Sei sulla pagina 1di 32

ANNALISA ANDREONI

LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA


DI BENEDETTO VARCHI

Nella riunione dell’Accademia Fiorentina del 3 dicembre 1550,


sotto il consolato di Alessandro Malegonnelle, fu deciso di for-
mare una commissione che formulasse le regole del parlar tosca-
no, della quale fecero parte Giambattista Gelli, Pier Francesco
Giambullari, Carlo Lenzoni, Francesco Torelli e Benedetto Var-
chi1. Essa tuttavia non riuscì a produrre nulla, anche per il pro-
gressivo convincimento da parte di Gelli che non fosse possibile

1. Cfr. Biblioteca Marucelliana di Firenze (BMF), ms. B III 52, cc. 65v-66v. Sugli in-
teressi linguistici di Varchi rimando all’introduzione di A. Sorella in BENEDETTO VAR-
CHI, L’Hercolano, ed. crit. a c. di ANTONIO SORELLA, pres. di PAOLO TROVATO, Pescara,
Libreria dell’Università 1995, 2 voll. Cfr. inoltre UMBERTO PIROTTI, Benedetto Varchi e
la questione della lingua, «Convivium», XXVIII (1960), pp. 524-52; CARLO BASCETTA,
Tutte le cose, «Lingua nostra», XXX, 2 (giugno 1969), pp. 37-38; MICHAEL T. WARD,
Benedetto Varchi and the Social Dimension of Language, «Italica», LXVIII (1991), 2,
pp. 176-94. Importante lo studio di ILARIA BONOMI, Giambullari e Varchi grammatici
nell’ambiente linguistico fiorentino, in La Crusca nella tradizione linguistica e letteraria
italiana, Atti del Congresso Internazionale per il IV Centenario dell’Accademia della
Crusca (Firenze, 29 settembre-2 ottobre 1983), Firenze, Accademia della Crusca 1985,
pp. 65-79. Interessanti note dedicate al Varchi in NICOLETTA MARASCHIO, Il pensiero
linguistico del Cinquecento italiano, «Vox Romanica», 57 (1998), pp. 101-16. La Mara-
schio ha anche pubblicato recentemente il frammento della grammatica toscana com-
posta per Lorenzo Lenzi risalente al periodo padovano: NICOLETTA MARASCHIO, La
‘gramatica toscana’ inedita di Benedetto Varchi, in L’Accademia della Crusca per Giovan-
ni Nencioni, Firenze, Le Lettere 2002, pp. 115-129 (dal ms. Biblioteca Medicea Lau-
renziana, Segniano 11, cc. 183r-193r ; copie anche in Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze, Conventi Soppressi J II 46 e Magl. VIII 1397). Sul rapporto tra Varchi e Sal-
viati in merito alle questioni linguistiche cfr. ancora NICOLETTA MARASCHIO, Lionardo
Salviati e l’Orazione in lode della lingua fiorentina e de’ fiorentini autori’, in Studi di sto-
ria della lingua italiana offerti a Ghino Ghinassi, Firenze, Le Lettere 2001, pp. 187-205.
Per una lettura delle teorie di Varchi nel panorama più ampio della linguistica rinasci-
mentale rimando al capitolo di MIRKO TAVONI, La linguistica rinascimentale, in Storia
della linguistica, a c. di GIULIO C. LEPSCHY, Bologna, Il Mulino 1990, vol. II, pp. 169-
312; si vedano anche CLAUDIO MARAZZINI, Il secondo Cinquecento e il Seicento, Bolo-
gna, Il Mulino 1993, pp. 153-158; ID., La speculazione linguistica nella tradizione italia-
na. Le teorie, in Storia della lingua italiana, a c. di LUCA SERIANNI e PIETRO TRIFONE,
vol. I, I luoghi della codificazione, Einaudi 1993, pp. 231-329, in part. sull’Hercolano
pp. 267-73.
138 ANNALISA ANDREONI

fissare regole precise per il fiorentino. L’anno dopo, il 22 novem-


bre2, sotto il consolato del Torelli fu formata una nuova commis-
sione, comprendente Varchi, Giambullari, Francesco Guidetti,
Francesco dell’Ambra e Leonardo Tanci, essendosi tirati indie-
tro Gelli, Lenzoni e il Torelli che era console. Il solito Alfonso
de’ Pazzi così si riferiva ai lavori del gruppo:
Cavate, Varchi, fuor questa gramatica,
perché altrimenti non si può parlare,
né legger né compor né disputare,
onde la gente diventa lunatica.
Il Giambullari o voi esca di pratica
e in buon punto si facci stampare;
le bergamasche si lascin andare
regole e la del Bembo, ch’è rematica3.
[…]

Nessuna pubblicazione ufficiale vide la luce neppure in questa


occasione. Apparve tuttavia una grammatica De la lingua che si
parla et scrive in Firenze di Pierfrancesco Giambullari, pubblica-
ta nel 1552 insieme con il Ragionamento sopra la difficoltà di
mettere in regole la nostra lingua di Gelli4. Il Ragionamento del
Gelli, dedicato al Giambullari, è un dialogo tra lo stesso Gelli e
Cosimo Bartoli, in cui il primo esprime i suoi dubbi riguardo al-
la possibilità di fissare le regole della lingua. La grammatica di

