DEGLI EBREI
DURANTE
IL FASCISMO.
Le leggi del 1938
JACQUES CHIRAC
Presidente della Repubblica francese
La storia e, purtroppo, l’attualità; ce lo insegnano: la causa della tolleranza non è
mai vinta. È una battaglia perenne.
Il nostro secolo è stato quello delle più grandi speranze e delle più tremende
cadute. Ha visto democrazie nascere e poi soccombere e perpetrarsi i crimini più
terribili. Ha visto il genocidio di milioni di innocenti, uomini, donne e bambini
assassinati nei campi della morte perché ebrei. Ha visto governi tradire le loro
tradizioni e le loro ispirazioni per farsi complici dell’indicibile. Dopo le leggi di
Norimberga nella Germania nazista, dopo le «leggi razziali» italiane, il Governo
di Vichy in Francia promulgava a sua volta, nel 1940, le prime leggi anti-
ebraiche. Conosciamo la tragedia che ne seguì.
Oggi un mondo nuovo si profila, un mondo pieno di promesse. Molti paesi,
liberati dai conflitti ideologici di ieri, stanno ormai sperimentando sistemi
democratici. Dovunque, in tutti i continenti, le libertà fondamentali, il rispetto
della dignità individuale, tendono ad imporsi, insieme ai valori democratici.
Troppo spesso ancora, tuttavia, la persona umana è calpestata. Troppo spesso
ancora uomini si combattono e si uccidono perché non condividono la stessa
origine etnica o religiosa, perché non hanno lo stesso colore.
Anche nelle nostre democrazie, dove il rispetto della dignità umana e la
tolleranza ci sembrano fatti scontati, il pericolo permane. Ci sono voci che
lanciano appelli di odio. Dobbiamo vigilare affinché le difficoltà di quest’epoca, i
problemi individuali, l’incertezza per l’avvenire non aprano, oggi come ieri, la via
all’intolleranza.
È una lotta quotidiana che richiede memoria storica, vigilanza, fermezza nei
principi, rigore di giustizia. Ma è una lotta da condurre soprattutto sul terreno
della fratellanza, della generosità, rispondendo agli impulsi del cuore. E
specialmente nei confronti dei giovani che rappresentano il futuro, per insegnare
loro l’Altro, la sua diversità, la sua ricchezza, la sua storia, la sua cultura. Per
insegnare loro a rispettare ed accettare.
Questa lotta, noi la conduciamo anche costruendo l’Europa. Per avvicinarsi e
vivere insieme bisogna condividere l’essenziale, cioè i valori della persona umana
su cui si basa la nostra civiltà. Fare l’Europa significa difendere una certa idea
dell’uomo, significa costruire e consolidare la tolleranza.
BILL CLINTON
Presidente degli Stati Uniti d’America
Desidero rendere omaggio al Parlamento ed al popolo italiano per aver
pubblicato quest’opera così importante.
Sessant’anni fa si aggirava per il mondo un incubo, un incubo che abbiamo
ancora difficoltà a spiegarci. In società apprezzate per la loro cultura e le loro
conquiste, venne dato sfogo ad un tremendo odio religioso, razziale ed etnico.
In tutta Europa gli ebrei furono vittime di attacchi feroci e spietati: dalle leggi
ripugnanti passate in rassegna in questo libro alle azioni violente culminate
nell’orrore dell’Olocausto.
Alla fine del XX secolo, in un periodo di pace e prosperità crescenti, è facile
avere fiducia nel futuro e prevedere che il percorso della storia sarà sempre
ascendente. Di sicuro gli eventi della fine degli anni ’30 e dei primi anni’ 40 non
rientravano in un percorso ascendente. Nazismo, fascismo e razzismo di Stato
costituirono una funesta deviazione dal corso illuminato della civiltà e noi
dobbiamo rimanere sempre vigili per evitare che ciò; si ripeta. Dobbiamo fare il
possibile per vivere insieme come una famiglia globale, orgogliosi delle nostre
differenze ma anche dell’umanità che ci accomuna.
Gli americani hanno appreso dalla loro esperienza unica quanto sia difficile
essere all’altezza degli ideali di uguaglianza e giustizia contenuti nella nostra
Dichiarazione di indipendenza. Ma un’onesta valutazione del passato ci aiuta a
realizzare, per dirla con le parole della nostra Costituzione, «un ’unione più
perfetta» in cui tutti gli americani godano di pari diritti e dignità. Il motto degli
Stati Uniti, ripreso dagli antenati romani, conserva il proprio vigore duemila anni
dopo essere stato scritto: e pluribus unum. Siamo una sola America e la nostra
forza scaturisce dall’essere formati da molte parti.
A sessant’anni dalla legislazione antisemita del 1938, l’Italia e gli Stati Uniti
sono forti alleati, che lavorano incessantemente per arginare la violenza e l’odio
ogni qual volta si ripresentano. Siamo orgogliosi dei milioni di americani di
origine italiana, tra i quali coloro che fuggirono dall’Italia dopo il 1938.
Vogliamo ricordare gli italiani che lottarono per la salvezza dei loro
connazionali, perseguitati semplicemente perché ebrei. Non dimenticheremo
mai i milioni di innocenti morti nell’Olocausto ma che rimarranno eternamente
vivi nel nostro ricordo.
La pubblicazione di questo volume richiama alla memoria uno dei momenti
più bui del secolo che stiamo per lasciarci alle spalle, con un obiettivo
fondamentale: ricordare alle giovani generazioni che la memoria è la chiave della
riconciliazione e che un futuro più luminoso attende coloro che comprendono il
passato.
VACLAV HAVEL
Presidente della Repubblica ceca
Sessant’anni fa, il 29 settembre 1938, Hitler, Mussolini, Daladier e Chamberlain
firmarono a Monaco un accordo che doveva portare all’occupazione da parte
della Germania della zona di confine ceca e più tardi all’occupazione di tutte le
terre ceche.
Con le forze armate tedesche giunsero nelle nostre regioni di confine anche le
leggi di Norimberga. Per migliaia di nostri cittadini, tra i quali gli ebrei, cominciò;
nel terrore l’esodo verso le zone più interne. Coloro che rimasero furono vittime
della «notte dei cristalli» del novembre. L’incendio delle sinagoghe divenne la
conseguenza logica della vittoria a Monaco di Hitler. Seguito naturale del diktat
delle grandi potenze doveva essere, soltanto qualche mese dopo, l’occupazione
di tutta la Boemia e la Moravia, accompagnata dalla sorte atroce degli ebrei
cechi. Non è certo un caso che un anno dopo Monaco avvenne proprio nel
nostro paese la prima deportazione d’autorità in Europa degli ebrei, da Ostrava
a Nisko nella Slesia. L’assassinio degli ottantamila ebrei cechi è stato solo una
parte del più grande eccidio della storia.
La proclamazione ideologica di un gruppo di cittadini come persone di ordine
inferiore, la limitazione dei loro diritti e la loro persecuzione si è trasformata in
isolamento sociale e inoltre in liquidazione fisica. Monaco è stata l’ultima
occasione per provare la solidità della democrazia europea, l’ultima possibilità di
impedire gli sviluppi che dovevano poi portare all’apocalisse dell’Olocausto in
tutta l’Europa. Tragico è il fatto che l’accordo sia stato suggellato non solo dalla
firma dell’alleato di Hitler, Mussolini, ma anche da quella dei rappresentanti dei
più grandi paesi democratici: Francia e Gran Bretagna. È ovvio che noi tutti oggi
dobbiamo studiare le reciproche parti di responsabilità negli avvenimenti di
allora, fossero esse anche soltanto indifferenza o cecità.
Esistono molti motivi per dover continuare a rinnovare il ricordo di quei
terribili avvenimenti. C’è ovviamente il rispetto umano, naturale nei confronti
della sofferenza delle nostre genti e della loro memoria. Ma c’è anche
l’ammonimento perenne e vivo che ci proviene dalla sorte delle vittime di
un’ideologia perversa. Se accettiamo che un determinato gruppo di persone
venga privato dei suoi diritti e della sua stessa dignità umana, apriamo la strada a
conseguenze terribili. Se non siamo pronti ad affrontare il male fin dal suo
insorgere, dalle sue prime manifestazioni anche poco appariscenti, rischiamo che
esso si incancrenisca.
Alla luce di quanto sopra, sono lieto che gli italiani cerchino di analizzare il
proprio ruolo nelle vicende preparatorie della seconda guerra mondiale e nel suo
corso. Sono lieto che anche l’Italia abbia con onore denunciato la sua firma
sotto l’accordo di Monaco, che ha comportato non solo un trauma nazionale
ceco, ma ha dato anche il via libera ai responsabili dell’Olocausto. Lo spirito del
razzismo, del nazionalismo e il rifiuto delle persone di altre culture sono ancora
oggi vivi in Europa. Questi fenomeni non risparmiano neanche la società ceca.
Se oggi parliamo delle cause e delle conseguenze della catastrofe europea della
seconda guerra mondiale, dovremmo cercare al tempo stesso di imparare come
affrontare le attuali manifestazioni dell’odio nazionale.
ROMAN HERZOG
Presidente della Repubblica federale di Germania
Pur essendo passato oltre mezzo secolo dalla fine del nazionalsocialismo e del
fascismo in Europa, non si può; e non si deve dimenticare. Le esperienze della
Germania e dell’Italia, comuni e pur così differenti, obbligano i nostri due paesi
in maniera molto particolare a confrontarsi criticamente con questo periodo e ad
inserire nella memoria storica questa parte del nostro passato.
Oggi noi sappiamo quanto sia importante contrastare fin dall’inizio un
pensiero volto al disprezzo dell’uomo e alla sua emarginazione. Perché il
razzismo quasi istituzionalizzato, che trovò; espressione nelle leggi razziali
tedesche ed italiane, era già il passo verso la radicalizzazione di un sistema
politico totalitario. In entrambi i paesi, non era il punto finale del pensiero e
dell’azione razzista, ma non era soprattutto neanche il punto di partenza.
Nei nostri giorni, questi documenti storici forse non ci sembrano soltanto
ripugnanti, ma anche estranei, appartenenti ad un tempo da molto passato.
Tuttavia, anche oggi, vediamo come ai margini di società pur democratiche il
pensiero razzista cerca di trovare una nuova patria, mascheratamente o
apertamente. La storia mostra quali conseguenze disastrose questo possa avere.
È nostro compito evitare il ripetersi di tale sviluppo, a prescindere da luoghi e
forme. Questo sarà possibile solo se affrontiamo seriamente gli inizi e le
conseguenze del razzismo, che spesso possono manifestarsi in episodi minori,
addirittura banali. Troppo spesso il razzismo viene, con leggerezza, accettato
come fenomeno marginale, senz’altro ripugnante, ma facente inevitabilmente
parte di società anche democratiche. Già questa trascuratezza politica comporta
gravi pericoli per la democrazia.
Di massima importanza, è, quindi, acuire la vista dei giovani affinché
riconoscano il razzismo ed il totalitarismo fin dai loro inizi. Nella prevenzione di
questo grande male del ventesimo secolo, «era degli estremi», è essenziale agire
tempestivamente e con coraggio. Carlo Schmid, uno dei padri della Legge
fondamentale tedesca, ha avuto occasione di dire: «La democrazia è più di un
prodotto di sole decisioni di opportunità, laddove si ha il coraggio di credervi
come a qualcosa di necessario alla dignità dell’uomo. Però se si ha questo
coraggio, allora bisogna trovare anche il coraggio dall’intolleranza rispetto a
coloro che vogliono servirsi della democrazia per ucciderla». In poche parole, la
democrazia deve essere in grado di difendersi.
Noi dobbiamo evitare che le forze antidemocratiche e razziste tornino ad
avere un’opportunità. Con la massima determinazione dobbiamo mettere in
chiaro che con tali forze non ci devono essere, neppure una sola volta,
ammiccamenti di sorta.
OSCAR LUIGI SCALFARO
Presidente della Repubblica Italiana
Sono passati sessant’anni, ma la vergogna rimane; la vergogna di aver umiliato la
Persona Umana discriminandola per “razza” e, la vergogna per il governo
fascista, di essersi comportato da servo della criminosa follia nazista.
Perché ricordarlo? non certo per sentimenti di inutile odio. ma perché il
germe perverso che fu all’origine di quella infame pagina di storia, purtroppo
non muore mai.
