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L’arte di organizzare la speranza: Movimenti

e critica sociale
di Ana Cecilia Dinerstein

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8 / 4 / 2019

Per la rubrica teorica Il pensiero alla radice proponiamo un testo di Ana Cecilia
Dinerstein, teorica marxista e femminista argentina, docente alla University of Bath. Il suo
lavoro più noto è The Politics of Autonomy in Latin America: The Art of Organising
Hope (2015), sui movimenti di base in Messico, Argentina, Bolivia e Brasile. Negli ultimi
anni Dinerstein ha teorizzato “L’arte di organizzare la speranza” come prassi collettiva di
critica sociale dal basso, facendo dialogare esperienze di diverse zone del mondo
accomunate dal tentativo di costruire forme di vita in comune e autonome dentro, contro e
oltre la società esistente. Quella che segue è una versione abbreviata dell’intervento di
apertura dell’Alternative Summit TAOH: New Narratives for Europe, tenutosi a Ghent
a fine 2018. Traduzione di Lorenzo Feltrin.

Per molti anni ci è stato ripetuto fino allo sfinimento che non c’è alternativa, che non
possiamo fare niente contro ciò che ci danneggia. Si tratta di una narrativa paralizzante che
crea disperazione. Ma anche la disperazione è un costrutto sociale, e l’immaginario sociale
della disperazione è basato sulle idee di dolore, sacrificio, paura, incertezza, vulnerabilità,
pericolo. Creare un senso di disperazione è un modo molto efficiente di far passare
rapidamente ristrutturazioni economiche irreversibili, anche se degradano la qualità della
vita, peggiorano le condizioni di lavoro e più generalmente diffondono paura e infelicità.
Tutto ciò facilita la smobilitazione e le attitudini al riflusso che ci separano gli uni dagli altri e
dal mondo che dobbiamo così urgentemente cambiare. Il messaggio “Sacrificati oggi o non
avrai opportunità nel futuro” che ci offrono i dirigenti del capitalismo-patriarcato-colonialità
non è una promessa politica molto allettante! O no?

Pierre Bourdieu ci dice che l’utopia neoliberista è giunta a vedersi come la descrizione
scientifica della realtà. Ma in realtà, ovviamente, questa è solo la realtà chiusa del pensiero
unico, ciò che il Subcomandante Insurgente Marcos chiama l’inevitabile: “L’inevitabile ha
oggi il nome della globalizzazione frammentata… La fine della storia, l’onnipresenza e
l’onnipotenza del denaro, la sostituzione della politica con la polizia, il presente come l’unico
possibile futuro, la razionalizzazione dell’uguaglianza sociale, la giustificazione del super-
sfruttamento degli esseri umani e delle risorse naturali, del razzismo, dell’intolleranza e della
guerra”.

L’arte di organizzare la speranza detesta la narrazione violenta dell’inevitabile e mira a


esplorare e tirar fuori le nostre potenzialità collettive, ritrovando il potere politico di sognare
e prefigurare, assieme, possibili alternative. La paura e la disperazione hanno le gambe corte
e ci sono momenti straordinari nella storia in cui il governo tramite paura termina in un
vicolo cieco. In questi punti di rottura, spesso marcati da crisi economiche, finanziarie e
politiche, la paura può lasciare spazio a un’altra emozione umana egualmente importante: la
speranza. Credo che oggi ci troviamo in uno di questi momenti, anche se non è ovvio né
visibile a tutti. Per questo l’arte di organizzare la speranza è così importante, perché
dobbiamo scoprire un nuovo linguaggio per designare le nostre azioni in modo da metterne
in risalto il significato politico.

Stiamo vivendo un momento affascinante per il radicalismo politico. Mentre gli orrori della
nostra epoca – guerra, morte, violenza, stupri, fame – si espandono drammaticamente,
forme sottili di “utopia” sono di ritorno. We are not in Kansas anymore. Un grande
cambiamento è avvenuto nella politica dei movimenti di base, un cambiamento che dimostra
che le lotte contro l’inefficacia della politica dall’alto, il fallimento della democrazia
rappresentativa, la brutalità del potere e il carattere alienante dell’economia si stanno
creando spazi di manovra per concepire e organizzare la vita sociale diversamente.

