenti gli animali. Il piacere che deriva
dalla comprensione dei costrutti musicali è stato utilizzato dagli archeologi come indicatore di
attività spirituale specificatamente umana. Dopo la scoperta in uno scavo archeologico di un osso di
Ursus speleus che presenta più fori allineati, alla maniera dei flauti in osso ancora in uso presso gli
Indios, l’uomo di Neanderthal vissuto tra 90.000 e 30.000 anni prima della nostra era, ha avuto una
promozione sul campo: da ominide con rudimentali abilità di scheggiatura della pietra è assurto a
uomo capace di apprezzare l’astrazione degli straordinari timbri e intrecci sonori che un flauto in
osso è in grado di produrre con una manipolazione elementare. Non è importante che la scoperta,
sia stata messa in dubbio da alcuni studiosi. E’ essenziale invece sottolineare come la presenza della
musica è indice per gli archeologi di potenzialità simboliche e di spiritualità, ovvero di umanità.
Su altro fronte, l’alta sensibilità e reattività che i portatori di handicap mostrano all’ascolto e alla
produzione musicale diventa l’indubbio indicatore di risorse interiori e potenzialità espressive che
sono universali umani e che, anche quando altri canali sono interrotti o inibiti, riescono a
manifestarsi attraverso l’ascolto e la produzione musicale.
Tre tipologie di gioco musicale
Sul versante della ricerca psico-pedagogica, gli universali vengono rintracciati da F. Delalande
(1993) nelle tipologie di gioco messe in atto tanto dal bambino che dal compositore. Le ricerche
attorno alla questione su quali siano le ragioni del far musica, hanno indotto il semiologo francese
ad analizzare gli atteggiamenti sonoro-musicali dei bambini, prima che intervengano i
condizionamenti culturali. L’osservazione sistematica consente di individuare le costanti nel
comportamento musicale infantile, che da Delalande vengono definite condotte. “Per condotta va
inteso un insieme di atti elementari coordinati da una finalità. Ragionare in termini di condotte
piuttosto che di comportamenti significa interrogarsi sulla funzione degli atti (Delalande, 1993, pag.
45).
L’autore individua tre direzioni in cui si esplicano le condotte musicali: “La ricerca di un piacere
senso-motorio a livello gestuale, tattile come pure uditivo; un investimento simbolico dell’oggetto
musicale messo in rapporto con un vissuto (esperienza del movimento, affetti) o con certi aspetti
della cultura (miti, vita sociale); e, infine, una soddisfazione intellettuale che risulta dal gioco di
regole” (idem, pag. 49). In sintesi la musica è un gioco senso-motorio, di movimenti e percezioni
che innescano il piacere della reiterazione e il gioco di esercizio, un gioco simbolico, ovvero di
investimento emotivo e simbolico del suono che diviene portatore di idee, affetti, miti, visioni,
infine un gioco di regole, di combinazione dei suoni, secondo una sintassi interna.

Uno sviluppo non verticale


Il quadro rimanda alle classiche tipologie di gioco infantile di Piaget, con una sostanziale
differenza. Lo psicologo svizzero descrive l’evoluzione graduale del bambino attraverso strategie di
azione che partono da quelle senso-motorie, per giungere a piena maturazione attraverso l’uso del
pensiero astratto. Le condotte musicali, invece, dimostrano non una gerarchizzazione delle
strategie, ma una loro costante interazione e compresenza. Difatti le medesime condotte sono
riscontrabili anche nel compositore adulto. Dalla musica giunge dunque un ribaltamento della
teoria secondo cui esiste un uomo superiore, l’uomo della mente, che si è lasciato alle spalle gli
stadi precedenti. La teoria che fa del cognitivismo il livello più alto di umanità rispecchia molto da
vicino la priorità dell’anima sul corpo che è già in Pitagora e Platone, che non per nulla sono autori
che si collocano alle origini stesse del pensiero logico-filosofico. La musicalità, anche ai livelli più
alti, continua invece ad essere insieme corpo, emozione, immaginazione e pensiero.
La storia della musica offre una vasta gamma di esempi. Il virtuosismo ha fatto del piacere senso-
motorio e della destrezza la propria finalità centrale. L’ascolto, a sua volta, diviene gioco senso-
motorio quando si fa danza. Sia nella composizione che nell’interpretazione esecutiva si può invece
privilegiare l’evocazione, la metafora, la suggestione, l’espressione di stati d’animo, sentimenti,
visioni, come sa realizzare magistralmente la produzione romantica. In questo caso è in atto il gioco
simbolico. Quando sono le regole del gioco musicale a prendere il sopravvento negli intenti del
compositore, la musica è gioco di regole. Il ‘Clavicembalo ben temperato’ di J. S. Bach e in
generale tutta l’arte della fuga rispondono a questa funzione. Ogni musica ha potenzialmente in sé
le tre componenti, pur in diversa percentuale: ha bisogno di una abilità motoria, si costruisce
attraverso regole ed esprime un significato simbolico. Ogni epoca, ogni etnia ha interpretato con
differenti sfumature queste tre condotte. Dunque esse rappresentano, per Delalande, degli universali
dell’uomo.

Cognitivismo e simbolismo
Con il supporto di queste riflessioni, l’interrogativo originario “che cosa è la musica?” ha ormai
acquisito uno spessore utile a rispondere, dall’osservatorio della disciplina musicale, alle finalità
generali dell’acculturazione e dell’educazione.
