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LA NATURA NEI TESTI DI PLATONE E ARISTOTELE

Platone

LA STUDIO DELLA NATURA COME STORIA VERISIMILE


TIMEO Ma tutti, o Socrate, anche se poco assennati, nei tentare qualsiasi impresa, o piccola o grande,
sempre invocano qualche dio. E noi che siamo per parlare dell’universo, com’è nato o se anche è senza
nascimento, se proprio non deliriamo, è necessario che, invocando gli dei e le dee, li preghiamo che ci
facciano dire ogni cosa soprattutto secondo il loro pensiero e anche coerentemente a noi stessi. E così siano
invocati gli dei: ma bisogna invocare anche l’opera nostra, affinché molto facilmente voi apprendiate e io
pienamente vi dichiari quel che penso degli argomenti proposti. Prima di tutto, secondo la mia opinione, si
devono distinguere queste cose. Che è quello che sempre è e non ha nascimento, e che è quello che nasce
sempre e mai non è? L’uno è apprensibile dall’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre
nello stesso modo; l’altro invece è opinabile dall’opinione mediante la sensazione irrazionale, perché nasce
e muore, e non esiste mai veramente. Tutto quello poi che nasce, di necessità nasce da qualche cagione,
perché è impossibile che alcuna cosa abbia nascimento senza cagione. Ora, quando l’artefice, guardando
sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello, esprime la forma e la virtù di
qualche opera, questa di necessità riesce tutta bella: non bella, invece, se guarda a quel ch’è nato,
giovandosi d’un modello generato. Dunque, intorno a tutto il cielo o mondo o, se voglia chiamarsi con altro
nome, si chiami pure così, conviene prima considerare quel che abbiamo posto che si deve considerare in
principio intorno ad ogni cosa, se cioè è stato sempre, senz’avere principio di nascimento, o se è nato,
cominciando da un principio. Esso è nato: perché si può vedere e toccare ed ha un corpo, e tali cose sono
tutte sensibili, e le cose sensibili, che son apprese dall’opinione mediante la sensazione, abbiamo veduto
che sono in processo di generazione e generate. Noi poi diciamo che quello ch’è nato deve
necessariamente esser nato da qualche cagione. Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e,
trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti. Pertanto questo si deve invece considerare intorno ad esso,
secondo qual modello l’artefice lo costruì: se secondo quello che è sempre nello stesso modo e il
medesimo, o secondo quello ch’è nato. Se è bello questo mondo, e l’artefice buono, è chiaro che guardò al
modello eterno: se no, – ciò che neppure è lecito dire, – a quello nato. Ma è chiaro a tutti che guardò a
quello eterno: perché il mondo è il più bello dei nati, e dio il più buono degli autori. Il mondo così nato è
stato fatto secondo modello, che si può apprendere con la ragione e con l’intelletto, e che è sempre nello
stesso modo. E se questo sta così, è assoluta necessità che questo mondo sia immagine di qualche cosa.
Ora in ogni questione è di grandissima importanza il principiare dal principio naturale: così dunque
conviene distinguere fra l’immagine e il suo modello, come se i discorsi abbiano qualche parentela con le
cose, delle quali sono interpreti. Pertanto quelli intorno a cosa stabile e certa e che risplende all’intelletto,
devono essere stabili e fermi e, per quanto si può, inconfutabili e immobili, e niente di tutto questo deve
mancare. Quelli poi intorno a cosa, che raffigura quel modello ed è a sua immagine, devono essere
verosimili e in proporzione di quegli altri: perché ciò che è l’essenza alla generazione, è la verità alla fede.
Se dunque, o Socrate, dopo che molti han detto molte cose intorno agli dei e all’origine dell’universo, non
possiamo offrirti ragionamenti in ogni modo seco stessi pienamente concordi ed esatti, non ti meravigliare;
ma, purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di quelli di qualunque altro, dobbiamo essere contenti,
ricordandoci che io che parlo e voi, giudici miei, abbiamo natura umana: sicché intorno a queste cose
conviene accettare una favola verosimile, né cercare più in là.
SOCRATE. E ora è ufficio tuo, o Timeo, di cominciare, dopo aver invocati, com’è costume, gli dèi.
TIMEO Ma tutti, o Socrate, anche se poco assennati, nei tentare qualsiasi impresa, o piccola o grande,
sempre invocano qualche dio. E noi che siamo per parlare dell’universo, com’è nato o se anche è senza
nascimento, se proprio non deliriamo, è necessario che, invocando gli dei e le dee, li preghiamo che ci
facciano dire ogni cosa soprattutto secondo il loro pensiero e anche coerentemente a noi stessi. E così siano

