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3. In questo quadro di Cesare Maccari, Cicerone è nel pieno della sua arringa, e parla
apparentemente senza l’aiuto di appunti. La scena coglie alla perfezione una delle
principali aspirazioni dell’aristocratico romano, quella di essere un vir bonus dicendi
peritus, un «uomo abile nel parlare».
Alla metà del I secolo a.C. il Senato era composto da circa seicento
membri, i quali avevano tutti precedentemente rivestito cariche pubbliche
(e si deve intendere persone solo di sesso maschile, in quanto nell’antica
Roma nessuna donna rivestì mai una carica pubblica). Chiunque avesse
ricoperto il ruolo di questore (e ne venivano eletti venti ogni anno) otteneva
automaticamente un seggio a vita nell’assemblea. I senatori si riunivano
regolarmente per dibattere, dare consigli ai consoli ed emanare decreti, che
venivano in genere seguiti e applicati, per quanto, non avendo forza di
legge, rimanesse sempre aperta la questione di ciò che sarebbe potuto
accadere se un decreto del Senato fosse stato cassato o semplicemente
ignorato. Senza dubbio la partecipazione alle sedute del Senato oscillava,
ma in questa particolare occasione doveva essere stata altissima. Quanto
all’ambientazione del quadro, appare certamente romana, ma la gigantesca
colonna che si eleva fino a scomparire dalla vista e gli sfarzosi e colorati
marmi che rivestono le pareti sono senz’altro esagerati e fuori luogo per la
città di allora. La nostra immagine moderna dell’antica Roma come un
abbagliante e sconfinato sfavillio di marmo non è del tutto sbagliata; ma
appartiene a un periodo successivo, iniziato con l’avvento degli imperatori e
il primo sfruttamento sistematico delle cave di marmo di Carrara, più di
trent’anni dopo la congiura di Catilina.
La Roma del tempo di Cicerone contava oltre un milione di abitanti, era
ancora costruita per la gran parte in mattoni o pietre locali, e si estendeva in
un labirinto di strade tortuose e vicoli bui. Un visitatore proveniente da
Atene o da Alessandria d’Egitto, dove molti edifici erano realmente come
quelli raffigurati da Maccari, avrebbe giudicato il luogo tutt’altro che
imponente, per non dire squallido. Era un tale focolaio di malattie che un
medico di un’epoca successiva scrisse che per studiare la malaria non c’era
bisogno di leggere i manuali di medicina: bastava fare un giro per la città.
Nei quartieri più malfamati il mercato immobiliare offriva miserabili
abitazioni per i poveri ma lauti guadagni per proprietari privi di scrupoli.
Lo stesso Cicerone aveva investito ingenti somme in questo mercato, e una
volta, scherzando, disse, mosso non dall’imbarazzo ma da un senso di
superiorità, che persino i topi avevano fatto i bagagli e avevano
abbandonato uno dei suoi fatiscenti e pericolanti condominii con
appartamenti in affitto.
Alcuni ricchi avevano iniziato ad attirare l’attenzione di passanti e
visitatori con le loro lussuose case private, colme di pitture raffinate,
eleganti statue greche, mobili alla moda (i tavolini a una sola gamba erano
un oggetto che destava particolare invidia e preoccupazione), persino
colonne di marmo importate. C’era anche un certo numero di imponenti
edifici pubblici, costruiti (o rivestiti) in marmo, che lasciavano presagire la
futura grandiosità di Roma. Ma l’edificio in cui si svolse la riunione dell’8
novembre non aveva nulla di particolarmente spettacolare.
Cicerone aveva convocato i senatori, come spesso avveniva, in un tempio;
in questo caso una vecchia e modesta costruzione dedicata al dio Giove,
vicino al Foro, nel cuore della città, di consueta pianta rettangolare (e non la
struttura circolare immaginata da Maccari), probabilmente piccolo e mal
illuminato, con lanterne e torce a compensare solo in parte la mancanza di
finestre. Dobbiamo figurarci parecchie centinaia di senatori ammassati in
uno spazio estremamente esiguo, alcuni seduti su sedie o panche
provvisorie, altri in piedi che, senza dubbio, cercavano di farsi spazio
sgomitando sotto una veneranda statua di Giove. Fu certamente uno dei
momenti più drammatici della storia romana, ma, altrettanto certamente,
privo di quell’atmosfera di eleganza con la quale siamo abituati a
immaginarlo.
Trionfo e umiliazione
Gli eventi successivi non sono diventati tema dei quadri di appassionati
pittori. Catilina lasciò la città per ricongiungersi con i suoi sostenitori, che
avevano messo insieme un esercito raccogliticcio fuori Roma. Nel
frattempo, Cicerone organizzò una brillante operazione segreta per
smascherare i cospiratori ancora presenti nella capitale. I quali, mal
consigliati, come poi risultò, avevano cercato di coinvolgere nel complotto
una delegazione di galli venuti a Roma per lamentarsi dello sfruttamento
cui erano sottoposti dai governatori provinciali romani. Questi galli, quale
che fosse la vera ragione (forse null’altro che un fiuto istintivo per
riconoscere il vincitore), decisero di collaborare segretamente con Cicerone
e gli fornirono informazioni decisive su nomi, luoghi e piani, nonché
un’altra serie di lettere incriminanti. Seguirono degli arresti, e le solite
scuse poco convincenti. Quando la casa di uno dei cospiratori fu trovata
piena di armi, il suo proprietario protestò la propria innocenza affermando
di essere un collezionista.
Il 5 dicembre Cicerone convocò nuovamente il Senato per discutere quel
che si dovesse fare con le persone arrestate. Questa volta i senatori si
riunirono nel tempio della dea Concordia, chiaro segno del fatto che gli
affari dello stato erano tutt’altro che concordi e armoniosi. Giulio Cesare
propose audacemente che i cospiratori fossero imprigionati: o, come
sostiene una versione, fino a quando, terminata la crisi, potessero essere
adeguatamente processati, oppure, secondo un’altra versione, per tutta la
vita. Nel mondo antico le pene detentive non erano la scelta normale, e le
prigioni non erano altro che luoghi in cui venivano custoditi i criminali
prima di essere giustiziati. Multe, esilio e morte rappresentavano le pene
abitualmente comminate dai romani. Se nel 63 a.C. Cesare propose
veramente il carcere a vita, sarebbe stata probabilmente la prima volta nella
storia dell’Occidente in cui l’ergastolo veniva chiesto quale alternativa alla
pena capitale, sebbene senza successo. Fondandosi sui poteri d’emergenza
che gli aveva concesso il decreto del Senato, nonché sull’aperto sostegno di
parecchi senatori, Cicerone fece giustiziare sommariamente i cospiratori,
senza accordare loro nemmeno un processo dall’esito già predeterminato.
Con atteggiamento trionfale, ne annunciò la morte alla folla acclamante con
un eufemismo condensato in una sola parola: vixere, «sono vissuti»; vale a
dire, «sono morti».
Nel giro di poche settimane le legioni di Roma sconfissero nell’Italia
settentrionale l’esercito di scontenti guidato da Catilina, il quale combatté
coraggiosamente alla testa dei suoi uomini. Il comandante romano, il
console collega di Cicerone Antonio Ibrida, il giorno della battaglia finale
sostenne di avere dolori ai piedi e affidò il comando al suo vice, suscitando
sospetti circa le sue vere simpatie. E non fu il solo a vedere messa in dubbio
la propria posizione. Fin dall’antichità, si sono fatte le più sfrenate e senza
dubbio inconcludenti speculazioni su quali e ben più importanti uomini
possano avere segretamente appoggiato Catilina. Fu davvero l’agente del
subdolo Marco Crasso? E quale fu la reale posizione di Cesare? La sconfitta
di Catilina fu comunque una grande vittoria per Cicerone; e i suoi
sostenitori gli conferirono l’appellativo di pater patriae, «padre della patria»,
uno degli onori più ambiti in una società estremamente patriarcale come
quella romana. Ma la gioia del successo durò poco. Già nel suo ultimo
giorno da console, due avversari politici gli impedirono di pronunciare il
consueto discorso di commiato davanti al popolo romano, sostenendo che
«chi ha punito altre persone senza permettere loro di essere ascoltate non
ha il diritto di essere egli stesso ascoltato». Pochi anni dopo, nel 58 a.C., il
popolo romano avrebbe votato una legge che prevedeva l’espulsione di
chiunque avesse condannato a morte un cittadino romano senza processo.
Cicerone partì da Roma appena prima che fosse approvato un altro decreto
che lo condannava espressamente all’esilio.
Fino a questo punto della vicenda il popolo romano non aveva avuto un
ruolo prominente. Il «popolo» (la P della sigla SPQR ) era un organismo ben
più ampio e indefinito del Senato, formato, in termini politici, da tutti i
cittadini romani maschi; le donne non avevano diritti politici ufficialmente
riconosciuti. Nel 63 a.C. a Roma c’erano circa un milione di cittadini, oltre a
pochi altri fuori di essa. In pratica, il popolo si riduceva alle poche migliaia,
o poche centinaia, che decidevano di presentarsi in città per elezioni,
votazioni o altri appuntamenti politici. Quale fosse l’influenza esercitata dal
popolo è sempre stata, fin dall’antichità, una delle questioni più controverse
e dibattute della storia romana; ma due cose sono certe. Primo, in questo
periodo, soltanto il popolo poteva eleggere i magistrati dello stato; anche
l’appartenenza alla più alta aristocrazia non consentiva di assumere una
carica pubblica (come, per esempio, il consolato) senza l’elezione popolare.
Secondo, soltanto il popolo, e non il Senato, poteva fare le leggi. Nel 58 a.C.
i nemici di Cicerone sostennero che, nonostante l’autorità di cui si era
ritenuto investito in virtù del decreto senatoriale sullo stato d’emergenza,
l’esecuzione dei seguaci di Catilina aveva violato il diritto fondamentale di
ogni cittadino romano a un regolare processo. Il popolo aveva tutto il diritto
di esiliarlo.
Colui che un tempo era stato chiamato «padre della patria» trascorse un
anno infelice nel nord della Grecia (la sua poco onorevole
autocommiserazione non suscita alcuna simpatia), finché il popolo votò il
suo ritorno. Fu accolto dalle acclamazioni dei suoi sostenitori, ma la sua
casa romana era stata demolita e, a confermare il senso politico del gesto, al
suo posto era stato eretto un santuario alla Libertà. Cicerone non si riprese
mai completamente da questo smacco.
Scrivere la storia
Possiamo raccontare questa storia in modo così dettagliato per una ragione
molto semplice: gli stessi romani ne hanno scritto moltissimo, e buona
parte di ciò che hanno scritto si è conservato. Gli storici moderni spesso si
lamentano di quanto poco sappiamo su certi aspetti del mondo antico:
«Pensate soltanto a ciò che non conosciamo circa la vita dei poveri, o
riguardo al punto di vista delle donne». È un atteggiamento anacronistico e
fuorviante. Gli autori della letteratura romana furono quasi esclusivamente
di sesso maschile; o, perlomeno, ci sono giunte solo pochissime opere di
donne (la perdita dell’autobiografia di Agrippina, la madre dell’imperatore
Nerone, deve essere annoverata tra le più tristi per la letteratura classica).
Questi scrittori erano quasi tutti benestanti, anche se alcuni poeti romani,
proprio come fanno ancora oggi diversi poeti, fingevano di soffrire la fame
nelle soffitte. Per di più, i lamenti di questi storici fanno perdere di vista il
punto veramente essenziale.
La cosa più straordinaria a proposito del mondo romano è proprio il fatto
che così tanta parte di ciò che i romani hanno scritto sia sopravvissuto per
oltre due millenni. Possediamo la loro poesia, le loro lettere, i loro saggi,
discorsi e opere storiche, cui ho già precedentemente accennato, ma anche
novelle, trattati geografici, satire e montagne di scritti tecnici sui più svariati
argomenti, dalle malattie e la medicina alle macchine ad acqua. La
conservazione di questo patrimonio si deve in gran parte alla dedizione dei
monaci medievali, che hanno copiato e ricopiato a mano quelle che
ritenevano le opere più importanti, o utili, della letteratura classica, cui si
aggiunge un significativo, ma spesso dimenticato, contributo degli studiosi
islamici medievali, che tradussero in arabo un certo numero di testi
filosofici e scientifici. E grazie agli sforzi degli archeologi – nei cui scavi
sono emersi innumerevoli papiri dalle sabbie e dalle antiche discariche
dell’Egitto, tavolette lignee per scrittura dagli accampamenti militari
romani nell’Inghilterra settentrionale e stele tombali iscritte da tutti i
territori dell’impero – possiamo leggere le lettere e osservare la vita
quotidiana di abitanti molto più ordinari del mondo romano. Abbiamo
biglietti inviati a casa, liste della spesa, libri contabili e iscrizioni incise sulle
tombe. Sebbene si tratti soltanto di un’esigua parte di ciò che un tempo era
esistito, abbiamo comunque accesso a un patrimonio di letteratura romana
(e, più in generale, di fonti scritte romane) più ampio di quanto una singola
persona sarà mai in grado di conoscere a fondo e padroneggiare nel corso
della sua vita.
Quali sono dunque le fonti che ci permettono di conoscere così bene il
conflitto tra Cicerone e Catilina? La storia ci è pervenuta attraverso diverse
vie, ed è proprio questa varietà a renderla tanto ricca. Ci sono brevi
resoconti nelle opere di diversi storici romani (compresa una biografia dello
stesso Cicerone), tutti scritti almeno un centinaio d’anni dopo gli eventi
narrati. Ben più importante, e rivelatore, è un lungo trattato (di circa una
cinquantina di pagine nella traduzione in una moderna lingua europea) che
contiene una descrizione e un’analisi dettagliate del Bellum Catilinae (La
guerra contro Catilina), per citare quello che fu, quasi certamente, il suo
titolo antico, scritto negli anni Quaranta del I secolo a.C. (ossia solo
vent’anni dopo la cosiddetta «guerra») da Gaio Sallustio Crispo. Anch’egli,
come Cicerone, homo novus, nonché amico e alleato di Giulio Cesare,
Sallustio godeva di una reputazione tutt’altro che immacolata: la sua attività
di governatore in Africa era stata segnata da un livello intollerabile di
corruzione ed estorsione, anche per i parametri romani. Ma, nonostante la
sua non del tutto onorevole carriera, o forse proprio a causa di ciò, il saggio
di Sallustio costituisce una delle analisi politiche più profonde e penetranti
che ci siano giunte dal mondo antico.
Sallustio non ha soltanto narrato nei dettagli la storia della progettata
ribellione, le sue cause e il suo esito. Ha fatto della figura di Catilina il
simbolo emblematico dei più diffusi difetti della Roma del I secolo a.C.
Secondo Sallustio, la tempra morale dei romani era stata distrutta dal
successo e dalla ricchezza che la città aveva ottenuto, dall’avidità e dalla
brama di potere cresciuta dopo la conquista del Mediterraneo e
l’annientamento di tutti i possibili rivali. La svolta cruciale era avvenuta
ottantatré anni prima della congiura di Catilina, quando, nel 146 a.C., le
legioni romane avevano distrutto Cartagine, la città natale e base operativa
di Annibale sulla costa settentrionale dell’Africa. Dopo questo evento, così
pensava Sallustio, non era rimasta più alcuna seria minaccia al dominio
romano. Catilina, ammetteva Sallustio, aveva forse posseduto qualità
positive, come il coraggio dimostrato in battaglia o le sue straordinarie doti
di resistenza («la sua capacità di sopportare la fame, il freddo o la mancanza
di sonno era stupefacente»). Ma incarnava gran parte di ciò che c’era di
marcio e sbagliato nella Roma del suo tempo.
Oltre al saggio di Sallustio possediamo altri documenti interessanti, che,
in sostanza, derivano dallo stesso Cicerone e riportano la sua versione dei
fatti. Alcune lettere indirizzate al suo amico più caro, Tito Pomponio Attico
(un uomo molto ricco che non entrò mai direttamente nell’agone politico
ufficiale, ma spesso ne tirò le fila da dietro le quinte), fanno riferimento alle
sue relazioni, all’inizio amichevoli, con Catilina. Nel 65 a.C., per esempio,
tra notizie di carattere familiare, come la nascita di suo figlio («Voglio
comunicarti che sono diventato padre...»), e l’allusione all’arrivo di nuove
statue dalla Grecia per abbellire la sua casa, Cicerone riferisce che stava
prendendo in considerazione la possibilità di difendere Catilina in
tribunale, nella speranza che in seguito potessero collaborare. Come sia
stato possibile che lettere così private siano poi diventate di pubblico
dominio rimane per molti aspetti un mistero. Molto probabilmente, un
membro della famiglia di Cicerone ne mise a disposizione dopo la sua
morte alcune copie, che subito circolarono nelle mani di lettori curiosi,
sostenitori e avversari. Nel mondo antico non fu mai pubblicato nulla,
almeno nel nostro senso stretto del termine. Ci restano in tutto quasi mille
lettere, scritte o ricevute dal grande oratore nel corso degli ultimi vent’anni
della sua vita. Queste missive, che rivelano la sua autocommiserazione
durante l’esilio («Tutto quello che posso fare è piangere!») e il suo dolore
per la morte della figlia subito dopo il parto, e che trattano i temi più
svariati – da ruberie di vario genere e divorzi eccellenti fino alle ambizioni
di Giulio Cesare –, costituiscono uno dei più interessanti corpus di scritti
che ci siano giunti dall’antica Roma.
Altrettanto interessante, e forse ancora più sorprendente, è un lungo
poema che lo stesso Cicerone compose per celebrare le imprese del proprio
consolato. Non si è conservato in modo completo; ma all’epoca era, lodato o
denigrato, ben noto, tanto che una settantina di versi viene citata da altri
autori antichi o dal medesimo Cicerone in opere successive. Contiene uno
dei più celebri, e scadenti, versi di poesia latina, passato attraverso i Secoli
Bui: O fortunatam natam me consule Romam («O Roma fortunata, nata sotto il
mio consolato»), con una rima piuttosto zoppicante. Come se non bastasse,
sembra che – con un’altra sfacciata, anche se leggermente ridicola, caduta di
modestia – vi figurasse un’«assemblea degli dèi» nella quale il nostro
sovrumano console discuteva con il divino consesso riunito sul monte
Olimpo come affrontare la congiura di Catilina.
Nel I secolo a.C. a Roma la fama e la reputazione non dipendevano
soltanto dal semplice passaparola, ma soprattutto da una vera e propria
propaganda, talvolta orchestrata in modo alquanto complesso e perfino
bizzarro. Sappiamo che Cicerone cercò di convincere un suo vecchio amico,
Lucio Lucceio, a scrivere un resoconto celebrativo della sconfitta di Catilina
e degli eventi immediatamente successivi («Sono divorato da una brama
incredibile» scrisse in una lettera «di vedere il mio nome illustrato e
glorificato da un’opera tua»); e sperava inoltre che un poeta greco allora di
moda, del quale aveva assunto la difesa in un complesso caso relativo al suo
permesso di residenza, avrebbe composto un poema epico sul medesimo
tema. Alla fine, fu costretto a scrivere di propria mano un poetico tributo a
se stesso. Un esiguo gruppo di critici moderni ha cercato, senza riuscire a
dimostrarsi convincente, di difendere la qualità letteraria dell’opera, e
persino del verso che ne è diventato il simbolo riassuntivo (O fortunatam
natam...). La maggior parte dei critici romani di cui ci è nota l’opinione in
proposito derideva tanto la vanità dell’impresa quanto la pomposità del suo
linguaggio. Perfino uno dei più grandi ammiratori di Cicerone,
appassionato studioso delle sue tecniche oratorie, si rammaricava che
«avesse superato a tal punto il limite». Altri scrittori ridicolizzarono
allegramente il poema o ne fecero una parodia.
Ma la fonte più diretta per gli eventi del 63 a.C. è costituita dalle
trascrizioni dei discorsi che Cicerone tenne proprio in quei giorni. Due di
essi furono pronunciati in occasione di riunioni pubbliche del popolo
romano, il primo per aggiornarlo sul progresso delle indagini sulla congiura
di Catilina e il secondo per annunciare la vittoria contro i dissidenti. Un
altro rappresenta il contributo dato da Cicerone al dibattito svoltosi in
Senato il 5 dicembre per decidere la pena appropriata da comminare alle
persone arrestate. Infine, il discorso più celebre di tutti, quello pronunciato
in Senato l’8 novembre, nel quale denunciava Catilina con parole che
possiamo immaginare declamate come nel quadro di Maccari.
Lo stesso Cicerone fece probabilmente circolare copie di questi discorsi
poco dopo averli pronunciati, scrupolosamente trascritti da un piccolo
esercito di servitori. E, al contrario dei suoi tentativi poetici, divennero
rapidamente ammirati e spesso citati classici della letteratura latina, nonché
esempi incomparabili di grande retorica, che, sino alla fine dell’antichità, gli
scolari romani e tutti gli aspiranti oratori dovevano imparare a memoria e
imitare. Erano letti e studiati persino da chi non conosceva perfettamente la
lingua latina. Questo almeno accadeva nell’Egitto romano ancora
quattrocento anni più tardi. Le più antiche copie pervenuteci di questi
discorsi si trovano su papiri risalenti al IV o V secolo d.C., oggi soltanto
piccoli frammenti di rotoli un tempo ben più lunghi. Uno di essi contiene il
testo originale latino e una traduzione parola per parola in greco. Possiamo
facilmente immaginarci un greco d’Egitto che si affatica sul papiro per
comprendere la lingua e lo stile di Cicerone.
Anche molti altri studenti successivi si sono affaticati su questi testi. I
quattro discorsi In Catilinam (Contro Catilina), o Catilinarie, come oggi
vengono spesso chiamati, sono entrati a far parte delle tradizioni educative
e culturali dell’Occidente. Copiati e diffusi dai monasteri medievali, sono
stati utilizzati per far esercitare generazioni di studenti nella lingua latina, e
sono stati scrupolosamente analizzati come opere letterarie dagli
intellettuali e dai professori di retorica del Rinascimento. Ancora oggi
mantengono il proprio posto nei manuali di insegnamento del latino e
continuano a costituire un modello di persuasività oratoria, sulle cui
tecniche si fonda gran parte dei più celebri discorsi moderni, compresi
quelli di Tony Blair e Barack Obama.
Le prime parole del discorso pronunciato da Cicerone l’8 novembre (la
Prima Catilinaria) sono diventate tra le più citate e immediatamente
emblematiche del mondo romano: Quo usque tandem abutere, Catilina,
patientia nostra? («Fino a quando, Catilina, continuerai ad abusare della
nostra pazienza?»). E a queste segue, poco oltre nello stesso testo, il solenne
e altrettanto celebre motto O tempora, o mores («Oh tempi, oh costumi»). In
effetti, la frase Quo usque tandem... doveva essersi già saldamente impiantata
nella coscienza letteraria romana quando Sallustio scriveva il suo resoconto
della «guerra», appena vent’anni dopo gli eventi. Anzi, lo era così tanto che,
con salace o scherzosa ironia, Sallustio poteva metterla in bocca a Catilina:
Quae quo usque tandem patiemini, o fortissimi viri? («Fino a quando lo
sopporterete, o uomini di grande coraggio?»), parole con cui il
rivoluzionario Catilina sallustiano sprona i suoi seguaci, ricordando loro le
ingiustizie subite da parte dell’élite. Sono, naturalmente, pura invenzione.
Gli autori antichi mettevano sempre in bocca ai propri protagonisti discorsi
scritti da loro stessi, proprio come gli storici di oggi tendono ad attribuire
determinati sentimenti o motivazioni ai propri personaggi. L’ironia qui sta
nel fatto che a Catilina, il più acerrimo nemico di Cicerone, vengono fatte
pronunciare proprio le più celebri parole del suo avversario.
Questa è soltanto una delle numerose ironie e paradossali «citazioni
errate» che hanno caratterizzato la storia della celebre frase ciceroniana.
Sono riaffiorate spesso nella letteratura latina, ogni volta che entravano in
scena progetti rivoluzionari. Pochi anni dopo Sallustio, Tito Livio intraprese
la stesura di una storia di Roma dalle origini, suddivisa in 142 «libri»
(un’opera monumentale, benché un «libro» comprendesse quanto poteva
stare su un singolo rotolo di papiro e corrispondesse piuttosto alla
lunghezza di un moderno «capitolo»). Ciò che Livio aveva da dire su
Catilina è purtroppo andato perduto. Ma quando cerca di descrivere
precedenti conflitti civili, come in particolare la «cospirazione» di un certo
Marco Manlio, che nel IV secolo a.C. avrebbe incitato i poveri di Roma a
ribellarsi contro l’oppressivo dominio dei patrizi, Livio offre una versione
modificata delle parole di Cicerone, facendo dire a Manlio, il quale cercava
di convincere i propri seguaci che, pur essendo poveri, avevano la forza per
ottenere la vittoria: Quo usque tandem ignorabitis vires vestras? («E fino a
quando misconoscerete le vostre forze?»).
Il punto essenziale qui non è semplicemente la ripresa di una celebre
frase, né l’uso della figura di Catilina come simbolo della peggiore
scelleratezza, sebbene gli sia spesso riservato questo ruolo nella letteratura
romana: il suo nome finì per diventare l’epiteto preferito per indicare un
imperatore impopolare; e, circa mezzo secolo dopo la sua morte, Publio
Virgilio Marone gli riservò un posto nella sua Eneide, mostrandolo mentre
viene torturato nell’Aldilà, «spettri di Furie temente». Ben più importante è
il modo in cui lo scontro tra Catilina e Cicerone divenne un modello efficace
per comprendere i fenomeni di disobbedienza civile e di insurrezione
all’interno della storia romana, e anche in senso più generale. Quando gli
storici romani parlano di rivoluzione, alla base del loro racconto si cela
sempre l’immagine di Catilina, obbligandoli persino a qualche strana
inversione cronologica. Come rivelano le sue accuratamente scelte parole, il
Marco Manlio di Livio, un nobile postosi alla guida di una rivoluzione
predestinata al fallimento e sostenuta da una plebe impoverita, è in gran
parte una proiezione della figura di Catilina nelle vicende della Roma più
antica.
L’altra versione della storia
Non esiste per caso un’altra versione della storia? Grazie alle dettagliate
informazioni fornite dalla sua penna, il punto di vista di Cicerone risulterà
sempre quello predominante. Ma ciò non significa necessariamente che sia
vero in senso assoluto, o che sia l’unico modo di considerare la vicenda. Gli
studiosi si sono domandati per secoli quanto sia prevenuta la versione
offertaci da Cicerone, e hanno individuato prospettive e interpretazioni
alternative sotto la superficie della versione ciceroniana. Ce lo conferma lo
stesso Sallustio. Infatti, sebbene il suo resoconto si basi in gran parte sugli
scritti di Cicerone, mettendo le celebri parole Quo usque tandem in bocca a
Catilina anziché a Cicerone, ha probabilmente voluto ricordare ai suoi
lettori che i fatti e la loro interpretazione erano, come minimo, fluttuanti.
Una prima e ovvia domanda da porsi è se il discorso noto come Prima
Catilinaria riproduca realmente ciò che Cicerone disse l’8 novembre ai
senatori riuniti nel tempio di Giove. È difficile immaginare che sia tutta
un’invenzione. Come avrebbe potuto, altrimenti, mettere in circolazione
una versione che non aveva nulla a che fare con quanto aveva detto? Ma,
quasi certamente, non è nemmeno una trascrizione letterale. Se pronunciò
il proprio discorso con l’aiuto di una qualche forma di appunti scritti, il
testo che ci è giunto si colloca presumibilmente a metà strada tra ciò che
ricordava di avere detto e ciò che avrebbe voluto dire. E, anche se avesse
parlato leggendo un testo sostanzialmente completo, quello che fece poi
circolare tra amici, colleghi e persone sulle quali voleva fare particolare
impressione sarà stato di sicuro ricorretto e migliorato, dandogli maggiore
compattezza e inserendo qualche brillante frase a effetto, che durante il
discorso poteva essergli sfuggita di mente.