2. Firenze, Biblioteca Marucelliana, ms. B III 52, c. 72v.


3. Il secondo libro dell’opere burlesche del Berni, del Molza, del Bino, del Martelli,
del Franzesi, dell’Aretino e d’altri autori, Usecht al Reno, Jacopo Broedelet; Il terzo li-
bro delle opere burlesche del Berni, del Casa […] del Pazzi e d’altri autori, Usecht al
Reno, Jacopo Broedelet 1771, son. 47.
4. P.F. GIAMBULLARI, Della lingua che si parla e si scrive in Firenze. Uno dialogo di
Giovanbatista Gelli sopra la difficoltà dello ordinare detta lingua, Firenze, Torrentino
1552 (edizione critica in PIER FRANCESCO GIAMBULLARI, Regole della lingua fiorentina
(1551), a c. di ILARIA BONOMI, Firenze, Accademia della Crusca 1986); sugli scritti
linguistici del Giambullari si vedano ENZO NOÈ GIRARDI, Gli scritti linguistici di G.B.
Gelli, «Aevum», XXIX (1955), 1, pp. 469-503; ILARIA BONOMI, La grammatica di
Pierfrancesco Giambullari: saggio di un’analisi delle forme verbali del fiorentino vivo, in
Il Rinascimento. Aspetti e problemi attuali, Atti del X Congresso dell’Associazione in-
ternazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (AISLLI), Belgrado, 17-21
aprile 1979, Firenze, Olschki 1982, pp. 231-42; sui rapporti con Varchi cfr. BONOMI,
Giambullari e Varchi grammatici… .
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 139

Giambullari era improntata al fiorentino vivo e parlato in Firen-


ze, e si rivolgeva polemicamente ai forestieri e ai giovinetti. Fu,
come è noto, un tentativo di contrapporsi alle grammatiche di
provenienza settentrionale, come quella del Fortunio e dello
stesso Bembo, ma non ebbe alcun successo al di fuori della To-
scana, mentre sarebbero ampiamente circolate, di lì a poco, le
Osservationi del Dolce e la Grammatica del Delminio.
Per quanto riguarda Varchi, questa fu per lui l’occasione di
tornare a leggere in Accademia dopo diverso tempo. Secondo
gli Atti dell’Accademia, infatti, egli lesse quattro volte sulla
grammatica tra il 13 dicembre 1551 e il 3 gennaio 15525. Tali le-
zioni non videro però la luce e si dovette arrivare ai primi del-
l’Ottocento per vederle parzialmente a stampa6.
Nel primo volume degli Opuscoli inediti di celebri autori to-
scani del 1807 Luigi Clasio (Luigi Fiacchi) pubblicò una lezione
grammaticale, identificandola con una delle quattro che, secon-
do quanto poteva leggere nei Fasti consolari del Salvini, Varchi
aveva tenuto nel 15517. Nella Lettera a Giovan Battista Zannoni,
pubblicata contestualmente, Clasio forniva alcune informazioni

5. «Addì 13 detto. Lesse publicamente M. Benedetto Varchi sopra la materia del


tempo secondo le regole cioè dei nomi et verbi […] Addì 20 detto. Lesse publicamen-
te M. Benedetto Varchi sopra la medesima materia dei tempi dei nomi e verbi. Addì
27 detto. Lesse publicamente M. Benedetto Varchi sopra la medesima materia della
gramatica Toschana. Addì 3 di gennaio. Lesse publicamente M. Benedetto Varchi so-
pra la medesima materia et in tale dì la fornì» (BMF, ms. B III 52, c. 73r).
6. Tra le opere di Varchi di argomento grammaticale ancora inedite ci sono giunti
anche una grammatica latina (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, d’ora in avan-
ti BLF, ms. Ashb. 597), una grammatica provenzale (ms. BLF, Ashb. 1812; sugli studi
provenzali cfr. SANTORRE DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento
e Tre secoli di studi provenzale, ed. riveduta, con integrazioni inedite a c. e con postfa-
zione di CESARE SEGRE, 1995, pp. 61-8, p. 264 e pp. 306-8 – lettere di Castelvetro a
Varchi) e numerosi appunti grammaticali contenuti nella Filza Rinuccini 9, ins. 23
presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
7. Lezione di M. Benedetto Varchi estratta da un ms. della Libreria del Sig. March.
Cav. Giuseppe Pucci, in Opuscoli inediti di celebri autori toscani l’opere dei quali sono
citate dal Vocabolario della Crusca, Firenze, Stamperia di Borgo Ognissanti, a c. di
LUIGI CLASIO [pseud. di Luigi Fiacchi], 1807, vol. I, pp. 46-76; anche in Collezione
d’opuscoli scientifici e letterari ed estratti d’opere interessanti, Firenze, Stamperia di
Borgo Ognissanti 1807, vol. II, pp. 3-33. Su Luigi Fiacchi (1754-1825), accademico
della Crusca e poeta, noto con il nome di Clasio, si vedano ETTORE ALLODOLI, Luigi
Fiacchi detto il Clasio, «Nuova Antologia», LXXXIX (1954), pp. 509-16 e PIERO BI-
GONGIARI, Introduzione al Clasio, «Paragone/Letteratura», VI, 62 (1955), pp. 42-52.
140 ANNALISA ANDREONI