Una data molto importante in questo mare di cambiamento è la resistenza collettiva di base
iniziata il 1° gennaio 1994. […] Gli zapatisti non sono mai stati degli ingenui. Sanno quello
che fanno e quale sia l’impatto delle loro azioni. Soprattutto, sanno che l’unico modo di
affrontare il potere è decostruirlo, discorsivamente, politicamente, collettivamente.
Decostruire i potenti è anche possibilità di costruire il nostro potere. Questo è importante per
l’arte di organizzare la speranza perché – anche se non ignoriamo la forza violenta delle
dittature, il potere umiliante del debito, gli effetti devastanti della fame, la disciplina imposta
dalla polizia – possiamo e dobbiamo apprendere la speranza. Dobbiamo formare la nostra
speranza, come dice Bloch, in modo da pensare noi stessi come coloro che costituiscono la
realtà sociale e non come coloro che reagiscono a una realtà creata da altri. La creazione di
realtà come la realtà deriva da conflitti su che cosa “realtà” significhi. Ma ciò che ci definisce
come umani è la capacità di proiettarci nel mondo, di condividere, di scegliere come vivere,
aspirare, sognare, organizzare, agire e usare il nostro intuito, la nostra intelligenza emotiva e
ovviamente la nostra immaginazione per vivere quanto più possibile una vita degna.

Come sapete, il mio non è un discorso religioso! Tutt’altro, la speranza è una categoria di
lotta, un’emozione e uno strumento per cambiare radicalmente il quadro di leggibilità della
realtà – ovvero il modo in cui comprendiamo la realtà – rifiutando la realtà che ci viene
imposta dal potere egemonico, in molti modi, inclusa la fame. La fame, dice Martinez
Andrade, dev’essere presa sul serio! Il problema principale è la naturalizzazione della società
capitalista-patriarcale-coloniale come “la nostra società”, “il mondo in cui viviamo”, l’unico
modello praticabile di vita umana collettiva. Tale naturalizzazione è erronea perché la società
capitalista è una “forma” di società tra altre (esistenti, immaginarie, o non ancora
immaginate). Se non ce ne accorgiamo, siamo condannati alla disperazione e alla tristezza,
senza neanche sapere perché. Se naturalizziamo la violenza inerente alla società capitalista-
patriarcale-coloniale, l’illusione (reale) che la realtà sia solo ciò che ci appare di fronte agli
occhi è tristemente confermata. La possibilità di un’alternativa viene eliminata dall’orizzonte,
possiamo solo operare all’interno delle prospettive assai limitate offerte dalla fantasia o dalla
probabilità. Questo genera auto-limitazione e auto-repressione nelle nostre visioni del
mondo. […]

Non è più il momento di chiedersi se sia opportuno o no avere un’utopia, perché è sempre
più chiaro che, per la maggior parte delle persone al mondo, l’utopia sia oggi indispensabile.
Non è più un’opinione ma una necessità. Ma qui si pone la domanda: dov’è tale utopia?
L’arte di organizzare la speranza non ha nulla a che vedere con il creare paradisi nelle nostre
menti per progettare un piano che ci porti da qui a lì. Quindi di che utopia stiamo parlando?
L’arte di organizzare la speranza sospetta delle utopie astratte, perché l’utopia astratta è
un’imposizione che ci costringe ad adeguarci per starci dentro. È come se mi comprassi un
vestito ideale che però è troppo piccolo per me. Dovrei mettermi a dieta per entrare in
questo magnifico vestito, ma ciò mi renderebbe infelice, come sono stati infelici molti
sognatori rivoluzionari del passato, che sognarono un ideale astratto dalla storia e dal
contesto e si costrinsero a essere il soggetto di tale rivoluzione…

Oggi, ci affidiamo a soggettività politiche emerse nel mezzo della crisi capitalista e della crisi
dell’utopia e legate a questo particolare momento della lotta. Questo soggetto radicale è
plurale, prefigurativo, decoloniale, etico, ecologico, comunitario, antipatriarcale, anti-
identitario e democratico. Le nostre utopie devono avere le medesime qualità. Devono
essere utopie concrete, orientate quindi alla prassi, come dice Ruth Levitas. La principale
differenza tra utopie astratte e utopie concrete è che le prime sono preconfezionate, mentre
l’utopia concreta è di tipo anticipatorio. Come dice Ernst Bloch: “Non coincide con l’onirismo
dell’utopia astratta e non è diretta dall’immaturità del socialismo meramente utopico”. Come
Marx scrisse a proposito della Comune di Parigi centocinquant’anni fa: “La classe operaia non
attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par dècret
du peuple. […] La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della
nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese” (1).