È il germe della esaltazione della propria etnia, come di un qualcosa di
superiore che genera “diritti” di predominio sugli altri fino a servirsene nei modi
più aberranti, fino allo sterminio.
Dunque la terribile legge dei tedeschi nazisti è stata questa: noi siamo
superiori e quindi abbiamo ogni potere sulle “razze” dalla nostra distinte e
mediocri.
La terrificante dottrina trovò il suo culmine nell’aggressione, nella
persecuzione, nello sterminio degli ebrei; si trattasse di persone importanti o no,
di anziani o di giovani o di bambini, ciò che importava era sterminarli.
Attenzione giovani! perché il seme della superbia che avvilisce e domina con
immane disprezzo gli altri, è assai difficile da estirpare.
Perché mi rivolgo a voi? perché temo che possa sembrarvi quasi una fiaba,
una terribile fiaba che in questo XX secolo si siano uccisi, con i metodi più
inumani, milioni di esseri umani perché “non di razza ariana”, perché ebrei.
Potrà sembrare a voi l’esagerazione di persone anziane che rievocano con
angoscia e terrore pagine vissute da vicino e vissute la sufficiente senso critico,
senza valutazione serena.
No! la tragedia immane fu tragedia e basta!
Ma purtroppo nell’animo di ogni uomo può covare il me della superiorità, del
super uomo, del disprezzo di colui che è diverso per etnia, per colore della pelle,
per lingua, per cultura, per religione o per atteggiamento spirituale; questo germe
deve essere vinto all’origine, con la formazione umana, con la cultura, con
l’educazione a vivere insieme, tutti esseri umani di pari dignità; deve essere vinto
nelle manifestazioni anche in apparenza più insignificanti e si vince solo
credendo con i fatti nei valori inestinguibili, nei diritti inviolabili dell’uomo.
Oggi tanta parte del mondo ha come fondamento del proprio ordinamento
giuridico la “Persona Umana”.
Tanti Stati si sono impegnati a difenderne i diritti dal primo palpito di vita,
all’ultimo lume del lucignolo che si spegne.
Tanti lottano perché i diritti della Persona siano realtà e non solo
proclamazione; tanti sentono che l’unica vera risposta alle divisioni, alle
sopraffazioni, ai predomini avvilenti e iniqui, è la fratellanza, è la solidarietà, è il
sentirsi parte viva della stessa umana famiglia.
Ma c’è ancora lunga strada da fare: ancora innumerevoli esseri umani sono
privi dei diritti e della stessa dignità di uomini, sono privi della libertà di
coscienza, privi del diritto ad una vita libera e giusta.
Siamo in marcia verso l’Europa delle Persone, l’Europa della Gente che vuole
vivere, operare e camminare insieme.
Il sangue di tanti martiri delle persecuzioni razziali, delle guerre, della violenza
di ogni genere, sarà certamente seme di amore e di Pace se ognuno darà il
proprio contributo con generosità.
Ora, come la libertà si deve difendere e pagare da ciascuno ogni giorno, da
ciascuno che vi creda davvero, così il rispetto dei diritti della Persona deve essere
impegno e vita per chiunque si senta a pieno titolo “cittadino del mondo”.
A voi giovani l’impegno di saper vivere queste verità che sono la fonte della
vera civiltà dell’uomo e di essere pronti a pagare di persona affinché ognuno
possa godere della pienezza della dignità umana.
E qui il mio pensiero va a Coloro, e furono molti, che per difendere la vita di
ebrei perseguitati, misero a rischio la propria.
Nomi noti, Persone che io stesso conobbi, nomi ignoti rimasti nell’ombra.
Giovani: dunque di fronte ad un mare di sangue e di fango, vi fu Chi seppe
vivere da uomo e ne pagò fino in fondo il prezzo.
Non dimenticatelo!
EZER WEIZMAN
Presidente dello Stato d’Israele
Cerco di immaginare cosa siano, per voi giovani italiani del 1998, le leggi razziali
volute dal regime fascista nel 1938. Probabilmente vi sembrano un evento
assurdo, lontanissimo, verificatosi in circostanze completamente diverse da
quelle in cui vivete. Forse vi sembrano qualcosa che non ha più niente a che
vedere con il mondo di oggi. A voi giovani voglio dire: no, purtroppo non è
così.
Certo, tante cose sono cambiate. Oggi sono sempre più numerosi i paesi –
come Italia e Israele – che condividono i valori di democrazia, libertà, rispetto
del diritto, tutela delle minoranze. Ma sono valori, non oggetti. Essi non sono
mai acquisiti una volta per tutte. Ogni generazione ha il compito di
riconquistarli, farli propri e svilupparli oltre l’esperienza della generazione
precedente.
Sessant’anni – solo un momento nella storia millenaria del popolo ebraico –
sono un tempo molto lungo nella vita delle persone. A sessant’anni di distanza
dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia, a poco più di cinquanta dalle
camere a gas e dai forni crematori, c’è il rischio reale che si perda la
consapevolezza di quanto è accaduto. E infatti c’è chi vorrebbe, cancellare la
memoria e negare che la Shoà sia mai avvenuta. Costoro confidano nel
trascorrere del tempo. I testimoni ancora in vita sono sempre meno, i fatti
sembrano sempre più lontani.
Il razzismo esiste ancora e, forse, esisterà sempre. Ciò che non deve più
ripetersi è l’inerzia della società, l’atteggiamento di coloro che, illudendosi di
essere estranei al problema, pensarono di potersene disinteressare, lasciando di
fatto mano libera alla furia del razzismo. Oggi come sessant’anni fa,
l’indifferenza è il primo nemico da cui guardarsi.
Sessant’anni fa nessuno avrebbe pensato all’Italia come a un paese antisemita.
Fra gli italiani il razzismo non era così violento e diffuso come in alcuni altri
paesi d’Europa. Eppure le leggi antisemite furono varate. Tanti, allora,
pensarono di trovarsi di fronte a incidenti minori, di portata trascurabile.
Pensarono che si trattasse di minacce che non sarebbero state attuate, leggi che
non sarebbero state applicate. Invece quei fatti e quelle leggi aprirono la strada
alle deportazioni e ai massacri, fino a travolgere milioni di vite innocenti. Il
coraggio personale di molti non ebrei, anche italiani – noi li chiamiamo «giusti
fra le nazioni» – che si prodigarono per salvare i loro fratelli perseguitati non
poté impedire l’immane tragedia.
Non possiamo parlare a nome delle vittime. Come ebreo e come israeliano
posso piangere le vittime, posso commemorarle, non posso perdonare al posto
loro. Ciò che posso fare è chiedere a tutti, e soprattutto a voi giovani, di
dedicarsi al futuro nella piena consapevolezza del passato. Sta a voi, oggi,
scorgere i segni del pregiudizio, di quella diffidenza che si trasforma in ostilità e
poi genera discriminazione e, talvolta, violenza. Sta a voi fermare ogni deriva
razzista, identificare questi fenomeni con onestà e coraggio e bandirli da voi,
affinché non abbiano a crescere e diffondersi. Per questo è particolarmente
meritoria l’iniziativa del Presidente della Camera dei deputati di pubblicare un
libro espressamente rivolto ai giovani. Sono certo che quest’opera, insieme al
costante impegno di insegnanti ed educatori, vi permetterà di raccogliere la
testimonianza e di farla vostra.
Questo secolo che volge al termine è stato il secolo terribile cui i nazisti e i
loro alleati hanno messo a ferro e fuoco l’intero pianeta e hanno distrutto gran
parte del mio popolo. Ma anche il secolo che ha visto la rinascita del popolo
ebraico e soprattutto l’affermarsi del sionismo, il risorgimento nazionale ebraico,
in quella Terra d’Israele dove il popolo ebraico era nato. Esattamente
cinquant’anni fa il mio popolo ha riacquistato l’indipendenza, libertà e dignità,
ed ora vede finalmente profilarsi una speranza di pace. I miei antenati hanno
descritto la pace con un’espressione ebraica che ogni mediorientale capisce al
volo: «Ognuno riposerà nella propria vigna e sotto il proprio albero di fichi». È
un’immagine molto bella, ma oggi non è più sufficiente riposare all’ombra del
proprio albero. Oggi sappiamo che la coesistenza pacifica non è un dato di fatto:
è un processo dinamico, da costruire nei rapporti fra le persone e fra le nazioni,
un processo che ci deve vedere tutti impegnati, giorno dopo giorno, con
l’intelligenza, con il sapere, e con l’amore.
I. LE PREMESSE STORICHE
Corrado Vivanti 1
GLI EBREI NELLA STORIA D’ITALIA
Chi erano quegli «italiani di razza ebraica» che nell’autunno del 1938 vennero
colpiti dai primi decreti persecutori del regime fascista, a cominciare proprio
dall’espulsione dalle scuole del regno? Che non fossero molti, se ne aveva in
generale consapevolezza, anche se, quando le cifre venivano enunciate, ci si
meravigliava della loro esiguità: all’incirca 40.000 su una popolazione
complessiva di 40 milioni; in effetti, per la maggior parte gli ebrei risiedevano
nelle città dell’Italia centrosettentrionale e per questo la loro consistenza poteva
apparire superiore alla loro effettiva entità.
Emancipazione ed eguaglianza
I primi accenni di cambiamento si hanno solo nel Settecento: la pubblicistica
ispirata all’illuminismo, attenta ai problemi economici della società, comincia a
indicare nei ghetti e nelle restrizioni imposte all’attività degli ebrei una remora
per lo sviluppo del paese; convinto di questo, l’imperatore Giuseppe II
promulga nel 1781 una «patente di tolleranza», di cui nei suoi domini italiani
beneficiano soprattutto gli ebrei di Mantova e di Trieste: essa concede il libero
esercizio di varie attività, l’iscrizione alle scuole pubbliche e, con alcune
limitazioni, anche all’università. Il cambiamento più radicale avviene però con
l’ingresso in Italia dell’armata francese al comando di Napoleone Bonaparte, che
fra il 1796 e il 1799 occupa quasi tutta la penisola: in omaggio ai principi
egualitari della Rivoluzione, vengono abbattuti i portoni dei ghetti e vengono
promulgati decreti che sanciscono la piena equiparazione: «Considerando che i
principi della Repubblica francese respingono le distinzioni che tengono a
stabilire differenze fra i cittadini, si decreta che gli ebrei godranno i medesimi
diritti che gli altri cittadini».
Non ci soffermeremo sui vari mutamenti che avvennero in quel periodo: basti
dire che questo stato di libertà per gli ebrei rimase in vigore per tutti gli anni in
cui durò il dominio napoleonico, ossia fino al 1814. La restaurazione dell’antico
regime fu pertanto una vera e propria catastrofe per coloro che avevano provato
che cosa significasse vivere in condizioni di eguaglianza. Tanto più che un
fenomeno merita di essere qui indicato: nel Cinquecento, al momento
dell’istituzione dei ghetti, la popolazione che vi veniva rinchiusa era
estremamente varia, poiché alle famiglie italiane di antica data erano venute ad
aggiungersi, come si è detto, gruppi, spesso consistenti, di tedeschi, di francesi e
provenzali, di sefarditi e di marrani, e questi ultimi vi giungevano sovente non
direttamente dalla penisola iberica, ma dopo essere passati attraverso i territori
africani o levantini dell’Impero ottomano, oppure dai Paesi Bassi. Tutti questi
diversi gruppi differivano fra loro per tradizioni, per costumanze, e anche per
lingua: yiddish e spagnolito, francese, portoghese e arabo risuonavano frequenti
entro le mura dei ghetti. E tuttavia, di tante diversità non sembra restassero
molte tracce, fuorché certe particolarità rituali o talune abitudini alimentari,
all’arrivo in Italia degli eserciti rivoluzionari francesi. Gli ebrei usciti dalle mura,
che pure avrebbero dovuto segregarli dal rimanente della popolazione, si
unirono senza difficoltà agli altri italiani: un segno della loro permeabilità alle
consuetudini e ai modi di vivere del paese ospitante, nonostante l’emarginazione,
e al tempo stesso una prova della coesione profonda della nazione italiana,
anche prima di diventare Stato, se le sue consuetudini e la sua lingua si
mostrarono capaci influire così profondamente su quei gruppi vissuti fino allora
isolati.
