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O
gni tanto torna di moda l’enigma dei
dinosauri, esseri giganteschi dei quali
fino a due secoli fa non si conosceva
nemmeno l’esistenza (e dove la parte
enigmatica riguarda la loro estinzione,
avvenuta nel Cretaceo). Ma se non fossero
scomparsi e si fossero semplicemente trasferiti
su un altro pianeta? Non grazie alla loro
limitata intelligenza, certo, ma aiutati e
trasportati da una razza più sensibile ed
evoluta… Ridotta la massa corporea e
potenziata la mente, i tirannosauri avrebbero
finito per sviluppare la paziente e sofisticata
civiltà descritta in questo stupefacente
romanzo. Nel quale un brillante scienziato –
quello che potremmo considerare
l’equivalente sauro di Galileo – deve
convincere i suoi concittadini delle verità
contenute negli ultimi sviluppi
dell’astronomia. Anche perché ignorarle
metterebbe in serio pericolo il mondo dei
Quintaglio, rettili pensanti ma non senza
pregiudizi.
L’autore
Robert J. Sawyer
OCCHI NELLO
SPAZIO
Traduzione di Marcello Jatosti
OCCHI NELLO SPAZIO
A Carolyn Clink,
mia moglie,
mia amata,
mia migliore amica
Personaggi
CAPITAL CITY
Sal-Afsan: apprendista astrologo
Dar-Mondark: medico
Dy-Dybo: principe
Det-Yenalb: Sommo sacerdote
Gerth-Palsab: cittadina
Irb-Falpom: agronoma
Jal-Tetex: capocaccia
Len-Lends: imperatrice
Pal-Cadool: macellaio
Tak-Saleed: maestro astrologo
BRANCO DI GELBO
Lub-Kaden: capocaccia
Val-Toron: corriere
Wab-Novato: fabbricante di lunga-vista
BRANCO DI CARNO
Cat-Julor: addetta asilo nido
Det-Zamar: sacerdote anziano
Pahs-Drawo: probabile padre di Afsan
Pal-Donat: sacerdote del sangue
Tar-Dordool: capocaccia
1
Tenebre…
E un suono.
Musica?
Sì, musica. Una ballata: Il viaggio di Larsk.
Così bella. Coinvolgente.
— Dy-bo…
Il principe smise di cantare e sbatté
gioiosamente la coda. — Afsan, razza di
orecchio turato! Lo sapevo che non ci
avresti lasciato.
Afsan riuscì a battere debolmente i
denti. — Finisci la canzone.
Dybo si appoggiò sulla coda. E riprese
a cantare.
9
— Terra in vista!
Il grido si levò da uno dei pellegrini,
una femmina al suo turno di vedetta
nella coffa in cima all’albero maestro.
In quell’istante, i denti di Afsan
crepitarono in un moto di compiaciuta
soddisfazione. Sembrava una scena
attinta da un’opera di fantasia, come in
quelle storie improbabili per cui andava
famoso Gat-Tagleeb, quando accadeva
sempre qualcosa proprio nel momento
più critico.
Il sacerdote di bordo, Det-Bleen, aveva
chiuso Afsan in un angolo del ponte
poppiero. In quegli ultimi decagiorni,
Afsan si era tenuto in disparte dagli altri.
Il suo isolamento era dovuto in parte a
quanto era accaduto con il folle Nor-
Gampar. Nessuno biasimava Afsan per la
morte di Gampar – era l’unico modo di
risolvere una sfida tanto feroce, quando
non c’era più spazio per una ritirata – ma
d’altra parte non piaceva a nessuno
vedersi ricordare la violenza di cui tutti
loro erano capaci, quella che si
sforzavano di tenere a freno, ma che era
sempre in agguato sottopelle. In parte,
però, era dovuto ai bisbigli, alle occhiate
furtive che sembravano seguirlo
ovunque, allo sgomento di tutti dinanzi a
quel folle viaggio che proseguiva sempre
più a oriente.
Ma Afsan aveva bisogno quanto
chiunque altro di vedere il cielo violaceo
sopra di sé, e quando i ponti erano quasi
deserti saliva in coperta a passeggiare, a
godersi il vento incessante.
In una di queste occasioni Bleen
l’aveva avvicinato, l’ira palese nella
rigidità della coda, negli artigli estratti,
nella postura pienamente eretta, la più
lontana possibile da un inchino
concessivo.
