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LA PERSECUZIONE

DEGLI EBREI
DURANTE
IL FASCISMO.
Le leggi del 1938

CAMERA DEI DEPUTATI


Camera dei Deputati
Roma dicembre 1998
ISBN 8892002694
Sommario
Presentazione
Contro il razzismo
JACQUES CHIRAC. Presidente della Repubblica francese
BILL CLINTON. Presidente degli Stati Uniti d’America
VACLAV HAVEL. Presidente della Repubblica ceca
ROMAN HERZOG. Presidente della Repubblica federale di Germania
OSCAR LUIGI SCALFARO. Il Presidente della Repubblica
EZER WEIZMAN. Presidente dello Stato d’Israele
I. Le premesse storiche
Corrado Vivanti. Gli ebrei nella storia d’Italia
Una presenza antica
Le comunità del mezzogiorno e la prima diffusione nell’Italia centrale
Nuovi flussi migratori: dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna
Espulsioni e persecuzioni alle soglie dell’età moderna
Un rivolgimento geografico nell’età dei ghetti
Emancipazione ed eguaglianza
Gadi Luzzatto Voghera. L’antisemitismo in Europa e in Italia tra le due guerre
L’ascesa del fascismo e dei regimi totalitari in Europa
I Protocolli come modello di utilizzo politico dell’ideologia antisemita
L’antisemitismo in Europa
Fascismo e antisemitismo in Italia
Le tappe della legislazione razziale
II. Le leggi del 1938
Michele Sarfatti. La persecuzione degli ebrei in Italia dalle leggi razziali alla
deportazione
Introduzione
Caratteristiche generali della legislazione antiebraica
La normativa persecutoria nella scuola
La deportazione (1943-1945)
Gli effetti, le reazioni, il lascito
Documenti
Il fascismo e i problemi della razza. Manifesto degli scienziati razzisti
La Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo
I decreti-legge
La legislazione fascista nella XXIX legislatura 1934-1939
La conversione in legge dei decreti-legge
Circolari e disposizioni amministrative
Libri di testo per le scuole e direttive razziali
Cronologia. Orientamenti Bibliografici
Cronologia
Orientamenti bibliografici
PRESENTAZIONE
Il quattordici dicembre 1938 la Camera approvò, con voto segreto e all’unanimità, la
conversione in legge dei provvedimenti «per la difesa della razza». Il Senato votò una settimana
dopo, il 20 dicembre, sempre a scrutinio segreto, ma con dieci voti contrari.
Quei provvedimenti rompevano per la prima volta l’unità nazionale ed il valore della
cittadinanza, dividendo i cittadini in due categorie: i non ebrei e gli ebrei. Per i cittadini
italiani classificati come ebrei, in virtù di una dettagliata casistica, era decretata la morte civile.
La più recente storiografia ha sottolineato le origini, i contenuti e gli effetti
dell’antisemitismo fascista, sino alla collaborazione con i tedeschi per la deportazione nei campi
di sterminio. È emerso che anche gran parte della gente comune, per i meccanismi di passività
propri del totalitarismo, manifestò o consenso o indifferenza nei confronti delle leggi razziste. I
più assistettero purtroppo impassibili all’emarginazione ed alla persecuzione di alcuni loro
concittadini con i quali avevano condiviso sino ad allora il luogo di lavoro, la platea di un
teatro o di un cinema, l’aula scolastica. Nelle università ed in altri luoghi pubblici e privati, la
messa al bando dei professori, dei funzionari e dei professionisti ebrei fu utilizzata per rapide
ed improvvise carriere. Soltanto il declino del regime avrebbe modificato tale atteggiamento.
Leggi razziste, dunque, quelle di sessant’anni fa, ed il razzismo è forse proprio l’aspetto del
nazifascismo che può ritornare nella storia perché il futuro sarà sempre più segnato dalla
multietnicità. La migrazione sarà uno dei caratteri fondamentali dell’umanità nei prossimi
decenni. Ci sarà probabilmente una migrazione «ricca», di professionisti capaci che sceglieranno
nel mondo i lavori più soddisfacenti e più retribuiti, ed una migrazione «povera» fatta di
persone che sfuggono alla fame, alla miseria, alla persecuzione.
Per queste ragioni la multietnicità è il futuro del mondo, ed i paesi più forti nell’economia,
nella scienza e nella cultura, sono e restano i paesi con un più alto coefficiente di multietnicità.
È stato assai significativo il modo in cui la Francia, attraverso i suoi massimi esponenti
istituzionali, ha festeggiato la conquista della coppa del mondo di calcio nel 1998, ricordando
il valore della multietnicità nella tradizione francese, visto che nella squadra vincente giocavano
molti calciatori di origine nord-africana, tra cui il «mitico» Zidane. Ma non tutti comprendono
che questo è il futuro e che questo futuro dev’essere affrontato con serenità e fermezza. Chi ha
paura o non capisce può diventare razzista. Su queste forme di razzismo, come la storia
insegna, si possono costruire anche fortune politiche.
Nel mondo di oggi, inoltre, ciascuno di noi può diventare improvvisamente minoranza, per il
suo aspetto fisico, per le scelte sessuali, per la sua fede religiosa o per l’assenza di fede religiosa,
per il suo stile di vita. Apparteniamo tutti in realtà ad una somma di minoranze o, meglio,
apparteniamo a maggioranze o minoranze fluide che possono improvvisamente cambiare di
segno, a seconda del momento, delle mode, delle condizioni sociali e culturali.
Il richiamo alla lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione è oggi più
che mai attuale per dare concretezza alla democrazia. Non si tratta di riaffermare il vecchio
concetto di tolleranza, che presuppone la divisione in tollerati e tolleranti. Occorre costruire il
concetto di convivenza tra diversi che si rispettano reciprocamente.
È questo lo spirito della presente pubblicazione, dedicata al mondo della scuola, con la
fiducia che se ne faccia adeguato uso sul piano didattico, nell’ambito del rinnovato interesse per
la storia del nostro secolo. È forte la preoccupazione, soprattutto fra i sopravvissuti allo
sterminio nazista, che alla loro scomparsa, quando non saranno più ostensibili i segni della
persecuzione impressi nelle loro carni, l’oblio e l’incredulità possano prevalere. La risposta a
tale pericolo non è soltanto nella memoria collettiva, ma anche nella ricostruzione e nella
documentazione storica.
I saggi e i documenti qui raccolti intendono perciò offrire un contributo, innanzitutto
conoscitivo, alla formazione civile delle giovani generazioni.
Le riflessioni del Presidente della Repubblica e dei Capi di Stato di alcuni paesi
rappresentativi della comunità internazionale, cui va il mio vivo ringraziamento, rappresentano
il coinvolgimento e l’impegno delle istituzioni democratiche di tutto il mondo nella
testimonianza della memoria della Shoà e nel ripudio del razzismo in ogni sua forma.
La storia e la memoria devono essere fonte di conoscenza, non di odio o di lacerazione; ma
proprio per questo bisogna conoscere. L’impegno è che nel presente e nel futuro essere diversi non
significhi mai più essere discriminati.

LUCIANO VIOLANTE Presidente della Camera dei deputati


CONTRO IL RAZZISMO

JACQUES CHIRAC
Presidente della Repubblica francese
La storia e, purtroppo, l’attualità; ce lo insegnano: la causa della tolleranza non è
mai vinta. È una battaglia perenne.
Il nostro secolo è stato quello delle più grandi speranze e delle più tremende
cadute. Ha visto democrazie nascere e poi soccombere e perpetrarsi i crimini più
terribili. Ha visto il genocidio di milioni di innocenti, uomini, donne e bambini
assassinati nei campi della morte perché ebrei. Ha visto governi tradire le loro
tradizioni e le loro ispirazioni per farsi complici dell’indicibile. Dopo le leggi di
Norimberga nella Germania nazista, dopo le «leggi razziali» italiane, il Governo
di Vichy in Francia promulgava a sua volta, nel 1940, le prime leggi anti-
ebraiche. Conosciamo la tragedia che ne seguì.
Oggi un mondo nuovo si profila, un mondo pieno di promesse. Molti paesi,
liberati dai conflitti ideologici di ieri, stanno ormai sperimentando sistemi
democratici. Dovunque, in tutti i continenti, le libertà fondamentali, il rispetto
della dignità individuale, tendono ad imporsi, insieme ai valori democratici.
Troppo spesso ancora, tuttavia, la persona umana è calpestata. Troppo spesso
ancora uomini si combattono e si uccidono perché non condividono la stessa
origine etnica o religiosa, perché non hanno lo stesso colore.
Anche nelle nostre democrazie, dove il rispetto della dignità umana e la
tolleranza ci sembrano fatti scontati, il pericolo permane. Ci sono voci che
lanciano appelli di odio. Dobbiamo vigilare affinché le difficoltà di quest’epoca, i
problemi individuali, l’incertezza per l’avvenire non aprano, oggi come ieri, la via
all’intolleranza.
È una lotta quotidiana che richiede memoria storica, vigilanza, fermezza nei
principi, rigore di giustizia. Ma è una lotta da condurre soprattutto sul terreno
della fratellanza, della generosità, rispondendo agli impulsi del cuore. E
specialmente nei confronti dei giovani che rappresentano il futuro, per insegnare
loro l’Altro, la sua diversità, la sua ricchezza, la sua storia, la sua cultura. Per
insegnare loro a rispettare ed accettare.
Questa lotta, noi la conduciamo anche costruendo l’Europa. Per avvicinarsi e
vivere insieme bisogna condividere l’essenziale, cioè i valori della persona umana
su cui si basa la nostra civiltà. Fare l’Europa significa difendere una certa idea
dell’uomo, significa costruire e consolidare la tolleranza.
BILL CLINTON
Presidente degli Stati Uniti d’America
Desidero rendere omaggio al Parlamento ed al popolo italiano per aver
pubblicato quest’opera così importante.
Sessant’anni fa si aggirava per il mondo un incubo, un incubo che abbiamo
ancora difficoltà a spiegarci. In società apprezzate per la loro cultura e le loro
conquiste, venne dato sfogo ad un tremendo odio religioso, razziale ed etnico.
In tutta Europa gli ebrei furono vittime di attacchi feroci e spietati: dalle leggi
ripugnanti passate in rassegna in questo libro alle azioni violente culminate
nell’orrore dell’Olocausto.
Alla fine del XX secolo, in un periodo di pace e prosperità crescenti, è facile
avere fiducia nel futuro e prevedere che il percorso della storia sarà sempre
ascendente. Di sicuro gli eventi della fine degli anni ’30 e dei primi anni’ 40 non
rientravano in un percorso ascendente. Nazismo, fascismo e razzismo di Stato
costituirono una funesta deviazione dal corso illuminato della civiltà e noi
dobbiamo rimanere sempre vigili per evitare che ciò; si ripeta. Dobbiamo fare il
possibile per vivere insieme come una famiglia globale, orgogliosi delle nostre
differenze ma anche dell’umanità che ci accomuna.
Gli americani hanno appreso dalla loro esperienza unica quanto sia difficile
essere all’altezza degli ideali di uguaglianza e giustizia contenuti nella nostra
Dichiarazione di indipendenza. Ma un’onesta valutazione del passato ci aiuta a
realizzare, per dirla con le parole della nostra Costituzione, «un ’unione più
perfetta» in cui tutti gli americani godano di pari diritti e dignità. Il motto degli
Stati Uniti, ripreso dagli antenati romani, conserva il proprio vigore duemila anni
dopo essere stato scritto: e pluribus unum. Siamo una sola America e la nostra
forza scaturisce dall’essere formati da molte parti.
A sessant’anni dalla legislazione antisemita del 1938, l’Italia e gli Stati Uniti
sono forti alleati, che lavorano incessantemente per arginare la violenza e l’odio
ogni qual volta si ripresentano. Siamo orgogliosi dei milioni di americani di
origine italiana, tra i quali coloro che fuggirono dall’Italia dopo il 1938.
Vogliamo ricordare gli italiani che lottarono per la salvezza dei loro
connazionali, perseguitati semplicemente perché ebrei. Non dimenticheremo
mai i milioni di innocenti morti nell’Olocausto ma che rimarranno eternamente
vivi nel nostro ricordo.
La pubblicazione di questo volume richiama alla memoria uno dei momenti
più bui del secolo che stiamo per lasciarci alle spalle, con un obiettivo
fondamentale: ricordare alle giovani generazioni che la memoria è la chiave della
riconciliazione e che un futuro più luminoso attende coloro che comprendono il
passato.
VACLAV HAVEL
Presidente della Repubblica ceca
Sessant’anni fa, il 29 settembre 1938, Hitler, Mussolini, Daladier e Chamberlain
firmarono a Monaco un accordo che doveva portare all’occupazione da parte
della Germania della zona di confine ceca e più tardi all’occupazione di tutte le
terre ceche.
Con le forze armate tedesche giunsero nelle nostre regioni di confine anche le
leggi di Norimberga. Per migliaia di nostri cittadini, tra i quali gli ebrei, cominciò;
nel terrore l’esodo verso le zone più interne. Coloro che rimasero furono vittime
della «notte dei cristalli» del novembre. L’incendio delle sinagoghe divenne la
conseguenza logica della vittoria a Monaco di Hitler. Seguito naturale del diktat
delle grandi potenze doveva essere, soltanto qualche mese dopo, l’occupazione
di tutta la Boemia e la Moravia, accompagnata dalla sorte atroce degli ebrei
cechi. Non è certo un caso che un anno dopo Monaco avvenne proprio nel
nostro paese la prima deportazione d’autorità in Europa degli ebrei, da Ostrava
a Nisko nella Slesia. L’assassinio degli ottantamila ebrei cechi è stato solo una
parte del più grande eccidio della storia.
La proclamazione ideologica di un gruppo di cittadini come persone di ordine
inferiore, la limitazione dei loro diritti e la loro persecuzione si è trasformata in
isolamento sociale e inoltre in liquidazione fisica. Monaco è stata l’ultima
occasione per provare la solidità della democrazia europea, l’ultima possibilità di
impedire gli sviluppi che dovevano poi portare all’apocalisse dell’Olocausto in
tutta l’Europa. Tragico è il fatto che l’accordo sia stato suggellato non solo dalla
firma dell’alleato di Hitler, Mussolini, ma anche da quella dei rappresentanti dei
più grandi paesi democratici: Francia e Gran Bretagna. È ovvio che noi tutti oggi
dobbiamo studiare le reciproche parti di responsabilità negli avvenimenti di
allora, fossero esse anche soltanto indifferenza o cecità.
Esistono molti motivi per dover continuare a rinnovare il ricordo di quei
terribili avvenimenti. C’è ovviamente il rispetto umano, naturale nei confronti
della sofferenza delle nostre genti e della loro memoria. Ma c’è anche
l’ammonimento perenne e vivo che ci proviene dalla sorte delle vittime di
un’ideologia perversa. Se accettiamo che un determinato gruppo di persone
venga privato dei suoi diritti e della sua stessa dignità umana, apriamo la strada a
conseguenze terribili. Se non siamo pronti ad affrontare il male fin dal suo
insorgere, dalle sue prime manifestazioni anche poco appariscenti, rischiamo che
esso si incancrenisca.
Alla luce di quanto sopra, sono lieto che gli italiani cerchino di analizzare il
proprio ruolo nelle vicende preparatorie della seconda guerra mondiale e nel suo
corso. Sono lieto che anche l’Italia abbia con onore denunciato la sua firma
sotto l’accordo di Monaco, che ha comportato non solo un trauma nazionale
ceco, ma ha dato anche il via libera ai responsabili dell’Olocausto. Lo spirito del
razzismo, del nazionalismo e il rifiuto delle persone di altre culture sono ancora
oggi vivi in Europa. Questi fenomeni non risparmiano neanche la società ceca.
Se oggi parliamo delle cause e delle conseguenze della catastrofe europea della
seconda guerra mondiale, dovremmo cercare al tempo stesso di imparare come
affrontare le attuali manifestazioni dell’odio nazionale.
ROMAN HERZOG
Presidente della Repubblica federale di Germania
Pur essendo passato oltre mezzo secolo dalla fine del nazionalsocialismo e del
fascismo in Europa, non si può; e non si deve dimenticare. Le esperienze della
Germania e dell’Italia, comuni e pur così differenti, obbligano i nostri due paesi
in maniera molto particolare a confrontarsi criticamente con questo periodo e ad
inserire nella memoria storica questa parte del nostro passato.
Oggi noi sappiamo quanto sia importante contrastare fin dall’inizio un
pensiero volto al disprezzo dell’uomo e alla sua emarginazione. Perché il
razzismo quasi istituzionalizzato, che trovò; espressione nelle leggi razziali
tedesche ed italiane, era già il passo verso la radicalizzazione di un sistema
politico totalitario. In entrambi i paesi, non era il punto finale del pensiero e
dell’azione razzista, ma non era soprattutto neanche il punto di partenza.
Nei nostri giorni, questi documenti storici forse non ci sembrano soltanto
ripugnanti, ma anche estranei, appartenenti ad un tempo da molto passato.
Tuttavia, anche oggi, vediamo come ai margini di società pur democratiche il
pensiero razzista cerca di trovare una nuova patria, mascheratamente o
apertamente. La storia mostra quali conseguenze disastrose questo possa avere.
È nostro compito evitare il ripetersi di tale sviluppo, a prescindere da luoghi e
forme. Questo sarà possibile solo se affrontiamo seriamente gli inizi e le
conseguenze del razzismo, che spesso possono manifestarsi in episodi minori,
addirittura banali. Troppo spesso il razzismo viene, con leggerezza, accettato
come fenomeno marginale, senz’altro ripugnante, ma facente inevitabilmente
parte di società anche democratiche. Già questa trascuratezza politica comporta
gravi pericoli per la democrazia.
Di massima importanza, è, quindi, acuire la vista dei giovani affinché
riconoscano il razzismo ed il totalitarismo fin dai loro inizi. Nella prevenzione di
questo grande male del ventesimo secolo, «era degli estremi», è essenziale agire
tempestivamente e con coraggio. Carlo Schmid, uno dei padri della Legge
fondamentale tedesca, ha avuto occasione di dire: «La democrazia è più di un
prodotto di sole decisioni di opportunità, laddove si ha il coraggio di credervi
come a qualcosa di necessario alla dignità dell’uomo. Però se si ha questo
coraggio, allora bisogna trovare anche il coraggio dall’intolleranza rispetto a
coloro che vogliono servirsi della democrazia per ucciderla». In poche parole, la
democrazia deve essere in grado di difendersi.
Noi dobbiamo evitare che le forze antidemocratiche e razziste tornino ad
avere un’opportunità. Con la massima determinazione dobbiamo mettere in
chiaro che con tali forze non ci devono essere, neppure una sola volta,
ammiccamenti di sorta.
OSCAR LUIGI SCALFARO
Presidente della Repubblica Italiana
Sono passati sessant’anni, ma la vergogna rimane; la vergogna di aver umiliato la
Persona Umana discriminandola per “razza” e, la vergogna per il governo
fascista, di essersi comportato da servo della criminosa follia nazista.
Perché ricordarlo? non certo per sentimenti di inutile odio. ma perché il
germe perverso che fu all’origine di quella infame pagina di storia, purtroppo
non muore mai.
È il germe della esaltazione della propria etnia, come di un qualcosa di
superiore che genera “diritti” di predominio sugli altri fino a servirsene nei modi
più aberranti, fino allo sterminio.
Dunque la terribile legge dei tedeschi nazisti è stata questa: noi siamo
superiori e quindi abbiamo ogni potere sulle “razze” dalla nostra distinte e
mediocri.
La terrificante dottrina trovò il suo culmine nell’aggressione, nella
persecuzione, nello sterminio degli ebrei; si trattasse di persone importanti o no,
di anziani o di giovani o di bambini, ciò che importava era sterminarli.
Attenzione giovani! perché il seme della superbia che avvilisce e domina con
immane disprezzo gli altri, è assai difficile da estirpare.
Perché mi rivolgo a voi? perché temo che possa sembrarvi quasi una fiaba,
una terribile fiaba che in questo XX secolo si siano uccisi, con i metodi più
inumani, milioni di esseri umani perché “non di razza ariana”, perché ebrei.
Potrà sembrare a voi l’esagerazione di persone anziane che rievocano con
angoscia e terrore pagine vissute da vicino e vissute la sufficiente senso critico,
senza valutazione serena.
No! la tragedia immane fu tragedia e basta!
Ma purtroppo nell’animo di ogni uomo può covare il me della superiorità, del
super uomo, del disprezzo di colui che è diverso per etnia, per colore della pelle,
per lingua, per cultura, per religione o per atteggiamento spirituale; questo germe
deve essere vinto all’origine, con la formazione umana, con la cultura, con
l’educazione a vivere insieme, tutti esseri umani di pari dignità; deve essere vinto
nelle manifestazioni anche in apparenza più insignificanti e si vince solo
credendo con i fatti nei valori inestinguibili, nei diritti inviolabili dell’uomo.
Oggi tanta parte del mondo ha come fondamento del proprio ordinamento
giuridico la “Persona Umana”.
Tanti Stati si sono impegnati a difenderne i diritti dal primo palpito di vita,
all’ultimo lume del lucignolo che si spegne.
Tanti lottano perché i diritti della Persona siano realtà e non solo
proclamazione; tanti sentono che l’unica vera risposta alle divisioni, alle
sopraffazioni, ai predomini avvilenti e iniqui, è la fratellanza, è la solidarietà, è il
sentirsi parte viva della stessa umana famiglia.
Ma c’è ancora lunga strada da fare: ancora innumerevoli esseri umani sono
privi dei diritti e della stessa dignità di uomini, sono privi della libertà di
coscienza, privi del diritto ad una vita libera e giusta.
Siamo in marcia verso l’Europa delle Persone, l’Europa della Gente che vuole
vivere, operare e camminare insieme.
Il sangue di tanti martiri delle persecuzioni razziali, delle guerre, della violenza
di ogni genere, sarà certamente seme di amore e di Pace se ognuno darà il
proprio contributo con generosità.
Ora, come la libertà si deve difendere e pagare da ciascuno ogni giorno, da
ciascuno che vi creda davvero, così il rispetto dei diritti della Persona deve essere
impegno e vita per chiunque si senta a pieno titolo “cittadino del mondo”.
A voi giovani l’impegno di saper vivere queste verità che sono la fonte della
vera civiltà dell’uomo e di essere pronti a pagare di persona affinché ognuno
possa godere della pienezza della dignità umana.
E qui il mio pensiero va a Coloro, e furono molti, che per difendere la vita di
ebrei perseguitati, misero a rischio la propria.
Nomi noti, Persone che io stesso conobbi, nomi ignoti rimasti nell’ombra.
Giovani: dunque di fronte ad un mare di sangue e di fango, vi fu Chi seppe
vivere da uomo e ne pagò fino in fondo il prezzo.
Non dimenticatelo!
EZER WEIZMAN
Presidente dello Stato d’Israele
Cerco di immaginare cosa siano, per voi giovani italiani del 1998, le leggi razziali
volute dal regime fascista nel 1938. Probabilmente vi sembrano un evento
assurdo, lontanissimo, verificatosi in circostanze completamente diverse da
quelle in cui vivete. Forse vi sembrano qualcosa che non ha più niente a che
vedere con il mondo di oggi. A voi giovani voglio dire: no, purtroppo non è
così.
Certo, tante cose sono cambiate. Oggi sono sempre più numerosi i paesi –
come Italia e Israele – che condividono i valori di democrazia, libertà, rispetto
del diritto, tutela delle minoranze. Ma sono valori, non oggetti. Essi non sono
mai acquisiti una volta per tutte. Ogni generazione ha il compito di
riconquistarli, farli propri e svilupparli oltre l’esperienza della generazione
precedente.
Sessant’anni – solo un momento nella storia millenaria del popolo ebraico –
sono un tempo molto lungo nella vita delle persone. A sessant’anni di distanza
dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia, a poco più di cinquanta dalle
camere a gas e dai forni crematori, c’è il rischio reale che si perda la
consapevolezza di quanto è accaduto. E infatti c’è chi vorrebbe, cancellare la
memoria e negare che la Shoà sia mai avvenuta. Costoro confidano nel
trascorrere del tempo. I testimoni ancora in vita sono sempre meno, i fatti
sembrano sempre più lontani.
Il razzismo esiste ancora e, forse, esisterà sempre. Ciò che non deve più
ripetersi è l’inerzia della società, l’atteggiamento di coloro che, illudendosi di
essere estranei al problema, pensarono di potersene disinteressare, lasciando di
fatto mano libera alla furia del razzismo. Oggi come sessant’anni fa,
l’indifferenza è il primo nemico da cui guardarsi.
Sessant’anni fa nessuno avrebbe pensato all’Italia come a un paese antisemita.
Fra gli italiani il razzismo non era così violento e diffuso come in alcuni altri
paesi d’Europa. Eppure le leggi antisemite furono varate. Tanti, allora,
pensarono di trovarsi di fronte a incidenti minori, di portata trascurabile.
Pensarono che si trattasse di minacce che non sarebbero state attuate, leggi che
non sarebbero state applicate. Invece quei fatti e quelle leggi aprirono la strada
alle deportazioni e ai massacri, fino a travolgere milioni di vite innocenti. Il
coraggio personale di molti non ebrei, anche italiani – noi li chiamiamo «giusti
fra le nazioni» – che si prodigarono per salvare i loro fratelli perseguitati non
poté impedire l’immane tragedia.
Non possiamo parlare a nome delle vittime. Come ebreo e come israeliano
posso piangere le vittime, posso commemorarle, non posso perdonare al posto
loro. Ciò che posso fare è chiedere a tutti, e soprattutto a voi giovani, di
dedicarsi al futuro nella piena consapevolezza del passato. Sta a voi, oggi,
scorgere i segni del pregiudizio, di quella diffidenza che si trasforma in ostilità e
poi genera discriminazione e, talvolta, violenza. Sta a voi fermare ogni deriva
razzista, identificare questi fenomeni con onestà e coraggio e bandirli da voi,
affinché non abbiano a crescere e diffondersi. Per questo è particolarmente
meritoria l’iniziativa del Presidente della Camera dei deputati di pubblicare un
libro espressamente rivolto ai giovani. Sono certo che quest’opera, insieme al
costante impegno di insegnanti ed educatori, vi permetterà di raccogliere la
testimonianza e di farla vostra.
Questo secolo che volge al termine è stato il secolo terribile cui i nazisti e i
loro alleati hanno messo a ferro e fuoco l’intero pianeta e hanno distrutto gran
parte del mio popolo. Ma anche il secolo che ha visto la rinascita del popolo
ebraico e soprattutto l’affermarsi del sionismo, il risorgimento nazionale ebraico,
in quella Terra d’Israele dove il popolo ebraico era nato. Esattamente
cinquant’anni fa il mio popolo ha riacquistato l’indipendenza, libertà e dignità,
ed ora vede finalmente profilarsi una speranza di pace. I miei antenati hanno
descritto la pace con un’espressione ebraica che ogni mediorientale capisce al
volo: «Ognuno riposerà nella propria vigna e sotto il proprio albero di fichi». È
un’immagine molto bella, ma oggi non è più sufficiente riposare all’ombra del
proprio albero. Oggi sappiamo che la coesistenza pacifica non è un dato di fatto:
è un processo dinamico, da costruire nei rapporti fra le persone e fra le nazioni,
un processo che ci deve vedere tutti impegnati, giorno dopo giorno, con
l’intelligenza, con il sapere, e con l’amore.
I. LE PREMESSE STORICHE

Corrado Vivanti 1
GLI EBREI NELLA STORIA D’ITALIA
Chi erano quegli «italiani di razza ebraica» che nell’autunno del 1938 vennero
colpiti dai primi decreti persecutori del regime fascista, a cominciare proprio
dall’espulsione dalle scuole del regno? Che non fossero molti, se ne aveva in
generale consapevolezza, anche se, quando le cifre venivano enunciate, ci si
meravigliava della loro esiguità: all’incirca 40.000 su una popolazione
complessiva di 40 milioni; in effetti, per la maggior parte gli ebrei risiedevano
nelle città dell’Italia centrosettentrionale e per questo la loro consistenza poteva
apparire superiore alla loro effettiva entità.

