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mi: come ridare voce ai perdenti che l’hanno smarrita o non l’hanno mai
avuta, come recuperare le tradizioni di resistenza e di lotta dimenticate o
rimosse o represse; ma lei – a differenza di Traverso – pone la questione
di come superare la teleologia costipante di una certa tradizione marxista,
e quindi di come fare storia al di fuori di essa. In una bella pagina del suo
libro Riot-Sarcey analizza il quadro celeberrimo di Eugène Delacroix La
liberté en marche accostandolo a quel passo altrettanto famoso di Benja-
min sull’angelo della storia, che Traverso riecheggia quando parla di un
«paesaggio di rovine». Mi chiedo, en passant, se per caso anche l’immagi-
ne, su cui Traverso si sofferma, di Albrech Dürer (l’incisione Melancholia
I) con il suo angelo meditabondo, possa essere preso in considerazione tra
le fonti di quel passo di Benjamin.
Anche nel libro di Traverso l’attenzione alle forme artistiche è vivis-
sima: con pagine dedicate ai dipinti (dall’iconografia del Che Guevara
rappresentato come Cristo a quella dei funerali di Togliatti) e ai film (da
Queimada di Gillo Pontecorvo a Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelo-
poulos ai film di Nanni Moretti) molto più che ai romanzi; le pagine su
Gustave Courbet, in particolare, autore di una meditazione addolorata
sulla sconfitta delle rivoluzioni popolari (prima del 1848 e poi del 1871)
sono tra i passaggi più affascinanti di un libro che cerca nelle forme esteti-
che una strada suggestiva ma ardua per seguire le tracce della meditazione
malinconica sul lutto di una rivoluzione sconfitta o mancata o deprivata
di senso.
Attorno al tema del soggetto non si pone tuttavia solo la questione
dell’emarginazione della tradizione della sinistra non marxista ma anche
quella della scelta di Traverso di privilegiare, all’interno del marxismo, la
linea genealogica blanquista-leninista-trockista (e poi guevarista) rispetto
a tutti gli altri marxismi: quelli, assai variegati, che possiamo chiamare ri-
formisti, gradualisti, positivisti, «della cattedra», revisionisti, scientisti e
così via. Accade così che il soggetto di cui parliamo è un po’ come il cuore
del carciofo, quello che resta dopo che si sono tolte, e mangiate, le foglie.
Molte, e cioè non solo quella del «rinnegato» Karl Kautsky.
Di più, nella vicenda storica concreta questo cogliere fior da fiore, que-
sto scegliere una specifica linea politico-intellettuale, non è un’operazione
distaccata, frutto delle preferenze (neutre o opinabili) dell’interprete, ma
il risultato di una serie di bivi davanti a cui gli attori storici si sono infinite
volte trovati: bivi in cui decidere di imboccare una strada o un‘altra ha
significato prospettive assai diverse, vite differenti e divaricate, traversie,
sofferenze e non di rado la morte.
In altre parole, la questione è che la sconfitta e la vittoria non sono state
soltanto quell’esperienza unificata e polarizzata che il libro ci propone,
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