Per colpa di Afsan, aveva detto Bleen,
la sciagura attendeva tutti coloro che si
trovavano a bordo della Dasheter. La
carne di Kal-ta-goot stava diventando
rancida; altri individui, come Gampar,
avrebbero ceduto presto agli
incontrollabili istinti territoriali. La loro
unica speranza, diceva Bleen, era che
Afsan si ravvedesse, che spiegasse al
capitano Keenir che si era sbagliato, che
dinanzi a loro non c’era altro che il Fiume
senza fine.
— Facci tornare indietro! — aveva
appena finito di dire Bleen. — Per amore
della Dea e del Profeta, convinci Keenir a
invertire la rotta!
Ma proprio in quell’istante risuonò il
grido della pellegrina; lontano, ma
distinguibile, tra lo schioccare delle vele,
il frangersi delle onde.
— Terra in vista! Terra in vista!
La bocca del giovane astrologo si
chiuse, con un esultante crepitare di
denti. Quella del sacerdote Bleen rimase
spalancata, la sorpresa dipinta sul volto.
Afsan non attese che il più anziano gli
desse il permesso di allontanarsi. Si
precipitò per il ponte di poppa,
attraversò il raccordo di collegamento e
proseguì lungo il ponte anteriore, per
raggiungere il parapetto di prua. Si
trattava di una notevole distanza, l’intera
lunghezza della Dasheter da poppa a
prua, e Afsan ci arrivò senza fiato,
scuotendo il gozzo alla brezza per
disperdere il calore.
Afsan non aveva il vantaggio che
offriva l’altezza superiore della coffa; non
riuscì a vedere altro che acqua azzurra,
fino all’orizzonte. Si voltò per alzare lo
sguardo alla vedetta: teneva un dito
puntato. Afsan si girò di nuovo e, per la
Dea, eccola laggiù, che sorgeva
lentamente dal ciglio del mondo, ancora
indistinta da quella distanza, ma senza
alcun dubbio solida terraferma.
— Che cos’è? — chiese una voce roca
vicino a lui. Afsan volse la testa e vide
che era sopraggiunto Keenir. Ora che la
sua coda era completamente ricresciuta,
l’arrivo del capitano non era più
annunciato dai rintocchi del bastone da
passeggio. — È la nostra Terra? Oppure
un’isola sconosciuta?
Afsan non aveva preso in
considerazione quell’evenienza. Doveva
essere la Terra, la patria di tutti loro.
C’erano sì alcune isole al largo della costa
occidentale della Terra, un arcipelago che
si estendeva come una coda dalla
terraferma. E infatti Afsan supponeva
che quella che si vedeva fosse
probabilmente Boodskar, un’isola di
quell’arcipelago. Ma non gli era venuto
in mente che potesse trattarsi di un
territorio del tutto inesplorato.
“Dobbiamo essere in vista di casa” pensò.
“Non può essere altrimenti!”
— Guardate! — gridò un’altra voce, e
Afsan si accorse che il principe Dybo si
era unito a loro. — È coperta di alberi!
Come faceva a saperlo? Afsan si girò
verso l’amico… che stava puntando
sull’isola un tubo d’ottone. Ma certo, il
lunga-vista! Dybo si era appassionato a
quello strumento da quando Afsan gli
aveva fatto vedere attraverso le lenti le
meraviglie del cielo notturno.
— Dammelo — disse Keenir. Ad
Afsan parve un modo piuttosto rude di
rivolgersi a un principe, ma Dybo gli
consegnò subito lo strumento.
Keenir se lo avvicinò all’occhio. Era
ovvio che avesse pensato la stessa cosa di
Afsan. — Alberi, infatti — commentò. —
Ma se quella è Boodskar, ci dovrebbe
essere un vulcano dalla forma bizzarra, e
non riesco a vederlo… No, aspettate un
battito, aspettate… Ma sì, per gli artigli
della Cacciatrice, sì, eccolo lì!
Keenir diede una gran manata sulla
spalla di Afsan, facendo vacillare in
avanti il giovane apprendista. — Per la
Dea, figliolo! — esclamò il capitano. —
Avevi ragione. Avevi ragione da
vendere!
Keenir si voltò a osservare il ponte
della nave. Afsan fece altrettanto. Allora
si accorse che tutti e trenta gli individui a
bordo erano lì radunati, in coperta. Lo
stupore e il sollievo di sapersi giunti al
termine del viaggio sembravano
sufficienti a placare qualsiasi istinto
territoriale, almeno per il momento.