riguardo al codice in cui l’aveva ritrovata, appartenente al Mar-


chese Giuseppe Pucci:
[…] è d’un carattere molto simile a quello dell’Allori, e certamente del
tempo medesimo, non trovandovisi che piccolissima, e forse non essenzial
differenza. Contiene questo una lezione, per quanto è a mia notizia, inedi-
ta, la quale, per vero dire, non porta in fronte, come l’altre due già riferi-
te, il nome del Varchi, ma per altro ha caratteri tali da doverla a lui attri-
buire. […] questa sembra fatta prima della recita, e fors’anco per servire
alla recita, come potrebbesi congetturare dai pentimenti, che vi s’incon-
trano, e che più sotto esporrò. Tratta di materie grammaticali di lingua
Toscana, e dopo un lungo, dotto, ed elegante proemio, espone ed esami-
na con molta profondità le modificazioni e le inflessioni del Verbo ne’
suoi diversi tempi e modi. […] Il manoscritto di questa lezione ha penti-
menti ed aggiunte anco notabili che sono indubitatamente di mano del
Varchi […] Nel manoscritto Pucciano la prima pagina porta in fronte la
parola Proemio senz’altro titolo. Il Varchi sopra la parola Proemio scrive
Lezione. Alla pagina 10 il Varchi in un luogo aggiunge: per la cagione asse-
gnata da noi di sopra: e nella pagina stessa aggiunge pure in altro luogo:
del che ricchissimo e certissimo testimonio ne danno le umanissime cortesie
vostre Nobiliss. Ascoltatori, le quali con tanta frequenza, e sì prontamente
in questo luogo concorrono. Quest’ultima aggiunta di pura cerimonia, e
che nulla giova alla materia trattata, mi fa nascer sospetto che il mano-
scritto sia servito alla recita, che dovette farsi nell’Accademia Fiorentina,
perché in principio vi si nomina il Consolo. Forse il carattere è di mano
dell’Allori, e forse l’Allori talora serviva d’amanuense al Varchi8.

8. LUIGI CLASIO, Lettera scritta al Sig. Abate Giovan Battista Zannoni Secondo Biblio-
tecario della Libreria Magliabechiana sopra alcuni Opuscoli mss. di Benedetto Varchi, che
esistono nella Libreria del Sig. Marchese Cav. Giuseppe Pucci, in Opuscoli inediti…, pp.
28-46 (anche in Collezione d’opuscoli… vol. I, pp. 78-96), cit. alle pp. 30-2. Nella lettera
allo Zannoni Clasio scriveva inoltre, a proposito di altri manoscritti varchiani: «Il primo
ms. contiene due lezioni già pubblicate nella Raccolta delle lezioni del Varchi, fatta dai
Giunti in Firenze nel 1590 e sono la prima e la terza sulla Poetica a pag. 593 e 628. No-
mino questo ms. perché la prima lezione è scritta di mano d’Alessandro Allori figlio di
Cristofano, che quantunque assai più giovane del Varchi, siccome nato circa il 1535 era
nulladimeno suo grandissimo amico; onde il Varchi medesimo a lui indirizza il Sonetto
Caro Alessandro mio, che al primo fiore. E siccome l’Allori era assai culta persona, come
apparisce dal suo Dialogo sull’arte del disegnare, stampato in Firenze nel 1590, potrebbe
la di lui corretta copia essere un giorno di qualche utilità a chi volesse intraprendere la
ristampa della Lezioni del Varchi divenute già molto rare. […] Le due del primo ms.
sembrano copie fatte dopo la recita, accennandovisi l’anno e il giorno, in cui furono re-
citate nell’Accademia Fiorentina» (pp. 29-45). Credo di poter identificare questo mano-
scritto con l’Ashb. 674, vol. II, della Biblioteca Laurenziana di Firenze, che contiene la
prima lezione sulla poesia alle cc. 39r-60r e la terza alle cc. 69r-104r. Vi si legge infatti,
depennata, all’inizio della prima lezione, la nota di possesso di Alessandro Allori. La li-
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 141