Una presenza antica


Meno chiare erano le idee sulle loro origini e la loro distribuzione nei centri della
penisola. Eppure la loro esistenza nel paese risaliva assai addietro nel tempo: a
circa due millenni prima, almeno al I secolo a. C., quando si sa della presenza in
Roma di una comunità formata soprattutto da artigiani e commercianti. Era
abbastanza sviluppata perché Cesare, instaurato al potere dopo la vittoria su
Pompeo, giudicasse opportuno concedere agli ebrei dell’urbe – nella linea della
sua politica tendente a riconoscere alle varie popolazioni diritti particolari –
alcuni privilegi connessi con le loro esigenze religiose: in particolare, l’osservanza
del riposo nel giorno di sabato, una caratteristica singolare in un mondo che
celebrava sì varie festività, ma non conosceva il ritmo settimanale della
sospensione di ogni attività lavorativa.
La presenza ebraica si accrebbe in età imperiale, e proprio da queste comunità
avrebbe cominciato a diffondersi il cristianesimo, che nei primi tempi apparve
come una setta interna all’ebraismo. Dopo che nel 70 Tito sottomise la Giudea e
distrusse il tempio di Gerusalemme, alcune decine di migliaia di prigionieri
catturati durante la guerra furono deportati, soprattutto in Italia; in seguito, per
la maggior parte, furono affrancati e vennero ad accrescere il numero degli ebrei
viventi nella penisola. In Giudea vi furono ancora vari episodi di repressione, in
taluni casi feroce, ma gli ebrei che vivevano nelle altre regioni soggette a Roma e
in Roma stessa non conobbero in generale misure persecutorie fino a quando
nel IV secolo, con Costantino e soprattutto con Teodosio I, il cristianesimo non
diventò la religione dell’Impero: vennero allora imposte restrizioni alla loro
libertà religiosa e civile, che ebbero una prima sistemazione legislativa nel codice
pubblicato da Teodosio II nel 438 e successivamente vennero aggravate dal
codice di Giustiniano (529).
Vi è fin da allora un comportamento contraddittorio da parte della Chiesa e
del potere statale nei confronti degli ebrei: da un lato vige il principio che
l’autorità terrena dipende da Dio, e quindi essa deve operare perché tutti
accettino la fede cristiana; dall’altro, già san Paolo e poi sant’Agostino hanno
affermato che gli ebrei devono essere tollerati nella società cristiana, sia pure in
posizione subordinata, in quanto testimoni della verità dei Vangeli. Nel corso dei
secoli vi saranno quindi momenti di maggiore o di minore apertura nei loro
confronti, che vedranno alternarsi a periodi di pacifica convivenza il divampare
spesso improvviso di persecuzioni o di provvedimenti di espulsione, mentre sul
piano teologico la Chiesa sviluppa una violenta polemica contro i perfidi iudaei,
spesso identificati con il male, arrivando a definire le sinagoghe – i loro luoghi di
studio e di culto – dimora di Satana. In varie occasioni gli ebrei furono incolpati
di profanazione dell’ostia consacrata o di omicidio rituale (con tragiche
conseguenze si era diffusa la leggenda che, per la confezione delle azzime
pasquali, il pane non lievitato che viene consumato durante quella festività, essi
usassero il sangue di un bambino cristiano martirizzato in spregio di Gesù),
intere comunità vennero massacrate e i superstiti costretti alla fuga. Solo nel
nostro tempo il Concilio Vaticano II (1962-65) ha solennemente dichiarato
infondata l’accusa mossa agli ebrei di «deicidio» per la crocifissione di Cristo e ha
ricordato il patrimonio comune del cristianesimo con l’ebraismo.
Successivamente Giovanni Paolo II – il primo Papa che abbia voluto rendere
visita alla comunità ebraica romana, recandosi il 14 aprile 1986 in sinagoga, e
salutando gli ebrei come «fratelli maggiori» – ha riconosciuto l’errore commesso
dalla Chiesa predicando per secoli l’ostilità contro di loro, ed è arrivato a indicare
nella polemica antiebraica del cristianesimo una radice dell’ideologia razzistica
che ha portato alle persecuzioni sfociate nella Shoà, lo sterminio degli ebrei ad
opera dei nazisti.

Le comunità del mezzogiorno e la prima diffusione nell’Italia centrale


Senza soffermarci ulteriormente su tali vicende, notiamo invece come la
dislocazione delle comunità ebraiche in Italia, fosse prevalentemente
concentrata, in età romana e ancora per gran parte del Medioevo, da Roma in
giù: nell’urbe viveva la comunità più numerosa e importante, mentre numerose
altre erano dislocate nell’Italia meridionale e in Sicilia (assai meno in Sardegna).
Ancora verso la metà del secolo XII un quadro del genere ci viene dato da
Beniamino di Tudela, un ebreo originario di quella città della Navarra, che ci ha
lasciato memoria del viaggio da lui compiuto: attraverso la Provenza, l’Italia e la
Grecia, si spinse fino ad Antiochia, a Baghdad e a Isfahan in Persia, da dove,
circumnavigata la penisola arabica, fece ritorno nel Mediterraneo scendendo
lungo il corso del Nilo e imbarcandosi ad Alessandria per rientrare a Tudela nel
1173. A Genova egli aveva trovato solo due famiglie di ebrei; a Pisa una ventina
e a Lucca quaranta. A Roma, invece, «vi sono circa duecento ebrei [con le loro
famiglie], in posizioni onorevoli ed esentati dai tributi, e fra di loro si trovano
anche dei funzionari di papa Alessandro [III]». Dà poi notizia di comunità
importanti a Na poli (500 famiglie), a Salerno (600), a Benevento (200), a Trani
(200), a Taranto (300), a Otranto (500). La città di Bari – dove era esistita una
fiorente comunità ebraica, rinomata per la sua cultura – era stata poco tempo
prima distrutta dal re normanno Guglielmo I il Malo. Possiamo rimpiangere che
il nostro viaggiatore non sia arrivato fino in Sicilia, che ospitava allora più ebrei
di tutto il rimanente d’Italia: circa diecimila destinati a triplicarsi prima
dell’espulsione nel 1492. Da notare in particolare che questi ebrei, in buona
parte arrivati nell’isola insieme con gli arabi, che la conquistarono nel secolo IX,
non risiedevano soltanto nelle città, dove esercitavano soprattutto mestieri
artigianali, ma vivevano – caso unico in Italia – anche nelle campagne come
contadini.
Verso la metà del secolo XIII, dalla comunità di Roma comincia a partire un
flusso migratorio di ebrei in direzione di vari centri del Lazio e dell’Umbria,
dove in generale non esisteva fino allora presenza ebraica. La loro attività è
generalmente concentrata sul prestito, un’attività esercitata da alcuni dei più
fortunati mercanti che spesso finiscono col dedicarsi unicamente alle operazioni
finanziarie, particolarmente necessarie in un’età in cui prevale l’economia di
scambio, la moneta è rara e disporre di denaro contante è difficile. In anni in cui
la curia papale vuole rinsaldare i vincoli di dipendenza delle città soggette al suo
dominio, sviluppando una politica di controllo del territorio e perciò di
ingerenza nella sua vita economica, trova in questi prestatori un utile strumento
per affermare la propria egemonia. Essi possono infatti anticipare ai vari comuni
urbani denaro necessario per le loro iniziative, come pure per il versamento dei
carichi fiscali imposti da Roma, e al tempo stesso animare i loro traffici. Questo
spiega la fortuna di tale emigrazione, che coinvolge i nuclei familiari di finanzieri,
dotati di risorse e di cultura piuttosto elevata, come attesta il fatto che al loro
seguito, insieme con aiutanti e servitori, vi sono solitamente anche maestri e
medici. Già allora, infatti, lo studio della medicina è proficuamente praticato
dagli ebrei, che anche in seguito troveremo a svolgere questa professione alla
corte di papi e di principi. Anche va ricordato che, per la visione che a quel
tempo si ha della natura, si crede che le stelle esercitino un influsso sull’esistenza
umana e quindi anche sulla salute: perciò vari medici, cultori di «filosofia
naturale», si dedicano allo studio degli astri (ed è impossibile tracciare nella
cultura del tempo una netta separazione tra astronomia e astrologia).
Vediamo dunque come i nuclei ebraici che si stabiliscono nei il vari centri del
Lazio e dell’Umbria, per poi arrivare a diramarsi via via nelle Marche, in
Toscana, in Emilia e nella valle padana, siano sovente in grado di instaurare
buoni rapporti con gli ambienti urbani più progrediti. In una fase di espansione
della vita economica, questi piccoli gruppi sanno assolvere nelle città e nei
borghi dell’Italia centrale e settentrionale una funzione sociale al margine di
quelle borghesie comunali che si sono affermate sulle vecchie aristocrazie. La
loro attività fa in qualche modo da cerniera fra gli strati superiori della
popolazione e quelli popolari, secondo quanto suggeriscono le «condotte», ossia
i contratti che le autorità cittadine stipulano con loro, preoccupandosi di statuire
che l’attività di prestito sia rivolta, anche verso gli strati meno abbienti della
popolazione, giustificando l’invito rivolto a questi ebrei di insediarsi in quelle
località con il bisogno che possono avere i ceti più poveri di disporre di denaro
contante. Si chiede perciò che i banchi ebraici svolgano attività anche nei piccoli
borghi del contado e si fissano i tassi d’interesse per le operazioni di prestito;
perché questo sia concesso può bastare la garanzia di persone conosciute, e non
è dunque sempre richiesto il deposito di un pegno; d’altra parte le condotte
assicurano agli ebrei particolari diritti, riguardanti soprattutto la possibilità di
osservare i loro precetti religiosi.
Gli studi più recenti hanno mostrato come il rapporto che si instaura allora fra
ebrei e cristiani superi spesso la diversità di fede, nonostante l’importanza che i
riti religiosi hanno nella vita quotidiana del tempo, e sebbene le leggi impongano
generalmente una netta separazione tra i due nuclei di popolazione, si stringono
invece fra loro consuetudini di convivenza cordiale improntata a familiarità.
Ancora nel Cinquecento, quando già sono entrati in vigore i decreti persecutori
della Controriforma, san Carlo Borromeo deplorerà il fatto che seguaci delle due
fedi «indifferentemente vanno l’uno in casa del altro, mangiano et beveno
insieme, i figlioli et putti christiani vanno con ogni libertà nelle case degli hebrei
et conversano con i loro figliuoli». Così queste comunità si radicano e si
sviluppano, e penetrano in nuovi centri e in nuove regioni. Va notato come,
nonostante i frequenti spostamenti e la relativa dispersione, sussista una forte
solidarietà fra questi ebrei di origine romana, che stabiliscono fra loro,
nonostante le distanze, intense relazioni sia di affari, sia di carattere
matrimoniale, e organizzano incontri regolari per discutere di problemi comuni,
come avviene a Forlì nel 1418.

Nuovi flussi migratori: dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna


Questa emigrazione «romana», che si spinge fino al Veneto e alla Lombardia, è
destinata a incontrarsi nella seconda metà del secolo XIV con altri flussi di ebrei
provenienti dalla Germania. Nell’Europa centrale la peste nera del 1348 ha
scatenato violenze e massacri contro gli ebrei, accusati di diffondere il terribile
morbo; ciò causa quindi diverse ondate migratorie soprattutto verso i paesi
orientali: la Boemia, la Polonia, l’Ungheria e poi fino in Lituania, in Bielorussia,
in Ucraina. Piccoli nuclei però si spingono verso sud e attraverso l’Austria
arrivano nel Friuli e nel Veneto, conservando a lungo consuetudini e anche riti
religiosi alquanto diversi da quelli degli ebrei già residenti in Italia. Questi
«ashkenaziti» (in ebraico Ashkenaz indica la Germania) si distinguono pure per la
lingua: parlano infatti yiddish, un idioma fondamentalmente tedesco, in cui sono
mescolati termini e modi di dire ebraici. Le crudeli esperienze vissute li spingono
a chiedere particolari garanzie alle autorità locali, come non avveniva in generale
per gli ebrei provenienti da Roma: ad esempio, perché un’accusa nei loro
confronti sia accolta, si pretende che sia sostenuta da cristiani ed ebrei di chiara
reputazione. Vi è prova inoltre del perdurare di forti legami fra loro: nelle
condotte stipulate dagli ashkenaziti ricorre una clausola particolare, che prevede
la possibilità di sospendere ogni attività durante il periodo pasquale e agli inizi
dell’autunno, per le solennità con cui si apre in quella stagione l’anno ebraico,
così da permettere loro di riunirsi a Treviso, che era a quel tempo la «comunità
madre», e celebrare insieme le feste.
Anche dalla Francia varie famiglie di ebrei, in seguito alla loro espulsione
decretata in quel Regno alla fine del Trecento, vengono a insediarsi in Italia e,
nel secolo dopo, l’unione della Provenza alla corona francese provoca ancora un
altro flusso migratorio. Ma nel Quattrocento l’episodio più sconvolgente è
costituito dalla cacciata dalla Spagna, dove da secoli vivevano ricche e popolose
comunità di altissimo livello culturale, che avevano vissuto in armonia sotto il
dominio arabo, ma anche sotto numerosi re cristiani di Castiglia e di Aragona.
Nel 1492, insieme con la distruzione dell’ultimo Regno musulmano, quello di
Granada, i Re cattolici, Ferdinando e Isabella, impongono agli ebrei di
convertirsi o di lasciare i loro domini. Dalla penisola iberica (nel 1497 analogo
provvedimento viene preso anche dal Portogallo) escono oltre 150.000 ebrei,
che si dirigono verso i territori dell’Impero ottomano, dall’Africa settentrionale,
fino al Levante e all’Egeo, e in numero minore verso i Paesi Bassi, dove
formeranno la grande comunità di Amsterdam, o verso l’Italia. Sono gli ebrei
cosiddetti «sefarditi», perché la Spagna è chiamata in ebraico Sefarad: anche
questi hanno riti particolari e parlano una lingua, lo spagnolito o ladino, che
rimane viva nei Balcani e nelle isole dell’Egeo fino alla distruzione di quelle
comunità da parte dei nazisti nel corso della seconda guerra mondiale.

Espulsioni e persecuzioni alle soglie dell’età moderna


Poiché la Sardegna e la Sicilia sono soggette alla corona d’Aragona, l’espulsione
decretata da Ferdinando il Cattolico colpisce anche gli ebrei di quelle isole. In
Sardegna erano poco numerosi, non così invece in Sicilia, dove gli alti ufficiali di
quel Regno nel giugno del 1492 indirizzano al sovrano un memoriale per
esporre i gravi inconvenienti che si sarebbero creati con la perdita di quella parte
della popolazione. Anzitutto ricordano che «li dicti iudey consumano di loro
manzari et biviri, di vestimenti et calciamenti [calzature] si extima non potianu
minu dispendiri per annu che unu miliuni di florini’, una somma assai elevata,
che andrebbe perduta per l’economia siciliana. Inoltre, ’quasi tucti artisti
[artigiani] sun iudey, li quali tucti ad un colpo partendo, si manchirà multu di la
comodità di ... essiri serviti di così mechanichi». La stessa difesa dell’isola e delle
isole dipendenti (Pantelleria, come pure Malta e Gozo, allora soggette al Regno
di Sicilia) verrebbe compromessa, sia per il contributo degli artigiani ebrei alle
opere militari di terra e mare, sia perché, «partendosi ad uno tracto di la sua [del
re] cità di Palermo cinqui milia persuni, altritanti et plui di la cità di Siracusa, et
cussì gradatim di la cità di Missina, Trapani, Cathania, Agrigenti et altri citati et
lochi di lu dicto Regno, quando absit [Dio ne guardi] accadissi alcuno
invadimentu di lu turco», le sorti del Regno si farebbero critiche. Nonostante
queste considerazioni, il decreto viene confermato: una parte degli ebrei siciliani
emigra nel Levante ottomano, mentre numerosi sono quelli che passano nel
Regno di Napoli, dove però analoga espulsione li colpirà entro il 1541,
costringendo loro e gli ebrei di quel Regno, del pari soggetto alla Spagna, a
cercare altri luoghi di rifugio. Può attestare il senso di attaccamento alla terra
natale il fatto che a Salonicco e a Costantinopoli – ma anche in altri centri
dell’Egeo e fino a Damasco e a Gerusalemme – vi furono sinagoghe intitolate
Italia, Sicilia, Puglia, Calabria, Otranto, Messina; ancora negli elenchi dei
deportati da Salonicco e da altri centri greci durante la seconda guerra mondiale
ricorrono nomi tipicamente siciliani.
Altri gruppi di profughi dal Mezzogiorno si erano diretti verso le terre del
centro e del nord d’Italia, ma nel giro di pochi anni altre espulsioni o fughe si
verificano dallo Stato della Chiesa, che aveva invece fino allora ospitato con
molta liberalità gli ebrei disseminati in quasi tutti i suoi centri grandi e piccoli;
anzi, proprio nel primo quarto del Cinquecento erano notevolmente aumentati
di numero perché i papi, da Alessandro VI Borgia (1492-1503) a Clemente VII
de’ Medici (1523-1534), avevano favorito l’immigrazione di rifugiati sefarditi,
siciliani e napoletani con l’intento di dare impulso in tal modo allo sviluppo
economico dei loro domini. Ancora Paolo III Farnese, intorno al 1547
promosse a tale scopo l’insediamento ad Ancona di un gruppo di «marrani»
portoghesi, ossia di ebrei convertiti ritornati all’ebraismo, perché sviluppassero i
traffici fra quel porto e il Levante ottomano (ma questa comunità ebbe una
tragica fine sotto Paolo IV, che non riconobbe i privilegi accordati dal suo
predecessore e li mandò al rogo come apostati).
La situazione in ogni modo comincia a cambiare già sotto Paolo III, per
l’influsso congiunto delle correnti di Riforma cattolica e delle prime
manifestazioni di reazione anche violenta alla Riforma protestante
(Controriforma). Per i fautori di un rinnovamento della Chiesa la presenza di
ebrei – di infedeli – non era soltanto motivo di scandalo: infatti il ritorno di
Cristo in terra dovrebbe essere preceduto dalla conversione di tutti i viventi alla
sua fede; così, anche nel convincimento che in tal modo si sarebbe affrettata la
rigenerazione universale, fin dall’inizio del Cinquecento si dispiega una vasta
campagna di proselitismo con l’obiettivo di indurre al battesimo tutti gli ebrei, a
cominciare da quelli che sono sudditi del Papa, e nel 1542 viene fondata a Roma
la Casa dei catecumeni, ossia di quegli ebrei che, disposti alla conversione,
vengono istruiti nella fede cattolica, isolati dalle loro famiglie. Quest’opera
procede con molto clamore e con l’appoggio degli stessi pontefici e dei maggiori
personaggi di curia, e sulle prime sembra avere successo, anche per le pressioni
che possono essere esercitate. A parte le spinte originate da opportunismo e da
ragioni di convenienza, quando il convertito è il capofamiglia, se la moglie non
accetta di seguirlo nella nuova fede, il matrimonio viene dichiarato sciolto, e i
figli sono tenuti a seguire il padre. Può essere rinchiusa nella Casa dei
catecumeni anche la giovane donna il cui promesso sposo (vero o presunto)
abbia dichiarato che essa ha manifestato l’intenzione di convertirsi. Parimenti, se
qualcuno dichiara di avere battezzato, all’insaputa dei genitori, i bambini,
ritenendoli in pericolo di vita, questi vengono immediatamente sottratti alla
famiglia. Vicende drammatiche, che in particolare nello Stato della Chiesa si
ripeteranno a lungo: ancora nel 1858 il caso del piccolo Edgardo Mortara –
prelevato nottetempo dai gendarmi pontifici a Bologna dalla casa paterna,
perché una domestica aveva dichiarato di averlo fatto nascostamente battezzare
– commosse l’intera Europa.
Ciò nonostante, ci si avvide ben presto che la maggior parte sarebbe rimasta
nell’antica fede, e a questo punto, nel clima di persecuzione dei «diversi» che
caratterizza la politica della Chiesa nell’età della Controriforma, vengono presi
duri provvedimenti. Il Papa che segna una svolta nella politica fino allora
generalmente praticata dalla Santa Sede è Paolo IV Carafa, che nemmeno due
mesi dopo la sua elezione, il 14 luglio 1555, emana una bolla in cui dichiara
assurdo il trattamento tollerante fino allora accordato agli ebrei (Cum nimis
absurdum è la infatti chiamata la bolla dalle parole iniziali in latino); impone
pertanto una serie di norme che, se non si vuole incorrere nel delitto di lesa
maestà devono essere osservate nello Stato della Chiesa, ma anche – spera il
Papa – in tutti gli stati cristiani. E in effetti in quasi tutti gli stati italiani dove vi
sono ancora ebrei, quelle disposizioni verranno più o meno fedelmente
applicate. Gli ebrei devono abitare tutti insieme in una sola strada o, qualora
questa risulti insufficiente, in poche altre contigue, tutte rigorosamente separate
dalle abitazioni cristiane e chiuse da un portone. Quest’area diventerà nota con il
nome di ghetto, dal termine veneziano di origine incerta con, cui era stato
chiamato il quartiere entro il quale la Repubblica di San Marco, fin dal 1516,
aveva imposto agli ebrei di risiedere. Gli ebrei non avrebbero potuto possedere
immobili, né avere al loro servizio cristiani e comunque intrattenere con loro
rapporti di familiarità. Viene ribadito l’antico obbligo (sancito nel 1215 dal IV
Concilio lateranense, e più o meno osservato) di portare il «segno» sopra i vestiti,
in modo da poter essere identificati, e viene vietata ogni attività all’infuori del
commercio di abiti usati e di roba vecchia; si concede però a chi abbia licenza di
banco di continuare a esercitare il prestito con un interesse limitato. Più tardi
queste disposizioni verranno inasprite da Pio V, che il 26 febbraio 1569 imporrà
a tutti gli ebrei dello Stato della Chiesa, ad eccezione di quelli che abitano a
Roma o ad Ancona, di abbandonare le loro case. Anche di questa espulsione
rimane un ricordo nei nomi, non delle sinagoghe, in questo caso, ma delle
famiglie; è accaduto spesso che i cognomi ebraici derivassero dai paesi di
provenienza: ad esempio i Tedeschi o Todeschini, i Provenzali, i Sarfatti (Sarfat
in ebraico è la Francia) ecc.; la cacciata dallo Stato papale è ricordata dagli Alatri,
i Cori, i Di Nepi, i Di Veroli, in Di Segni, i Piperno, i Viterbo, i Perugia, i Della
Pergola, i Fano ecc.
Un provvedimento analogo venne preso da Cosimo I de’ Medici nel 1571,
che ordinò agli ebrei della toscana di concentrarsi nei due ghetti creati a Firenze
e a Siena: era, almeno in parte, il prezzo che quel principe pagava al pontefice
Pio V per aver ottenuto da lui, due anni prima, l’ambito titolo di Granduca.
Tuttavia in questo Stato la piccola ma ricca comunità di Pisa continuò a
sussistere e nel 1591 il Granduca Ferdinando I inviterà i mercanti di ogni
nazione e fede ad insediarsi a Livorno, dove era stato istituito un porto franco:
da allora si formò in questa città una fiorente comunità di ebrei soprattutto di
origine portoghese, che intrattenne nel corso del Seicento e del Settecento un
intenso commercio con l’Inghilterra e la Francia e con le terre del Levante
mediterraneo.
Anche Emanuele Filiberto di Savoia, per risollevare le sorti economiche del
suoi domini, recuperati nel 1559 dopo un trentennio di guerre e di occupazione
francese, aveva già cercato di attuare un progetto del genere. Nel 1565 emanò
quindi un decreto che dava facoltà agli ebrei di risiedere dovunque volessero
esercitare la loro attività, e venne così creata in Piemonte una fitta rete di piccole
comunità che caratterizzò quella regione. Poi, nel 1572, il Duca pubblicò una
lettera di privilegi per invitare i membri della «natione hebrea e d’essa stirpe, così
italiani, tedeschi, spagnuoli, portughesi, di Levante, Barbarìa et Sorìa» a insediarsi
nei suoi stati, allo scopo di favorire soprattutto lo sviluppo di Villafranca, vicino
a Nizza, come porto franco. Con quell’indicazione così ampia di «stirpi»
ebraiche Emanuele Filiberto intendeva invitare anche i marrani, che avevano
formato nel Mediterraneo una rete commerciale molto attiva. Ma la
cattolicissima Spagna non poteva tollerare – all’indomani della battaglia di
Lepanto, che aveva acceso nella cristianità nuovi spiriti di crociata – una simile
infrazione ai dettami religiosi: il Duca, che aveva resistito alle proteste del nunzio
pontificio, non poté non ubbidire a Filippo II, intervenuto personalmente per
fargli revocare l’editto.

Un rivolgimento geografico nell’età dei ghetti


Così, sul finire del Cinquecento, l’area degli insediamenti ebraici è radicalmente
mutata. A sud, nelle isole e nel regno di Napoli, dove vi erano state le comunità
più popolose, non vi sono più ebrei, né ve ne sono nell’altro Stato sotto dominio
spagnolo, il ducato di Milano, da cui sono stati definitivamente espulsi nel 1579.
E’ scomparsa anche la rete di piccole comunità che esistevano negli Stati delle
Chiesa e in Toscana, anche se ai confini fra i due stati sono sorti piccoli centri di
rifugio, in particolare a Pitigliano, feudo degli Orsini. Inoltre, sull’Adriatico, a
Senigallia e a Pesaro sussistono due piccoli nuclei di ebrei. La presenza ebraica è
forte nel ducato degli Este, soprattutto a Ferrara, che ne vedrà tuttavia il forte
calo dopo che nel 1597, estintosi il ramo primogenito della dinastia, papa
Clemente VIII non riconosce la successione del ramo collaterale e occupa
militarmente la città: molti ebrei seguiranno allora il Duca a Modena.
Rimangono importanti le comunità ebraiche di Mantova e di Casale Monferrato
sotto i Gonzaga, e altre minori esistono nelle cittadine e nei paesi dei due ducati.
Poche famiglie di ebrei vivono nei piccoli principati padani di Carpi, Correggio,
Novellara, Sabbioneta, Mirandola, Guastalla, Colorno, mentre nel Ducato di
Parma e Piacenza vivono ebrei non tanto nelle due città maggiori, quanto nei
piccoli centri di Fiorenzuola, Busseto, Cortemaggiore ecc. Del Piemonte
sabaudo si è già detto. Nella terraferma veneta sono presenti nuclei ebraici più o
meno importanti a Verona, a Treviso, a Padova, a Conegliano, a Udine, a
Rovigo, e nella stessa Venezia il ghetto, anzi i ghetti, ospitano le vivaci comunità
di ebrei «ponentini» (provenienti direttamente dalla Spagna), «levantini»
(sefarditi, ma arrivati attraverso il Levante) e «todeschi». Un momento
drammatico si apre per loro quando il Senato veneziano il 18 dicembre 1571 ne
decide l’espulsione come atto di ringraziamento a Dio per la vittoria di Lepanto.
Ma l’allarme è di breve durata: nelle trattative di pace che la Repubblica avvia
poco dopo con il Sultano, l’incaricato di questo, un ebreo di origine udinese,
Salomone Ashkenazi, ottiene nel settembre 1573 la revoca di quella decisione.
L’istituzione dei ghetti, in effetti, finisce con l’assicurare agli ebrei la
permanenza nelle città in cui risiedono. Soggetti fino allora a cambiamenti di
situazioni che potevano provocare la revoca dei permessi di soggiorno accordati
dalle condotte, da questa epoca in poi non hanno più questa preoccupazione:
con l’unica, importante eccezione di Bologna, da dove sono caccia ti nel 1569 (e
vi ritorneranno soltanto in età napoleonica), l’esistenza del ghetto assicura la
stabilità. è il solo vantaggio offerto da questa forma di reclusione, perché le
condizioni di esistenza in quegli agglomerati ristretti e sovraffollati sono assai
dure e la limitazione delle attività riduce gran parte della popolazione in miseria.
Vi sono naturalmente differenze anche notevoli: le piccole comunità conoscono
in generale situazioni migliori, ma anche in città come Venezia, Mantova o
Firenze le condizioni sono abbastanza civili. Il punto più basso è toccato dal
ghetto di Roma, in cui vivono accalcati, entro meno di un chilometro quadrato,
dalle cinque alle seimila persone: ancora a metà dell’Ottocento viene descritto a
tinte fosche dai viaggiatori, per gli abituri malsani e fatiscenti, le buie viuzze
maleodoranti, facilmente soggette alle inondazioni del Tevere.