La voce di Keenir si levò. — Siamo a
casa!
Afsan scrutò la folla attorno a lui. Uno
dopo l’altro, i Quintaglio gli tributarono
un inchino concessivo. Le code batterono
il ponte in un fragoroso applauso.
— Casa!
— Finalmente!
— L’eggling aveva ragione!
Ci vollero quasi sei giorni perché la
Dasheter raggiungesse la terraferma,
superando una dopo l’altra tutte le isole
vulcaniche che formavano l’arcipelago. A
un certo punto avvistarono un altro
veliero, ma era molto distante a
settentrione e, anche se tutti a bordo
avevano un bisogno disperato di vedere
facce nuove, il capitano tenne la barra
dritta verso la costa. Il viaggio di
avvicinamento fu accompagnato dal
rintoccare più frequente delle campane di
bordo, dall’intensificarsi dei colpi di
tamburo.
Trovare il giusto approdo, però, non
fu cosa facile. Capital City, situata sul
lato opposto della Terra, era l’unico vero
insediamento permanente. I branchi
tendevano a non fermarsi a lungo nello
stesso posto. Preferivano seguire le
mandrie di animali. Il branco di Carno, di
cui era originario Afsan, si spostava su e
giù per la riva settentrionale del fiume
Kreeb; i fauxovatilli costituivano la base
della loro dieta.
Gli edifici venivano abbandonati da
un gruppo per essere poi occupati da un
altro, un chilogiorno o due più tardi.
Quantomeno se avevano resistito
all’impeto dei terremoti.
Alla fine, Keenir scelse un molo situato
in una piccola insenatura che, a giudicare
dalle carte, doveva essere la Baia delle
Tre Foreste, all’estremità meridionale
della provincia di Jam’toolar. Le
costruzioni visibili dalla riva sembravano
attualmente disabitate, ma in gran parte
intatte. Keenir portò la nave nella baia
con maestosa lentezza. Siccome, però,
non c’era abbastanza fondale per
avvicinarsi fino alla riva, la Dasheter gettò
l’ancora in rada e tutti scesero a terra con
le piccole barche a remi.
Ogni scialuppa era concepita per
trasportare sei individui, ma la Dasheter
ne aveva soltanto quattro su cinque,
perché quella perduta nella prima
battaglia di Keenir con Kal-ta-goot non
era stata sostituita. Tuttavia, riuscirono
ad accalcarsi tutti quanti sulle barche
superstiti, l’esultanza per lo sbarco
sufficiente a frenare gli istinti per il breve
tragitto fino alla spiaggia.
Finalmente! Dopo trecentoquattro
giorni a bordo, Afsan rimetteva piede
sulla terraferma. Era strano non
dondolare più a destra e a manca, cullati
dalle onde, non sentire più lo sbattere
delle vele. Afsan fece qualche passo sulla
riva, poi si accasciò sulla sabbia, più che
mai felice di essere di nuovo a terra.
Altri corsero verso le foreste, forse
soltanto per l’ebbrezza di una sgroppata,
o forse per catturare qualcosa di fresco da
mangiare.
La maggioranza dei passeggeri voleva
essere ricondotta a Capital City, per poter
ritornare alla propria esistenza. Ma
Capital City distava ancora all’incirca
venticinque giorni di navigazione,
risalendo la costa della Terra, e Keenir
sapeva che passeggeri e ciurma avevano
bisogno di scendere dalla nave per
qualche tempo, prima di affrontare il
rientro. Anzi, Keenir non parve sorpreso
nemmeno quando due passeggeri e un
marinaio gli annunciarono che avevano
deciso di concludere lì il viaggio in nave.
Avrebbero attraversato l’entroterra per
conto loro, procacciandosi il cibo strada
facendo.
Presto vennero organizzate delle
piccole squadre di ricognizione per
tentare di rintracciare altri Quintaglio. La
speranza era incontrare un corriere, uno
di quelli che si spostavano di branco in
branco a cavallo di un bipede per portare
le ultime notizie da Capital City alle
province più remote.
Afsan e Dybo costituivano una delle
squadre. Puntarono dritto verso l’interno,
in cerca di indizi rivelatori del recente
passaggio di un gruppo di cacciatori o di
una carovana di corneri.