Ritornare all’antica condizione umiliante di diseguaglianza non poté non
essere penoso. Particolarmente dure furono le restrizioni imposte nello Stato
pontificio e nel Regno di Sardegna (questo il nome assunto dai domini dei
Savoia fin dal Settecento), dove vennero ripristinate tutte le limitazioni e le
segregazioni dell’età prerivoluzionaria. Tuttavia, soprattutto nel Regno sabaudo,
non fu possibile applicare in tutto il loro rigore quei decreti persecutori, perché
diverse erano ormai le condizioni generali: ad esempio, le imprese che
operavano nei porti di Genova e di Nizza, le attività tessili introdotte in alcuni
centri piemontesi, i capitali che il prestito ebraico aveva immesso nelle
campagne, difficilmente potevano essere cancellati con un decreto. Anche in
Toscana e nel Lombardo-Veneto erano avvenuti cambiamenti analoghi, ma qui i
governanti furono, per questo aspetto, meno retrivi. In altre parole, salvo che a
Roma, non poterono essere applicate norme particolarmente rigide di esclusione
e segregazione. Ciò nondimeno, le limitazioni imposte agli ebrei – quelle
denunciate da un grande patriota e pensatore milanese, Carlo Cattaneo, come
«interdizioni israelitiche» – apparivano profondamente lesive delle nuove idee di
civiltà e di progresso da cui erano animati gli spiriti liberali. Se Cattaneo le
mostrava più che nella loro ingiustizia, nella loro dannosità, perché impedivano
il libero e socievole «consorzio» che è alla base di ogni sviluppo economico, e
scherniva coloro che parlavano di «fisica degenerazione» e di comportamenti
dovuti alle «razze», dicendoli capaci soltanto di «scrivere l’istoria dei cavalli e dei
cani», Giuseppe Mazzini sentiva il bisogno «di alzare la voce contro un’eccezione
tanto ingiusta quanto retrograda, qual è quella con cui si perseguitano ancor oggi
i seguaci della legge di Mosé». Lo spirito umanitario che animava Massimo
d’Azeglio, sdegnato davanti allo squallido spettacolo del ghetto di Roma, lo
spingerà a indirizzare a papa Pio IX lo scritto Sulla emancipazione civile degli israeliti,
mentre il sacerdote e filosofo (poi, nel 1849, Primo Ministro del Regno di
Sardegna) Vincenzo Gioberti, giudicava sorpassato «il tempo in cui una brutale
filosofia insultava quegli infelici, predicandoli incapaci ed di indegni di godere i
beni comuni».
Le rivoluzioni del 1848 avrebbero dato una spallata decisiva alle leggi
discriminanti. Ma per capire quanto fosse difficile accettare il principio
dell’eguaglianza fra gli abitanti di uno Stato, andrà ricordato che per garantire a
tutti i sudditi del Regno di Sardegna la parità dei diritti non fu sufficiente lo
Statuto concesso da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, ma furono necessari alcuni
provvedimenti successivi. In particolare, per gli ebrei, solo il 29 marzo il Re
dispose che essi potessero godere dei diritti civili, e sarà poi necessaria una legge,
votata dal Parlamento il 19 giugno di quell’anno, perché fossero loro pienamente
assicurati anche i diritti politici. Nel loro insieme tali provvedimenti – estesi nel
1859-60 alle regioni annesse al Regno di Vittorio Emanuele II – ebbero effetti
liberatori: si comprende perciò l’entusiasmo con cui gli ebrei, pienamente
«emancipati» – come si disse con un termine che ricordava la loro precedente
condizione quasi servile – parteciparono alle lotte del Risorgimento, sia nelle file
dell’esercito piemontese, sia fra i volontari garibaldini. Alcuni di loro, come
Isacco Artom o Giacomo Dina, furono stretti collaboratori del conte di Cavour,
mentre, su un diverso fronte politico, Mazzini poté contare su una salda rete di
appoggi in ambiente ebraico: ancora nel 1872, quando, a Pisa, nei suoi ultimi
giorni, il pensatore repubblicano era costretto a nascondersi alla polizia del
Regno d’Italia, era ospitato da Giannetta Nathan Rosselli, il cui fratello, Ernesto
Nathan, sarà dal 1907 al 1913 sindaco di Roma, e i cui pronipoti, Carlo e Nello
Rosselli, uccisi nel 1937 da agenti fascisti, furono i fondatori del movimento
Giustizia e Libertà.
Nel volgere di pochi anni, l’inserimento degli ebrei nella società italiana portò
rapidamente alla scomparsa degli antichi modi di esistenza, non di rado
umilianti, e vide l’affermarsi di professionisti, di imprenditori, di uomini politici,
di docenti nelle scuole e nelle università.
Come ha notato Attilio Milano, autore di un’importante Storia degli ebrei in
Italia (1963), «che un gruppo così minuscolo e per molto tempo così chiuso
come quello ebraico abbia dato, subito dopo la sua liberazione [dai ghetti], una
fioritura così notevole di personalità, non può essere giudicato del tutto casuale».
A ciò contribuirono indubbiamente talune particolarità della vita ebraica, quali
l’alto livello di alfabetizzazione (nel 1861, l’analfabetismo di tutto il paese
arrivava al 65 per cento, mentre quello particolare ebraico era limitato a meno
del 6 per cento), e al tempo stesso «una sorta di eredità inconscia» come «l’abito
della meditazione e dello studio, la ripugnanza per ogni manifestazione di
ingiustizia, le norme profilattiche dettate dalla Bibbia, l’esercizio di forme
complesse di assistenza sociale, e infine la serenità davanti agli intermittenti colpi
di sventura». Già nel 1871 undici erano i deputati ebrei alla Camera, e cinque
anni dopo veniva nominato il primo senatore ebreo (i senatori erano di nomina
regia e a vita), lo scrittore risorgimentale Tullio Massarani: vari altri entreranno
in Senato negli anni successivi. Nella vita politica va ancora ricordato Luigi
Luzzatti, Presidente del Consiglio dei ministri nel 1910, dopo essere stato più
volte Ministro del tesoro; all’inizio del secolo il generale Giuseppe Ottolenghi fu
Ministro della guerra, e durante la prima guerra mondiale il triestino Salvatore
Barzilai fu Ministro per le terre irredente, mentre nel primo dopoguerra
Lodovico Mortara divenne Ministro della giustizia e degli affari di culto. Fra i
dirigenti del socialismo nel primo Novecento vanno ricordati Claudio Treves ed
Emanuele Modigliani, fratello del grande pittore Amedeo. Se in ambito letterario
troviamo personalità come Italo Svevo e Umberto Saba, e negli studi storici e
linguistici gli apporti di Alessandro D’Ancona e di Isaia Graziadio Ascoli, nel
campo scientifico i matematici Vito Volterra e Tullio Levi-Civita aprirono nuove
vie alla ricerca fisica, mentre a Guido Castelnuovo è stato intitolato l’Istituto di
matematica della Sapienza di Roma; parimenti, in un’attività tradizionalmente
praticata dagli ebrei, la medicina, numerosi furono gli insigni maestri.
Come ancora osserva Attilio Milano, la consapevolezza di appartenere a una
cultura religiosa diversa rimase sempre sensibile in questi ebrei così
profondamente integrati nella vita nazionale, e tuttavia si nota un loro
accentuato distacco dalle norme rituali della loro particolare tradizione. Questo
fenomeno, che venne detto di «assimilazione», apparve il naturale sbocco del
processo attraverso il quale una minoranza esclusa per secoli dal comune
consorzio si inserì nella vita della nazione, costituitasi in unità statale negli stessi
anni in cui gli ebrei avevano acquisito il diritto di farne parte. L’Italia era stata
infatti costruita, nel corso del secolo XIX, raccogliendo congiuntamente
popolazioni dal passato diverso, ma unite da un insieme di sentimenti, di ideali,
di interessi comuni, maturati in un lungo arco di anni e affermati attraverso una
difficile, sanguinosa lotta per arrivare all’indipendenza e ad un regime di libertà.
Sono ben noti i versi di Manzoni: «siam fratelli, siam stretti ad un patto, |
maledetto colui che l’infrange ...» Quando nel 1938 vennero emanate le «leggi
razziali», il governo fascista e il re, che con la sua firma convalidò quei decreti,
incrinarono consapevolmente quei vincoli di unità nazionale, in netta
contraddizione con l’operato del movimento risorgimentale: venne infatti allora
isolata e arbitrariamente esclusa dalla comunità nazionale una delle sue
componenti, violando il patto a cui gli ebrei, con la loro azione e la loro
operosità, avevano mostrato di attenersi lealmente.
Gadi Luzzatto Voghera 2
L’ANTISEMITISMO IN EUROPA E IN ITALIA TRA
LE DUE GUERRE
Mia nonna Bruna, quando era ancora una giovane sposa di ventisei anni, aveva
l’abitudine di trascorrere una sera alla settimana ad ascoltare la radio che
trasmetteva un’opera lirica. Spesso venivano date opere famose, delle quali già
possedeva il libretto, ma quel giorno era prevista l’esecuzione del Signor Bruschino,
un’opera buffa di Gioacchino Rossini, che non aveva mai sentito. Così decise di
acquistare il libretto dell’opera. Qualcosa, tuttavia, le impedì di ascoltare la sua
radio; già da qualche tempo il regime fascista aveva emanato i Provvedimenti per
la difesa della razza italiana (17 novembre 1938) che avevano sancito per legge
l’emarginazione della minoranza ebraica dalla società civile: espulsione dalle
scuole, dall’esercito, dagli impieghi pubblici e tutta una serie di altre limitazioni
illustrate nella seconda parte di questo volume. Fra i provvedimenti presi, uno
colpiva nello specifico la possibilità di svago serale di mia nonna: agli ebrei
veniva fatto divieto di possedere apparecchi radiofonici, sicché quella sera Bruna
e suo marito Giorgio invece di trascorrere ore liete ad ascoltare musica
dovettero portare la propria radio (della quale andavano assai orgogliosi essendo
uno dei più bei regali di matrimonio che avevano ricevuto) alla vicina stazione di
polizia. Il funzionario, gentilmente, disse loro di non preoccuparsi, che si
trattava certamente di un provvedimento transitorio e che avrebbero presto
riottenuto il loro apparecchio... ma non fu così. Il libretto dell’opera rimase
inutilizzato nella libreria di Bruna e Giorgio, e la radio restò sequestrata, segno
visibile e inutilmente fastidioso della progressiva e sempre più dura
emarginazione degli ebrei.
Ma come si era giunti a vietare a un italiano su mille l’utilizzo della radio?
Cosa poteva aver spinto un regime politico a far cancellare i nomi dei medesimi
cittadini dagli elenchi telefonici del regno? Come si era giunti, insomma, a
colpirli con quell’insieme di provvedimenti persecutori che costituirono la
legislazione razziale? Quali erano – se c’erano – le ragioni che avevano indotto il
regime fascista a inaugurare una politica di antisemitismo in un paese come
l’Italia, in cui l’avversione contro gli ebrei esisteva al massimo nella sua
espressione di antigiudaismo religioso? E l’Italia era isolata nella sua politica
antiebraica o esistevano altre situazioni di antisemitismo razzista in Europa?
L’ascesa del fascismo e dei regimi totalitari in Europa
Alla fine del primo conflitto mondiale (1918) in Europa già da tempo era
percepibile un diffuso senso di instabilità e di insicurezza, dovuto ad alcuni
precisi elementi che proprio in quegli anni erano emersi con particolare
chiarezza. Se la rivoluzione comunista dell’ottobre 1917 in Russia aveva
seminato il panico in ampi settori sociali e politici dell’Occidente, la
contemporanea perdita di centralità dell’Europa, dopo secoli di incontrastato
dominio sul piano dello sviluppo economico e tecnologico e dell’elaborazione
culturale, fu uno dei fattori determinanti della crisi. Inghilterra, Francia e Italia
avevano vinto la guerra solo con l’aiuto insostituibile degli Stati Uniti che
rifornirono il vecchio continente con derrate alimentari e armamenti, giungendo
nel 1917 ad intervenire direttamente nel conflitto. Dopo la sconfitta, la
Germania si trovò costretta ad affrontare spese di risarcimento astronomiche,
cui riuscì a far fronte solo grazie ai prestiti americani; situazioni non dissimili
dovettero affrontare le potenze vincitrici, che si trovarono di fronte al problema
di dover riconvertire le industrie belliche e risanare ampie aree devastate dal
conflitto, e che anche in questo caso ricorsero ai prestiti americani. Ma fu sul
piano politico che dal 1918 si ebbe chiara la percezione che fosse cambiato
qualcosa. Le strutture dell’antico regime aristocratico erano andate
definitivamente in frantumi. Erano scomparsi tre imperi: quello tedesco, quello
russo degli zar e l’Impero austro-ungarico. A questi elementi di disgregazione si
era aggiunto il collasso definitivo dell’Impero ottomano (agonizzante dalla
seconda metà del secolo precedente); le potenze europee – in particolare Francia
e Inghilterra – si erano spartite i resti di territori mediorientali quali Siria, Iraq,
Palestina ed Egitto, e si era quindi aperta un’area mediterranea altamente
instabile. Ai contrasti di interesse si aggiungevano forti attriti determinati
dall’infittirsi degli insediamenti ebraici in Palestina e dalla parallela crescita di un
nuovo nazionalismo arabo. Tutto questo non mancò di avere ripercussioni
anche sulle vicende dell’antisemitismo europeo.