Il manoscritto in questione è da identificarsi con quello raccolto


nel ms. B.P. 1830 della Biblioteca Comunale di Padova, che risul-
ta dall’assemblaggio di codici diversi operato verso la metà del-
l’Ottocento. Esso infatti corrisponde in ogni punto con le caratte-
ristiche elencate da Clasio, in particolare per quanto riguarda le
correzioni autografe, che nella stampa del 1807 sono virgolettate.
La lezione di Varchi si trova alle cc. 55r-80r9. Oltre al codicetto
con la lezione grammaticale, possiamo identificarvi anche il codi-
ce di cui Clasio dà notizia poco dopo come un manoscritto a sé:
Passo al quarto manoscritto, che è una collezione di scritti d’autori diver-
si. Prima di ragionare di alcune cose del Varchi, che si trovano in fondo
del libro, stimo opportuno l’accennare una Lezione del celebre Ugolino
Martelli sopra il primo sonetto del Bembo Piansi e cantai la quale è nel
principio. Essa per testimonianza del manoscritto fu letta la terza dome-
nica di settembre del 1540 essendo principe M. Giovanni Cornaro. […]
Due Lezioni del Varchi si trovano nel manoscritto. La prima è sopra il so-
netto del Bembo A questa fredda tema ecc. da me poco fa mentovata, ed è
nella raccolta dei Giunti. La precedono due sonetti, il primo di Daniello
Barbaro al Varchi, l’altro del Varchi in risposta al Barbaro; e si leggono
nella seconda parte de’ Sonetti del Varchi stampati dal Torrentino a p.
161. L’altra lezione è sopra il sonetto della Gelosia stimato uno de’ più
belli del casa, e fue letta pure nella stessa Accademia di Padova. È nella
raccolta giuntina a p. 290, ma osservo che nel manoscritto la lezione ter-
mina con queste parole: Ringraziando lui che tutto sa, e tutto può, farò fi-
ne, le quali si leggono alla pagina 308 della precitata raccolta. Ma nella
stampa seguita una specie di secondo capitolo, che in fronte porta la que-
stione: se la Gelosia può essere senza biasimo.

Nel manoscritto padovano troviamo infatti all’inizio, come detto

breria di Giuseppe Pucci fu acquistata nel 1840 da Guglielmo Libri che, dopo averla
per alcun tempo data in custodia a Gino Capponi e dopo alcuni tentativi di vendita an-
dati a vuoto, la vendette a Lord Ashburnam nel 1847 (cfr. la Relazione alla Camera dei
Deputati e Disegno di legge per l’acquisto di codici appartenenti alla Biblioteca Ashbur-
nam descritti nell’annesso Catalogo, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati 1884,
p. 2). Il codice Ashb. 674 fu segnalato da BERNARD WEINBERG, Nuove attribuzioni di
manoscritti di critica letteraria del Cinquecento, «Rinascimento», 1952 (III), pp. 245-59
che, senza metterlo peraltro in relazione con quello segnalato dal Clasio, evidenziava
una nota di mano posteriore la quale ipotizzava l’autografia di Varchi, invece evidente-
mente da escludersi. Ma sulla tradizione manoscritta e a stampa di questi testi tornerò
nell’edizione delle lezioni varchiane, alla quale attendo.
9. Una descrizione del ms. in ANTONIO DANIELE, Sperone Speroni, Bernardino Tomi-
tano e l’Accademia degli Infiammati di Padova, «Filologia veneta», II (1989), pp. 1-55.
142 ANNALISA ANDREONI

da Clasio, la lezione del Martelli e alla fine le due lezioni var-


chiane, quella sul Bembo preceduta dallo scambio di sonetti col
Barbaro e quella sulla Gelosia priva dell’appendice che risale
probabilmente ad una decina di anni dopo10.
Clasio pubblicava, nella stessa occasione, anche una lettera di
Varchi sulla grammatica a destinatario ignoto11, così descriven-
do il codice da cui la traeva:
Il terzo manoscritto è un libretto in 4° piccolo, di antica legatura in carta-
pecora, nella di cui costola per la lunghezza è scritto in caratteri capitali,
molto consunti è vero, ma che si leggono ancora comodamente: Gramatica
V. del Varchi. Nella carta bianca, che precede l’opera, si trova: Di Giulio
de’ Nobili; e il carattere con che è scritto il nome di questo possessore del
libro è simile al carattere della costola, come apparisce massimamente dal-
le lettere compagne, per esempio dalla L. formata a modo d’asta verticale,
senza l’annesso del tratto orizzontale. […] Il carattere è certamente del se-
colo XVI, ma resto nell’incertezza s’egli sia di mano del possessore Giulio
de’ Nobili […] Nello stesso manoscritto segue collo stesso carattere una
lettera senza direzione, di pagine 22, che comincia: Voi mi domandate non
qual sia veramente il modo, la via, e l’ordine, col quale si debba insegnare la
Grammatica Latina, ma quale io credo che sia, secondo il giudizio mio.

Si tratta del manoscritto della Biblioteca Medicea Laurenziana


di Firenze Ashb. 597, posseduto da Giulio de’ Nobili, in cui alle
pp. 1-102 è contenuta una grammatica del Varchi che tratta in
particolare della lingua latina12, e alle pp. 103-24 la lettera gram-
maticale in questione13.
Due delle restanti lezioni grammaticali furono in seguito rico-
nosciute dal Clasio in un codicetto con correzioni autografe
conservato presso la Biblioteca del Seminario Fiorentino, e pub-
blicate negli Opuscoli del 1809 e nella Collezione del 181014:

10. Cfr. in proposito ANNALISA ANDREONI, Benedetto Varchi all’Accademia degli In-
fiammati. Frammenti inediti e appunti sui manoscritti, di prossima pubblicazione su
«Studi Rinascimentali».
11. Lettera di M. Benedetto Varchi tratta da un ms. esistente nella Libreria del Sig.
Marchese Cav. Giuseppe Pucci (lettera sulla grammatica), in Opuscoli inediti…, pp. 82-
92 e in Collezione d’opuscoli…, vol. II, pp. 46-56.
12. Per una analisi cfr. BONOMI, Giambullari e Varchi…, p. 77.
13. BONOMI, Giambullari e Varchi…, propende, pur in assenza di prove precise, per
una datazione bassa della ‘lettera’.
14. Lezione di Benedetto Varchi, nella quale si ragiona dei tempi dei verbi: letta da lui
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 143