Una volta che accettiamo che i linguaggi espressivi – siano essi verbali o non-verbali – entrino a far
parte del curricolo, non possiamo fare a meno di avviare un processo di revisione dell’impianto
culturale consolidato. Chi si sta formando oggi, docente o alunno che sia, nei decenni futuri dovrà
far fronte a innovazioni e trasformazioni che si preannunciano inimmaginabili e molto rapide e che
incideranno evidentemente sui futuri saperi di base, funzionali all’inserimento del soggetto nella
società planetaria. Non possiamo prevedere e pianificare quali saranno le competenze scientifiche
richieste, ma possiamo reputare che continuerà ad aver senso chiederci se vogliamo formare
esclusivamente un uomo razionale, con competenze logico-conoscitive adatte a rispondere alle
esigenze del reale, secondo strutture scientifico-economiche, oppure se crediamo che abbia una sua
ragione di esistere e vada perciò educato un uomo simbolico. Da questa angolatura, non ha senso
misurare quale grado di realtà possano soddisfare i simbolismi, se le utopie, cioè, siano efficaci ed
applicabili, se i valori abbiano anche valore fattuale. La liceità del pensiero simbolico deriva non
dalla sua funzionalità oggettiva, quanto dalla funzione soggettiva ed esistenziale che soddisfa e, in
definitiva, dall’ineludibile e appagante esigenza di simbolizzazione dell’uomo.
Abbiamo così inteso dare risposta ad uno degli interrogativi posti all’inizio: perché far musica. Altri
linguaggi con altri strumenti e strutture sintattiche raggiungono il medesimo scopo. A. Webern
affermava “Che cosa è dunque la musica? La musica è linguaggio. In questo linguaggio l’uomo
vuole esprimere pensieri, ma non pensieri che si lasciano convertire in concetti, bensì pensieri
musicali” “Ognuno vuole comunicare con i suoni qualcosa che non si può dire altrimenti. In questo
senso la musica è un linguaggio” (A. Webern, 1960, pagg. 46 e 17, citato in Imberty, 1990). Ciò
sottolinea da un lato la specificità e irripetibilità del linguaggio musicale, dall’altro la varietà delle
espressioni simboliche umane, che utilizzano, ciascuna, propri strumenti - la parola, i suoni, le
immagini, i gesti - senza che, tra di essi, si possa stabilire una gerarchia di priorità e, tanto meno, un
predominio del linguaggio verbale. L’esigenza di simbolismo musicale come parte insostituibile
della formazione umana può certamente trovare numerose teorie a proprio sostegno, ma forse riceve
la più incisiva testimonianza empirica dall’osservazione dell’odiance: alla marginalità della
formazione musicale nella scuola italiana, fa da contraltare una fortissima domanda e un consumo
di musica che trova nei media, non ancora nella scuola, il proprio campo privilegiato.

Obiettivi e condotte
L’istanza formativa della musica, al pari degli altri linguaggi dell’espressione, si comprende in
modo più significativo se si stabilisce una distinzione tra due funzioni della formazione scolastica.
Per un verso la scuola risponde all’esigenza sociale di trasmettere le conoscenze e le competenze
necessarie alle nuove generazioni perché possano divenire parte attiva e propulsiva della società
futura. E’ la scuola che programma gli obiettivi in termini di capacità oggettivamente misurabili,
che determina contenuti, competenze e livelli di accettabilità, che ne verifica il raggiungimento
(temporaneo) e che stabilisce un curricolo connesso, in ultima istanza, all’inserimento nel mondo
adulto e del lavoro. Su un altro versante, la scuola si assume il compito di promuovere lo sviluppo
del sé, nella sua dimensione individuale e sociale. Questa prospettiva, che si incentra sulle
motivazioni e le esigenze di espressione, di scoperta e potenziamento delle attitudini personali,
meglio si declina con il concetto di condotta. La differenza sta nel fatto che gli obiettivi sono
deliberati dalla società in base alle proprie esigenze e in ragione delle competenze raggiungibili in
media dall’alunno a un certo livello della propria crescita, mentre le condotte sono comportamenti
che il soggetto mette in atto per raggiungere propri scopi. L’acquisizione di competenze diventa,
allora, il mezzo per soddisfare la finalità che il soggetto intende raggiungere.
Se assumiamo la proposta di Delalande, secondo cui le condotte musicali si manifestano sotto
forma di gioco, dobbiamo dedurre che l’azione risulta sì finalizzata, ma nel modo in cui lo è un
gioco, aperto cioè a variazioni, ampliamenti, soluzioni impreviste. Questo aiuta a comprendere che
la condotta spontanea può divenire oggetto di una indefinita propulsione e di un potenziale
sviluppo. Il compito del docente è appunto quello di rilanciare la condotta spontanea e di indurre da
essa un percorso formativo, che preveda l’acquisizione motivata di competenze, al fine di orientare
il discente verso condotte esperte.
Oltre la scuola delle finalità
L’insegnante che decide di strutturare il curricolo musicale a partire dalle condotte va incontro
anzitutto a una variazione di prospettiva nel processo educativo, oltre che a una trasformazione
nello stile di insegnamento-apprendimento: prima di costruire la programmazione sui saperi da
tramandare e sulle esigenze produttive della società futura, si interroga sui bisogni che l’individuo e
la collettività esprimono, è attento alla qualità della vita scolastica e, quando necessario, al
raggiungimento degli obiettivi sa anteporre la tenuta della carica motivazionale. Al contrario
dell’obiettivo, che si ‘raggiunge’, la condotta si coltiva attraverso l’acquisizione delle competenze
necessarie. Se opportunamente sollecitata, essa si ravviva e si mantiene nel tempo, fino a divenire
una costante nella vita personale.