Molto dipende anche dal momento preciso e dal motivo per cui venne
fatto circolare. Da una delle sue lettere ad Attico sappiamo che Cicerone
stava predisponendo la trascrizione di copie della Prima Catilinaria nel
giugno del 60 a.C., ossia quando doveva ormai essere ben consapevole che
le polemiche per l’esecuzione dei «cospiratori», da lui ordinata, non si
sarebbero spente. A Cicerone potrebbe essere sembrato desiderabile e
opportuno usare il testo scritto del discorso a propria difesa, anche se ciò
imponeva alcune strategiche correzioni e aggiunte. In effetti, i ripetuti
riferimenti a Catilina come se si trattasse di un nemico straniero (hostis, in
latino) potrebbero essere uno dei modi in cui Cicerone intendeva replicare
ai propri avversari: definendo i cospiratori come nemici dello stato
affermava implicitamente che non meritavano la protezione della legge
romana in quanto avevano perduto i propri diritti civili (compreso quello a
un regolare processo). Questo, naturalmente, potrebbe essere stato un
punto ricorrente anche nella versione orale del discorso pronunciato l’8
novembre. Non possiamo saperlo. Ma sono convinta che tale definizione
assunse un’importanza molto maggiore nella versione scritta e definitiva.
Questi problemi ci spingono a cercare con rinnovato sforzo altre versioni
della storia. Una volta esclusa la prospettiva di Cicerone, è forse possibile
farsi un’idea di quale fosse il punto di vista di Catilina e dei suoi
sostenitori? Le parole e i giudizi di Cicerone dominano in modo
preponderante il corpus delle nostre testimonianze relative alla metà del I
secolo a.C. Ma è sempre utile cercare di leggere la sua versione, o qualsiasi
altra versione della storia romana, andando, per così dire, «controcorrente»,
per penetrare nelle sue più piccole crepe utilizzando i frammenti di altre
testimonianze da essa indipendenti, e domandarci se altri osservatori
possano aver visto le cose in modo diverso. Coloro che Cicerone descrisse
quali mostruose canaglie erano davvero così malvagi come ci vuole far
credere? In effetti, ci sono sufficienti elementi per sollevare alcuni concreti
dubbi su quanto stava realmente accadendo.
Cicerone presenta Catilina come un fuorilegge con spaventosi debiti di
gioco, dovuti esclusivamente alla sua immoralità. Ma la situazione non può
essere stata così semplice. A Roma, nel 63 a.C., era in atto una sorta di crisi
debitoria e permanevano problemi economici e sociali ben maggiori di
quanto Cicerone fosse pronto a riconoscere. Altra notevole impresa del suo
«grande consolato» era stata la revoca di una proposta che prevedeva la
distribuzione di terre della penisola a un certo numero di poveri della città.
In altre parole, se Catilina si comportava come un fuorilegge, aveva
probabilmente una buona ragione per farlo, e poteva contare sul sostegno
di molte persone comuni spinte da analoghe difficoltà ad accettare
provvedimenti disperati.
Come possiamo accertarlo? Ricostruire un quadro dell’economia di oltre
duemila anni fa è ancora più difficile che ricomporre quello della politica;
ma possiamo cogliere alcuni inaspettati indizi. Le informazioni che si
possono ricavare dalle monete coniate in questo periodo sono
particolarmente rivelatrici, sia per quanto riguarda la situazione di allora sia
per quanto riguarda la capacità degli storici e archeologi moderni di
combinare il materiale in loro possesso nei modi più ingegnosi. Le monete
romane possono essere spesso datate con estrema precisione, perché,
proprio in questo periodo, erano ridisegnate ogni anno e «firmate» dai
magistrati annuali responsabili della loro emissione. Erano coniate
utilizzando una serie di stampi incisi singolarmente a mano, di cui si
possono ancora riconoscere minime differenze di dettaglio sulle monete in
nostro possesso. Siamo così in grado di calcolare la quantità di monete che
si potevano mediamente produrre con un singolo stampo (prima che fosse
troppo consumato per incidere un’immagine ben delineata); e se
disponiamo di un numero sufficiente di monete possiamo calcolare quanti
stampi sono stati impiegati per realizzare una determinata emissione. In
questo modo possiamo farci un’idea abbastanza precisa di quante monete
fossero coniate ogni anno: maggiore era il numero degli stampi, maggiore
era anche quello delle monete, e viceversa.
In base a questi calcoli, il numero di monete coniate alla fine degli anni
Sessanta del I secolo a.C. appare subire una contrazione talmente drastica
da determinare una netta riduzione del numero complessivo di monete in
circolazione in confronto agli anni subito precedenti. Le ragioni di questa
contrazione non possono essere accertate. Come la maggior parte degli stati
prima del XVIII secolo (o anche dopo), Roma non seguiva alcun tipo di
politica monetaria, né disponeva di istituzioni finanziarie capaci di
svilupparla e metterla in pratica. Le conseguenze di questo fatto sono ovvie.
Avesse o non avesse dilapidato le sue ricchezze con il gioco d’azzardo,
Catilina (e molti altri insieme a lui) avrebbe potuto comunque trovarsi a
corto di denaro; mentre chi aveva già dei debiti doveva affrontare le
pressanti richieste dei creditori, anch’essi a corto di soldi.
4. Questa moneta d’argento fu coniata nel 63 a.C. Raffigura un cittadino romano che getta
una scheda elettorale dentro un’apposita giara. Le differenze di dettaglio tra i due esempi
riprodotti illustrano perfettamente le differenze tra i vari stampi dai quali erano ricavati.
Sulla moneta è inciso anche il nome del magistrato responsabile della zecca per
quell’anno: Longinus.
I critici moderni più integralisti ritengono che l’intera congiura non sia
altro che il frutto dell’immaginazione di Cicerone: nel qual caso, l’uomo che
affermava di essere un «collezionista d’armi» diceva la verità, le lettere
incriminanti erano dei falsi, la delegazione dei galli si era fatta beffe del
console e i presunti tentativi di assassinio erano soltanto fantasie
paranoiche. Un giudizio così radicale non sembra tuttavia plausibile. Ci fu,
dopotutto, uno scontro tra gli uomini di Catilina e le legioni romane, che
non può certo essere considerato una finzione. È alquanto più probabile
che, quali che fossero le sue originarie motivazioni, Catilina – radicale
lungimirante o terrorista privo di scrupoli – fosse stato spinto a misure
estreme, almeno in parte, da un console che voleva la rissa ed era in cerca di
gloria. Cicerone potrebbe essersi sinceramente convinto, a prescindere
dalle informazioni in suo possesso, che Catilina rappresentasse una grave
minaccia per la sicurezza di Roma. Come sappiamo da molti esempi più
recenti, è proprio in questo modo che agiscono la paranoia politica e
l’interesse personale. Non potremo mai esserne certi. La «congiura» resterà
sempre un esempio perfetto del classico dilemma interpretativo: c’era
davvero un «complotto contro lo stato», oppure la crisi, almeno in parte, era
un’invenzione dei conservatori? Serve inoltre a ricordarci che nella storia
romana, come nella storia di qualsiasi altra civiltà, dobbiamo sempre tenere
desta la nostra attenzione per cogliere le tracce dell’altra versione della
storia: che è anche il punto di partenza di questo libro.
Il nostro Catilina?
Lo scontro tra Cicerone e Catilina ha sempre fornito un modello
esemplificativo dei conflitti politici. Non è certo una semplice coincidenza
che il quadro raffigurante gli eventi dell’8 novembre fosse stato
commissionato a Maccari, insieme ad altri dipinti con episodi di storia
romana, per la sala di Palazzo Madama che solo alcuni anni prima era
diventata la sede del Senato italiano; presumibilmente, si volevano
ricordare ai moderni senatori una vicenda e una lezione esemplare della
storia. E, nel corso dei secoli, le giustificazioni e le colpe della «congiura», i
difetti e le virtù rispettivamente di Catilina e Cicerone, e il difficile rapporto
tra sicurezza nazionale e libertà civili sono stati aspramente discussi, e non
soltanto da parte degli storici.
Talvolta la storia è stata del tutto riscritta. Secondo una tradizione
medievale toscana, Catilina sarebbe sopravvissuto alla battaglia contro le
legioni romane e, diventato un eroe locale, avrebbe avuto una complicata
storia d’amore con una donna chiamata Belisea. Un’altra versione gli
attribuisce un figlio di nome Uberto, facendone così l’antenato della
dinastia degli Uberti a Firenze. In modo ancora più fantasioso, la tragedia
intitolata Catilina di Prosper de Crébillon, rappresentata per la prima volta
attorno alla metà del XVIII secolo, immagina una relazione amorosa tra
Catilina e Tullia, la figlia di Cicerone, con tanto di segreti convegni amorosi
in un tempio romano.
Quando è stata riproposta in romanzi o sul palcoscenico, la congiura di
Catilina è stata adattata in base all’orientamento politico dell’autore e alla
situazione politica del tempo. Il primo dramma di Henrik Ibsen, scritto
all’indomani delle rivoluzioni europee degli anni Quaranta dell’Ottocento,
ha come tema proprio gli eventi del 63 a.C. Qui, un Catilina rivoluzionario è
contrapposto alla corruzione del mondo nel quale vive, mentre Cicerone, il
quale non avrebbe potuto immaginare cosa peggiore, è lasciato quasi
totalmente fuori dagli eventi, senza mai apparire sulla scena e a malapena
menzionato. Al contrario, per Ben Jonson, che scrive all’indomani della
Congiura delle polveri, b Catilina è un sadico antieroe sotto le cui grinfie
sono cadute così tante vittime che, nella fervida immaginazione dell’autore,
è necessaria un’intera flotta per condurle nell’Aldilà attraversando il fiume
Stige. Anche il suo Cicerone non è un personaggio gradevole, quanto
piuttosto un fastidioso scocciatore; anzi, talmente noioso che, in occasione
della prima messa in scena dell’opera, nel 1611, molti spettatori lasciarono il
teatro durante la sua interminabile denuncia di Catilina.
6. Nel 2012, alcuni manifestanti ungheresi che protestavano contro il tentativo del partito
Fidesz di riscrivere la costituzione mostrarono striscioni con la celebre frase di Cicerone,
in latino. Ma queste parole non sono state impiegate soltanto in campo politico. In una
famosa polemica fra intellettuali, Camille Paglia sostituì il nome di Catilina con quello del
filosofo francese Michael Foucault: «Fino a quando, o Foucault...?».
E tu, Giove, che qui fosti posto da Romolo con gli stessi auspicii con i quali
fondò la città, tu, che ben a ragione invochiamo con il nome di Statore
dell’Urbe e dell’Impero, tieni lontano quest’uomo e questi sgherri dal tuo
tempio e dagli altri dell’Urbe, dalle case dei romani, dalle mura, dalle vite, dai
beni di tutti i suoi abitanti.
7. Quale che sia la vera data della lupa, i due gemelli sono certamente un’aggiunta
posteriore del XV secolo, fatta per dare espressione più concreta al mito di fondazione.
Copie di questa scultura sono disseminate in tutto il mondo, in gran parte per volere di
Benito Mussolini, che ne fece dono a moltissimi paesi come simbolo di «romanità».
In quale altro modo dunque Romolo avrebbe potuto mostrarsi più ispirato, nel
mettere insieme i vantaggi delle città marittime e nell’evitarne gli svantaggi, se
non col porre l’abitato lungo la riva di un fiume dal corso costante e dall’ampia
foce?
8. Questa moneta d’argento, dell’89 a.C., raffigura, su un lato, due cittadini romani che
rapiscono due donne sabine. Il nome del magistrato responsabile della coniatura di questa
serie, a malapena leggibile sotto la scena figurata, era Lucio Titurio Sabino, cosa che
probabilmente spiega la scelta del motivo iconografico. Sull’altro lato è riprodotta la testa
del re sabino Tito Tazio.
Livio difende questi primi romani. Ribadisce che avevano rapito soltanto
donne non sposate; qui era l’origine del matrimonio, non dell’adulterio. E
sottolineando il fatto che i romani non avevano scelto le proprie donne ma le
avevano prese a caso, sostiene che stessero semplicemente ricorrendo a uno
stratagemma necessario per garantire il futuro della loro comunità, e che gli
uomini avessero fatto seguire al rapimento discorsi amorevoli e promesse
d’affetto alle loro nuove consorti. Presenta inoltre l’iniziativa dei romani
come una reazione all’irragionevole comportamento dei loro vicini. I
romani, afferma Livio, avevano inizialmente fatto la cosa più giusta,
chiedendo ai popoli confinanti un trattato che gli avrebbe dato il diritto di
sposarsi con le loro figlie. Livio si riferisce qui esplicitamente (e del tutto
anacronisticamente) al diritto legale del conubium o «matrimonio misto»,
che in un’epoca molto più tarda era un elemento normale dei trattati di
alleanza di Roma con gli altri stati. I romani erano ricorsi alla violenza
soltanto dopo che la loro richiesta era stata irragionevolmente rifiutata. In
altre parole, si trattava di un ulteriore caso di «guerra giusta».
Altri scrittori presentavano le cose in modo diverso. Alcuni
individuarono alle origini stesse della città tutti i segnali rivelatori della
successiva bellicosità romana. Il conflitto, sostenevano, non era stato
provocato; e il fatto che i romani avessero preso soltanto trenta donne (se
questo è il numero reale) dimostrava che la guerra, e non il matrimonio, era
il loro obiettivo fondamentale. Sallustio accenna a questa possibile lettura.
Nella sua Storia di Roma (una trattazione di ambito più generale rispetto
alla sua Guerra contro Catilina, di cui rimangono solo alcune brevi citazioni
in opere di altri autori), si immagina una lettera (ed è naturalmente soltanto
immaginata) scritta da uno dei più fieri nemici di Roma, nella quale si
denuncia il comportamento predatorio mantenuto dai romani per tutto il
corso della loro storia: «Fin dal principio non hanno posseduto altro che
quello che hanno rubato: la loro casa, le loro mogli, le loro terre, il loro
impero». Forse l’unica via d’uscita era attribuire la colpa agli dèi. Che altro
ci si poteva aspettare, sostenne un altro scrittore romano, visto che il padre
di Romolo era Marte, il dio della guerra?
Il poeta Publio Ovidio Nasone vedeva le cose in modo ancora diverso.
Grosso modo coetaneo di Livio, era tanto irriverente e sovversivo quanto
Livio era rispettoso e tradizionalista, e finì per essere bandito nell’8 a.C., in
parte per lo scandalo suscitato dal suo licenzioso poema sull’arte amatoria.
In quest’opera Ovidio ribalta completamente la storia liviana del rapimento
e descrive l’episodio come un primitivo modello di corteggiamento: un
esempio di ars amatoria, non un mero stratagemma. I romani di Ovidio, per
prima cosa, «scegliendo ciascuno con gli occhi la ragazza che vuole»,
quando viene dato il segnale si lanciano su di essa con «mani bramose».
Subito iniziano a sussurrare dolci paroline nelle orecchie delle proprie
prede, il cui terrore non fa che aumentare il loro fascino erotico. Le festività
e gli spettacoli di intrattenimento, come ricorda spiritosamente il poeta,
sono sempre stati ottimi posti per trovare una ragazza, fin dai primi giorni
di Roma. Detto altrimenti: Romolo ebbe davvero un’idea eccezionale per
ricompensare i suoi fedeli soldati. «Se mi darai vantaggi come questi»
scherza Ovidio «sarò soldato anch'io.» Ma i genitori delle ragazze, così
continua la storia, non trovarono affatto divertente o romantico il
rapimento. Entrarono in guerra contro Roma pretendendo la restituzione
delle loro figlie. I romani riuscirono a sconfiggere facilmente i latini, ma
non ebbero lo stesso successo con i sabini, e il conflitto proseguì, fino a
quando gli uomini di Romolo si trovarono esposti a un pesante attacco nella
loro città. A quel punto Romolo fu costretto a chiedere l’aiuto di Giove
Statore affinché i suoi concittadini non si dessero alla fuga, come Cicerone
ricordava al proprio pubblico, senza tuttavia menzionare che quella guerra
era scoppiata a causa del ratto delle sabine. Le ostilità infine cessarono
grazie all’intervento di quelle medesime donne, ormai soddisfatte della
propria sorte di mogli e madri romane. Si presentarono coraggiosamente
sul campo di battaglia e pregarono i propri mariti e padri nei due rispettivi
schieramenti di deporre le armi. «Preferiamo morire noi stesse»
proclamarono «piuttosto che vivere senza di voi, come vedove o come
orfane.»
La loro iniziativa ebbe successo. Non soltanto venne stipulata la pace,
ma, a quanto pare, la stessa Roma divenne una città romano-sabina, una
singola comunità sotto il comando condiviso di Romolo e del re sabino Tito
Tazio. Condiviso, in realtà, solo per pochi anni, perché (con una morte
violenta che divenne una tipica caratteristica della politica di potere
romana) Tazio fu assassinato in una città vicina durante una ribellione in
parte scatenata per sua stessa iniziativa. Romolo tornò a governare da solo:
primo re di Roma, regnò per oltre trent’anni.
Fratello contro fratello, nuovi arrivati e antichi cittadini
Sotto la superficie di queste storie si celano alcuni dei temi più importanti
della successiva storia di Roma, come pure alcune delle più profonde ansie
culturali dei suoi abitanti. Gli uni e le altre possono rivelarci molte cose sui
valori e le preoccupazioni dei romani, o almeno di quelli sufficientemente
ricchi e indipendenti per avere del tempo libero; le ansie culturali sono
spesso un privilegio dei ricchi. Uno di questi temi, come abbiamo visto, era
la natura del matrimonio. Quanto brutale era destinato a essere,
considerate le sue origini? Un altro, già individuabile nelle parole delle
donne sabine che cercavano di riconciliare i propri padri e mariti, era la
guerra civile.
Uno degli enigmi più difficili da sciogliere di questa leggenda di
fondazione riguarda la presenza di due fondatori, Romolo e Remo. Gli
storici moderni hanno proposto ogni genere di soluzione per spiegare la
ridondante presenza dei due gemelli. Potrebbe rimandare a un qualche
fondamentale dualismo nella cultura romana, per esempio tra classi diverse
di cittadini o tra differenti gruppi etnici. Oppure potrebbe riflettere il fatto
che in seguito a Roma vi furono sempre due consoli. O ancora, potrebbero
essere coinvolte ben più profonde strutture mitiche, e Romolo e Remo
sarebbero una versione dei gemelli divini che si ritrovano nelle mitologie di
tutto il mondo, dalla Germania all’India vedica, nonché nel racconto biblico
di Caino e Abele. Tuttavia, quale che sia la soluzione prescelta (e le
speculazioni moderne non sono molto convincenti), rimane il fatto che uno
dei due gemelli è effettivamente superfluo, e infatti Remo viene ucciso da
Romolo, oppure, secondo un’altra versione, da un suo scagnozzo, il giorno
stesso in cui viene fondata Roma.
Per molti romani, che non risolvevano il problema definendo la storia un
«mito» o una «leggenda», questo era l’aspetto più sgradevole della
fondazione della città. Per Cicerone doveva esserlo certamente, tanto che
nella sua versione delle origini di Roma esposta nel De re publica non lo
menziona neppure; Remo appare all’inizio della vicenda, insieme a Romolo,
ma in seguito sparisce semplicemente dalla scena. Un altro scrittore, lo
storico Dionigi di Alicarnasso (una città sulla costa dell’odierna Turchia),
residente a Roma nel I secolo a.C., preferì descrivere Romolo come
inconsolabilmente afflitto per la morte del fratello («aveva perduto la
volontà di vivere»). Un altro ancora, chiamato Egnazio, aggirava il problema
in modo persino più audace. La sola cosa che sappiamo a proposito di
questo autore è che avrebbe completamente rovesciato la storia
dell’omicidio, affermando che Remo visse addirittura più a lungo di
Romolo.
Era un tentativo disperato, e senza dubbio non convincente, di sottrarsi
al cupo messaggio del racconto: ossia che il fratricidio era profondamente
radicato nella politica romana, e che le terrificanti guerre civili che
segnarono la storia di Roma fin dal VI secolo a.C. (l’assassinio di Giulio
Cesare nel 44 a.C. è solo un esempio fra i tanti) erano in qualche modo già
scritte nel suo destino. Infatti, come avrebbe potuto una città fondata sul
fratricidio sfuggire alle faide e agli omicidi tra cittadini? Il poeta Quinto
Orazio Flacco fu uno dei molti autori che risposero a questa domanda nel
modo più ovvio. Scrivendo attorno al 30 a.C., all’indomani del decennio di
scontri che erano seguiti alla morte di Cesare, si lamentava con queste
parole:
12. Tipica urna cineraria, di cui si sono trovati numerosi esempi nelle necropoli arcaiche di
Roma e dell’area circostante. Con la forma di una semplice capanna, queste case dei morti
sono una delle nostre migliori guide per ricostruire l’aspetto delle abitazioni dei vivi.
Il problema nasce in parte dalle stesse condizioni dello scavo
archeologico al centro della città. Il sito di Roma è stato così intensamente
costruito e ricostruito nel corso dei secoli che si ritrovano tracce
dell’occupazione più antica soltanto nei luoghi che risultano non essere
stati toccati. Le fondazioni create nel I e II secolo d.C. per sostenere i
giganteschi templi marmorei del Foro hanno cancellato gran parte di ciò
che stava sotto la superficie; in altre zone di Roma, le cantine dei palazzi
rinascimentali produssero i medesimi effetti, se non addirittura peggiori.
Perciò possiamo soltanto cogliere qualche istantanea, ma non il quadro
generale. Qui l’archeologia diventa una materia estremamente difficile, e
l’interpretazione dei dati, sebbene continuino a emergere costantemente
nuove testimonianze, rimane quasi sempre discussa e controversa. Per fare
solo un esempio, si dibatte ancora se i piccoli pezzi di cannicciato ricoperto
di argilla trovati in scavi effettuati nel Foro verso la metà del XX secolo
indichino che anche qui si trovasse un insediamento di capanne, o se invece
vi furono inavvertitamente scaricati insieme ad altri calcinacci qualche
secolo più tardi per ottenere una nuova superficie livellata dell’intera zona.
Si deve osservare che, pur essendo appropriata per un cimitero, quest’area
era piuttosto umida e paludosa come sito di un villaggio.
La datazione precisa di questi resti archeologici è ancora più controversa;
ciò spiega l’uso intenzionalmente vago del termine arcaico nel corso delle
ultime pagine. Non si può mai sottolineare abbastanza il fatto che non
possediamo alcuna data sicura per tutto il materiale proveniente dagli strati
più antichi di Roma e delle zone circostanti, né si può ignorare che la
datazione di quasi ogni ritrovamento importante continua a essere
aspramente dibattuta. Ci sono voluti decenni di paziente lavoro – attraverso
l’analisi di elementi diagnostici come la ceramica lavorata a tornio (ritenuta
posteriore a quella lavorata a mano) e l’occasionale presenza nelle tombe di
ceramica greca (la cui datazione risulta relativamente più chiara) nonché
l’accurato confronto tra i materiali dei diversi siti – per stabilire uno schema
cronologico approssimativo relativo al periodo dal 1000 al 600 a.C.
Sulla base di questo schema, le più antiche sepolture nel Foro
risalirebbero all’incirca al 1000 a.C., e le capanne sul Palatino al 750-700 a.C.
(data prossima al 753 a.C., come molti hanno notato). Ma anche queste
datazioni sono tutt’altro che certe. Recenti metodi di datazione scientifica
(compresa quella al «radiocarbonio», che calcola l’età dei materiali organici
misurando la quantità residua dell’isotopo radioattivo del carbonio)
sembrano indicare che siano tutte troppo «basse», almeno di un centinaio
d’anni. La capanna di Fidene, per esempio, secondo i criteri archeologici
tradizionali, si dovrebbe datare alla metà dell’VIII secolo a.C.; ma la
datazione al radiocarbonio ci riporta indietro verso la fine del IX secolo a.C.
Attualmente, le datazioni sono oscillanti, persino più del consueto: nel
complesso, Roma sembra diventare più vecchia.
Quel che è certo è che, nel VI secolo a.C., era ormai una comunità
urbana, con un centro e alcuni edifici pubblici. Prima di allora, per le fasi
più antiche, possediamo sufficiente materiale appartenente al periodo noto
come Bronzo Medio (1700-1300 a.C.) per affermare che un certo numero di
individui già abitava il sito, anziché semplicemente «passarvi attraverso».
Per il periodo successivo, possiamo supporre con buona dose di sicurezza
che si sviluppassero villaggi di maggiori dimensioni, con gruppi familiari
dominanti capaci di acquisire una crescente ricchezza (come si può dedurre
dai corredi funerari), e che a un certo punto questi villaggi si fondessero in
una sola comunità, il cui carattere urbano nel VI secolo a.C. appare ormai
definito. Non possiamo sapere con certezza quando gli abitanti di questi
insediamenti separati iniziarono a considerarsi appartenenti a un’unica
città. E non abbiamo la benché minima idea su quando iniziarono a
chiamarla Roma.
L’archeologia, però, non si limita a date e origini. Il materiale scavato
nella città, nell’area a essa circostante e in altre zone più lontane, può dirci
cose molto importanti sul carattere del più antico insediamento.
Innanzitutto, ci rivela che Roma aveva intensi contatti con il mondo esterno.
Ho già menzionato il braccialetto d’avorio della bambina sepolta nel
cimitero e la ceramica greca (corinzia o ateniese) venuta alla luce durante
gli scavi. Ci sono anche indicazioni di contatti con il Nord, nella forma di
gioielli e altri oggetti decorativi di ambra importata: non sappiamo come
questi manufatti abbiano raggiunto l’Italia centrale, ma sono
indubbiamente la prova di un contatto, diretto o indiretto, con la regione
del Baltico. Fin dai tempi più remoti la Roma arcaica aveva dunque ampi
contatti, come suggerisce lo stesso Cicerone quando ne sottolinea l’ottima
posizione strategica.
In secondo luogo, c’erano parecchie somiglianze, ma anche alcune
fondamentali differenze, tra Roma e i suoi vicini. Tra il 1000 e il 600 a.C. la
penisola italiana appare estremamente variegata. Vi risiedevano molte
popolazioni indipendenti, con origini, lingue e tradizioni culturali diverse.
Meglio documentati sono gli insediamenti greci dell’Italia meridionale:
città come Cuma, Taranto e Napoli, fondate a partire dall’VIII secolo a.C. da
immigrati delle principali città della Grecia, chiamate comunemente
«colonie» (senza avere però caratteri «coloniali» nel senso moderno del
termine). Sotto ogni aspetto, gran parte dell’Italia meridionale e la Sicilia
erano parte integrante del mondo greco, con tradizioni artistiche e letterarie
degne della madrepatria. Non è un caso che alcuni dei più antichi esempi di
scrittura greca, se non addirittura i più antichi in assoluto, siano stati
scoperti proprio qui. Alquanto più difficile è ricostruire la storia degli altri
abitanti della penisola: a nord gli etruschi, a sud, quasi alle porte di Roma, i
latini e i sabini, più oltre gli osci, che formavano la popolazione originaria di
Pompei, e, al di là di essi, i sanniti. Della letteratura di questi popoli, se ne
possedevano una, non si è conservato nulla; e per le nostre informazioni
dipendiamo interamente dai ritrovamenti archeologici, dalle iscrizioni su
pietra e bronzo (talvolta comprensibili, in altri casi indecifrabili) e da opere
romane scritte molto più tardi, spesso ammantate da un orgoglioso senso di
supremazia; si spiega così l’immagine tradizionale dei sanniti, presentati
come rozzi, barbari, non urbanizzati e pericolosamente primitivi.
I ritrovamenti archeologici dimostrano, comunque, che nelle sue fasi più
antiche Roma era un insediamento tutt’altro che fuori dall’ordinario. Lo
sviluppo da villaggi sparsi a singola comunità urbana, che possiamo vedere
a Roma, sembra essersi verificato grosso modo nello stesso periodo in tutta
la regione a sud di essa. Anche il materiale archeologico rinvenuto nelle
necropoli, con ceramiche locali e spille bronzee, nonché oggetti di
importazione, offre un quadro coerente. Semmai, ciò che è stato trovato a
Roma appare meno ragguardevole e meno indicativo di ricchezza di quanto
è stato scoperto in altre zone. Per fare solo un esempio, qui non è stato
rinvenuto nulla di paragonabile agli straordinari ritrovamenti fatti in alcune
tombe della vicina Palestrina, anche se ciò potrebbe dipendere dalla
sfortuna o, come hanno sospettato alcuni archeologi, dal fatto che parte
delle più eccezionali scoperte del XIX secolo sono state rubate e sono finite
immediatamente sul mercato clandestino. Una domanda che dovremo
continuare a porci nei prossimi due capitoli è dunque la seguente: quando
Roma ha cessato di essere una città qualsiasi?