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invocati gli dei: ma bisogna invocare anche l’opera nostra, affinché molto facilmente voi apprendiate e io
pienamente vi dichiari quel che penso degli argomenti proposti. Prima di tutto, secondo la mia opinione, si
devono distinguere queste cose. Che è quello che sempre è e non ha nascimento, e che è quello che nasce
sempre e mai non è. L’uno è apprensibile dall’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nello
stesso modo; l’altro invece è opinabile dall’opinione mediante la sensazione irrazionale, perché nasce e
muore, e non esiste mai veramente. Tutto quello poi che nasce, di necessità nasce da qualche cagione,
perché è impossibile che alcuna cosa abbia nascimento senza cagione. Ora, quando l’artefice, guardando
sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello, esprime la forma e la virtù di
qualche opera, questa di necessità riesce tutta bella: non bella, invece, se guarda a quel ch’è nato,
giovandosi d’un modello generato. Dunque, intorno a tutto il cielo o mondo o, se voglia chiamarsi con altro
nome, si chiami pure così, conviene prima considerare quel che abbiamo posto che si deve considerare in
principio intorno ad ogni cosa, se cioè è stato sempre, senz’avere principio di nascimento, o se è nato,
cominciando da un principio. Esso è nato: perché si può vedere e toccare ed ha un corpo, e tali cose sono
tutte sensibili, e le cose sensibili, che son apprese dall’opinione mediante la sensazione, abbiamo veduto
che sono in processo di generazione e generate. Noi poi diciamo che quello ch’è nato deve
necessariamente esser nato da qualche cagione. Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e,
trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti. Pertanto questo si deve invece considerare intorno ad esso,
secondo qual modello l’artefice lo costruì: se secondo quello che è sempre nello stesso modo e il
medesimo, o secondo quello ch’è nato. Se è bello questo mondo, e l’artefice buono, è chiaro che guardò al
modello eterno: se no, – ciò che neppure è lecito dire, – a quello nato. Ma è chiaro a tutti che guardò a
quello eterno: perché il mondo è il più bello dei nati, e dio il più buono degli autori. Il mondo così nato è
stato fatto secondo modello, che si può apprendere con la ragione e con l’intelletto, e che è sempre nello
stesso modo. E se questo sta così, è assoluta necessità che questo mondo sia immagine di qualche cosa.
Ora in ogni questione è di grandissima importanza il principiare dal principio naturale: così dunque
conviene distinguere fra l’immagine e il suo modello, come se i discorsi abbiano qualche parentela con le
cose, delle quali sono interpreti. Pertanto quelli intorno a cosa stabile e certa e che risplende all’intelletto;
devono essere stabili e fermi e, per quanto si può, inconfutabili e immobili, e niente di tutto questo deve
mancare. Quelli poi intorno a cosa, che raffigura quel modello ed è a sua immagine, devono essere
verosimili e in proporzione di quegli altri: perché ciò che è l’essenza alla generazione, è la verità alla fede.
Se dunque, o Socrate, dopo che molti han detto molte cose intorno agli dei e all’origine dell’universo, non
possiamo offrirti ragionamenti in ogni modo seco stessi pienamente concordi ed esatti, non ti meravigliare;
ma, purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di quelli di qualunque altro, dobbiamo essere contenti,
ricordandoci che io che parlo e voi, giudici miei, abbiamo natura umana: sicché intorno a queste cose
conviene accettare una favola verosimile, né cercare più in là.
(Timeo, 27c-29d; trad. it. in Platone, Opere, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. 2°, pp. 476-478)