Ora per somma gentilezza del Ch. Sig. Piovano Antonio dell’Ogna Retto-
re del Seminario Fiorentino ho avuto la sorte di trascrivere da un Codi-
cetto della Libreria del suddetto Seminario due altre Lezioni del medesi-
mo Varchi, che senza dubbio appariscono di quella prima sorelle. Il Codi-
ce è composto di soli 24 fogli o carte, e non contiene che queste due Le-
zioni, la prima delle quali in questo Volume si pubblica, l’altra che ha per
titolo, Discorso sulle lingue, si riserba al Volume seguente: ed esse Lezioni
hanno i pentimenti di mano del Varchi, come gli ha l’altra della Pucciana,
già resa pubblica colle stampe15.

Infine, una lezione ancora inedita è contenuta nel Magl. VI 168


della BNCF, e vede la luce in appendice a questo lavoro. L’esa-
me dei manoscritti rivela che le tre lezioni pubblicate dal Clasio
e quest’ultima inedita sono dovute allo stesso copista e sono tut-
te corrette personalmente dal Varchi, quindi con buona proba-
bilità si tratta di copie eseguite unitariamente e a ridosso della
lettura.
Sull’ordine di successione delle lezioni Clasio non si pronun-
ciò ma un’ipotesi è stata fatta in tempi recenti da Ilaria Bonomi.
Tenendo ferma la collocazione della lezione inedita, che porta il
titolo Lezzione seconda, la studiosa ritiene quarta la lezione pub-
blicata per prima dal Clasio, e rispettivamente prima e terza
quelle tratte dal codice del Seminario Fiorentino. Tale ipotesi si
basa sull’edizione del Clasio che, come abbiamo visto, pubblica
il testo del codice del Seminario come due lezioni distinte. Un
esame del manoscritto da lui utilizzato e del contenuto delle le-
zioni induce però a trarre conclusioni differenti.
Il codice, che si trova tuttora nella Biblioteca del Seminario

pubblicamente nell’Accademia Fiorentina la seconda Domenica di Dicembre l’anno


1551. Da un codicetto ms. della Libreria del Seminario di Firenze, in Opuscoli inediti
di celebri autori toscani […], Firenze, Stamperia di Borgo Ognissanti, a c. di LUIGI
CLASIO, vol. II, pp. 138-53; Discorso sopra le lingue di M. Benedetto Varchi. Tratto da
un Codice ms. della Libreria del Seminario di Firenze, ivi, pp. 154-66; rispettivamente
anche in Collezione d’opuscoli scientifici e letterari ed estratti d’opere interessanti, Fi-
renze, Stamperia Borgo Ognissanti, vol. XI, pp. 40-55 e ivi, vol. XII,
pp. 3-15.
15. LUIGI CLASIO, Notizia della lezione del Varchi, che qui si pubblica, in Collezione
d’opuscoli scientifici e letterari ed estratti d’opere interessanti, Firenze, Stamperia Bor-
go Ognissanti 1810, voll. XI, XII, pp. 37-9, p. 37; anche in Opuscoli inediti di celebri
autori toscani […], Firenze, Stamperia di Borgo Ognissanti 1809, a c. di LUIGI CLA-
SIO, vol. II, pp. 135-7.
144 ANNALISA ANDREONI

Arcivescovile Maggiore di Firenze, con segnatura A VI 30, sem-


bra infatti contenere in realtà una sola lezione, che porta l’intesta-
zione Lezione di Benedetto Varchi, nella quale si ragiona de i tempi
de i verbi, letta da lui pubblicamente nell’Accademia Fiorentina, la
seconda Domenica di Dicembre, l’anno 1551. Essa è divisa in se-
zioni che portano il titolo Il Proemio, Se il tempo è o no, Che cosa
il tempo sia. Di seguito e nella stessa carta segue uno scritto dal ti-
tolo Discorso sopra la lingue, costituito da una breve trattazione fi-
losofica sulla natura delle lingue e da cinque Avvertimenti.
Ora, una attenta lettura del Discorso sopra le lingue e della Lez-
zione seconda evidenzia una forte similarità negli argomenti tratta-
ti. La cosa non è mai stata osservata, sorprendentemente, ma si ri-
scontrano riprese precise persino nel dettato del testo. Vediamo
la questione nei particolari.
Nel Discorso sopra le lingue, dopo la digressione filosofica
sulla natura delle lingue, leggiamo la seguente notazione:
Laonde noi (per ubbidire a chi di ciò più certamente per onorarne, che
per bisogno, che egli n’havesse, ci richiese) ragionaremo distesamente, e
con maggiore chiarezza, che saperremo di tutti i tempi de’ verbi nelle tre
più belle lingue, che hoggi fioriscano, ponendo dove ci parrà a proposito
prima (per essere meglio intesi) la Latina, come quasi figliuola della greca,
e madre della toscana […] E per procedere più distintamente, dichiarere-
mo prima che siano i tempi e quanti secondo i Gramatici, poi favelleremo
di tutti quanti a uno a uno avvertendovi però, che se bene per esser intesi
da ognuno c’ingegnaremo d’essere agevoli, non ci curando del fastidio nè
nostro, nè d’altrui, non perciò saremo intesi in molte cose, se non da co-
loro, i quali haranno almeno i principi della lingua Greca, e della Latina.
Ma innanzi che venghiamo a’ particolari ci pare necessario per agevolare
questa materia avvertirne alcune cose generalmente intorno la differenza,
che in queste tre lingue si truova nel diclinare, e piegare i verbi: ma prima
bisogna presupporre che favellando noi dei verbi personali e non degli
impersonali, i quali non hanno né numero né persona, eglino si diclinano,
ovver torcano o attivamente […] o passivamente […]16.
Varchi annuncia dunque che – in quest’ordine – fornirà degli av-
vertimenti sulla diversità delle coniugazioni verbali nelle tre lin-
gue, poi parlerà di quali e quanti siano i tempi secondo i gramma-
16. Biblioteca del Seminario Arcivescovile Maggiore, Firenze, ms. A VI 30, [cc. 15v-
16v]. Ringrazio la dott. ssa Elena Gurrieri per avermi agevolato, con gentilezza e com-
petenza, lo studio del codice.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 145