L’anello mancante
L’ultima questione che dobbiamo affrontare in questo capitolo, però, è se il
materiale archeologico debba essere considerato separatamente dalle
tradizioni mitiche su Romolo e Remo esaminate nelle pagine precedenti. È
forse possibile collegare il frutto delle nostre ricerche sulla più antica storia
di Roma con le storie raccontate dagli stessi romani, o con le loro complesse
speculazioni sulle origini della città? Possiamo forse rintracciare una certa
dose di storia all’interno del mito?
È una tentazione seducente, che ha influenzato buona parte delle
ricerche moderne su Roma arcaica, tanto degli storici quanto degli
archeologi. Abbiamo già esaminato il tentativo di individuare nella storia
del Septimontium un riflesso della duplice natura della città (romana e
sabina), particolarmente evidenziata nel mito di Romolo. La recente
scoperta di una struttura difensiva in forma di terrapieno ai piedi del
Palatino ha scatenato ogni sorta di fantasiose speculazioni sulla possibilità
che fosse stato trovato l’autentico muro che Remo aveva scavalcato, andando
per questo incontro alla propria morte, il giorno stesso della fondazione di
Roma. Questa, naturalmente, non è altro che una fantasia archeologica.
Non c’è dubbio che siano stati trovati antichissimi terrapieni, e questa è di
per sé una scoperta importante (anche se rimane da stabilire la loro precisa
relazione con l’arcaico insediamento di capanne sulla cima del Palatino). Ma
non hanno nulla a che fare con Romolo e Remo, figure del mito e non della
storia. E i tentativi di «accomodare» la datazione della struttura e dei
ritrovamenti associati per farla coincidere con il 21 aprile 753 a.C. (sto
esagerando soltanto un po’) appaiono particolarmente ingenui se non
addirittura frivoli.
In tutta la città di Roma c’è un solo luogo in cui è possibile stabilire un
collegamento diretto tra i resti materiali arcaici e la tradizione letteraria. E
questo collegamento non compone un armonico accordo tra i primi e la
seconda, ma apre un problematico baratro. Il luogo si trova a un’estremità
del Foro, vicino alle pendici del Campidoglio, a pochi minuti di distanza dal
tempio di Giove Statore (dove Cicerone aveva denunciato la congiura di
Catilina), e accanto alla piattaforma (rostra) dalla quale gli oratori si
rivolgevano al popolo. Qui, prima della fine del I secolo a.C., venne inserita
nella pavimentazione del Foro una serie di lastre di una particolare pietra
nera (lapis niger) a formare un rettangolo di circa 4 per 3,5 metri, segnato
lungo il perimetro da un basso bordo di pietra.
Tra il XIX e il XX secolo l’archeologo Giacomo Boni (a quel tempo una
celebrità capace di rivaleggiare con Heinrich Schliemann, lo scopritore di
Troia, e senza la macchia della dubbia fama di frode che circondava
quest’ultimo) effettuò degli scavi sotto lo strato di pietra nera e trovò i resti
di alcune strutture molto più antiche: un altare, parte di una grande
colonna a sé stante e un piccolo cippo di pietra con un’iscrizione in latino
arcaico praticamente indecifrabile, con ogni probabilità uno dei più antichi
documenti che possediamo di questa lingua. Il sito era stato
intenzionalmente ricoperto di terra, e nel riempimento si sono trovati
oggetti di ogni genere, di carattere straordinario e anche di uso quotidiano,
da coppe in miniatura, perline e astragali, fino a raffinate ceramiche
decorate ateniesi del VI secolo a.C. La spiegazione più ovvia per questi
ritrovamenti, che sembrano includere dediche di tipo religioso, è che si
tratti di un arcaico santuario, forse del dio Vulcano. Venne poi ricoperto
quando, nel I secolo a.C., il Foro fu ripavimentato; ma per preservare la
memoria del sacro sito sottostante venne posta sopra di esso la pietra nera.
13. Ricostruzione del santuario arcaico trovato da Giacomo Boni sotto il lapis niger nel
Foro. Sulla sinistra si vede un altare (a forma di U quadrata, attestata in questo periodo
anche in altre zone d’Italia); sulla destra quel che rimane di una colonna e, appena
riconoscibile dietro di essa, il cippo iscritto.
Gli autori romani delle epoche successive conoscevano perfettamente la
pietra nera e avevano diverse idee sul suo significato. «La pietra nera»
scrisse uno di loro «segna un punto sfortunato.» E sapevano che sotto di
essa c’era qualcosa, antico di secoli: non un santuario religioso, come oggi
sostengono con relativa sicurezza gli archeologi, bensì un monumento
associato a Romolo o alla sua famiglia. Molti erano convinti che fosse la
tomba del padre fondatore; altri, forse disturbati dal fatto che, se Romolo
era diventato un dio, non poteva certo avere una tomba, pensavano si
trattasse di quella di Faustolo, il padre adottivo dei due gemelli; altri ancora
ne facevano la tomba di uno dei compagni di Romolo, Ostilio, nonno di uno
dei successivi re di Roma.
Sapevano anche, o per averla vista prima che venisse interrata o
semplicemente per tradizione orale, che là sotto c’era un’iscrizione. Dionigi
ne riporta due versioni: l’epitaffio di Ostilio, «che attestava il suo coraggio»,
oppure un’iscrizione eretta dopo una delle vittorie di Romolo «che
ricordava le sue imprese». Ma non era certamente né l’una né l’altra cosa.
Né tantomeno era, come asserisce Dionigi, «scritta in lettere greche»;
doveva trattarsi invece, bona fide, di una forma arcaica di latino. Ma ci offre
uno splendido esempio di quanto gli storici romani sapessero o non
sapessero del loro passato sepolto, e altresì di quanto amassero immaginare
le tracce di Romolo ancora presenti sulla superficie della propria città, o
appena al di sotto di essa. Ciò che ci dice questo testo (per quanto riusciamo
a comprenderlo) ci conduce alla fase successiva della storia romana e alla
serie di quasi altrettanto mitici re che sarebbero succeduti a Romolo.
III
I RE DI ROMA
Inciso nella pietra
L’iscrizione scoperta nel 1899 sotto la pietra nera nel Foro contiene la parola
re, in latino rex: RECEI , come appare nell’arcaica forma linguistica qui
attestata. Questa sola parola spiega la celebrità dell’iscrizione e ha
radicalmente trasformato il modo in cui da allora in poi si è concepita la
storia della Roma arcaica.
Il testo dell’iscrizione è per molti aspetti alquanto frustrante. È
incompleto, dato che almeno un terzo della parte superiore del cippo non si
è conservato. Ed è di fatto incomprensibile. Il latino impiegato qui è già
particolarmente difficile, ma la sezione mancante rende quasi impossibile
comprenderne appieno il significato. Anche se possiamo affermare con
certezza che non contrassegna la tomba di Romolo (o di chiunque altro), la
maggior parte delle interpretazioni è poco più che un coraggioso tentativo
di ricavare un qualche senso dalle poche singole parole riconoscibili sulla
pietra. Secondo una ragguardevole teoria moderna, si tratterebbe di una
sorta di avviso che vietava di lasciare che gli animali aggiogati depositassero
letame vicino al santuario, cosa che avrebbe costituito un cattivo presagio. È
estremamente difficile anche assegnargli una data precisa. Il solo modo di
datarlo consiste nel confrontare il testo e la scrittura con i pochi altri esempi
di latino arcaico a noi noti, per la gran parte di altrettanto incerta datazione.
Le varie proposte si dispongono su un arco di oltre trecento anni, da circa il
700 fino al 400 a.C. Stando al pur fragile consenso attuale, l’iscrizione
risalirebbe alla seconda metà del VI secolo a.C.
Malgrado queste lacune, gli archeologi hanno riconosciuto
immediatamente che la parola RECEI (declinata nel caso dativo, significando
«al/per il re») conferma ciò che sostengono gli scrittori romani: ossia, che
per due secoli e mezzo, e precisamente fino alla fine del VI secolo a.C.,
Roma fu comandata da «re». Livio, e moltissimi altri autori insieme a lui,
elenca una serie canonica di sei re successivi a Romolo, a ognuno dei quali
viene attribuito un certo numero di specifiche imprese e realizzazioni. Le
pittoresche storie di questi re (con il loro sfondo di eroici guerrieri romani,
rivali assassini e regine cospiratrici) occupano la seconda parte del Primo
libro delle Storie di Livio. Dopo Romolo salì al trono Numa Pompilio, una
figura pacifica alla quale era attribuita la creazione di quasi tutte le
istituzioni religiose di Roma; a Numa seguì Tullo Ostilio, celebre per la sua
bellicosità, e poi Anco Marzio, il fondatore del porto marittimo di Roma,
Ostia («foce del fiume»). Il trono passò quindi a Tarquinio Prisco (o
«Tarquinio il Vecchio»), che edificò il Foro e il Circo Massimo, poi a Servio
Tullio, riformatore politico e creatore del censo romano, e infine a Tarquinio
il Superbo (o piuttosto «l’Arrogante»). Fu il comportamento tirannico di
quest’ultimo, e della sua famiglia, a scatenare una rivoluzione che portò al
rovesciamento della monarchia e all’affermazione della «libertà» e della
«libera Repubblica di Roma». Tarquinio era un autocrate paranoico che
eliminava spietatamente tutti i suoi rivali, e un crudele sfruttatore del
popolo romano, che costringeva a spezzarsi la schiena lavorando per i suoi
fanatici progetti edilizi. Ma, come sarebbe avvenuto più e più volte nella
storia di Roma, uno stupro fu la goccia che fece traboccare il vaso: nel caso
specifico, quello della virtuosa Lucrezia, di cui si rese colpevole uno dei figli
del re.
14. L’iscrizione arcaica sul cippo trovato sotto il lapis niger poteva essere facilmente
scambiata per greca, e in effetti alcuni antichi osservatori caddero in questo errore. Si
tratta invece di latino arcaico, scritto con lettere molto simili a quelle greche, e ad
andamento bustrofedico (le linee si leggono alternativamente da sinistra a destra e da
destra a sinistra).
Prudenti studiosi del XIX secolo hanno espresso fortissimi dubbi sul
valore storico di queste storie, sostenendo che non vi sono per questi re
testimonianze più solide e concrete di quelle che possediamo per il
leggendario Romolo: l’intera tradizione si fondava su confusi ricordi orali e
miti in gran parte fraintesi, per non parlare delle successive fantasie
propagandistiche sponsorizzate da molte delle più importanti famiglie di
Roma, che manipolavano o inventavano regolarmente la «storia» più antica
della città per attribuire ai propri antenati un ruolo glorioso nel suo
svolgimento. Mancava ormai soltanto un breve passo (concretamente
compiuto da molti illustri storici ottocenteschi) per arrivare alla conclusione
che a Roma non c’era mai stata una «fase monarchica», che i suoi celebri
sette re erano soltanto creazioni dell’immaginazione dei suoi abitanti, e che
l’autentica storia della Roma arcaica era completamente perduta.
Questo scetticismo fu spazzato via dal RECEI dell’iscrizione sul cippo
scoperto da Boni. Nessuna argomentazione (come, per esempio, il fatto che
qui rex si riferisce non a un re nel senso consueto, bensì a una successiva
carica religiosa indicata con il medesimo termine) poteva più negare ciò che
ormai appariva inconfutabile, ossia che Roma un tempo era stata
caratterizzata da un qualche genere di monarchia. La scoperta trasformò la
natura del dibattito sulla storia di Roma arcaica e, naturalmente, sollevò
nuove domande e nuovi problemi.
Ancora oggi, questa iscrizione pone al centro la questione dei re romani e
ci spinge a domandarci cosa possa significare il concetto di monarchia nel
contesto di una piccola comunità arcaica formata da poche migliaia di
abitanti che vivevano in capanne di paglia e canne costruite sulla cima di
alcuni colli nei pressi del fiume Tevere. La parola re implica quasi
certamente qualcosa di più formale e solenne di quanto potremmo
immaginarci. Ma i romani di epoca successiva vedevano, o immaginavano, i
loro primi governanti in molti modi diversi. Da un lato, dopo la drammatica
caduta di Tarquinio il Superbo, i re rimasero, per tutto il corso della storia di
Roma, oggetto di odio e disprezzo. L’accusa di aspirare a farsi rex
equivaleva, per qualsiasi romano, a una condanna a morte; e nessun
imperatore avrebbe mai tollerato di essere chiamato re, anche se qualche
cinico osservatore poteva chiedersi quale fosse la differenza. Dall’altro lato,
gli scrittori romani facevano risalire gran parte delle loro più importanti
istituzioni politiche e religiose proprio al periodo monarchico: se, nel
racconto leggendario, la città era stata concepita sotto Romolo, la sua
gestazione avvenne sotto la guida dei re, da Numa fino al secondo
Tarquinio. Per quanto detestati, ai sovrani veniva riconosciuto l’onore di
avere creato Roma.
15. In questo quadro del 1784, intitolato Il giuramento degli Orazi, Jacques-Louis David
raffigura una leggenda sul regno di Tullo Ostilio, quando Roma era in guerra con la vicina
Alba Longa. Due coppie di tre gemelli, in entrambi gli schieramenti, decidono di
affrontarsi in nome delle loro comunità. David immagina il momento in cui gli Orazi
romani ricevono le spade dal proprio padre. Solo uno di essi tornerà vittorioso, e subito
ucciderà sua sorella (qui ritratta piangente), per essere stata fidanzata con un nemico. Era
una storia, tanto per gli antichi romani quanto per i francesi del XVIII secolo, che
celebrava il patriottismo ma ne metteva anche in discussione il costo.
16. Questa iscrizione della fine del VI o dell’inizio del V secolo a.C., trovata nel 1977
quaranta chilometri a sud di Roma, è una delle migliori testimonianze sull’uso di milizie
private nella città arcaica. È una dedica al dio Marte (l’ultima parola della seconda linea,
che, nel latino di allora, è scritta MAMARTEI ) da parte dei SUODALES di Publio Valerio
(POPLIOSO VALESIOSO, nella seconda parte della prima linea), forse da identificare con uno
dei consoli semileggendari del primo anno della repubblica, Publio Valerio Publicola. I
suoi SUODALES (sodales, in latino classico) potrebbero essere, eufemisticamente, i suoi
«compagni», o, più realisticamente, i membri della sua «banda».
Che cosa rimane dunque dei re e della parola rex nell’iscrizione trovata
nel Foro? Rex può senz’altro significare «re» nel senso moderno del termine,
un senso grosso modo simile a quello che aveva per i romani del I secolo
a.C. I quali, proprio come noi, avrebbero avuto in mente non soltanto
l’immagine di un potere autocratico e dei suoi simboli, ma anche una
concezione teorica della monarchia come forma di governo, da
contrapporre, per esempio, a quella della democrazia o dell’oligarchia. È
alquanto improbabile che qualcosa di analogo fosse invece nella mente di
coloro che, parecchi secoli prima, fecero incidere quell’iscrizione. Per questi
ultimi, la parola rex avrebbe ugualmente significato un potere e un
predominio individuale, ma in un modo meno strutturato, meno
«costituzionale», per così dire. Quando ci riferiamo alla realtà concreta,
piuttosto che ai miti, di questa fase arcaica della storia di Roma, appare più
opportuno considerarla in termini di capi e leader carismatici anziché di re,
ipotizzando una forma di organizzazione di tipo chiefdom a piuttosto che
una struttura di tipo monarchico.
Storie di fondazione: religione, tempo e politica
Per gli scrittori latini, i re che succedettero a Romolo furono parte
integrante del lungo processo di fondazione della città. Come Romolo,
anche questi sovrani erano considerati figure storiche (sebbene certi autori
mettessero in dubbio alcune delle incredibili storie che su di essi venivano
raccontate). Ma, ancora una volta, appare chiaro che buona parte delle
tradizioni giunte fino a noi, ben lungi dal corrispondere alla realtà, sono
un’affascinante proiezione nel più remoto passato delle priorità e delle
preoccupazioni dei romani di un’epoca posteriore. Non è difficile
individuare molti dei temi e degli interessi che abbiamo già incontrato nella
storia di Romolo. Di questi re, per esempio, si diceva che avessero origini
assai diverse: Numa, come Tito Tazio, era sabino; Tarquinio Prisco
proveniva dall’Etruria ed era figlio di un esiliato della città greca di Corinto;
Servio Tullio era, secondo coloro che rifiutavano la storia del fallo
miracoloso, figlio di uno schiavo o almeno di un prigioniero di guerra (le
dispute sulla sua parentela erano talmente accese che, di tutti i generali
ricordati sugli elenchi del Foro per avere celebrato un trionfo, il suo è
l’unico nome che non sia accompagnato da quello del padre). Anche se
talvolta vediamo dei romani (di solito i personaggi «cattivi» delle storie
tradizionali) lamentarsi del fatto che stranieri e gente di umile origine
stessero impadronendosi dei loro diritti di nascita, il messaggio generale è
assolutamente chiaro: persino al vertice massimo dell’ordinamento politico,
i «romani» potevano essere originari di altri luoghi; e anche chi aveva umili
origini, persino un ex schiavo, poteva salire al gradino più alto.
Anche durante la monarchia Roma continuò a essere lacerata da violente
guerre civili e da aspri conflitti familiari. La successione al trono era
particolarmente pericolosa e cruenta. Su sette re, tre sarebbero stati
assassinati, uno fu colpito da un fulmine divino come punizione per una
colpa religiosa, mentre Tarquinio il Superbo venne rovesciato e cacciato
dalla città; soltanto due morirono nei propri letti. Furono i figli di Anco
Marzio, infuriati per essere stati scavalcati nella successione al trono, ad
assoldare gli assassini di Tarquinio Prisco. Servio Tullio fu ucciso per
analoghe ragioni da Tarquinio il Superbo, in combutta con la stessa figlia
del re. In un finale davvero raccapricciante, la figlia aveva deliberatamente
calpestato con il proprio carro il cadavere del padre «portando le tracce del
parricidio sul carro insanguinato, imbrattata essa pure e spruzzata di
sangue, fino ai Penati suoi e del suo sposo». Questo tema riprende e
ribadisce l’idea che i conflitti civili siano un fattore inestinguibile della
politica romana, ma mette in luce un’altra linea di frattura della cultura
politica romana: il modo in cui il potere era trasmesso da una persona a
un’altra, o da una generazione all’altra. È opportuno notare a questo
proposito che, mezzo millennio dopo, la prima dinastia dei nuovi autocrati
di Roma, gli imperatori da Augusto a Nerone, ebbe un’analoga, se non
peggiore, storia di morti violente, per assassinio o presunto assassinio,
all’interno della propria famiglia.
Il periodo monarchico, comunque, non si limitò a rimettere in scena le
questioni sollevate da Romolo. Per seguire la logica del racconto, alla fine
del suo regno la fondazione della città era ancora tutt’altro che conclusa.
Ciascuno dei suoi successori diede il proprio specifico contributo,
assicurando in questo modo che, quando infine la monarchia venne
rovesciata, Roma era ormai dotata di quasi tutte le sue istituzioni più
caratteristiche e distintive. Di queste, le più importanti erano attribuite a
Numa Pompilio e Servio Tullio. Servio Tullio aveva ideato il sistema di
conteggio e suddivisione per rango del popolo romano chiamato census. Tale
sistema rimase per secoli alla base dell’ordinamento politico romano,
garantendone un fondamentale principio gerarchico: vale a dire, che i ricchi
avevano per diritto più potere dei poveri. Ma, prima di lui, Numa aveva
definito e stabilito, praticamente da solo, la struttura della religione
ufficiale romana, con la creazione di istituzioni destinate a lasciare la
propria impronta, e il proprio nome, in tempi e spazi che vanno ben oltre i
limiti di questo libro. Così, per fare un solo esempio, ancora oggi il titolo
ufficiale del papa cattolico (pontifex, «pontefice») deriva da quello di uno dei
sacerdozi la cui istituzione era attribuita a Numa.
Riflettendo sull’ascesa della propria città al dominio su tutto il
Mediterraneo e su molte altre regioni ancora più lontane, alcuni storici
romani attribuirono questo straordinario successo non solo al suo talento
militare. A loro giudizio, i romani avevano trionfato perché avevano avuto
gli dèi al proprio fianco: la loro devota fedeltà religiosa fu la garanzia del
loro successo. Rovesciando i termini dell’assioma, ogni fallimento da essi
subìto poteva essere attribuito a qualche colpa nei loro rapporti con gli dèi:
probabilmente avevano trascurato dei cattivi presagi, condotto in modo
sbagliato un importante rituale o violato qualche regola religiosa. Il loro
sentimento di pietà divenne un vanto nelle loro relazioni con il mondo
esterno. All’inizio del II secolo a.C., per esempio, quando un ufficiale
romano scrisse alla città greca di Teo, sulla costa occidentale dell’odierna
Turchia, per garantire ai suoi abitanti l’indipendenza politica (perlomeno
nel breve periodo), fu proprio questo il messaggio che ribadì. Possiamo
ancora leggere le sue alquanto enfatiche parole, incise su un blocco di
marmo esposto nella città greca:
Il fatto che noi romani abbiamo ritenuto, in modo assoluto e consistente, che la
devozione verso gli dèi sia di primaria importanza è dimostrato dal favore che
essi ci hanno proprio per questo concesso. Inoltre, siamo certi anche per molte
altre ragioni che il nostro grande rispetto nei confronti delle cose divine sia
apparso evidente a tutti.
Distribuì il resto della popolazione in cinque classi ... e tali classi distinse in
modo che i voti venissero a trovarsi non in potere della massa, ma dei
possidenti terrieri, e, ciò che va tenuto sempre presente nell’ordinamento di
uno stato, si dette cura che la maggioranza non avesse anche il maggior
potere.
20. Frammenti di statue in terracotta a grandezza naturale da un tempio del VI secolo a.C.
spesso associato al nome di Servio Tullio. Raffigurano Minerva e il suo protetto Ercole
(riconoscibile dalla pelle di leone sulle sue spalle). Gli etruschi erano noti per la loro
grande perizia nella statuaria in terracotta; qui è evidente anche l’influenza dell’arte greca,
a dimostrazione dei contatti di Roma con il mondo esterno.
che i nostri autori latini dicono nato dalla schiava Ocresia e che gli autori
etruschi descrivono come sodale di Celio Vibenna e compagno di ogni sua
avventura. Dopo alterne vicende con i resti delle milizie di Celio lasciò
l’Etruria e occupò il colle Celio al quale egli stesso diede il nome, prendendolo
da quello del suo capo; dopo avere mutato come già dissi il proprio nome con
quello di Servio Tullio (in etrusco si chiamava Mastarna) ottenne il regno con
grande beneficio per lo stato.
23. La pudicitia, intesa come virtù fondamentale della donna, era promossa in numerosi
contesti. Questa moneta argentea dell’imperatore Adriano, coniata negli anni Venti del II
secolo d.C., mostra la Pudicitia personificata, compostamente seduta come ci si aspettava
da una brava moglie romana. Attorno alla sua figura, le parole COS III celebrano il terzo
consolato di Adriano, alludendo a uno stretto legame tra il prestigio pubblico degli uomini
e il corretto comportamento delle donne.
24. Le tre colonne sopravvissute di una tarda ricostruzione del tempio di Castore e Polluce
si stagliano ancora con grande evidenza nel Foro romano. Il resto del tempio è quasi
completamente distrutto, ma la base inclinata dei suoi gradini, spesso utilizzati dagli
oratori per rivolgersi al popolo, è ancora visibile (in basso a sinistra). La piccola porta ci
ricorda che le fondamenta dei templi erano usate per ogni sorta di funzioni. In questo caso
specifico, gli scavi hanno mostrato che qui un tempo si trovava il negozio di un
barbiere/dentista.
Cornelio Lucio Scipione Barbato, generato da Gnaeus suo padre, uomo forte e
saggio, il cui aspetto era pari alla sua virtù, che fu console, censore ed edile fra
voi – catturò Taurasia Cisaunia nel Sannio – soggiogò tutta la Lucania e ne
tradusse ostaggi.
26. Il contadino che salvò lo stato. Questa statua del XX secolo, che si trova a Cincinnati, in
Ohio, mostra Cincinnato che restituisce le insegne della sua carica pubblica e torna
all’aratro. Molte storie romane lo presentavano secondo questa immagine di patriota
severo, ma c’era anche un’altra immagine, quella di irriducibile avversario dei diritti della
plebe e dei poveri di Roma.
Perché non fate approvare una legge per proibire ai plebei di vivere vicino ai
patrizi, di camminare nella stessa strada, di andare alle stesse feste o di stare
fianco a fianco nel Foro?
Oppressi dal problema dei debiti, nel 494 a.C. i plebei misero in atto la
prima di una lunga serie di secessioni di massa dalla città, una sorta di
combinazione tra un ammutinamento e uno sciopero, sperando di
costringere i patrizi ad accettare un processo di riforme. Fu una mossa
vincente, perché diede avvio a un’altrettanto lunga serie di concessioni che
eliminarono progressivamente le più sostanziali differenze tra patrizi e
plebei, e diedero un nuovo assetto alla struttura del potere politico della
città. Due secoli più tardi, dei privilegi patrizi non restava altro che il diritto
di detenere qualche veneranda carica sacerdotale e di indossare un
particolare tipo di calzature.
La prima riforma approvata nel 494 a.C. fu la nomina dei tribuni della
plebe (tribuni plebis), cui spettava il compito di rappresentare e difendere gli
interessi dei plebei. Quindi fu costituita un’assemblea speciale riservata
esclusivamente ai plebei (comizi tributi). Come i comizi centuriati, anche i
comizi tributi votavano per gruppi, ma il loro sistema di composizione era
profondamente diverso: non si fondavano su una gerarchia definita dalla
ricchezza. Al contrario, le circoscrizioni elettorali erano definite su base
geografica, con gli elettori distribuiti in tribù (tribus), o suddivisioni
regionali del territorio romano (il concetto latino non ha nulla a che fare con
il significato di raggruppamento etnico che il termine tribù ha assunto
nell’uso moderno). Infine, dopo un’ultima secessione, con una riforma
approvata nel 287 a.C., e alla quale avrebbe potuto assistere personalmente
lo stesso Scipione Barbato, alle decisioni prese da questa assemblea fu
conferito automatico valore di legge per tutti i cittadini romani. In altre
parole, a un’istituzione plebea venne concesso il diritto di legiferare in
nome dello stato e anche su di esso.
Tra il 494 e il 287 a.C., in un clima turbolento intriso di retorica, scioperi e
minacce di violenza, tutte le magistrature e le cariche sacerdotali più
importanti furono una dopo l’altra aperte ai plebei e la loro condizione di
inferiorità venne smantellata. I plebei riportarono una delle loro più celebri
vittorie nel 326 a.C., allorché venne abolita la schiavitù per debiti,
stabilendo il principio che la libertà era un diritto inviolabile di ogni
cittadino romano. Un’altra decisiva pietra miliare, anche se più strettamente
politica, era stata posta quarant’anni prima, nel 367 a.C. Dopo decenni di
ostinati rifiuti e inflessibili pretese dei patrizi più irriducibili, secondo i
quali «sarebbe stato un crimine contro gli dèi permettere a un plebeo di
diventare console», si decise di aprire ai plebei uno dei due posti di console.
A partire dal 342 a.C. si accettò che entrambi i consoli potessero essere
plebei, se così decretato dalle elezioni.
Gli eventi senza dubbio più drammatici dell’intero conflitto si legano alla
stesura delle Dodici Tavole, verso la metà del V secolo a.C. Le «leggi» che si
sono preservate possono anche apparire estremamente brevi, allusive e
persino un po’ aride, ma, almeno secondo la storia narrata dai romani,
furono redatte in un’atmosfera tragica, intrisa di inganni, accuse di tirannia,
tentati stupri e omicidi. Per molti anni, così si raccontava, i plebei avevano
richiesto che le «leggi» cittadine fossero rese pubbliche, sottraendole al
monopolio dei patrizi, che ne avevano fatto uno strumento segreto a
vantaggio dei propri interessi. Nel 451 a.C. si decretò la sospensione delle
normali magistrature politiche e la nomina di dieci uomini (decemviri), ai
quali era affidato il compito di raccogliere, sistemare e pubblicare le leggi.