Emancipazione ed eguaglianza
I primi accenni di cambiamento si hanno solo nel Settecento: la pubblicistica
ispirata all’illuminismo, attenta ai problemi economici della società, comincia a
indicare nei ghetti e nelle restrizioni imposte all’attività degli ebrei una remora
per lo sviluppo del paese; convinto di questo, l’imperatore Giuseppe II
promulga nel 1781 una «patente di tolleranza», di cui nei suoi domini italiani
beneficiano soprattutto gli ebrei di Mantova e di Trieste: essa concede il libero
esercizio di varie attività, l’iscrizione alle scuole pubbliche e, con alcune
limitazioni, anche all’università. Il cambiamento più radicale avviene però con
l’ingresso in Italia dell’armata francese al comando di Napoleone Bonaparte, che
fra il 1796 e il 1799 occupa quasi tutta la penisola: in omaggio ai principi
egualitari della Rivoluzione, vengono abbattuti i portoni dei ghetti e vengono
promulgati decreti che sanciscono la piena equiparazione: «Considerando che i
principi della Repubblica francese respingono le distinzioni che tengono a
stabilire differenze fra i cittadini, si decreta che gli ebrei godranno i medesimi
diritti che gli altri cittadini».
Non ci soffermeremo sui vari mutamenti che avvennero in quel periodo: basti
dire che questo stato di libertà per gli ebrei rimase in vigore per tutti gli anni in
cui durò il dominio napoleonico, ossia fino al 1814. La restaurazione dell’antico
regime fu pertanto una vera e propria catastrofe per coloro che avevano provato
che cosa significasse vivere in condizioni di eguaglianza. Tanto più che un
fenomeno merita di essere qui indicato: nel Cinquecento, al momento
dell’istituzione dei ghetti, la popolazione che vi veniva rinchiusa era
estremamente varia, poiché alle famiglie italiane di antica data erano venute ad
aggiungersi, come si è detto, gruppi, spesso consistenti, di tedeschi, di francesi e
provenzali, di sefarditi e di marrani, e questi ultimi vi giungevano sovente non
direttamente dalla penisola iberica, ma dopo essere passati attraverso i territori
africani o levantini dell’Impero ottomano, oppure dai Paesi Bassi. Tutti questi
diversi gruppi differivano fra loro per tradizioni, per costumanze, e anche per
lingua: yiddish e spagnolito, francese, portoghese e arabo risuonavano frequenti
entro le mura dei ghetti. E tuttavia, di tante diversità non sembra restassero
molte tracce, fuorché certe particolarità rituali o talune abitudini alimentari,
all’arrivo in Italia degli eserciti rivoluzionari francesi. Gli ebrei usciti dalle mura,
che pure avrebbero dovuto segregarli dal rimanente della popolazione, si
unirono senza difficoltà agli altri italiani: un segno della loro permeabilità alle
consuetudini e ai modi di vivere del paese ospitante, nonostante l’emarginazione,
e al tempo stesso una prova della coesione profonda della nazione italiana,
anche prima di diventare Stato, se le sue consuetudini e la sua lingua si
mostrarono capaci influire così profondamente su quei gruppi vissuti fino allora
isolati.
Ritornare all’antica condizione umiliante di diseguaglianza non poté non
essere penoso. Particolarmente dure furono le restrizioni imposte nello Stato
pontificio e nel Regno di Sardegna (questo il nome assunto dai domini dei
Savoia fin dal Settecento), dove vennero ripristinate tutte le limitazioni e le
segregazioni dell’età prerivoluzionaria. Tuttavia, soprattutto nel Regno sabaudo,
non fu possibile applicare in tutto il loro rigore quei decreti persecutori, perché
diverse erano ormai le condizioni generali: ad esempio, le imprese che
operavano nei porti di Genova e di Nizza, le attività tessili introdotte in alcuni
centri piemontesi, i capitali che il prestito ebraico aveva immesso nelle
campagne, difficilmente potevano essere cancellati con un decreto. Anche in
Toscana e nel Lombardo-Veneto erano avvenuti cambiamenti analoghi, ma qui i
governanti furono, per questo aspetto, meno retrivi. In altre parole, salvo che a
Roma, non poterono essere applicate norme particolarmente rigide di esclusione
e segregazione. Ciò nondimeno, le limitazioni imposte agli ebrei – quelle
denunciate da un grande patriota e pensatore milanese, Carlo Cattaneo, come
«interdizioni israelitiche» – apparivano profondamente lesive delle nuove idee di
civiltà e di progresso da cui erano animati gli spiriti liberali. Se Cattaneo le
mostrava più che nella loro ingiustizia, nella loro dannosità, perché impedivano
il libero e socievole «consorzio» che è alla base di ogni sviluppo economico, e
scherniva coloro che parlavano di «fisica degenerazione» e di comportamenti
dovuti alle «razze», dicendoli capaci soltanto di «scrivere l’istoria dei cavalli e dei
cani», Giuseppe Mazzini sentiva il bisogno «di alzare la voce contro un’eccezione
tanto ingiusta quanto retrograda, qual è quella con cui si perseguitano ancor oggi
i seguaci della legge di Mosé». Lo spirito umanitario che animava Massimo
d’Azeglio, sdegnato davanti allo squallido spettacolo del ghetto di Roma, lo
spingerà a indirizzare a papa Pio IX lo scritto Sulla emancipazione civile degli israeliti,
mentre il sacerdote e filosofo (poi, nel 1849, Primo Ministro del Regno di
Sardegna) Vincenzo Gioberti, giudicava sorpassato «il tempo in cui una brutale
filosofia insultava quegli infelici, predicandoli incapaci ed di indegni di godere i
beni comuni».
Le rivoluzioni del 1848 avrebbero dato una spallata decisiva alle leggi
discriminanti. Ma per capire quanto fosse difficile accettare il principio
dell’eguaglianza fra gli abitanti di uno Stato, andrà ricordato che per garantire a
tutti i sudditi del Regno di Sardegna la parità dei diritti non fu sufficiente lo
Statuto concesso da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, ma furono necessari alcuni
provvedimenti successivi. In particolare, per gli ebrei, solo il 29 marzo il Re
dispose che essi potessero godere dei diritti civili, e sarà poi necessaria una legge,
votata dal Parlamento il 19 giugno di quell’anno, perché fossero loro pienamente
assicurati anche i diritti politici. Nel loro insieme tali provvedimenti – estesi nel
1859-60 alle regioni annesse al Regno di Vittorio Emanuele II – ebbero effetti
liberatori: si comprende perciò l’entusiasmo con cui gli ebrei, pienamente
«emancipati» – come si disse con un termine che ricordava la loro precedente
condizione quasi servile – parteciparono alle lotte del Risorgimento, sia nelle file
dell’esercito piemontese, sia fra i volontari garibaldini. Alcuni di loro, come
Isacco Artom o Giacomo Dina, furono stretti collaboratori del conte di Cavour,
mentre, su un diverso fronte politico, Mazzini poté contare su una salda rete di
appoggi in ambiente ebraico: ancora nel 1872, quando, a Pisa, nei suoi ultimi
giorni, il pensatore repubblicano era costretto a nascondersi alla polizia del
Regno d’Italia, era ospitato da Giannetta Nathan Rosselli, il cui fratello, Ernesto
Nathan, sarà dal 1907 al 1913 sindaco di Roma, e i cui pronipoti, Carlo e Nello
Rosselli, uccisi nel 1937 da agenti fascisti, furono i fondatori del movimento
Giustizia e Libertà.
Nel volgere di pochi anni, l’inserimento degli ebrei nella società italiana portò
rapidamente alla scomparsa degli antichi modi di esistenza, non di rado
umilianti, e vide l’affermarsi di professionisti, di imprenditori, di uomini politici,
di docenti nelle scuole e nelle università.
Come ha notato Attilio Milano, autore di un’importante Storia degli ebrei in
Italia (1963), «che un gruppo così minuscolo e per molto tempo così chiuso
come quello ebraico abbia dato, subito dopo la sua liberazione [dai ghetti], una
fioritura così notevole di personalità, non può essere giudicato del tutto casuale».
A ciò contribuirono indubbiamente talune particolarità della vita ebraica, quali
l’alto livello di alfabetizzazione (nel 1861, l’analfabetismo di tutto il paese
arrivava al 65 per cento, mentre quello particolare ebraico era limitato a meno
del 6 per cento), e al tempo stesso «una sorta di eredità inconscia» come «l’abito
della meditazione e dello studio, la ripugnanza per ogni manifestazione di
ingiustizia, le norme profilattiche dettate dalla Bibbia, l’esercizio di forme
complesse di assistenza sociale, e infine la serenità davanti agli intermittenti colpi
di sventura». Già nel 1871 undici erano i deputati ebrei alla Camera, e cinque
anni dopo veniva nominato il primo senatore ebreo (i senatori erano di nomina
regia e a vita), lo scrittore risorgimentale Tullio Massarani: vari altri entreranno
in Senato negli anni successivi. Nella vita politica va ancora ricordato Luigi
Luzzatti, Presidente del Consiglio dei ministri nel 1910, dopo essere stato più
volte Ministro del tesoro; all’inizio del secolo il generale Giuseppe Ottolenghi fu
Ministro della guerra, e durante la prima guerra mondiale il triestino Salvatore
Barzilai fu Ministro per le terre irredente, mentre nel primo dopoguerra
Lodovico Mortara divenne Ministro della giustizia e degli affari di culto. Fra i
dirigenti del socialismo nel primo Novecento vanno ricordati Claudio Treves ed
Emanuele Modigliani, fratello del grande pittore Amedeo. Se in ambito letterario
troviamo personalità come Italo Svevo e Umberto Saba, e negli studi storici e
linguistici gli apporti di Alessandro D’Ancona e di Isaia Graziadio Ascoli, nel
campo scientifico i matematici Vito Volterra e Tullio Levi-Civita aprirono nuove
vie alla ricerca fisica, mentre a Guido Castelnuovo è stato intitolato l’Istituto di
matematica della Sapienza di Roma; parimenti, in un’attività tradizionalmente
praticata dagli ebrei, la medicina, numerosi furono gli insigni maestri.
Come ancora osserva Attilio Milano, la consapevolezza di appartenere a una
cultura religiosa diversa rimase sempre sensibile in questi ebrei così
profondamente integrati nella vita nazionale, e tuttavia si nota un loro
accentuato distacco dalle norme rituali della loro particolare tradizione. Questo
fenomeno, che venne detto di «assimilazione», apparve il naturale sbocco del
processo attraverso il quale una minoranza esclusa per secoli dal comune
consorzio si inserì nella vita della nazione, costituitasi in unità statale negli stessi
anni in cui gli ebrei avevano acquisito il diritto di farne parte. L’Italia era stata
infatti costruita, nel corso del secolo XIX, raccogliendo congiuntamente
popolazioni dal passato diverso, ma unite da un insieme di sentimenti, di ideali,
di interessi comuni, maturati in un lungo arco di anni e affermati attraverso una
difficile, sanguinosa lotta per arrivare all’indipendenza e ad un regime di libertà.
Sono ben noti i versi di Manzoni: «siam fratelli, siam stretti ad un patto, |
maledetto colui che l’infrange ...» Quando nel 1938 vennero emanate le «leggi
razziali», il governo fascista e il re, che con la sua firma convalidò quei decreti,
incrinarono consapevolmente quei vincoli di unità nazionale, in netta
contraddizione con l’operato del movimento risorgimentale: venne infatti allora
isolata e arbitrariamente esclusa dalla comunità nazionale una delle sue
componenti, violando il patto a cui gli ebrei, con la loro azione e la loro
operosità, avevano mostrato di attenersi lealmente.
Gadi Luzzatto Voghera 2
L’ANTISEMITISMO IN EUROPA E IN ITALIA TRA
LE DUE GUERRE
Mia nonna Bruna, quando era ancora una giovane sposa di ventisei anni, aveva
l’abitudine di trascorrere una sera alla settimana ad ascoltare la radio che
trasmetteva un’opera lirica. Spesso venivano date opere famose, delle quali già
possedeva il libretto, ma quel giorno era prevista l’esecuzione del Signor Bruschino,
un’opera buffa di Gioacchino Rossini, che non aveva mai sentito. Così decise di
acquistare il libretto dell’opera. Qualcosa, tuttavia, le impedì di ascoltare la sua
radio; già da qualche tempo il regime fascista aveva emanato i Provvedimenti per
la difesa della razza italiana (17 novembre 1938) che avevano sancito per legge
l’emarginazione della minoranza ebraica dalla società civile: espulsione dalle
scuole, dall’esercito, dagli impieghi pubblici e tutta una serie di altre limitazioni
illustrate nella seconda parte di questo volume. Fra i provvedimenti presi, uno
colpiva nello specifico la possibilità di svago serale di mia nonna: agli ebrei
veniva fatto divieto di possedere apparecchi radiofonici, sicché quella sera Bruna
e suo marito Giorgio invece di trascorrere ore liete ad ascoltare musica
dovettero portare la propria radio (della quale andavano assai orgogliosi essendo
uno dei più bei regali di matrimonio che avevano ricevuto) alla vicina stazione di
polizia. Il funzionario, gentilmente, disse loro di non preoccuparsi, che si
trattava certamente di un provvedimento transitorio e che avrebbero presto
riottenuto il loro apparecchio... ma non fu così. Il libretto dell’opera rimase
inutilizzato nella libreria di Bruna e Giorgio, e la radio restò sequestrata, segno
visibile e inutilmente fastidioso della progressiva e sempre più dura
emarginazione degli ebrei.
Ma come si era giunti a vietare a un italiano su mille l’utilizzo della radio?
Cosa poteva aver spinto un regime politico a far cancellare i nomi dei medesimi
cittadini dagli elenchi telefonici del regno? Come si era giunti, insomma, a
colpirli con quell’insieme di provvedimenti persecutori che costituirono la
legislazione razziale? Quali erano – se c’erano – le ragioni che avevano indotto il
regime fascista a inaugurare una politica di antisemitismo in un paese come
l’Italia, in cui l’avversione contro gli ebrei esisteva al massimo nella sua
espressione di antigiudaismo religioso? E l’Italia era isolata nella sua politica
antiebraica o esistevano altre situazioni di antisemitismo razzista in Europa?
L’ascesa del fascismo e dei regimi totalitari in Europa
Alla fine del primo conflitto mondiale (1918) in Europa già da tempo era
percepibile un diffuso senso di instabilità e di insicurezza, dovuto ad alcuni
precisi elementi che proprio in quegli anni erano emersi con particolare
chiarezza. Se la rivoluzione comunista dell’ottobre 1917 in Russia aveva
seminato il panico in ampi settori sociali e politici dell’Occidente, la
contemporanea perdita di centralità dell’Europa, dopo secoli di incontrastato
dominio sul piano dello sviluppo economico e tecnologico e dell’elaborazione
culturale, fu uno dei fattori determinanti della crisi. Inghilterra, Francia e Italia
avevano vinto la guerra solo con l’aiuto insostituibile degli Stati Uniti che
rifornirono il vecchio continente con derrate alimentari e armamenti, giungendo
nel 1917 ad intervenire direttamente nel conflitto. Dopo la sconfitta, la
Germania si trovò costretta ad affrontare spese di risarcimento astronomiche,
cui riuscì a far fronte solo grazie ai prestiti americani; situazioni non dissimili
dovettero affrontare le potenze vincitrici, che si trovarono di fronte al problema
di dover riconvertire le industrie belliche e risanare ampie aree devastate dal
conflitto, e che anche in questo caso ricorsero ai prestiti americani. Ma fu sul
piano politico che dal 1918 si ebbe chiara la percezione che fosse cambiato
qualcosa. Le strutture dell’antico regime aristocratico erano andate
definitivamente in frantumi. Erano scomparsi tre imperi: quello tedesco, quello
russo degli zar e l’Impero austro-ungarico. A questi elementi di disgregazione si
era aggiunto il collasso definitivo dell’Impero ottomano (agonizzante dalla
seconda metà del secolo precedente); le potenze europee – in particolare Francia
e Inghilterra – si erano spartite i resti di territori mediorientali quali Siria, Iraq,
Palestina ed Egitto, e si era quindi aperta un’area mediterranea altamente
instabile. Ai contrasti di interesse si aggiungevano forti attriti determinati
dall’infittirsi degli insediamenti ebraici in Palestina e dalla parallela crescita di un
nuovo nazionalismo arabo. Tutto questo non mancò di avere ripercussioni
anche sulle vicende dell’antisemitismo europeo.
L’insieme di questi rivolgimenti aveva contribuito in maniera decisiva ad
aumentare un diffuso senso di insicurezza. Per tornare a una situazione
riconoscibile sul piano degli assetti politici e sociali, a un momento di fuoriuscita
dal caos che si era determinato con gli anni del primo dopoguerra, iniziò a farsi
strada nella società di massa un nuovo elemento che di recente è stato definito
«mentalità totalitaria». Negli ambienti dell’élite politica ed economica, in ampi
strati della borghesia urbana, e spesso anche in settori del mondo contadino e
operaio, si diffuse il desiderio di giungere a un ordinamento politico autoritario e
trasparente, che mettesse fine all’incertezza anche al prezzo della perdita di
quella libertà personale che era stata la bandiera politica del liberalismo e delle
democrazie parlamentari. Non è qui la sede per dare un quadro particolareggiato
del sorgere di regimi fascisti e totalitari in Europa. È però importante ricordare
che questi sorsero come risposta non occasionale a una precisa richiesta di
ordine politico e sociale presente diffusamente nel vecchio continente. Il primo
regime nacque proprio in Italia all’inizio degli anni ’20: Benito Mussolini, un
giornalista di formazione socialista, dette vita a un movimento politico che fece
della violenza la principale arma di dialettica e che, dopo una serie di
intimidazioni culminate con la cosiddetta marcia su Roma (ottobre 1922) e con
l’assassinio del principale esponente dell’opposizione socialista, Giacomo
Matteotti (giugno 1924), sfociò nella creazione di un vero e proprio regime con
l’esclusione di ogni forma di opposizione politica e con la forzata
irreggimentazione della società. La stampa controllata, un accentuato dirigismo
economico, il mondo del lavoro organizzato rigidamente e privato di autonomia,
l’arresto o l’espulsione degli oppositori, l’esercito e la politica estera impostati
secondo un’ottica di forte aggressività ed espansionismo, furono gli elementi che
caratterizzarono il fascismo italiano e il suo regime totalitario.
Al fascismo italiano seguirono negli anni ’20 e ’30 numerosi altri fascismi, che
sebbene fossero il frutto di storie e vicende autonome, rivendicarono le analogie
che li ricollegavano al primo. In certi casi i movimenti fascisti riuscirono a
raggiungere il potere e ad instaurare regimi totalitari per vie legali, come avvenne
in Germania con Hitler, oppure in seguito a pronunciamenti militari e una
guerra civile, come accadde in Spagna con Francisco Franco. Invece in altri paesi
le formazioni politiche fasciste non riuscirono a conquistare il potere e rimasero
componenti spesso violente e intolleranti del panorama politico, come in
Francia fino all’occupazione tedesca e alla costituzione dello Stato-fantoccio di
Vichy nel 1940. In ogni caso, fossero o no al governo, i movimenti fascisti
condivisero una componente ideologica di fondamentale importanza per la
comprensione delle dinamiche dell’antisemitismo fra le due guerre mondiali. Per
aver presa sulla società di massa, essi utilizzarono le paure più diffuse
trasformandole in parole d’ordine politiche. Uno dei timori più comuni era
senza dubbio quello della presenza di forze oscure e non conoscibili che
manovravano dietro le quinte gli scenari della politica e dell’economia. La
massoneria e la plutocrazia (cioè il potere del denaro) furono in generale gli
obiettivi delle campagne di sensibilizzazione politica delle masse organizzate dai
fascismi (fu probabilmente questa una delle ragioni per cui il fascismo italiano
appena giunto al potere pose fuori legge la massoneria). Rientra in questo
contesto anche l’antisemitismo, l’ostilità verso un ebraismo immaginario, creato
e descritto come strumento ideale di propaganda politica secondo percorsi
ampiamente sperimentati nella seconda metà dell’Ottocento, ma che proprio fra
le due guerre si concretizzarono in vere e proprie misure politiche e giuridiche le
cui conseguenze, come vedremo, furono incalcolabili per gli ebrei «non
immaginari» che solo da pochi decenni erano stati emancipati e avevano avuto
accesso alla società civile dopo secoli di segregazione.

I Protocolli come modello di utilizzo politico dell’ideologia antisemita


«Nelle nostre mani e concentrata la più grande potenza del momento attuale,
vale a dire la potenza dell’oro. In due soli giorni possiamo estrarre qualsiasi
somma dai depositi segreti dei nostri tesori». Si tratta di una frase tratta dal XXII
Protocollo di un libello ideato dalla polizia segreta zarista Okhrana agli inizi del
Novecento per «svelare» un ipotetico progetto di dominio del mondo ordito da
una setta ebraica segreta. Il testo, noto come Protocolli dei savi anziani di Sion,
rappresenta una buona chiave di lettura del moderno antisemitismo; in esso,
infatti, è racchiusa la summa dei principali temi che lo hanno caratterizzato: vi
scorgiamo delineata quella teoria del «complotto ebraico» che dell’antisemitismo
costituisce la forma più dirompente e duratura.
Il libro apparve per la prima volta in lingua russa nel 1905; è redatto in forma
di verbale di ventiquattro sedute di un fantasioso congresso che un gruppo di
notabili ebrei avrebbe tenuto al fine di conquistare il dominio del mondo.
Un’inchiesta ordinata immediatamente dopo la prima edizione dimostrò la
falsità del documento; ciò nondimeno il testo, soprattutto negli anni
immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, ebbe numerose
traduzioni che ne determinarono il successo e la grande diffusione. Nonostante i
numerosi processi intentati contro gli editori e i divulgatori dell’opera – durante i
quali si dimostrò la sua natura di falso letterario, plagio di due operette
polemiche ottocentesche – i Protocolli continuarono a essere pubblicati con
successo nei più diversi ambienti. In Italia ne vennero stampate due
contemporanee e distinte prime edizioni nel 1921.
Gli elementi costitutivi della teoria del complotto si erano materializzati nel
panorama politico europeo in occasione dell’affare Dreyfus, un caso giudiziario
esploso in Francia nel 1894 che coinvolse l’intero continente. In quell’occasione
era stato in tentato un processo contro il capitano dell’esercito francese Alfred
Dreyfus, ebreo, accusato di spionaggio militare a favore della Germania e per
questo degradato e condannato alla deportazione penitenziaria nella Guiana
francese. Il caso si rivelò negli anni successivi una montatura, ma la Francia si
divise in quell’occasione in due fronti trasversali: i «dreyfusardi», convinti che
bisognasse difendere con il capitano Dreyfus l’idea stessa di giustizia umana,
violata da una sentenza non corretta; e gli «antidreyfusardi», schierati
pregiudizialmente contro il capitano, ai loro occhi colpevole comunque perché
ebreo, quindi necessariamente lontano dai sentimenti di rispetto per la patria ed
espressione di un più generale complotto ebraico-massonico or dito per
danneggiare gli interessi francesi. Il caso si chiuse nel 1906 con la completa
reintegrazione di Dreyfus nei ranghi dell’esercito, ma alle coscienze europee
apparve da quel momento chiara la forza dirompente che possedeva sul piano
politico la tesi dell’esistenza di un complotto ebraico antinazionale.
L’antisemitismo da allora entrò definitivamente nel campo degli strumenti
politici utilizzabili per aggregare forze fra loro anche distanti; nel campo degli
antidreyfusardi avevano infatti militato fianco a fianco giornalisti di ispirazione
cristiana (il giornale La croix ), socialisti (solo nel 1898 un congresso decise
l’adozione della linea dreyfusarda), sindacalisti, capipopolo tradizionalmente
antisemiti come Édouard Drumont e Jules Guérin, nazionalisti e precursori del
fascismo come Maurice Barrès e Charles Maurras.
Ma di quali elementi è composta questa teoria del complotto, che tanta strada
ha fatto nella storia del Novecento? Alla base di tutto risiede l’idea del potere del
denaro, che secondo la costruzione ideologica antisemita starebbe in gran parte
nelle mani degli ebrei. Il pregiudizio che vorrebbe vedere un rapporto
privilegiato fra ebrei e denaro ha origini socio-economiche piuttosto precise, e
viene generalmente fatto risalire dagli studiosi all’attività di prestito su pegno che
in diverse regioni alcuni ebrei esercitarono in età tardo-medievale e moderna. Di
fatto, per secoli agli occhi della gran parte della popolazione del vecchio
continente, l’unico tipo di rapporto sociale intrattenuto con gli ebrei fu di natura
economica proprio in virtù di questa attività di prestito, ed è pertanto
interpretazione comunemente accettata che nell’immaginario collettivo la figura
dell’ebreo abbia in qualche modo finito con l’essere associata all’idea di denaro.
Giocando su questo elemento, che risponde solo in parte a una realtà storica
(solo una minoranza degli ebrei esercitava il prestito di denaro) e non ha
comunque alcun rapporto con l’ebraismo in quanto religione, tradizione o
cultura, la teoria del complotto ha potuto contare sulla forza radicata del
pregiudizio e stabilire l’idea che l’ebreo, potendo manovrare a piacere immense
ricchezze, avesse la possibilità di governare i destini del mondo. Questo
pregiudizio veniva rafforzato inoltre dall’appartenenza alla comunità ebraica di
alcuni dei grandi nomi della finanza e della grande industria in Europa e negli
Stati Uniti.
Il secondo elemento che si pone alla base dell’idea di «complotto», e che
ritroviamo nella lettura dei Protocolli, è dato dal concetto di liberalismo, inteso
come democrazia in senso lato, la possibilità cioè per i popoli di gestire
liberamente la propria forma di autogoverno. Il liberalismo (e – come vedremo
più avanti – il socialismo e il comunismo) è visto come l’elemento utilizzato
storicamente dagli ebrei nel loro disegno di dominio, per demolire la forte
autorità esercitata dalle monarchie e dalla Chiesa che con il loro rigido controllo
centrale impedivano agli ebrei stessi di sviluppare il loro piano: «Quando
inoculammo il veleno del liberalismo nell’organismo dello stato – si legge in uno
dei Protocolli – la sua costituzione politica cambiò; gli stati diventarono infetti
da una malattia mortale: la decomposizione del sangue. Dobbiamo solo
attendere la fine della loro agonia. Il liberalismo fece nascere i governi
costituzionali, che sostituirono l’autocrazia, l’unica forma sana di governo dei
gentili [non ebrei]». Ma liberalismo e democrazia sarebbero appunto solo
strumenti: ottenuto il loro scopo, gli ebrei progetterebbero l’insediamento di un
regno dispotico e tirannico, con l’assoggettamento implacabile e totale dei
popoli.
L’intero ragionamento su liberalismo e democrazia è strutturato in modo da
dare soddisfazione alle aspettative e ai pregiudizi di differenti componenti
sociali: da un lato i nostalgici dell’antico regime o del dominio spirituale e
temporale della Chiesa, portati a vedere nel ragionamento una spiegazione del
legame fra liberalismo ed ebraismo; dall’altro, sul versante politico opposto, i
liberali e le forze di democrazia popolare, indotti a sospettare di trovarsi di
fronte in realtà non ad autentiche espressioni di democrazia, ma ad oscure
manovre ordite nell’ombra da ricchi e occulti capitalisti, che nel testo dei
Protocolli sono a chiare lettere indicati come ebrei. È questo un buon esempio
della forza politica trasversale dell’antisemitismo moderno, capace di aggregare
attorno a parole d’ordine unitarie forze e ideologie fra loro anche molto distanti.
Naturalmente, accanto a elementi raffinati di elaborazione politica, convivono
temi più rozzi che ricordano da vicino i paragoni propri dell’antigiudaismo
religioso classico, che facevano dell’ebreo il prototipo della dissolutezza e di
quanto di più abietto l’umanità possedesse:
«I popoli della cristianità sono fuorviati dall’alcool – si legge nel I Protocollo –,
la loro gioventù è resa folle dalle orge classiche e premature alle quali l’hanno
istigata i nostri agenti – e cioè i precettori, i domestici, le istitutrici, gli impiegati, i
commessi e via dicendo –; dalle nostre donne nei loro luoghi di divertimento; ed
a queste ultime aggiungo anche le cosiddette signore della società – loro
spontanee seguaci nella corruzione e nella lussuria. Il nostro motto deve essere:
«Qualunque mezzo di forza ed ipocrisia!».
Si fanno qui strada, come si vede, gli elementi del complotto generalizzato a
tutta la società: gli ebrei avrebbero permeato l’ambiente cristiano con «agenti»
nascosti (precettori, domestici, impiegati ecc.) che spingono la società verso la
perdizione.
Le orge e la sregolatezza dei costumi sono però solo un aspetto esteriore:
nella realtà tutto il mondo moderno sarebbe manovrato a partire dai casi più
banali di malcostume sessuale di cui si è detto, fino alla più sostanziale
manipolazione delle coscienze attraverso l’introduzione di teorie filosofiche e
scientifiche demolitrici. Il II Protocollo è infatti dedicato alla descrizione del modo
in cui le teorie di Charles Darwin, di Karl Marx e di Friedrich Nietzsche
(anch’essi considerati come ispirati e manovrati dagli ebrei) abbiano portato ad
un’azione demoralizzatrice sulle menti dei gentili (i non ebrei). La loro diffusione
è stata possibile grazie alla libertà di stampa, e alla questione del possesso e la
diffusione dei mezzi di comunicazione diventa così un nodo centrale, uno dei
tasselli fondamentali della costruzione del «complotto giudaico»: a questa, tutti i
personaggi e i movimenti antisemiti hanno fatto costante e ossessivo
riferimento. Nel testo dei Protocolli il discorso è chiaro:
«La stampa è una grande forza nelle mani dei presenti governi, i quali per suo
mezzo controllano le menti popolari. [...]La realizzazione della libertà di parola
nacque nella stampa, ma i governi non seppero usufruire di questa forza ed essa
cadde nelle nostre [degli ebrei] mani. Per mezzo della stampa acquistammo
influenza pur rimanendo dietro le quinte. In virtù della stampa accumulammo
l’oro: ci costò fiumi di sangue ed il sacrificio di molta gente nostra, ma ogni
sacrificio dal lato nostro, vale migliaia di gentili nel cospetto di Dio».
Nei successivi capitoli vengono introdotti numerosi altri elementi: alcuni,
come la descrizione della preparazione di un colpo di stato o quella di un
ipotetico assalto ebraico al Vaticano, hanno carattere puramente descrittivo e
quasi narrativo; altri fanno trapelare nuovi elementi importanti per la
costruzione della teoria del complotto. Si fanno numerosi riferimenti alla
massoneria, a volte come organizzazione segretamente gestita ebrei, altre volte
come organizzazione ebraica dichiarata. Emerge poi con forza l’idea della
dispersione ebraica fra le varie nazioni come elemento fra i più pericolosi del
complotto: «Per grazia di Dio il suo popolo prediletto fu sparpagliato, ma questa
dispersione, che sembrò al mondo la nostra debolezza, dimostrò di essere la
nostra forza, che ci ha condotto alla soglia della sovranità universale».