LA FORMAZIONE DEL COSMO


Quello ch’è nato deve essere corporeo e visibile e tangibile. Ma niente potrebbe essere visibile, separato
dal fuoco, né tangibile senza solidità, né solido senza terra. Sicché dio, cominciando a comporre il corpo
dell’universo, lo fece di fuoco e di terra. Ma non è possibile che due cose sole si compongano bene senza
una terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame che le congiunga entrambe. E il più bello dei legami è
quello che faccia, per quant’è possibile, una cosa sola di sé e delle cose legate: ora la proporzione compie
questo in modo bellissimo. Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si vogliano, il medio sta
all’ultimo come il primo al medio, e d’altra parte ancora il medio sta al primo, come l’ultimo al medio, allora
il medio divenendo primo e ultimo, e l’ultimo e il primo divenendo a lor volta medi ambedue, così di
necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola. Se
dunque il corpo dell’universo doveva essere piano e senz’alcuna profondità, un solo medio bastava a
collegare sé e le cose con sé congiunte: ma ora, poiché conveniva che il corpo dell’universo fosse solido (e i
solidi non li congiunge mai un medio solo, ma due ogni volta), perché dio mise acqua e aria fra fuoco e
terra, e proporzionati questi elementi fra loro, per quant’era possibile, nella medesima ragione, di modo
che come stava il fuoco all’aria stesse anche l’aria all’acqua, e come l’aria all’acqua l’acqua alla terra,
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collegò e compose il cielo visibile e tangibile. E in questo modo e di così fatti elementi, quattro di numero,
fu generato il corpo del mondo, concorde per proporzione, e però ebbe tale amicizia che riunito con sé
nello stesso luogo non può essere disciolto da nessun altro, se non da quello che l’ha legato. La
composizione del mondo ricevette per intero ciascuno di questi quattro elementi. Perché l’artefice fece il
mondo di tutto il fuoco e l’acqua e l’aria e la terra, senza lasciare fuori nessuna parte o potenza di nessuno
di essi, con questo consiglio: prima, che tutto l’animale fosse, quanto più possibile, perfetto e di parti
perfette, e anche fosse uno, in quanto che nient’era stato lasciato, donde potesse farsene un altro simile; e
poi che fosse immune da vecchiezza e da morbo, perché dio sapeva che il caldo e il freddo e tutti gli agenti
di grande energia, circondando di fuori un corpo composto e importunamente assalendolo, lo sciolgono,
v’inducono morbi e vecchiezza e lo fanno morire. Per questo motivo e ragionamento fece un unico tutto di
tutte le totalità, perfetto e immune da vecchiezza e da morbo. E gli diede una forma conveniente e affine.
Ora all’animale, che doveva raccogliere in sé tutti gli animali, conveniva una forma, che in sé raccogliesse
tutte quante le forme. Perciò lo arrotonda a mo’ di sfera, egualmente distante in ogni parte dal centro alle
estremità, in orbe circolare, che è di tutte le figure la più perfetta e la più simile a se stessa, giudicando il
simile infinitamente più bello del dissimile. E lo fece perfettamente liscio tutt’intorno di fuori per molte
ragioni. Infatti non aveva alcun bisogno d’occhi, non essendovi rimasto niente da vedere al di fuori, né
d’orecchi, non essendovi rimasto niente da udire: né v’era aria d’intorno, che domandasse d’essere
respirata. E nemmeno aveva bisogno d’alcun organo per ricevere in sé il nutrimento o per espellere il
residuo della digestione, perché niente perdeva e niente gli si aggiungeva di dove che fosse, non essendovi
niente. Esso è stato fatto ad arte in tal modo che si procura la nutrizione dalla sua corruzione, e tutto in sé e
da per sé patisce e fa. Credette infatti l’artefice che migliore sarebbe il mondo se bastasse a se stesso che se
fosse bisognoso d’altri. E le mani, con le quali non aveva nessun bisogno di prendere né di respingere
alcuna cosa, dio non credette di dovergliele aggiungere invano, e nemmeno i piedi, né quant’altro serve per
camminare. Ma gli assegnò il movimento adatto al suo corpo, quello dei sette che più s’accosta
all’intelligenza e al pensiero. E però menandolo intorno nello stesso modo, nello stesso luogo e in se stesso,
lo fece muovere con moto circolare e gli tolse tutti gli altri sei movimenti e lo privò dei loro errori. E non
essendovi bisogno di piedi per questa rotazione, lo generò senza gambe né piedi.
(Timeo, 31b-34a; trad. it. in Platone, Opere, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. 2°, pp. 481-483)