L’insieme di questi rivolgimenti aveva contribuito in maniera decisiva ad
aumentare un diffuso senso di insicurezza. Per tornare a una situazione
riconoscibile sul piano degli assetti politici e sociali, a un momento di fuoriuscita
dal caos che si era determinato con gli anni del primo dopoguerra, iniziò a farsi
strada nella società di massa un nuovo elemento che di recente è stato definito
«mentalità totalitaria». Negli ambienti dell’élite politica ed economica, in ampi
strati della borghesia urbana, e spesso anche in settori del mondo contadino e
operaio, si diffuse il desiderio di giungere a un ordinamento politico autoritario e
trasparente, che mettesse fine all’incertezza anche al prezzo della perdita di
quella libertà personale che era stata la bandiera politica del liberalismo e delle
democrazie parlamentari. Non è qui la sede per dare un quadro particolareggiato
del sorgere di regimi fascisti e totalitari in Europa. È però importante ricordare
che questi sorsero come risposta non occasionale a una precisa richiesta di
ordine politico e sociale presente diffusamente nel vecchio continente. Il primo
regime nacque proprio in Italia all’inizio degli anni ’20: Benito Mussolini, un
giornalista di formazione socialista, dette vita a un movimento politico che fece
della violenza la principale arma di dialettica e che, dopo una serie di
intimidazioni culminate con la cosiddetta marcia su Roma (ottobre 1922) e con
l’assassinio del principale esponente dell’opposizione socialista, Giacomo
Matteotti (giugno 1924), sfociò nella creazione di un vero e proprio regime con
l’esclusione di ogni forma di opposizione politica e con la forzata
irreggimentazione della società. La stampa controllata, un accentuato dirigismo
economico, il mondo del lavoro organizzato rigidamente e privato di autonomia,
l’arresto o l’espulsione degli oppositori, l’esercito e la politica estera impostati
secondo un’ottica di forte aggressività ed espansionismo, furono gli elementi che
caratterizzarono il fascismo italiano e il suo regime totalitario.
Al fascismo italiano seguirono negli anni ’20 e ’30 numerosi altri fascismi, che
sebbene fossero il frutto di storie e vicende autonome, rivendicarono le analogie
che li ricollegavano al primo. In certi casi i movimenti fascisti riuscirono a
raggiungere il potere e ad instaurare regimi totalitari per vie legali, come avvenne
in Germania con Hitler, oppure in seguito a pronunciamenti militari e una
guerra civile, come accadde in Spagna con Francisco Franco. Invece in altri paesi
le formazioni politiche fasciste non riuscirono a conquistare il potere e rimasero
componenti spesso violente e intolleranti del panorama politico, come in
Francia fino all’occupazione tedesca e alla costituzione dello Stato-fantoccio di
Vichy nel 1940. In ogni caso, fossero o no al governo, i movimenti fascisti
condivisero una componente ideologica di fondamentale importanza per la
comprensione delle dinamiche dell’antisemitismo fra le due guerre mondiali. Per
aver presa sulla società di massa, essi utilizzarono le paure più diffuse
trasformandole in parole d’ordine politiche. Uno dei timori più comuni era
senza dubbio quello della presenza di forze oscure e non conoscibili che
manovravano dietro le quinte gli scenari della politica e dell’economia. La
massoneria e la plutocrazia (cioè il potere del denaro) furono in generale gli
obiettivi delle campagne di sensibilizzazione politica delle masse organizzate dai
fascismi (fu probabilmente questa una delle ragioni per cui il fascismo italiano
appena giunto al potere pose fuori legge la massoneria). Rientra in questo
contesto anche l’antisemitismo, l’ostilità verso un ebraismo immaginario, creato
e descritto come strumento ideale di propaganda politica secondo percorsi
ampiamente sperimentati nella seconda metà dell’Ottocento, ma che proprio fra
le due guerre si concretizzarono in vere e proprie misure politiche e giuridiche le
cui conseguenze, come vedremo, furono incalcolabili per gli ebrei «non
immaginari» che solo da pochi decenni erano stati emancipati e avevano avuto
accesso alla società civile dopo secoli di segregazione.
L’antisemitismo in Europa
L’utilizzo politico dell’ostilità antiebraica – diffusa in Europa soprattutto nei suoi
risvolti religiosi (l’ebreo era, per le Chiese cristiane, il responsabile eterno della
morte di Cristo, il deicida che andava punito e segregato) – non era un elemento
nuovo nel vecchio continente. Nelle prediche in chiesa e nelle pubblicazioni che
la libertà di stampa, ottenuta sul finire del secolo XIX, aveva contribuito a
moltiplicare e diffondere, spesso e volentieri trovavano spazio espressioni
diffamatorie nei confronti dell’ebraismo:
«La malefica azione – si legge sulla rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica nel
1881 – della razza giudaica contro tutti gli altri popoli, specialmente cristiani, in
mezzo ai quali è costretta a vivere dispersa, non è soltanto ... religiosa e politica;
bensì essa è ancora specialmente criminosa, cioè esercitantesi con veri e propri
delitti considerati, od almeno dovuti considerare dagli ebrei come doveri di
religione, precetti della legge e sfogo di pietà e divozione».
Su questa linea, alla fine dell’Ottocento le Chiese cristiane avevano spesso
appoggiato o non ostacolato pubbliche manifestazioni di antisemitismo.
Già dalla seconda metà del secolo numerose espressioni di propaganda, alle
quali seguivano a volte veri e propri episodi di violenza, avevano dimostrato che
l’antisemitismo era utilizzabile efficacemente come strumento di azione politica.
In Francia, in Germania, in Austria, raramente anche in Italia, ma soprattutto in
Europa orientale, la pressione contro le comunità ebraiche si era fatta
insopportabile. Le violenze provocarono fra gli ebrei russi le più gravi
sofferenze: nella Zona di residenza – un’area che andava dal mar Baltico alla
Crimea dove gli ebrei erano costretti a risiedere – decine di migliaia di persone
subirono un’ondata di violenza nel 1881, a seguito dell’assassinio dello zar
Alessandro II che fu attribuito a rivoluzionari ebrei. Vi furono numerose
vittime. A migliaia rimasero senza casa, oltre centomila senza lavoro. Ciò
nonostante, invece di punire responsabili delle violenze antisemite, il Governo
russo emanò una serie di norme duramente restrittive nei confronti della
popolazione ebraica: fra il 1882 e il 1891 gli ebrei furono costretti a concentrarsi
in un numero limitato di città e villaggi, venne loro vietato l’acquisto di terre e
beni immobili, fu fortemente limitato l’accesso alle università. La decisa svolta
repressiva antisemita provocò nelle masse di ebrei russi (circa 5 milioni) un
situazione di grave disagio e una generale sensazione di insicurezza: ebbe così
inizio quel massiccio esodo che tra la fine de l’Ottocento e i primi decenni del
secolo successivo determinò da un lato la nascita della comunità ebraica
americana (oltre milioni di immigrati) e il forte mutamento demografico di
comunità europee come quella tedesca, quella francese e quella inglese (circa
200mila profughi), e dall’altra le prime forme di emigrazione nazionale ebraica
che diedero il via all’insediamento in Palestina (circa 60mila immigrati fino agli
anni ’20).
Con lo zar Nicola II la situazione, già di per sé precaria, divenne se possibile
ancora più esplosiva. L’ideologia antisemita entrò decisamente nel programma
governativo, e nei primi anni del Novecento gli atti di persecuzione antiebraica
costituirono una manifestazione costante del panorama politico e sociale russo.
Diverse organizzazioni nazionaliste – fra cui la più nota fu quella dei cosiddetti
Cento neri – organizzarono una nuova ondata di pogrom (così si chiamavano, con
parola russa, i saccheggi e i massacri) a partire dalla comunità di Kišinev (1903)
dove vennero assassinati una cinquantina di ebrei, centinaia ne vennero feriti e la
maggior parte delle abitazioni venne distrutta. Nel 1905 violenze e saccheggi
coinvolsero numerosissime altre località abitate da ebrei, provocando la morte di
centinaia di persone. Non stupisce se proprio in questo clima fecero la loro
prima comparsa i Protocolli dei savi anziani di Sion.
Dopo la parentesi della grande guerra le violenze antisemite ripresero in varie
parti d’Europa, anche se in misura minore. Furono gli anni, lo abbiamo già visto,
della grande diffusione delle numerose traduzioni dei Protocolli; la rivoluzione
russa del 1917 e i successivi tentativi rivoluzionari comunisti in Germania e in
Ungheria diedero nuova linfa alla tesi cara all’antisemitismo politico di un piano
universale, ordito da una fantomatica «Internazionale giudaica» che in questa
fase si sarebbe servita delle rivoluzioni comuniste per sovvertire l’ordine
costituito. In questo quadro il leader del partito nazionalsocialista tedesco, Adolf
Hitler, scrisse il testo che rappresenterà la base programmatica dell’azione
politica del movimento da lui capeggiato, Mein Kampf (La mia lotta). La sua prosa
era fortemente influenzata dal consolidato linguaggio dell’antisemitismo politico
moderno e buona parte dei temi legati all’idea di complotto ebraico erano ben
presenti e visibili nell’intera opera.
È particolarmente interessante stabilire un parallelo fra i temi proposti dai
Protocolli e le linee di azione e di interpretazione della società praticate dal futuro
dittatore nazista. Abbiamo in primo luogo notato come uno degli strumenti
individuati dalla teoria del complotto ebraico per indicare le modalità di azione
di conquista del potere da parte degli ebrei fosse la democrazia liberale. Hitler
prendeva così le mosse proprio dalla critica alla democrazia, giudicata inadatta ad
«arrestare la conquista del mondo da parte degli ebrei». Abbiamo anche visto
come l’ebraismo fosse stato accusato di utilizzare nuove forme di pensiero
destabilizzante, fra le quali il marxismo, per attuare il suo piano di conquista (è
da notare che alla radice dell’identificazione pregiudiziale ebraismo=comunismo
si ponevano da un lato le origini ebraiche di Marx, e dall’altro la presenza ai
vertici del partito bolscevico in Russia di numerosi intellettuali ebrei).
Cavalcando, non senza abilità, il diffuso timore per la rivoluzione, Hitler
sottolineava questo punto, proponendo poi la propria linea di nazionalismo
razzista come l’unica praticabile per potersi opporre con efficacia al minacciato
disegno criminoso ebraico:
«La società borghese è marxista – affermava con voluto paradosso il leader
nazista –, ma ritiene possibile un dominio di alcuni gruppi umani (borghesia),
mentre il marxismo tende regolarmente a mettere il mondo nelle mani degli
ebrei. Invece; l’idea nazionale razzista ammette il valore dell’umanità nelle sue
originarie condizioni di razza».
L’idea di purezza razziale, vera ossessione che traspare da ogni pagina del
Mein Kampf, era direttamente contrapposta ad uno dei principi della rivoluzione
francese, l’eguaglianza, che nell’ottica di Hitler sarebbe stata utilizzata dagli ebrei
per mettere in pratica i propri propositi.
Più oltre, l’opera si faceva sempre più esplicita nella rivendicazione
dell’antisemitismo come fine politico del partito nazista e utilizzava tutto il
tradizionale bagaglio di parole d’ordine antiebraiche con l’intento di indicare al
lettore la necessità della salvezza della nazione e della razza tedesca da un
mortale attacco internazionale ordito dagli ebrei:
«L’attuale istigatore al globale annientamento della Germania è l’ebreo. In
qualunque parte si pensi a battere la Germania, ci sono come aizzatori gli ebrei.