L’antisemitismo in Europa
L’utilizzo politico dell’ostilità antiebraica – diffusa in Europa soprattutto nei suoi
risvolti religiosi (l’ebreo era, per le Chiese cristiane, il responsabile eterno della
morte di Cristo, il deicida che andava punito e segregato) – non era un elemento
nuovo nel vecchio continente. Nelle prediche in chiesa e nelle pubblicazioni che
la libertà di stampa, ottenuta sul finire del secolo XIX, aveva contribuito a
moltiplicare e diffondere, spesso e volentieri trovavano spazio espressioni
diffamatorie nei confronti dell’ebraismo:
«La malefica azione – si legge sulla rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica nel
1881 – della razza giudaica contro tutti gli altri popoli, specialmente cristiani, in
mezzo ai quali è costretta a vivere dispersa, non è soltanto ... religiosa e politica;
bensì essa è ancora specialmente criminosa, cioè esercitantesi con veri e propri
delitti considerati, od almeno dovuti considerare dagli ebrei come doveri di
religione, precetti della legge e sfogo di pietà e divozione».
Su questa linea, alla fine dell’Ottocento le Chiese cristiane avevano spesso
appoggiato o non ostacolato pubbliche manifestazioni di antisemitismo.
Già dalla seconda metà del secolo numerose espressioni di propaganda, alle
quali seguivano a volte veri e propri episodi di violenza, avevano dimostrato che
l’antisemitismo era utilizzabile efficacemente come strumento di azione politica.
In Francia, in Germania, in Austria, raramente anche in Italia, ma soprattutto in
Europa orientale, la pressione contro le comunità ebraiche si era fatta
insopportabile. Le violenze provocarono fra gli ebrei russi le più gravi
sofferenze: nella Zona di residenza – un’area che andava dal mar Baltico alla
Crimea dove gli ebrei erano costretti a risiedere – decine di migliaia di persone
subirono un’ondata di violenza nel 1881, a seguito dell’assassinio dello zar
Alessandro II che fu attribuito a rivoluzionari ebrei. Vi furono numerose
vittime. A migliaia rimasero senza casa, oltre centomila senza lavoro. Ciò
nonostante, invece di punire responsabili delle violenze antisemite, il Governo
russo emanò una serie di norme duramente restrittive nei confronti della
popolazione ebraica: fra il 1882 e il 1891 gli ebrei furono costretti a concentrarsi
in un numero limitato di città e villaggi, venne loro vietato l’acquisto di terre e
beni immobili, fu fortemente limitato l’accesso alle università. La decisa svolta
repressiva antisemita provocò nelle masse di ebrei russi (circa 5 milioni) un
situazione di grave disagio e una generale sensazione di insicurezza: ebbe così
inizio quel massiccio esodo che tra la fine de l’Ottocento e i primi decenni del
secolo successivo determinò da un lato la nascita della comunità ebraica
americana (oltre milioni di immigrati) e il forte mutamento demografico di
comunità europee come quella tedesca, quella francese e quella inglese (circa
200mila profughi), e dall’altra le prime forme di emigrazione nazionale ebraica
che diedero il via all’insediamento in Palestina (circa 60mila immigrati fino agli
anni ’20).
Con lo zar Nicola II la situazione, già di per sé precaria, divenne se possibile
ancora più esplosiva. L’ideologia antisemita entrò decisamente nel programma
governativo, e nei primi anni del Novecento gli atti di persecuzione antiebraica
costituirono una manifestazione costante del panorama politico e sociale russo.
Diverse organizzazioni nazionaliste – fra cui la più nota fu quella dei cosiddetti
Cento neri – organizzarono una nuova ondata di pogrom (così si chiamavano, con
parola russa, i saccheggi e i massacri) a partire dalla comunità di Kišinev (1903)
dove vennero assassinati una cinquantina di ebrei, centinaia ne vennero feriti e la
maggior parte delle abitazioni venne distrutta. Nel 1905 violenze e saccheggi
coinvolsero numerosissime altre località abitate da ebrei, provocando la morte di
centinaia di persone. Non stupisce se proprio in questo clima fecero la loro
prima comparsa i Protocolli dei savi anziani di Sion.
Dopo la parentesi della grande guerra le violenze antisemite ripresero in varie
parti d’Europa, anche se in misura minore. Furono gli anni, lo abbiamo già visto,
della grande diffusione delle numerose traduzioni dei Protocolli; la rivoluzione
russa del 1917 e i successivi tentativi rivoluzionari comunisti in Germania e in
Ungheria diedero nuova linfa alla tesi cara all’antisemitismo politico di un piano
universale, ordito da una fantomatica «Internazionale giudaica» che in questa
fase si sarebbe servita delle rivoluzioni comuniste per sovvertire l’ordine
costituito. In questo quadro il leader del partito nazionalsocialista tedesco, Adolf
Hitler, scrisse il testo che rappresenterà la base programmatica dell’azione
politica del movimento da lui capeggiato, Mein Kampf (La mia lotta). La sua prosa
era fortemente influenzata dal consolidato linguaggio dell’antisemitismo politico
moderno e buona parte dei temi legati all’idea di complotto ebraico erano ben
presenti e visibili nell’intera opera.
È particolarmente interessante stabilire un parallelo fra i temi proposti dai
Protocolli e le linee di azione e di interpretazione della società praticate dal futuro
dittatore nazista. Abbiamo in primo luogo notato come uno degli strumenti
individuati dalla teoria del complotto ebraico per indicare le modalità di azione
di conquista del potere da parte degli ebrei fosse la democrazia liberale. Hitler
prendeva così le mosse proprio dalla critica alla democrazia, giudicata inadatta ad
«arrestare la conquista del mondo da parte degli ebrei». Abbiamo anche visto
come l’ebraismo fosse stato accusato di utilizzare nuove forme di pensiero
destabilizzante, fra le quali il marxismo, per attuare il suo piano di conquista (è
da notare che alla radice dell’identificazione pregiudiziale ebraismo=comunismo
si ponevano da un lato le origini ebraiche di Marx, e dall’altro la presenza ai
vertici del partito bolscevico in Russia di numerosi intellettuali ebrei).
Cavalcando, non senza abilità, il diffuso timore per la rivoluzione, Hitler
sottolineava questo punto, proponendo poi la propria linea di nazionalismo
razzista come l’unica praticabile per potersi opporre con efficacia al minacciato
disegno criminoso ebraico:
«La società borghese è marxista – affermava con voluto paradosso il leader
nazista –, ma ritiene possibile un dominio di alcuni gruppi umani (borghesia),
mentre il marxismo tende regolarmente a mettere il mondo nelle mani degli
ebrei. Invece; l’idea nazionale razzista ammette il valore dell’umanità nelle sue
originarie condizioni di razza».
L’idea di purezza razziale, vera ossessione che traspare da ogni pagina del
Mein Kampf, era direttamente contrapposta ad uno dei principi della rivoluzione
francese, l’eguaglianza, che nell’ottica di Hitler sarebbe stata utilizzata dagli ebrei
per mettere in pratica i propri propositi.
Più oltre, l’opera si faceva sempre più esplicita nella rivendicazione
dell’antisemitismo come fine politico del partito nazista e utilizzava tutto il
tradizionale bagaglio di parole d’ordine antiebraiche con l’intento di indicare al
lettore la necessità della salvezza della nazione e della razza tedesca da un
mortale attacco internazionale ordito dagli ebrei:
«L’attuale istigatore al globale annientamento della Germania è l’ebreo. In
qualunque parte si pensi a battere la Germania, ci sono come aizzatori gli ebrei.
Ugualmente, nei periodi di guerra e di pace, i quotidiani ebraici, borsistici e
marxisti, rinfocolano per strategia il rancore contro la Germania. ... L’idea
ebraica è limpida. La bolscevizzazione della Germania, ovvero l’annullamento
del genio nazionale tedesco, e l’indebolimento conseguente, della potenza
lavorativa tedesca da parte dell’economia mondiale ebraica, è vista soltanto come
l’inizio dell’idea ebraica che è quella di impadronirsi della Terra».
Si ode in queste frasi l’eco recente del testo dei Protocolli, con i temi consueti
della stampa dominata dagli ebrei, del dominio ebraico del denaro e del segreto
disegno di dominio del mondo.
Si è molto discusso fra gli storici sul peso reale dell’antisemitismo nell’azione
politica di Hitler e del nazismo. Per quanto riguarda il secondo, per lo meno nei
primi anni, fino alle leggi antiebraiche di Norimberga del 1935, la propaganda
antiebraica venne utilizzata in maniera strumentale e spesso incoerente. Ci si
accorgeva, in fondo, che mentre in alcune realtà sociali ricorrere a parole
d’ordine antisemite poteva risultare positivo per la rispondenza di queste con
sentimenti pregiudiziali diffusi fra la popolazione, in altre e differenti realtà gli
stessi slogan provocavano indifferenza o addirittura reazioni negative.
Il ruolo dell’antisemitismo per Hitler rappresenta invece ancora oggi un
enigma; il Führer era letteralmente ossessionato dagli ebrei. Sono rari i suoi
discorsi e scritti che non contengano un riferimento al pericolo ebraico, e
attorno a questo elemento continuano a confrontarsi schiere di storici e
psicologi. Alcuni vi ritrovano una visione paranoica della realtà, provocata dalla
morte della madre che era stata in cura da un medico ebreo; altri lo pensano
perseguitato dal sospetto di aver avuto un nonno ebreo. Quale che fosse la
profonda ragione psicologica dell’ossessione antiebraica di Hitler, il fatto è che
egli costruì una propria visione del mondo nella quale l’ebreo era di fatto
collocato al vertice di un complesso sistema di complotti formato dal
comunismo e dalle democrazie parlamentari, unite e manovrate per annientare la
Germania e il popolo tedesco. La sua idea di Lebensraum, ossia la necessità per il
popolo tedesco di conquistarsi uno «spazio vitale» nei territori dell’Europa
orientale, espressa compiutamente nel cosiddetto Libro segreto scritto nel 1928 e
rimasto inedito, si andò così coniugando con una più generale e complessiva
lotta contro l’ebraismo, forza che egli intravvedeva come reale e oscura
manovratrice di tutte le manifestazioni e i movimenti potenzialmente
antitedeschi. Di fatto la politica estera, e, dopo breve tempo, anche interna,
ispirata da Hitler, pretese di fare della questione ebraica uno dei punti
fondamentali da risolvere.
Ampia parte della Germania – dove nel 1933 nel giro di pochissimi mesi era
stata conculcata ogni forma di libera e democratica espressione di pensiero –
sembrò comunque disposta a seguire le idee del nazismo e in particolare le
misure restrittive delle libertà civili per gli ebrei dettate dall’ideologia antisemita.
La progressione nelle decisioni di emarginazione dalla vita sociale, unita alle
continue e reiterate violenze antiebraiche, stabilì un clima che riportava la storia
indietro di oltre un secolo, quando gli ebrei vivevano ancora nei ghetti e
costituivano una popolazione separata e priva di diritti. Gli anni dell’integrazione
– che pure erano stati segnati dalla continua presenza dell’antisemitismo –
avevano determinato nella maggior parte degli ebrei tedeschi la convinzione che
anche questa svolta politica sarebbe presto o tardi rientrata e che il nazismo
avrebbe presto esaurito la propria forza. Solo i più pessimisti e previdenti, e fra
questi coloro che rappresentavano le avanguardie intellettuali del movimento
sionista, sentirono che per gli ebrei la Germania rischiava di divenire una terra
senza futuro e preferirono intraprendere la via dell’emigrazione. La maggior
parte rimase, e subì per intero le successive forme di persecuzione adottate dal
regime nazista fino alla «soluzione finale», ossia allo sterminio di tutti gli ebrei.
Dopo una serie di manifestazioni pubbliche, fra cui una «giornata del
boicottaggio» delle attività interessate da una presenza ebraica, già nel dicembre
del 1933 vennero adottate le prime leggi discriminatorie che escludevano gli
ebrei dai pubblici uffici e dalla professione medica e legale. Nel 1935 le
cosiddette leggi di Norimberga esclusero gli ebrei dalla vita pubblica e dalle
professioni: la decisione provocò l’emigrazione negli anni immediatamente
seguenti di circa metà dei 525.000 ebrei tedeschi ufficialmente censiti. Nel 1938
la persecuzione raggiunse punte estreme: i controlli e le censure si fecero
asfissianti, vennero requisiti patrimoni e proprietà nelle mani di ebrei. Infine,
nella notte fra il 9 e il 10 novembre (la cosiddetta «notte dei cristalli», con
riferimento alle vetrine infrante) le SS naziste organizzarono un vero e proprio
pogrom: oltre 40 furono i morti decine di migliaia di ebrei vennero imprigionati,
7500 negozi di strutti, oltre 200 sinagoghe incendiate o profanate. Da allora gli
ebrei furono esclusi da ogni attività della vita civile e dal settembre del 1941 fu
loro imposto di portare ben visibile sui vestiti una stella gialla con la scritta Jude,
«ebreo»; era l’inizio de rapido processo che condusse alla deportazione e allo
sterminio.
L’antisemitismo fra le due guerre non fu, peraltro, prerogativa del nazismo
tedesco e della Germania. In altri paesi d’Europa l’utilizzo strumentale della
propaganda antiebraica continuò a costituire un’efficace arma politica.
Particolarmente pesante fu il bilancio di vittime nelle comunità ebraiche travolte
dalla guerra civile che sconvolse le regioni di frontiera della Russia, dell’Ucraina
e della Polonia negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione comunista.
Diverse centinaia di pogrom vennero perpetrati un po’ da tutte le armate
interessate dal conflitto; un imprecisato numero di ebrei (si parla di alcune
decine di migliaia) perse la vita, mentre altre migliaia di persone videro i propri
beni saccheggiati e le proprie case distrutte. Particolarmente intensa fu l’attività
persecutoria condotta dall’esercito di cosacchi dell’effimera Repubblica
Democratica Ucraina guidata da Simon Petljura che, facendo leva sul diffuso
antigiudaismo popolare e sostenendo la classica tesi del coinvolgimento ebraico
nell’organizzazione della rivoluzione comunista, mise in atto innumerevoli azioni
di saccheggio ed effettuò esecuzioni di massa. Anziani ebrei vennero massacrati
a Sebastopoli, 900 ebrei vennero spinti in mare e fatti affogare nei pressi di
Yalta, in Crimea.
È assai diffusa l’idea che indica nella Polonia la nazione a più alto tasso di
antisemitismo. In realtà la situazione va analizzata senza perdere di vista il
quadro estremamente articolato nel quale le assai visibili forme di ostilità
antiebraica si espressero nella giovane nazione polacca. Bisogna innanzitutto
ricordare che fino alla prima guerra mondiale la Polonia non esisteva come Stato
autonomo; questo nacque come frutto degli opposti tentativi delle potenze
belligeranti di attirarsi le simpatie politiche dei polacchi. Dopo la guerra, in parte
in virtù degli accordi di pace, in parte in seguito alla guerra con l’Armata rossa
sovietica, la nuova Polonia raggiunse un assetto territoriale relativamente stabile
all’interno del quale era presente una fortissima minoranza ebraica: il 10 per
cento della popolazione, oltre tre milioni di persone. In questo quadro, l’utilizzo
strumentale nella lotta politica dell’ideologia antisemita – che godeva di
particolare presa in una popolazione profondamente cattolica e impregnata di
sentimenti legati al tradizionale antigiudaismo religioso – va inserito all’interno
del più complessivo quadro della dialettica politica. Nella minoranza ebraica,
infatti, erano assai attivi partiti e organizzazioni sindacali che partecipavano a
pieno titolo alla vita politica del paese.
Se questa era la situazione generale, vanno comunque sottolineate le
particolari forme di dura discriminazione cui fu sottoposta in Polonia la
minoranza ebraica nel periodo fra le due guerre. Seguendo il modello ormai
affermato dell’antisemitismo politico, gli ebrei vennero nel loro complesso
accusati di essere una forza antinazionale, legata (a seconda delle convenienze
politiche di chi lo affermava) al nemico tedesco o al bolscevismo russo. Sul
piano politico furono i partiti nazionalisti di destra a cavalcare la propaganda
antisemita; i democratici-nazionali furono particolarmente impegnati a disegnare
un quadro che faceva degli ebrei il principale alleato del nemico comunista. La
Polonia, alleata del governo anticomunista ucraino di Petljura, partecipò
attivamente ai pogrom che spazzarono via intere comunità ebraiche nel corso
della guerra antisovietica; nell’azione, si distinse per particolare ferocia il generale
Jòzef Haller. L’antisemitismo divenne nella lotta politica polacca uno dei temi
centrali: l’assassino del Presidente Narutowicz affermò, ad esempio, che dopo
quell’atto non si sarebbe fermato e avrebbe «sgozzato» chiunque fosse salito al
potere con l’appoggio degli ebrei.
La situazione per certi aspetti mutò dopo il colpo di stato del generale
Pilsudski (1926): malgrado la società fosse di fatto pervasa da sentimenti
antisemiti, sul piano legislativo vennero fatte alcune concessioni fra cui il
riconoscimento del cheder, la scuola elementare ebraica. Il periodo di tregua non
durò però a lungo: dopo la morte del dittatore, la costituzione del «Campo di
unificazione nazionale» ripropose una linea conservatrice carica di pregiudiziali
antiebraiche, e ripresero le violenze e accenni di pogrom.
Meno dura sul piano delle violenze fisiche appare la situazione fra le due
guerre in altri paesi dell’Europa orientale. In Ungheria, dove era fallito un
tentativo di rivoluzione comunista e l’ammiraglio Horthy aveva instaurato un
regime per diversi aspetti affine al fascismo, vennero approvate nel periodo fra
le due guerre una serie di leggi discriminatorie nei confronti della minoranza
ebraica; dall’iniziale varo di una legge che limitava l’accesso di ebrei all’università,
si passò negli anni ’30 a forme di esclusione sempre più ispirate al modello
nazista.
La Romania, che aveva visto la propria popolazione ebraica enormemente
accresciuta dopo l’annessione della Bessarabia e della Transilvania, a partire dalla
metà degli anni ’20 conobbe un periodo di crescente antisemitismo. Soprattutto
nelle università si fece fortemente sentire fra studenti e docenti l’ideologia che
indicava nel comunismo uno strumento del «complotto» ebraico; le formazioni
estremiste come la Legione dell’Arcangelo Gabriele e poi la famigerata Guardia
di ferro furono fortemente intrise di antisemitismo e nelle loro azioni politiche e
squadristiche spesso infierirono sulla comunità ebraica.
In Europa occidentale e negli Stati Uniti l’utilizzo della propaganda antisemita
negli anni fra le due guerre fu essenzialmente legato alla storia della diffusione
dei Protocolli, e si esaurì quasi completamente con l’inizio degli anni ’20. Il tema
veniva fatto coincidere con la complessiva guerra di contenimento
dell’«epidemia» comunista: il timore che la rivoluzione russa potesse essere
esportata si saldò con i suggestivi messaggi e le parole d’ordine di facile presa
contenute nel testo che «svelava» l’esistenza di un complotto ebraico. Per
qualche tempo sui giornali e nella pubblicistica occidentale si affermò l’idea di
un collegamento diretto e programmatico fra il bolscevismo e la politica ebraica.
Particolarmente attivo in questo contesto si dimostrò Robert Wilton, un
giornalista del Times di Londra, che stabiliva una connessione diretta fra la
rivoluzione d’ottobre e i piani segreti ebraici. Lo stesso giornale attaccava
duramente l’atteggiamento del Primo Ministro inglese Lloyd George sulla
questione della pace e lo accusò, in un articolo che fece particolarmente
scalpore, di applicare le indicazioni contenute nei Protocolli, praticando quindi
una politica che invece di giovare all’Inghilterra favoriva il «complotto» ebraico.
In Francia, la pubblicazione del libello fu compiuta nel 1920 a cura de La
Documentation catholique, un nuovo periodico legato agli ambienti di destra
dell’Action française, che con questa operazione si accingeva a rompere quel patto
nazionale che aveva permesso alla nazione di presentarsi unita allo scontro con
la Germania. Negli Stati Uniti, l’industriale Henry Ford (colui che aveva
applicato la catena di montaggio alla produzione delle automobili, promuovendo
una politica di bassi costi e di salari elevati era assolutamente convinto della
veridicità dei Protocolli e del complotto che in essi veniva descritto. Nel suo libro
L’ebreo internazionale, pubblicato nel 1922 e diffuso ancora oggi, egli ribadì
sostanzialmente le tesi dell’antisemitismo moderno, accreditando la teoria del
complotto.

Fascismo e antisemitismo in Italia


Anche in Italia l’antisemitismo politico moderno ha svolto un suo ruolo a partire
dagli ultimi due decenni del secolo XIX. Non raggiunse mai, anche nelle sue
forme più acute, la diffusione e il peso che ebbe in altre realtà come la Francia o
la Germania. Non si formarono leghe e partiti antisemiti, nessuno scandalo
finanziario di rilievo coinvolse nella polemica politica la comunità ebraica, non si
registrarono particolari episodi di violenza. Questa situazione di relativa
tranquillità non impedì che il linguaggio e i temi dell’antisemitismo venissero
utilizzati anche in qualche giornale e in talune riviste italiane, in forme talvolta
assai accentuate. È il caso di numerose pubblicazioni cattoliche che, debitamente
ispirate e documentate dalla campagna antisemita della rivista dei gesuiti La
Civiltà Cattolica, proposero costantemente l’immagine dell’ebreo come di uno
degli elementi decisivi del complotto anticristiano ordito nel mondo moderno
dal liberalismo e dalla massoneria; come pure furono presenti spunti di violento
antisemitismo nelle riviste nazionaliste del primo Novecento.
A partire dagli anni ’20 l’antisemitismo cominciò a godere di qualche
risonanza anche nella società italiana. In particolare vanno ricordate le traduzioni
dei Protocolli, a cura di monsignor Umberto Benigni e di quel Giovanni Preziosi
che diventerà in breve la figura di punta dell’antisemitismo fascista. Altri tipi di
espressioni di ostilità antiebraica riguardarono, in forme non omogenee, la
vicenda della colonizzazione della Palestina, dove si scontravano interessi
politico-economici dell’Italia protesa verso il Mediterraneo, e questioni di
sovranità sui luoghi santi per la cristianità oltre che per le altre religioni
monoteiste. Di fatto, negli anni del regime fascista fino alla svolta imperialista e
razzista determinata dalla guerra d’Etiopia (1935), l’antisemitismo venne
mantenuto a livello di propaganda giornalistica. Alcuni organi di stampa
periferici quali Cremona nuova, il nazionalista La Tribuna e altri fogli come Il
Piemonte di Torino o L’Impero di Roma fecero uso continuato dei più usuali temi
propri del linguaggio antisemita: era costante la connessione fra ebraismo,
bolscevismo e massoneria (assai utilizzato il termine di «complotto demo-pluto-
giudo-massonico»), e in generale l’ebreo veniva presentato sempre più come
«l’ultima trincea dell’antifascismo», intendendo con ciò sottolineare la sua
caratteristica antinazionale. Non mancarono in quel periodo anche episodi
violenti: nel 1923 si ebbero scontri fra ebrei e fascisti a Tripoli, in Libia, dove
questi ultimi avevano organizzato una spedizione punitiva contro alcuni
negozianti ebrei. La polemica antisemita da parte fascista fu tuttavia mantenuta a
un livello piuttosto blando nel corso dei primi dieci anni di regime. Se è, infatti,
noto che negli ambienti antifascisti vi fu la presenza di alcune personalità di
spicco di origine ebraica (Carlo e Nello Rosselli, Umberto Terracini, Leone
Ginzburg, per fare solo alcuni nomi), è altresì vero che il livello di integrazione
della minoranza ebraica in Italia aveva raggiunto livelli tali che anche all’interno
del movimento fascista fu presente una nutrita schiera di ebrei. In particolare, si
verificarono numerose adesioni al fascismo agrario della prima ora; in seguito,
con lo stabilizzarsi del regime, all’interno dell’Unione delle comunità israelitiche
si formò una vera e propria corrente filo-fascista che lavorò costantemente per
fornire al regime continue prove di super-lealismo e patriottismo.
I toni iniziarono a farsi più accesi a partire dai mesi immediatamente
successivi l’ascesa al potere in Germania nel 1933 del nazismo hitleriano che,
come abbiamo visto, aveva fatto della «questione ebraica» uno dei punti di forza
della sua politica. La svolta doveva in quei mesi interessare con forza anche lo
scenario politico-culturale dell’Italia fascista. «Con il 1933 e soprattutto con il
1934 – sottolinea lo storico Renzo De Felice – l’antisemitismo non era più nel
partito fascista un fatto marginale e individuale, ma – anche se scarso ancora di
sostenitori – rappresentava ormai uno dei motivi caratterizzanti di alcuni suoi
gruppi». In particolare Il Tevere del razzista Telesio Interlandi e Il regime fascista
dell’ex segretario del PNF Roberto Farinacci aprirono un’aspra polemica
giornalistica denunciando anche per l’Italia l’esistenza di un problema ebraico. Si
poneva per la prima volta a chiare lettere all’opinione pubblica la proposta di
stabilire una quota proporzionale per limi tare la presenza degli ebrei nella
società, considerando quindi questi ultimi come estranei e non italiani:
«È naturale quindi – scriveva Farinacci nel 1933 – che sorga in noi – fascisti
cattolici – l’esigenza che ai gangli vitali della vita della Nazione debba presiedere
il minor numero possibile di ebrei, e che se mai, tenuto calcolo del rapporto
proporzionale, siano tra essi scelti coloro che noi davvero conosciamo per il loro
passato garante di fedeltà e lealtà verso nostro Regime».
La polemica era fra l’altro rinvigorita dal consistente afflusso in Italia di alcune
migliaia di ebrei stranieri provenienti in parte dalla Germania (in fuga dai
provvedimenti antisemiti) e in parte dall’Europa orientale (i porti italiani erano
spesso i punti di partenza per l’emigrazione verso le Americhe e la Palestina). A
questi si aggiungevano i cosiddetti studenti «palestinesi», giovani ebrei
provenienti dalla Palestina che venivano a frequentare le università italiane.
Il primo episodio che segnò un mutamento effettivo di clima nei confronti
degli ebrei si verificò nel marzo del 1934, quando due giovani attivisti clandestini
di Giustizia e Libertà, Sion Segre e Mario Levi, incaricati di trasportare materiale
propagandistico antifascista dalla Svizzera, vennero fermati e identificati al valico
di Ponte Tresa. Mario Levi aveva trovato una rischiosa via di fuga gettandosi
nelle acque del Lago Maggior ma Sion Segre era stato arrestato e dopo di lui
vennero fermate a Torino altre 39 persone fra cui numerosi ebrei antifascisti.
Due anni dopo, nel 1936, la corrente antisemita all’interno del partito fascista
guidata da Farinacci era già sufficientemente forte da poter scatenare una vera e
propria campagna di stampa antiebraica, mescolando sapientemente agli usuali
elementi natura politica (il complotto ebraico) riferimenti che toccavano
direttamente la sensibilità religiosa degli italiani:
«Dobbiamo confessare – scriveva Il regime fascista – che in Italia gli ebrei, che
sono un’infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti
nella finanza, nell’economia e nelle scuole, non hanno svolto opera di resistenza
alla nostra marcia rivoluzionaria. Dobbiamo confessare che hanno sempre
pagato i loro tributi, obbedito alle leggi, compiuto anche in guerra il loro dovere.
Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo, che può suscitare
qualche sospetto. Perché non hanno detto mai una parola che valga a persuadere
tutti gli italiani ch’essi compiono il loro dovere di cittadini per amore, non per
timore o per utilità?
Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro
responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al
trionfo della internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i
loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odi,
sterminatori audaci e malvagi di cristiani?».
Non era ancora l’inizio del processo decisionale che avrebbe portato alla
realizzazione di una legislazione antiebraica, ma certo si era di fronte a un
episodio allarmante che rientrava in una strategia di sensibilizzazione
dell’opinione pubblica sulla questione della razza.