Il riorientamento della programmazione dagli obiettivi-finalità alle condotte, mette in discussione
non soltanto il progetto educativo e il lavoro degli alunni, ma, come s’è già detto, lo stesso stile di
lavoro del docente e il modo con cui si pone in relazione con i discenti. Non è pensabile difatti che
il docente possa valorizzare le condotte degli alunni senza essere parte del ‘clima’ di scoperta,
costruttività e motivazione che le condotte mettono in campo. In altre parole, lo stile di
insegnamento deve rispondere allo stile di apprendimento che egli vuole promuovere negli alunni.
Prima ancora che sondare le condotte degli alunni, il docente ha dunque da interrogarsi sulle proprie
condotte, implicite ed esplicite. Ciò configura un modello di docente-ricercatore, che opera in vista
di una comprensione dinamica della cultura come dello stesso processo educativo.
Ciò si correla significativamente al nuovo ruolo che la scuola si trova a dover interpretare. In
assenza di spazi sociali per l’infanzia e l’adolescenza, di fronte alla disgregazione della famiglia e
alla frammentazione delle comunità in nuclei isolati e instabili, la scuola sembra divenire la più
naturale occasione di espressione e di aggregazione sociale, luogo in cui emergono e possono
quindi venire affrontati i problemi della collettività, della relazione genitori-figli e del disagio
giovanile. A un compito educativo così ampio la scuola della disciplinarietà non sembra poter
offrire soluzioni convincenti. Come si è sopra specificato, le esigenze di formazione di competenze
strumentali essenziali per il futuro cittadino trovano, nei problemi della valorizzazione del sé e della
ricerca del senso dell’esistenza, un contrappeso non meno urgente. L’impegno scolastico non può
sostenersi sull’esclusiva motivazione a distanza, secondo la quale la buona preparazione scolastica
prometterebbe un appagante quanto remoto inserimento nel mondo del lavoro, tanto più che, come
si è già sottolineato, la rapidità con cui mutano i saperi mette in crisi l’idea che possa esistere un
nucleo permanente di conoscenze utili per il resto dell’esistenza individuale. Occorre che la scuola
sia gratificante in se stessa, per i curricoli che prospetta, per le esperienze che fa vivere, le mete
educative e le competenze che consente di raggiungere nell’immediato e nel medio periodo.
Occorre ripensare il compito delle istituzioni scolastiche non più soltanto in termini di conoscenze-
competenze-capacità, ma in quelli di relazione e motivazione. E ciò almeno nei settori in cui il
percorso formativo non ha l’urgenza di una formazione professionalizzante.
Il dibattito sui confini entro cui la scuola debba programmare i propri obiettivi è ben rappresentato
da due definizioni del concetto di competenza. Colombo la definisce “Ciò che, in un contesto dato,
si deve saper fare (abilità) sulla base di un sapere (conoscenze)”. (‘Musica Domani, n° 114, Ricordi,
marzo 2000, pag. 12), precisando che la scuola non può verificare l’efficacia della propria azione
educativa sui comportamenti permanenti degli alunni, proprio in quanto questi si manifestano oltre
il tempo e lo spazio scolastico. Suo compito è perciò programmare e verificare esclusivamente
conoscenze e abilità acquisite in itinere. Paradossalmente dunque la scuola non è in grado di
misurare la propria efficacia sociale. Vertecchi ne dà invece una accezione più ampia e definisce la
competenza un “Repertorio di elementi simbolici profondamente interiorizzati che assume valore
regolativo di comportamenti ulteriori” (Frascati, marzo 1999). Questa definizione finalizza
espressamente l’operato della scuola al ‘saper essere’ futuro dell’alunno. In definitiva la prima
definizione fa della competenza un sapere e un saper fare che non necessariamente produce un
atteggiamento che sfrutta attivamente e intenzionalmente gli strumenti acquisiti; la seconda
prospetta un sapere e un fare che divengono risorse costanti e vitali. La competenza non è più
soltanto uno strumento neutro, potenzialmente spendibile in futuro per un suo valore intrinseco,
ogni volta che si rende necessario, ma una risorsa radicata, con valore regolativo per la attivazione
di comportamenti ulteriori.
Tuttavia le competenze restano comunque guidate da finalità che descrivono comportamenti
socialmente desiderabili a conclusione del percorso educativo. Le condotte, invece, sono atti
presenti fin dall’inizio nel vissuto soggettivo. Benché siano ancora spontanee e non competenti, le
condotte hanno già un valore regolativo, e rispondono a una finalità intrinseca e immediata. Sono la
risposta a un’esigenza primaria, tesa a un fare, in vista del proprio potenziamento. Le competenze
divengono, in questa prospettiva, i mezzi per rispondere e qualificare il bisogno esplorativo.
Come vedremo, le condotte posso estinguersi e non approdare necessariamente alle competenze
socialmente desiderabili, se all’apprendimento spontaneo non si affianca un processo educativo che
offra strutturate opportunità di apprendimento. E’ significativo come la motivazione musicale
finisca per perdersi per molti di coloro che intraprendono studi specifici. Chi segue gli studi
tradizionali deve difatti trovare le risorse interiori per far fronte ai tecnicismi richiesti prima di poter
finalmente accedere alla musica da vivo. Come le capacità raggiunte rischiano l’inattività e l’oblio
in assenza di adeguate motivazioni, così le condotte non coltivate vanno incontro al rischio
dell’estinzione.