Ugualmente, nei periodi di guerra e di pace, i quotidiani ebraici, borsistici e
marxisti, rinfocolano per strategia il rancore contro la Germania. ... L’idea
ebraica è limpida. La bolscevizzazione della Germania, ovvero l’annullamento
del genio nazionale tedesco, e l’indebolimento conseguente, della potenza
lavorativa tedesca da parte dell’economia mondiale ebraica, è vista soltanto come
l’inizio dell’idea ebraica che è quella di impadronirsi della Terra».
Si ode in queste frasi l’eco recente del testo dei Protocolli, con i temi consueti
della stampa dominata dagli ebrei, del dominio ebraico del denaro e del segreto
disegno di dominio del mondo.
Si è molto discusso fra gli storici sul peso reale dell’antisemitismo nell’azione
politica di Hitler e del nazismo. Per quanto riguarda il secondo, per lo meno nei
primi anni, fino alle leggi antiebraiche di Norimberga del 1935, la propaganda
antiebraica venne utilizzata in maniera strumentale e spesso incoerente. Ci si
accorgeva, in fondo, che mentre in alcune realtà sociali ricorrere a parole
d’ordine antisemite poteva risultare positivo per la rispondenza di queste con
sentimenti pregiudiziali diffusi fra la popolazione, in altre e differenti realtà gli
stessi slogan provocavano indifferenza o addirittura reazioni negative.
Il ruolo dell’antisemitismo per Hitler rappresenta invece ancora oggi un
enigma; il Führer era letteralmente ossessionato dagli ebrei. Sono rari i suoi
discorsi e scritti che non contengano un riferimento al pericolo ebraico, e
attorno a questo elemento continuano a confrontarsi schiere di storici e
psicologi. Alcuni vi ritrovano una visione paranoica della realtà, provocata dalla
morte della madre che era stata in cura da un medico ebreo; altri lo pensano
perseguitato dal sospetto di aver avuto un nonno ebreo. Quale che fosse la
profonda ragione psicologica dell’ossessione antiebraica di Hitler, il fatto è che
egli costruì una propria visione del mondo nella quale l’ebreo era di fatto
collocato al vertice di un complesso sistema di complotti formato dal
comunismo e dalle democrazie parlamentari, unite e manovrate per annientare la
Germania e il popolo tedesco. La sua idea di Lebensraum, ossia la necessità per il
popolo tedesco di conquistarsi uno «spazio vitale» nei territori dell’Europa
orientale, espressa compiutamente nel cosiddetto Libro segreto scritto nel 1928 e
rimasto inedito, si andò così coniugando con una più generale e complessiva
lotta contro l’ebraismo, forza che egli intravvedeva come reale e oscura
manovratrice di tutte le manifestazioni e i movimenti potenzialmente
antitedeschi. Di fatto la politica estera, e, dopo breve tempo, anche interna,
ispirata da Hitler, pretese di fare della questione ebraica uno dei punti
fondamentali da risolvere.
Ampia parte della Germania – dove nel 1933 nel giro di pochissimi mesi era
stata conculcata ogni forma di libera e democratica espressione di pensiero –
sembrò comunque disposta a seguire le idee del nazismo e in particolare le
misure restrittive delle libertà civili per gli ebrei dettate dall’ideologia antisemita.
La progressione nelle decisioni di emarginazione dalla vita sociale, unita alle
continue e reiterate violenze antiebraiche, stabilì un clima che riportava la storia
indietro di oltre un secolo, quando gli ebrei vivevano ancora nei ghetti e
costituivano una popolazione separata e priva di diritti. Gli anni dell’integrazione
– che pure erano stati segnati dalla continua presenza dell’antisemitismo –
avevano determinato nella maggior parte degli ebrei tedeschi la convinzione che
anche questa svolta politica sarebbe presto o tardi rientrata e che il nazismo
avrebbe presto esaurito la propria forza. Solo i più pessimisti e previdenti, e fra
questi coloro che rappresentavano le avanguardie intellettuali del movimento
sionista, sentirono che per gli ebrei la Germania rischiava di divenire una terra
senza futuro e preferirono intraprendere la via dell’emigrazione. La maggior
parte rimase, e subì per intero le successive forme di persecuzione adottate dal
regime nazista fino alla «soluzione finale», ossia allo sterminio di tutti gli ebrei.
Dopo una serie di manifestazioni pubbliche, fra cui una «giornata del
boicottaggio» delle attività interessate da una presenza ebraica, già nel dicembre
del 1933 vennero adottate le prime leggi discriminatorie che escludevano gli
ebrei dai pubblici uffici e dalla professione medica e legale. Nel 1935 le
cosiddette leggi di Norimberga esclusero gli ebrei dalla vita pubblica e dalle
professioni: la decisione provocò l’emigrazione negli anni immediatamente
seguenti di circa metà dei 525.000 ebrei tedeschi ufficialmente censiti. Nel 1938
la persecuzione raggiunse punte estreme: i controlli e le censure si fecero
asfissianti, vennero requisiti patrimoni e proprietà nelle mani di ebrei. Infine,
nella notte fra il 9 e il 10 novembre (la cosiddetta «notte dei cristalli», con
riferimento alle vetrine infrante) le SS naziste organizzarono un vero e proprio
pogrom: oltre 40 furono i morti decine di migliaia di ebrei vennero imprigionati,
7500 negozi di strutti, oltre 200 sinagoghe incendiate o profanate. Da allora gli
ebrei furono esclusi da ogni attività della vita civile e dal settembre del 1941 fu
loro imposto di portare ben visibile sui vestiti una stella gialla con la scritta Jude,
«ebreo»; era l’inizio de rapido processo che condusse alla deportazione e allo
sterminio.
L’antisemitismo fra le due guerre non fu, peraltro, prerogativa del nazismo
tedesco e della Germania. In altri paesi d’Europa l’utilizzo strumentale della
propaganda antiebraica continuò a costituire un’efficace arma politica.
Particolarmente pesante fu il bilancio di vittime nelle comunità ebraiche travolte
dalla guerra civile che sconvolse le regioni di frontiera della Russia, dell’Ucraina
e della Polonia negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione comunista.
Diverse centinaia di pogrom vennero perpetrati un po’ da tutte le armate
interessate dal conflitto; un imprecisato numero di ebrei (si parla di alcune
decine di migliaia) perse la vita, mentre altre migliaia di persone videro i propri
beni saccheggiati e le proprie case distrutte. Particolarmente intensa fu l’attività
persecutoria condotta dall’esercito di cosacchi dell’effimera Repubblica
Democratica Ucraina guidata da Simon Petljura che, facendo leva sul diffuso
antigiudaismo popolare e sostenendo la classica tesi del coinvolgimento ebraico
nell’organizzazione della rivoluzione comunista, mise in atto innumerevoli azioni
di saccheggio ed effettuò esecuzioni di massa. Anziani ebrei vennero massacrati
a Sebastopoli, 900 ebrei vennero spinti in mare e fatti affogare nei pressi di
Yalta, in Crimea.
È assai diffusa l’idea che indica nella Polonia la nazione a più alto tasso di
antisemitismo. In realtà la situazione va analizzata senza perdere di vista il
quadro estremamente articolato nel quale le assai visibili forme di ostilità
antiebraica si espressero nella giovane nazione polacca. Bisogna innanzitutto
ricordare che fino alla prima guerra mondiale la Polonia non esisteva come Stato
autonomo; questo nacque come frutto degli opposti tentativi delle potenze
belligeranti di attirarsi le simpatie politiche dei polacchi. Dopo la guerra, in parte
in virtù degli accordi di pace, in parte in seguito alla guerra con l’Armata rossa
sovietica, la nuova Polonia raggiunse un assetto territoriale relativamente stabile
all’interno del quale era presente una fortissima minoranza ebraica: il 10 per
cento della popolazione, oltre tre milioni di persone. In questo quadro, l’utilizzo
strumentale nella lotta politica dell’ideologia antisemita – che godeva di
particolare presa in una popolazione profondamente cattolica e impregnata di
sentimenti legati al tradizionale antigiudaismo religioso – va inserito all’interno
del più complessivo quadro della dialettica politica. Nella minoranza ebraica,
infatti, erano assai attivi partiti e organizzazioni sindacali che partecipavano a
pieno titolo alla vita politica del paese.
Se questa era la situazione generale, vanno comunque sottolineate le
particolari forme di dura discriminazione cui fu sottoposta in Polonia la
minoranza ebraica nel periodo fra le due guerre. Seguendo il modello ormai
affermato dell’antisemitismo politico, gli ebrei vennero nel loro complesso
accusati di essere una forza antinazionale, legata (a seconda delle convenienze
politiche di chi lo affermava) al nemico tedesco o al bolscevismo russo. Sul
piano politico furono i partiti nazionalisti di destra a cavalcare la propaganda
antisemita; i democratici-nazionali furono particolarmente impegnati a disegnare
un quadro che faceva degli ebrei il principale alleato del nemico comunista. La
Polonia, alleata del governo anticomunista ucraino di Petljura, partecipò
attivamente ai pogrom che spazzarono via intere comunità ebraiche nel corso
della guerra antisovietica; nell’azione, si distinse per particolare ferocia il generale
Jòzef Haller. L’antisemitismo divenne nella lotta politica polacca uno dei temi
centrali: l’assassino del Presidente Narutowicz affermò, ad esempio, che dopo
quell’atto non si sarebbe fermato e avrebbe «sgozzato» chiunque fosse salito al
potere con l’appoggio degli ebrei.
La situazione per certi aspetti mutò dopo il colpo di stato del generale
Pilsudski (1926): malgrado la società fosse di fatto pervasa da sentimenti
antisemiti, sul piano legislativo vennero fatte alcune concessioni fra cui il
riconoscimento del cheder, la scuola elementare ebraica. Il periodo di tregua non
durò però a lungo: dopo la morte del dittatore, la costituzione del «Campo di
unificazione nazionale» ripropose una linea conservatrice carica di pregiudiziali
antiebraiche, e ripresero le violenze e accenni di pogrom.
Meno dura sul piano delle violenze fisiche appare la situazione fra le due
guerre in altri paesi dell’Europa orientale. In Ungheria, dove era fallito un
tentativo di rivoluzione comunista e l’ammiraglio Horthy aveva instaurato un
regime per diversi aspetti affine al fascismo, vennero approvate nel periodo fra
le due guerre una serie di leggi discriminatorie nei confronti della minoranza
ebraica; dall’iniziale varo di una legge che limitava l’accesso di ebrei all’università,
si passò negli anni ’30 a forme di esclusione sempre più ispirate al modello
nazista.
La Romania, che aveva visto la propria popolazione ebraica enormemente
accresciuta dopo l’annessione della Bessarabia e della Transilvania, a partire dalla
metà degli anni ’20 conobbe un periodo di crescente antisemitismo. Soprattutto
nelle università si fece fortemente sentire fra studenti e docenti l’ideologia che
indicava nel comunismo uno strumento del «complotto» ebraico; le formazioni
estremiste come la Legione dell’Arcangelo Gabriele e poi la famigerata Guardia
di ferro furono fortemente intrise di antisemitismo e nelle loro azioni politiche e
squadristiche spesso infierirono sulla comunità ebraica.
In Europa occidentale e negli Stati Uniti l’utilizzo della propaganda antisemita
negli anni fra le due guerre fu essenzialmente legato alla storia della diffusione
dei Protocolli, e si esaurì quasi completamente con l’inizio degli anni ’20. Il tema
veniva fatto coincidere con la complessiva guerra di contenimento
dell’«epidemia» comunista: il timore che la rivoluzione russa potesse essere
esportata si saldò con i suggestivi messaggi e le parole d’ordine di facile presa
contenute nel testo che «svelava» l’esistenza di un complotto ebraico. Per
qualche tempo sui giornali e nella pubblicistica occidentale si affermò l’idea di
un collegamento diretto e programmatico fra il bolscevismo e la politica ebraica.
Particolarmente attivo in questo contesto si dimostrò Robert Wilton, un
giornalista del Times di Londra, che stabiliva una connessione diretta fra la
rivoluzione d’ottobre e i piani segreti ebraici. Lo stesso giornale attaccava
duramente l’atteggiamento del Primo Ministro inglese Lloyd George sulla
questione della pace e lo accusò, in un articolo che fece particolarmente
scalpore, di applicare le indicazioni contenute nei Protocolli, praticando quindi
una politica che invece di giovare all’Inghilterra favoriva il «complotto» ebraico.