Aristotele

LA NATURA DELLA FISICA


Pertanto, da quello che abbiamo detto risulta chiaramente che la fisica è una scienza contemplativa; e
anche la matematica è scienza contemplativa, ma, almeno per ora, non è chiaro se essa si occupi di enti
immobili e aventi un’esistenza separata, sebbene sia chiaro che alcuni settori della matematica studiano i
loro enti in quanto immobili e in quanto separabili. Se, d’altra parte, esiste qualcosa di eterno e di immobile
e di separabile dalla materia, è evidente che la conoscenza di ciò è pertinenza di una scienza teo retica, ma
non certo della fisica [giacché questa si occupa solo di alcuni enti mobili], né della matematica, ma di
un’altra scienza che ha la precedenza su entrambe. Infatti la fisica si occupa di enti che esistono
separatamente ma non sono immobili, e dal canto suo la matematica si occupa di enti che sono, sì,
immobili, ma che forse non esistono separatamente e sono come presenti in una materia, invece la
“scienza prima” si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili. E se tutte le cause sono
necessariamente eterne, a maggior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, giacché esse sono
cause di quelle cose divine che si manifestano ai sensi nostri. Quindi ci saranno tre specie di filosofie
teoretiche, cioè la matematica, la fisica e la teologia, essendo abbastanza chiaro che, se la divinità è
presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta, ed è indispensabile che la scienza più
veneranda si occupi del genere più venerando. Epperò, se le scienze contemplative sono preferibili alle
altre, questa è preferibile alle altre scienze contemplative.

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Noi potremmo chiederci, in realtà, se la filosofia prima sia universale o se essa si occupi di un genere
determinato e di una determinata natura (giacché nemmeno le scienze matematiche seguono tutte un
medesimo criterio di indagine, ma la geometria e l’astronomia si occupano di entità che hanno una
determinata natura, mentre la matematica generale studia tutte queste entità insieme); se, pertanto, non si
ammette 1’esistenza di alcun’altra sostanza al di fuori di quelle che sono naturalmente composte, la fisica,
allora, dovrebbe essere la scienza prima; ma se esiste una certa sostanza immobile, la scienza che si occupa
di questa deve avere la precedenza e deve essere filosofia prima, e la sua universalità risiede appunto nel
fatto che essa è prima; e sarà compito di questa scienza contemplare l’essere-in-quanto-essere, cioè
l’essenza e le proprietà che l’essere possiede in-quanto-essere.
(Metafisica, VI, 1026 a 7-33; trad. it. Aristotele, Opere, vol. 6°, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 175-176)

CHE COS’È LA NATURA


Degli enti alcuni sono per natura, altri per altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti e le piante
e i corpi semplici, come terra, fuoco, aria e acqua (queste e le altre cose di tal genere noi diciamo che sono
per natura), tutte cose che appaiono diverse da quelle che non esistono per natura. Infatti, tutte queste
cose mostrano di avere in se stesse il principio del movimento e della quiete, alcune rispetto al luogo, altre
rispetto all’accrescimento e alla diminuzione, altre rispetto all’alterazione. Invece il letto o il mantello o
altra cosa di tal genere, in quanto hanno ciascuno un nome appropriato e una determinazione particolare
dovuta all’arte, non hanno alcuna innata tendenza al cangiamento, ma l’hanno solo in quanto, per
accidente, tali cose sono o di pietra o di legno o una mescolanza di ciò; e l’hanno solo in quanto la natura è
un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente
(dico “non per accidente”, perché un tale, ad esempio, pur essendo medico, potrebbe essere causa di
salute a se stesso; tuttavia non in quanto egli è sanato, possiede l’arte medica, bensì è capitato
accidentalmente che siano lo stesso il medico e il sanato: e perciò queste due cose si possono anche
separare tra loro). Similmente avviene per ciascuno degli altri oggetti prodotti artificialmente: nessuno di
essi, infatti, ha in se stesso il principio della produzione, ma alcuni lo hanno in altre cose e dall’esterno,
come la casa e ogni altro prodotto manuale; altri in se stessi, ma non per propria essenza, bensì in quanto
accidentalmente potrebbero diventar causa a se stessi.
Dunque, la natura è ciò che è stato detto; ed ha natura ciò che ha tale principio. E tutte queste cose sono
sostanze perché esse sono un sostrato e la natura è sempre in un sostrato. D’altra parte sono per natura
non solo queste medesime cose, ma anche tutte quelle che ineriscono ad esse essenzialmente, come al
fuoco il portarsi in alto. Ciò invero, non è natura e non ha natura, ma è per natura e secondo natura.
Che cosa, dunque, è la natura e che cosa è per natura e secondo natura, è stato detto.
Ridicolo, poi, sarebbe cercar di dimostrare che la natura è: è evidente, infatti, che di tali enti ve ne sono
molti. E dimostrare le cose evidenti mediante le oscure è proprio di chi non sa distinguere ciò che è
conoscibile di per sé e ciò che non lo è (e non è improbabile che una tale malattia possa capitare, giacché
un cieco nato potrebbe pur ragionare intorno ai colori) e la necessaria sequenza è che questi tali si mettono
a discutere di vuoti nomi, ma non pensano affatto.
Ad alcuni sembra, poi, che la natura e la sostanza degli esseri naturali siano ciò che per prima è immanente
a ciascun oggetto, ma informe di per sé, come la natura del letto è, ad esempio, il legno, della statua il
bronzo. Una prova di ciò l’adduce Antifonte, affermando che, se si seppellisse un letto e la putrefazione
avesse la potenza di produrre un germoglio, non ne verrebbe fuori letto, ma legno, perché il primo sussiste
per accidente (la disposizione, cioè, secondo convenzione e arte), mentre la sostanza è quella che permane,
anche se subisce di continuo tali affezioni. Inoltre, se ciascuno di tali oggetti subisce le medesime affezioni
in relazione ad un altro (ad esempio, il bronzo e l’oro rispetto all’acqua, o le ossa e la legna rispetto alla
terra, e così via), secondo Antifonte queste ultime sono la natura e la sostanza delle prime. Perciò secondo
alcuni il fuoco, secondo altri la terra, secondo altri l’aria, secondo altri l’acqua, secondo altri talune di
queste cose, secondo altri, infine, tutte quante queste cose sono la natura degli enti. E chiunque di costoro
abbia posto una o più sostanze di tal genere, dice che questa o queste sono tutta quanta la sostanza, e che
tutte le altre cose ne sono affezioni e stati e disposizioni, e che inoltre ciascuna di esse è eterna (giacché
sostengono che esse non hanno mutamento di per sé), mentre le altre cose nascono e periscono all’infinito.