Le tappe della legislazione razziale


Il momento di svolta che determinò l’inizio di un’ampia campagna di razzismo e
di discriminazione in Italia si colloca in concomitanza con la guerra d’Africa e la
conquista dell’Etiopia nel 1935. Ebbe inizio da allora la stesura di una
legislazione indirizzata a contenere il meticciato fra italiani e popolazioni
indigene africane e si fece strada una concezione di superiorità razziale mai
lineare e spesso confusa, che tuttavia portò in pochi anni all’emanazione di una
legislazione apertamente razzista. Si discute ancora sulla natura di questo
processo di imbarbarimento della normativa italiana: i più benevoli considerano
la campagna di razzismo e di antisemitismo inaugurata dal regime fascista un
atto di sudditanza politica verso il preponderante nazismo hitleriano che ormai
imponeva la sua ingombrante presenza all’alleato italiano. L’antisemitismo e il
razzismo sarebbero stati, in quest’ottica, elementi estranei alla cultura politica
italiana, adottati in una particolare contingenza storica e comunque applicati in
forma piuttosto blanda e rifiutati dall’opinione pubblica nel suo complesso. Si
sostiene in tal modo che la promulgazione della legislazione razziale provocò la
caduta verticale del consenso al regime fascista, che aveva raggiunto il suo apice
con la conquista dell’Etiopia nel 1936.
«Sembra che il contagio della propaganda razzista – scrive lo storico
dell’antisemitismo Léon Poliakov – che attecchisce con maggiore probabilità
presso i popoli barbari, trovi un terreno ideale nei climi nordici. Il popolo
italiano, con la sua saggezza mediterranea, fu in gran parte assolutamente ostile a
queste tendenze. La sua reazione alla propaganda del Tevere e della Difesa della
razza fu il disprezzo o la protesta. Questo perché l’atteggiamento italiano,
malgrado le analogie apparenti o formali, era in realtà all’opposto di quello
tedesco».
Questo approccio storiografico è spesso accolto con poche riserve fuori
d’Italia, specie fra gli studiosi che si occupano dell’antisemitismo in paesi dove
questo ebbe un peso particolarmente rilevante, come in Germania e nell’Europa
orientale.
Altri studiosi pongono invece l’accento sul razzismo e sull’antisemitismo
espressi dal regime fascista come frutto non solo delle pressioni tedesche, ma
anche di correnti ideologiche ben presenti e radicate nella storia italiana. Si è in
alcuni casi sottolineata la debolezza della reazione della società civile italiana di
fronte a una legislazione ingiusta ed estranea alla tradizione giuridica del nostro
paese.
«Qualsiasi cosa si scriva su quel periodo che finisce con fascisti e nazisti
collaboranti nell’inviare milioni di ebrei nei campi di eliminazione – scrive lo
storico Arnaldo Momigliano, che fu costretto ad emigrare dopo il 1938 – una
affermazione va ripetuta. Questa strage immane non sarebbe mai avvenuta se in
Italia, Francia e Germania (per non andare oltre) non ci fosse stata una
indifferenza maturata nei secoli, per i connazionali ebrei. L’indifferenza era
l’ultimo prodotto delle ostilità delle chiese per cui la conversione è l’unica soluzione
al problema ebraico».
Quale che sia il giudizio di merito sulle cause che portarono alla svolta
razzista, i fatti ci parlano di una forte campagna di stampa antisionista e
antisemita che a partire dal 1935 conobbe un crescendo continuo fino alla
promulgazione delle leggi razziali. Giornali a tiratura nazionale cominciarono ad
ospitare interventi che riproponevano i tradizionali luoghi comuni antiebraici;
nel 1937 lo scrittore Paolo Orano pubblicò Gli ebrei in Italia, un testo che
attaccava sia il sionismo, sia gli ebrei italiani in generale, compresi coloro che
avevano aderito al fascismo; nel 1938 iniziò le pubblicazioni una rivista
programmaticamente razzista e antisemita, La difesa della razza, diretta da Telesio
Interlandi; Giovanni Preziosi ripubblicò i Protocolli, facendoli precedere da una
prefazione del filosofo mistico Julius Evola e corredandoli di indicazioni
sull’effettiva presenza di ebrei in Italia.
Nel complesso della politica razzista del regime, l’attacco sferrato alla
presenza ebraica in Italia si caratterizzava senza dubbio per la sua eterogeneità e
multiformità, nonché per alcuni aspetti apertamente contraddittori. Ad esempio,
per Paolo Orano gli ebrei sarebbero stati i primi sostenitori della propria
separatezza nazionale ed erano quindi anti-italiani nelle loro manifestazioni di
identità culturale. Ma nel documento Il fascismo e i problemi della razza (corretto
dallo stesso Mussolini e pubblicato il 14 luglio 1938, più noto come il Manifesto
degli scienziati razzisti ) si sottolinea invece una diversità biologica: «Gli ebrei
rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché
essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli
elementi che hanno dato origine agli italiani». Questo contrasto
nell’impostazione del razzismo e dell’antisemitismo fascista non verrà risolto
neppure in sede legislativa; nella legislazione razziale, infatti, a un’impostazione
puramente razzista verranno preferite formule che aggiungevano alle
differenziazioni di natura culturale o biologica il più classico elemento della
diversità di confessione religiosa, argomento sul quale la sensibilità degli italiani
era sicuramente più allenata. La mancanza di chiarezza della politica antisemita
del fascismo era, nei fatti, una diretta conseguenza della confusione che regnava
nell’elaborazione razzistica promossa fin dal 1935. Si contrapponevano visioni di
razzismo biologico (sulla scia del razzismo nazista) a interpretazioni di un
razzismo «nazionale» che prescindeva dalla improponibile ricerca di una
ipotetica purezza della razza italiana per spostare l’accento sulla questione
dell’identità nazionale; poco chiara, infine, risultava la visione dello stesso
Mussolini, che certamente utilizzò il razzismo a fini politici, ma che al tempo
stesso coltivò una sua visione «spirituale» tratta dagli scritti di Evola e dai
caratteri non molto definiti.
L’assunzione dei provvedimenti antisemiti fu comunque il frutto di una serie
di azioni del fascismo delle quali gli ebrei italiani sembrarono per lungo tempo
non accorgersi. La marcia di avvicinamento del regime alla Germania di Hitler
ebbe inizio all’indomani del provvedimento delle sanzioni adottate dalla Società
delle Nazioni (allora non esisteva l’ONU) contro l’Italia per aver invaso
l’Etiopia. Già nel novembre 1936 il Ministro degli esteri Galeazzo Ciano emanò
precise istruzioni affinché si evitasse che funzionari ebrei del Ministero degli
esteri venissero incaricati di trattare con la Germania. Nel corso di tutto il 1937
si sviluppò una violenta campagna di stampa antiebraica, a volte incoraggiata e
alimentata dal regime, altre volte spontaneamente e servilmente allineata al clima
di caccia all’ebreo che si andava sviluppando: «Se lo Stato fascista è totalitario –
si leggeva su La Stampa del 29 maggio 1937 – non può ammettere che un
gruppo privilegiato di cittadini, al coperto da leggi speciali, compia, sotto il
pretesto della beneficenza e del collegamento culturale coll’estero, veri e propri
atti di politica estera inspirandosi non agli interessi italiani, ma a quelli
dell’ebraismo mondiale... Se lo Stato fascista è totalitario, non deve poi tollerare
che la cultura italiana, sia, come è, inquinata dall’ebraismo».
Il 16 febbraio del 1938, dopo una violenta ripresa della propaganda
antisemita, Mussolini compilò personalmente il documento n. 14
dell’Informazione diplomatica (un bollettino semiufficiale utilizzato dal regime per
comunicare in forma giornalistica alcune sue scelte di politica estera): in esso si
manteneva un tono apparentemente conciliante affermando che il Governo
fascista non era in procinto di adottare una politica antisemita e che tale voce era
stata diffusa da ambienti dell’antifascismo mondiale. I tre capoversi conclusivi,
tuttavia, lasciavano senz’altro trasparire la volontà di Mussolini di prendere
provvedimenti che in qualche misura limitassero la libertà degli ebrei in Italia:
«Il Governo fascista non pensò mai, né pensa adesso, a prendere misure
politiche, economiche, morali, contrarie agli ebrei in quanto tali, salvo,
beninteso, nel caso in cui si trattasse di elementi ostili al Regime.
Il Governo fascista è inoltre risolutamente contrario a qualsiasi pressione,
diretta o indiretta, per strappare abiure religiose e assimilazioni artificiose. La
legge che regola e controlla la vita delle comunità ebraiche ha fatto buona prova
e rimarrà invariata.
Il Governo fascista si riserva tuttavia di vegliare sull’attività degli ebrei di
recente giunti nel nostro paese e di fare in maniera che la parte degli ebrei nella
vita d’insieme della Nazione non sia sproporzionata ai meriti intrinsechi
individuali ed all’importanza numerica della loro comunità».
Il 14 luglio del 1938 veniva pubblicato – come abbiamo ricordato – il
cosiddetto Manifesto degli scienziati razzisti, firmato da un gruppo di studiosi e
docenti universitari: in esso veniva fra l’altro affermata l’esistenza delle razze
umane, si certificava l’idea che gli italiani appartenevano alla razza ariana e che
esisteva ormai una pura razza italiana, il cui sangue andava difeso da
contaminazioni. La conclusione aveva come obiettivo gli ebrei, considerati fra le
molte genti che avevano popolato la penisola l’unica razza estranea che non si
era integrata.
L’Informazione diplomatica n. 18 del 5 agosto era, se possibile, ancora più
esplicita nel preannunciare provvedimenti legislativi antiebraici:
«Come fu detto chiaramente nella nota n. 14 dell’Informazione Diplomatica e
come si ripete oggi, il Governo fascista non ha alcuno speciale piano
persecutorio contro gli ebrei, in quanto tali. Si tratta di altro. Gli ebrei in Italia,
nel territorio metropolitano, sono 44.000 secondo i dati statistici ebraici, che
dovranno però essere controllati da un prossimo speciale censimento. La
proporzione sarebbe quindi di un ebreo su 1.000 italiani.
È chiaro che, d’ora innanzi, la partecipazione degli ebrei alla vita globale dello
Stato dovrà essere e sarà adeguata a tale rapporto. Nessuno vorrà contestare allo
Stato fascista questo diritto, e meno di tutti gli ebrei, i quali, come risulta in
modo solenne anche dal recente manifesto dei rabbini d’Italia, sono stati sempre
e dovunque gli apostoli del più integrale, intransigente, feroce e, sotto un certo
punto di vista, ammirevole razzismo; si sono sempre ritenuti appartenenti ad un
altro sangue, ad un’altra razza; si sono autoproclamati «popolo eletto» e hanno
sempre fornito prove della loro solidarietà razziale, al di sopra di ogni frontiera.
E qui non vogliamo parlare dell’equazione, storicamente accertata in questi
ultimi venti anni di vita europea, fra ebraismo, bolscevismo e massoneria.
Nessun dubbio, quindi, che il clima è maturo per il razzismo italiano, e meno
ancora si può dubitare che esso non diventi, attraverso l’azione coordinata e
risoluta di tutti gli organi del Regime, patrimonio spirituale del nostro popolo,
base fondamentale del nostro Stato, elemento di sicurezza per il nostro Impero».
Dal settembre 1938 alle prese di posizione ufficiali o semiufficiali e alla
propaganda giornalistica seguirono i provvedimenti legislativi veri e propri. L’1 e
2 settembre vennero discussi e approvati i provvedimenti legislativi di espulsione
degli ebrei dalle scuole e il decreto di espulsione degli ebrei considerati stranieri
(cioè residenti in Italia dal 1919).
Il 6 ottobre il Gran Consiglio del fascismo approvò una Dichiarazione sulla
razza redatta dallo stesso Mussolini che stabiliva i criteri di segregazione degli
ebrei dalla società civile e la loro identificazione sul piano razzista e religioso.
Il 17 novembre, infine, furono emanati i Provvedimenti per la difesa della
razza italiana. Gli ebrei erano definitivamente esclusi dalle scuole e dalle
università, dall’impiego nella pubblica amministrazione, nelle banche e nelle
assicurazioni, dall’esercito. Vennero vietati i matrimoni misti e ogni forma di
commistione con il resto della popolazione. Agli ebrei furono inoltre proibite
con successive circolari una lunga serie di attività professionali e ricreative.
Moltissime altre proibizioni minori completarono il quadro per coloro che, pur
ebrei, comunque continuavano a rimanere cittadini italiani; fra questi
provvedimenti rientrava il divieto con cui nel marzo 1941 il regime decise di
impedire a mia nonna (e a migliaia di altre persone) di ascoltare alla radio l’opera
di Gioacchino Rossini.
Le conseguenze della legislazione antiebraica furono pesanti e durature: ebbe
inizio l’esodo dall’Italia di molte personalità del mondo della cultura e della
scienza, fra cui praticamente l’intero gruppo di fisici di via Panisperna, verso gli
Stati Uniti, il Sudamerica e la Palestina. Nella loro generalità gli ebrei italiani,
fossero o meno coscienti sul piano politico, furono presi di sorpresa dai
provvedimenti antisemiti. Sono significative, a questo proposito, le parole che
Vittorio Foa (in carcere per propaganda antifascista) scrisse ai suoi famigliari
proprio il 17 novembre 1938: «Come tutto ciò è accaduto rapidamente, come
fulmineamente ci è stato rotto l’alto sonno nella testa! Parlo al plurale, poiché se
è esatto che fra me e la generalità degli ebrei corre una radicale differenza e che
non si può propriamente sostenere che io abbia dormito come loro, non ho
ritegno a confessare che ho scoperto, un po’ a malincuore, di non appartenere a
quei pochi eletti che sentono con uguale intensità il male quando è lontano e
riguarda degli illustri sconosciuti e quando invece ti capita sulle spalle».
II. LE LEGGI DEL 1938

Michele Sarfatti 3
LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI IN ITALIA
DALLE LEGGI RAZZIALI ALLA
DEPORTAZIONE
Introduzione
Raggiunta l’Argentina nel 1942, il modenese Enzo Levi decise di scrivere un
saggio sulle vicende degli ebrei italiani e sulla persecuzione che lo aveva costretto
ad abbandonare la sua città e il suo paese. Sentendo che non gli sarebbe stato
facile riuscire a trasmettere ai nuovi amici di oltre-Atlantico e ai futuri italiani
liberi «cosa» era veramente accaduto nell’Italia fascista, «cosa» lo aveva spinto
all’esilio, dette alla narrazione un inizio che merita riportare:
È difficile rendersi conto della gravità degli effetti delle disposizioni razziali in Italia, se quel periodo non lo
si è vissuto. Stentarono a rendersene conto, almeno fino a che io rimasi in Italia, nei primissimi mesi del
1942, milioni di italiani cattolici; è naturale che così fosse, per quanto possa apparire a prima vista
incredibile, se si ha presente la percentuale degli ebrei, inferiore all’uno per cento della popolazione italiana,
e il loro raggruppamento in poche città e in talune regioni; tanto che in molte province, soprattutto del
Mezzogiorno d’Italia, non vi erano affatto ebrei.
Le leggi razziali furono una mazzata sul capo degli stessi ebrei, i quali non se le aspettavano, se pure si era
diffuso un senso di inquietudine e di nervosismo. Per dare un’idea della gravità delle norme che colpivano
gli ebrei dirò della mia famiglia. Io ebbi precluso l’esercizio della professione di avvocato, con la quale
guadagnavo quanto occorreva per mantenere i numerosi familiari. Dei miei sette figli, la maggiore, laureata
e sposata, aveva vinto un concorso d’insegnamento, ma la legge glielo precluse; il marito, impiegato al
tribunale, e che si preparava agli esami per il passaggio alla Magistratura, fu licenziato con un’indennità
ridicola. Altri due miei figli, laureati in scienze e in legge, furono posti nell’impossibilità di svolgere attività
in impieghi pubblici e in grave difficoltà per trovare lavoro in aziende private. Gli altri miei figli erano
ancora agli studi e furono cacciati dalle scuole pubbliche. Era loro consentito dare gli esami a fine anno e
venivano ammessi a scrivere i temi degli esami scritti insieme agli altri; ma, dettati i temi, si richiedeva agli
alunni ebrei di alzarsi e di uscire, perché non potevano restare nella classe con gli altri e dovevano recarsi,
per lo svolgimento del tema, in un’aula separata. Agli esami orali dovevano presentarsi dopo tutti gli altri.
Questa forma di trattamento avvilente spiacque ai ragazzi, ma direi che più addolorò, salvo eccezione, gli
insegnanti, i quali non sapevano come rendere meno gravoso il provvedimento. Nel caso dei miei figli i
compagni si comportavano con la fraternità più affettuosa; poiché i miei ragazzi erano sempre
eccezionalmente preparati, tanto che occupavano regolarmente i primi posti nelle classifiche di voto, i
compagni dicevano, scherzando, che erano loro i colpiti dalle disposizioni razziali, perché non si potevano
fare aiutare agli esami dai miei figlioli.
Economicamente ero nelle condizioni peggiori, per la preclusione di tutte le fonti di reddito; soltanto un
modestissimo patrimonio immobiliare offriva la possibilità, con la liquidazione dei miei crediti
professionali, di realizzare quanto occorreva per vivere, esaurendo il capitale, per alcuni anni, e quanto
presumibilmente occorreva per uscire tutti undici dall’Italia.
La situazione era dunque grave; ma io e mia moglie e i figli maggiori eravamo preparati moralmente, prima
ancora della promulgazione delle leggi razziali; ed avevamo già preso decisioni di massima. La previsione
rappresenta, in questi casi, un’enorme fonte di tranquillità e di forza. Credo dunque ozioso insistere sul
nostro caso; mi limito a ricordare le lacrime e le disperazioni dei figli minori, soprattutto per l’esclusione
dalle scuole, per quanto soggette alle variazioni di umore dei ragazzi; ricordo la disperazione che leggevo nel
viso di mia moglie, di cui subivo il riflesso come da uno specchio, ogni volta che una telefonata, o lo
schiamazzo dei ragazzi «ariani» che uscivano dalle scuole vicine a casa nostra, ci ricordavano che non erano
più imminenti i ritorni da scuola anche dei nostri figlioli e che questi, nostro orgoglio, erano considerati
indegni di vivere fra gli altri nelle scuole pubbliche» 4.

Due pagine di diario, scritte nell’ottobre 1938 dalla veronese Silvia Forti
Lombroso, permettono di «rendersi conto» con maggiore precisione e
partecipazione di «cosa» significò, per la nipote studentessa e per il marito
professore universitario, essere cacciati da scuola:
Girò gli occhi attorno perplessa: mi vide e mi sorrise. «Ah sei qui, zia? Non ti avevo veduta entrare; hai
visto Lilli?». Un tremito nella voce, l’ombra che le si era diffusa repentinamente sul viso, mi persuasero che
avevo fatto bene a venire. «No cara, mi son fermata qui; ti guardavo, e – aggiunsi scherzosa – ti ammiravo».
Scosse la bella testa senza sorridere. «Vai da lei, ti prego; è tutta mattina chiusa nella sua stanza, non ha
voluto mangiare; capisci, è il primo giorno di scuola oggi... forse con te si sfogherà un poco».
Primo giorno di scuola; la vita che ricomincia come sempre per tutto un mondo, quello dei giovani. Per te
no, non ricomincia, ma s’interrompe d’un tratto brutalmente; da oggi sei una esclusa, nessuno deve
conoscerti, avvicinarti, amarti, perché il contatto e la conoscenza rivelerebbero troppo bene la calunnia
della propaganda ...
Entro nella stanza di Lilli con l’anima stretta; le lacrime dei giovani sono le più difficili ad asciugare, perché i
giovani vogliono una risposta logica e chiara ai loro «perché». La stanza era silenziosa: appariva vuota.
Gettata a traverso sul letto, l’adolescente dormiva; le occhiaie fonde, le guance umide, il fazzoletto stretto
fra le dita, dicevano ancora l’appassionato «perché» rivolto alla vita da una giovinezza radiosa,
improvvisamente oscurata nel primo tragico urto con l’ingiustizia e col dolore...
Sono le otto ormai; l’ora di uscire, di andare all’Istituto; la lezione è ancora da preparare, gli studenti già
arrivano a tre, a quattro, ridenti, chiassosi ... L’aula è già quasi piena ... ma ancora c’è qualche minuto di
tempo; per interrogare l’interno che ha passato lì la notte a sorvegliare l’esperienza, per confrontare i diarii,
per dare un’occhiata alle provette – chissà se questa sarà l’esperienza probatoria, chissà? Quella che dà
conferma a dieci anni di lavoro, o se tutto si dovrà pazientemente ricominciare?
L’occhio del professore si posa sul calendario. Mercoledì. Oggi doveva venire all’Istituto l’aiuto di
patologia; insieme dovevano discutere sul nuovo metodo per controllare negli animali gli effetti del
«lipocaid»...
Un orologio lontano, un altro più vicino suonan le nove: bisogna muoversi, bisogna andare: andare dove?
Fare cosa?
Si avvicina al tavolo, apre un plico raccomandato. È il suo ultimo lavoro già in corso di stampa, che il
direttore del giornale gli rimanda; poche parole di scusa imbarazzate, non può più pubblicarlo, è dolente ...
Ne apre un altro; è il presidente dell’Accademia delle Scienze che lo avverte che per ordini ricevuti cancella
il suo nome dall’elenco dei soci. Getta nel cestino impaziente, prende un libro, cerca di assorbirsi nella
lettura. Non può; la mente divaga, quello che legge ha il tono freddo delle cose morte...
Di nuovo un pauroso senso di vuoto gli attanaglia l’anima. È come se brutalmente gli avessero stroncato
ogni ragione per vivere, è come se tutto intorno a lui fosse crollato. Si alza impaziente. Tutto all’intorno è
uguale a ieri; tutto è solito, tutto ha il sapore di sempre: eppure tutto è perduto, tutto è mutato, tutto è
travolto.
Ormai il sole è alto nel terso cielo autunnale; inonda di luce la stanza, scherza sugli specchi, sui caratteri
d’oro nel dorso dei libri; si posa e si trattiene a terra sul fascio di giornali sparsi dovunque, dà rilievo ai titoli
dei quotidiani scritti in caratteri cubitali: «I giudei esclusi dalle Università»; «Liberiamoci dalla peste
giudaica»; «Finalmente purificate dagli ebrei, le Università italiane risorgeranno a nuova vita» 5.

Caratteristiche generali della legislazione antiebraica


Quelli sopra descritti furono alcuni degli effetti concreti della normativa
antiebraica introdotta dal Governo fascista del Regno d’Italia a partire dalla tarda
estate del 1938.
Tale normativa fu assai ramificata e riguardò tutti gli ambiti della vita del
paese; di essa fece parte anche la regolamentazione dell’identificazione dei
perseguitandi.
Poiché gli ebrei non possedevano (non possiedono) alcuna caratteristica
somatica specifica, e poiché comunque un razzista ha sempre la necessità di
classificare i misti (ossia, secondo l’aberrante linguaggio utilizzato all’epoca, le
persone nei cui corpi circolava sia «sangue ebraico» sia «sangue ariano»), il
fascismo dovette varare una definizione giuridica di ebreo. Questa può essere
riepilogata nel seguente modo (con l’avvertenza che, per comodità di
esposizione, si fa qui riferimento a una persona con quattro nonni classificati
puri; nel caso invece fossero stati misti, anch’essi avrebbero dovuto essere
assoggettati al medesimo processo classificatorio):
a ) Il discendente da 4 nonni ebrei era classificato comunque «ebreo», anche se
non apparteneva alla religione ebraica.
b ) Il discendente da 3 nonni ebrei, secondo la legge persecutoria del
novembre 1938 poteva essere classificato «ebreo» o «ariano». Per la
classificazione di «ariano» occorreva che il suo genitore misto ed egli stesso
appartenessero ufficialmente a religione non ebraica alla data del 1° ottobre 1938
(agnostici e catecumeni erano quindi sempre da classificarsi «ebrei») e che non
avessero compiuto, dopo l’inizio di tale appartenenza, «manifestazioni di
ebraismo» (tali ad esempio erano l’iscrizione volontaria a una comunità ebraica,
il matrimonio con persona classificata «ebrea», la procreazione di figli classificati
«ebrei»). Ben presto però venne deciso, con una disposizione amministrativa, di
classificare comunque «ebreo» chiunque avesse «più del 50% di sangue ebraico».
c ) Il discendente da 2 nonni ebrei poteva essere classificato «ebreo» o
«ariano». Per la classificazione di «ariano» occorreva che almeno un suo genitore
misto (nel caso i quattro nonni avessero costituito due coppie miste ) e comunque
egli stesso appartenessero ufficialmente a religione non ebraica (secondo i criteri
indicati al punto b ).
d ) Il discendente da 1 nonno ebreo poteva essere classificato «ebreo» o
«ariano». Per la classificazione di «ariano» occorreva che o il suo genitore misto o
egli stesso appartenessero ufficialmente a religione non ebraica (secondo i criteri
indicati al punto b ).
e ) Il discendente da 4 nonni ariani era classificato comunque «ariano», anche
se apparteneva alla religione ebraica.
f ) Nei casi c e d (e, inizialmente, in quello b ) la possibilità di essere classificato
«ariano» era prevista solo per chi faceva parte di famiglie italiane e «regolari»: il
«nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera» e il
«nato da madre di razza ebraica quando sia ignoto il padre» erano sempre
classificati «ebrei».
Questo sistema classificatorio teneva conto di fattori variegati ed è di
complessa definizione; tuttavia, essendo i suoi cardini costituiti dagli
automatismi dei casi a e e, il suo riferimento principale va indubbiamente
individuato nel razzismo di tipo biologico. I criteri di classificazione dei misti del
caso f e di quello b (versione definitiva) costituivano – da un punto di vista
tecnico – una forzatura peggiorativa di tale asse di riferimento; mentre quelli dei
casi c e d costituivano null’altro che uno dei possibili compromessi tra le
opposte necessità razzistiche di colpire il «sangue ebraico» e salvare il «sangue
ariano».
Peraltro il fascismo razzista prese concrete misure contro il riprodursi di tali
situazioni: nel novembre 1938 venne vietata la celebrazione di nuovi matrimoni
razzialmente misti, e nel 1942 venne deciso di punire le unioni miste non
formalizzate (comprese quelle sancite solo da un matrimonio religioso cattolico).
Il divieto del 1938 concerneva anche i matrimoni misti tra un «ariano» e un
«camita» (ossia, ad esempio, un abitante dell’Etiopia appena conquistata);
peraltro le unioni miste non formalizzate di quest’ultimo tipo erano state vietate
per legge già nel 1937. Con ciò, la dittatura fascista era giunta al punto di
revocare ai propri sudditi («ariani» o no che fossero) anche il diritto di scegliere
liberamente il proprio partner.
Non è noto il numero esatto di quanti furono classificati «di razza ebraica» e
quindi assoggettati alla persecuzione; sulla base di complessi calcoli, si può
ipotizzare che essi siano stati circa 51.100, dei quali circa 46.600 erano
effettivamente ebrei e circa 4500 erano non ebrei (ossia appartenevano ad altre o
nessuna religione, ma per lo più a quella cattolica). I perseguitati inoltre erano
suddivisi – tenendo conto delle norme legislative del 1938 sulla revoca delle
cittadinanze e dei permessi di residenza – in circa 40.000 italiani e circa 11.000
stranieri (dei quali circa 3000 ammessi a risiedere). Nel complesso, i perseguitati
costituivano l’1,1 per mille della popolazione della penisola.
La persecuzione antiebraica era composta da singoli atti vessatori, volta per
volta aventi una specifica finalità o rispondenti a un disegno di carattere
generale. Quest’ultimo consiste va in sostanza nella totale arianizzazione del
paese.
Mussolini prese in considerazione la possibilità di revocare la cittadinanza a
una parte o alla totalità degli ebrei italiani. In effetti egli concretizzò tale
proposito solo (nel settembre 1938, con alcune eccezioni) nei confronti degli
ebrei stranieri chi l’avevano acquisita dopo il 1918. Il principio della
«denazionalizzazione» degli ebrei italiani peraltro caratterizzò di fatto loro
persecuzione sociale e normativa sin dal suo inizio: la propaganda orale e scritta
affermò chiaramente che gli «appartenenti alla razza ebraica» costituivano un
gruppo distinto dall’entità regime-Stato-nazione italiana e ostile nei suoi
confronti; le leggi erano intitolate alla «difesa» della razza; in varie occasioni
«ebreo» venne contrapposto a «italiano», oltreché ad «ariano» ecc. E, dato il
significato che allora era attribuito alla difesa militare della nazione, l’espulsione
totale degli ebrei dall’esercito significò la loro espulsione materiale dalla patria.
Gli unici perseguitati che mantennero una carica pubblica furono i nove senatori
«di razza ebraica»: nel loro caso evidentemente il dittatore decise di rispettare la
natura regia della loro nomina e il Re decise di rispettare la durata vitalizia della
carica; essi pertanto conservarono il loro titolo per tutto il periodo, ma venne
loro sospeso l’invio degli atti parlamentari e i portieri del Senato vennero
incaricati di dissuaderli dall’entrare nel palazzo.
Gli ebrei – e i cattolici «di razza ebraica» perseguitati con loro – si videro
revocati molti diritti civili (il principale diritto politico, quello di votare liberamente
per liste alternative, era già stato soppresso per tutta la popolazione), subendo
un repentino declassamento di fatto. La mancata revoca formale della loro
cittadinanza sembra quindi da addebitare solo a motivi di opportunità, quali il
desiderio delle autorità statali di non perdere i legami con gli influenti nuclei di
ebrei italiani presenti sulle sponde del Mediterraneo, o la loro consapevolezza
che i paesi confinanti non avrebbero consentito l’ingresso di questi nuovi ebrei
apolidi. Perché, appunto, l’obiettivo primo del fascismo (fino all’estate 1943) fu
quello di eliminare tutti gli ebrei dal territorio della penisola, con rapidità e
definitivamente.
A questo riguardo, già nel settembre 1938 il Governo vietò nuovi ingressi di
ebrei stranieri a scopo di «residenza» e decretò – salve alcune eccezioni –
l’allontanamento dall’Italia di coloro che avevano iniziato a risiedervi dopo il
1918; successivamente vietò gli ingressi a scopo di «soggiorno» o di «transito»
agli ebrei apolidi, tedeschi o di altri paesi antisemiti. Al momento dell’ingresso
dell’Italia nella seconda guerra mondiale (10 giugno 1940), divenuti largamente
impossibili gli allontanamenti forzati alla frontiera, fu deciso di estendere la
misura bellica dell’internamento degli «stranieri nemici» agli ebrei stranieri non
autorizzati a risiedere nella penisola. Essi dovevano essere internati in campi di
concentramento a loro riservati, ove sarebbero rimasti – come fu detto
ufficialmente – «anche a guerra ultimata, per essere trasferiti di là nei paesi
disposti a riceverli» (il principale di questi campi fu allestito a Ferramonti,
provincia di Cosenza). L’internamento fu in sostanza una forma di prigionia,
non accompagnata da violenze fisiche; tuttavia fu appunto, una misura punitiva,
motivata solo dall’antiebraismo.
Anche per gli ebrei italiani il fascismo si proponeva di giungere alla loro
eliminazione dal territorio della penisola. Data la profonda integrazione esistente
tra essi e gli altri italiani, tale obiettivo non venne però immediatamente
proclamato e perseguito pubblicamente. L’azione pubblica governativa fu quindi
inizialmente rivolta soprattutto a eliminare gli ebrei dalla vita nazionale
(espulsione dalle cariche pubbliche e dal comparto educativo-culturale) e a
separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni misti ecc.); mentre le altre misure
persecutorie (revoca o limitazione della possibilità di lavorare e di istruirsi)
stimolava «oggettivamente» i perseguitati separati a emigrare.
Per quanto è oggi noto, solo il 9 febbraio 1940 Mussolini fece comunicare
ufficialmente all’Unione delle comunità israelitiche italiane che gli ebrei italiani
dovevano lasciare, gradualmente ma definitivamente, la penisola. Tale ordine era
connesso a un progetto legislativo, elaborato appunto nel 1939-1940, ma al
dunque rinviato al termine della guerra nel frattempo iniziata, che disponeva
l’espulsione definitiva dal paese, entro 10 anni, della grande maggioranza dei
perseguitati (ne sarebbero stati eccettuati quelli di religione cristiana aventi
coniuge ariano cristiano e figli cristiani).
Il progetto legislativo prevedeva, per coloro che non fossero, espatriati
volontariamente entro il termine stabilito, l’accompagnamento coatto alla
frontiera o – in caso di impossibilità – l’internamento in «colonie di lavoro per
opere di pubblico interesse». Arenatosi il progetto, e avendo la situazione bellica
ridotto ai minimi termini la stessa emigrazione «spontanea», il governo mise in
atto l’alternativa suddetta, stabilendo nel maggio 1942 l’assoggettamento dei
perseguitati al «lavoro obbligatorio» e decidendo nel maggio-giugno 1943
l’istituzione di veri e propri «campi di internamento e lavoro obbligatorio». La
realizzazione di questi ultimi (dislocati in quattro regioni e destinati ad ospitare
gli ebrei tra i 18 e i 36 anni) fu al dunque interrotta il 25 luglio 1943, quando le
vittorie degli alleati nel Mediterraneo e il loro sbarco in Sicilia determinarono la
crisi politica del regime fascista e la caduta di Mussolini.
I divieti e le esclusioni varati nel corso del quinquennio contro gli
«appartenenti alla razza ebraica» riguardarono tutti gli ambiti della vita sociale.
Essi ebbero sempre caratteristiche umilianti; ma furono in genere atti
persecutori «finalizzati», e solo raramente atti unicamente umilianti.
Occorre qui precisare che inizialmente il regime aveva promesso di esentare in
parte dalla persecuzione (ossia, come fu detto all’epoca, di discriminare ) le
persone «di razza ebraica» parenti di caduti in guerra o per la causa fascista, o in
possesso di speciali «benemerenze» personali di ordine bellico (volontario, ferito,
decorato ecc.), politico (iscrizione al Partito nazionale fascista prima del 1923 o
nel secondo semestre 1924, cioè prima dell’ascesa di Mussolini al Governo o
subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti), o di natura comunque
«eccezionale». Al dunque, però, anche in questo campo la normativa
effettivamente varata fu più grave di quanto annunciato e la discriminazione
comportò sostanzialmente solo la possibilità di poter possedere fabbricati
urbani, terreni e aziende (e poter dirigere queste ultime) in misura superiore a
quella fissata per gli altri ebrei, e di poter svolgere una libera professione
(avvocato, medico, ostetrico, farmacista, giornalista, ragioniere, perito,
agronomo ecc.) anche a favore di clienti non ebrei (ovviamente, a condizione
che questi volessero servirsi di un ebreo). Stando alla legge persecutoria del
novembre 1938, il discriminato avrebbe dovuto conservare anche altri diritti, come
quello di prestare servizio militare; ben presto però queste ulteriori concessioni
furono annullate da altre leggi o da disposizioni amministrative. In termini
concreti quindi, la discriminazione costituì un beneficio ridotto e decrescente nel
tempo (e per di più non ottenibile automaticamente e trasmissibile ai discendenti
solo per un massimo di due generazioni); molti perseguitati tuttavia ne richiesero
la concessione, per via del suo significato simbolico di attestazione di
«benemerenza» per l’Italia, o «perché non si poteva mai sapere...».
Relativamente alle attività lavorative, i comparti preclusi in modo totale
furono quello degli impieghi pubblici e assimilati, quello delle libere professioni
(con le eccezioni già menzionate per i discriminati ), quello del credito e delle
assicurazioni, quello delle attività turistiche ed alberghiere, quello dello
spettacolo, quello delle attività commerciali a carattere ambulante o comunque
tali da comportare una apposita licenza di polizia, quello del lavoro dipendente
presso aziende qualificate dalla normativa bellica come ausiliarie alla difesa della
nazione (ad esempio la Fiat, la Compagnia Generale di Elettricità ecc.).
In alcuni casi i divieti si accavallavano, come nel caso di professionisti
dipendenti dalla pubblica amministrazione; altre volte invece si espandevano
verso limiti mal definiti, arrivando a comprendere i dipendenti di aziende
industriali a capitale pubblico, o le aziende commerciali che rifornivano comparti
arianizzati, o insegnamenti particolari come le scuole private di ballo o di cucito.
Nel febbraio 1942, poi, il Ministero delle corporazioni ordinò alle aziende e agli
uffici di collocamento di favorire sempre l’occupazione dei «lavoratori di razza
ariana» sia in occasione di nuove assunzioni, sia in caso di riduzioni di personale.
La documentazione relativa ai «campi di internamento e lavoro obbligatorio»
sembra attestare che tale misura avrebbe separato pressoché definitivamente gli
ebrei dal mondo lavorativo «ordinario». Gli ebrei stranieri furono assoggettati
alle medesime disposizioni, ma la maggior parte di loro perse diritto a lavorare
già in conseguenza della perdita del diritto risiedere.
Si è detto che alcuni divieti lavorativi furono decisi direttamente dall’autorità
di polizia. In effetti, tra il dicembre 1938 e il dicembre 1942, oltre a quella del
commercio ambulante, vennero disposte decine di interdizioni di tutti i tipi. Agli
ebrei fu vietato di essere amministratori o portieri in case abitate da ariani; di
essere titolari di attività nei seguenti settori: agenzie d’affari di brevetti e varie;
commercio di preziosi; esercizio dell’arte fotografica; mediatori, piazzisti,
commissionari; tipografie; impiego di gas tossici; raccolta di rottami metallici e di
metalli; raccolta di lana da materassi; ammissione all’esportazione della canapa;
ammissione all’esportazione di prodotti ortofrutticoli raccolta di rifiuti; raccolta
e vendita di indumenti militari fuori uso; vendita di oggetti antichi e d’arte, di
libri, di oggetti usati, di articoli per bambini, di carte da gioco, di articoli ottici, di
oggetti sacri, di oggetti di cartoleria, di carburo di calcio; guida di autoveicoli di
piazza ecc.
Agli ebrei fu vietata la pubblicazione sulla stampa di avvisi mortuari e di
pubblicità; l’inserimento del proprio nome in annuari ed elenchi telefonici; la
concessione di riserve di caccia; la licenza di pescatore dilettante; la vendita e la
detenzione di apparecchi radio ecc.
Vennero sostituiti i nomi ebraici attribuiti a vie, piazze e moli marittimi;
vennero rimosse le lapidi poste in ricordo di ebrei; agli ebrei fu vietato di
accedere ai locali delle borse valori; di affittare camere a non ebrei; di accedere
alle biblioteche pubbliche; di far parte di cooperative; di far parte di associazioni
culturali e sportive (e una circolare apposita stabiliva l’esclusione dalle società di
protezione degli animali); di essere titolari di permessi per ricerche minerarie; di
esplicare attività doganali; di pilotare aerei di qualsiasi tipo; di allevare colombi
viaggiatori; di ottenere il porto darmi ecc.
Agli ebrei italiani non discriminati fu vietato di possedere o dirigere aziende
commerciali o industriali «interessanti la difesa della nazione» o comunque
aventi più di 99 dipendenti (in caso di possesso di più aziende, questo valore era
riferito al complesso di esse). Peraltro vari ebrei – discriminati e non – furono
indotti a cedere le proprie aziende già al momento del prospettarsi della
persecuzione o, soprattutto, a causa degli effetti dell’insieme della normativa.
Agli ebrei italiani non discriminati fu inoltre vietato di possedere case e terreni
oltre un valore definito dalla legge.
Gli enti operanti nel teatro, nella musica, nel cinema, nella radio ecc., afferenti
direttamente o indirettamente allo Stato, licenziarono subito tutti i dipendenti
stabili (dai dirigenti agli operai) ebrei e annullarono tutti i contratti temporanei
ad artisti ebrei; nel giugno 1940 questa norma fu ufficialmente estesa alle
imprese private. Le opere di autori ebrei vennero progressivamente escluse dalle
trasmissioni musicali della radio, dai programmi dei teatri lirici e di prosa, dai
cataloghi delle case discografiche, dalle sale cinematografiche, fino a essere
bandite dall’intero settore dello spettacolo nel giugno 1940.
Tra la fine del 1938 e gli inizi del 1939 le case editrici cessarono pressoché del
tutto di pubblicare nuove opere di autori ebrei; mentre il ritiro dalla circolazione
di quelle già in commercio si sviluppò confusamente – e segretamente – tra la
primavera del 1938 (quando vennero sequestrati alcuni libri di ebrei tedeschi),
l’agosto 1939 (quando venne presa la decisione di ritirare tutta la produzione
«ebraica») e il febbraio 1940 (quando venne ufficialmente comunicato agli editori
il divieto pressoché totale di stampa, circolazione e inclusione nei cataloghi).
Vennero anche sequestrati i libri non razzisti, come un dizionario da tempo in
commercio contenente la definizione: «anti-semiti, gente poco civile che osteggia
e combatte gli ebrei».
La normativa persecutoria non colpì invece la vita organizzativa e religiosa
degli enti ebraici. Peraltro, tra i diritti individuali colpiti vi fu anche quello di
«vivere ebraicamente»: il 15 ottobre 1938 venne vietata la macellazione degli
animali secondo il rito ebraico; entro la fine di quell’anno tutti i periodici ebraici
dovettero in un modo o nell’altro cessare le pubblicazioni e l’anno successivo le
autorità respinsero formalmente la richiesta dell’Unione delle comunità
israelitiche di riattivarne uno per soddisfare unicamente i «bisogni religiosi» dei
singoli e le necessità informative delle comunità; nel 1942 agli ebrei assoggettati
al «lavoro obbligatorio» venne vietato di rispettare anche le principali festività
ebraiche.