Non erano dotati di particolare talento
per quel compito, ma dopo mezza
giornata di ricerche vane, Dybo notò tre
grossi aerodattili che continuavano a
volare in cerchio, in lontananza. Molto
probabilmente, convenne con Afsan, era
il segno che qualche animale era stato
appena abbattuto. La coppia si addentrò
nella foresta, avvistando gli aerodattili a
sprazzi, attraverso gli squarci nella coltre
frondosa degli alberi.
Alla fine, s’imbatterono in otto
Quintaglio all’opera sulla carcassa fresca
di un fauxovatillo. Affondavano i musi
insanguinati nelle carni lacere per
strapparne bocconi.
I cacciatori alzarono il muso al
sopraggiungere di Afsan e Dybo. Sazi
com’erano, potevano tenere saldamente a
bada gli imperativi territoriali. Invitarono
i due giovani a unirsi a loro.
— Ce n’è in abbondanza per tutti! —
gridò una grande femmina, che Afsan
immaginò fosse la capocaccia.
La carne, rossa e grondante di sangue,
aveva un aspetto irresistibilmente
appetitoso, dopo infiniti decagiorni di
dieta a base di insipide creature
acquatiche pescate sulla Dasheter e della
carne sempre più odorosa del grande
serpente Kal-ta-goot. Afsan e Dybo
ringraziarono con un inchino concessivo
e si servirono con entusiasmo di carne
fresca. Afsan staccò un bel pezzo di coda,
mentre Dybo affondava artigli e denti
nella coscia della bestia abbattuta.
— Da dove venite? — chiese la
capocaccia, dopo che i giovani ebbero
mangiato a sazietà.
— Siamo appena sbarcati dalla
Dasheter — rispose Afsan. Ci furono dei
mormorii di approvazione: la nave di
Keenir era conosciuta in ogni angolo
della Terra.
— Io sono Lub-Kaden — si presentò la
capocaccia, accovacciata al suolo. — Voi
come vi chiamate?
— Io sono Afsan e lui è il principe
Dybo.
Le teste che erano state immerse nelle
carni del fauxovatillo si sollevarono alla
luce del sole. Altri cacciatori, già satolli e
sdraiati sul ventre, si scossero dal torpore
per volgersi verso Afsan.
Kaden lo guardò dritto negli occhi. —
Ripetilo.
— Io mi chiamo Afsan. Lui è il
principe Dybo.
La capocaccia lo osservò attentamente,
ma il muso di Afsan non divenne
bluastro. Un Quintaglio può mentire
impunemente solo al buio.
Kaden si alzò in piedi. — Tu sei Dybo?
— chiese all’amico di Afsan.
— Sì.
Neppure il suo muso cambiò di colore.
Uno degli altri cacciatori annuì e bisbigliò
a un compagno: — L’avevo sentito dire
che il principe ha una pancia di tutto
rispetto.
— Ed eravate in navigazione, hai
detto? A bordo della Dasheter?
— Esatto — risposero insieme Afsan e
Dybo. — In pellegrinaggio.
— Quindi non lo sapete, giusto? —
chiese Kaden.
— Non sappiamo cosa? — domandò
Dybo.
— Mi addolora doverti dare questa
notizia, buon sire — disse la capocaccia
— ma un corriere ci ha fatto visita
soltanto la scorsa sera-pari. Sua
Luminescenza l’imperatrice Len-Lends è
deceduta poco tempo fa.
— Mia madre? — chiese Dybo. —
Morta?
— Sì — confermò Kaden. — Un
terremoto a Capital City, all’apparenza. È
crollata parte di un tetto. A quanto
dicono, è stata una morte rapida.
La coda di Dybo fremeva. Lo stesso
Afsan provò una fitta di tristezza. Si era
sentito troppo in soggezione con la
madre dell’amico per poter dire che gli
fosse stata realmente simpatica, ma
l’aveva senz’altro ammirata per tutto
quello che aveva fatto per il suo popolo.
— Questo significa inoltre — aggiunse
Kaden, prostrandosi in un profondo
inchino, la coda sollevata da terra — che
tu, buon Dybo, sei ora l’imperatore della
Terra, sovrano di tutte e otto le province
e dei cinquanta branchi.
Per satolli che fossero, gli altri
cacciatori riuscirono ad alzarsi e a
prodursi in rispettosi inchini. — Lunga
vita all’imperatore Dybo! — gridò uno, e
presto lo stesso grido salì da ogni gola. —
Lunga vita all’imperatore Dybo!
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