In Francia, la pubblicazione del libello fu compiuta nel 1920 a cura de La
Documentation catholique, un nuovo periodico legato agli ambienti di destra
dell’Action française, che con questa operazione si accingeva a rompere quel patto
nazionale che aveva permesso alla nazione di presentarsi unita allo scontro con
la Germania. Negli Stati Uniti, l’industriale Henry Ford (colui che aveva
applicato la catena di montaggio alla produzione delle automobili, promuovendo
una politica di bassi costi e di salari elevati era assolutamente convinto della
veridicità dei Protocolli e del complotto che in essi veniva descritto. Nel suo libro
L’ebreo internazionale, pubblicato nel 1922 e diffuso ancora oggi, egli ribadì
sostanzialmente le tesi dell’antisemitismo moderno, accreditando la teoria del
complotto.
Michele Sarfatti 3
LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI IN ITALIA
DALLE LEGGI RAZZIALI ALLA
DEPORTAZIONE
Introduzione
Raggiunta l’Argentina nel 1942, il modenese Enzo Levi decise di scrivere un
saggio sulle vicende degli ebrei italiani e sulla persecuzione che lo aveva costretto
ad abbandonare la sua città e il suo paese. Sentendo che non gli sarebbe stato
facile riuscire a trasmettere ai nuovi amici di oltre-Atlantico e ai futuri italiani
liberi «cosa» era veramente accaduto nell’Italia fascista, «cosa» lo aveva spinto
all’esilio, dette alla narrazione un inizio che merita riportare:
È difficile rendersi conto della gravità degli effetti delle disposizioni razziali in Italia, se quel periodo non lo
si è vissuto. Stentarono a rendersene conto, almeno fino a che io rimasi in Italia, nei primissimi mesi del
1942, milioni di italiani cattolici; è naturale che così fosse, per quanto possa apparire a prima vista
incredibile, se si ha presente la percentuale degli ebrei, inferiore all’uno per cento della popolazione italiana,
e il loro raggruppamento in poche città e in talune regioni; tanto che in molte province, soprattutto del
Mezzogiorno d’Italia, non vi erano affatto ebrei.
Le leggi razziali furono una mazzata sul capo degli stessi ebrei, i quali non se le aspettavano, se pure si era
diffuso un senso di inquietudine e di nervosismo. Per dare un’idea della gravità delle norme che colpivano
gli ebrei dirò della mia famiglia. Io ebbi precluso l’esercizio della professione di avvocato, con la quale
guadagnavo quanto occorreva per mantenere i numerosi familiari. Dei miei sette figli, la maggiore, laureata
e sposata, aveva vinto un concorso d’insegnamento, ma la legge glielo precluse; il marito, impiegato al
tribunale, e che si preparava agli esami per il passaggio alla Magistratura, fu licenziato con un’indennità
ridicola. Altri due miei figli, laureati in scienze e in legge, furono posti nell’impossibilità di svolgere attività
in impieghi pubblici e in grave difficoltà per trovare lavoro in aziende private. Gli altri miei figli erano
ancora agli studi e furono cacciati dalle scuole pubbliche. Era loro consentito dare gli esami a fine anno e
venivano ammessi a scrivere i temi degli esami scritti insieme agli altri; ma, dettati i temi, si richiedeva agli
alunni ebrei di alzarsi e di uscire, perché non potevano restare nella classe con gli altri e dovevano recarsi,
per lo svolgimento del tema, in un’aula separata. Agli esami orali dovevano presentarsi dopo tutti gli altri.
Questa forma di trattamento avvilente spiacque ai ragazzi, ma direi che più addolorò, salvo eccezione, gli
insegnanti, i quali non sapevano come rendere meno gravoso il provvedimento. Nel caso dei miei figli i
compagni si comportavano con la fraternità più affettuosa; poiché i miei ragazzi erano sempre
eccezionalmente preparati, tanto che occupavano regolarmente i primi posti nelle classifiche di voto, i
compagni dicevano, scherzando, che erano loro i colpiti dalle disposizioni razziali, perché non si potevano
fare aiutare agli esami dai miei figlioli.
Economicamente ero nelle condizioni peggiori, per la preclusione di tutte le fonti di reddito; soltanto un
modestissimo patrimonio immobiliare offriva la possibilità, con la liquidazione dei miei crediti
professionali, di realizzare quanto occorreva per vivere, esaurendo il capitale, per alcuni anni, e quanto
presumibilmente occorreva per uscire tutti undici dall’Italia.
La situazione era dunque grave; ma io e mia moglie e i figli maggiori eravamo preparati moralmente, prima
ancora della promulgazione delle leggi razziali; ed avevamo già preso decisioni di massima. La previsione
rappresenta, in questi casi, un’enorme fonte di tranquillità e di forza. Credo dunque ozioso insistere sul
nostro caso; mi limito a ricordare le lacrime e le disperazioni dei figli minori, soprattutto per l’esclusione
dalle scuole, per quanto soggette alle variazioni di umore dei ragazzi; ricordo la disperazione che leggevo nel
viso di mia moglie, di cui subivo il riflesso come da uno specchio, ogni volta che una telefonata, o lo
schiamazzo dei ragazzi «ariani» che uscivano dalle scuole vicine a casa nostra, ci ricordavano che non erano
più imminenti i ritorni da scuola anche dei nostri figlioli e che questi, nostro orgoglio, erano considerati
indegni di vivere fra gli altri nelle scuole pubbliche» 4.
Due pagine di diario, scritte nell’ottobre 1938 dalla veronese Silvia Forti
Lombroso, permettono di «rendersi conto» con maggiore precisione e
partecipazione di «cosa» significò, per la nipote studentessa e per il marito
professore universitario, essere cacciati da scuola:
Girò gli occhi attorno perplessa: mi vide e mi sorrise. «Ah sei qui, zia? Non ti avevo veduta entrare; hai
visto Lilli?». Un tremito nella voce, l’ombra che le si era diffusa repentinamente sul viso, mi persuasero che
avevo fatto bene a venire. «No cara, mi son fermata qui; ti guardavo, e – aggiunsi scherzosa – ti ammiravo».
Scosse la bella testa senza sorridere. «Vai da lei, ti prego; è tutta mattina chiusa nella sua stanza, non ha
voluto mangiare; capisci, è il primo giorno di scuola oggi... forse con te si sfogherà un poco».
Primo giorno di scuola; la vita che ricomincia come sempre per tutto un mondo, quello dei giovani. Per te
no, non ricomincia, ma s’interrompe d’un tratto brutalmente; da oggi sei una esclusa, nessuno deve
conoscerti, avvicinarti, amarti, perché il contatto e la conoscenza rivelerebbero troppo bene la calunnia
della propaganda ...
Entro nella stanza di Lilli con l’anima stretta; le lacrime dei giovani sono le più difficili ad asciugare, perché i
giovani vogliono una risposta logica e chiara ai loro «perché». La stanza era silenziosa: appariva vuota.
Gettata a traverso sul letto, l’adolescente dormiva; le occhiaie fonde, le guance umide, il fazzoletto stretto
fra le dita, dicevano ancora l’appassionato «perché» rivolto alla vita da una giovinezza radiosa,
improvvisamente oscurata nel primo tragico urto con l’ingiustizia e col dolore...
Sono le otto ormai; l’ora di uscire, di andare all’Istituto; la lezione è ancora da preparare, gli studenti già
arrivano a tre, a quattro, ridenti, chiassosi ... L’aula è già quasi piena ... ma ancora c’è qualche minuto di
tempo; per interrogare l’interno che ha passato lì la notte a sorvegliare l’esperienza, per confrontare i diarii,
per dare un’occhiata alle provette – chissà se questa sarà l’esperienza probatoria, chissà? Quella che dà
conferma a dieci anni di lavoro, o se tutto si dovrà pazientemente ricominciare?
L’occhio del professore si posa sul calendario. Mercoledì. Oggi doveva venire all’Istituto l’aiuto di
patologia; insieme dovevano discutere sul nuovo metodo per controllare negli animali gli effetti del
«lipocaid»...
Un orologio lontano, un altro più vicino suonan le nove: bisogna muoversi, bisogna andare: andare dove?
Fare cosa?
Si avvicina al tavolo, apre un plico raccomandato. È il suo ultimo lavoro già in corso di stampa, che il
direttore del giornale gli rimanda; poche parole di scusa imbarazzate, non può più pubblicarlo, è dolente ...
Ne apre un altro; è il presidente dell’Accademia delle Scienze che lo avverte che per ordini ricevuti cancella
il suo nome dall’elenco dei soci. Getta nel cestino impaziente, prende un libro, cerca di assorbirsi nella
lettura. Non può; la mente divaga, quello che legge ha il tono freddo delle cose morte...
Di nuovo un pauroso senso di vuoto gli attanaglia l’anima. È come se brutalmente gli avessero stroncato
ogni ragione per vivere, è come se tutto intorno a lui fosse crollato. Si alza impaziente. Tutto all’intorno è
uguale a ieri; tutto è solito, tutto ha il sapore di sempre: eppure tutto è perduto, tutto è mutato, tutto è
travolto.
Ormai il sole è alto nel terso cielo autunnale; inonda di luce la stanza, scherza sugli specchi, sui caratteri
d’oro nel dorso dei libri; si posa e si trattiene a terra sul fascio di giornali sparsi dovunque, dà rilievo ai titoli
dei quotidiani scritti in caratteri cubitali: «I giudei esclusi dalle Università»; «Liberiamoci dalla peste
giudaica»; «Finalmente purificate dagli ebrei, le Università italiane risorgeranno a nuova vita» 5.
Esclusione di tutti gli studenti «di razza ebraica» dalle scuole elementari e
medie di ogni tipo frequentate da alunni «di razza ariana»; peraltro gli esclusi
potevano frequentare le scuole elementari e medie cattoliche (qualora essi
professassero tale religione), o quelle elementari e medie per soli ebrei
eventualmente istituite, a determinate condizioni, dalle comunità israelitiche, o
le già menzionate «speciali sezioni di scuola elementare».
Esclusione di tutti gli studenti «di razza ebraica» dalle università, ad eccezione
di coloro che – italiani o stranieri, ma non tedeschi – fossero già iscritti
nell’anno accademico 1937-1938 e non fossero fuori corso.
Esclusione di tutti gli insegnanti «di razza ebraica» dalle università e dalle
scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado, ad eccezione di quelle
eventualmente istituite dalle comunità e delle «speciali sezioni».
Esclusione di tutti gli altri dipendenti «di razza ebraica» dalle scuole (bidelli,
segretari ecc.), dagli uffici del ministero, dagli enti da questo sostenuti o
sorvegliati ecc.
Divieto di adozione nelle scuole medie di libri di testo redatti, commentati o
riveduti da autori «di razza ebraica», anche se in collaborazione con autori «di
razza ariana».
La deportazione (1943-1945)
Il 10 luglio 1943 i primi reparti angloamericani sbarcarono in Sicilia. Il 25 luglio
Mussolini venne deposto e arrestato, e il Re incaricò Pietro Badoglio di formare
un nuovo Governo; questi mantenne l’alleanza con la Germania, ma iniziò a
trattare un armistizio con gli alleati, che venne infine annunciato l’8 settembre.
Per quanto concerne gli ebrei, in quei quarantacinque giorni il Governo
Badoglio operò nel seguente modo: mantenne in vigore tutte le leggi
antiebraiche e revocò alcune disposizioni persecutorie di natura amministrativa o
aventi scopi ideologico-propagandistici. Del resto, mentre immediatamente
dopo il 25 luglio i partiti antifascisti e varie personalità democratiche avevano
sollecitato una radicale abrogazione della legislazione antiebraica, altri ambienti si
erano pronunciati diversamente: in agosto la Santa Sede aveva informato il
Ministro dell’interno che la legislazione in questione, «secondo i principii e la
tradizione della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma
ne contiene pure altre meritevoli di conferma».
Alla fine del settembre 1943 il paese si trovò diviso in due parti: le regioni
meridionali e le isole sotto il controllo degli alleati e del Regno d’Italia, le regioni
centrali e settentrionali sotto il controllo della Germania nazista e del nuovo
Stato costituito dai fascisti (poi denominato Repubblica sociale italiana).
Nella prima zona, il Governo Badoglio prese infine atto delle richieste degli
alleati (l’articolo 31 del cosiddetto armistizio lungo stabiliva: «Tutte le leggi italiane
che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinioni politiche
saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate») e il 24 novembre 1943 il
Consiglio dei ministri iniziò l’esame dei provvedimenti legislativi di abrogazione
della normativa persecutoria.