Nel primo anno di lavoro, i decemviri riuscirono a completare dieci tavole di
leggi, ma l’opera non era ancora terminata. Di conseguenza, venne
nominato un nuovo comitato per l’anno successivo, che tuttavia si dimostrò
di orientamento molto diverso, decisamente conservatore. Questo secondo
comitato redasse le ultime due tavole, introducendo una famigerata
clausola che proibiva i matrimoni tra patrizi e plebei. Sebbene l’iniziativa
che aveva portato alla stesura delle leggi fosse stata in origine mossa da uno
spirito riformista, si trasformò nel più radicale tentativo di mantenere
rigidamente separati i due gruppi: «la legge più disumana», come la
definisce Cicerone, del tutto contraria allo spirito di apertura romano.
Ma il peggio doveva ancora venire. Il secondo decemvirato (i Dieci
Tarquini, come è talvolta definito) iniziò a comportarsi come una banda di
tiranni, senza escludere nemmeno la violenza sessuale. In una sorta di
replica dello stupro di Lucrezia (che aveva portato alla fondazione della
repubblica), un membro del comitato, il patrizio Appio Claudio (un
antenato del costruttore della celebre Via Appia) pretese di unirsi
sessualmente con una giovane donna plebea, opportunamente chiamata
Virginia, non ancora sposata ma già promessa. Poi venne architettato un
piano di inganno e corruzione. Appio costrinse uno dei suoi tirapiedi a
sostenere che costei fosse una sua schiava e che fosse stata rapita dal suo
sedicente padre. Il giudice preposto al caso era lo stesso Appio, il quale si
espresse naturalmente in favore del suo complice, e iniziò ad attraversare il
Foro per catturare Virginia. Nella confusione che ne seguì, il padre della
ragazza, Lucio Virginio, afferrò un coltello che si trovava nella vicina bottega
di un macellaio e la trafisse a morte esclamando: «Figlia mia, con l’unico
mezzo che mi è consentito io ti restituisco la libertà».
27. Una carica che rimase quasi sempre riservata ai patrizi era quella del flaminato (antichi
sacerdoti di alcune delle divinità principali). Un gruppo di questi sacerdoti, riconoscibili
grazie al loro strano copricapo, è raffigurato sull’Ara Pacis di Augusto (cfr. fig. 65).
Quel testimone oculare era il più stretto degli amici letterati di Emiliano,
uno storico greco, residente a Roma, chiamato Polibio. Acuto e profondo
osservatore della politica romana, sia domestica che estera, con una
prospettiva unica su Roma, allo stesso tempo interna ed esterna, Polibio
occuperà un posto di primo piano nel resto di questo capitolo, perché è il
primo scrittore che abbia posto alcune delle fondamentali domande alle
quali cercheremo di rispondere. Come e perché i romani sono riusciti a
ottenere in così breve tempo la supremazia su gran parte del Mediterraneo?
Quali erano gli elementi distintivi del sistema politico romano? O, come
dice solennemente Polibio:
Chi mai, infatti, può essere tanto sciocco o pigro da non voler conoscere come
e con quale sistema di governo i romani abbiano vinto e ridotto sotto il proprio
esclusivo dominio quasi tutte le regioni della terra abitata, cosa che non
risulta essere avvenuta in precedenza?
Conquiste e conseguenze delle conquiste
I «trentacinque anni» indicati da Polibio coprono la fine del III e l’inizio del
II secolo a.C.; ma già sessant’anni prima i romani avevano dovuto affrontare
il loro primo nemico d’oltremare: Pirro, sovrano di un regno della Grecia
settentrionale, che nel 280 a.C. sbarcò in Italia in soccorso della città di
Taranto. Le vittorie contro i romani, sosteneva Pirro, gli erano costate
talmente tanti uomini che non avrebbe più potuto permettersene un’altra:
da questa celebre battuta è nata l’espressione «vittoria di Pirro», per
indicare una vittoria così dispendiosa da equivalere praticamente a una
sconfitta. La frase è senza dubbio conciliante con la versione romana dei
fatti, poiché Pirro rappresentò una minaccia molto seria per Roma.
Annibale, a quanto sembra, lo considerava il più grande condottiero
militare dopo Alessandro Magno; fu, almeno a giudicare da un ampio
numero di affettuosi aneddoti, un uomo affascinante ma anche
leggermente spaccone. Fu il primo a portare degli elefanti in Italia, e si dice
che una volta avesse cercato, benché senza successo, di spaventare un
romano che era andato a trovarlo facendo comparire improvvisamente da
una tenda una delle sue bestie. È anche il primo personaggio della storia di
Roma al quale possiamo attribuire un volto con una certa sicurezza.
Dall’invasione di Pirro al 146 a.C. – quando gli eserciti romani, al termine
della terza guerra punica (dal latino punicus, «cartaginese»), distrussero
Cartagine e, quasi simultaneamente, la ricca città greca di Corinto – Roma e
i suoi avversari furono coinvolti in guerre più o meno continue sulla
penisola italiana e oltremare. Uno storico antico individuò nell’anno «in cui
furono consoli Gaio Atilio e Tito Manlio» (235 a.C.) l’unico momento di
questo periodo nel quale non vi furono ostilità.
I conflitti più celebrati, e devastanti, furono le prime due guerre contro
Cartagine. La prima durò oltre vent’anni (dal 264 al 241 a.C.) e fu
combattuta per lo più in Sicilia e sui mari che la circondano, fatta eccezione
per una disastrosa spedizione romana in territorio cartaginese, in
Nordafrica. Si concluse con la sottomissione della Sicilia al controllo
romano, alla quale pochi anni dopo si aggiunsero la Sardegna e la Corsica,
sebbene l’epitaffio del figlio di Barbato esageri leggermente le sue imprese
nella «conquista» dell’isola. Un’eccezionale scoperta recente ha portato alla
luce dal fondo del Mediterraneo alcuni resti dell’ultima battaglia navale
combattuta fra i romani e i cartaginesi. Poco al largo della costa siciliana,
nel punto in cui si ritiene che le due flotte si siano scontrate, gli archeologi
che esplorano la zona fin dal 2004 hanno recuperato diversi rostri di bronzo
appartenenti alle navi affondate (per lo più romane, ma si è trovata anche
un’imbarcazione cartaginese), insieme ad almeno otto elmi di bronzo, uno
dei quali conserva tracce di una scritta in punico, probabilmente incisa dal
suo proprietario annegato, e numerose anfore che dovevano contenere i
rifornimenti delle navi (si veda la tavola 8).
30. Questo ritratto di Pirro, scolpito più di due secoli dopo la sua morte e proveniente da
una lussuosa villa appena fuori Ercolano, riproduce probabilmente un’immagine
realizzata quando era ancora vivo. Ci sono numerosi «ritratti» più antichi di romani o di
loro nemici, ma nessuno di essi può essere riferito con certezza a un preciso personaggio
storico. Questo è il primo caso in cui vediamo il vero volto di un protagonista della storia
romana.
La seconda guerra punica, che si protrasse dal 218 al 201 a.C., ebbe una
dimensione geografica ben più vasta. È oggi ricordata soprattutto per
l’eroica disfatta di Annibale, che attraversò le Alpi con i suoi elefanti (più
una mossa propagandistica che un vero vantaggio militare) e inflisse
durissime perdite ai romani in Italia sconfiggendoli in ripetute battaglie, la
più catastrofica delle quali fu quella di Canne, nel 216 a.C. Soltanto dopo
oltre un decennio di inconcludente guerriglia, il governo cartaginese,
sempre più dubbioso sull’utilità dell’impresa e ora minacciato dall’esercito
invasore di Scipione Africano, si decise a richiamare Annibale a Cartagine.
Non fu però semplicemente una guerra italiana e nordafricana. Era iniziata
con uno scontro fra romani e cartaginesi in Spagna, il che spiega le continue
guerre che Roma vi dovette sostenere per quasi tutto il II secolo a.C. Inoltre,
la possibilità che Annibale ricevesse aiuto dalla Macedonia spinse i romani
in una serie di scontri nella Grecia settentrionale, che si conclusero con la
sconfitta del re macedone Perseo nel 168 a.C. per opera di Emilio Paolo, il
padre naturale di Scipione Emiliano, e poco dopo con la sottomissione di
tutta la penisola greca al controllo romano.
Come se non bastasse, negli anni Venti del III secolo a.C. i romani si
impegnarono anche in una serie di intensi conflitti con i galli nell’Italia
settentrionale. Fecero altresì periodiche incursioni al di là dell’Adriatico, in
parte per risolvere il problema dei cosiddetti «pirati» (un termine con cui si
indicava qualsiasi «nemico a bordo di navi»), i quali erano sostenuti dalle
tribù e dai regni disseminati sulla costa opposta all’Italia, o almeno così si
diceva. E nel 190 a.C., al comando di Scipione Asiatico, i romani inflissero
una sconfitta decisiva al re di Siria Antioco «il Grande», il quale non
soltanto si ispirava al modello di Alessandro Magno e cercava di estendere
conseguentemente il suo regno, ma aveva addirittura dato ospitalità ad
Annibale, che, esiliato da Cartagine, si riteneva fornisse al re preziosissimi
consigli su come affrontare i romani.
Le campagne militari erano un elemento caratteristico della vita romana,
e gli autori romani, proprio come ho fatto anch’io, articolarono il racconto
della storia di questo periodo seguendo la successione delle guerre, alle
quali diedero nomi brevi e concisi (spesso utilizzati ancora oggi). Quando
Sallustio intitolò il proprio saggio sulla congiura di Catilina Bellum Catilinae
(La guerra contro Catilina), non faceva che riflettere, forse con un leggero
tono di parodia, la tradizione romana, che concepiva la guerra come il
principio strutturante della storia. Era una tradizione dalle origini molto
antiche. Del poema epico di Ennio sulla storia di Roma ci è rimasto un
frammento nel quale si fa esplicito riferimento alla «seconda guerra
punica», a cui l’autore aveva preso parte come alleato romano; il poema fu
scritto ancor prima che scoppiasse la terza guerra punica.
I romani destinavano un’enorme quantità di risorse alla guerra e, anche
da vincitori, pagavano un alto tributo in vite umane. Nel corso di questo
periodo, tra il 10 e il 25 per cento della popolazione adulta di sesso maschile
prestò servizio nell’esercito ogni anno, una proporzione nettamente
maggiore di quella di qualsiasi stato dell’epoca preindustriale e grosso
modo confrontabile con il tasso di leva della prima guerra mondiale. A
Canne combatté un numero di legioni doppio rispetto a quello che aveva
combattuto nella battaglia di Sentino, appena ottant’anni prima: un preciso
indizio della dimensione crescente di questi conflitti e della sempre più
complessa ed elaborata logistica per l’equipaggiamento, il rifornimento e il
trasporto. Un esercito come quello schierato dai romani e dai loro alleati a
Canne, per esempio, aveva bisogno di almeno cento tonnellate di grano al
giorno. I rapporti con le comunità locali che ciò implicava, il movimento di
centinaia di animali da soma, i quali complicavano ulteriormente le cose
consumando necessariamente una parte di quel che trasportavano, e le
difficoltà di raccolta e distribuzione sarebbero stati inconcepibili all’inizio
del secolo.
31. La disastrosa spedizione romana in Nordafrica durante la prima guerra punica fu
rivestita di un tratto eroico con la storia di Marco Attilio Regolo. Dopo la sconfitta subita
dai romani nel 255 a.C., i cartaginesi gli permisero di rientrare in patria per negoziare una
tregua, a patto che facesse ritorno a Cartagine. A Roma, Regolo esortò i suoi concittadini a
non stipulare alcun trattato di pace; poi, fedele alla sua promessa di romano, fece ritorno a
Cartagine per affrontare la morte. Questo dipinto del XIX secolo raffigura la sua partenza
da Roma, nonostante i disperati appelli della sua famiglia.
34. Monumento del II secolo d.C. in memoria di un sacerdote della Grande Madre. La sua
immagine è molto diversa da quella dei tipici sacerdoti romani in toga (cfr. fig. 61): ha i
capelli lunghi, indossa pesanti gioielli ed è accompagnato da strumenti musicali
«stranieri», mentre il frustino e la verga sono un’allusione alle pratiche di
autoflagellazione.
37. Cornelia, madre dei Gracchi, insieme ai suoi giovani figli, in un quadro dipinto nel 1875
da Angelica Kauffmann. Cornelia è una delle poche donne romane a cui è attribuita una
profonda influenza sulla carriera politica dei figli. Si diceva che vestisse in modo meno
vistoso della maggior parte delle altre matrone: «I miei figli sono i miei gioielli», come lei
stessa usava dire. Qui Kauffmann la immagina mentre presenta Tiberio e Gracco (sulla
sinistra del quadro) a un’amica.
Per chi li vedeva in posti come Delo, c’era ben poca differenza tra romani
e italici, e i due termini erano usati in modo più o meno interscambiabile
per riferirsi a entrambi. Persino in Italia i confini si erano erosi e fatti incerti
e confusi. All’inizio del II secolo a.C. tutti coloro che erano stati «cittadini
senza suffragio» ottennero il diritto di voto. In un qualche momento
precedente alla guerra sociale, i romani potrebbero avere accettato il
principio secondo il quale chiunque avesse rivestito una carica pubblica in
una comunità di diritto latino poteva accedere alla piena cittadinanza
romana. In pratica, si chiuse sovente un occhio sugli italici che
rivendicavano semplicemente la cittadinanza o riuscivano a ottenerla
iscrivendosi nelle liste di censimento romano.
Ma questo genere di più stretta integrazione era soltanto un lato della
medaglia. La storia dell’umiliazione subita dal governatore di Teano
raccontata da Gaio è solo una delle numerose causes célèbres in cui singoli
romani, in un arco che va dalla mancanza di tatto alla pura crudeltà, furono
accusati di avere maltrattato o umiliato importanti membri delle comunità
alleate. Di un altro console si diceva che avesse fatto spogliare e frustare un
gruppo di dignitari locali per un semplice intoppo nelle disposizioni per i
suoi rifornimenti. Veri o no che siano, questi aneddoti (che, in definitiva,
derivano tutti da non comprovati attacchi di romani contro altri romani)
rivelano un’atmosfera dominata da recriminazioni, risentimenti e velenosi
pettegolezzi, ulteriormente alimentati da alcuni autoritari interventi dello
stato centrale e da un senso di esclusione politica, di status inferiore, nei
principali alleati. Il Senato iniziò a dare per scontato che poteva dettar legge
in tutta la penisola. La riforma agraria di Tiberio Gracco, per quanto possa
avere incontrato il favore dei romani più indigenti, era un’autentica
provocazione nei confronti dei ricchi italici che erano stati privati di parte
della loro terra (quella che apparteneva all’ager publicus), come anche di
quelli più poveri, che erano esclusi dalle assegnazioni. Gli stretti rapporti
personali che una fetta dell’aristocrazia italica aveva intessuto con illustri
cittadini romani (in quale altro modo avrebbe potuto ottenere l’aiuto di
Scipione Emiliano nella battaglia contro la riforma di Tiberio?) non
compensavano il fatto che essa continuava a non avere alcun ruolo
riconosciuto nella politica romana e nei suoi meccanismi decisionali.
Negli anni Venti del II secolo a.C. la «questione italica» si fece sempre
più scottante e divisiva, provocando numerosi scoppi di violenza. Nel 125
a.C. la popolazione di Fregelle cercò di staccarsi da Roma, ma venne
schiacciata da un esercito romano al comando di quel medesimo Lucio
Opimio che pochi anni dopo eliminò Gaio Gracco. I resti dei fregi scolpiti
che un tempo commemoravano orgogliosamente queste campagne
congiunte sono stati portati alla luce più di duemila anni dopo la
distruzione di Fregelle. Allo stesso tempo, a Roma, i timori sulle fiumane di
stranieri che avrebbero potuto inondare la città venivano eccitati in modi
che ci sono ben noti dalle moderne campagne xenofobe. Un avversario di
Gaio, nel corso di una contio (adunanza del popolo), adombrò visioni di una
Roma sommersa da ondate di immigrati. «Una volta che avrete concesso la
cittadinanza ai latini,» così si rivolse al suo pubblico «credete che rimarrà
qualche spazio per voi, come adesso, nelle assemblee, nei giochi o nelle
feste? Non vi rendete conto che si prenderanno tutto?» Vi furono anche
occasionali tentativi ufficiali di rimpatriare gli immigrati o di impedire che
gli italici si spacciassero per autentici cittadini romani. Sostenere troppo
apertamente la causa degli italici poteva rivelarsi pericoloso. Nell’autunno
del 91 a.C. Marco Livio Druso, che aveva proposto di estendere i diritti di
cittadinanza a un più ampio settore dell’Italia, venne assassinato nella sua
stessa casa, accoltellato mentre stava salutando un gruppo di visitatori.
Questo omicidio fu il preludio di una guerra vera e propria, di spietata
violenza. La svolta si ebbe alla fine del 91 a.C., quando un inviato romano
insultò gli abitanti di Ascoli, nell’Italia centrale. Per tutta risposta, costoro
uccisero l’inviato e tutti gli altri romani che lo accompagnavano. Questo
brutale atto di pulizia etnica stabilì il tono per ciò che accadde in seguito,
che non fu molto diverso da un’autentica guerra civile: «Può essere
chiamata, per ridurne l’odiosità, una guerra contro i socii; ma la verità è che
si trattò di una guerra civile, contro i cittadini», come riassunse poi uno
storico romano. E costrinse i romani a combattere in quasi tutta la penisola
italiana, inclusa Pompei, dove i segni lasciati dai colpi dell’artiglieria
romana, nell’89 a.C., sono ancora oggi visibili sulle mura della città. I
romani impegnarono un’enorme quantità di forze per sconfiggere gli italici
e ottennero la vittoria soltanto a caro prezzo e dopo che si era diffuso il
panico. Quando il corpo di un console che era rimasto ucciso in battaglia
venne riportato in città, Roma sprofondò in un cordoglio talmente disperato
da spingere il Senato a decretare che, in futuro, i caduti avrebbero dovuto
essere sepolti nel luogo in cui erano morti (una decisione presa anche da
alcuni stati moderni). Ma, nel complesso, il conflitto si concluse abbastanza
rapidamente, nel giro di un paio d’anni. La pace fu raggiunta grazie a una
semplice soluzione: i romani offrirono la piena cittadinanza a tutti gli italici
che non avevano preso le armi contro Roma o che erano pronti a deporle.
Questo dà senza dubbio l’impressione che l’obiettivo bellico di molti
alleati fosse stato quello di ottenere la piena cittadinanza romana, ponendo
fine alla loro esclusione dalla vita politica e alla loro condizione di
inferiorità. È così che la maggior parte degli autori antichi ha spiegato il
conflitto. «Chiedevano infatti di essere parte di quella città della quale
difendevano con le armi il dominio», come scrisse uno di essi, il cui
bisnonno era un italico che aveva combattuto al fianco di Roma. La riuscita
trasformazione degli italici in romani era brillantemente riassunta da una
storia molto popolare, che raccontava la carriera di un uomo proveniente
dalla regione del Piceno, nell’Italia centrale: ancora bambino, aveva fatto
parte della processione dei prigionieri in uno dei trionfi celebrati a Roma
per la vittoria sui nemici un tempo alleati; cinquant’anni dopo, divenuto
generale romano, aveva egli stesso celebrato un trionfo per la propria
vittoria contro i parti: il solo uomo ad avere partecipato a una parata
trionfale in entrambe le vesti, prima come vinto e poi come vincitore. Ma gli
autori romani possono essere stati troppo pronti a equiparare l’esito della
guerra con i suoi obiettivi o ad assegnare agli italici uno scopo che si
adattava ben più agevolmente alla successiva unità di Roma e dell’Italia.
Infatti, la propaganda e l’organizzazione dello schieramento italico
indicano che si trattò di un movimento di secessione, che aspirava a una
completa indipendenza da Roma. Sembra che gli alleati avessero già fatto i
primi passi in direzione della costituzione di uno stato rivale, chiamato
«Italia», con una città rinominata «Italica» come capitale e persino la parola
Itali incisa sui loro proiettili di piombo. Iniziarono a coniare monete che
raffiguravano la memorabile immagine di un toro, simbolo dell’Italia, che
incornava una lupa, simbolo di Roma. E un capo italico capovolse
astutamente la storia di Romolo e Remo bollando i romani come «lupi
pronti a strappare la libertà all’Italia». Questo non suona affatto come un
appello all’integrazione.
La soluzione più ragionevole dell’enigma consiste nel supporre che gli
alleati fossero una coalizione piuttosto eterogenea, con molteplici obiettivi
e una sostanziale divisione tra chi era deciso a resistere ai romani fino alla
morte e chi era più disposto a scendere a patti. Questo è senza dubbio vero.
Ma bisogna tenere conto anche di altri più sottili fattori, e soprattutto
dell’indicazione che – piaccia o non piaccia – era ormai troppo tardi per
l’indipendenza dell’Italia da Roma. La monetazione esibiva senza dubbio
un’iconografia antiromana; ma si fondava interamente sul sistema
monetario romano, e molti altri motivi iconografici utilizzati erano tratti
direttamente dalle emissioni romane. Insomma, era come se il solo
linguaggio culturale con cui gli italici potevano attaccare Roma fosse ormai
quello romano: prova illuminante di quanto fosse progredita l’integrazione
o, se si preferisce, la supremazia romana sull’Italia.
Quali che fossero state le cause della guerra sociale, le conseguenze delle
leggi approvate nel 90 e nell’89 a.C., con le quali venne concessa la piena
cittadinanza romana agli abitanti di quasi tutta la penisola, furono di
enorme portata: l’Italia divenne così quel che il mondo classico ebbe di più
simile a uno stato-nazione, e il principio che abbiamo visto all’opera già
secoli prima, ossia che i «romani» potevano avere doppia cittadinanza e due
identità civiche (quella di Roma e quella della loro città natale), divenne la
norma. Se le cifre riportate dagli autori antichi sono accurate, il numero dei
cittadini romani si triplicò in un sol colpo, superando il milione. I possibili
effetti e i problemi di questo incremento erano ovvi. Si aprì un feroce
dibattito, per esempio, su come si dovessero distribuire i nuovi cittadini
nelle tribù elettorali, compresa la proposta, che non ebbe successo, di
limitare l’influenza degli italici nelle assemblee registrandoli in un piccolo
numero di tribù extra, che avrebbero sempre votato per ultime. Ma i romani
non adattarono mai le loro istituzioni politiche e amministrative
tradizionali al fine di gestire il nuovo panorama politico. Non fu mai
elaborato alcun sistema per votare fuori da Roma, per cui, in pratica,
soltanto gli italici che avevano sufficiente tempo e denaro per viaggiare
potevano esercitare davvero i loro nuovi diritti politici. E le difficoltà di
registrare regolarmente questo elevato numero di cittadini sembrano essere
state quasi superiori alle loro capacità, sebbene si facesse qualche tentativo
per affidare parte del lavoro a funzionari locali. Un censimento completo
venne effettuato nel 70 a.C. (è dai suoi dati che si ricava la stima di circa un
milione sopra citata); ma non se ne fecero più fino al 28 a.C., all’inizio del
regno dell’imperatore Augusto. Questo vuoto è normalmente attribuito
all’instabilità politica, ma anche la difficoltà e la portata del compito devono
avere avuto senza dubbio una parte.
40. La moneta più aggressivamente antiromana coniata dagli alleati italici durante la
guerra sociale. La lupa romana è soggiogata dal toro italico, e il nome del funzionario
responsabile della coniazione è scritto in osco, una lingua italica. Sull’altro lato di questa
moneta d’argento è raffigurata la testa del dio Bacco, accompagnata dal nome, pure in
osco, di uno dei più importanti generali italici.
come condottiero vittorioso (imperator) dalle sue truppe; e i due simboli al centro sono
racchiusi da altrettante armature, utilizzate come trofei di vittoria.
Di questo periodo, gli autori antichi dipingono un quadro dai toni foschi,
cruenti e confusi. In entrambe le invasioni di Silla si scatenarono feroci
scontri nel cuore stesso di Roma. Nella seconda, andò in fiamme il tempio
di Giove sul Campidoglio, il simbolo fondante della Roma repubblicana, e i
senatori non trovarono salvezza nemmeno all’interno del Senato. Quattro di
essi (compreso un antenato dell’imperatore Nerone) furono massacrati,
mentre erano ancora seduti sui loro scranni, dai nemici di Silla. Nel
frattempo, nella guerra contro Mitridate, un comandante dell’esercito venne
ucciso dal suo secondo, che poi si suicidò dopo che quasi tutte le sue truppe
avevano disertato. La gran parte dei disertori si unì alle forze di Silla, tranne
un paio di ufficiali che preferirono schierarsi con Mitridate, vale a dire con il
nemico che erano in teoria venuti a combattere.
I racconti più sinistri e raccapriccianti, però, riguardano le spietate
esecuzioni e il terrore scatenato dalle liste di proscrizione, redatte con
precisione burocratica. Il sadismo di Silla si sfogava a briglie sciolte. Se,
pochi anni prima, i suoi nemici avevano dato inizio alla macabra pratica di
appendere le teste delle proprie vittime ai rostri del Foro, Silla, si diceva, era
stato ancora più crudele, facendole apporre come trofei nell’atrio della sua
casa: un’odiosa parodia della tradizione che avevano le famiglie patrizie
romane di esibire in questo spazio di rappresentanza i ritratti dei propri
antenati. E denigrò ulteriormente l’uso di citare passi della letteratura greca
quando, essendogli stata mostrata la testa di una vittima molto giovane,
riprese un verso di Aristofane in cui si derideva un bambino che cercava di
correre prima ancora di avere imparato a camminare. «Non c’è stato
nessuno che mi abbia fatto un torto, che io non abbia ripagato in pieno»:
sono alcune delle parole che egli stesso scrisse per l’epitaffio della sua
tomba, davvero lontanissime da quelle degli epitaffi degli Scipioni. Ma
questa è soltanto una parte della storia. Bisogna anche riconoscere il
desiderio di molti di unirsi ai massacri per risolvere vecchi attriti o
semplicemente per reclamare la taglia sulle vittime. Uno dei più famigerati
e feroci fu Catilina, intento a persuadere Silla a inserire i nomi dei suoi
nemici personali nelle liste di proscrizione; dopo aver compiuto le sue
odiose nefandezze, si lavava delle tracce delle carneficine immergendo le
mani in una fontana sacra.
Come si spiega una simile violenza? Non basta sostenere che fosse meno
spaventosa rispetto a come è stata dipinta. Questo è vero, ma non in tutto e
per tutto. La gran parte delle narrazioni che ci sono giunte si fonda su
resoconti faziosi fatti da persone interessate a esagerare la crudeltà dei
propri nemici. È probabile, per esempio, che la denigrazione di Catilina
derivi dalla propaganda ciceroniana. Ma solo fino a un certo punto: le due
invasioni di Roma compiute da Silla, l’incendio del tempio di Giove, le
legioni schierate una contro l’altra e le liste di proscrizione non possono
essere considerati semplici invenzioni della guerra di propaganda. Né è
sufficiente domandarsi che cosa abbia spinto Silla a fare quel che fece. Le
sue motivazioni sono state immediatamente oggetto di dibattito. Era un
autocrate spietato e calcolatore? Oppure stava facendo un ultimo, disperato,
tentativo per restaurare l’ordine a Roma? Il punto è che, qualsiasi cosa si
celasse dietro le azioni di Silla (ed è impossibile saperlo oggi come già
allora), la violenza era molto più diffusa di quanto possa essere
ragionevolmente imputato all’influenza di un solo uomo.
I conflitti di questo periodo furono, per diversi aspetti, una prosecuzione
della guerra sociale: una guerra civile tra ex alleati e amici degenerata in
una guerra civile tra cittadini. E in questo processo si erose la fondamentale
distinzione tra romani e nemici stranieri (hostes). Nell’88 a.C. Silla proclamò
hostes i suoi rivali all’interno della città: era la prima volta che questo
termine veniva impiegato pubblicamente (come poi lo impiegò Cicerone)
contro un concittadino romano. Per tutta risposta, non appena Silla lasciò la
città, i suoi avversari lo dichiararono immediatamente un hostis. Questo
dissolvimento di distinzioni si riflette nei rovesci militari subiti nel
Mediterraneo orientale: le antiche certezze si ribaltarono così
profondamente che i soldati, una volta disertato dal proprio comandante
romano, potevano apparentemente vedere in Silla e in Mitridate due
possibili candidati per la loro nuova lealtà. E un distaccamento di forze
romane distrusse addirittura la città di Troia, la progenitrice di Roma. Era
l’equivalente mitico di un matricidio.