Per sviluppare condotte esperte al docente compete il nuovo compito di sollecitare le condotte
spontanee, indurre interrogativi e motivazioni, focalizzare problemi irrisolti e intuizioni abbozzate,
rilanciare la riflessione per superare le soluzioni elementari e immediate, far crescere l’esigenze di
sistematizzazione delle conoscenze acquisite, offrire le competenze necessarie alla soluzione dei
problemi in vista di risposte sempre più qualificate e coerenti alle proprie aspettative.
L’ambito dei linguaggi espressivi è un campo privilegiato di sviluppo delle condotte spontanee, in
quanto spesso esse sono già attive o si trovano allo stato latente. I linguaggi espressivi (compresi
dunque quelli verbali) danno ai giovani l’opportunità di sperimentare ruoli creativi, interagire con il
gruppo e con i docenti, operare per un fine osservabile e spendibile a breve termine, divenire, in
definitiva, soggetti attivi, protagonisti della propria formazione. Il problema non si risolve con una
scelta di contenuti gradevoli, ma di metodi d’insegnamento-apprendimento che promuovano
atteggiamenti di scoperta e partecipazione.
Una pedagogia delle condotte sembrerebbe, in definitiva, meglio rispondere all’acquisizione di
un’identità di ‘appartenenza flessibile ‘ (cfr.nota 3) nel villaggio della umanità globale, in cui
l’individuo si possa muovere su rotte dell’informazione che egli stesso traccia e seleziona, con
l’autonomia critica necessaria ad affrontare il nuovo ‘nomadismo culturale’.

Programmare a partire dalle condotte


Perché si possa riorientare il curriculum musicale sulle condotte, occorre tener presente alcune
avvertenze didattiche.
1. Essere consapevoli che molte tra le condotte sono tra loro interconnesse e inscindibili, per cui è
impensabile la programmazione lineare e per gradi. A un impianto sequenziale-cartesiano
dell’apprendimento, va sostituito un impianto per reti di obiettivi interagenti, all’interno dei
quali, di volta in volta si focalizzano le abilità che si intendono far oggetto di una specifica
acquisizione.
2. Prevedere un percorso ciclico e una valutazione in progress, in quanto le reti di competenze
vengono interiorizzate in tempi medio-lunghi e attraverso esperienze reiterate, che garantiscono
l’interiorizzazione di concetti e abilità.
3. Proporre attività che mettano in campo contemporaneamente differenti livelli di abilità, in modo
che siano garantite da un lato la partecipazione di tutti, e dall’altro la selezione individuale del
grado di difficoltà da affrontare. Se si riesce a mantener alto il livello di motivazione, lo slancio
a migliorare i risultati è intrinseco e ciascuno potrà decidere quando passare al livello superiore.
4. Nella scelta dei contenuti scegliere repertori, attività, testi che accendano nell’utenza il gusto
estetico, vuoi per affinità con i gusti già manifesti, vuoi per abilità del docente nell’individuare
adeguate strategie perché vengano accolte nuove proposte.
5. Anche quando si affronta un ostacolo semplice, operare all’interno della complessità:
l’isolamento di un elemento musicale dal contesto favorisce l’analisi, ma ne depaupera la qualità
e, conseguentemente, produce un calo di motivazione. La percezione della funzione di un
accordo, ad esempio, risulta molto più significativa nell’ambiente complesso di una
composizione che non nell’asettica esecuzione della sequenza di accordi in cui esso compare.
6. L’insegnante che raggiunge obiettivi avanzati a discapito della motivazione persegue un
risultato puramente momentaneo e spegne, invece, la risorsa più preziosa per il futuro musicale
dei propri alunni: l’interesse e l’entusiasmo. Occorre saper rinunciare a un obiettivo quando
questo è soltanto esigenza del piano di lavoro.
7. L’uomo è tanto più musicale quante maggiori sono le condotte che riesce a mantenere attive. E’
evidente per tutti quanto l’adulto finisca per rispondere a condotte sempre più limitate. E ciò
vale tanto per il pubblico generico, quanto per il musicista professionista.

Dalle condotte spontanee alle condotte esperte


Precisato che la condotta, in quanto attività individuale o di gruppo, in continua trasformazione,
sfugge a una catalogazione rigida e definitiva, può essere utile elencare una serie di atti musicali che
caratterizzano l’uomo ‘musicale’. Il permanere delle medesime condotte anche in età adulta, nel
modo più specifico nella figura del compositore (cfr. Delalande, 1993), garantisce una linea di
continuità all’interno del processo formativo. Rispetto alla triade identificata da Delalande (gioco
senso-motorio, simbolico e di regole), la rosa qui individuata scandisce i diversi atti di produzione e
recezione musicale, derivanti dall’articolarsi delle tre forme di gioco originarie.
Tracciamo un elenco delle condotte nel tentativo di catalogare i campi in cui si esplica l’atto
musicale, attraverso il quale sarà possibile derivare i percorsi didattici (10).