Nella seconda zona la persecuzione antiebraica assunse immediatamente
nuove e più gravi caratteristiche. In conseguenza del lento spostamento della
linea del fronte, essa durò nove mesi a Roma, undici mesi a Firenze e quasi venti
mesi nelle città settentrionali. Vi furono assoggettate presumibilmente 43.000
persone, suddivise in poco meno di 33.000 ebrei effettivi e in circa 10.000 non ebrei
classificati «di razza ebraica».
I tedeschi effettuarono i primi arresti di ebrei subito dopo l’8 settembre. Il 23
di quel mese, il RSHA (la centrale di polizia tedesca che gestiva la politica
antiebraica), in accordo col Ministero degli affari esteri tedesco, comunicò
formalmente ai propri uffici dipendenti e periferici che gli ebrei di cittadinanza
italiana erano divenuti immediatamente assoggettabili alle «misure» in vigore per
gli altri ebrei europei (ossia alla deportazione verso i campi di sterminio). Già il
giorno dopo, il 24 settembre, il responsabile della polizia tedesca a Roma
ricevette l’ordine di iniziare i preparativi per l’arresto e la deportazione degli
ebrei di quella città (la retata nella capitale fu poi effettuata il 16 ottobre).
Gli ebrei arrestati venivano raccolti nelle carceri delle principali città (o,
successivamente e nell’area nord-orientale, nel campo di transito allestito dai
tedeschi nella Risiera di San Saba, a Trieste) e periodicamente avviati per lo più
al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Inizialmente, il Governo fascista-repubblicano costituito da Mussolini il 23
settembre 1943 non effettuò arresti (senza peraltro contestare quelli operati dai
tedeschi); ma il 14 novembre il nuovo Partito fascista repubblicano, in
un’assemblea tenuta a Verona, approvò un «manifesto programmatico» che
proclamava tra l’altro: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri.
Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Questa
dichiarazione giustificava e preannunciava i provvedimenti di arresto delle
persone e di confisca dei beni.
Il 30 novembre 1943 il Ministro dell’interno Guido Buffarini Guidi diramò un
«ordine di polizia» che disponeva l’arresto degli ebrei di qualsiasi condizione o
nazionalità e il loro concentramento dapprima in campi provinciali e poi in
campi nazionali in corso di allestimento. Così, sulla base di una semplice
disposizione burocratica, le autorità locali della Repubblica sociale italiana
iniziarono ad arrestare gli ebrei, a raccoglierli in campi provinciali e poi ad
inviarli nell’unico campo nazionale nel frattempo allestito: quello di Fossoli di
Carpi, in provincia di Modena.
Gli ebrei arrestati per ordine italiano ebbero lo stesso destino di quelli arrestati
per ordine tedesco: sia gli uni sia gli altri furono deportati dai tedeschi. Sul piano
tecnico, la saldatura tra le politiche antiebraiche italiana e tedesca ebbe luogo nel
campo nazionale di Fossoli: lì, a partire dalla fine del dicembre 1943, gli italiani
fecero affluire gli ebrei arrestati nelle varie province e da lì, a partire dalla
seconda metà del febbraio 1944, i tedeschi fecero partire i convogli di
deportazione. Questo meccanismo non subì alcuna modifica né nel marzo
successivo, quando anche la gestione amministrativa del campo fu trasferita dalla
polizia italiana a quella tedesca, né alla fine di luglio, quando i tedeschi decisero
di spostare il campo da Fossoli a Bolzano.
Mussolini conosceva da tempo il «destino» riservato da Hitler agli ebrei
deportati da tutta Europa; e, dopo l’8 settembre 1943, costituendo il suo nuovo
governo sotto la protezione del potente alleato, fu ben consapevole del fatto che
quel destino avrebbe ormai riguardato anche gli ebrei d’Italia. È vero il fatto che
non sono stati finora reperiti (e chissà se mai lo saranno) autografi del dittatore o
verbali di parte tedesca attestanti la decisione formale mussoliniana di
partecipare all’assassinio degli ebrei da lui governati. Ma le parole scritte
diventano largamente inutili di fronte all’esplicita evidenza di un meccanismo
concreto ripetuto decine di volte: gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli,
i tedeschi prendevano in consegna e deportavano...
Nel frattempo, il 4 gennaio 1944, era stata disposta la confisca di tutte le
proprietà immobili e mobili degli ebrei (compresi gli spazzolini da denti). La
nuova legge stabiliva tra l’altro dure pene per coloro che avessero compiuto «atti
diretti all’occultamento, alla soppressione, alla distribuzione, alla dispersione, al
deterioramento o alla esportazione dal territorio dello Stato» di quei beni; ed è
opportuno ricordare che nessuna pena venne invece mai stabilita dalla
Repubblica sociale italiana nei confronti di coloro che attuavano o
predisponevano l’«esportazione» e la «soppressione» dei corpi viventi dei
proprietari di quei beni.
EBREI ED EBRAISMO
Il Gran Consiglio del Fascismo ricorda che l’ebraismo mondiale – specie dopo
l’abolizione della massoneria – è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i
campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoruscito è stato – in taluni periodi
culminanti come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica – unanimamente ostile
al Fascismo.
L’immigrazione di elementi stranieri – accentuatasi fortemente dal 1933 in poi
– ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani, nei confronti del Regime,
non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la
politica, l’internazionalismo d’Israele.
Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l’ebraismo mondiale
è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona.
Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l’appartenenza o meno alla razza ebraica,
stabilisce quanto segue:
che agli ebrei allontanati dagli impieghi pubblici sia riconosciuto il normale
diritto di pensione;
che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosamente
repressa;
che nulla si innovi per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l’attività
delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti;
che, insieme alle scuole elementari, si consenta l’istituzione di scuole medie
per ebrei.
CATTEDRE DI RAZZISMO
Il Gran Consiglio del Fascismo prende atto con soddisfazione che il Ministro
dell’Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle principali
Università del Regno.
Il Gran Consiglio del Fascismo, mentre nota che il complesso dei problemi
razziali ha suscitato un interesse eccezionale nel popolo italiano, annuncia ai
fascisti che le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali e
impegnative per tutti e che alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le
leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli Ministri.
I DECRETI-LEGGE
Il 2 settembre 1938, dando seguito alla pubblicazione del Manifesto degli scienziati
razzisti, ed ancor prima che il Gran Consiglio del fascismo si pronunciasse nella
Dichiarazione sulla razza, il Consiglio dei ministri varò le prime norme anti ebraiche, fra cui i
Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista (regio decreto-legge 5 settembre
1938, n. 1390). La tempestività della previsione legislativa fu con tutta probabilità dettata
dalla volontà di applicare la discriminazione razziale sin dall’imminente inizio del nuovo anno
scolastico.
Solo successivamente, il 10 novembre 1938, il Consiglio dei ministri procedette alla
complessiva sistemazione legislativa della «questione ebraica», traducendo sul piano giuridico le
direttive emanate dal Gran Consiglio del fascismo. Furono così adottati il regio decreto-legge 17
novembre 1938, n. 1728 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), che può
considerarsi il testo-base della persecuzione antiebraica, anche perché vi si ritrova la definizione
legale dell’«essere ebreo», ed il regio decreto-legge 15 novembre 1938, n. 1779 (Integrazione e
coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola
italiana), in cui si precisavano le misure già in corso di attuazione da parte del Ministero
dell’educazione nazionale.
I tre regi decreti-legge citati, che di seguito si riproducono nel testo pubblicato dalla
Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, sono fra i più significativi della persecuzione
antiebraica iniziata nel 1938, ma non esauriscono la relativa legislazione del regime fascista.
Un utile riepilogo della sua prima fase è tuttavia reperibile nel repertorio dell’attività della
Camera dei deputati nella XXIX legislatura (1934-1939), da cui si riporta il sesto
paragrafo del capitolo riguardante la politica interna, appunto dedicato alla Difesa della
razza.
La legislazione fascista nella XXIX legislatura 1934-1939
(...)
Nella quinta riunione dell’anno XVI, tenuta il 6 ottobre nel Palazzo Venezia, il
Gran Consiglio del Fascismo ha approvato la seguente dichiarazione sulla razza:
«Il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’Impero,
dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza
razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da 16 anni e svolge un’attività
positiva diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana,
miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze
politiche incalcolabili, da incroci ed imbastardimenti.
Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di
carattere generale.
Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce:
CRONOLOGIA13
28 ottobre 1922. I fascisti marciano su Roma. Il giorno dopo il re Vittorio
Emanuele III incarica Mussolini di formare il nuovo Governo.
6 aprile 1924. Vittoria della lista dei fascisti e dei loro alleati alle elezioni per la
Camera.
3 gennaio 1925. Mussolini alla Camera si assume la responsabilità dell’assassinio
(avvenuto il 10 giugno precedente) del deputato socialista Giacomo Matteotti.
novembre 1926. Varo leggi «fascistissime»: scioglimento di tutte le associazioni e
i partiti contrari al fascismo, istituzione del confino di polizia per gli oppositori
ecc.
11 febbraio 1929. Firma dei Patti lateranensi tra Italia e Chiesa cattolica.
30 gennaio 1933. Hitler diventa cancelliere del Reich tedesco. Introduzione
della legislazione antiebraica nella Germania nazista.
1936-1937. Il Governo fascista del Regno d’Italia, in connessione con la
conquista e la colonizzazione dell’Etiopia, approfondisce il razzismo e vara
primi provvedimenti di apartheid e di divieto di relazioni tra italiani e
popolazioni delle colonie.
1937. Diffusione dell’antiebraismo in Italia, con campagne di stampa e
pubblicazioni.
14-15 febbraio 1938. Il Ministero dell’interno dispone il censimento della
religione professata dai propri dipendenti.
14 luglio 1938. Pubblicazione del documento Il fascismo e i problemi della razza. Il
testo (talora noto col titolo Manifesto degli scienziati razzisti ) fornisce le basi
teoriche all’introduzione ufficiale del razzismo.
22 agosto 1938. Censimento speciale nazionale degli ebrei, ad impostazione
razzista. Vengono censite 58.412 persone aventi per lo meno un genitore ebreo;
di esse, 46.656 sono effettivamente ebree (pari a circa l’1 per mille della
popolazione della penisola).
1-2 settembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un primo gruppo di norme
antiebraiche. Esse contengono tra l’altro provvedimenti immediati di espulsione
degli ebrei italiani dalla scuola e della maggior parte degli ebrei stranieri giunti
nella penisola dopo il 1918.
6 ottobre 1938. Il Gran Consiglio del fascismo approva la Dichiarazione sulla
razza. Il testo detta le linee generali della legislazione antiebraica.
7-10 novembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un secondo e più
organico gruppo di norme antiebraiche. Esse tra l’altro contengono la
definizione giuridica di «appartenente alla razza ebraica» e dispongono il divieto
di matrimonio tra «ariani» e «semiti» o «camiti»; inoltre contengono
provvedimenti di espulsione degli ebrei dagli impieghi pubblici e (in forma più
completa) dalla scuola, di limitazione del loro diritto di proprietà, ecc.
1938-1942. Espulsione totale degli ebrei dall’esercito; divieto di pubblicazione
e rappresentazione di libri, testi, musiche di ebrei; sostanziale espulsione dalle
libere professioni; progressiva limitazione delle attività commerciali, degli
impieghi presso ditte private, delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro.
febbraio 1940. Mussolini fa comunicare ufficialmente all’Unione delle comunità
israelitiche italiane che tutti gli ebrei italiani dovranno lasciare l’Italia entro pochi
anni.
10 giugno 1940. Ingresso dell’Italia in guerra. Internamento degli ebrei italiani
giudicati maggiormente «pericolosi» e degli ebrei stranieri cittadini di stati aventi
una politica antisemita.
maggio 1942. Istituzione del lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei
italiani.
agosto 1942-primavera 1943. Ad autorità governative, e in particolare a
Mussolini, pervengono notizie progressivamente sempre più chiare sull’azione di
sterminio di ebrei attuata nei territori controllati dall’alleato tedesco.
maggio-giugno 1943. Decisione di istituire nella penisola campi di internamento
e lavoro obbligatorio per ebrei italiani abili al lavoro.
10 luglio 1943. Sbarco degli alleati in Sicilia.