Conseguenza della guerra sociale fu anche la presenza di una numerosa
manodopera militare immediatamente a disposizione vicino a Roma,
formata da soldati con notevole esperienza nel combattere i loro amici e
parenti italici. Le recenti esplosioni di violenza all’interno della città, per
quanto controverse e brutali, erano state di portata relativamente piccola e
di breve durata. Ma, quando legioni armate alla perfezione presero il posto
delle bande di scagnozzi che avevano assassinato i sostenitori dei Gracchi,
Roma cadde facile preda di quella lunga e aperta guerra che contrassegnò
l’epoca sillana. Fu quasi un ritorno alle armate private della Roma arcaica:
singoli comandanti, appoggiati dal voto popolare o da decreti del Senato,
usavano le loro legioni per condurre le proprie lotte personali dove e
quando volevano.
Ma da questa vorticosa situazione emerse un eccezionale tentativo di
riscrivere la politica romana in senso radicalmente conservatore: un
completo rivolgimento mascherato da ritorno al passato. Nell’82 a.C.,
subito dopo essersi reinsediato in città, Silla predispose la propria elezione
a dittatore legibus scribundis et rei publicae constituendae («per scrivere le leggi
e ricostituire la repubblica»). La dittatura era un’antica magistratura
d’emergenza che conferiva il potere assoluto a un singolo individuo per un
periodo determinato con il compito di risolvere gravi crisi, spesso, ma non
sempre, di carattere militare. L’ultima persona a rivestire questa carica era
stata nominata più di un secolo prima, nel 202 a.C., per controllare lo
svolgimento delle elezioni, mentre entrambi i consoli erano fuori Roma. La
dittatura di Silla era di diversa natura per due motivi: primo, non prevedeva
un limite di tempo; secondo, contemplava un’amplissima serie di poteri
assoluti per promulgare o abrogare leggi, con garanzia di immunità da
azioni penali. Ed è esattamente ciò che fece per tre anni, per poi rassegnare
le dimissioni e ritirarsi nella sua villa sul golfo di Napoli, dove morì di
morte naturale nel 78 a.C. Se si pensa alla storia della sua vita, fu una fine
sorprendentemente tranquilla, per quanto molti scrittori antichi abbiano
raccontato con piacere quanto sia stata raccapricciante: la carne del suo
corpo fu invasa dai vermi, che si moltiplicarono con tale rapidità da non
poter essere più rimossi. Silla fu il primo dittatore nel senso moderno del
termine. Giulio Cesare fu il secondo. Questa particolare versione del potere
politico è una delle più dannose e corrosive eredità di Roma.
Silla avviò un programma di riforme di portata ancora maggiore di quello
di Gaio Gracco. Abrogò alcune recenti misure di carattere popolare,
comprese le distribuzioni di frumento a prezzo agevolato. Introdusse
inoltre una serie di procedure legali e regolamentazioni per l’eleggibilità
alle cariche pubbliche, molte delle quali ribadirono la posizione centrale del
Senato in quanto istituzione di stato. Vi fece entrare centinaia di nuovi
membri, portandone il numero da 300 a 660 (ma il totale non fu mai
rigidamente fissato), e con saggia decisione mutò il metodo del loro
reclutamento al fine di garantire il mantenimento delle sue nuove
dimensioni. Mentre in precedenza i senatori erano scelti individualmente
dai censori, da questo momento in poi chiunque avesse rivestito la carica di
questore sarebbe automaticamente entrato in Senato; allo stesso tempo, il
numero dei questori fu aumentato da otto a dieci: questo assicurava un
numero sufficiente di nuove reclute per sostituire i membri che morivano di
anno in anno. Silla stabilì inoltre un’età minima per l’eleggibilità alle
cariche politiche (nessuno, per esempio, poteva diventare questore prima di
avere compiuto trent’anni) e un preciso ordine nella loro successione;
nessuna carica poteva essere rivestita una seconda volta prima che fossero
passati dieci anni. Era un sistema ideato per impedire proprio
quell’accumulo di potere personale di cui egli stesso si era avvalso.
Queste riforme furono presentate come un ritorno ai tradizionali
costumi romani. In realtà, molte di esse erano tutt’altra cosa. Erano già stati
fatti alcuni tentativi per regolarizzare il sistema di assunzione delle cariche,
ma, in generale, più si risale indietro nel tempo, più queste norme appaiono
vaghe e fluide. Si ebbero anche alcune conseguenze inattese. L’aumento dei
questori risolse un problema (quello del reclutamento dei senatori), ma ne
creò immediatamente un altro. Poiché il numero dei consoli rimase fisso a
due, una quantità sempre maggiore di coloro che entravano nell’agone
politico non avrebbe mai potuto raggiungere il vertice. Senza dubbio, alcuni
non lo desideravano, e altri morirono prima di arrivare all’età minima per
l’elezione al consolato (di solito quarantadue anni). Ma era praticamente
garantito che questo sistema intensificasse la competizione politica e
producesse falliti pieni di risentimento, proprio come Catilina un paio di
decenni più tardi.
Una delle più famigerate riforme di Silla ci offre una vivida immagine del
suo modo di pensare. Fin dal tempo dei Gracchi, quasi tutte le riforme più
radicali erano state introdotte da uomini che rivestivano la carica di tribuno
della plebe. Perciò Silla, che ne doveva essere ben consapevole, decise di
limitare drasticamente l’autorità dei tribuni. Al pari della dittatura, anche
questa magistratura era stata in larga misura reinventata, probabilmente
nei decenni immediatamente precedenti a Silla. Era stata creata nel V secolo
a.C. per rappresentare gli interessi della plebe, ma alcuni dei suoi diritti e
dei suoi privilegi la resero nei secoli successivi molto ambita per chiunque
cercasse di conquistare potere politico. In particolare, dava il diritto di
proporre leggi all’assemblea popolare e il diritto di opporre il veto su
questioni di interesse pubblico. Questo diritto di veto deve avere avuto
originariamente una portata alquanto limitata. Non è pensabile, infatti, che
agli inizi del conflitto di classe i patrizi permettessero ai rappresentanti
della plebe di bloccare a loro piacimento qualsiasi decisione. Ma, quando
Marco Ottavio pose ripetutamente il proprio veto sulle leggi proposte da
Tiberio Gracco nel 133 a.C., si doveva ormai essere già affermato il principio
che i tribuni avevano un diritto di intervento praticamente illimitato.
I tribuni avevano appartenenze politiche assai diverse: Marco Ottavio e lo
scherano che uccise Tiberio Gracco con la gamba di una sedia erano suoi
colleghi al tribunato. In quest’epoca erano generalmente ricchi, e di sicuro
non erano i portavoce dei ceti inferiori. Ma la carica di tribuno conservava
un suo fascino popolare. Per il momento era ancora aperta soltanto ai
plebei, anche se i patrizi più decisi potevano sempre aggirare l’ostacolo
facendosi adottare da una famiglia plebea. Perciò Silla decise scaltramente
di renderla inappetibile per chiunque nutrisse ambizioni politiche; tolse ai
tribuni il diritto di promulgare leggi, ne ridusse il potere di veto e stabilì
che chi avesse rivestito il tribunato non poteva essere più eletto ad altre
cariche: un metodo perfetto per farne un binario morto. L’abrogazione di
tali restrizioni divenne il grido di battaglia dell’opposizione a Silla, e meno
di dieci anni dopo il suo ritiro dalla scena furono tutte annullate, aprendo la
via a una nuova generazione di potenti e illustri tribuni. Anche gli stessi
imperatori si vanteranno in seguito di possedere la «potestà tribunizia»
(tribunicia potestas), per sottolineare la loro cura verso il popolo di Roma.
A posteriori, tuttavia, il tribunato non costituisce il vero problema. Era il
disaccordo sulla natura stessa del potere politico a spaccare la politica
romana, non le prerogative di una carica specifica. Nel medio periodo, ben
più importanti, anche se meno visibili e apertamente controverse, furono
alcune decisioni pratiche di Silla circa lo smantellamento delle sue legioni,
che avevano prestato un lunghissimo servizio. Silla insediò molti ex soldati
nelle città italiche che avevano combattuto contro Roma nella guerra
sociale, e requisì le terre circostanti per garantire loro una possibilità di
sostentamento. Deve essere sembrato un facile modo di punire i ribelli, ma
spesso a perdere erano entrambe le parti: alcuni residenti locali vennero
privati dei loro possedimenti, mentre alcuni veterani erano più bravi a fare i
soldati che gli agricoltori e non riuscirono a vivere con il lavoro della terra.
Nel 63 a.C. si disse che questi ex soldati divenuti piccoli contadini falliti
ingrossavano le file dei seguaci di Catilina. Ma, già prima di allora, le varie
vittime delle disposizioni di Silla ebbero un ruolo di primo piano in quella
che, grazie anche a Stanley Kubrick e Kirk Douglas, era destinata a
diventare una delle più celebri guerre di tutta l’antichità.
Nel 73 a.C., al comando di Spartaco, una cinquantina di schiavi
gladiatori, fabbricandosi delle armi improvvisate con utensili da cucina,
fuggirono da una scuola per gladiatori di Capua e si diedero alla macchia.
Per due interi anni riuscirono a raccogliere nuovi sostenitori e a resistere
alle armate romane, e furono sconfitti soltanto nel 71 a.C.: i sopravvissuti
furono crocifissi lungo la Via Appia, in un raccapricciante spettacolo.
Oggi è difficile riconoscere, dietro tutte le passioni e le distorsioni
propagandistiche, tanto antiche quanto moderne, ciò che stava realmente
accadendo. Gli scrittori romani, per i quali le rivolte degli schiavi erano
probabilmente il segnale più allarmante di un mondo ribaltato, esagerano
enormemente il numero dei seguaci di Spartaco, giungendo persino a
parlare di centoventimila insorti. Le interpretazioni moderne hanno spesso
cercato di fare di Spartaco un eroe ideologico, che combatteva addirittura la
stessa istituzione della schiavitù. Questo è praticamente impossibile. Molti
schiavi volevano conquistarsi la libertà; ma tutte le testimonianze che ci
giungono dall’antica Roma indicano che lo schiavismo, in quanto
istituzione, era dato per scontato, anche dagli stessi schiavi. Se mai si
prefissero uno scopo preciso, l’ipotesi più probabile è che Spartaco e i suoi
seguaci intendessero rientrare nelle proprie rispettive patrie: nel suo caso
verosimilmente la Tracia, nella Grecia settentrionale; per molti altri la
Gallia. Un fatto, però, è certo: riuscirono a opporsi alle forze di Roma per un
tempo davvero troppo lungo.
Come si spiega questo successo? Non si trattava semplicemente del fatto
che le armate romane inviate contro Spartaco erano male addestrate. Né
tantomeno del fatto che i gladiatori avevano una disciplina e una capacità di
combattimento a lungo esercitata nelle arene, ed erano esaltati dal
desiderio di libertà. Le forze ribelli vennero quasi certamente rafforzate da
scontenti cittadini italici di condizione libera, che erano stati privati dei
propri beni, inclusi alcuni ex soldati di Silla, che probabilmente si sentivano
più a proprio agio nelle campagne militari – persino contro le legioni nelle
quali un tempo avevano prestato servizio – che in una fattoria. Osservata in
questa prospettiva, la rivolta di Spartaco non fu semplicemente una tragica
ribellione di schiavi: fu anche l’ultimo atto di una serie di guerre civili
cominciate vent’anni prima con il massacro dei romani ad Ascoli, che aveva
dato inizio alla guerra sociale.
Vite comuni
La storia dei conflitti politici di questo periodo tende a diventare la storia
dello scontro fra princìpi politici contrapposti e tra concezioni radicalmente
diverse del modo in cui Roma doveva essere governata. È una storia di
grandi idee, e quasi inevitabilmente diventa una storia di grandi uomini, da
Scipione Emiliano fino a Silla. Giacché è proprio così che gli autori romani,
dai cui racconti noi dipendiamo, l’hanno narrata, concentrandosi sugli eroi
e gli antieroi, le personalità eccezionali che hanno determinato il corso della
guerra e della politica. Si basarono inoltre su materiale, oggi in gran parte
perduto, proveniente dalla penna di quegli stessi protagonisti: i discorsi di
Gaio Gracco o (una delle più tristi perdite di tutta la letteratura classica)
l’autobiografia sfacciatamente autogiustificativa di Silla – in ventidue
volumi, che egli scrisse dopo il suo ritiro dalla scena –, consultata e citata di
tanto in tanto dagli autori successivi.
Ci manca invece la prospettiva di coloro che non facevano parte di questo
gruppo esclusivo: le idee e le aspirazioni dei semplici soldati o dei comuni
elettori, delle donne o (eccettuando le fantasiose descrizioni di Spartaco)
degli schiavi. Gli uomini che balzarono sui tetti di Cartagine, la gente che
incise i graffiti di incitamento a Tiberio Gracco e di sostegno alla riforma
agraria, il servitore dalla lingua sciolta che insultò i seguaci di Gaio, o le
cinque mogli di Silla, rimangono sullo sfondo o, tutt’al più, recitano una
piccola parte. Anche quando parlano in prima persona, le parole della gente
comune tendono a essere brevi e non impegnative: «A Lucio Cornelio Silla
Felix, dittatore, figlio di Lucio, dai suoi ex schiavi», come riporta
un’iscrizione incisa su un piedistallo in pietra; ma chi fossero precisamente
i dedicanti, che cosa stesse sopra il piedistallo e il motivo della dedica
rimangono oggetto di pura ipotesi. Analogamente, non sappiamo dire fino
a che punto, nel corso di questo periodo, la vita quotidiana di molti uomini
e donne comuni continuò a scorrere in modo più o meno normale, mentre i
potenti si scontravano con le proprie legioni. Oppure la violenza e la
dissoluzione dell’ordine civile hanno oppresso quasi costantemente la
maggior parte della popolazione?
Talvolta è possibile vedere gli effetti di questi conflitti sulla vita
quotidiana. Pompei fu una delle piccole città ribelli che dopo la guerra
sociale ottennero la cittadinanza romana, ma fu presto costretta ad
accogliere un paio di migliaia di ex soldati, ai quali vennero assegnate terre
che appartenevano alla popolazione locale. Non fu una combinazione felice.
Benché in numero nettamente inferiore rispetto ai cittadini originari, i
veterani fecero ben presto sentire la propria presenza in modo piuttosto
aggressivo. Un piccolo gruppo di costoro, molto ricchi, finanziò la
costruzione di un nuovo grande anfiteatro, sebbene quest’opera possa
essere stata apprezzata, più ancora che dagli abitanti originari della città,
dagli scagnozzi sillani, prevedibilmente appassionati di spettacoli
gladiatorii. Il registro delle cariche pubbliche di questo periodo mostra che
i nuovi coloni talvolta riuscirono a mettere fuori gioco le vecchie famiglie
locali. E negli anni Sessanta del I secolo a.C. Cicerone parla di antiche e
ormai croniche dispute a Pompei su temi come, per esempio, i diritti di
voto. Parecchi decenni dopo l’assedio di Silla, la città risentiva ancora degli
effetti a catena che esso aveva provocato.
42. Questa pittura di Pompei mostra un uomo che combatte a cavallo, e, sopra di lui, il
nome, in lingua osca e in scrittura con andamento sinistrorso, «Spartaks», ossia Spartaco.
Gli studiosi più prudenti hanno probabilmente ragione nel ritenere che questa scena
raffiguri un combattimento di gladiatori anziché uno scontro avvenuto durante la rivolta
di Spartaco. Ma, anche così, potrebbe essere l’unica raffigurazione coeva conservata del
celebre gladiatore.
43. Moneta argentea con la testa di Mitridate VI. I capelli mossi e gettati all’indietro
ricordano, senza dubbio intenzionalmente, la tipica acconciatura di Alessandro Magno.
Nel conflitto tra Mitridate e Pompeo il Grande si scontravano due nuovi aspiranti
Alessandro.
Sostenendo l’opportunità di questo comando speciale, Cicerone ricordò
gli strepitosi successi riportati da Pompeo un anno prima nella liberazione
del Mediterraneo dalle scorrerie dei pirati, proprio grazie ai notevoli poteri
che gli erano stati conferiti da un voto dell’assemblea popolare. Nel mondo
antico la pirateria rappresentava una minaccia endemica e, allo stesso
tempo, un simbolo di paura convenientemente indistinto, non molto
diverso dall’odierna espressione «terrorismo», nel quale si poteva far
rientrare qualsiasi cosa, dalla flotta di uno stato canaglia fino a piccoli
trafficanti di schiavi. Pompeo riuscì a sbarazzarsi dei pirati nel giro di
appena tre mesi (facendoci supporre che si trattasse di un obiettivo più
facile di come veniva dipinto) e, dopo la vittoria, attuò una politica di
reinsediamento, sorprendentemente illuminata per il mondo antico come
per quello moderno. Concesse agli ex pirati piccole proprietà terriere a
debita distanza dalla costa, nelle quali potevano condurre una vita onesta.
Anche se alcuni non se la passarono meglio dei veterani di Silla, uno di
quelli che invece si adattarono benissimo alla nuova vita è il protagonista di
un lirico cammeo nel poema virgiliano sull’agricoltura, le Georgiche, scritto
alla fine degli anni Trenta del I secolo a.C. Il vecchio uomo ora vive
pacificamente vicino a Taranto ed è diventato un esperto di orticoltura e
apicoltura. I suoi giorni da pirata sono solo un ricordo lontano: «Eppure,
piantando qualche legume fra gli sterpi e intorno gigli candidi, verbena e
gracili papaveri in cuor suo si sentiva ricco come un re».
L’argomentazione implicita di Cicerone, tuttavia, era che nuovi problemi
richiedevano nuove soluzioni. La minaccia che Mitridate rappresentava per
le entrate commerciali di Roma, per le sue rendite fiscali e per la stessa vita
dei romani residenti in Oriente esigeva un diverso approccio. Nel corso
degli ultimi due secoli, parallelamente all’espansione dell’impero si erano
già attuati profondi mutamenti nel sistema tradizionale delle magistrature
pubbliche, per affrontare più efficacemente le esigenze del governo
d’oltremare e per incrementare il personale disponibile. Il numero dei
pretori, per esempio, all’epoca di Silla era stato portato a otto; e si era
elaborato un sistema regolare in base al quale i magistrati eletti
assumevano, al termine del loro mandato, incarichi provinciali all’estero per
uno o due anni (in qualità di pro-consoli o pro-pretori). Tuttavia questi
incarichi restavano frammentari e di breve durata, mentre ciò di cui Roma
aveva bisogno per affrontare un nemico come Mitridate era un generale di
grande esperienza, investito di un comando duraturo sull’intera area che
poteva essere coinvolta nella guerra, e fornito di tutti i finanziamenti e i
soldati necessari per portare a termine il compito, senza essere ostacolato
dai consueti controlli.
Ci fu una prevedibile opposizione. Pompeo era un anticonformista
radicale e ambizioso, che aveva già violato quasi tutte le convenzioni della
politica romana a cui i tradizionalisti cercavano di rimanere sempre più
saldamente ancorati. Figlio di un «uomo nuovo», era salito ai vertici della
gerarchia militare sfruttando i sovvertimenti degli anni Ottanta del I secolo
a.C. Poco più che ventenne, era riuscito ad arruolare tre legioni formate da
suoi clienti e scagnozzi per combattere al fianco di Silla, e aveva ben presto
celebrato un trionfo per avere inseguito e annientato i rivali di Silla e altri
piccoli principi nemici in Africa. Fu allora che ricevette il soprannome di
adulescentulus carnifex, «giovane macellaio» piuttosto che enfant terrible. Non
era stato ancora eletto ad alcuna carica quando il Senato gli conferì il
comando in Spagna con il compito di sconfiggere un generale romano che
si era «nativizzato» con un grosso esercito (un altro tipico rischio per un
impero molto esteso). Di nuovo vittorioso, fu eletto console per il 70 a.C., a
soli trentacinque anni e scavalcando tutte le magistrature minori, in aperta
violazione delle regole stabilite di recente da Silla. Era talmente ignaro del
concreto funzionamento del Senato, cui doveva presiedere in qualità di
console, da essere costretto a chiedere a un amico erudito di scrivergli un
manualetto di procedura senatoriale.
Qualche traccia delle obiezioni sollevate contro l’affidamento di questo
nuovo comando a Pompeo può essere ricavata dallo stesso discorso di
Cicerone. Per esempio, l’enorme risalto che l’oratore dà al pericolo
immediato rappresentato da Mitridate («ogni giorno arrivano lettere che
riferiscono come i villaggi delle nostre province siano dati alle fiamme»)
indica chiaramente che qualcuno lo ritenesse assurdamente esagerato come
pretesto per affidare nuovi e quasi illimitati poteri a Pompeo. Questi
oppositori non ebbero successo, anche se devono essersi convinti che i loro
timori non erano infondati. Nel corso dei successivi quattro anni, con
l’autorità conferitagli dal suo nuovo comando, Pompeo ridisegnò la mappa
della parte orientale dell’impero romano, dal mar Nero, a nord, fino alla
Siria e alla Giudea, a sud. Naturalmente, non può aver fatto tutto questo da
solo, ma deve essersi avvalso dell’aiuto di centinaia di amici, funzionari,
schiavi e consiglieri. Ma questa particolare riscrittura della geografia
all’epoca fu sempre ascritta a Pompeo.
Il potere di Pompeo era, almeno in parte, il frutto delle operazioni
militari. Mitridate fu presto cacciato dall’Asia Minore e costretto a ritirarsi
nei suoi territori in Crimea, dove venne in seguito rovesciato da un colpo di
stato organizzato da uno dei suoi figli, e poco dopo si suicidò. Anche
l’assedio della fortezza di Gerusalemme, dove due rivali si contendevano
l’alto sacerdozio e il trono, venne portato a termine con successo. Ma,
soprattutto, il suo potere derivava da una sapiente combinazione di
diplomazia, intimidazione e appropriata esibizione della forza romana.
Pompeo trascorse parecchi mesi a trasformare la parte centrale del regno di
Mitridate in una provincia governata direttamente da Roma, a ridefinire i
confini di altre province, a fondare decine di nuove città e ad assicurarsi che
numerosi sovrani e dinasti locali fossero ridimensionati e ridotti
all’obbedienza secondo il vecchio stile di dominio imperiale.
Nel trionfo che celebrò nel 61 a.C., dopo il suo ritorno a Roma, proprio
nel giorno del suo compleanno (senza dubbio una coincidenza pianificata),
Pompeo avrebbe indossato un mantello appartenuto un tempo ad
Alessandro Magno. Dove mai avesse trovato questo falso non è dato sapere;
e non ingannò molti romani, che erano non meno scettici di noi
sull’autenticità di quell’indumento. Lo scopo doveva comunque essere non
soltanto quello di giustificare l’epiteto di «Grande» che aveva ripreso da
Alessandro, ma anche di paragonarne le ambizioni di gigantesca conquista
imperiale. Alcuni romani rimasero profondamente colpiti da questo
sfoggio, mentre altri ne furono altrettanto perplessi. Plinio il Vecchio,
vissuto poco più di un secolo dopo, ricorda con severa disapprovazione un
ritratto, commissionato dallo stesso Pompeo, fatto di madreperla: «la
sconfitta dell’austerità e il trionfo del lusso». Ma c’era un punto ancora più
importante. Questa celebrazione era la più formidabile manifestazione
finora mai vista dell’impero romano in termini territoriali, e persino
dell’ambizione romana alla conquista del mondo. Uno dei trofei portati in
processione, probabilmente nella forma di un grosso globo, recava la
seguente iscrizione: «Questo è un trofeo del mondo intero». E su un elenco
delle imprese di Pompeo, esposto in un tempio di Roma, si proclamava, con
tono rivelatore anche se troppo ottimistico, che costui «aveva esteso le
frontiere dell’impero fino ai confini della terra».
Il primo imperatore
Ci sono fondati motivi per definire Pompeo il primo imperatore di Roma.
Senza dubbio, è passato alla storia come l’uomo che alla fine sostenne la
causa della repubblica contro il potere sempre più indipendente di Cesare,
e quindi come un avversario del dominio imperiale. Ma il trattamento e gli
onori che gli furono riservati (o che pretese) in Oriente prefiguravano
concretamente molti degli elementi tipici dell’immagine e dello status
dell’imperatore romano. È quasi come se le forme e i simboli del dominio
imperiale – che pochi decenni dopo, sotto Giulio Cesare e ancor più sotto il
suo pronipote, l’imperatore Augusto, divennero elemento fisso in Italia e a
Roma – avessero avuto il proprio prototipo nel dominio di Roma all’estero.
Giulio Cesare, per esempio, fu il primo ad avere la propria testa
riprodotta su una moneta coniata a Roma. Fino a quel momento, le monete
romane avevano mostrato soltanto immagini di eroi da tempo defunti, e
questa innovazione fu una lampante esibizione del potere personale di
Cesare, seguita da tutti i successivi sovrani romani. Ma già un decennio
prima diverse città dell’Oriente avevano fatto coniare monete con la testa di
Pompeo. A quest’onore si aggiungevano altre stravaganti onorificenze e
addirittura varie forme di culto religioso. Ci è noto un gruppo di «adoratori
di Pompeo» (pompeiastae) sull’isola di Delo. Nuove città presero il suo
nome: Pompeiopolis, Magnopolis (dall’epiteto Magno). Venne acclamato come
«pari a un dio», «salvatore» e persino come «dio» tout court. A Mitilene,
sull’isola di Lesbo, un mese del calendario venne rinominato in suo onore,
proprio come, a Roma, furono successivamente rinominati dei mesi in
onore di Giulio Cesare e di Augusto.
C’erano dei precedenti per buona parte di questi riconoscimenti, presi
singolarmente. I re successivi ad Alessandro Magno, in territori estesi dalla
Macedonia fino all’Egitto, avevano frequentemente manifestato il proprio
potere in forma più o meno divina. Le antiche religioni politeistiche
consideravano il confine tra divino e umano in modo più flessibile e
permeabile rispetto ai moderni monoteismi. Diversi comandanti romani nel
Mediterraneo orientale erano stati talvolta onorati con l’istituzione di
festività religiose in loro nome, e Cicerone, in una lettera scritta ad Attico
dalla Cilicia, lascia intuire di avere rifiutato l’offerta di un tempio in suo
onore. Ciononostante, presi nel loro complesso, gli onori accordati a
Pompeo si collocavano su un livello di portata completamente nuova. È
difficile immaginarsi come, dopo questo genere di elevazione in Oriente e
dopo il potere indipendente che aveva esercitato riorganizzando vasti
territori, Pompeo sarebbe potuto tornare a Roma e diventare un semplice
senatore, alla pari di tutti gli altri. In apparenza, questo è proprio ciò che
fece. Non ci fu nessuna marcia sulla città nello stile di Silla. Ma, sotto la
superficie, si potevano riconoscere indizi di cambiamento anche a Roma.
Il grandioso progetto edilizio di Pompeo, con un teatro, dei giardini, dei
portici e delle sale riunioni, riccamente adornati di celebri opere scultoree,
fu un’innovazione di stile affatto imperiale. Era un progetto ben più vasto
dei singoli templi normalmente fatti erigere dai precedenti generali come
ringraziamento per l’aiuto ricevuto dagli dèi sul campo di battaglia.
Dedicato nel 55 a.C., fu il primo di una serie di giganteschi programmi
architettonici che divennero una caratteristica distintiva dei successivi
imperatori, i quali cercarono di lasciare la propria impronta, in marmo
sfavillante, sul panorama urbano di Roma, e a cui si deve la nostra odierna
immagine dell’antica città. Ci sono anche alcuni indizi che persino a Roma
Pompeo venisse presentato, proprio come i successivi imperatori, in veste
divina. Questo tema figurava già nel discorso pronunciato da Cicerone nel
66 a.C., nel quale questi si riferiva ripetutamente alle doti di Pompeo
definendole «divine» o «concesse dagli dèi», e metteva in risalto la sua
incredibilis ac divina virtus, «la sua straordinaria e divina virtù». Non è certo
quanto alla lettera si debba prendere l’espressione divina; ma nella cultura
romana non si ridusse mai a quella morta metafora che è oggi d’uso
piuttosto frequente. Come minimo, si riconosceva in Pompeo qualcosa di
più che semplicemente umano. Questo è senz’altro sottinteso anche in un
onore concessogli su proposta di due tribuni nel 63 a.C., in vista del suo
ritorno dall’Oriente: a Pompeo era permesso indossare l’abito di un
generale in trionfo quando assisteva alle gare nel circo.