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In un senso, quindi, la natura viene così definita: cioè, come la materia che per prima fa da sostrato a
ciascun oggetto il quale abbia in se stesso il principio del movimento e del cangiamento; ma in un altro
senso essa è definita come la specie che è conforme alla definizione. Come, infatti, si dice arte ciò che è
conforme all’arte e all’artistico, così anche si dice natura ciò che è conforme a natura e al naturale, e, come
a proposito dell’esempio del letto, noi non potremmo dire né che il letto sia conforme all’arte, se esso è
solo in potenza e non ha affatto la forma del letto, né che vi sia arte, allo stesso modo dovremmo ragionare
anche a proposito degli oggetti che risultano dalla natura: la carne, infatti, o l’osso in potenza non hanno
affatto la propria natura né sono per natura prima di prendere la forma specifica, determinando la quale
noi diciamo che cosa è carne o osso. Sicché, in questo secondo senso, la natura delle cose che hanno in se
stesse il movimento, si potrebbe identificare con la forma e con la specie, la quale ultima è separabile dalla
prima solo per logica astrazione. (Invece il composto di materia e forma non è natura, ma è per natura; ad
esempio, l’uomo.) E la forma è più natura che la materia: ciascuna cosa, infatti, allora si dice che è, quando
sia in atto, piuttosto che quando sia in potenza.
Inoltre, l’uomo viene dall’uomo, ma non il letto dal letto: perciò, anche, dicono che la natura del letto non è
la figura, ma il legno, perché se il letto germogliasse, ne verrebbe fuori non un letto, ma legno. Se, però, il
legno è natura, anche la forma specifica è natura, dal momento che dall’uomo nasce l’uomo.
Inoltre la natura, intesa come generazione, è una via verso la natura vera e propria. Difatti, mentre noi
diciamo che la medicazione non è una via verso la medicina, ma verso la salute (è ovvio, invero, che la
medicazione deriva dalla medicina e non va verso di essa), in modo diverso, invece, son tra loro in relazione
questi due aspetti della natura: infatti ciò che nasce, in quanto nasce, va da qualcosa verso qualcosa. Ma
qual è, pertanto, la cosa che nasce? Non certo quella da cui essa nasce, bensì quella alla quale, nascendo,
essa tende. Si conclude, perciò, che forma è natura.
(Fisica, II, 192 b 8 -193 b 22; trad. it. Aristotele, Opere, vol. 3°, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 27-30)