Le utopie concrete offrono una critica dell’esistente basata sull’esperienza. Sono aperte e
contengono il non ancora al proprio interno! Il non ancora è una nozione centrale nella
filosofia di Bloch. Egli guarda all’umanità in un modo peculiare, mettendo il non ancora al
centro. Questo significa che l’umanità è in-finita, è una possibilità, deve accettare la sfida del
divenire. L’umanità è non ancora in possesso di sé stessa ed è “qualcosa che deve ancora
essere scoperto” (2).

La “scoperta” del non ancora è ciò che l’arte di organizzare la speranza fa. È prassi. Le utopie
concrete appartengono al dominio del realmente possibile. La realtà non è reale se non è
aperta, se non include la dimensione del non ancora. Bloch insiste che “Non c’è vero
realismo senza la vera dimensione di tale apertura” (3). Ma dobbiamo decolonizzare questa
apertura. Le lotte degli indigeni, delle donne e degli altri soggetti subalterni della resistenza
differiscono dalle forme di mobilitazione mainstream nel nord globale. Comprendere queste
differenze è importante per l’arte di organizzare la speranza. Le caratteristiche particolari
della resistenza indigena, per esempio, non sono semplicemente specificità culturali o
differenze di contesto storico o produttivo, sono un posizionamento differenziato dei popoli
indigeni nei confronti dello stato, della legge e del capitale. La colonialità è incastonata nel
potere che resistono e affrontano. Come attività orientata alla prassi, l’utopia concreta sfida
la teoria critica astratta ed eurocentrica, poiché quest’ultima è distaccata dall’esperienza-
critica decoloniale portata avanti da soggetti subalterni che si mobilitano su questioni di
riproduzione e giustizia sociale (nel sud globale e nel mondo non occidentale). L’utopia
concreta attacca l’episteme eurocentrica che impedisce alla critica di divenire critica senza
confini.

L’arte di organizzare la speranza sfida il quadro della realtà esistente, ovvero il modo in cui
comprendiamo la realtà, e opera nello spazio del non ancora, senza essere guidata da
aspettative o principi decisi a priori. L’occupazione di uno spazio e la creazione di
un’economia alternativa, la lotta per un genere alternativo, il bisogno di decolonizzare la
politica, la realizzazione di una pedagogia diversa, la ricerca di forme di attività degne oltre il
lavoro decente, tutte queste utopie concrete non criticano la società dall’esterno, sono
critica. E ricordiamo che l’assenza di “fatti” o “condizioni” per il cambiamento non limita l’arte
di organizzare la speranza perché è vero l’opposto: l’arte di organizzare la speranza dimostra
quanto limitante sia la realtà rappresentata tramite “fatti”! I Sem Terra (Movimento Senza
Terra) in Brasile si sono avventurati oltre il “fatto” di essere condannati alla fame e il “fatto”
che la terra non fosse di loro proprietà. Hanno tagliato le reti metalliche, si sono spinti oltre
le recinzioni e hanno occupato le terre per nutrirsi e praticare il loro sogno di riforma agraria.
Hanno cambiato i fatti. Hanno pensato: “Abbiamo fame e se la nostra realtà non corrisponde
ai fatti, tanto peggio per i fatti!” (Bloch più Hegel).

L’arte di organizzare la speranza respinge anche l’accusa di utopia irrealizzabile che viene
spesso mossa ai movimenti e rifiuta la richiesta che dovremmo essere più chiari nello
specificare che alternativa stiamo creando. Non lo sappiamo! Sappiamo solo che non può
andare avanti così. Non sono piuttosto i potenti che dovrebbero spiegarci che cosa
esattamente stiano difendendo e che cosa pensano di fare con il loro sistema capitalista-
patriarcale-coloniale? Ma se non abbiamo un “piano” da seguire, come bisogna dirigere la
prassi? Bloch propone che la prassi sia guidata da una “speranza formata” (docta spes) che
medi tra ragione e passione. È questione di apprendere la speranza… dobbiamo interagire
con il nostro divenire qui e ora, questo è il nostro posto! Non è certo un caso che una delle
caratteristiche chiave dei movimenti per la speranza sia la creazione di pedagogie e saperi
propri. L’organizzazione politica parte da qui.