tici, infine tratterà di tutti i tempi nelle tre lingue, la greca, la lati-
na e la volgare. In realtà, per prima cosa, egli svolge una premessa
di carattere generale, sui verbi personali e impersonali, sulle dia-
tesi attiva, media e passiva, e sul numero singolare, duale e plura-
le. Dopo ciò, con la formula di passaggio «ma venghiamo oggimai
agli avvertimenti promessi», fornisce cinque ‘avvertimenti’ nei
quali svolge un confronto fra le tre lingue a proposito della ric-
chezza delle forme – e il toscano viene giudicato meno ricco per-
ché deve ricorrere alle forme composte con l’ausiliare –, delle dif-
ferenze nella declinazione – in particolare della presenza nel gre-
co dell’aumento e del raddoppiamento –, dell’uso di medesime
voci per persone e modi diversi e della presenza di verbi difettivi.
Lo scritto si interrompe qui, senza essere neppure arrivato a trat-
tare di che cosa siano i tempi, e si conclude con le parole: «Ma
venghiamo oramai alla promessa principale, nella quale per cagio-
ne delle cose dette potremo essere e più brevi, e meglio intesi».
Nella Lezzione seconda, dopo il proemio, sono ripresi, quasi
con le stesse parole, gli intendimenti già dichiarati nel Discorso
sopra le lingue:
L’intendimento nostro è (come nella precedente lezione si disse) favellare
di tutti i tempi, de i verbi così greci, e latini, come Toscani, con quella se
non brevità, certamente agevolezza, che saperremo maggiore. Ma per che
queste tre lingue si come hanno molte cose somiglianti l’una a l’altra, così
n’hanno ancora molte dissomiglianti, per ciò havemo pensato di dovere
alcuni avvertimenti porre, innanzi, che a trattare particolarmente de’ tem-
pi venghiamo, ma prima, che tali avvertimenti poniamo, è se non necessa-
rio, senza dubbio utilissimo ragionare per maggiore chiarezza di tutti i
verbi generalmente.
Anche in questo caso Varchi annuncia di voler trattare di tutti i
tempi, come promesso, e di voler anteporre degli ‘avvertimenti’,
ma a ciò egli premette una breve introduzione sui verbi in gene-
rale. In questa premessa tratta di nuovo, ma più distesamente,
dei verbi personali e impersonali, delle diatesi, delle coniugazio-
ni, dei modi, dei numeri e delle persone. Gli ‘avvertimenti’ sono
qui in numero di sette. I primi due sono aggiunti ex novo, ma
dal terzo in poi ripetono quasi con le stesse parole quanto già
detto negli avvertimenti del Discorso sopra le lingue: svolgono un
confronto fra le tre lingue sulla forma attiva e passiva, sulla mi-
146 ANNALISA ANDREONI

nore ricchezza del Toscano che deve ricorrere alle forme compo-
ste con il verbo essere nel perfetto e nel piuccheperfetto, sulle
differenze nella declinazione, per cui il greco, diversamente dal
latino e dal toscano, non solo muta le desinenze ma impiega
l’aumento e il raddoppiamento, e infine sull’uso di voci uguali
per varie persone e sull’esistenza di verbi difettivi. A questo
punto Varchi prende congedo, poiché il tempo a disposizione è
scaduto. Anche in questa lezione dunque manca la trattazione
particolare dei tempi, anzi alla fine Varchi promette ancora una
volta di svolgerla nella lezione successiva:
E so ben, anch’io, che queste sono cose basse, e che s’apparano tra i pri-
mi principii nelle squole. Ma qualunche siano, bisogna intendere la mate-
ria de i tempi, della quale (per non infastidire hoggi più lungamente l’hu-
manissime cortesie vostre, le quali humilmente ringrazio) vedremo di for-
nire la domenica vegnente senza alcun fallo.