La normativa persecutoria nella scuola


La politica arianizzatrice nella scuola attuata dal Ministro dell’educazione
nazionale Giuseppe Bottai fu totalitaria ed effettivamente completa.
Nell’agosto 1938 egli emanò primi provvedimenti antiebraici di natura
amministrativa, decretando il divieto di iscrizione alle scuole di ogni ordine e
grado degli studenti ebrei stranieri (divieto successivamente, come si dirà,
leggermente emendato), il divieto di conferimento di incarichi o supplenze a
insegnanti ebrei, il divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei. Egli inoltre,
al pari degli altri ministri, dispose l’effettuazione di un censimento razzista di
tutto il personale dipendente del suo ministero (docente e non docente), e
raccomandò la diffusione generalizzata nel mondo scolastico della nuova rivista
La difesa della razza.
L’1-2 settembre 1938 il Consiglio dei ministri esaminò un primo gruppo di
provvedimenti legislativi persecutori aventi carattere di urgenza, due dei quali
concernevano la scuola. Il varo anticipato di questi ultimi rispetto al
provvedimento persecutorio di carattere generale (promulgato due mesi dopo)
era dovuto all’approssimarsi del nuovo anno scolastico e quindi all’intenzione di
Bottai di introdurre le nuove norme antiebraiche prima della formazione delle
classi e dell’inizio delle lezioni. Tali provvedimenti erano: il regio decreto-legge 5
settembre 1938, n. 1390, che dispose l’esclusione (ossia l’espulsione dei già
iscritti e il divieto di nuove iscrizioni) immediata di tutti gli studenti «di razza
ebraica» dalle scuole statali o riconosciute di ogni ordine e grado (la dizione
comprendeva anche le università, dalle quali però non vennero espulsi gli
studenti già iscritti) e la sospensione dal servizio (misura provvisoria in attesa del
varo del provvedimento di carattere generale) dal 16 ottobre di tutti gli
insegnanti ebrei; e il regio decreto-legge 23 settembre 1938, n. 1630 (promulgato
con qualche ritardo perché occorreva definire alcuni dettagli tecnici), che
introdusse la possibilità di costituire «speciali sezioni di scuola elementare»
(laddove vi fossero perlomeno 10 iscritti) o scuole elementari dipendenti dalle
comunità israelitiche (laddove queste fossero in grado di provvedervi) destinate
esclusivamente a «fanciulli di razza ebraica» (questa disposizione era dovuta alla
preoccupazione governativa di non violare del tutto il principio dell’obbligo
scolastico).
Il 7-10 novembre 1938 il Consiglio dei ministri varò il regio decreto-legge 17
novembre 1938, n. 1728, che definiva le caratteristiche generali della
persecuzione antiebraica, e il regio decreto-legge 15 novembre 1938, n. 1779,
che riepilogò, modificò e ampliò la normativa concernente la scuola. Il primo di
essi tra l’altro stabilì chi doveva essere classificato «ebreo» ai fini
dell’applicazione delle norme persecutorie (il decreto del 5 settembre aveva
provvisoriamente classificato tale solo il figlio di due genitori ebrei). Il secondo
stabilì la seguente normativa definitiva:

Esclusione di tutti gli studenti «di razza ebraica» dalle scuole elementari e
medie di ogni tipo frequentate da alunni «di razza ariana»; peraltro gli esclusi
potevano frequentare le scuole elementari e medie cattoliche (qualora essi
professassero tale religione), o quelle elementari e medie per soli ebrei
eventualmente istituite, a determinate condizioni, dalle comunità israelitiche, o
le già menzionate «speciali sezioni di scuola elementare».
Esclusione di tutti gli studenti «di razza ebraica» dalle università, ad eccezione
di coloro che – italiani o stranieri, ma non tedeschi – fossero già iscritti
nell’anno accademico 1937-1938 e non fossero fuori corso.
Esclusione di tutti gli insegnanti «di razza ebraica» dalle università e dalle
scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado, ad eccezione di quelle
eventualmente istituite dalle comunità e delle «speciali sezioni».
Esclusione di tutti gli altri dipendenti «di razza ebraica» dalle scuole (bidelli,
segretari ecc.), dagli uffici del ministero, dagli enti da questo sostenuti o
sorvegliati ecc.
Divieto di adozione nelle scuole medie di libri di testo redatti, commentati o
riveduti da autori «di razza ebraica», anche se in collaborazione con autori «di
razza ariana».

La radicalità e la totalitarietà di queste norme è evidente, ed a questo riguardo


è interessante notare che, relativamente all’esclusione degli studenti ebrei dalle
scuole pubbliche, l’Italia fascista precedette la stessa Germania nazista, la quale
solo dopo il sanguinoso pogrom del 9-10 novembre 1938 decise a sua volta di
abbandonare il sistema di numerus clausus istituito nel 1933 e di adottare anche per
gli studenti un provvedimento di esclusione generalizzata.
In sostanza, dal sistema scolastico italiano vennero espulsi: 96 professori
universitari ordinari e straordinari, più di 133 aiuti e assistenti universitari,
numerose decine di incaricati e lettori, 279 presidi e professori di scuola media
(173 in quelle di istruzione classica, scientifica e magistrale e 106 in quelle di
istruzione tecnica), un numero tuttora ignoto (ma superiore al centinaio) di
maestri elementari, varie decine di impiegati, 114 autori di libri di testo per le
scuole medie (peraltro spesso colpiti anche quali professori), oltre 200 liberi
docenti, alcune migliaia di studenti elementari e medi e alcune centinaia di
studenti universitari.
Di tutti questi dati, il più rilevante è forse quello concernente i 96 professori
universitari. Essi costituivano il 7 per cento della categoria, e questa percentuale
(70 volte maggiore, in termini relativi, di quella dell’intero gruppo ebraico nel
complesso della popolazione) era forse la più elevata conseguita in quell’epoca
da ebrei in una specifica professione nazionale. Una percentuale così alta
segnalava sia la forte propensione ebraica agli studi, sia la larga accettazione degli
ebrei da parte degli altri italiani. In quel 7 per cento però vi era anche qualcosa di
profondo e fondamentale, di connesso alla stessa italianità: si può
legittimamente ipotizzare che il gruppo ebraico costituisse uno dei modelli di
elaborazione e trasmissione della cultura superiore e specializzata nella penisola.
Anche per questo, l’espulsione dei docenti ebrei è stata una profonda ferita che
il regime fascista ha inferto all’Italia, oltre che ai singoli perseguitati.
Queste misure legislative furono affiancate ed aggravate da misure disposte
con provvedimenti amministrativi. Così, con successive circolari, Bottai ordinò
di rimuovere dalle aule le carte geografiche murali realizzate da ebrei (in quanto
assimilate ai libri di testo); dispose la sostituzione dei nomi ebraici di scuole e
istituti; decretò che i libri di testo potevano contenere una quantità minima di
citazioni e riferimenti al pensiero di autori ebrei e solo a condizione che questi
fossero morti prima del 1850; dispose che gli studenti ebrei presentatisi come
privatisti agli esami dei cicli elementare e medio venissero esaminati
separatamente dagli studenti ariani (e, agli orali, dopo di essi) ecc.
Inoltre, per l’università, vennero istituiti o potenziati gli insegnamenti
concernenti la razza; fu vietato il riconoscimento dei titoli accademici conseguiti
all’estero da ebrei italiani e stranieri; vennero allontanati dalla vita universitaria i
professori emeriti e onorari (gli annuari universitari non dovevano dare notizia
delle loro attività e della loro eventuale morte); fu proibita la concessione di
sussidi e premi agli studenti ebrei ammessi a concludere gli studi ecc.
Queste circolari vennero emanate tra l’autunno 1938 e l’estate 1939; ma si
trattava di infamie tutto sommato secondarie: la normativa persecutoria
principale era già inserita nei regi decreti-legge del 5 settembre e del 15
novembre, significativamente intitolati «per la difesa della razza nella scuola
fascista» e «per la difesa della razza nella scuola italiana».
Ma nella scuola non vi fu solo l’introduzione delle norme direttamente
antiebraiche. Dall’autunno 1938, e per cinque-sette anni scolastici, le scuole
pubbliche della penisola sollecitarono gli studenti rimasti (quelli classificati «di
razza ariana») ad essere coscienti ed orgogliosi della loro superiore arianità, della
loro superiore cattolicità, della loro superiore bianchezza, della loro superiore
fascistitudine. Razzismo ed antisemitismo dilagarono nei libri di testo,
nell’insegnamento, nella vita scolastica quotidiana, nella formazione degli stessi
insegnanti.
L’ampiezza di questa vera e propria riforma strutturale è testimoniata
dall’impegno profuso nell’«aggiornamento» degli insegnanti. Ad esempio, in
quegli anni vennero pubblicati il manuale di F. Cassano, Argomenti di pedagogia
fascista, guida per la preparazione ai concorsi magistrali, Bari, Macrì, 1938, 2a ed.,
contenente i capitoli «Necessità di razzismo» e «Il razzismo nella scuola»; e
quello di M. Crapanzano e A. Caro, Educazione fascista. Fondamenti dottrinali e
dissertazioni per i candidati ai concorsi magistrali, Milano, Casa Editrice Nuova Italia,
1942, contenente il capitolo «Il problema della razza». Nel frattempo, il 16
ottobre 1938 il regio ispettore scolastico T. L. Flores tenne a Littoria una
conferenza ai maestri e direttori della provincia su Razzismo, autarchia e scuola (poi
pubblicata a Napoli, tip. Amitrano, 1938); S. Sabatini parlò a una conferenza-
lezione per maestri indetta dal provveditorato agli studi su La scuola e il problema
della razza (poi pubblicata a Teramo, tip. Teramana, 1938); M. Gentile tenne a
Padova una lezione ad un convegno per dirigenti e insegnanti medi organizzato
dal provveditore agli studi su Autarchia dello spirito ed orgoglio di razza negli
insegnamenti storico filosofici; sempre nell’autunno 1938, «quattrocento tra
Provveditori agli studi, ispettori scolastici e direttori didattici dell’Italia centrale
... hanno chiuso i lavori del loro convegno trattando il tema: Mezzi e forme per
radicare nel fanciullo l’orgoglio e la fierezza della propria razza»; nel gennaio 1939 N.
Giani tenne la prolusione inaugurale al corso di dottrina fascista per maestri
elementari su Perché siamo antisemiti (poi pubblicata in un quaderno della Scuola di
mistica fascista Sandro Italico Mussolini, Milano-Varese, 1939) ecc.
Anche i risultati di questo «aggiornamento» vennero, in almeno un caso,
pubblicati: il preside di un istituto tecnico di Treviso raccolse nel volumetto Per
la difesa della razza (Treviso, Longo e Zoppelli, 1940), i propositi di insegnamento
razzista e antisemita esplicitati, su sua richiesta, dagli insegnanti delle varie
materie.
E, tra l’autunno 1943 e la primavera 1945, non pochi giovani «ariani», cresciuti
in questa Italia e formati in questo sistema scolastico, si trovarono ad arrestare i
loro non-compagni-diclasse ebrei e i loro non-professori o non-autori-di-libri-di-
testo ebrei, per consegnarli a killer specializzati stranieri.

La deportazione (1943-1945)
Il 10 luglio 1943 i primi reparti angloamericani sbarcarono in Sicilia. Il 25 luglio
Mussolini venne deposto e arrestato, e il Re incaricò Pietro Badoglio di formare
un nuovo Governo; questi mantenne l’alleanza con la Germania, ma iniziò a
trattare un armistizio con gli alleati, che venne infine annunciato l’8 settembre.
Per quanto concerne gli ebrei, in quei quarantacinque giorni il Governo
Badoglio operò nel seguente modo: mantenne in vigore tutte le leggi
antiebraiche e revocò alcune disposizioni persecutorie di natura amministrativa o
aventi scopi ideologico-propagandistici. Del resto, mentre immediatamente
dopo il 25 luglio i partiti antifascisti e varie personalità democratiche avevano
sollecitato una radicale abrogazione della legislazione antiebraica, altri ambienti si
erano pronunciati diversamente: in agosto la Santa Sede aveva informato il
Ministro dell’interno che la legislazione in questione, «secondo i principii e la
tradizione della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma
ne contiene pure altre meritevoli di conferma».
Alla fine del settembre 1943 il paese si trovò diviso in due parti: le regioni
meridionali e le isole sotto il controllo degli alleati e del Regno d’Italia, le regioni
centrali e settentrionali sotto il controllo della Germania nazista e del nuovo
Stato costituito dai fascisti (poi denominato Repubblica sociale italiana).
Nella prima zona, il Governo Badoglio prese infine atto delle richieste degli
alleati (l’articolo 31 del cosiddetto armistizio lungo stabiliva: «Tutte le leggi italiane
che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinioni politiche
saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate») e il 24 novembre 1943 il
Consiglio dei ministri iniziò l’esame dei provvedimenti legislativi di abrogazione
della normativa persecutoria.
Nella seconda zona la persecuzione antiebraica assunse immediatamente
nuove e più gravi caratteristiche. In conseguenza del lento spostamento della
linea del fronte, essa durò nove mesi a Roma, undici mesi a Firenze e quasi venti
mesi nelle città settentrionali. Vi furono assoggettate presumibilmente 43.000
persone, suddivise in poco meno di 33.000 ebrei effettivi e in circa 10.000 non ebrei
classificati «di razza ebraica».
I tedeschi effettuarono i primi arresti di ebrei subito dopo l’8 settembre. Il 23
di quel mese, il RSHA (la centrale di polizia tedesca che gestiva la politica
antiebraica), in accordo col Ministero degli affari esteri tedesco, comunicò
formalmente ai propri uffici dipendenti e periferici che gli ebrei di cittadinanza
italiana erano divenuti immediatamente assoggettabili alle «misure» in vigore per
gli altri ebrei europei (ossia alla deportazione verso i campi di sterminio). Già il
giorno dopo, il 24 settembre, il responsabile della polizia tedesca a Roma
ricevette l’ordine di iniziare i preparativi per l’arresto e la deportazione degli
ebrei di quella città (la retata nella capitale fu poi effettuata il 16 ottobre).
Gli ebrei arrestati venivano raccolti nelle carceri delle principali città (o,
successivamente e nell’area nord-orientale, nel campo di transito allestito dai
tedeschi nella Risiera di San Saba, a Trieste) e periodicamente avviati per lo più
al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Inizialmente, il Governo fascista-repubblicano costituito da Mussolini il 23
settembre 1943 non effettuò arresti (senza peraltro contestare quelli operati dai
tedeschi); ma il 14 novembre il nuovo Partito fascista repubblicano, in
un’assemblea tenuta a Verona, approvò un «manifesto programmatico» che
proclamava tra l’altro: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri.
Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Questa
dichiarazione giustificava e preannunciava i provvedimenti di arresto delle
persone e di confisca dei beni.
Il 30 novembre 1943 il Ministro dell’interno Guido Buffarini Guidi diramò un
«ordine di polizia» che disponeva l’arresto degli ebrei di qualsiasi condizione o
nazionalità e il loro concentramento dapprima in campi provinciali e poi in
campi nazionali in corso di allestimento. Così, sulla base di una semplice
disposizione burocratica, le autorità locali della Repubblica sociale italiana
iniziarono ad arrestare gli ebrei, a raccoglierli in campi provinciali e poi ad
inviarli nell’unico campo nazionale nel frattempo allestito: quello di Fossoli di
Carpi, in provincia di Modena.
Gli ebrei arrestati per ordine italiano ebbero lo stesso destino di quelli arrestati
per ordine tedesco: sia gli uni sia gli altri furono deportati dai tedeschi. Sul piano
tecnico, la saldatura tra le politiche antiebraiche italiana e tedesca ebbe luogo nel
campo nazionale di Fossoli: lì, a partire dalla fine del dicembre 1943, gli italiani
fecero affluire gli ebrei arrestati nelle varie province e da lì, a partire dalla
seconda metà del febbraio 1944, i tedeschi fecero partire i convogli di
deportazione. Questo meccanismo non subì alcuna modifica né nel marzo
successivo, quando anche la gestione amministrativa del campo fu trasferita dalla
polizia italiana a quella tedesca, né alla fine di luglio, quando i tedeschi decisero
di spostare il campo da Fossoli a Bolzano.
Mussolini conosceva da tempo il «destino» riservato da Hitler agli ebrei
deportati da tutta Europa; e, dopo l’8 settembre 1943, costituendo il suo nuovo
governo sotto la protezione del potente alleato, fu ben consapevole del fatto che
quel destino avrebbe ormai riguardato anche gli ebrei d’Italia. È vero il fatto che
non sono stati finora reperiti (e chissà se mai lo saranno) autografi del dittatore o
verbali di parte tedesca attestanti la decisione formale mussoliniana di
partecipare all’assassinio degli ebrei da lui governati. Ma le parole scritte
diventano largamente inutili di fronte all’esplicita evidenza di un meccanismo
concreto ripetuto decine di volte: gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli,
i tedeschi prendevano in consegna e deportavano...
Nel frattempo, il 4 gennaio 1944, era stata disposta la confisca di tutte le
proprietà immobili e mobili degli ebrei (compresi gli spazzolini da denti). La
nuova legge stabiliva tra l’altro dure pene per coloro che avessero compiuto «atti
diretti all’occultamento, alla soppressione, alla distribuzione, alla dispersione, al
deterioramento o alla esportazione dal territorio dello Stato» di quei beni; ed è
opportuno ricordare che nessuna pena venne invece mai stabilita dalla
Repubblica sociale italiana nei confronti di coloro che attuavano o
predisponevano l’«esportazione» e la «soppressione» dei corpi viventi dei
proprietari di quei beni.

Gli effetti, le reazioni, il lascito


I. La persecuzione varata nel 1938 violentò gli uomini e le donne, le loro
identità, le loro coscienze, i loro rapporti sociali, i loro affetti. L’impostazione
razzista data alla legislazione violentò anche le differenze di convinzione politica
dei perseguitati, trasformandoli tutti – fascisti, antifascisti o afascisti che fossero
– in nemici del regime (e ciò per i primi costituì uno specifico ulteriore
tradimento).
Alcune migliaia di ebrei si risolsero ad abbandonare la penisola, senza sapere
se vi sarebbero tornati. Altre migliaia abbandonarono l’ebraismo, spesso senza
peraltro cessare di essere perseguitati. Il numero annuo dei matrimoni di ebrei
crollò, e così quello delle nuove nascite nelle famiglie già costituite. Alcuni infine
si suicidarono. In fin dei conti, già prima del settembre 1943 la dittatura fascista
era ben incamminata verso il conseguimento dell’obiettivo che si era data:
l’eliminazione degli ebrei dal paese.
I rimasti si riambientarono lentamente in un mondo uguale al precedente e
però stranamente nuovo. Coloro che avevano familiari «ariani», o che avevano
solide amicizie con non ebrei, mantennero alcuni legami con la società
circostante e in taluni casi furono anche aiutati a proseguire o sostituire l’attività
che era stata loro vietata; gli altri, e specialmente i più giovani, si rinserrarono
nella famiglia e nella vita comunitaria ebraica, si trovarono rinchiusi in una sorta
di ghetto immateriale.
Gli enti ebraici, ossia le comunità e l’Unione delle comunità israelitiche
italiane, si trovarono stretti tra l’amarezza e la rabbia determinate dalla
persecuzione e la consapevolezza dell’isolamento che ormai li circondava, tra il
desiderio di richiedere un qualche alleggerimento della nuova normativa e il
timore di provocare invece ulteriori indurimenti. Alcuni dirigenti dell’ebraismo
trovarono la forza per impegnarsi nella difesa della dignità propria e degli altri
perseguitati. Il veneziano Giuseppe Jona, ad esempio, di fronte all’ennesimo
articolo antisemita del quotidiano della sua città, il 18 ottobre 1941 si recò dal
direttore per dirgli:
Non sono così ingenuo da chiedervi ritrattazioni o rettifiche. Vengo a chiedervi qualche cosa di molto più
semplice: vi chiedo che sappiate nell’avvenire serbare una maggiore misura nella vostra campagna di
persecuzione. Voi sapete bene che noi siamo un bersaglio senza difesa. Non possiamo reagire colla
violenza, perché sarebbe provocare un massacro. Non possiamo reagire per le vie legali, perché saremmo
inascoltati. Perciò ci si può pugnalare, colla offesa atroce di tutti i giorni, sicuri dell’impunità. Comunque io
non son venuto ad invocare generosità od equità. Vi ripeto, domando una cosa sola: sappiate serbare
nell’avvenire maggiore misura, per rispetto a voi stessi. 6

Il primo e più rilevante problema che le comunità israelitiche si trovarono ad


affrontare fu quello della scuola: nello spazio di poche settimane (talora, per le
medie, di pochi giorni) dirigenti e comitati improvvisati si dedicarono a una
frenetica attività per comprendere gli effettivi termini giuridici e burocratici della
questione, reperire e attrezzare i locali, censire gli scolari, individuare gli
insegnanti, organizzare insomma una struttura la più completa possibile. Tali
difficoltà furono parzialmente compensate dall’elevato livello del corpo
insegnante, comprendente anche docenti universitari licenziati, noti artisti
espulsi da tutte le attività, studiosi di chiara fama estromessi da istituti e
redazioni. Tutto ciò valeva comunque solo per le comunità più popolose; e, in
termini complessivi, è stato osservato che la persecuzione fascista causò «un
netto rallentamento, e perfino un regresso, in seno a certe generazioni», del
livello educativo degli ebrei della penisola.
Per una parte crescente degli adulti, la legislazione persecutoria significò
invece prima di tutto la perdita del posto di lavoro, spesso senza possibilità di
reimpiego. Alla fine del 1938 un esponente dell’Unione delle comunità
israelitiche parlava già di «impellenti dolorose necessità di tanti correligionari
stranieri divenuti improvvisamente indigenti, mentre comincia ad avanzarsi lo
spettro della indigenza di correligionari connazionali colpiti dai recenti
provvedimenti».
Tra gli italiani, la punta di massima miseria si verificò probabilmente a Roma,
ove la sola revoca nel 1940 delle autorizzazioni al commercio ambulante colpì
numerose centinaia di «capi-famiglia del popolino, tutti con moltissimi figli ed
altre persone a carico».
In termini generali, la persecuzione comportò un deciso impoverimento
medio del gruppo ebraico nel suo insieme e un forte impoverimento di ampi
strati di esso; e occorre tenere presente che a questo fenomeno finì per
contribuire la stessa opera di assistenza agli ebrei bisognosi, sostenuta
largamente da quelli facoltosi o per il momento meno colpiti dalla persecuzione.
La grande maggioranza dei non ebrei, la cosiddetta gente comune (ossia coloro
che non erano fascisti convinti o antifascisti) si dovette misurare con la
propaganda attivata dal regime. Ernesta Bittanti, l’intelligente compagna (non
ebrea) di Cesare Battisti, così descrisse quest’ultima, nel novembre 1938:
La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso, ributtante di
incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli (approva, per esempio, con enfasi,
la soppressione d’una casa editrice, soppressione che ha condotto l’onesto editore ebreo al suicidio). Lo
spettacolo di un pagliaccio ubriaco. Ma dàlli, dàlli, dàlli, il senso di diffidenza e di odio si appiccicherà, si
diffonderà (a nostra vergogna) forse. Non mancano già i pappagalli ed i malvagi. 7

E la già menzionata Silvia Forti Lombroso così ha tratteggiato gli effetti di


questa campagna e la diversità di comportamento dei suoi conoscenti «ariani»:
Ripenso a voi, nobili e cari e indimenticabili amici, che ci siete venuti incontro nell’ora del dolore con tanta
delicata comprensione, con generosità così calda, con così consolante e coraggioso disinteresse! Siete sparsi
un po’ dappertutto, dalla Liguria rude ma sincera, alla cara lontana Sicilia, e nell’agonia dei giorni
tormentosi, i fili d’oro della vostra amicizia ci hanno protetto, con un velo impalpabile, dalle ferite più
crudeli. Una parola fu coniata per voi: «pietisti», e vi fu gettata in faccia come un’accusa. Come pietisti l’avv.
R. e il dr. B. furono mandati al confino; e con loro quanti altri! La nuovissima civiltà infatti ha paura
specialmente di una cosa; di lasciar sussistere negli individui dei sentimenti umani. Giustizia, tolleranza,
solidarietà, pietà, sono i nemici peggiori, e vanno combattuti con ogni arma. E curiosa è la «reazione», cioè
la «non reazione» che ho osservato nelle persone anche intelligenti, anche buone. Protesterebbero se voi
diceste loro che sono inumani, anticristiani; eppure, in pratica, si sforzano giorno per giorno di diventare un
poco più indifferenti al tormento degli altri; e se proprio qualche scrupolo rimane, lo fanno tacere; e si
consolano dicendo che, in fondo a questa campagna, ci deve essere «una ragione», un qualche cosa di
misterioso, che nessuno ha scoperto mai, che nessuno sa cosa sia, ma che «ci deve essere», non fosse che
per permettere a questa brava gente di dormire i propri sonni tranquilli.