Manipolare
E’ l’atto generativo del fare musicale, il gusto per l’esplorazione, la curiosità per il suono, la ricerca
delle potenzialità sonore della propria voce, dei materiali sonori, degli strumenti musicali acustici
ed elettronici. Va dal gioco percussivo e vocale del primo anno di vita, alla ricerca creativa nell’uso
e nella costruzione di strumenti musicali, alla manipolazione elettronica dei timbri, ai giochi con il
software musicale. Trova la sua origine nella manipolazione sonora degli oggetti (gioco senso-
motorio), fino ad estendersi, nel compositore, alla manipolazione della sintassi musicale (gioco di
regole). Sconfina dunque nella composizione musicale, di cui è il necessario presupposto. A livello
professionale, la ricerca e manipolazione del suono è competenza specifica dei produttori di
strumenti musicali e, oggi, del musicista informatico.
Ascoltare
E’ l’attività di recezione che tende a creare un’acculturazione spontanea nell’ambito dell’ambiente
musicale di riferimento, come avviene per l’acquisizione della lingua materna. L’ascolto spontaneo,
anche a livello adulto, è prevalentemente un gioco simbolico, un ascolto semantico emotivo-
evocativo e spesso con valenza pragmatica (ascolto funzionale al contesto di riferimento, come
avviene per la musica liturgica o in discoteca). L’ascolto spontaneo è strettamente connesso con
condotte di interpretazione (immaginare, danzare, contestualizzare). Per divenire condotta esperta
deve maturare anche un livello di ascolto sintattico, attraverso l’acquisizione di competenze di
analisi e di rappresentazione (letto-scrittura). Un ambito particolarmente importante dell’ascolto è
l’ascolto interiore e l’ascolto di se stessi nel momento esecutivo individuale e di gruppo.
Interpretare
E’ una modalità attiva di ascolto che nasce dal profondo e totale coinvolgimento e dal desiderio di
trasformare l’im-pressione in es-pressione: sono forme interpretative le risposte ritmico-motorie
(dai movimenti liberi, all’accompagnamento ritmico-gestuale, alla danza), la verbalizzazione delle
evocazioni suscitate, ma anche la produzione poetica, iconica, coreografica, audiovisiva, teatrale
quando vengono intenzionalmente abbinate a brani musicali. Il potenziamento della reattività e del
coinvolgimento nell’ascolto, attraverso opportuni suggerimenti e stimoli, affina la percezione e
l’immedesimazione. Esiste anche un’interpretazione esclusivamente musicale: l’interprete ha un suo
modo personale di ‘sentire’ e di eseguire un brano e si fa apprezzare proprio per la sua particolare
sensibilità. A livello esperto l’interpretazione è compito dei compositori di colonne sonore, dei
coreografi e dei ballerini, di coloro che sondano le potenzialità espressive delle arti integrate.
Comporre
Letteralmente mettere insieme i suoni. Nel bambino piccolo è attività spontanea e continua, mentre
la condotta si spegne nel momento della scolarizzazione, di fronte all’impossibilità di competere
con i modelli adulti. Può invece essere un itinerario di grande interesse se opportunamente
incentivato, come avviene nella composizione linguistica ed iconica. Va dall’improvvisazione,
all’intervento che modifica i modelli noti, alla produzione nel quadro di generi musicali esistenti,
fino all’esplorazione di nuove frontiere, come nel caso di artisti che danno un contributo epocale
alla ricerca musicale.
Il linguaggio verbale valorizza continuativamente il ‘componimento’, mentre è ancora limitata la
didattica musicale che promuove la composizione a strumento ordinario del curricolo. (cfr. Paynter
J. – Peter Aston, 1980).
Rappresentare
La scrittura pentagrammata è soltanto una delle strategie per fissare il decorso sonoro. Il verbo
rappresentare qualifica meglio l’ampia gamma di soluzioni che, nei millenni, è servita per
memorizzare il suono, affinché potesse venir conservato e tornare ad essere nuovamente
disponibile. Quando si presenta l’esigenza di fissare e riprodurre una composizione che si ritiene
apprezzabile, nasce anche la relativa condotta dell’atto finalizzato alla ‘scrittura’ dei suoni. La
‘banca dati’ in cui immettere e da cui attingere le informazioni per riprodurre l’originale nelle
culture orali è la memoria biologica, affiancata dai gesti e dalle onomatopee, sistema usato a livello
mondiale dai percussionisti. Il segno grafico dapprima informale, senza la pretesa di codificazione
oggettiva e il segno grafico codificato (pentagramma e altri sistemi proposti nella storia della
semiografia) giungono successivamente e hanno la funzione di conservare soltanto alcuni tratti della
ricchezza espressiva della musica.
Ma anche il nastro magnetico, il disco, il CD, il MIDI e la memorizzazione su computer sono
sistemi per la scrittura e lettura del suono. Se la letto-scrittura musicale, un tempo unica chiave di
accesso alla letteratura musicale, non era – e non è - condotta spontanea, lo è oggi presso le nuove
generazioni l’utilizzo delle apparecchiature di registrazione e riproduzione, che consentono loro il
libero accesso alle biblioteche musicali mondiali (cfr. l’utilizzo di Napster e altri siti in internet). Si
ingenera così la competizione tra produttori professionisti di sistemi di rappresentazione del suono
(gli editori) e l’utenza. Le nuove forme di scrittura e verifica sonora rese possibile dai programmi
musicali su computer rivoluzionano la didattica della scrittura-lettura musicale, in quanto
riconducono ad unità il dualismo spazio-tempo e segno-suono di cui la silenziosa traccia
pentagrammata ha dovuto farsi carico.
Eseguire
Molta parte della voglia di far musica passa attraverso la ri-produzione di musica già composta: il
canto, l’esecuzione strumentale o più semplicemente la capacità di utilizzare strumenti di
riproduzione audio garantiscono il soddisfacimento di questo bisogno universalmente diffuso.