Vi è dunque una sovrapposizione di contenuto tra la parte inti-


tolata Discorso sulle lingue e la Lezzione seconda, che è comun-
que molto più ampia e dettagliata. Come spiegarla? Mi sembra
decisamente da escludere che Varchi abbia esposto gli stessi
concetti per esteso due volte di seguito. In realtà, il Discorso so-
pra le lingue sembra non essere affatto una lezione accademica,
come si è fin qui ritenuto sulla scia del Clasio, bensì uno scritto
autonomo composto con buona probabilità contestualmente
alle lezioni grammaticali vere e proprie. Esso, che pure è cor-
retto personalmente dal Varchi, manca infatti di un proemio,
come invece avviene normalmente nelle lezioni, e non vi sono
riferimenti espliciti al console e agli ascoltatori. Troviamo solo
alcuni accenni più generici al compito che Varchi aveva ricevu-
to di trattare dei tempi dei verbi nelle lingue greca, latina e to-
scana. Non sarebbe un caso isolato. Anche il Discorso della bel-
lezza e della grazia, come ho mostrato in altra sede, costituisce
in realtà uno scritto destinato alla circolazione privata e non
una lezione accademica come accreditato indebitamente dalla
tradizione a stampa delle opere varchiane17. D’altra parte, la

17. Cfr. ANNALISA ANDREONI, Questioni e indagini per l’edizione delle Lezioni accade-
miche, in Benedetto Varchi nel quinto centenario della nascita (1503-1565), Atti del Con-
vegno di Firenze, 16-17 dicembre 2003, di prossima pubblicazione.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 147

stessa titolazione di Discorso indica una tipologia distinta dalla


lezione accademica, della quale non mancano certo precedenti
(basti pensare al Discorso sopra la nostra lingua di Machiavelli).
L’ipotesi più plausibile mi sembra dunque che Varchi non ab-
bia pronunciato il Accademia il testo del Discorso sopra le lin-
gue, ma ne abbia invece riutilizzato gli argomenti nella seconda
lezione, ampliandoli e corredandoli di una gran numero di
esempi nelle tre lingue.
La restante lezione, quella pubblicata per prima da Clasio,
nella mia ricostruzione viene a essere la terza, poiché sembra te-
nere dietro alla seconda: dopo un lungo proemio, Varchi giunge
finalmente, come più volte promesso, alla spiegazione dei vari
tempi in tutti i modi, ossia del presente, dell’imperfetto e del
perfetto nell’indicativo, imperativo, ottativo, congiuntivo e infi-
nito18. A questo punto il testo della lezione pubblicato dal Cla-
sio si interrompe senza alcuna formula di commiato, ed è lecito
pensare che Varchi proseguisse con gli altri tempi, ossia con il
piuccheperfetto e con il futuro, e dunque ipotizzare la perdita
della parte finale della lezione.
Abbiamo in questo modo tre lezioni, anziché quattro. Per
l’ultimo incontro registrato dagli Atti credo che possiamo pensa-
re a una lettura in due tempi della terza lezione, piuttosto lunga
e molto tecnica – dunque non facilmente riassumibile – che po-
trebbe aver richiesto più tempo del previsto. Sembra accordarsi
con questa ipotesi anche la notazione degli Atti che riporta:
«Addì 27 detto. Lesse publicamente M. Benedetto Varchi sopra
la medesima materia della gramatica Toschana. Addì 3 di gen-
naio. Lesse publicamente M. Benedetto Varchi sopra la medesi-
ma materia et in tale dì la fornì»19.
Sotto il profilo strettamente grammaticale queste lezioni di

18. «Laonde devendo io, per ubbidire a chi, e come doveva, ragionare d’alcuna cosa
in questo luogo, e conoscendo, che niuno può ornatamente, favellare, il quale prima
correttamente non favelli, il che è solo ufizio (come s’è più volte detto) del grammati-
co, presi donche a trattare de’ tempi di tutti i verbi, nella cognizione de’ quali non
picciola parte consiste della Grammatica, la qual materia, Uditori benignissimi, col-
l’aiuto, e favore prima di Dio, e poscia di voi c’ingegnaremo finalmente di spedire og-
gi» (Lezione di M. Benedetto Varchi estratta da un ms. della Libreria del Sig. March.
Cav. Giuseppe Pucci…., pp. 51-2).
19. BMF, ms. B III 52, c. 73r.
148 ANNALISA ANDREONI

Varchi sono già state più volte esaminate20. In questa sede con-
verrà sottolineare che la Lezzione seconda qui pubblicata è di
particolare interesse perché Varchi, negando la possibilità di
«succiare col latte l’eloquenza» – con un’espressione già utilizza-
ta nell’orazione Nel pigliare il consolato – proponeva l’esempio
del Bembo e accusava i fiorentini del tempo di essersi allontanati
dalla «dolcezza et purità del Boccaccio», «propietà e leggiadria
del Petrarca», ma anche dalla «gravità et grandezza di Dante»:
Ma che vo io essempi tanto antichi, e tanto lontani ricercando, quasi non
havessimo ne’ nostri giorni veduto (per tacer gli altri) il R.mo Mon.re M.
Pietro Bembo, il quale di dottrina hebbe pochi pari, d’eloquenza pochis-
simi e di giudizio nessuno, havere sì altamente scritto e sì dottamente, an-
cora che Viniziano, della gramatica Fiorentina? […] Ma ben so, che noi
(mentre diamo a credere di succiare insieme col latte l’eloquenza, e che il
cielo di Toscana, standoci noi con le mani a cintola, la ci debba infondere
mentre dormiamo) semo tanto nello scrivere da quella dolcezza, e purità
del Boccaccio, da quella propietà21 e leggiadria del Petrarca, e finalmente
da quella gravità e grandezza tralignati di Dante, che molti dei forestieri,
quando degli scritti nostri così di prosa leggono come di versi, si pensano
fermamente con gran biasimo e vergogna di noi, o che questa non sia
quella Firenze, nella cui lingua scrissero quei tre primi padri e maestri no-
stri o che se pure quella è, habbia la sua favella (come ancora a Roma ad-
divenne) mutata22.