Dire no non è abbastanza, e ogni no contiene al proprio interno un sì, un’affermazione di


qualcosa che esiste non ancora. Sono due facce della stessa medaglia. Neghiamo per far
scaturire speranza. L’organizzazione della speranza è quindi affermativa, ma non è affatto
positiva o meramente “ottimista”. Dobbiamo distinguere chiaramente tra prassi positiva e
prassi affermativa. Mentre la prima accetta la realtà così com’è, la prassi affermativa nega
per affermare la vita dentro, contro e oltre il capitale-patriarcato-colonialità. Senza questa
distinzione, e senza la connessione tra negazione e affermazione, la negatività diventa critica
astratta, distaccata dal reale movimento delle lotte, priva di specificità storica. […]

Siamo coscienti di quanto difficile e pericoloso sia dire no: abbiamo un bisogno estremo di
distruggere il denaro come forma astratta di riproduzione della vita ma, proprio mentre lo
facciamo, abbiamo bisogno del denaro per vivere. Vogliamo tenerci il più possibile alla larga
dallo stato ma al contempo abbiamo bisogno del welfare per sopravvivere. L’arte
d’organizzare la speranza è navigare attraverso queste contraddizioni e il cambiamento
sociale risulta da questi processi. […] Sappiamo tutti che i governi e gli altri poteri dello
stato, la legge, l’economia, le norme culturali e il senso comune cercheranno di “tradurre”
l’arte di organizzare la speranza in qualcosa di diverso, oppure di reprimerla, ridicolizzarla,
minimizzarla. Devono farlo per mantenere l’ordine che essa scompiglia. Ma anche la
traduzione è un processo di conflitto su ciò che può essere tradotto e ciò che viene lasciato
da parte. Ecco la questione centrale dell’arte di organizzare la speranza: quando creiamo una
forma alternativa di rapportarci con gli altri, leggiamo la realtà in modo differente, ci
avventuriamo oltre “le recinzioni”, abitiamo uno spazio simbolico e territoriale che ci era stato
proibito. Ci hanno detto che non potevamo andarci, come se fossimo dei bambini, mentre
l’arte di organizzare la speranza ci porta proprio lì. Lì dove?

Lì è ciò che chiamo l’oltrezona dell’azione collettiva, lo spazio dove la realtà può essere
rappresentata diversamente, dove possiamo permetterci di pensare diversamente, dove i
parametri di leggibilità della realtà sono più ampi e la possibilità esiste! “Possibilità” è un
concetto chiave nel lavoro di Bloch ed è diverso da “probabilità”. La maggior parte delle cose
che sogniamo non sono probabili, ovvero non ci sono indicazioni oggettive del fatto che
potrebbero verificarsi a breve. Ma non si può dire che siano impossibili. Chi oserebbe dire
che eliminare la fame è impossibile? Sarà improbabile, ma è senz’altro possibile. […] Per
Bloch parlare del futuro è come guardare l’alba, vuol dire essere situati in un punto
temporale in cui “Le caratteristiche singolari non ci sono ancora perché il sole che irradia la
sua luce non è ancora sorto, è ancora l’alba ma non è più buio” (4). Qui e ora non è più
buio! L’arte di organizzare la speranza crea uno spazio temporale, fisico e politico, un
autentico incontro, colmo di ciò che Spinoza chiamava “passioni gioiose”, cruciali per la
sopravvivenza umana.

(1) Karl Marx, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma, 1974 (1871).

(2) Ernst Bloch, Tracce, Garzanti, Milano, 1994 (1959).

(3) Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005 (1959).

(4) Stephen E. Bronner, “Utopian Projections: In Memory of Ernst Bloch”, in Not Yet:
Reconsidering Ernst Bloch a cura di Jamie O. Daniel e Tom Moylan, Verso, Londra e New
York, 1997.

il pensiero alla radice approfondimenti

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