L’esecuzione è un modo per partecipare attivamente alla cultura musicale, per entrare dal vivo nel
gioco musicale. Un tempo costituiva un importante momento di identificazione con il gruppo e di
trasmissione culturale intergenerazionale, quando la cultura orale metteva in musica i valori e i
saperi collettivi. Oggi, con la possibilità di selezionare il repertorio e i generi musicali e grazie
all’ampia offerta del mercato, l’esecuzione, nella veste più impegnativa di esecuzione vocale-
strumentale o nell’altra, più accessibile a chiunque, di riproduzione automatica, ha assunto il valore
di una scelta, un modo per rispondere ai gusti personali e alle tendenze della moda. E’ un aspetto
che l’educazione musicale deve tenere in debito conto quando propone brani funzionali
esclusivamente all’esercizio tecnico oppure quando propone brani d’autore solamente perché sono
esteticamente autorevoli di per sé, mentre possono non esserlo ancora per l’utente. La didattica
meriterebbe maggior fantasia e impegno da parte dei compositori.
L’esecuzione con gli strumenti acustici soddisfa spesso la condotta del gioco senso-motorio, detto
anche piacere della funzione, il gusto, cioè, di riuscire a superare le difficoltà implicite nella tecnica
esecutiva. Facendo tesoro del concetto di rappresentazione, per eseguire non è indispensabile saper
leggere lo spartito, anzi, questa abilità spesso finisce per sacrificare la condotta compositiva e
interpretativa. Suonare a orecchio è invece una abilità ad alto livello di competenza, che accomuna
il jazzista e il grande interprete del repertorio classico.
Di nuovo, le tecnologie risolvono ogni problema di lettura-esecuzione della partitura, ma, d’altro
canto, non gratificano il contatto fisico con lo strumento e con il suono, né sono in grado di
personalizzare i dati variamente memorizzati e codificati.
Saper suonare è un bisogno socialmente molto diffuso. Lo si deve reputare un problema di
formazione della persona, e quindi da contemplare nel curricolo, o è soltanto una questione che va
risolta singolarmente, sulla scorta di una offerta formativa settoriale? Se il gioco senso-motorio è un
universale dell’uomo musicale, la risposta è implicita. Il compito del curricolo è di considerare
produzione e recezione come due momenti complementari della formazione musicale del cittadino.
Le offerte formative dei conservatori e delle scuole di musica acquistano un senso proprio perché la
condotta musicale, opportunamente coltivata, spinge l’individuo a finalizzare la propria
motivazione attraverso itinerari culturali più impegnativi.
Analizzare
Anche il processo analitico, che l’alfabetizzazione culturale reputa lo strumento privilegiato per
conseguire la competenza morfo-sintattica di ciascun linguaggio, non è una condotta spontanea,
almeno fino a che non diventa cogente la motivazione a comprendere, dall’interno, i meccanismi
dei processi che regolano il linguaggio. Si è già sottolineato che il conseguimento di una
competenza analitica non si trasforma automaticamente nell’esercizio di una condotta analitica. Il
‘sapere’ può non tradursi in intenzione a lungo termine. E’ piuttosto il contrario: il crescere
dell’esigenza di padroneggiare il linguaggio musicale in vista della risoluzione di problemi sentiti
personalmente, genera la motivazione a sviluppare processi analitici. La teoria (il gioco di regole
tra i suoni) dunque è figlia dell’esigenza esplorativa e può offrire preziosi servigi soltanto dopo che
il ‘fare musicale’ è stato opportunamente esplorato. La riflessione è un ritornare sui propri passi con
ponderazione e attenzione analitica, ma occorre che essa derivi da una curiosità già accesa. In
definitiva l’analisi musicale può opportunamente innestarsi soltanto su un vissuto musicale
pregresso. Può iniziare fin da piccoli, nella veste di gioco di smontaggio dei meccanismi musicali,
di attribuzione motivata di senso ai suoni e di riconduzione dei brani ai contesti di riferimento. Si
sviluppa poi in direzione di esplorazione delle strategie più funzionali per l’ascolto (e la
composizione).
L’analisi è un processo sistematico di scomposizione in parti, in vista di processi di correlazione e
ricomposizione delle parti tra loro (sintesi). L’analisi sintattica rivolge l’attenzione alle componenti
del linguaggio e alle sue regole interne. Un secondo indirizzo analitico, apparentemente meno
tecnico è l’attribuzione di senso. L’analisi semantica si occupa dei significati che vengono attribuiti
alla musica, attraverso il gioco simbolico (cfr. Imberty, 1986 e Marconi L., 2001).
Valutare
L’attribuzione di un giudizio estetico è una costante del rapporto uomo-musica. Sia nella
produzione che nella recezione è l’indicatore che tiene aperto o chiude il contatto tra uomo e
musica. Valuta esteticamente il bambino quando ripete un gesto che produce un suono che lo
incuriosisce e valuta il compositore quando selezione il materiale che ha prodotto, come valuta
l’ascoltatore quando seleziona i repertori. Si deve riconoscere che tutte le condotte precedenti
vengano sottoposte a continua e immediata valutazione per quanto concerne l’esteticità e l’efficacia
dell’atto che viene concretizzato. Può invece modificarsi il giudizio in base alla maggior o minor
esperienza, competenza e consapevolezza. Sviluppare la capacità di valutazione - e in definitiva di
autovalutazione – è un obiettivo da esercitare fin dall’inizio nell’attività didattica. Attendere di aver
maturato competenze ad alto livello per invitare alla espressione di un giudizio significa spegnere
questa condotta, per delegarla all’autorità degli ‘esperti’ e farla ritornare nel limbo dello
spontaneismo. Di contro occorre imparare a esprimere valutazioni sulla scorta di strumenti analitici,
storici e d estetici e attraverso il confronto con le prese di posizione altrui. Esiste dunque una
crescita della condotta valutativa, oltre la reazione immediata e inconsapevole, verso un giudizio
critico culturalmente mediato.