15-25 luglio 1943. Decisione italiana di consegnare alla polizia tedesca gli ebrei
tedeschi presenti nella Francia sudorientale occupata dall’Italia; direttiva di
trasferimento a Bolzano degli internati (per lo più ebrei stranieri) del campo di
Ferramonti di Tarsia in Calabria.
25 luglio 1943. Caduta di Mussolini.
estate 1943. Il nuovo Governo guidato da Badoglio blocca l’attuazione delle
disposizioni del maggio-luglio precedente, revoca alcune circolari, lasciando
tuttavia in vigore tutte le leggi persecutorie.
8 settembre 1943. Annuncio dell’armistizio tra il Regno d’Italia e gli alleati. Fuga
del re e del Governo al sud.
10 settembre 1943. Inizio ufficiale dell’occupazione militare tedesca della
penisola; nelle regioni di Trieste e Trento i tedeschi istituiscono le Operationszonen
Adriatisches Kuestenland e Alpenvorland, assumendovi anche i poteri civili.
settembre 1943. Liberazione dell’Italia meridionale e della Sardegna da parte
degli alleati. Nascita delle prime formazioni partigiane nel centro-nord. Colloqui
di Mussolini con responsabili nazisti in Germania.
15-16 settembre 1943. Primo convoglio di deportazione di ebrei arrestati in
Italia (da Merano) e primi eccidi di ebrei nella penisola (sulla sponda piemontese
del lago Maggiore); entrambi ad opera dei nazisti.
23 settembre 1943. Costituzione di un nuovo governo fascista guidato da
Mussolini, che assume l’amministrazione dell’Italia centrale e settentrionale
(escluse le Operationszonen ). Successivamente il nuovo Stato viene denominato
Repubblica sociale italiana (RSI).
23 settembre 1943. Una disposizione interna della polizia tedesca inserisce
ufficialmente gli ebrei di cittadinanza italiana tra quelli immediatamente
assoggettabili alla deportazione.
16 ottobre 1943. La polizia tedesca attua a Roma una retata di ebrei, la più
consistente dell’intero periodo. Due giorni dopo vengono deportate ad
Auschwitz 1023 persone.
14 novembre 1943. Approvazione a Verona del «manifesto programmatico» del
nuovo Partito fascista repubblicano, il cui punto 7 stabilisce: «Gli appartenenti
alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a
nazionalità nemica».
30 novembre 1943. Diramazione dell’ordine di polizia n. 5 del Ministero
dell’interno della RSI, decretante l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il
loro internamento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali, il
sequestro di tutti i loro beni (alcune settimane dopo verrà disposta la
trasformazione dei sequestri in confische definitive).
dicembre 1943. Allestimento del campo nazionale di Fossoli, in attuazione
dell’ordine del 30 novembre (i primi ebrei vi vennero trasferiti dai campi
provinciali a fine mese).
4-14 dicembre 1943. Decisione tedesca di riconoscere alla RSI il ruolo principale
nell’organizzazione e nella gestione degli arresti e dei concentramenti provinciali.
5 febbraio 1944. Il capo della polizia della RSI ordina a un prefetto (quello di
Reggio Emilia) di consegnare ai tedeschi gli ebrei arrestati da italiani. Si tratta del
primo ordine esplicito di tal genere oggi conosciuto; pochi giorni dopo il
prefetto risponde comunicando il trasferimento degli ebrei a Fossoli.
19 e 22 febbraio 1944. Partenza dei primi convogli di deportazione da Fossoli
(per Bergen Belsen e Auschwitz) organizzati dalla polizia tedesca. Il campo di
Fossoli si rivela quindi come il punto operativo di cerniera tra RSI e Terzo Reich
per la deportazione.
23 marzo 1944. Eccidio delle Fosse Ardeatine, a Roma; tra i 335 uccisi vi sono
75 ebrei.
4 giugno 1944. Liberazione di Roma. Avanzata alleata nell’Italia centrale.
fine luglio-inizi agosto 1944. Chiusura di Fossoli e trasferimento del campo
nazionale a Bolzano.
24 febbraio 1945. Ultimo convoglio di deportazione di ebrei dall’Italia (da
Trieste per Bergen Belsen).
aprile 1945. Liberazione dell’Italia settentrionale.
ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI 14
La bibliografia generale e specialistica concernente la storia degli ebrei e
dell’antisemitismo in Italia è assai vasta ed è continuamente arricchita da decine
di pubblicazioni ogni anno. Le seguenti indicazioni bibliografiche si limitano
pertanto ad alcuni orientamenti che possano servire da avvio ad eventuali
ricerche più approfondite.
Sono disponibili alcuni repertori bibliografici che offrono un ampio panorama
di titoli: fra questi si segnalano La cultura ebraica nell’editoria italiana (1955-1990).
Repertorio bibliografico, in Quaderni di Libri e Riviste d’Italia n. 27, Ministero per i beni
culturali e ambientali, Roma, 1992 e la più recente Biblioteca italo-ebraica.
Bibliografia per la storia degli ebrei in Italia, 1986-1995, compilata da MANUELA M.
CONSONNI e a cura di SHLOMO SIMONSOHN, Menorah, Roma, 1997.
Esiste inoltre una rivista specializzata, La Rassegna Mensile di Israel, che dal 1925
offre al pubblico articoli specialistici su svariati aspetti della storia e della cultura
ebraica. Per uno sguardo più generale sulla storia degli ebrei e della loro cultura,
con spunti particolarmente indicati a un utilizzo didattico, si vedrà FRANCA
TAGLIACOZZO e BICE MIGLIAU, Gli ebrei nella storia e nella società
contemporanea, La Nuova Italia, Firenze, 1995.
Per quanto riguarda i multiformi aspetti della storia degli ebrei italiani, una
sintesi generale è offerta da ATTILIO MILANO, Storia degli ebrei in Italia,
Einaudi, Torino, 1963 (ristampato nei tascabili, 1991). A questo si è ultimamente
aggiunto CORRADO VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia. Annali 11. Gli ebrei in
Italia, 2 voll., Einaudi, Torino, 1996-97, un’ampia raccolta di saggi specialistici
che affrontano le vicende delle comunità ebraiche nel loro rapporto con la
società italiana dall’alto medioevo ai giorni nostri. Per chi volesse intraprendere
studi specifici sono utili i sei volumi di Italia Judaica, contenente gli Atti dei
convegni internazionali organizzati dalla Commissione mista italo-israeliana per
la storia e la cultura degli ebrei in Italia, Ministero per i beni culturali e
ambientali, Roma, 1983-1998.
La questione dell’antisemitismo, delle sue radici e delle sue conseguenze offre
una bibliografia particolarmente ampia. L’opera fondamentale rimane quella di
LÉON POLIAKOV, Storia dell’antisemitismo, 5 voll., La Nuova Italia, Firenze,
1974-1994 (I: Da Cristo agli Ebrei di Corte; II: Da Maometto ai Marrani; III: Da
Voltaire a Wagner; IV: L’Europa suicida; V: L’antisemitismo nel dopoguerra ). A questa
si possono aggiungere YVES CHEVALIER, L’antisemitismo. L’ebreo come capro
espiatorio, Istituto Propaganda Libraria, Milano, 1991 e GADI LUZZATTO
VOGHERA, L’antisemitismo. Domande e risposte, Feltrinelli, Milano, 1994.
Sui rapporti tra fascismo ed ebrei in Italia è ricco di notizie RENZO DE
FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1961 (ristampato
nei tascabili, 1993). A questo vanno aggiunti studi più recenti, che contengono a
volte interpretazioni differenziate; si indicano fra gli altri SUSAN ZUCCOTTI,
L’olocausto in Italia, Mondadori, Milano, 1988; LILIANA PICCIOTTO
FARGION (a cura di), Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-
1945), Mursia, Milano, 1991; ALEXANDER STILLE, Uno su mille. Cinque
famiglie ebraiche durante il fascismo, Mondadori, Milano, 1991; MICHELE
SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938,
Zamorani, Torino, 1994; ANTONIO SPINOSA, Mussolini razzista riluttante,
Bonacci, Roma, 1994; ANGELO VENTURA (a cura di), L’Università dalle leggi
razziali alla Resistenza, Cleup, Padova 1996; ALBERTO CAVAGLION, Per via
invisibile, Mulino, Bologna, 1998. La questione più generale del razzismo italiano
è ben affrontata nel catalogo della mostra La menzogna della razza. Documenti e
immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Istituto
Beni culturali della Regione Emilia-Romagna, Grafis, Bologna 1994.
Lo sterminio degli ebrei europei è trattato in maniera particolareggiata in
RAUL HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, 2 voll., Einaudi, Torino,
1995. Per un approccio più agile ma ugualmente significativo si vedrà di
BRUNO SEGRE, La Shoah. Il genocidio degli ebrei d’Europa, Saggiatore-
Flammarion, Milano, 1998.
Sui particolari aspetti giuridici riguardanti la legislazione antiebraica si indicano
infine: La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, atti del Convegno nel
cinquantenario delle leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Camera dei
deputati, Roma, 1989; MARIO TOSCANO (a cura di), L’abrogazione delle leggi
razziali in Italia (1943-1987). Reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai valori del
Risorgimento, Senato della Repubblica, Roma, 1988.
Negli ultimi anni la pressante necessità di lasciare testimonianza scritta degli
avvenimenti, dei percorsi personali e delle sensazioni provate nei terribili anni
della persecuzione razzista ha condotto alla pubblicazione di numerosi testi di
memorialistica. Fra questi, a titolo d’esempio, si ricordano ALDO ZARGANI,
Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua, 1938-1945, Mulino, Bologna, 1995;
ROSETTA LOY, La parola ebreo, Einaudi, Torino 1997. Rimangono
imprescindibili i libri di PRIMO LEVI e il breve racconto scritto nel 1944 da
GIACOMO DEBENEDETTI, 16 ottobre 1943, edito ora da Sellerio, Palermo,
1993 con l’aggiunta del racconto Otto ebrei.
Note
[←1]
Ordinario di storia moderna presso l’Università «La Sapienza» di Roma.
[←2]
Studioso di storia ebraica, Consigliere della fondazione Centro di
documentazione ebraica contemporanea di Milano.
[←3]
Coordinatore delle attività della fondazione Centro di documentazione
ebraica contemporanea di Milano.
[←4]
Enzo Levi, Memorie di una vita, 1889-1947, Mucchi, Modena, 1972.
[←5]
Silvia Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute, 1938-1945, Dalmatia,
Roma, 1945.
[←6]
«Relazione alla Giunta della Comunità israelitica di Venezia (23 ottobre
1941)», citata in: Renata Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una
comunità tra persecuzione e rinascita, il Cardo, Venezia, 1995, p. 95.
[←7]
Ernesta Bittanti Battisti, Israel-Antisrael. Diario 1938-1943, Manfrini,
Trento, 1984.
[←8]
Giorgina Segre, Gli ebrei nella Repubblica sociale italiana, Archivio della
fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano,
Fondo Raffaele Jona.
[←9]
La Nazione del Popolo, a. I, n. 19, 18-19 settembre 1944.
[←10]
Questo documento, pubblicato da tutti i quotidiani del 15 luglio 1938,
era un decalogo «ideologico» che rendeva ufficiale l’esistenza del «razzismo
fascista» e ne fissava le basi teoriche. Il documento venne redatto presso il
Ministero della cultura popolare, su indicazioni di Mussolini; esso è noto
anche come Manifesto degli scienziati razzisti perché fu firmato da dieci
docenti universitari. Il testo qui pubblicato è quello definitivo.
[←11]
La Dichiarazione sulla razza fu approvata il 6 ottobre 1938 dal Gran
Consiglio del fascismo, un comitato di gerarchi che era divenuto organo
costituzionale dello Stato (PNF, Foglio d’ordini n.214). Il documento
enunciava al paese i motivi politici della persecuzione antiebraica, indicava
le linee generali della prossima legislazione, stabiliva che i nuovi principi
erano «fondamentali e impegnativi» per tutti i fascisti (in sostanza: per tutti
gli italiani), enunciava un ricatto interno e internazionale (eventuali proteste
sarebbero state immediatamente seguite da un aggravamento della
persecuzione). La legislazione poi effettivamente varata fu comunque più
grave di quanto preannunciato dalla Dichiarazione, ad esempio
relativamente al trattamento degli ebrei «discriminati».
[←12]
Da Il giornale della scuola media, n. 23, agosto 1939.
[←13]
A cura di Michele Sarfatti.
[←14]
A cura di Gadi Luzzatto Voghera.
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