LA NATURA COME CAUSA FINALE


Bisogna, ora, in primo luogo dire perché la natura è una delle cause finali; poi bisogna trattare del modo
come la necessità si inserisca nelle cose naturali, giacché tutti si riportano ad essa come causa e asseriscono
che, poiché il caldo e il freddo e ciascuna di simili cose sono tali per natura, tutte queste cose esistono e si
generano per necessità. E, invero, anche quando adducano un’altra causa, ne fanno cenno appena e poi la
lasciano andare, come quelli che parlano dell’amore e dell’odio ovvero della mente.
Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, bensì
come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò ha evaporato, deve
raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù: e che il frumento cresca quando questo
avviene, è un fatto accidentale)? E, parimenti, quando il grano, poniamo, si guasta sull’aia, non ha piovuto
per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, ma questo è accaduto per accidente. E, quindi, nulla vieta
che questo stato di cose si verifichi anche nelle parti degli esseri viventi e che, ad esempio, per necessità i
denti incisivi nascano acuti e adatti a tagliare, quelli molari, invece, piatti e utili a masticare il cibo; ma che
tutto questo avvenga non per tali fini, bensì per accidente. E così pure delle altre parti in cui sembra esserci
la causa finale. E, pertanto, quegli esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente, ma allo stesso modo
che se si fosse prodotto in vista di un fine, si sono conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti
in modo opportuno; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti o si van perdendo,
come quei buoi dalla “faccia umana” di cui parla Empedocle.
Questo, o su per giù questo, è il ragionamento che potrebbe metterci in imbarazzo: ma è impossibile che la
cosa stia così. Infatti, le cose ora citate e tutte quelle che sono per natura, si generano in questo modo o
sempre o per lo più, mentre ciò non si verifica per le cose fortuite e casuali. Difatti, pare che non for -
tuitamente né a caso piova spesso durante l’inverno; ma sotto la canicola, sì; né che ci sia calura sotto la
canicola; ma in inverno, sì. Dal momento che, dunque, tali cose sembrano generarsi o per fortuita
coincidenza o in virtù di una causa finale, se non è possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza
né per caso, allora avverranno in vista di un fine. Ma tutte le cose di tal genere sono sempre conformi a
natura, come ammettono anche i meccanicisti. Dunque, nelle cose che in natura sono generate ed esistono,
c’è una causa finale.
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Inoltre, in tutte le cose che hanno un fine, in virtù di questo si fanno alcune cose prima, altre dopo. Quindi,
come una cosa è fatta, così essa è disposta per natura e, per converso, come è disposta per natura, così è
fatta, purché non vi sia qualche impaccio. Ma essa è fatta per un fine; dunque per natura è disposta ad un
tale fine. Ad esempio: se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse
caratteristiche con le quali è ora prodotta dall’arte; e se le cose naturali fossero generate non solo per
natura, ma anche per arte, esse sarebbero prodotte allo stesso modo di come lo sono per natura. Ché l’una
cosa ha come fine l’altra.
Insomma: alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; altre, invece, le imita. E se,
dunque, le cose artificiali hanno una causa finale, è chiaro che è così anche per le cose naturali: infatti, il
prima e il poi si trovano in rapporto reciproco alla stessa guisa tanto nelle cose artificiali quanto in quelle
naturali.
Ma in particolar modo ciò è manifesto negli altri animali che non agiscono né per arte né per ricerca né per
volontà: tanto che alcuni si chiedono se alcuni di essi, come i ragni e le formiche e altri di tal genere,
lavorino con la mente o con qualche altro organo. E per chi procede così gradatamente, anche nelle piante
appare che le cose utili sono prodotte per il fine, come le foglie per proteggere il frutto. Se, dunque,
secondo natura e in vista di un fine la rondine crea il suo nido, e il ragno la tela, e le piante met tono le foglie
per i frutti, e le radici non su ma giù per il nutrimento, è evidente che tale causa è appunto nelle cose che
sono generate ed esistono per natura.
E poiché la natura è duplice, cioè come materia e come forma, e poiché quest’ultima è il fine e tutto il resto
è in virtù del fine, questa sarà anche la causa, anzi la causa finale.
(Fisica, II, 198 b 10 -199 b 32; trad. it. Aristotele, Opere, vol. 3°, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 44-47)

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