Era una cosa ben più rilevante di quanto ci possa sembrare, e di certo
non soltanto una questione di dress code. Infatti, il costume
tradizionalmente indossato dal generale vittorioso durante la sua
processione trionfale era identico a quello della statua del dio Giove nel suo
tempio sul Campidoglio. Era come se la vittoria militare permettesse al
generale di entrare letteralmente negli abiti del dio, almeno per quel
giorno, e questo spiega perché lo schiavo che stava dietro di lui sul carro
trionfale doveva sussurrargli continuamente all’orecchio: «Ricordati che sei
(soltanto) un uomo». Permettere a Pompeo di indossare la regalia trionfale
anche in altre occasioni equivaleva a concedergli uno status divino al di
fuori di quel contesto rituale rigidamente definito. Deve essere sembrato un
passo alquanto rischioso, perché si diceva che Pompeo avesse goduto del
suo nuovo privilegio soltanto una volta; e, come osservò in maniera
sarcastica uno scrittore romano circa settant’anni dopo, «era già stata una
volta di troppo».
Come bilanciare le imprese e la celebrità del singolo individuo con la
teorica uguaglianza interna dell’aristocrazia e con i princìpi della
collegialità del potere era stato uno scottante dilemma per tutto il corso
della storia repubblicana. Molte storie mitiche sulla Roma arcaica pongono
il problema di audaci eroi che escono dai ranghi per affrontare da soli il
nemico. Dovevano essere puniti per disobbedienza oppure onorati per
avere dato a Roma la vittoria? Ma c’erano anche figure storiche che, già
prima di Pompeo, per la loro posizione di preminenza erano entrate in
conflitto con la tradizionale struttura di potere dello stato. Mario e Silla
sono gli esempi più ovvi. Ma, più di cento anni prima di loro, Scipione
Africano, malgrado tutte le sue strepitose vittorie, o piuttosto proprio a
causa di esse, aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita in virtuale esilio,
dopo che i tribunali romani avevano cercato ripetutamente di
ridimensionarlo; si spiega così la sua sepoltura nell’Italia meridionale e non
nella grande tomba di famiglia degli Scipioni a Roma. Si diceva addirittura
che si proclamasse ispirato dagli dèi e che trascorresse la notte nel tempio
di Giove per sfruttare la sua speciale relazione con la divinità. Tuttavia, alla
metà del I secolo a.C., la posta in gioco si era fatta ben più alta, la sfera delle
operazioni e dei vincoli tanto più grande e le risorse di denaro e uomini
disponibili tanto più vaste, che l’ascesa di uomini come Pompeo risultò
praticamente inarrestabile.
44. Recente tentativo di ricostruzione del teatro di Pompeo, con la sua complessa scena e
una platea che poteva ospitare circa quarantamila spettatori, ossia poco meno della
capienza del Colosseo. Dietro la platea si trovava un piccolo tempio della dea Venus
Victrix («datrice di vittoria»), a memoria del favore concesso dagli dèi a Pompeo e della
vittoria militare che aveva permesso di finanziare la costruzione.
45. Moneta argentea coniata sotto il regno di Augusto per commemorare la restituzione
delle insegne romane catturate dai parti nella battaglia di Carre. Il personaggio partico
che in atto di sottomissione riconsegna le insegne indossa i tradizionali calzoni orientali.
Sull’altro lato è raffigurata, significativamente, la dea «Onore». In realtà, si trattò più di un
accordo negoziato che di una vittoria militare dei romani.
46. Un ritratto di Giulio Cesare? Trovare un’autentica riproduzione del volto di Cesare, a
parte le minuscole immagini delle monete, è stato un obiettivo dell’archeologia moderna.
Ci sono centinaia di «ritratti» scolpiti dopo la sua morte, ma esempi contemporanei non
sono altrettanto frequenti o facili da individuare. Questo ritratto, conservato al British
Museum, era un tempo considerato uno dei principali esempi coevi, ma oggi si sospetta
che sia un falso.
Per certi aspetti, la guerra civile tra Pompeo e Cesare fu altrettanto
peculiare della guerra sociale. Quanti individui coinvolse direttamente è
impossibile dire. La priorità di molti abitanti dell’Italia, e dell’impero, era
probabilmente quella di evitare di farsi inavvertitamente intrappolare nelle
lotte tra armate rivali e tenersi fuori da quell’ondata di criminalità che la
guerra aveva scatenato in Italia. Solo occasionalmente la gente comune, di
solito ai margini della storia, ha l’opportunità di salire alla ribalta: così, per
esempio, il capitano di una nave mercantile, Gaio Peticio, che accolse
gentilmente a bordo un malridotto Pompeo sulla costa greca dopo la
battaglia di Farsalo; oppure un certo Soteride, un sacerdote eunuco che
lasciò incisi su una pietra i suoi timori per il proprio «partner», che si era
imbarcato insieme a un gruppo di volontari locali ed era stato preso
prigioniero. Quanto a coloro che partecipavano alla lotta, da una parte
c’erano i seguaci di Cesare, il quale promuoveva un programma politico di
orientamento popolare e tendeva chiaramente verso un regime autocratico.
Secondo Cicerone, questa era la direzione verso cui si indirizzavano
naturalmente le simpatie e gli interessi dei poveri. Dalla parte opposta stava
un eterogeneo gruppo di persone, che, per diverse ragioni, non gradiva ciò
che Cesare intendeva realizzare o temeva comunque il potere che stava
accumulando. Altri ancora, ma certamente pochi, rimanevano
irrealisticamente ancorati ad alti princìpi; come disse una volta Cicerone a
proposito di Catone, «prende la parola in Senato come se operasse nella
Repubblica di Platone e non tra il fecciume della città di Romolo». Soltanto in
seguito, nell’atmosfera di romantica nostalgia che caratterizzò l’epoca dei
primi imperatori, questi personaggi vennero completamente reinventati
nella veste di combattenti e martiri per la libertà, uniti dalla lotta contro
l’autocrazia. Per paradossale ironia, il loro capo rappresentativo, Pompeo,
era un autocrate altrettanto convinto di Cesare. Qualsiasi dei due
schieramenti avesse vinto, come osservò ancora Cicerone, il risultato
sarebbe stato sostanzialmente lo stesso: la schiavitù di Roma. Quella che
venne poi considerata una guerra tra la libertà e la monocrazia fu in realtà
una guerra tra due imperatori rivali.
47. La famiglia del Peticio che salvò Pompeo fu attiva per secoli nel commercio nel
Mediterraneo. Questa stele funeraria di un suo discendente, trovata in Italia
settentrionale, mostra un cammello carico di merce, che doveva essere un simbolo – quasi
un marchio di fabbrica – dei suoi affari oltremare.
48. Moneta d’argento coniata dai «liberatori» di Roma un anno dopo l’assassinio di Cesare
(43-42 a.C.). Su un lato è celebrata la riconquista della libertà: il pileus, copricapo
indossato dagli schiavi di fresca liberazione, è fiancheggiato dalle spade che avevano
compiuto l’impresa; sotto è incisa la celebre data: EID MAR («idi di marzo», vale a dire 15
marzo). Sull’altro lato, la testa dello stesso Bruto sottintende un messaggio piuttosto
diverso: il ritratto di una persona vivente su una moneta romana era considerato un segno
di potere autocratico.
VIII
IL FRONTE INTERNO
Pubblico e privato
La storia di Roma è una storia di politica, di guerra, di vittoria e di sconfitta,
di cittadinanza e di tutto ciò che accadeva in pubblico tra un certo numero
di uomini prominenti. Nelle pagine precedenti ho presentato una versione
drammatica di questa storia, in cui Roma, da piccola e insignificante città
sulle rive del Tevere, si trasformò prima in un centro di potere locale e
infine in una potenza internazionale. Praticamente ogni aspetto di questa
trasformazione fu oggetto di aspre contese e in certi casi persino di veri e
propri scontri armati: i diritti del popolo rispetto al Senato, il significato
concreto della libertà e il modo in cui doveva essere garantita, il controllo
che si doveva esercitare, o meno, sui territori conquistati, l’impatto
dell’impero sulla politica e sui valori tradizionali di Roma. Nel corso di
questo vorticoso processo, venne in qualche modo creata una forma di
cittadinanza assolutamente nuova nel mondo antico. I greci avevano in
alcune occasioni condiviso la cittadinanza tra due città, ma sempre come
soluzione ad hoc. Ma l’idea che, come sostenevano i romani, essere cittadini
di due luoghi contemporaneamente fosse la norma rappresentò una delle
più importanti chiavi del successo romano sui campi di battaglia e in molti
altri campi, e continua ad avere rilevanza ancora oggi. Questa fu
un’autentica rivoluzione, e noi ne siamo gli eredi.
Ciononostante, in questa storia ci sono alcuni aspetti sfuggenti. Solo in
rari casi, nel grandioso racconto della storia romana fino al I secolo a.C.,
possiamo riconoscere la parte svolta dalla gente comune, dalle donne, dai
poveri o dagli schiavi. Nei capitoli precedenti abbiamo potuto osservare
solo qualche cammeo: il terrorizzato attore sul palco del teatro di Ascoli, il
servitore spaccone che, poco saggiamente, maltrattò i seguaci di Gaio
Cracco, il sacerdote eunuco preoccupato per il suo partner nella guerra
civile, e persino il povero gatto intrappolato nell’incendio che distrusse la
capanna di Fidene. Per i secoli successivi possediamo molte più
testimonianze su queste categorie di individui, che infatti avranno un posto
maggiore nella restante parte del libro. Invece, ciò che ci rimane per le fasi
più antiche della storia romana tende a darci una visione unilaterale delle
priorità anche degli stessi membri dell’élite. È facile farsi l’impressione che
i principali protagonisti fossero preoccupati soltanto dalle grandi questioni
del potere politico romano, a esclusione di ogni altra cosa, come se le
orgogliose conquiste, il valore militare e l’elezione alle magistrature
pubbliche di cui si vantano nei loro epitaffi fossero l’unico e assoluto scopo
della loro esistenza.
Non era affatto così. Abbiamo già conosciuto qualche altro aspetto delle
loro vite e dei loro interessi: li abbiamo visti divertirsi alle commedie di
argomento amoroso, scrivere e imparare poesie, e ascoltare conferenze
letterarie date da ambasciatori greci in visita a Roma. Non è difficile
immaginarsi, almeno in parte, la vita quotidiana di Polibio a Roma:
possiamo vederlo riflettere mentre assiste al funerale di un illustre
cittadino, o decidere astutamente di darsi malato il giorno in cui un suo
amico in ostaggio tenta di fuggire. Né è difficile cogliere il divertito piacere
con cui l’anziano Catone deve avere ripensato al suo exploit con i fichi
cartaginesi tenuti nascosti nella toga. Ma soltanto nel I secolo a.C. iniziamo
ad avere ricche testimonianze su tutte le cose che preoccupavano e
interessavano l’élite romana oltre alla guerra e alla politica.
Si va dalla curiosità per la lingua che parlavano (un prolifico studioso
dedicò venticinque libri alla storia del latino, alla sua grammatica ed
etimologia) fino a profonde riflessioni sull’origine dell’universo e a dibattiti
teologici sulla natura degli dèi. L’eloquente discussione di Tito Lucrezio
Caro sulla follia di temere la morte, nel suo poema filosofico De rerum
natura (La natura delle cose), è uno dei massimi vertici della letteratura
classica e un faro di buon senso ancora oggi (coloro che non esistono non
possono rammaricarsi della loro non esistenza, per riassumerne il tema di
fondo). Ma, senza dubbio, la testimonianza più significativa sugli interessi,
le preoccupazioni, i piaceri, i timori e i problemi di un illustre romano è
offerta dal migliaio di lettere della corrispondenza privata di Cicerone, edite
e pubblicate dopo la sua morte, nel 43 a.C., e da allora continuamente lette
e studiate.
Come abbiamo visto, sono piene di pettegolezzi sulle più alte sfere della
politica romana, e aprono un raro squarcio sulla prima linea del governo
provinciale, nell’esperienza fattane dallo stesso Cicerone in Cilicia. Ma, cosa
altrettanto importante, ci illuminano sulle altre preoccupazioni che aveva
Cicerone mentre era impegnato ad affrontare Catilina, a barcamenarsi con
la Banda dei Tre, a progettare raid militari contro popolazioni locali
particolarmente moleste, o a decidere da che parte stare durante la guerra
civile. Per tutto il corso di queste crisi politiche e militari, Cicerone si
preoccupava allo stesso tempo di questioni finanziarie, di doti e matrimoni
(il proprio e quello di sua figlia), si addolorava per la morte di persone
amate, divorziava dalla moglie, si lamentava per il mal di stomaco dopo
avere mangiato cibi insoliti a cena, cercava di rintracciare schiavi fuggiti e
acquistava splendide statue con cui ornare le sue numerose case. Per la
prima, e quasi unica volta in tutta la storia romana, queste lettere ci
permettono di osservare direttamente ciò che accadeva dietro la porta di
una casa romana.
In questo capitolo analizzeremo alcuni di questi molteplici temi
attraverso le lettere di Cicerone. Inizieremo con la sua esperienza della
guerra civile e della dittatura di Giulio Cesare, di volta in volta caotica e
cupamente divertente, e quanto più lontana si possa immaginare dagli
squillanti slogan sulla libertas e la clementia; poi passeremo ad alcune
questioni essenziali che rischiano di essere trascurate nel vortice delle
controversie politiche, dei negoziati diplomatici e delle campagne militari.
Quanto si aspettavano di vivere i romani? A quale età ci si sposava? Quali
diritti avevano le donne? Da dove arrivava il denaro che permetteva ai ricchi
e privilegiati di mantenere un tenore di vita di lusso sfarzoso? E come
vivevano gli schiavi?
L’altra faccia della guerra civile
Nel 49 a.C., dopo molte incertezze e malgrado la sua realistica percezione
che non ci fosse molta scelta tra Cesare e Pompeo, Cicerone decise di non
rimanere neutrale nella guerra civile ma di schierarsi con i pompeiani, e si
imbarcò per raggiungere il loro accampamento nella Grecia settentrionale.
Sebbene non facesse più parte della cerchia dei protagonisti, né in un
campo né nell’altro, era ancora una figura abbastanza importante, che
nessuno dei due schieramenti desiderava avere come nemico dichiarato. Ma
i suoi modi irritanti ne fecero un membro piuttosto impopolare della
cerchia di Pompeo. I suoi commilitoni non potevano sopportare il modo in
cui si aggirava per le caserme con piglio severo, cercando di placare la
tensione con fiacche battute; quando un candidato decisamente inadeguato
venne promosso a una posizione di comando per la sola ragione che era
«sensibile e mite», commentò acidamente: «Allora perché non lo
assumiamo come guardiano dei tuoi figli?». Il giorno della battaglia di
Farsalo, Cicerone adottò la tattica di Polibio e si dichiarò malato. Dopo la
sconfitta, anziché seguire i più irriducibili in Africa, tornò direttamente in
Italia in attesa di un’amnistia di Cesare.
Le lettere scritte da Cicerone in questo periodo, circa quattrocento in
tutto, aprono uno squarcio sullo squallore e il terrore della guerra civile,
nonché sulla disorganizzazione, i fraintendimenti, i tradimenti, le
ambizioni personali e persino il degrado di questo conflitto e delle sue
conseguenze. Rappresentano un utile antidoto agli abilmente congegnati
Commentarii de bello civili, che Cesare scrisse sul modello dei suoi
Commentarii de bello gallico, all’altisonante retorica e ai solenni princìpi che
lo scontro tra cesariani e pompeiani evoca ancora oggi. La guerra civile ebbe
anche il suo lato squallido.
Nel 49 a.C. l’indecisione di Cicerone era dovuta, almeno in parte, non a
un’ambivalenza politica ma a un’ambizione quasi grottesca. Era appena
rientrato dalla Cilicia e desiderava che il Senato gli accordasse la
celebrazione di un trionfo per la sua vittoriosa schermaglia di un anno
prima, e la procedura gli impediva di entrare in città o di congedare il suo
staff personale fino a quando non fosse stata presa la decisione. Era
preoccupato per la sua famiglia e incerto se sua moglie e sua figlia
dovessero rimanere a Roma. Potevano essergli di qualche utilità laggiù?
Avrebbero avuto cibo a sufficienza? Avrebbero dato una cattiva impressione
restando in città proprio mentre altre ricche donne se ne stavano andando?
In ogni caso, se voleva celebrare un trionfo, non aveva altra scelta che
trascorrere qualche mese girovagando fuori Roma, sempre più infastidito e
imbarazzato dal suo distaccamento di guardie del corpo ufficiali, che
portavano ancora le ormai afflosciate foglie dell’alloro che aveva ricevuto
per celebrare la sua piccola vittoria. Alla fine accettò l’inevitabile: i senatori
avevano in mente questioni ben più preoccupanti del suo «fronzolo», come
egli stesso talvolta lo definiva; rinunciò ai suoi sogni di trionfo e si unì a
Pompeo.
Anche quando fece rientro da quei poco gloriosi mesi passati in prima
linea, si trovava ancora di fronte alle rotture personali, le incertezze e la
diffusa violenza che erano parte integrante e quotidiana della grande storia
della guerra civile. Ci fu qualche contrasto con suo fratello Quinto, il quale
sembrava intenzionato a fare la pace con Cesare parlando male di Cicerone.
Ci furono sospetti sull’uccisione in Grecia di un suo amico, tenace
avversario di Cesare, che in una rissa scoppiata dopo una cena era stato
accoltellato a morte allo stomaco e dietro l’orecchio. Si trattava, come
sospettava Cicerone, semplicemente di una disputa personale per questioni
di denaro, essendo ben noto che l’assassino era a corto di soldi? Oppure
dietro questa morte c’era stata la mano di Cesare? Anche tralasciando la
violenza, riuscire a giocare bene le proprie carte e mantenere buoni rapporti
con lo schieramento vincente poteva rivelarsi alquanto increscioso e
seccante. E lo fu ancora di più quando, un paio d’anni dopo, Cicerone
dovette ospitare a cena Cesare in una delle sue ville prospicienti il golfo di
Napoli, dove molti ricchi romani avevano i propri lussuosi rifugi dalla
frenesia della città. In una lettera scritta all’amico Attico verso la fine del 45
a.C. descrive ironicamente tutte le difficoltà e i fastidi che ciò comportò,
fornendoci anche una delle immagini più vive rimasteci di Cesare non in
veste ufficiale (e un momento particolarmente favorevole della carriera di
Cicerone, secondo Gore Vidal). Cesare viaggiava con un battaglione di
almeno duemila soldati di guardia e di scorta, un onere davvero pesante
anche per il più generoso e tollerante dei padroni di casa: «Eccoti spiegata
una visita, ovvero una sorta di acquartieramento di truppe in una casa
privata», come scrisse lo stesso Cicerone. E a questo si aggiungeva il largo
seguito di schiavi ed ex schiavi che accompagnavano Cesare. Cicerone
racconta di avere fatto allestire tre sale da pranzo per il solo personale di
rango più alto e di avere preso speciali disposizioni per accogliere tutti gli
altri, scendendo progressivamente di rango. Cesare fece un bagno e una
seduta di massaggi, poi si distese sul triclinio per cenare, secondo la tipica
moda romana. Cesare aveva molto appetito, anche perché si era appena
sottoposto a un ciclo di emetici (un consueto metodo di disintossicazione
tra i ricchi romani, che includeva regolari vomitate); e preferì discorrere
piacevolmente di letteratura piuttosto che impegnarsi in argomenti di
carattere più «serio» (cfr. tavola 14).
Cicerone non ci dice, e forse nemmeno comprese, come i suoi stessi
schiavi e il suo personale domestico abbiano gestito questa invasione, ma si
congratula con se stesso per la serata ben riuscita, anche se non si augurava
certo una replica: «Il mio ospite non era tale da potergli dire: “Ti prego di
venire di nuovo a casa mia, quando ritornerai da queste parti”. Una sola
volta è già abbastanza». L’unica cosa che si può osservare è che intrattenere
un Pompeo vittorioso sarebbe stato quasi certamente un impegno
altrettanto oneroso.
Le lettere di Cicerone ci rivelano che le difficoltà della guerra e l’onere di
ospitare un dittatore erano soltanto una parte dei suoi problemi in quel
tempo. Nel periodo che va dall’attraversamento del Rubicone all’assassinio
di Cesare nelle idi di marzo del 44 a.C., la famiglia di Cicerone si frantumò.
In quei cinque anni, Cicerone divorziò da Terenzia, sua moglie da
trent’anni, e si risposò poco dopo. Cicerone aveva sessant’anni e la sua
nuova sposa, Publilia, appena quindici: la relazione durò solo qualche
settimana, e poi Cicerone la rimandò da sua madre. Nel frattempo, sua
figlia Tullia aveva divorziato dal suo terzo marito, Publio Cornelio
Dolabella, un fedele sostenitore di Cesare. Al momento del divorzio, Tullia
era incinta, e morì all’inizio del 45 a.C., poco dopo avere partorito un figlio,
che non le sopravvisse a lungo. Anche il figlio che aveva avuto
precedentemente da Dolabella era nato prematuro ed era morto dopo
appena qualche settimana di vita. Cicerone sprofondò nel dolore, cosa che
non aiutava certo la relazione con la sua nuova sposa, e si ritirò in solitudine
in una delle sue ville più isolate per decidere come commemorare sua figlia,
impegnato quasi da subito a pensare al modo migliore per accordarle una
sorta di status divino: come scrisse lui stesso, voleva assicurarle una
«apoteosi».
Mariti e mogli
Il matrimonio romano era, in sostanza, una procedura semplice e privata. A
differenza di quanto accade oggi, lo stato vi svolgeva soltanto un piccolo
ruolo. Nella maggior parte dei casi, un uomo e una donna erano ritenuti
sposati se dichiaravano di esserlo, e cessavano di essere sposati se entrambi
(o anche solo uno dei due) dichiaravano di non esserlo più. Questo, più
qualche festicciola per celebrare l’unione, era probabilmente tutto quanto
serviva per la maggior parte dei cittadini romani. Per i più ricchi, si
organizzavano spesso cerimonie più formali e dispendiose, che avevano uno
svolgimento piuttosto consueto per questi riti di passaggio: abiti particolari
(la sposa tradizionalmente vestiva di giallo), canti e processioni, e il
trasporto della nuova consorte oltre la soglia della casa del marito. Nel caso
dei ricchi avevano grande importanza anche considerazioni economiche, in
particolare la dote che doveva fornire il padre della sposa, e che doveva
essere restituita in caso di divorzio. Uno dei problemi di Cicerone in questo
periodo fu proprio il fatto di dovere rimborsare la dote di Terenzia, mentre
lo squattrinato Dolabella, a quanto pare, non aveva restituito quella di
Tullia, o almeno non integralmente. In compenso, il matrimonio con la
giovane Publilia gli avrebbe assicurato una cospicua fortuna.
A Roma, come in tutte le altre civiltà del passato, lo scopo essenziale del
matrimonio era la procreazione di figli legittimi, che ereditavano
automaticamente lo status di cittadini romani se entrambi i genitori lo
erano o se soddisfacevano le molteplici condizioni che regolavano il
matrimonio con stranieri. È proprio questo ciò che sta al fondo della storia
del ratto delle sabine, che presenta il primo matrimonio avvenuto nella
nuova città come una forma di «legittimo rapimento» a scopo di
procreazione. Lo stesso messaggio è continuamente ripetuto sulle stele
funerarie di mogli e madri per tutto il corso della storia romana. Un
epitaffio scritto verso la metà del II secolo a.C., per commemorare una
donna chiamata Claudia, descrive perfettamente questa immagine
tradizionale: «Qui sta la non graziosa tomba di una donna graziosa ... Amò
suo marito con tutto il suo cuore e gli diede due figli. Parlava in modo
aggraziato e aveva un portamento elegante. Amministrò la casa e filò la
lana. Questo è tutto quel che c’è da dire». Il ruolo della donna, in altre
parole, era quello di essere devota al proprio marito, di amministrare con
cura la casa e di contribuire all’economia domestica con lavori di filatura e
tessitura. Altri epitaffi elogiano donne che erano rimaste fedeli per tutta la
vita al proprio unico marito, ed esaltano le virtù «femminili» della castità e
della fedeltà. È evidente il contrasto con gli epitaffi di Scipione Barbato e
dei suoi discendenti maschi, nei quali figurano in primo piano le gesta
militari, le magistrature rivestite e l’importanza nella vita pubblica.
È impossibile stabilire con certezza fino a che punto questa immagine
della moglie romana sia più un pio desiderio che un’accurata riproduzione
della realtà sociale. A Roma c’era senza dubbio molta nostalgia, spesso
espressa a gran voce, per la severità dei tempi andati, quando le mogli
erano fatte rimanere al proprio posto. «Egnazio Metello prese una mazza e
bastonò a morte sua moglie perché aveva bevuto del vino» scrive, con
evidente approvazione, un autore del I secolo d.C. riferendosi a un episodio
completamente mitico che risaliva ai tempi del regno di Romolo. Persino
l’imperatore Augusto sfruttò a proprio vantaggio l’immagine tradizionale
della lavorazione della lana, in una sorta di equivalente antico delle foto di
rappresentanza, facendo posare sua moglie Livia davanti al telaio nella sala
frontale della loro casa, alla vista di tutti. Ma è molto più probabile che
questa severità dei tempi antichi fosse, almeno in parte, il frutto
dell’immaginazione dei moralisti di epoche successive, nonché un utile
appiglio per i romani che cercavano di affermare le loro tradizionali
credenziali.
Non meno problematica è l’immagine concorrente, affermatasi nel I
secolo a.C., di una nuova donna emancipata, che apparentemente poteva
condurre una libera vita sociale e sessuale, spesso adultera, senza
particolari vincoli da parte del marito, della famiglia o della legge. Alcune
di queste nuove figure femminili erano convenientemente relegate nel
mondo separato delle attrici, delle accompagnatrici e delle prostitute, come
nel caso di una celebre ex schiava, Volumnia Citeride, della quale si diceva
che fosse stata l’amante sia di Bruto sia di Marco Antonio, andando così a
letto con l’assassino di Cesare e con il suo più fedele sostenitore. Ma molte
altre erano mogli o vedove di illustri senatori romani.
49. Pittura murale romana che raffigura una scena idealizzata di un antico matrimonio,
mescolando figure umane e divine. Al centro si trova la sposa velata, sul suo nuovo letto
coniugale, incoraggiata dalla dea Venere, seduta accanto a lei. Al letto si appoggia
un’equivoca figura del dio Hymen, una delle divinità preposte alla protezione del
matrimonio. A sinistra, alcune donne preparano il bagno per la novella sposa.
Non sappiamo nulla di preciso sulla morte di Tullia, tranne che avvenne
nella villa di Cicerone a Tuscolo, appena fuori Roma; e nulla sappiamo del
suo funerale. Cicerone si ritirò quasi immediatamente nella solitudine del
suo rifugio sull’isola di Astura, dove si mise a leggere tutti i testi filosofici
che riusciva a procurarsi sul tema del dolore e della consolazione per la
perdita di propri cari, e scrisse persino un trattato sul lutto per se stesso,
prima di decidere, dopo un paio di mesi, che sarebbe dovuto tornare nella
casa dove Tullia era morta («Penso che vincerò me stesso ... e mi dirigerò
nella villa di Tuscolo. Il fatto sta così: o devo fare a meno per sempre di
quella proprietà terriera ... o non so quale differenza passi tra l’andare ora
colà oppure di qui a dieci anni»). Ormai aveva già iniziato a incanalare il suo
dolore nel progetto del monumento commemorativo, che non sarebbe stato
una «tomba» bensì un «santuario» o un «tempio» (fanum, che in latino ha
un significato esclusivamente religioso). Le principali preoccupazioni di
Cicerone riguardavano il luogo in cui doveva sorgere, la sua rilevanza e il
suo futuro mantenimento; ben presto progettò di acquistare una proprietà
alla periferia della città, vicino a dove oggi si trova il Vaticano, e fece un
preordine per alcune colonne.