Così, l’antisemitismo attivo, praticato senz’altro da una minoranza della


popolazione, venne affiancato da una fascia di indifferenza, ben più diffusa del
primo, e di fatto complice di esso. Vi furono, certamente, donne e uomini «giusti»
(i «pietisti»), e non furono pochi. Ma, giorno dopo giorno, il regime fascista
accrebbe il tasso medio di antisemitismo della società nazionale.
Senza considerare i circa 200 ebrei trasferiti dall’isola di Arbe a Trieste e lì
«unificati» a quelli rastrellati nella penisola, durante l’intero periodo vennero
deportati dall’Italia 7400-7600 ebrei, 6720 dei quali sono stati identificati; di
questi, 5896 vennero uccisi e 824 sopravvissero. Altri 299 ebrei morirono nella
penisola. La retata più numerosa (oltre 1000 deportati) fu quella effettuata a
Roma il 16 ottobre 1943; gli eccidi principali furono quelli delle Fosse Ardeatine
(ove vennero uccisi ebrei e non ebrei) e del Lago Maggiore.
Il totale dei deportati e degli uccisi in Italia fu pari a poco meno del 20 per
cento delle circa 43.000 persone classificate «di razza ebraica» presenti nelle
regioni assoggettate all’occupazione tedesca e alla Repubblica sociale italiana (la
percentuale delle vittime tra le persone effettivamente ebree fu più alta; tra i rabbini-
capo fu pari al 43 per cento).
Gli altri circa 35.000 perseguitati evitarono l’arresto grazie alla fortuna, al
proprio spirito di iniziativa, o all’aiuto di altri ebrei e – soprattutto – non ebrei;
di essi, circa 6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera o nell’Italia del sud, 28.000
riuscirono a rimanere nascosti, un migliaio partecipò alla Resistenza.
Una relazione, redatta nel febbraio 1945 da una torinese impegnata nell’azione
di soccorso ai perseguitati, così descrisse la loro condizione:
Da oltre un anno gli ebrei sono scomparsi dalla circolazione. Non ne devono più esistere nella Repubblica
Sociale Italiana. Eppure di tanto in tanto per la strada accade di incontrare qualche parente, qualche amico.
I volti si animano, la gioia di ritrovarsi brilla negli occhi. Istintivo e reciproco è il pensiero: «Sei ancora
vivo?». Si narrano in breve le vicende e le peripezie subite. Sono per lo più le medesime: gravi pericoli corsi,
vagabondaggi di paese in paese, sempre con il terrore di essere scoperti, separazioni improvvise di famiglie,
sofferenze morali e disagi fisici sopportati. E purtroppo immancabilmente c’è qualche brutta notizia: «Sai,
hanno ucciso in combattimento Sergio. Hanno preso Guido e sua moglie. Il bimbo di pochi mesi è stato
raccolto da parenti!». Il pensiero va agli amici cari di un tempo, a qualche serata passata insieme lietamente,
spensieratamente. Amici che non rivedremo più. Uccisi o deportati è la stessa cosa. Anzi, l’ucciso ha dato
generalmente la propria vita per un ideale; muore subito o quasi; riceve, sia pure nel modo più occulto o
modesto, sepoltura. I compagni ne riferiscono gli ultimi istanti, parlano della sua morte. Del deportato in
Germania non se ne sa più nulla; muore in qualche oscuro campo di concentramento dopo atroci
sofferenze fisiche o morali, ridotto forse ad uno stato di abbrutimento animalesco.
I due si lasciano. Naturalmente l’uno tace all’altro il proprio indirizzo, le proprie nuove generalità.
E chissà quando si riincontreranno, se pure si incontreranno ancora. 8

Il gravissimo cambiamento di qualità della persecuzione determinò anche un


cambiamento nelle reazioni dei non ebrei; tanto più che le sconfitte militari e ora
anche l’esistenza (al sud) di un’Italia non fascista spingevano ad interrogarsi
finalmente a fondo sulla condizione propria e del paese. Così, molti ebrei furono
salvati e protetti da molti italiani non ebrei.
Questi erano persone di tutti i ceti sociali e di tutte le condizioni professionali;
tra essi vi erano contadini e impiegati delle anagrafi comunali e delle questure,
dirigenti di ospedale e – con un ruolo spesso determinante – responsabili di
conventi e altre strutture cattoliche.
In quei mesi, tra le persone classificate «di razza ariana» (ossia il 999 per mille
della popolazione della penisola), si svolse un duro confronto tra gli «italiani
mala gente» – gli arrestatori, i delatori, gli acquiescenti, i noncuranti – e gli
«italiani brava gente» – i soccorritori attivi, i caritatevoli, i solidali, i «giusti» –. Fu
l’impegno militare degli Alleati e quello politico e militare della Resistenza a
permettere la vittoria dei valori di questi ultimi, e quindi la salvezza e il ritorno
all’eguaglianza degli ebrei non ancora arrestati.
In una Firenze appena liberata, e mentre nell’Italia settentrionale ancora
avvenivano arresti e deportazioni, il giornale del Comitato toscano di liberazione
nazionale, La Nazione del Popolo, scrisse:
Si è tanto parlato, in tempo fascista, sui giornali, sulle riviste e sui muri, del cosiddetto problema della razza,
e quelle parole si sono accompagnate ad azioni così feroci e così profondamente offensive del senso civile
degli italiani, che l’improvviso silenzio sull’argomento viene accolto, in generale, con sollievo. È una
vergogna di cui tutti preferiscono dimenticarsi, una volta che i nostri concittadini perseguitati abbiano
ritrovato il loro posto nella libera comunità del nostro popolo. Se le leggi e le persecuzioni razziali fossero
state un episodio occasionale nella lunga storia dei misfatti fascisti, il silenzio sarebbe giustificato. Se le
rovine causate da queste leggi riguardassero soltanto coloro che ne furono colpiti, non avremmo da fare
altro che abolirle, cercando di sanare per quanto è possibile, con spirito di fraterna solidarietà, i danni e i
lutti dei perseguitati. ... Ma la politica razziale non fu un episodio occasionale, e le sue presenti rovine hanno
travolto non i soli perseguitati, ma la vita intera del nostro Paese. Poiché il razzismo è la base stessa del
nazismo, un suo momento necessario, un suo sinonimo; e non potremo dirci veramente liberati dall’ombra
funesta del fascismo fino a che non avremo spazzato dalle nostre anime e dai nostri costumi fin l’ultimo
ricordo della distinzione razziale. Il problema coinvolge tutta la nostra civiltà, e non deve, oggi, essere
taciuto, né ridotto a una semplice questione di giustizia e di rivendicazione. 9

E, in quelle stesse settimane, a Roma, Silvia Forti Lombroso osservò:


Ed ora, a poco a poco, giorno per giorno, si rinasce alla vita; no non è questo; troppo comune è la frase, e
non esprime che una parte della verità, la più superficiale. È una frase che vale per chi, grave per malattia, si
salva all’ultim’ora, e ritorna agli umani con quel sorriso incerto e stanco di chi ha intravisto un al di là di
pace, ma se ne distacca con gioia per rigodere il sole, per riattaccarsi all’amore. Ogni giorno porta una forza
nuova, accresce una vitalità perduta ma soltanto il corpo è malato, e le cellule e la linfa si rinnovano, man
mano che l’infezione è indebolita e vinta.
Ma siamo noi malati, siamo noi convalescenti?
No, noi siamo della gente che per lunghi anni è stata ferita, calpestata, calunniata, e ha dovuto trovare in sé
ed in sé sola, la forza di non soccombere. Noi siamo della gente che ha dovuto ad un tratto, senza colpa,
senza ragione, rompere tutti i rapporti umani, rinunciare al supremo bisogno e al diritto di lavorare, far
fronte a difficoltà e a pericoli mortali, e tutto questo senza potersi difendere, senza poter reagire: e ancora
oggi che si ritesse intorno a noi la trama sottile che ci lega agli altri esseri, ancora oggi che dai frantumi della
nostra vita sta per sorgere una vita nuova, più pensosa, più profonda, ancora oggi, per molti di noi, un
qualche cosa di non preciso, di non ben chiaro, un qualche cosa che deve essere detto, e non fu detto, resta,
sottile ed amaro, nell’anima ancora indolenzita...
Questo martirio che noi abbiamo sofferto, ancora più nell’anima che nel corpo, questi nostri morti dilaniati,
queste madri torturate; questi bimbi trucidati, e tutte le lacrime sparse, e le gioie perdute, e i focolari violati,
tutta questa marea di furore e di sangue, tutto questo cumulo di rovine e di stragi che fu in Europa la
persecuzione razziale, servirà a qualche cosa, servirà a una causa comune? Sarà la lava livellatrice che brucia
e divora, ma prepara il ricco fiorire dei mandorli, o sarà la melma sassosa che uccide il seme e soffoca gli
armenti?
Nel dramma universale della guerra, nella vastità sconfinata delle stragi, la campagna razziale può sembrare,
ed è realmente, un dramma che va considerato rispettando le leggi della prospettiva e dell’insieme. Gli ebrei
non devono e non vogliono mettersi al centro del quadro: tutt’altro. Dopo tanta gratuita pubblicità, non
desiderano che rientrare nelle file in silenzio, con dei capelli grigi di più, con delle rughe più fonde, coi loro
lutti nell’anima; la loro tragedia si affianca a quella di tutti, scompare e si riassorbe nella tragedia della Patria.
Ma è legittimo che essi chiedano a sé stessi e agli altri: servirà a qualche cosa questo sangue versato, il
sangue di quasi sei milioni di uccisi, come il sangue del più umile fantaccino francese, inglese, americano,
polacco, russo, come il sangue del patriota italiano, come il sangue dei civili di tutto il mondo sepolti dalle
macerie della propria casa, serve una causa comune, la causa della libertà e della civiltà?
Per questa nostra sventura, per questi morti invendicati, per questa ingiustizia sofferta, che vuole e deve
essere dimenticata, potranno i figli, e i figli dei nostri figli, pensare a noi come a chi, cadendo, ha preparato
un mondo migliore, che non sia più il mondo dei «se», dei «ma», delle mezze frasi reticenti, delle allusioni
offensive, delle insinuazioni misteriose, delle reminiscenze approssimative, che prepararono così bene il
terreno per il sorgere e lo scatenarsi di queste persecuzioni mostruose?
Ecco il dubbio che ci tormenta, ecco la ragione, la vera ragione del nostro pensoso accoramento... Si
vorrebbero abolite, non sulla carta soltanto, ma nei cervelli, anche le premesse per le quali la persecuzione
stessa ha potuto essere, non dirò approvata, ma sopportata, senza che da parte di molti ci fosse una vera,
profonda, sincera rivolta morale.
DOCUMENTI
Il fascismo e i problemi della razza 10
Manifesto degli scienziati razzisti
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione
del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale,
percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi
sempre imponenti, di milioni di uomini, simili per caratteri fisici e psicologici che
furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane
non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto
che esistono razze umane differenti.
2. Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che
esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e
che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere
che esistano gruppi sistematici minori (come per esempio i nordici, i
mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri
comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la
esistenza delle quali è una verità evidente.
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre
considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente
su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze
di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono
differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo
perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la
costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di
razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che
una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse
armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le
diverse razze.
4. La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa
popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco
è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte
essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e
costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.
5. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo
l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di
popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva
che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata
notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la
composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i
quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta
maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
6. Esiste ormai una pura «razza italiana». Questo enunciato non è basato sulla
confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di
popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani
di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza
di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7. È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora
ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato
sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza.
La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista
puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose.
La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e
l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le
teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli
Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un
modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri
puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee,
questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso
e di maggiore responsabilità.
8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da
una parte, gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose
le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e
comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche
e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente
inammissibili.
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli
sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto.
Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di
qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in
Italia.
Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in
Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo
assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati
in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel
quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze
appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri,
mentre sono uguali per moltissimi altri.
Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con
qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria
civiltà degli ariani.
11
La Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo
Il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’Impero, dichiara
l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale.
Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge una attività positiva,
diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana,
miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze
politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti.
Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di
carattere generale.
Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce:

il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze


camita, semita e altre razze non ariane;
il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici – personale civile e
militare –, di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;
il matrimonio di italiani e italiane con stranieri anche di razze ariane dovrà
avere il preventivo consenso del Ministero dell’Interno.
dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza
nei territori dell’Impero.

EBREI ED EBRAISMO
Il Gran Consiglio del Fascismo ricorda che l’ebraismo mondiale – specie dopo
l’abolizione della massoneria – è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i
campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoruscito è stato – in taluni periodi
culminanti come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica – unanimamente ostile
al Fascismo.
L’immigrazione di elementi stranieri – accentuatasi fortemente dal 1933 in poi
– ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani, nei confronti del Regime,
non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la
politica, l’internazionalismo d’Israele.
Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l’ebraismo mondiale
è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona.

IL DIVIETO D’ENTRATA E L’ESPULSIONE DEGLI EBREI


STRANIERI

Il Gran Consiglio del Fascismo ritiene che la legge concernente il divieto di


ingresso nel Regno, degli ebrei stranieri, non poteva più oltre essere ritardata, e
che l’espulsione degli indesiderabili – secondo il termine messo in voga e
applicato dalle grandi democrazie – è indispensabile.
Il Gran Consiglio del Fascismo decide che oltre ai casi singolarmente
controversi che saranno sottoposti all’esame dell’apposita commissione del
Ministero dell’Interno, non sia applicata l’espulsione nei riguardi degli ebrei
stranieri i quali:

abbiano una età superiore agli anni 65;


abbiano contratto matrimonio misto italiano prima del 1° ottobre XVI [1938].

EBREI DI CITTADINANZA ITALIANA

Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l’appartenenza o meno alla razza ebraica,
stabilisce quanto segue:

è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei;


è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di
nazionalità straniera;
è considerato di razza ebraica colui che, pure essendo nato da un matrimonio
misto, professa la religione ebraica;
non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto,
qualora professi altra religione all’infuori della ebraica, alla data 1° ottobre
XVI [1938].

DISCRIMINAZIONE TRA GLI EBREI DI CITTADINANZA ITALIANA

Nessuna discriminazione sarà applicata – escluso in ogni caso l’insegnamento


nelle scuole di ogni ordine e grado – nei confronti di ebrei di cittadinanza
italiana – quando non abbiano per altri motivi demeritato – i quali appartengano
a:

famiglie di Caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo secolo:


libica, mondiale, etiopica, spagnola;
famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica,
spagnola;
famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola,
insigniti della croce al merito di guerra;
famiglie dei Caduti per la Causa Fascista; famiglie dei mutilati, invalidi, feriti
della Causa Fascista;
famiglie di fascisti iscritti al Partito negli anni 19-20-21-22 e nel secondo
semestre del ’24 e famiglie di legionari fiumani;
famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita
commissione.

GLI ALTRI EBREI

I cittadini italiani di razza ebraica, non appartenenti alle suddette categorie,


nell’attesa di una nuova legge concernente l’acquisto della cittadinanza italiana,
non potranno:

essere iscritti al Partito Nazionale Fascista;


essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino
cento o più persone;
essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno;
prestare servizio militare in pace e in guerra.
L’esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti.
Il Gran Consiglio del Fascismo decide inoltre:

che agli ebrei allontanati dagli impieghi pubblici sia riconosciuto il normale
diritto di pensione;
che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosamente
repressa;
che nulla si innovi per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l’attività
delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti;
che, insieme alle scuole elementari, si consenta l’istituzione di scuole medie
per ebrei.

IMMIGRAZIONE DI EBREI IN ETIOPIA

Il Gran Consiglio del Fascismo non esclude la possibilità di concedere, anche


per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigrazione
di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia.
Questa eventuale, e le altre condizioni fatte agli ebrei, potranno essere
annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei
riguardi dell’Italia Fascista.

CATTEDRE DI RAZZISMO

Il Gran Consiglio del Fascismo prende atto con soddisfazione che il Ministro
dell’Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle principali
Università del Regno.

ALLE CAMICIE NERE

Il Gran Consiglio del Fascismo, mentre nota che il complesso dei problemi
razziali ha suscitato un interesse eccezionale nel popolo italiano, annuncia ai
fascisti che le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali e
impegnative per tutti e che alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le
leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli Ministri.
I DECRETI-LEGGE
Il 2 settembre 1938, dando seguito alla pubblicazione del Manifesto degli scienziati
razzisti, ed ancor prima che il Gran Consiglio del fascismo si pronunciasse nella
Dichiarazione sulla razza, il Consiglio dei ministri varò le prime norme anti ebraiche, fra cui i
Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista (regio decreto-legge 5 settembre
1938, n. 1390). La tempestività della previsione legislativa fu con tutta probabilità dettata
dalla volontà di applicare la discriminazione razziale sin dall’imminente inizio del nuovo anno
scolastico.
Solo successivamente, il 10 novembre 1938, il Consiglio dei ministri procedette alla
complessiva sistemazione legislativa della «questione ebraica», traducendo sul piano giuridico le
direttive emanate dal Gran Consiglio del fascismo. Furono così adottati il regio decreto-legge 17
novembre 1938, n. 1728 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), che può
considerarsi il testo-base della persecuzione antiebraica, anche perché vi si ritrova la definizione
legale dell’«essere ebreo», ed il regio decreto-legge 15 novembre 1938, n. 1779 (Integrazione e
coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola
italiana), in cui si precisavano le misure già in corso di attuazione da parte del Ministero
dell’educazione nazionale.
I tre regi decreti-legge citati, che di seguito si riproducono nel testo pubblicato dalla
Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, sono fra i più significativi della persecuzione
antiebraica iniziata nel 1938, ma non esauriscono la relativa legislazione del regime fascista.
Un utile riepilogo della sua prima fase è tuttavia reperibile nel repertorio dell’attività della
Camera dei deputati nella XXIX legislatura (1934-1939), da cui si riporta il sesto
paragrafo del capitolo riguardante la politica interna, appunto dedicato alla Difesa della
razza.
La legislazione fascista nella XXIX legislatura 1934-1939
(...)

6. Difesa della razza

Nella quinta riunione dell’anno XVI, tenuta il 6 ottobre nel Palazzo Venezia, il
Gran Consiglio del Fascismo ha approvato la seguente dichiarazione sulla razza:
«Il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’Impero,
dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza
razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da 16 anni e svolge un’attività
positiva diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana,
miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze
politiche incalcolabili, da incroci ed imbastardimenti.
Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di
carattere generale.
Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce:

il divieto di matrimoni d’italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze


camita, semita e altre razze non ariane;
il divieto per i dipendenti dello Stato e di Enti pubblici – personale civile e
militare – di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;
il matrimonio d’italiani e italiane con stranieri anche di razze ariane dovrà
avere il preventivo consenso del Ministero dell’interno;
dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza
nei territori dell’Impero».

Già prima di questa dichiarazione il Regio decreto-legge 19 aprile 1937-XV, n.


880, aveva proibito al cittadino italiano, pena la reclusione da uno a cinque anni,
di tenere, nel territorio del Regno o delle Colonie, relazione di indole coniugale
con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o assimilata. Le modalità del
provvedimento che comprende anche il caso, se mai dovesse verificarsi, della
donna italiana che conviva con un uomo di colore, sono già state esposte nella
Parte III: L’Africa italiana.
Il Regio decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, ha poi adottato
provvedimenti per i matrimoni ed ha definito la condizione degli appartenenti
alla razza ebraica in tutti i settori della vita nazionale, dettando particolari
disposizioni nei riguardi dell’attività civile industriale e commerciale e del
personale dipendente.
Per quel che concerne il matrimonio il decreto distingue il caso del coniuge di
razza non ariana da quello di nazionalità straniera.
Nel primo caso vieta il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con,
persona appartenente ad altra razza, e dichiara la nullità del matrimonio
celebrato in contrasto con tale divieto. Si avverta però che la sanzione della
nullità – tenuto conto del divieto fatto all’ufficiale dello Stato civile di celebrare
matrimoni in contrasto col divieto sancito dallo stesso articolo – può riferirsi
unicamente a quei casi eccezionali in cui, non risultando, per difetto delle
necessarie cautele da parte dell’Ufficiale di Stato civile, o anche senza sua colpa,
l’appartenenza dei nubendi a razze diverse, l’ufficiale predetto abbia proceduto
alla celebrazione. Ad eguale risultato di inefficacia civile del matrimonio si
giunge nel caso che il matrimonio fra persone appartenenti a razze diverse sia
celebrato da un ministro del culto cattolico, perché il decreto fa divieto di
trascrivere tale matrimonio: e se, per avventura, la trascrizione avvenisse, essa
dovrebbe essere annullata. Nell’uno e nell’altro caso la nullità può essere
promossa anche d’ufficio dal Pubblico Ministero.
Per quanto riguarda il secondo caso i dipendenti dalle amministrazioni civili e
militari dello Stato, dalle organizzazioni del Partito Nazionale Fascista o da esso
controllate, dalle amministrazioni delle Provincie, dei Comuni, degli Enti
parastatali e delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali, non possono
contrarre matrimonio con persone di nazionalità straniera. Non possono però
ritenersi di nazionalità straniera: gl’italiani non regnicoli, quelli cioè che, pur non
avendo la cittadinanza italiana, siano originari di territori etnicamente italiani,
politicamente non facenti parte del Regno; gl’italiani per nascita, anche se
abbiano acquistato una cittadinanza straniera. Devono invece considerarsi di
nazionalità straniera coloro che, stranieri di origine, abbiano successivamente
acquistato la cittadinanza italiana.
Per gli altri cittadini, qualunque sia la razza alla quale appartengano, è stabilito
che il matrimonio con persone di nazionalità straniera sia subordinato al
preventivo consenso del Ministero dell’interno. La richiesta del consenso deve
essere fatta prima della richiesta delle pubblicazioni.
I procedimenti relativi agli appartenenti alla razza ebraica cominciano con lo
stabilire le norme per determinare questa appartenenza. Chi discende da genitori
entrambi ebrei è ebreo egli stesso, qualunque sia la religione professata; in
questo caso il fattore religioso non può modificare l’origine razziale. Il figlio di
un genitore ebreo (italiano, o straniero) è sempre considerato ebreo se l’altro
genitore, non ebreo, sia di nazionalità straniera. Il nato da genitori di nazionalità
italiana, di cui uno solo ebreo, è considerato ebreo se professi la religione
ebraica, o risulti iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto
manifestazioni di ebraismo. Non è considerato ebreo se, alla data del 1 ° ottobre
XVI, apparteneva a religione diversa dall’ebraica ma, se non apparteneva ad
alcuna religione, deve essere considerato ebreo.
Per quanto riguarda le restrizioni all’attività dei cittadini italiani di razza
ebraica le principali sono le seguenti: essi non possono prestare servizio militare,
essere tutori o curatori di persone non ebree, possedere o gestire aziende
interessanti la difesa della Nazione né altre aziende di qualsiasi natura che
impieghino cento o più persone; possedere terreni con estimo superiore a lire 5
mila o fabbricati urbani aventi un imponibile superiore a lire 20 mila. Lo spirito
di queste disposizioni è d’impedire che gli ebrei possano esercitare un’autorità, o
comunque una azione, in cose ed istituti che hanno un prevalente interesse
nazionale.
È inoltre stabilito che non possano avere alle proprie dipendenze persone
appartenenti alla razza ebraica: a) le amministrazioni civili e militari dello Stato;
b) il Partito Nazionale Fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che ne
sono controllate; c) le amministrazioni delle provincie e degli altri enti locali; d)
le amministrazioni delle aziende municipalizzate; e) le amministrazioni degli enti
parastatali e in genere di tutti gli enti sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato;
f) le amministrazioni delle aziende annesse o direttamente dipendenti dagli enti
indicati nella precedente lettera; g) le amministrazioni delle banche di interesse
nazionale; h) le amministrazioni delle imprese private di assicurazione.
Ma la legge, ispirandosi a un concetto di grande equità, prevede anche i casi
nei quali le disposizioni restrittive possono essere applicate, ed è ammessa la
cosiddetta discriminazione. Questa viene concessa dal Ministro dell’interno, su
istanza degl’interessati, ai componenti delle famiglie dei Caduti nelle nostre
ultime guerre, ai mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra, decorati al valore
militare e insigniti della croce al merito di guerra, agli iscritti al Partito Nazionale
Fascista negli anni precedenti il 1923 e nel secondo semestre del 1924, e ai
mutilati o feriti per la Causa fascista. Non solo: essa può essere estesa anche a
coloro i quali abbiano eccezionali benemerenze che una speciale Commissione è
chiamata ad esaminare. In tal modo i discriminati possono prestar servizio
militare, possedere proprietà oltre i limiti stabiliti, esercitare la patria podestà
eccetera, e appartenere a imprese private di assicurazione.
Tuttavia neppure questi discriminati possono avere alle proprie dipendenze, in
qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. È data solo facoltà ai
Prefetti delle Provincie di autorizzare caso per caso, per provato bisogno di
speciale assistenza a causa dell’età avanzata o di malferma salute e quando non vi
sia possibilità di assistenza famigliare o di prestazioni d’infermieri professionali,
il mantenimento di domestici già in servizio presso famiglie ebree.
Non meno importanti delle disposizioni principali sono alcune delle
disposizioni transitorie, perfettamente inserite in tutto il sistema di questa legge
essenzialmente fascista e nazionale, rivolto a impedire ogni nociva influenza
ebraica sul Paese: si allude alla disposizione per la quale la cittadinanza italiana
concessa ad ebrei stranieri dopo il 1° gennaio 1919, è revocata, e a quella per la
quale gli ebrei stranieri, che abbiano iniziato il soggiorno in Italia posteriormente
al 1° gennaio 1919, devono lasciare il territorio nazionale, a meno che non
abbiano compiuto il 65° anno di età o si siano sposati con persona italiana.
Conseguentemente è vietato agli ebrei stranieri di fissare la loro residenza nel
Regno. Tuttavia casi di eccezionali situazioni di famiglia, meritevoli di particolare
considerazione, potranno essere segnalati al Ministero dell’interno.
In relazione con i provvedimenti per la difesa della razza, sono state arrecate
col Regio decreto 21 novembre 1938-XVII, n. 2154, modificazioni allo Statuto
del Partito Nazionale Fascista. Tra queste è la disposizione che non possono
essere iscritti al Partito i cittadini italiani che, a norma delle disposizioni di legge,
sono considerati di razza ebraica.
È stato poi emanato il Regio decreto-legge 22 dicembre 1938-XVII, n. 2111,
che stabilisce, a decorrere dal 1° gennaio 1939, il collocamento in congedo
assoluto del personale militare delle Forze armate dello Stato di razza ebraica.
Ufficiali e sottufficiali cessano di avere qualsiasi obbligo di servizio, ma
conservano il grado e l’uso dell’uniforme, subordinatamente all’autorizzazione
del Ministro competente o del Comando generale della M.V.S.N.
Infine il Regio decreto-legge 9 febbraio 1939-XVII, n. 126, ha stabilito norme
integrative per la limitazione delle proprietà immobiliari e delle aziende per i
cittadini italiani di razza ebraica.
Il cittadino italiano di razza ebraica entro il termine perentorio di 180 giorni
può fare donazione della parte dei beni eccedente i limiti consentiti dal Regio
decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, ai discendenti o al coniuge non
considerati di razza ebraica oppure ad Enti e Istituti che abbiano fini di
educazione o di assistenza. In caso diverso essa deve essere trasferita ad un Ente
di gestione e liquidazione immobiliare avente sede in Roma, che viene istituito
con il compito di procedere all’acquisto, alla gestione e alla vendita dei beni
previsti dal decreto. I cittadini italiani di razza ebraica dovranno, entro 90 giorni
dall’entrata in vigore del decreto, denunciare all’ufficio distrettuale delle imposte
gli immobili di loro pertinenza. Il pagamento del corrispettivo degli immobili
trasferiti all’Ente è fatto con speciali certificati trentennali i quali frutteranno
l’interesse del 4 per cento annuo. I titoli sono nominativi e possono essere
trasferiti a persona appartenente alla razza ebraica. La cessione dei certificati a
persone non appartenenti alla razza ebraica per atto tra vivi potrà esser fatta solo
per costituzione di dote o per l’adempimento di una obbligazione di data certa e
anteriore a quella di entrata in vigore del presente decreto, ovvero derivante da
fatto illecito.
Il cittadino italiano di razza ebraica che abbia ottenuto il provvedimento di
discriminazione ha diritto alla restituzione dell’immobile che non sia stato
venduto dall’Ente. Nel caso di avvenuta vendita ha diritto a ottenere in contanti
il prezzo di vendita previa restituzione all’Ente dei certificati avuti in pagamento.
Quanto alle aziende industriali e commerciali i cui gestori o proprietari siano
di razza ebraica, viene anzitutto stabilito l’obbligo della denunzia entro 90 giorni.
Il Consiglio provinciale delle corporazioni compila appositi elenchi
distinguendo: a) le aziende dichiarate interessanti la difesa della nazione; b) le
aziende che per il numero del personale eccedono i limiti stabiliti dal Regio
decreto legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728; c) le aziende non rientranti nelle
precedenti categorie. Per le aziende comprese nelle due prime categorie è
nominato un Commissario di vigilanza. Il titolare dell’azienda o i soci
illimitatamente responsabili possono alienare l’azienda, per atto pubblico, a
persone non considerate di razza ebraica, o a società commerciali regolarmente
costituite. Il prezzo di alienazione è investito in titoli nominativi di consolidato,
non trasferibili per atto tra vivi che dietro autorizzazione del Ministro delle
finanze. Quando siano trascorsi 6 mesi dalla nomina del Commissario, il
Ministro delle finanze stabilisce quali delle aziende che non siano state alienate
devono essere rilevate da società anonime regolarmente costituite o da
costituire. Per la stipulazione dell’atto, l’impiego o il deposito del prezzo valgono
le stesse disposizioni stabilite per l’alienazione volontaria.
Le norme del decreto cessano di aver vigore: a) quando in un’azienda non
appartenente a persone di razza ebraica, gestita da un cittadino italiano di razza
ebraica, il gestore viene sostituito; b) nel caso di dichiarazione di fallimento; c)
nel caso in cui il titolare, gestore o socio a responsabilità illimitata ottenga il
provvedimento di discriminazione; d) nel caso che l’azienda pervenga in eredità
a persona non appartenente alla razza ebraica.
Poiché alla scuola è demandato gran parte del delicato e grave compito di
formare e temprare fascisticamente le nuove generazioni italiane, ben si
comprende la particolare importanza che vengono ad assumere le disposizioni
per la difesa della razza nel settore dell’educazione nazionale.
I provvedimenti contenuti nel Regio decreto-legge 5 settembre 1938-XVI, n.
1390, mirano a rendere più unitario, fisicamente e spiritualmente, il popolo
italiano: essi eliminano dalla scuola – in ogni suo ordine – gli insegnanti ebrei e
coloro che vi esercitavano funzioni direttive e ispettive. Dato inoltre che è
proprio nella scuola che si plasmano le coscienze e le mentalità, eliminati gli
insegnanti, bisognava provvedere pure a che la coscienza e la mentalità degli
allievi non subissero influenze capaci di turbarne la formazione. Separazione,
adunque, di scuole e adeguati provvedimenti in modo da consentire anche ai
non ariani di iniziare i loro studi o di proseguirli; divieto agli ebrei di accedere ai
corsi universitari e relativi esami. A tali norme di carattere generale si è derogato
con una disposizione transitoria, in forza della quale gli studenti di razza ebraica
già iscritti nelle Regie Università possono continuare gli studi sino al loro
termine.
Contemporaneamente a quest’opera di epurazione della scuola, il decreto
provvede all’epurazione dei più alti centri della coltura italiana, nei quali la
mentalità ebraica tendeva ad affermarsi sempre più tenacemente con la sua
opera di costante infiltrazione; e però dispone che i membri di razza ebraica
cessino di far parte delle Accademie e degli altri Istituti di cultura.
In conseguenza delle sopraccitate disposizioni e dato il carattere obbligatorio
dell’istruzione elementare il Regio decreto-legge 23 settembre 1938-XVI, n.
1630, ha istituito a carica dello Stato speciali sezioni di scuola elementare
riservate agli alunni ebrei, nelle località in cui il numero di essi non sia inferiore a
dieci, consentendo l’istituzione di scuole elementari con effetti legali, pure per
fanciulli ebrei, da parte delle comunità israelitiche. In tali sezioni e in tali scuole, i
programmi, salvo per quanto concerne la religione, saranno quelli per le scuole
per alunni italiani e, salvo i necessari adattamenti, i libri di testo saranno quelli di
Stato. In tal modo, fermo rimanendo il divieto della coeducazione degli alunni
ariani con quelli di razza ebraica, questi ultimi potranno del pari frequentare le
scuole elementari.
Successivamente, determinatasi la necessità di adottare nuove disposizioni, è
stato emanato il Regio decreto-legge 15 novembre 1938 XVII, n. 1779, il quale
coordina anche le norme contenute nei precedenti decreti e accoglie l’intera
materia in unico testo, con opportuni riferimenti alle disposizioni generali
emanate per la difesa della razza.
Il procedimento sancisce l’incompatibilità della qualità di ebreo con tutti gli
uffici e impieghi nelle scuole frequentate da alunni italiani, e stabilisce che tale
incompatibilità, come pure l’esclusione degli alunni di razza ebraica, si estende
alle scuole private. Prevede l’istituzione di scuole medie per alunni di razza
ebraica da parte delle comunità israelitiche o di persone di razza ebraica. A
queste scuole sarà concesso il beneficio della parificazione, ove ottengano
l’associazione all’Ente nazionale per l’insegnamento medio. Gli insegnanti
elementari e medi dispensati dal servizio, ai quali vengano riconosciute le
benemerenze individuali o famigliari previste dalle disposizioni generali per la
difesa della razza, saranno preferiti per l’insegnamento nelle scuole per alunni di
razza ebraica.