La valutazione, che prende le mosse dall’alternativa fra ciò che è gradevole e sgradevole, perviene
ai livelli più complessi al giudizio critico. La discussa figura pubblica che riveste il ruolo di
valutatore è oggi il critico musicale (Stefani G., 1982).
Contestualizzare, storicizzare
E’ un comportamento che nasce dall’esigenza di collocare ciascuna produzione musicale nel suo
spazio e nel suo tempo. Poiché il bambino piccolo tende a ricondurre ogni comunicazione
solamente al proprio mondo (è self related), si deve ammettere che la contestualizzazione diventa
una condotta soltanto in età più avanzata, almeno da quando si sono consolidate le coordinate
spazio-temporali. La scuola avvia questo processo, che perviene, a livello adulto, al bisogno di
conoscere le vicende, gli uomini, i presupposti e le conseguenze che sono correlati a un evento. La
storia della musica risponde a questa esigenza in modo sistematico. Anche in questo ambito va
sottolineato che la storicizzazione è spesso soltanto un presupposto astrattamente acquisito che
serve per collocare eventuali informazioni in un contesto diacronico. Può invece diventare il
risultato di un bisogno di graduale organizzazione sincronica e diacronica dei materiali musicali.
Non, dunque, un sapere, ma un’attività di ricerca, di conoscenza e di sintesi che si perpetua nel
tempo.
L’analisi che si rivolge ai contesti in cui la musica viene prodotta o utilizzata apre alle dimensioni
storico-geografica, antropologica, etnomusicogica, filosofica, sociologica. L’evento musicale
acquista un nuovo spessore che può essere affrontato unicamente in modo interdisciplinare. Sono
ambiti di competenza che rispondono a interessi propri della scuola superiore, dell’università e della
ricerca.
L’esigenza di operare musicalmente con consapevolezza e spessore culturale, che è finalità
educativa dell’intero curricolo musicale, testimonia l’avvenuta inversione di polarità delle condotte,
originariamente orientate a soddisfare un bisogno individuale o al massimo di gruppo. Il nuovo polo
di attrazione dell’adulto formato diviene la società in cui opera, la sua cultura e le culture ‘altre’,
con le quali interagisce. Delle società egli comprende e, a volte, condivide visioni del mondo,
responsabilità e obiettivi. In base alle proprie competenze musicali, ai propri interessi e alle
occasioni che gli si offrono, può scegliere di fare e ascoltare musica per il proprio gusto personale.
Oppure può scegliere di esercitare un ruolo musicalmente attivo, teso a soddisfare una finalità
sociale. E’ la scelta che porta a fare della musica una professione.

BIBLIOGRAFIA
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NOTE
1). “La rivoluzione agricola di ottomila anni fa ha sostituito gradualmente le comunità nomadi, e ha
dato origine a società sedentarie, che trovarono la loro coesione attorno alla territorialità (le
coltivazioni) e alla cultura (il culto), circoscritte entrambe nei medesimi confini. La lotta contro il
vicino, la difesa del territorio, la fede nelle proprie divinità resero più coeso il senso di identità
sociale. “La parola “cultura”, usata con una medesima radice in quasi tutte le lingue occidentali (…)
è spesso intraducibile nelle lingue dei popoli cacciatori, raccoglitori e pastori (…) Esprime un
concetto che si è sviluppato presso popoli agricoltori. (…) Probabilmente, gli stessi agricoltori
hanno ampliato il concetto del termine usandolo non solo per la “Madre terra”, ma anche per i
“Figli della terra”, nel senso della coltivazione che alimenta e fa fiorire le facoltà umane. E’
verosimilmente dunque un termine e un concetto inventato da popoli contadini”. (cfr. E. Anati, Le
radici della cultura, Jaca Book, Milano, 1992, pag. 16).
2). Cfr Havelock, La musica impara a scrivere, Bari, Laterza, 1987; W.J. Ong, Oralità e scrittura,
Mulino, Bologna, 1986.
3). “Le società paleotecniche trovavano il loro fondamento giustificativo nella stabilità e
nell’autorità della tradizione; quelle moderne nell’autonomia del giudizio individuale; quelle
contemporanee non solo nel giudizio dell’individuo stabilmente appartenente ad una determinata
classe sociale, bensì dell’individuo mobile e aperto, caratterizzato da ‘lealtà sovrapposte’ e da mète
di vita differenziate, che giustifica e definisce la sua identità in termini di spontaneità e creatività
personale. E’ appena necessario osservare che l’individuo nella società contemporanea deve
continuamente ridefinirsi a seconda del mutare delle condizioni strutturali della società complessa,
determinata da una tecnologia produttiva in rapida evoluzione. L’identità, in queste condizioni, non
è più un dato fisso. E’ un processo problematico che va continuamente rianalizzato e ricomposto nel
quadro di una società in movimento. Vivere su un tapis roulant. Ciò diviene essenziale non solo al
livello individuale, ma anche a quello della società globale, tenuto conto dei flussi migratori che
definiscono il mondo attuale e che contribuiscono potentemente a labilizzare posizioni, credenze,
usi e costumi che si potevano ritenere eterni solo perché ad essi si era abituati. L’identità mette
dunque in crisi gli etnocentrismi esclusivi e richiede la capacità di appartenere flessibilmente e
partecipare all’esperienza umana nel suo significato più ampio”. F. Ferrarotti, Homo sentiens.