Il suo scopo, ribadiva, era l’apoteosi di Tullia. Con questo termine,
Cicerone intendeva probabilmente l’immortalità in senso generico, senza
pretendere una sua vera e propria assunzione tra le divinità; ma è
comunque un’altra prova degli indistinti confini tra mortali e immortali che
caratterizzavano il mondo romano, e di come i poteri e gli attributi divini
fossero utilizzati per esprimere il prestigio e l’importanza di singoli
individui. C’è, tuttavia, una certa ironia nel fatto che, pur essendo sempre
più preoccupato, come molti suoi colleghi, per gli onori divini che venivano
concessi a Cesare, Cicerone si desse da fare per conferire una sorta di status
divino alla propria figlia defunta. Ma, alla fine, il progetto del santuario
sfumò nel nulla, perché l’intera area del Vaticano venne prescelta per
realizzare una parte ragguardevole del piano di sviluppo urbano concepito
da Cesare, e il sito individuato da Cicerone non poté più essere utilizzato.
L’importanza del denaro
Le ville di Astura e Tuscolo erano soltanto due delle circa venti proprietà
che Cicerone possedeva in Italia attorno al 45 a.C. Alcune erano residenze
molto eleganti. A Roma aveva una grande casa sulle pendici più basse del
Palatino, ad appena un paio di minuti dal Foro, e tra i suoi vicini figuravano
molti dei più illustri e ricchi rappresentanti dell’aristocrazia romana,
compresa la stessa Clodia. Le altre sue case erano sparse per tutta la
penisola, da Pozzuoli, nel golfo di Napoli, dove aveva ospitato Cesare in una
cena piuttosto affollata, sino a Formia, più a nord, dove possedeva un’altra
villa sul mare. Alcune erano piccole abitazioni o alloggi, strategicamente
disposti sulle strade che conducevano alle sue più grandi e lontane
residenze, dove poteva pernottare durante il viaggio senza essere costretto
ad andare in qualche ostello poco raccomandabile o a importunare i propri
amici. Altre, come la sua proprietà di famiglia ad Arpino, erano fattorie
produttive, anche quando vi era annessa una lussuosa residenza. Altre
ancora erano proprietà immobiliari date in affitto, come il fatiscente edificio
da cui erano fuggiti persino i topi, che gli fruttavano notevoli guadagni; altri
due grandi caseggiati di alloggi da affittare, nel pieno centro di Roma,
ancora più redditizi, avevano fatto parte della dote di Terenzia e, nel 45 a.C.,
in seguito al divorzio, Cicerone dovette restituirli.
Il valore complessivo delle sue proprietà si aggirava attorno ai tredici
milioni di sesterzi. Agli occhi di un comune cittadino romano, era un
patrimonio considerevole, sufficiente per sostenere venticinquemila
famiglie povere per un intero anno o per garantire a più di trenta individui
la ricchezza minima necessaria per essere eleggibile a una carica pubblica.
Ma non poneva Cicerone nel Gotha dei super-ricchi. In un interessante
brano sulla storia del lusso e delle esagerate spese di questi nuovi ricchi,
Plinio il Vecchio ricorda che, nel 53 a.C., Clodio aveva comprato, per
quindici milioni di sesterzi, la casa di Marco Emilio Scauro, un amico di
Cicerone che, negli anni Sessanta del I secolo a.C., era stato un funzionario
di Pompeo in Giudea, lasciando un ricordo di dubbia reputazione. Se ne
sono ipoteticamente individuate le fondamenta, sempre sulle pendici del
Palatino, vicino al punto dove oggi sorge l’arco di Tito: contiene circa una
cinquantina di piccole stanze e un bagno, presumibilmente per gli schiavi;
precedenti generazioni di archeologi le hanno fiduciosamente (ed
erroneamente) identificate come camere di un bordello nel pieno centro
della città. A un livello ancora più alto, la casa di Crasso valeva duecento
milioni di sesterzi: con una tale somma, avrebbe potuto finanziare senza
problemi un proprio esercito.
Nonostante qualche immaginoso tentativo, nessuna delle proprietà di
Cicerone è stata identificata con certezza sul terreno. Ma possiamo farci
comunque un’idea del loro aspetto dai suoi stessi racconti (inclusi i suoi
progetti di miglioramenti) e dalle testimonianze archeologiche
contemporanee. Le ricche residenze costruite dall’aristocrazia
tardorepubblicana sul colle del Palatino sono perlopiù in pessimo stato di
conservazione, per la semplice ragione che, nel corso del I secolo d.C., sopra
di esse venne eretto il palazzo imperiale, presto destinato a dominare
l’intero colle. Alcune delle tracce maggiormente ragguardevoli del periodo
più antico provengono dalla cosiddetta «Casa dei Grifi». Sono conservate
parecchie stanze di quello che doveva essere il piano terra di una imponente
casa dell’inizio del I secolo a.C., ancora parzialmente visibili sotto le
fondamenta delle posteriori strutture palaziali, con tanto di pareti dipinte
con brillanti colori e semplici mosaici pavimentali. Nella pianta e nella
decorazione, questa e altre case del Palatino non erano probabilmente
molto diverse da quelle di Pompei ed Ercolano, assai meglio conservate. A
proposito di queste residenze dell’aristocrazia romana, si tratti di senatori
romani o di pezzi grossi locali in altre città, è importante sottolineare che
non erano case private nel senso moderno del termine; non erano (o almeno
non esclusivamente) un luogo in cui fuggire dagli sguardi pubblici. C’erano,
senza dubbio, alcuni tranquilli rifugi, come quello di Cicerone ad Astura, e
certe parti della casa avevano un carattere più privato di altre. Ma, per molti
aspetti, l’architettura domestica serviva a promuovere la reputazione e
l’immagine pubblica dei più illustri romani, ed era all’interno delle loro
case che si svolgeva la maggior parte degli affari pubblici. L’atrium, o
grande sala in cui entrava di solito un visitatore subito dopo avere superato
la porta d’ingresso, era un punto di primaria importanza. Normalmente di
volume doppio rispetto agli altri ambienti, a cielo aperto, sfarzosamente
decorato con stucchi, pitture, sculture e prospiciente su magnifici
panorami, faceva da sfondo a numerosi incontri tra il padrone di casa e una
variegata moltitudine di subordinati, postulanti e clienti: da ex schiavi
bisognosi di aiuto a rappresentanti di delegazioni straniere, come quella di
Teo, che passavano da una casa all’altra per adulare i loro proprietari e
persuaderli alla propria causa. Oltre all’atrio, una tipica casa romana
comprendeva altre stanze di ricevimento, sale da pranzo, stanze da letto
(cubicula), passaggi coperti e giardini, se vi era spazio sufficiente; le pareti
delle varie stanze erano decorate in conformità alla loro funzione, da grandi
pannelli in pubblica vista fino a scene di carattere più intimo o erotico.
Quanto più era accolto nelle parti meno pubbliche della casa, tanto più
onorato era il visitatore. Gli affari con i colleghi e gli amici più stretti si
potevano svolgere, come dicevano i romani, in cubiculo, ossia in una di
quelle piccole e intime camere in cui si poteva anche dormire, ma che non
corrispondono perfettamente alla nostra camera da letto. Era in una di
queste stanze, possiamo supporre, che la Banda dei Tre stringeva i propri
accordi.
53. Le fondamenta di un più recente edificio soprastante (visibili sulla destra) hanno
sfondato quella che un tempo era stata una splendida stanza di una casa di epoca
repubblicana, la «Casa dei Grifi», sul Palatino. Il nome deriva dalle figure di grifoni in
stucco, una delle quali è visibile sul fondo. Il pavimento è decorato da un mosaico con un
semplice motivo a losanga. Le pareti sono articolate in pannelli colorati, a imitazione del
marmo. A lungo gli archeologi hanno pensato che questa fosse stata la casa di Catilina.
54. La pianta della «Casa del poeta tragico», a Pompei, fornisce una buona idea
dell’aspetto di una casa romana di moderata ricchezza, tra il II e il I secolo a.C. L’entrata,
piuttosto stretta, si incunea tra due negozi (a) che si affacciano sulla strada e conduce
nella sala principale, chiamata atrium (b). Al di là della sala di ricevimento ufficiale (c) si
trovavano una sala da pranzo (d) e un piccolo giardino colonnato (e). Tra le altre stanze,
alcune delle quali al piano superiore, vi erano i cubicula, dove venivano accolti gli ospiti
più importanti, per affari come per piacere.
La casa e la sua decorazione contribuivano a promuovere l’immagine del
proprietario. Ma questo sfoggio doveva essere accuratamente equilibrato
per evitare la possibile accusa di lusso eccessivo. Si alzarono molte
sopracciglia, per esempio, quando Scauro decise di utilizzare per l’atrio
della sua casa sul Palatino parte delle trecentottanta colonne che aveva fatto
trasportare a Roma per decorare un teatro provvisorio che egli stesso aveva
fatto allestire per alcuni spettacoli pubblici. Erano alte più di undici metri e
in marmo luculleo, una varietà greca particolarmente preziosa, così
chiamata dal nome di colui che per primo l’aveva fatta importare a Roma,
Lucio Licinio Lucullo (l’immediato predecessore di Pompeo nella guerra
contro Mitridate). Molti romani ritennero che Scauro avesse commesso un
grave sbaglio facendo adornare la sua casa in uno stile eccessivamente
lussuoso, più adeguato a monumenti pubblici. Sallustio non fu il solo a
pensare che questa immorale stravaganza fosse in qualche modo all’origine
di molti problemi di Roma.
Nelle sue lettere, in molte occasioni, Cicerone appare preoccupato su
come decorare appropriatamente le sue ville, su come proiettare
un’immagine di sé quale uomo raffinato, colto e conoscitore della cultura
greca, nonché, sebbene non sempre con successo, su come procurarsi le
opere d’arte che gli servivano a tal fine. Un intricato problema che dovette
affrontare nel 46 a.C. rivela alcune delle sue preoccupazioni. Un suo agente
aveva acquistato a suo nome in Grecia una piccola collezione di statue, che,
tuttavia, risultò troppo costosa (per lo stesso prezzo, spiega, avrebbe potuto
comprare un appartamento) e non adatta a ciò che aveva in mente.
Innanzitutto, c’era una statua del dio della guerra Marte, mentre Cicerone
voleva presentarsi come il grande difensore della pace. Peggio ancora, c’era
un gruppo di baccanti, le sfrenate, estatiche e ubriache seguaci del dio
Bacco, che non potevano certamente essere utilizzate per decorare una
biblioteca come Cicerone intendeva: in una biblioteca, spiegava, ci vogliono
delle Muse, non delle baccanti.
Non sappiamo se Cicerone sia riuscito a vendere queste statue, come si
augurava, o se siano invece finite in un magazzino in qualcuna delle sue
proprietà. Ma la vicenda è indicativa di come, a Roma, tanto gli spazi privati
quanto quelli pubblici fossero affollati di opere d’arte, originali o copie,
alimentando così un vivace commercio con il mondo greco. I resti materiali
di questo commercio sono documentati dai carichi non giunti a
destinazione, naufragati insieme alle navi romane che li trasportavano e
ritrovati dagli archeologi sul fondo del Mediterraneo. Una delle scoperte più
stupefacenti è quella di una nave affondata, probabilmente attorno al 60
a.C. (a giudicare dalle monete ritrovate), tra Creta e la punta meridionale
del Peloponneso, vicino all’isola di Antikythera (da cui deriva il nome
moderno della scoperta: «il relitto di Antikythera»). Trasportava sculture di
bronzo e di marmo, compresa una magnifica figurina di bronzo collocata su
una base girevole a molla, mobilio di lusso, eleganti coppe di vetro e,
soprattutto, il celebre «meccanismo di Antikythera»: un complicato
strumento di bronzo con un meccanismo a orologio, apparentemente per
calcolare i movimenti dei pianeti e altri eventi astronomici. Benché appaia
eccessivo definirlo, come talvolta è stato fatto, il primo computer del
mondo, doveva probabilmente essere destinato alla biblioteca di qualche
appassionato scienziato romano.
Come sono lieto di quello che hai fatto per Tirone: immeritevole qual era di
quella condizione, tu ha voluto che fosse per noi un amico e non uno schiavo.
Leggendo la tua lettera, credilo, ho fatto un salto di gioia: te ne ringrazio e mi
congratulo.
Tirone sembra quasi incarnare il ruolo di una sorta di figlio sostitutivo
attorno al quale la famiglia, talvolta incrinata da dissensi, poteva
felicemente riunirsi. Ma, anche così, rimane una certa ambiguità, e la
schiavitù di Tirone non fu mai del tutto dimenticata. Parecchi anni dopo la
concessione della libertà, Quinto scrisse a Tirone per lamentarsi del fatto
che, ancora una volta, non gli era arrivata alcuna lettera da lui: «Ti ho dato
una bella bastonata, o almeno una silenziosa sgridata nella mia mente».
Solo un’innocua e bonaria presa in giro? Una battuta di cattivo gusto? O
invece un chiaro indizio che, agli occhi di Quinto, Tirone rimase sempre
qualcuno al quale si poteva comunque dare una bastonata?
Verso una nuova storia, di imperatori
Tirone sopravvisse al suo padrone. Cicerone, come vedremo nel prossimo
capitolo, incontrò una fine violenta nel dicembre del 43 a.C., e la stessa
sorte subì anche suo fratello Quinto. Tirone, a quanto sembra, visse fino al 4
a.C., e morì all’età di novantanove anni. Aveva trascorso gli anni successivi
alla morte di Cicerone promuovendo e curando la sua memoria,
contribuendo alla pubblicazione della sua corrispondenza e dei suoi
discorsi e scrivendo una biografia che, sebbene non si sia conservata,
divenne una fonte di informazione primaria per gli storici romani
posteriori. Pubblicò anche una vasta raccolta di sue battute. Un successivo
ammiratore di Cicerone affermò che la sua fama di persona spiritosa
sarebbe stata meglio servita se Tirone fosse stato un po’ più attento e
selettivo.
Tirone visse abbastanza a lungo per vedere l’affermazione di un nuovo
regime autocratico, con imperatori saldamente insediati sul trono di Roma,
mentre l’antica repubblica diventava un ricordo sempre più distante e
sfocato. Questo nuovo regime sarà il tema degli ultimi quattro capitoli del
nostro libro, che esaminano i circa duecentocinquant’anni che vanno
dall’assassinio di Cesare nel 44 a.C. fino al III secolo d.C., e più
precisamente alla svolta del 212 d.C., quando l’imperatore Caracalla
concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. E sarà
una storia molto diversa da quella dei primi sette secoli che abbiamo
studiato finora.
La storia romana di questo periodo è, per certi aspetti, molto più
familiare di tutta quella precedente. Fu nel corso di questi secoli che fu
edificata la maggior parte dei più celebri monumenti ancora ammirabili
nella città di Roma: dal Colosseo, eretto negli anni Settanta del I secolo d.C.
come sede di spettacoli di intrattenimento popolare, al Pantheon, innalzato
cinquant’anni dopo, sotto l’imperatore Adriano, il solo tempio antico
ancora visibile grosso modo nel suo stato originario (fu risparmiato grazie
alla sua trasformazione in chiesa cristiana senza significative ricostruzioni).
Persino nel Foro, dove si svolsero quasi tutte le grandi battaglie politiche
della repubblica, la maggior parte di quanto vediamo oggi fu costruita sotto
gli imperatori, non nell’età dei Gracchi, di Silla o di Cicerone.
Nel complesso, possediamo molte più testimonianze sul mondo dei
primi due secoli dell’èra cristiana, anche se nessun individuo può essere
conosciuto così a fondo come Cicerone. E questo non solo per la
sopravvivenza di una notevole mole di nuove opere letterarie, poetiche o
storiche, benché sia certamente molto voluminosa e di forme sempre più
diversificate. Ci rimangono biografie di singoli imperatori piene di
pettegolezzi; ciniche satire, dalla penna di Giovenale e altri autori, che
scaricano tutta la loro derisione sui pregiudizi romani; e fantasmagoriche
novelle, compreso il celebre Satyricon di Gaio Petronio Arbitro, prima amico
e poi vittima dell’imperatore Nerone, che – duemila anni dopo – Federico
Fellini ha trasposto in un altrettanto celebre film. È la boccaccesca storia di
un gruppo di bricconi che girano per l’Italia meridionale, con tanto di orge,
ostelli malfamati con i letti pieni di pulci, e un memorabile ritratto-parodia
di un ricco e volgare ex schiavo, Trimalcione, che, molti secoli dopo, per
poco non diede il proprio nome a un altro classico: il titolo provvisorio de Il
grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald era Trimalchio at West Egg.
Il vero e più profondo mutamento riguarda invece i documenti incisi su
pietra. Ne abbiamo già esaminati alcuni risalenti ai secoli precedenti, come
l’epitaffio di Scipione Barbato o l’iscrizione quasi indecifrabile del cippo del
Foro, con la menzione del termine rex. Ma nei secoli più antichi questo tipo
di documenti era piuttosto raro. A partire dal I secolo a.C., per ragioni che
nessuno è mai riuscito a spiegare per davvero, assistiamo a un’esplosione
delle iscrizioni su pietra e bronzo. In particolare, ci rimangono migliaia e
migliaia di epitaffi da tutte le regioni dell’impero, commemoranti persone
relativamente comuni, o almeno con mezzi sufficienti per permettersi di
commissionare un monumento a propria eterna memoria, per quanto
modesto. Queste iscrizioni talvolta si limitano a menzionare il nome e la
professione del defunto («venditore di perle», «pescivendolo», «levatrice»,
«panettiere»), e in altri casi raccontano le vicende di una vita intera. Una
stele particolarmente espressiva commemora una donna dalla pelle
candida, con splendidi occhi e seni minuti, la quale faceva parte di un
ménage à trois interrotto dalla sua morte. Ci sono anche migliaia di brevi
biografie di illustri cittadini incise sui plinti delle loro statue disseminate in
tutti gli angoli del mondo romano, nonché lettere di imperatori e decreti del
Senato orgogliosamente esposti in forma monumentale nelle più remote
comunità dell’impero. Se compito dello storico della Roma più antica è
spremere fino in fondo ogni singola testimonianza per ricavare tutto quanto
può dire, a partire dal I secolo a.C. il problema diventa come selezionare le
testimonianze che possono fornirci le informazioni più interessanti.
Una differenza ancora maggiore, tuttavia, nella ricostruzione di questa
fase della storia romana sta nel fatto che ora dobbiamo in larga misura fare
a meno del lusso, o del vincolo, della cronologia. Questo si deve in parte
all’espansione geografica del mondo romano. Non c’è una singola trama
narrativa che colleghi, in modo utile o rivelatore, la storia della Britannia
romana con quella dell’Africa romana. Ci sono innumerevoli microstorie e
numerose storie di diverse regioni che non si fondono in un insieme
coerente e che, esposte una per una, comporrebbero un libro tutt’altro che
chiaro e illuminante. Ma si deve anche al fatto che, dopo l’affermazione del
regime autocratico alla fine del I secolo a.C., per oltre due secoli a Roma
non ci furono mutamenti significativi. L’autocrazia rappresentava, in un
certo senso, la fine della storia. Ci fu, naturalmente, ogni genere di eventi:
battaglie, assassinii, fasi di stallo politico, nuove iniziative e invenzioni; e i
partecipanti avevano innumerevoli ed eccitanti storie da raccontare e
argomenti su cui dibattere. Ma, a differenza delle vicende della repubblica e
dell’affermazione del potere imperiale, che rivoluzionarono quasi ogni
aspetto del mondo romano, tra la fine del I secolo a.C. e la fine del II secolo
d.C. non si verificarono fondamentali cambiamenti nella struttura della
politica, dell’impero o della società romana.
Quindi, nel prossimo capitolo, inizieremo esaminando come, dopo
l’assassinio di Giulio Cesare, l’imperatore Augusto riuscì a fondare e
imporre saldamente un regime autocratico (forse la rivoluzione più decisiva
nella storia di Roma) e poi analizzeremo le strutture, i problemi e le
tensioni che sostennero e minarono quel sistema nel corso dei due secoli
successivi. Il variegato cast di personaggi include senatori dissidenti, clienti
ubriaconi delle taverne romane e cristiani perseguitati (e, agli occhi dei
romani, piuttosto seccanti). La grande domanda è: qual è il modo migliore
per comprendere il mondo dell’impero romano sotto il comando di un
imperatore?
IX
LE TRASFORMAZIONI DI AUGUSTO
L’erede di Cesare
Le idi di marzo del 44 a.C., quando Cesare venne assassinato, Cicerone era
probabilmente seduto in Senato, testimone oculare di un caotico e quasi
fallito omicidio. Una banda di una ventina di senatori si accalcò attorno a
Cesare con il pretesto di consegnargli una petizione. Un senatore di minor
conto diede il segnale per l’attacco inginocchiandosi ai piedi del dittatore e
tirandogli la toga. Gli assassini non furono molto precisi nei loro colpi, o
forse rimasero come storditi dal terrore. Uno dei primi fendenti sferrati con
la daga mancò l’obiettivo e diede a Cesare la possibilità di difendersi con la
sola arma che aveva a portata di mano: lo stilo appuntito della sua penna.
Secondo uno dei più antichi resoconti che ci siano pervenuti, scritto una
cinquantina d’anni dopo da Nicola Damasceno, uno storico greco di Siria
che si basava probabilmente su descrizioni di testimoni oculari, diversi
assassini rimasero colpiti da «fuoco amico»: Gaio Cassio Longino si lanciò
contro Cesare ma finì per ferire Bruto; un altro colpo non andò a segno,
prendendo invece la coscia di un congiurato.
Crollando a terra, Cesare gridò in greco a Bruto: «Anche tu, figlio?», che
era una minaccia («Ti prenderò, ragazzo!») oppure un amaro rimorso per la
slealtà di un giovane amico, o persino, come insinuò qualche sospettoso
contemporaneo, la finale rivelazione che Bruto era in realtà il figlio naturale
di Cesare e che quindi non commetteva semplicemente un assassinio ma un
parricidio. La celebre frase latina Et tu, Brute? («Anche tu, Bruto?») è
un’invenzione di Shakespeare. I senatori se la diedero a gambe; quanto a
Cicerone, se era davvero presente, non si sarà probabilmente comportato
più coraggiosamente degli altri. Ma la fuga era impedita da una folla di
migliaia di persone che, proprio in quel momento, stavano uscendo dal
vicino teatro di Pompeo, al termine di uno spettacolo di gladiatori. Quando
la folla ebbe notizia di quel che era accaduto, cercò di tornarsene al sicuro
della propria casa il più in fretta possibile, malgrado Bruto provasse a
rassicurarla che non c’era alcun motivo di preoccuparsi e che le notizie
erano buone, non cattive. La confusione aumentò ulteriormente quando
Marco Emilio Lepido, uno dei più stretti collaboratori di Cesare, lasciò il
Foro per adunare alcuni soldati stazionati appena fuori dalla città, e poco
mancò che si imbattesse in un gruppo di assassini provenienti dalla
direzione opposta per annunciare la loro vittoriosa impresa, seguiti a breve
distanza da tre schiavi che stavano portando su una lettiga il corpo di
Cesare a casa sua. Essendo soltanto in tre, la cosa non risultò facile, e si
raccontava che le braccia ferite del dittatore pendessero lugubremente fuori
dalla lettiga.
Quella sera Cicerone incontrò Bruto e altri «liberatori» sul Campidoglio,
dove si erano asserragliati. Cicerone non aveva fatto parte del complotto,
ma alcuni dissero che Bruto aveva gridato il suo nome mentre affondava la
spada nel corpo di Cesare; in ogni caso, come anziano e illustre statista,
poteva essere un’utile figura di rappresentanza da avere al proprio fianco
all’indomani dell’attentato. Il consiglio di Cicerone fu molto chiaro:
dovevano subito convocare il Senato sul Campidoglio. Ma costoro esitarono,
lasciando così l’iniziativa ai seguaci di Cesare, che seppero sfruttare l’umore
popolare, certamente non a favore degli assassini, nonostante le successive
fantasie di Cicerone, secondo il quale la maggior parte dei comuni romani
in definitiva era convinta che il tiranno dovesse essere abbattuto. La
maggioranza continuava a preferire le riforme di Cesare (assistenza ai
poveri, insediamenti oltremare e occasionali distribuzioni di denaro) alle
altisonanti idee di libertà, che avrebbero potuto benissimo non essere altro
che un alibi per gli interessi personali dell’aristocrazia e il perdurante
sfruttamento delle classi inferiori, come avrebbero facilmente potuto
confermare le vittime delle estorsioni di Bruto a Cipro.
Pochi giorni dopo, Antonio organizzò un impressionante funerale per
Cesare, che includeva anche un modello di cera sospeso sopra il suo corpo,
per permettere al pubblico di vedere più facilmente tutte le ferite che aveva
ricevuto e il loro punto preciso. Scoppiò una rivolta, che si concluse con
un’improvvisata cremazione del cadavere nel Foro: il combustibile venne
fornito in parte dalle panche di legno prese dalle vicine aule di tribunale, in
parte dai vestiti che i musicisti si strapparono di dosso e scagliarono nelle
fiamme, e in parte dai gioielli che le donne gettarono in cima alla pira
insieme alle toghe dei loro fanciulli. Non ci furono, almeno all’inizio,
rappresaglie. Dopo le dimostrazioni che avevano accompagnato il funerale
di Cesare, Bruto e Cassio ritennero più sicuro lasciare la città, ma non
furono privati delle loro cariche politiche (erano entrambi pretori). A Bruto
fu persino concesso, nella sua qualità di pretore, di allestire una festività in
absentia; ma i cesariani sostituirono quasi immediatamente la commedia
che aveva intenzione di presentare (dedicata al primo Bruto e alla cacciata
dei Tarquini) con un’altra che aveva un tema meno scottante, tratto dalla
mitologia greca. Accogliendo una proposta di Cicerone, il Senato aveva
precedentemente stabilito che si dovessero ratificare tutte le decisioni di
Cesare, in cambio di un’amnistia per gli assassini. Era certamente una
tregua alquanto fragile, ma per il momento riuscì a evitare lo scoppio di
ulteriori violenze.
Le cose cambiarono quando, nell’aprile del 44 a.C., giunse a Roma l’erede
designato di Cesare, che fino a quel momento era rimasto sull’altra sponda
dell’Adriatico, impegnato nei preparativi per l’invasione della Partia.
Nonostante tutte le voci e le accuse, e quale che fosse il reale status del
ragazzino che Cleopatra aveva astutamente chiamato Cesarione, Cesare non
aveva riconosciuto nessun figlio legittimo. Perciò, nel testamento, aveva
preso l’inconsueta decisione di adottare il proprio pronipote, dichiarandolo
figlio suo nonché principale beneficiario della sua fortuna. Gaio Ottavio
aveva allora appena diciotto anni e quasi immediatamente cominciò a
sfruttare il celebre nome che aveva acquisito grazie all’adozione facendosi
chiamare Gaio Giulio Cesare, anche se i suoi avversari, e, per evitare
confusioni, quasi tutti gli scrittori moderni, lo chiamavano Ottaviano (vale a
dire «ex Ottavio»). Lui stesso non adoperò mai questo nome. Perché Cesare
lo abbia prescelto rimarrà sempre un mistero; ma Ottaviano aveva
certamente interesse ad assicurare che gli assassini dell’uomo che adesso
era ufficialmente suo padre non la passassero liscia e che nessuno dei suoi
numerosi possibili rivali, in primis Marco Antonio, indossasse i panni del
dittatore defunto. Cesare era per Ottaviano il passaporto per il potere: dopo
che, nel gennaio del 42 a.C., un Senato compiacente decretò che Cesare era
diventato un dio, Ottaviano iniziò a sfoggiare il suo nuovo titolo e rango:
«figlio di un dio». Ne seguì un decennio di guerra civile.