REGIO DECRETO-LEGGE 19 APRILE 1937-XV, N. 880: Sanzioni per i


rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. (Min. Africa Ital. C. n.2031;
S.n. 1978 ). - Legge 30 dicembre 1937-XVI, n. 2590.
REGIO DECRETO-LEGGE 5 SETTEMBRE 1938-XVI, N. 1390:
Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. (C. n. 2509; S. n.
2681 ). - Legge 5 gennaio 1939-XVII, n. 99.
REGIO DECRETO-LEGGE 23 SETTEMBRE 1938-XVI, N. 1630:
Istituzioni di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica. (Min. educ. naz., C.
n. 2545; S. n. 2682 ). - Legge 5 gennaio 1939-XVII, n. 94.
REGIO DECRETO-LEGGE 15 NOVEMBRE 1938-XVII, N. 1779:
Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme emanate per la difesa
della razza nella scuoi italiana. (Min. educ. naz., C. n. 2662; S. n. 2683 ). - Legge 5
gennaio 1939-XVI. n. 98.
REGIO DECRETO-LEGGE 17 NOVEMBRE 1938-XVII, N. 1728:
Provvedimenti per la difesa della razza italiana. (Min. interno; C. n. 2608; S. n.
2679 ). - Legge 5 gennaio 1939- XVII, n. 274.
REGIO DECRETO-LEGGE 21 NOVEMBRE 1938-XVII, N. 2154:
Modificazioni allo statuto del Partito Nazionale Fascista.
REGIO DECRETO-LEGGE 22 DICEMBRE 1938-XVII, N. 2111:
Disposizioni relative al collocamento in congedo assoluto ed al trattamento di
quiescenza del personale militare delle forze armate dello Stato di razza ebraica.
REGIO DECRETO-LEGGE 9 FEBBRAIO 1939-XVII, N. 126: Norme di
attuazione e. integrazione delle disposizioni di cui all’articolo 10 del Regio
decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, relative ai limiti di proprietà
immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza
ebraica, (Min. finanze C. n. 2773 ).
LA CONVERSIONE IN LEGGE DEI DECRETI-
LEGGE
I provvedimenti per la difesa della razza furono emanati nella forma del regio decreto-legge, lo
strumento normativo d’urgenza riservato al potere esecutivo. Nel regime fascista, questa era
divenuta la forma ordinaria della legislazione, in quanto il Governo aveva fortemente
ridimensionato la funzione parlamentare. La Camera dei deputati, la cui legge elettorale era
stata riformata in senso plebiscitario, ed il Senato, che era rimasto di nomina regia,
conservavano un mero potere di ratifica dei provvedimenti governativi.
I regi decreti erano, infatti, presentati alle Camere per la conversione in legge, senza che però
vi fossero termini prestabiliti. Le commissioni parlamentari procedevano all’esame e
presentavano una relazione all’Assemblea, secondo una procedura che è ancora vigente. Non è
un caso che i provvedimenti per la difesa della razza emanati fra il settembre ed il novembre
1938, pur esaminati separatamente dalle commissioni a seconda della data di presentazione,
fossero sottoposti alla votazione in Aula in unica soluzione.
La Camera dei deputati, alla presenza del duce, li approvò per acclamazione nella seduta
pomeridiana del 14 dicembre 1938. Era però ancora in vigore l’articolo 63 dello Statuto
Albertino, che prescriveva lo scrutinio segreto per la votazione finale di un disegno di legge,
sicché il presidente Costanzo Ciano dovette richiamare i deputati a deporre nell’urna il proprio
voto. Tutti i 351 presenti votarono sì su ciascun provvedimento. È significativo che nella stessa
seduta la Camera dei deputati votasse la propria trasformazione in Camera dei fasci e delle
corporazioni. L’approvazione delle leggi razziali coincise, quindi, con la definitiva dissoluzione
delle istituzioni rappresentative statutarie.
Dopo l’approvazione della Camera, i regi decreti passarono all’esame del Senato, secondo la
medesima procedura. Il presidente Luigi Federzoni li presentò in Aula il 20 dicembre 1938.
Mentre alla Camera non vi era stata discussione, al Senato si alzò a parlare per dichiarazione
di voto il marchese Filippo Crispolti, già deputato del partito popolare, il quale, pur favorevole,
chiese che l’applicazione di tali provvedimenti avvenisse secondo criteri di moderazione. Il
differente clima politico fu confermato dal voto contrario di una pur esigua pattuglia di una
diecina di senatori, forse non dimentichi che la loro assemblea aveva annoverato ed annoverava
non pochi ebrei.
Pertanto, si riproducono in questa sezione gli atti di presentazione alla Camera dei deputati
ed al Senato del Regno dei disegni di legge di conversione dei regi decreti-legge nn. 1390, 1728,
1779 (nn. 2509, 2608, 2662) e le relative relazioni da parte delle commissioni competenti
(nn. 2509-A, 2608-A, 2662-A), nonché i resoconti delle discussioni in Aula. L’iter di
conversione prosegue al Senato, con gli atti dell’esame in commissione (nn. 2679-A, 2681-A,
2683-A) ed in Aula.
CIRCOLARI E DISPOSIZIONI AMMINISTRATIVE
La promulgazione delle leggi antiebraiche fu affiancata dall’emanazione da parte dell’apparato
statale di una innumerevole quantità di circolari ed altre disposizioni amministrative.
Talune di queste illustrarono determinate misure legislative o le coordinarono con la
normativa preesistente; alcune altre attenuarono gli effetti di una misura legislativa; la
maggioranza però aggravò il dispositivo delle leggi o addirittura si sostituì ad esse, innovando
ed ampliando il regime persecutorio.
Queste circolari «aggravanti» furono a loro volta di due tipi. Talune disposero l’applicazione
immediata di norme che successivamente vennero comprese in provvedimenti legislativi veri e
propri. Altre, pur prive di riferimenti diretti a tali provvedimenti, furono, nel segno
dell’illegalità prodotta dal regime, il frutto di una dirigenza statale (ma i ministri erano
consenzienti e comunque informati) decisa a fornire il proprio autonomo contributo alla
persecuzione antisemita.
Al riguardo va anche osservato che l’elaborazione, la diffusione e l’applicazione di questa
normativa non legislativa richiese un’impressionante quantità di lavoro umano, di impegno
mentale, di uso di macchine da scrivere, di carta, di spazi archivistici ecc.
Impressionante è la quantità e la gravità delle misure persecutorie introdotte tramite essa.
Ad esempio, fu una circolare a disporre il 9 agosto 1938 il divieto di nomina di insegnanti
ebrei nelle scuole elementari e medie (divieto poi confermato dalla legge); come fu una circolare
(anzi un «ordine di polizia») a disporre il 30 novembre 1943 l’arresto generalizzato e
l’internamento degli ebrei (questo ordine non ricevette mai una conferma legislativa; peraltro, la
conseguente consegna degli ebrei arrestati ai tedeschi deportatori fu effettuata senza essere
neppure notificata per iscritto in una circolare).
La comprensione della persecuzione antiebraica dell’Italia fascista non può considerarsi
completa senza la conoscenza normativa di tipo «amministrativo». A tale fine, vengono qui
riprodotti alcuni esempi di disposizioni singole o di loro riepiloghi elaborati all’epoca.
Libri di testo per le scuole e direttive razziali 12
In rezione [sic] ad analoghi quesiti pervenuti a questo Ministero, avverto che «nei
libri di testo per le scuole sono consentite le citazioni ed ammessi, in genere, i
riferimenti al pensiero di autori di razza ebraica, sia italiani che stranieri –
beninteso con la maggiore parsimonia – solo se si tratti di autori morti non oltre la
metà dello scorso secolo».
È altresì consentito, e senza limitazione alcuna, che nelle bibliografie
contenute nei testi scolastici siano menzionate opere di autori di razza ebraica.
Il Ministro: BOTTAI
CRONOLOGIA.
ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI

CRONOLOGIA13
28 ottobre 1922. I fascisti marciano su Roma. Il giorno dopo il re Vittorio
Emanuele III incarica Mussolini di formare il nuovo Governo.
6 aprile 1924. Vittoria della lista dei fascisti e dei loro alleati alle elezioni per la
Camera.
3 gennaio 1925. Mussolini alla Camera si assume la responsabilità dell’assassinio
(avvenuto il 10 giugno precedente) del deputato socialista Giacomo Matteotti.
novembre 1926. Varo leggi «fascistissime»: scioglimento di tutte le associazioni e
i partiti contrari al fascismo, istituzione del confino di polizia per gli oppositori
ecc.
11 febbraio 1929. Firma dei Patti lateranensi tra Italia e Chiesa cattolica.
30 gennaio 1933. Hitler diventa cancelliere del Reich tedesco. Introduzione
della legislazione antiebraica nella Germania nazista.
1936-1937. Il Governo fascista del Regno d’Italia, in connessione con la
conquista e la colonizzazione dell’Etiopia, approfondisce il razzismo e vara
primi provvedimenti di apartheid e di divieto di relazioni tra italiani e
popolazioni delle colonie.
1937. Diffusione dell’antiebraismo in Italia, con campagne di stampa e
pubblicazioni.
14-15 febbraio 1938. Il Ministero dell’interno dispone il censimento della
religione professata dai propri dipendenti.
14 luglio 1938. Pubblicazione del documento Il fascismo e i problemi della razza. Il
testo (talora noto col titolo Manifesto degli scienziati razzisti ) fornisce le basi
teoriche all’introduzione ufficiale del razzismo.
22 agosto 1938. Censimento speciale nazionale degli ebrei, ad impostazione
razzista. Vengono censite 58.412 persone aventi per lo meno un genitore ebreo;
di esse, 46.656 sono effettivamente ebree (pari a circa l’1 per mille della
popolazione della penisola).
1-2 settembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un primo gruppo di norme
antiebraiche. Esse contengono tra l’altro provvedimenti immediati di espulsione
degli ebrei italiani dalla scuola e della maggior parte degli ebrei stranieri giunti
nella penisola dopo il 1918.
6 ottobre 1938. Il Gran Consiglio del fascismo approva la Dichiarazione sulla
razza. Il testo detta le linee generali della legislazione antiebraica.
7-10 novembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un secondo e più
organico gruppo di norme antiebraiche. Esse tra l’altro contengono la
definizione giuridica di «appartenente alla razza ebraica» e dispongono il divieto
di matrimonio tra «ariani» e «semiti» o «camiti»; inoltre contengono
provvedimenti di espulsione degli ebrei dagli impieghi pubblici e (in forma più
completa) dalla scuola, di limitazione del loro diritto di proprietà, ecc.
1938-1942. Espulsione totale degli ebrei dall’esercito; divieto di pubblicazione
e rappresentazione di libri, testi, musiche di ebrei; sostanziale espulsione dalle
libere professioni; progressiva limitazione delle attività commerciali, degli
impieghi presso ditte private, delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro.
febbraio 1940. Mussolini fa comunicare ufficialmente all’Unione delle comunità
israelitiche italiane che tutti gli ebrei italiani dovranno lasciare l’Italia entro pochi
anni.
10 giugno 1940. Ingresso dell’Italia in guerra. Internamento degli ebrei italiani
giudicati maggiormente «pericolosi» e degli ebrei stranieri cittadini di stati aventi
una politica antisemita.
maggio 1942. Istituzione del lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei
italiani.
agosto 1942-primavera 1943. Ad autorità governative, e in particolare a
Mussolini, pervengono notizie progressivamente sempre più chiare sull’azione di
sterminio di ebrei attuata nei territori controllati dall’alleato tedesco.
maggio-giugno 1943. Decisione di istituire nella penisola campi di internamento
e lavoro obbligatorio per ebrei italiani abili al lavoro.
10 luglio 1943. Sbarco degli alleati in Sicilia.
15-25 luglio 1943. Decisione italiana di consegnare alla polizia tedesca gli ebrei
tedeschi presenti nella Francia sudorientale occupata dall’Italia; direttiva di
trasferimento a Bolzano degli internati (per lo più ebrei stranieri) del campo di
Ferramonti di Tarsia in Calabria.
25 luglio 1943. Caduta di Mussolini.
estate 1943. Il nuovo Governo guidato da Badoglio blocca l’attuazione delle
disposizioni del maggio-luglio precedente, revoca alcune circolari, lasciando
tuttavia in vigore tutte le leggi persecutorie.
8 settembre 1943. Annuncio dell’armistizio tra il Regno d’Italia e gli alleati. Fuga
del re e del Governo al sud.
10 settembre 1943. Inizio ufficiale dell’occupazione militare tedesca della
penisola; nelle regioni di Trieste e Trento i tedeschi istituiscono le Operationszonen
Adriatisches Kuestenland e Alpenvorland, assumendovi anche i poteri civili.
settembre 1943. Liberazione dell’Italia meridionale e della Sardegna da parte
degli alleati. Nascita delle prime formazioni partigiane nel centro-nord. Colloqui
di Mussolini con responsabili nazisti in Germania.
15-16 settembre 1943. Primo convoglio di deportazione di ebrei arrestati in
Italia (da Merano) e primi eccidi di ebrei nella penisola (sulla sponda piemontese
del lago Maggiore); entrambi ad opera dei nazisti.
23 settembre 1943. Costituzione di un nuovo governo fascista guidato da
Mussolini, che assume l’amministrazione dell’Italia centrale e settentrionale
(escluse le Operationszonen ). Successivamente il nuovo Stato viene denominato
Repubblica sociale italiana (RSI).
23 settembre 1943. Una disposizione interna della polizia tedesca inserisce
ufficialmente gli ebrei di cittadinanza italiana tra quelli immediatamente
assoggettabili alla deportazione.
16 ottobre 1943. La polizia tedesca attua a Roma una retata di ebrei, la più
consistente dell’intero periodo. Due giorni dopo vengono deportate ad
Auschwitz 1023 persone.
14 novembre 1943. Approvazione a Verona del «manifesto programmatico» del
nuovo Partito fascista repubblicano, il cui punto 7 stabilisce: «Gli appartenenti
alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a
nazionalità nemica».
30 novembre 1943. Diramazione dell’ordine di polizia n. 5 del Ministero
dell’interno della RSI, decretante l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il
loro internamento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali, il
sequestro di tutti i loro beni (alcune settimane dopo verrà disposta la
trasformazione dei sequestri in confische definitive).
dicembre 1943. Allestimento del campo nazionale di Fossoli, in attuazione
dell’ordine del 30 novembre (i primi ebrei vi vennero trasferiti dai campi
provinciali a fine mese).
4-14 dicembre 1943. Decisione tedesca di riconoscere alla RSI il ruolo principale
nell’organizzazione e nella gestione degli arresti e dei concentramenti provinciali.
5 febbraio 1944. Il capo della polizia della RSI ordina a un prefetto (quello di
Reggio Emilia) di consegnare ai tedeschi gli ebrei arrestati da italiani. Si tratta del
primo ordine esplicito di tal genere oggi conosciuto; pochi giorni dopo il
prefetto risponde comunicando il trasferimento degli ebrei a Fossoli.
19 e 22 febbraio 1944. Partenza dei primi convogli di deportazione da Fossoli
(per Bergen Belsen e Auschwitz) organizzati dalla polizia tedesca. Il campo di
Fossoli si rivela quindi come il punto operativo di cerniera tra RSI e Terzo Reich
per la deportazione.
23 marzo 1944. Eccidio delle Fosse Ardeatine, a Roma; tra i 335 uccisi vi sono
75 ebrei.
4 giugno 1944. Liberazione di Roma. Avanzata alleata nell’Italia centrale.
fine luglio-inizi agosto 1944. Chiusura di Fossoli e trasferimento del campo
nazionale a Bolzano.
24 febbraio 1945. Ultimo convoglio di deportazione di ebrei dall’Italia (da
Trieste per Bergen Belsen).
aprile 1945. Liberazione dell’Italia settentrionale.
ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI 14
La bibliografia generale e specialistica concernente la storia degli ebrei e
dell’antisemitismo in Italia è assai vasta ed è continuamente arricchita da decine
di pubblicazioni ogni anno. Le seguenti indicazioni bibliografiche si limitano
pertanto ad alcuni orientamenti che possano servire da avvio ad eventuali
ricerche più approfondite.
Sono disponibili alcuni repertori bibliografici che offrono un ampio panorama
di titoli: fra questi si segnalano La cultura ebraica nell’editoria italiana (1955-1990).
Repertorio bibliografico, in Quaderni di Libri e Riviste d’Italia n. 27, Ministero per i beni
culturali e ambientali, Roma, 1992 e la più recente Biblioteca italo-ebraica.
Bibliografia per la storia degli ebrei in Italia, 1986-1995, compilata da MANUELA M.
CONSONNI e a cura di SHLOMO SIMONSOHN, Menorah, Roma, 1997.
Esiste inoltre una rivista specializzata, La Rassegna Mensile di Israel, che dal 1925
offre al pubblico articoli specialistici su svariati aspetti della storia e della cultura
ebraica. Per uno sguardo più generale sulla storia degli ebrei e della loro cultura,
con spunti particolarmente indicati a un utilizzo didattico, si vedrà FRANCA
TAGLIACOZZO e BICE MIGLIAU, Gli ebrei nella storia e nella società
contemporanea, La Nuova Italia, Firenze, 1995.
Per quanto riguarda i multiformi aspetti della storia degli ebrei italiani, una
sintesi generale è offerta da ATTILIO MILANO, Storia degli ebrei in Italia,
Einaudi, Torino, 1963 (ristampato nei tascabili, 1991). A questo si è ultimamente
aggiunto CORRADO VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia. Annali 11. Gli ebrei in
Italia, 2 voll., Einaudi, Torino, 1996-97, un’ampia raccolta di saggi specialistici
che affrontano le vicende delle comunità ebraiche nel loro rapporto con la
società italiana dall’alto medioevo ai giorni nostri. Per chi volesse intraprendere
studi specifici sono utili i sei volumi di Italia Judaica, contenente gli Atti dei
convegni internazionali organizzati dalla Commissione mista italo-israeliana per
la storia e la cultura degli ebrei in Italia, Ministero per i beni culturali e
ambientali, Roma, 1983-1998.
La questione dell’antisemitismo, delle sue radici e delle sue conseguenze offre
una bibliografia particolarmente ampia. L’opera fondamentale rimane quella di
LÉON POLIAKOV, Storia dell’antisemitismo, 5 voll., La Nuova Italia, Firenze,
1974-1994 (I: Da Cristo agli Ebrei di Corte; II: Da Maometto ai Marrani; III: Da
Voltaire a Wagner; IV: L’Europa suicida; V: L’antisemitismo nel dopoguerra ). A questa
si possono aggiungere YVES CHEVALIER, L’antisemitismo. L’ebreo come capro
espiatorio, Istituto Propaganda Libraria, Milano, 1991 e GADI LUZZATTO
VOGHERA, L’antisemitismo. Domande e risposte, Feltrinelli, Milano, 1994.
Sui rapporti tra fascismo ed ebrei in Italia è ricco di notizie RENZO DE
FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1961 (ristampato
nei tascabili, 1993). A questo vanno aggiunti studi più recenti, che contengono a
volte interpretazioni differenziate; si indicano fra gli altri SUSAN ZUCCOTTI,
L’olocausto in Italia, Mondadori, Milano, 1988; LILIANA PICCIOTTO
FARGION (a cura di), Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-
1945), Mursia, Milano, 1991; ALEXANDER STILLE, Uno su mille. Cinque
famiglie ebraiche durante il fascismo, Mondadori, Milano, 1991; MICHELE
SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938,
Zamorani, Torino, 1994; ANTONIO SPINOSA, Mussolini razzista riluttante,
Bonacci, Roma, 1994; ANGELO VENTURA (a cura di), L’Università dalle leggi
razziali alla Resistenza, Cleup, Padova 1996; ALBERTO CAVAGLION, Per via
invisibile, Mulino, Bologna, 1998. La questione più generale del razzismo italiano
è ben affrontata nel catalogo della mostra La menzogna della razza. Documenti e
immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Istituto
Beni culturali della Regione Emilia-Romagna, Grafis, Bologna 1994.
Lo sterminio degli ebrei europei è trattato in maniera particolareggiata in
RAUL HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, 2 voll., Einaudi, Torino,
1995. Per un approccio più agile ma ugualmente significativo si vedrà di
BRUNO SEGRE, La Shoah. Il genocidio degli ebrei d’Europa, Saggiatore-
Flammarion, Milano, 1998.
Sui particolari aspetti giuridici riguardanti la legislazione antiebraica si indicano
infine: La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, atti del Convegno nel
cinquantenario delle leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Camera dei
deputati, Roma, 1989; MARIO TOSCANO (a cura di), L’abrogazione delle leggi
razziali in Italia (1943-1987). Reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai valori del
Risorgimento, Senato della Repubblica, Roma, 1988.
Negli ultimi anni la pressante necessità di lasciare testimonianza scritta degli
avvenimenti, dei percorsi personali e delle sensazioni provate nei terribili anni
della persecuzione razzista ha condotto alla pubblicazione di numerosi testi di
memorialistica. Fra questi, a titolo d’esempio, si ricordano ALDO ZARGANI,
Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua, 1938-1945, Mulino, Bologna, 1995;
ROSETTA LOY, La parola ebreo, Einaudi, Torino 1997. Rimangono
imprescindibili i libri di PRIMO LEVI e il breve racconto scritto nel 1944 da
GIACOMO DEBENEDETTI, 16 ottobre 1943, edito ora da Sellerio, Palermo,
1993 con l’aggiunta del racconto Otto ebrei.
Note

[←1]
Ordinario di storia moderna presso l’Università «La Sapienza» di Roma.

[←2]
Studioso di storia ebraica, Consigliere della fondazione Centro di
documentazione ebraica contemporanea di Milano.

[←3]
Coordinatore delle attività della fondazione Centro di documentazione
ebraica contemporanea di Milano.

[←4]
Enzo Levi, Memorie di una vita, 1889-1947, Mucchi, Modena, 1972.

[←5]
Silvia Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute, 1938-1945, Dalmatia,
Roma, 1945.

[←6]
«Relazione alla Giunta della Comunità israelitica di Venezia (23 ottobre
1941)», citata in: Renata Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una
comunità tra persecuzione e rinascita, il Cardo, Venezia, 1995, p. 95.

[←7]
Ernesta Bittanti Battisti, Israel-Antisrael. Diario 1938-1943, Manfrini,
Trento, 1984.

[←8]
Giorgina Segre, Gli ebrei nella Repubblica sociale italiana, Archivio della
fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano,
Fondo Raffaele Jona.

[←9]
La Nazione del Popolo, a. I, n. 19, 18-19 settembre 1944.
[←10]
Questo documento, pubblicato da tutti i quotidiani del 15 luglio 1938,
era un decalogo «ideologico» che rendeva ufficiale l’esistenza del «razzismo
fascista» e ne fissava le basi teoriche. Il documento venne redatto presso il
Ministero della cultura popolare, su indicazioni di Mussolini; esso è noto
anche come Manifesto degli scienziati razzisti perché fu firmato da dieci
docenti universitari. Il testo qui pubblicato è quello definitivo.

[←11]
La Dichiarazione sulla razza fu approvata il 6 ottobre 1938 dal Gran
Consiglio del fascismo, un comitato di gerarchi che era divenuto organo
costituzionale dello Stato (PNF, Foglio d’ordini n.214). Il documento
enunciava al paese i motivi politici della persecuzione antiebraica, indicava
le linee generali della prossima legislazione, stabiliva che i nuovi principi
erano «fondamentali e impegnativi» per tutti i fascisti (in sostanza: per tutti
gli italiani), enunciava un ricatto interno e internazionale (eventuali proteste
sarebbero state immediatamente seguite da un aggravamento della
persecuzione). La legislazione poi effettivamente varata fu comunque più
grave di quanto preannunciato dalla Dichiarazione, ad esempio
relativamente al trattamento degli ebrei «discriminati».

[←12]
Da Il giornale della scuola media, n. 23, agosto 1939.

[←13]
A cura di Michele Sarfatti.

[←14]
A cura di Gadi Luzzatto Voghera.
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