Giovani e musica, Liguori Editore, Napoli, 1995.
4). E’ d’altronde, questo, un assunto scontato per la società africana. J.H. Kwabena Nketia, nella
introduzione al suo testo sulla musica africana, sottolinea come ‘Nelle comunità africane il
momento musicale è generalmente un evento sociale’. (1986, pag. 30). Alcuni strumenti musicali,
come la zanza, sono a volte vere e proprie mappe sociali, con tasti che rappresentano gli anziani,
altri le donne, altri ancora i guerrieri. Suonare lo strumento significa porre in relazione tra loro i
suoni nel modo in cui si codificano le relazioni sociali. Ogni tentativo di comprensione non iniziata
al significato autentico della musica prodotta con questi strumenti sarebbe comunque falso e
distorto, anche quando si riuscirebbero ad apprezzare esteticamente gli esiti ritmico-melodici e
formali.
5). Anche la musicoterapia si è interessata a questo fenomeno: ‘Affinché un contesto di produzione
sonora possa avere una dimensione terapeutica non bisogna solamente tenere in conto il prodotto
sonoro o musicale, ma anche il processo per cui è stato realizzato all’interno di una relazione
individuale o di gruppo, processo che gli dona senso”. (Lecourt 1999).
6). ‘Il primo tipo di attività spirituale può essere definito come funzione teoretica ed è caratterizzato
dal predominio delle forze razionali, logiche e dalla dominanza dei metodi fisico-matematici. Il
secondo opera invece non attraverso l’analisi delle percezioni sensoriali, è fortemente influenzato
dalla vita emotiva ed è dominato da corrispondenze di significato conforme; esso crea attraverso i
colori, i suoni e gli odori: possiamo chiamarlo sinteticamente funzione estetica. Molti popoli
orientali hanno scelto questo secondo modo di operare e hanno creato così una ricca e pura
interpretazione, ma non una scienza, della natura. L’occidente ha invece privilegiato la funzione
teoretica, con una decisione carica di conseguenze, la quale ha favorito in modo particolare la
scienza della natura.
Ma l’unità dell’uomo è sempre così forte, che queste due funzioni principali dell’attività spirituale
non possono mai essere scisse del tutto.’. H. Rahner, E. Neumann, A. Portman, L’uomo ricercatore
e giocatore, 1993, Red Edizioni, pag. 141.
7). D. Goleman sostiene che lo sviluppo della emotività dovrebbe trovare un posto autonomo
nell’iter scolastico. Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva migliora “l’autocontrollo, l’entusiasmo e
la perseveranza, nonché la capacità di automotivarsi.. E queste capacità, come vedremo, possono
essere insegnate ai bambini, mettendoli così nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque
talento intellettuale la genetica abbia dato loro”. Daniel Goleman, Intelligenza emotiva,
Superpocket, R.L. Libri, Milano, 2000, pag. 15.
8). Sul problema si veda il paragrafo ‘Gli universali della musica’ in Nattiez J. J., 1989, pagg.49-53.
9). "Noto che i giovani di oggi non ascoltano la musica, ma la abitano. Entrano in scena come se
fosse una casa, la loro stanza privata. La musica offre un riparo rispetto al mondo, alla società, che è
e resta 'terra straniera'. La musica come rifugio (come 'grembo materno'?)... La scienza odierna
enfatizza la acuità visiva. La musica aiuta il passaggio, e recupero, di un mondo non lineare, non
sequenziale, non logico in senso analitico, ma nel senso logico (più profondo) della logica del
vivere, dell'ascolto interno." (Ferrarotti Franco, 1995, pag. 5).
"Ma è soprattutto la primitività di quella musica ciò che più attira i giovani e i giovanissimi... La
nuova musica, nel suo porsi come insieme di suoni e rumori "selvaggi", inediti e logicamente non
domabili, si riporta sullo stesso piano della vita vissuta: non è più soltanto ascolto - compunto,
informato, dotto (programma in mano e poltroncina numerata comoda) - ma esperienza totale,
danza, ritmo, movimento. E' scattato qualche cosa di nuovo, di storicamente inedito o, forse, il
ritorno a una totalità antica, sulle colline dell'Attica, alle origini della tragedia greca, quando
rappresentazioni teatrali, musica, canto, ritmo e cerimonia religiosa si fondevano e non era possibile
distinguere gli attori dal pubblico poiché tutto erano allo stesso titolo coinvolti. Quale che sia il
giudizio, la valutazione finale che ciascuno potrà dare della nuova musica, in particolare del rock,
non c'è dubbio che questa nuova dimensione, che puntualmente corrisponde alle folle tumultuanti
degli stadi, andrà tenuta presente. E' caduto lo steccato tra musica e vita". (Idem, pag. 82). Cfr. G.
10) G. Mocchi ‘L’esplorazione sonora’, in A. Talmelli (a cura di) ‘Tre sei anni. L’esperienza
musicale’, Milano Ricordi, 1989.

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