Ottaviano – o Augusto, come venne ufficialmente chiamato dopo il 27
a.C. (un titolo appositamente coniato, che significa grosso modo
«venerato») – dominò la vita politica romana per più di cinquant’anni, fino
alla sua morte nel 14 d.C. Superando di gran lunga i precedenti di Pompeo e
Cesare, fu il primo imperatore romano a mantenere il comando sino alla
fine: il suo è stato il regno più lungo di tutta la storia romana, sorpassando
perfino quello dei mitici Numa Pompilio e Servio Tullio. In qualità di
Augusto, trasformò la struttura della politica romana e dell’esercito, il
governo dell’impero, l’aspetto di Roma e il senso profondo di ciò che
rappresentava la potenza, la cultura e l’identità romana.
Nel corso di questa acquisizione e conservazione del potere, si trasformò
anche lo stesso Augusto, con una stupefacente metamorfosi da ribelle e
spietato signore della guerra a responsabile statista, simboleggiata proprio
dall’astuto mutamento di nome. Il suo passato in qualità di Ottaviano era
stato contrassegnato da crudeltà, scandali e illegalità. Si era aperto la strada
nella politica romana nel 44 a.C., usando un esercito privato e tattiche quasi
da colpo di stato. Poi, insieme ad altri, aveva messo in atto un terribile
pogrom sul modello delle proscrizioni sillane, e, se dobbiamo credere alla
tradizione romana, le sue mani erano letteralmente lorde di sangue.
Secondo una storia particolarmente raccapricciante, aveva personalmente
strappato gli occhi a un senatore sospettato di complottare ai suoi danni.
Non molto meno scioccante per la sensibilità romana era la storia di come
avesse impersonato, con noncurante atteggiamento, il dio Apollo durante
uno sfarzoso banchetto – seguito da una festa in costume – svoltosi mentre
la popolazione era ridotta alla fame per le devastazioni della guerra civile.
Come sia riuscito a lasciarsi alle spalle tutto ciò e diventare il padre
fondatore di un nuovo regime, nonché, agli occhi di molti, l’imperatore
modello e il termine di confronto per giudicare i suoi successori, è una
domanda che si posero già parecchi osservatori romani. E gli storici vi
hanno riflettuto e discusso fin da allora, dissentendo tanto sulla radicale
trasformazione da lui operata e sulla natura del suo nuovo regime quanto
sul fondamento stesso del suo potere e della sua autorità. Come riuscì a
realizzare i suoi obiettivi?
Il volto della guerra civile
Alla fine del 43 a.C., in poco più di diciotto mesi dal ritorno di Ottaviano in
Italia, la politica romana era stata completamente ribaltata. Bruto e Cassio
erano stati assegnati a province orientali e avevano abbandonato l’Italia.
Ottaviano e Antonio si erano prima affrontati in una serie di scontri militari
nell’Italia settentrionale, poi avevano nuovamente raggiunto un accordo
stipulando con Lepido un «triumvirato per la costituzione del governo». Si
trattava di un accordo ufficiale, con durata quinquennale, che assegnava a
ognuno di essi un potere pari a quello dei consoli, assicurando loro la
possibilità di scegliere la provincia che preferivano e il controllo delle
elezioni. Roma era caduta nelle mani di una junta.
E Cicerone era morto. Aveva commesso l’errore di parlare troppo
apertamente contro Antonio, e, nella nuova serie di massacri che fu il
principale risultato del triumvirato, il suo nome, insieme a quello di altre
centinaia di senatori e cavalieri, finì sulle temutissime liste di proscrizione.
Nel dicembre del 43 a.C. venne raggiunto e decapitato da una banda di
scherani, mentre, portato su una lettiga, cercava di fuggire da una delle sue
ville di campagna nell’inutile tentativo di darsi alla macchia (inutile perché
uno dei suoi ex schiavi aveva rivelato i suoi spostamenti). Fu un altro
simbolico finale per la repubblica romana, appassionatamente discusso nei
secoli successivi. In effetti, gli ultimi istanti di Cicerone furono
incessantemente reinterpretati nelle scuole oratorie di Roma, nelle quali la
domanda se avrebbe dovuto implorare misericordia da Antonio oppure (in
modo ancora più scaltro) offrire di distruggere tutti i suoi scritti in cambio
della propria vita era un classico tema di discussione nel programma di
studio. In realtà, quel che accadde dopo la sua morte fu molto più macabro
e sinistro. La sua testa e la sua mano destra furono inviate a Roma e appese
ai rostri del Foro. Fulvia, moglie di Antonio, e precedentemente sposata con
Clodio, altro acerrimo nemico di Cicerone, corse ad ammirare il trofeo. Si
raccontava che, nella sua selvaggia esaltazione, avesse staccato la testa dai
rostri e vi avesse sputato sopra, e poi ne avesse estratto la lingua
trafiggendola più volte con uno spillone che teneva nei capelli.
Ogni fragile tregua venne ora dimenticata. Nell’ottobre del 42 a.C. le
forze riunite dei triumviri sconfissero Bruto e Cassio nei pressi della città di
Filippi, nell’estremo nord della Grecia (uno dei temi principali del Giulio
Cesare di Shakespeare); dopodiché i vincitori iniziarono a volgersi ancora
più accanitamente uno contro l’altro. Così, quando da Filippi rientrò in
Italia per supervisionare un massiccio programma di confische terriere con
lo scopo di fornire una liquidazione a migliaia di soldati in congedo
pericolosamente insoddisfatti, Ottaviano si trovò ben presto costretto ad
affrontare l’opposizione armata di Fulvia e di Lucio Antonio, fratello di
Marco Antonio. I quali si erano fatti paladini della causa dei proprietari
terrieri espropriati ed erano persino riusciti a ottenere il controllo della città
di Roma, anche se solo per breve tempo. Ottaviano li assediò rapidamente
nella città di Perugia. All’inizio del 40 a.C. furono costretti ad arrendersi per
fame; ma si era ormai preparata la scena per più di un decennio di ulteriori
guerre, inframmezzate da brevi tregue, tra due schieramenti opposti che
pretendevano entrambi di rappresentare gli eredi di Cesare.
È spesso difficile dare un senso coerente alle mutevoli coalizioni e agli
altrettanto mutevoli obiettivi dei vari protagonisti nelle diverse fasi di
questo conflitto. Si possono azzardare soltanto ipotesi su quale particolare
combinazione di indecisione, riallineamento politico e interesse personale
abbia spinto Dolabella, già genero di Cicerone, a cambiare schieramento
per ben due volte nel giro di pochi mesi, e ad assumere infine un comando
militare contro i liberatori in Oriente, ingannando, torturando e
giustiziando lo sfortunato governatore d’Asia, e trovando la morte nel 43
a.C., mentre cercava senza successo di affrontare Cassio in Siria. «Qualcuno
avrà mai il talento necessario per mettere tutto questo per iscritto in modo
che assomigli alla verità dei fatti e non alla finzione?», si domandò
successivamente uno scrittore romano, sottintendendo chiaramente che la
risposta era no. Ma per quanto confusi siano i ruoli impersonati dai
principali protagonisti, questo conflitto ci offre, più di ogni altro della
precedente storia romana, l’opportunità di comprendere cosa significasse
questo tipo di guerra per il resto della popolazione d’Italia, civile e militare,
e persino di ascoltare la voce di alcune vittime innocenti.
57. Un frammento dell’epitaffio della moglie fedele. Sfortunatamente, i nomi dei due
coniugi non sono conservati, ma è chiaro che il marito era un importante senatore. XORIS ,
in alto a sinistra, è ciò che rimane di UXORIS («moglie»). Nel testo sottostante è raccontato
l’aiuto prestato dalla moglie durante la fuga del marito; nella seconda linea, per esempio,
AURUM MARGARITAQUE allude all’«oro e le perle» da lei inviatigli.
58. Proiettili di piombo, lunghi solo qualche centimetro, che uccidevano il nemico
inviandogli contemporaneamente un messaggio. Per ESUREIS ET ME CELAS («Siete ridotti alla
fame e fate finta di non esserlo») sono state proposte anche traduzioni diverse, tra cui
alcune con un senso esplicitamente erotico («Mi desiderate ardentemente...»). Sulla destra,
si legge la prima attestazione del termine landica, qui scritto al rovescio.
61. Due diverse immagini di Augusto. A sinistra, è raffigurato nel ruolo di sacerdote, con
la toga tirata sopra la testa, com’era abituale quando si offriva un sacrificio. A destra, è
mostrato come un guerriero eroico e semidivino. Ai suoi piedi c’è una piccola immagine di
Cupido, a ricordare la discendenza dell’imperatore, attraverso Enea, dalla stessa dea
Venere.
Le Res Gestae sono una ricca fonte di notizie sulla carriera di Augusto e
sul mondo romano di allora. Iniziano con una descrizione sostanzialmente
idealizzata della sua ascesa al potere, che omette del tutto qualsiasi
menzione dei pogrom («restituii a libertà la repubblica oppressa da una
fazione» sono le concise parole con cui si riferisce allo scontro con Antonio
o con Bruto e Cassio). Continua riferendo brevemente fatti come le sue
splendide processioni trionfali («nove re o figli di re» sfilavano prigionieri
davanti al suo carro, come si vanta lui stesso, con classico compiacimento
romano per la cattura di personaggi di rango regale) e la sua gestione delle
riserve romane di grano quando si stava profilando una carestia. Per alcuni
storici moderni la parte più importante del testo è quella in cui si riportano
i risultati dei censimenti dei cittadini romani ordinati da Augusto: il totale
era di 4.063.000 nel 28 a.C., salito a 4.937.000 nel 14 a.C. Questi sono i dati
più affidabili che possediamo sull’entità della popolazione di cittadinanza
romana lungo tutto il corso della storia di Roma, soprattutto perché,
essendo incisi su pietra, non sono esposti ai tipici errori che possono
facilmente commettere copisti negligenti nei manoscritti. Ciononostante, si
discute ancora aspramente se le cifre riportate includano soltanto gli
uomini o anche le donne e i bambini: se, in altre parole, la popolazione di
cittadinanza romana ammontava a circa cinque milioni (con una certa
approssimazione per difetto) o invece a più di dodici milioni.
63. Il tempio di Roma e Augusto ad Ankara, da cui proviene il testo più completo delle Res
Gestae (sullo sfondo si riconosce il minareto della moschea che fu in seguito costruita
parzialmente al suo interno). Il testo latino era iscritto su entrambi i lati dell’ingresso
principale, quello greco su uno dei muri esterni. Nessuna delle due versioni si è conservata
in modo completo, ma le parti mancanti della versione latina possono essere integrate con
quelle della versione greca e viceversa.
65. Dettaglio del fregio processionale dell’altare dell’Ara Pacis di Augusto eretta nel 13
a.C. Il fregio mostrava la famiglia imperiale al completo: in questo dettaglio, sulla sinistra
è raffigurato Agrippa. La donna dietro di lui potrebbe essere la moglie che aveva allora,
Giulia, ma viene generalmente identificata con Livia.
Il risultato di questa pianificazione dinastica è che l’albero genealogico di
quella che è oggi chiamata dinastia giulio-claudia (Giulio era il nome di
famiglia di Augusto, e Claudio quello del primo marito di Livia) divenne
così complicato che appare quasi impossibile da rappresentare in forma
schematica, per non parlare della possibilità di ricordarlo in dettaglio. Ma,
anche così, gli eredi tanto desiderati non si materializzarono, e, quando lo
fecero, morirono troppo presto. Il matrimonio di Tiberio e Giulia diede un
solo figlio, che non sopravvisse all’infanzia. Augusto adottò i due figli che
Giulia aveva avuto dal matrimonio con Agrippa per poterli presentare come
suoi eredi (complicando ulteriormente l’albero genealogico). La loro
immagine, che sembrava il ritratto sputato del loro padre adottivo, fu
scrupolosamente diffusa in tutto il mondo romano, ma uno morì di malattia
nel 2 d.C., a soli diciannove anni, e l’altro nel 4 d.C., dopo essere rimasto
ferito durante una campagna militare in Oriente e prima che il suo
matrimonio (con un altro membro della famiglia) avesse potuto dare un
figlio. Alla fine, malgrado tutti i suoi sforzi, Augusto si ritrovò nel punto
dove sarebbe potuto rimanere fin dall’inizio, vale a dire con Tiberio, il figlio
di Livia, che divenne imperatore nel 14 d.C. Plinio il Vecchio non poté fare a
meno di notare in ciò un’altra ironia della storia. Tiberio Claudio Nerone, il
padre del nuovo imperatore, nella guerra civile si era schierato con Antonio
e, insieme alla sua famiglia, era stato tra gli assediati di Perugia. Augusto
morì, concludeva amaramente Plinio, «con il figlio del suo nemico come
proprio erede».
Augusto è morto. Lunga vita ad Augusto!
Augusto morì il 19 agosto del 14 d.C., poco prima del suo settantaseiesimo
compleanno, in una delle ville che aveva nell’Italia meridionale. Secondo
Svetonio, stava trascorrendo un periodo di vacanza sull’isola di Capri,
distraendosi con giochi eruditi insieme ai suoi ospiti: per esempio, tutti gli
ospiti romani dovevano vestirsi alla greca e parlare greco, mentre tutti gli
ospiti greci dovevano comportarsi come romani. Gli ultimi giorni furono
alquanto pacati. Rientrato sulla penisola, ebbe dolori allo stomaco, che alla
fine lo costrinsero a letto, dove poco dopo morì, fatto piuttosto
sorprendente, dato il destino di tanti suoi contemporanei. Successivamente
circolarono voci secondo le quali Livia aveva avuto un ruolo nella sua fine,
con qualche fico avvelenato, allo scopo di facilitare l’accessione al trono di
Tiberio, proprio come si era rumoreggiato che avesse affrettato la morte di
altri membri della famiglia per timore che ostacolassero le possibilità di
Tiberio di salire al potere. Fu comunque un altro caso di morte misteriosa
nel mondo romano – come lo era la maggior parte delle morti, quando non
avvenivano in battaglia, durante il parto o per incidente –, che fece nascere
numerosi sospetti e dicerie più o meno fondate. E il veleno fu sempre
considerato l’arma preferita delle donne. Non richiedeva forza fisica, ma
soltanto astuzia, e costituiva un terrificante rovesciamento del loro
tradizionale ruolo di nutrici.
Altri credevano, più ragionevolmente, che Livia avesse avuto un ruolo di
primo piano nell’agevolare la transizione da Augusto a Tiberio. Non appena
la morte del marito apparve imminente, fece chiamare suo figlio, che si
trovava al di là dell’Adriatico, a circa cinque giorni di viaggio. Nel frattempo
continuò a emanare ottimistici bollettini sulla salute di Augusto, finché,
una volta giunto Tiberio, poté annunciarne la morte; quando esattamente
sia morto Augusto rimarrà sempre materia di dibattito. Comunque, che
fosse avvenuta prima o dopo l’arrivo del suo erede, l’accessione al trono di
Tiberio fu relativamente tranquilla. Il corpo di Augusto fu trasportato per
oltre centocinquanta chilometri da Nola, dove era morto, fino a Roma, sulle
spalle degli uomini più illustri delle città attraversate lungo il viaggio. Non
ci fu alcuna cerimonia di incoronazione; in qualsiasi modo Augusto avesse
sfruttato il trionfo celebrato nel 29 a.C., non esisteva un rituale
specificamente romano per sancire l’accessione imperiale. Ma, quando
convocò una riunione del Senato per rendere pubblico il testamento, i
lasciti e le altre disposizioni di Augusto, nonché per discutere l’allestimento
dei funerali, Tiberio aveva già saldamente in mano le redini del potere quale
nuovo imperatore.
Alcune testimonianze fanno supporre che gli organizzatori del funerale
temessero possibili disordini. Per quale altro motivo avrebbero fatto
sorvegliare la cerimonia e il percorso della processione funeraria da guardie
armate? Ma tutto si svolse pacificamente, in un modo che sarebbe stato
sostanzialmente familiare a Polibio, per quanto su una scala assai più
grandiosa. Un modello in cera di Augusto, e non il suo corpo, fu collocato
sui rostra mentre Tiberio pronunciava l’elogio funebre. Nella processione
furono fatte sfilare immagini non soltanto degli antenati di Augusto ma
anche di altri illustri romani del passato, compresi Pompeo e Romolo, come
se Augusto discendesse da tutti loro. Dopo la cremazione, Livia (ora
chiamata Augusta, perché nel suo testamento Augusto l’aveva ufficialmente
adottata) ricompensò con un milione di sesterzi l’uomo che giurò di avere
visto Augusto innalzarsi in cielo. Ora Augusto era un dio.
Nella sua forma umana, l’imperatore rimase un enigma fino all’ultimo.
Tra le ultime parole rivolte ai suoi amici presenti, prima di un bacio di addio
a Livia, incluse una citazione tipicamente ambigua tratta da una commedia
greca: «Se ho recitato bene la mia parte, applauditemi». Quale parte aveva
recitato in tutti questi anni? E dov’era il vero Augusto? E chi aveva scritto il
suo copione? Tutte queste domande, allora come oggi, attendono una
risposta. Ancora ci domandiamo come Augusto sia riuscito a riplasmare
così radicalmente il panorama politico romano e a imporre la sua volontà
per più di quarant’anni (e con quali appoggi). Per esempio, chi decise le
caratteristiche della sua immagine ufficiale (o di quella di Livia)? Quale
genere di discussioni, e con quali partecipanti, sta dietro il nuovo modello
di servizio e pensionamento militare? Fino a che punto è stata la semplice
fortuna a farlo sopravvivere così a lungo?
Ciononostante, l’impianto generale che aveva messo in piedi per il ruolo
di imperatore durò per oltre duecento anni, ossia per il resto del periodo
trattato in questo libro. Ogni successivo imperatore che incontreremo fu, o
almeno impersonò, Augusto. Tutti assunsero il nome Augusto come parte
dei loro titoli imperiali, ed ereditarono il suo personale anello-sigillo,
trasmesso direttamente di successore in successore. Nel corso del suo
regno Augusto ne aveva cambiato il motivo inciso, prima in un ritratto di
Alessandro Magno e infine in quello di se stesso. Il volto di Augusto,
insomma, divenne la firma di ciascuno dei suoi successori. Per quanto
diversi possano essere stati i loro nomi, le loro idiosincrasie, le loro virtù, i
loro vizi o i loro retroterra culturali e sociali, furono tutti, nel bene o nel
male, reincarnazioni di Augusto, che operarono entro il modello autocratico
da lui creato e si trovarono a dover affrontare i problemi che egli aveva
lasciato irrisolti. È appunto a una parte di questi problemi che ora
rivolgeremo la nostra attenzione, cominciando con un’altra morte.
66. Versione semplificata della famiglia e dei discendenti di Augusto e Livia; gli imperatori
sono indicati in neretto. Le adozioni e i molteplici matrimoni, nonché la presenza di
diversi personaggi con il medesimo nome, rendono il quadro di una complessità
sconcertante. Ma proprio questa sconcertante complessità era parte integrante
dell’essenza della dinastia.
QUATTORDICI IMPERATORI
Gli uomini sul trono
Il 24 gennaio del 41 d.C., quasi trent’anni dopo la morte di Augusto nel
proprio letto, e quasi ottantacinque anni dopo l’assassinio di Giulio Cesare,
a Roma ci fu un altro violento omicidio. Questa volta la vittima fu
l’imperatore Gaio – o, per citare il suo nome completo, Gaio Giulio Cesare
Augusto Germanico –, che quattro anni prima era succeduto al suo prozio,
l’anziano Tiberio, sul trono di Roma. Fu il secondo di una serie di
quattordici imperatori (non contando i tre effimeri pretendenti nel breve
periodo di guerra civile tra il 68 e il 69 d.C.) che regnarono a Roma nei quasi
180 anni che intercorrono tra la morte di Augusto e quella dell’imperatore
Commodo, assassinato nel 192 d.C. Tra essi figurano alcuni dei nomi più
celebri della storia romana: Claudio, che succedette a Gaio e al quale è
assegnato un ruolo da protagonista come erudito e acuto osservatore della
politica di palazzo nei romanzi Io, Claudio e Il divo Claudio di Robert Graves;
Nerone, con la sua fama di omicida, suonatore di lira, persecutore di
cristiani e piromane; Marco Aurelio, l’«imperatore filosofo», le cui
meditazioni filosofiche, intitolate Pensieri, sono oggi un best seller; e
Commodo, le cui esibizioni nell’arena sono state ricreate, non del tutto
inaccuratamente, nel film Il gladiatore. Altri, nonostante tutti gli sforzi dei
biografi moderni, sono per noi soltanto dei nomi: l’anziano Nerva, per
esempio, che tenne il potere per appena diciotto mesi alla fine del I secolo
d.C.
L’assassinio di Gaio è uno degli eventi meglio documentati di questo
periodo della storia romana, e rappresenta certamente il resoconto più
dettagliato che ci sia pervenuto sulla caduta di un imperatore. Occupa circa
trenta pagine di testo in un’edizione moderna, ed è inserito come
digressione in una storia enciclopedica degli ebrei, scritta circa una
cinquantina d’anni dopo da Tito Flavio Giuseppe, un importante ribelle
ebreo al giogo romano negli anni Sessanta del I secolo a.C. (con il nome di
Joseph Ben Matthias), che poi cambiò schieramento, sul piano politico se
non su quello religioso, e finì per diventare quasi uno scrittore di corte. Per
Flavio Giuseppe, l’assassinio di Gaio fu una punizione divina scagliata
contro un imperatore che aveva deriso e maltrattato gli ebrei e addirittura
fatto erigere una statua di se stesso all’interno del Tempio. Comunque, a
giudicare dai dettagli circostanziati del suo racconto, deve avere avuto
accesso a una fonte scritta da qualcuno piuttosto vicino agli eventi del 24
gennaio.
Tiberio (14-37 d.C.)
67. Tre imperatori – Galba, Otone e Vitellio – ebbero un regno di breve durata tra la morte
di Nerone e l’accessione al trono di Vespasiano.
Il suo assassinio, dopo soli quattro anni di regno, per mano di tre soldati
della guardia pretoriana, fu altrettanto cruento e caotico di quello di Cesare.
Nel mondo antico era praticamente impossibile compiere un omicidio
mantenendosi a una distanza di sicurezza. Per uccidere bisognava di solito
avvicinarsi alla propria vittima e colpirla, spesso con grande spargimento di
sangue. Come dimostrano in modo lampante i casi di Cesare e Gaio, per chi
sedeva sul trono i maggiori pericoli giungevano proprio da coloro ai quali
era consentito stargli più vicino: mogli, figli, guardie del corpo, colleghi,
amici e schiavi. Ma altrettanto netta è anche la differenza tra i due
assassinii, un riflesso di quanto fossero mutate le cose dal tempo della
repubblica a quello degli imperatori. Cesare era stato accoltellato dai suoi
colleghi senatori, in una riunione pubblica, in piena vista, mentre veniva
presentata una petizione. Gaio fu massacrato in casa, completamente solo
in un vuoto corridoio, da alcune delle truppe scelte che avrebbero dovuto
garantire la sicurezza interna del regime. E, quando giunse sua moglie,
insieme alla figlioletta, e scoprì il corpo, vennero entrambe uccise.
L’imperatore, racconta Flavio Giuseppe, quel giorno aveva assistito ad
alcune esibizioni sul Palatino per la festa annuale in memoria di Augusto,
fissata in modo da coincidere con l’anniversario di matrimonio della prima
coppia imperiale. Al termine dello spettacolo mattutino, aveva deciso di
saltare il pranzo (secondo un’altra versione sentiva un po’ di nausea per
avere mangiato troppo la notte precedente) e di recarsi direttamente dal
teatro alle sue terme private. Mentre percorreva un passaggio che collegava
due settori all’interno del sempre più grande «complesso palaziale» (già
ben più vasto dell’abitazione relativamente modesta di Augusto), venne
assalito dai tre pretoriani. Il loro leader, Cassio Cherea, era a quanto pare
spinto da un risentimento personale. Era stato spesso al servizio
dell’imperatore, fungendo da torturatore per suo conto e imponendo la sua
volontà, ma in cambio Gaio lo aveva ripetutamente e pubblicamente deriso
per la sua effeminatezza («femminuccia» era uno dei nomignoli preferiti
con cui lo apostrofava). Questa fu la vendetta di Cherea.
È possibile che il complotto fosse mosso anche da princìpi più elevati e
che godesse di ampi sostegni fra i soldati e i senatori. Questo almeno fanno
supporre le numerose storie sulle nefandezze di Gaio. Sono
particolarmente celebri l’incesto con le sorelle e il suo folle progetto di
nominare senatore il proprio cavallo. I suoi vanagloriosi progetti edilizi
sono stati giudicati come qualcosa a metà strada tra un affronto alle leggi di
natura e un ridicolo sfoggio. (Provate a immaginarlo, come più di uno
scrittore ha descritto la scena, pavoneggiarsi a cavallo su una strada
costruita sopra un ponte di barche attraverso il golfo di Napoli, con indosso
la corazza di Alessandro Magno...) I suoi coraggiosi soldati dovettero subire
l’umiliazione di essere messi a caccia di conchiglie su una spiaggia francese.
E il suo allegro modo di minacciare l’ormai da tempo sofferente aristocrazia
divenne leggendario. Una volta venne visto scoppiare improvvisamente a
ridere durante un banchetto, mentre stava comodamente sdraiato accanto
ai due consoli. «Cosa c’è da ridere?» domandò gentilmente uno di essi. «È
solo il pensiero che, con un solo cenno del capo, potrei farvi sgozzare
immediatamente tutti e due» rispose Gaio. Se non lo avesse fatto Cherea, ci
avrebbe pensato qualcun altro a impugnare il coltello.
Comunque, quali che fossero le vere ragioni dell’assassinio, qui si
esprimeva una nuova politica: una banda di sicari che agivano in segreto e
un omicidio dinastico che richiedeva l’eliminazione anche dei parenti più
stretti della vittima. Nessuno si era scagliato contro la moglie di Giulio
Cesare. E ciò dimostrava che, malgrado Augusto fosse in gran parte riuscito
a escludere le legioni romane dalla politica, i pochi soldati di stanza in città
potevano esercitare un enorme potere se lo ritenevano necessario. Nel 41
d.C. non si trattò semplicemente di un gruppo di pretoriani scontenti che
assassinarono l’imperatore; la stessa guardia pretoriana impose
immediatamente il suo successore. Anche la scorta dell’imperatore, una
piccola milizia privata di germani, scelti perché la loro condizione di barbari
era considerata una garanzia contro la corruzione, ebbe un ruolo
sanguinoso negli eventi che seguirono.
Non appena trapelò la notizia dell’assassinio, i germani diedero prova
della loro spietata e rozza fedeltà. Piombarono sul Palatino, uccidendo
chiunque sospettassero di essere coinvolto nel complotto. Un senatore fu
massacrato perché la sua toga era macchiata del sangue di un animale
sacrificato per un rito eseguito quel giorno, suscitando l’impressione che
potesse avere partecipato all’uccisione dell’imperatore. E si misero a
terrorizzare la gente che stava ancora accalcandosi nel teatro dopo che
l’imperatore se n’era andato. Questi spettatori rimasero barricati dentro
l’edificio, finché intervenne un gentile dottore. Era venuto per medicare
quanti erano rimasti feriti nella confusione seguita all’assassinio, e riuscì a
far fuggire questi innocenti spettatori con la scusa di mandarli a prendere
attrezzature mediche.
Nel frattempo, i senatori si riunirono nel tempio di Giove sul
Campidoglio, il monumento simbolo della repubblica, ed espressero
solenni parole sulla fine della schiavitù politica e il ritorno della libertà.
Erano cento anni, secondo i loro calcoli, che la libertà era stata perduta
(pensavano probabilmente, quale momento di svolta, all’accordo stipulato
nel 60 a.C. da Pompeo, Cesare e Crasso, per formare la Banda dei Tre), e
perciò questo appariva un momento di favorevole auspicio per riprenderne
possesso. Il console Gneo Senzio Saturnino pronunciò un discorso
estremamente toccante. Era troppo giovane, come ammise lui stesso, per
ricordare la repubblica, ma aveva visto con i propri occhi «con quali mali le
tirannidi infestino uno stato». Con l’assassinio di Gaio era sorta una nuova
alba:
A capo dello stato non vi è più un despota che possa impunemente opprimere
la città ... Questa tirannia non era rinvigorita da altro all’infuori dell’indolenza
... Abbiamo ceduto alla seduzione della pace e abbiamo imparato a vivere
come prigionieri vinti ... Il nostro primo dovere è rendere i più alti onori a
coloro che hanno eliminato il tiranno.