Varchi insisteva poi sulla rilevanza dell’argomento grammaticale,


perché non fosse giudicato minore dagli ascoltatori:
L’ultimo fine e la somma perfezzione dell’huomo, cioè la felicità, la beati-
tudine nostra, non consiste in altro che in intendere e contemplare Dio.
Dio intendere senza le scienze non si può. Le scienze hanno bisogno della
loica, la loica presuppone necessariamente la gramatica. Dunque dal pri-
mo all’ultimo (come si dice loicamente) la perfettione e felicità nostra,
cioè la beatitudine humana, senza la gramatica non può conseguirsi. La
qual cosa fa che io più prontamente e con più lieto animo vengo a trattar-
ne senza temere i morsi e le riprensioni di coloro i quali, giudicando per

20. La Lezzione seconda è stata di recente esaminata, sotto il profilo del modello
grammaticale adottato nella classificazione dei modi e dei tempi, da MARASCHIO, Il
pensiero linguistico…, che la confronta con le opere grammaticali di Leon Battista Al-
berti, Claudio Tolomei, Pierfrancesco Giambullari, Giorgio Bartoli, Leonardo Salviati.
21. Depennato: ‘castità’.
22. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. VI 168, cc. 252-3.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 149

avventura la mia dalla loro dottrina, pensavano che io di cose troppo più
alte e più malagevoli che queste non sono trattare dovessi.

E proprio in questa seconda lezione Varchi si esprimeva su uno


dei motivi della sua lunga assenza dalla cattedra accademica,
cioè la volontà di non esprimere opinioni che sarebbero suonate
massimamente spiacevoli agli uditori, cosa dalla quale non
avrebbe potuto trattenersi se avesse preso parola:
E ben so dove e a cui queste cose favello, ma la libertà che si tira dietro
questo celebratissimo luogo e l’ufizio di chiunche sopra questa honorata
cattedra saglie, non solo m’invitano e m’assicurano, ma mi sforzano a dire
quello che io per non dire sono già più anni stato senza salirci, nè minore
autorità o men dolce forza bisognavano a farmi il proponimento mio mu-
tare, che quelle d’un consolo così fatto.

Evidentemente, l’elezione al consolato di Francesco Torelli ave-


va reso possibile le condizioni perché Varchi, dopo anni di as-
senza, tornasse a parlare in Accademia. E l’argomento gramma-
ticale gli offriva l’occasione per ribadire la sua scelta di campo in
merito alla questione linguistica. Nelle terza lezione, infatti, do-
vendo citare chi avesse scritto correttamente nella lingua tosca-
na, Varchi oltre al Bembo ricordava Sannazaro, Molza, Trissino,
Giulio Camillo e tra i fiorentini il solo Giovanni della Casa:
La quale [grammatica latina] come presuppone la greca, così è presuppo-
sta dalla toscana, onde come niuno non può sapere perfettamente latino,
il quale non sappia greco, così niuno può toscanamente intendere il quale
latinamente prima non intenda, il che ne dimostrano tutti coloro, i quali
lodatamente hanno scritto nella favella toscana, come, per tacere de’ vivi,
si può vedere favellando de’ moderni, nel Sannazzaro, nel Molza, nel Tris-
sino, in M. Giulio Cammillo, e, <massimamente> nel capo e principe di
tutti <gli altri>, cioè nel Bembo, al quale chi più vicino s’accostarà, tanto,
s’io non sono errato, sarà riputato più degno di maggior gloria, come si
conosce dei forestieri in alquanti, alcuni de’ quali veggio [con cortesia]
sedere in questo luogo per onorarmi, e de’ nostri in monsignor della Casa
solo23.

La citazione del Casa è rilevante anche perché testimonia una


forte consonanza tra i due all’inizio degli anni Cinquanta, conso-
23. Lezione di M. Benedetto Varchi estratta da un ms. della Libreria del Sig. March.
Cav. Giuseppe Pucci …., p. 54.
150 ANNALISA ANDREONI

nanza che sarebbe stata ribadita alcuni anni più tardi, in occa-
sione della pubblicazione dell’edizione veneziana Pietrasanta dei
Sonetti (1555), in una situazione difficile come quella della guer-
ra di Siena e nonostante l’aperta militanza antimedicea del Casa.
In quell’occasione, infatti, Varchi avrebbe affidato a Giorgio
Benzone il compito di dedicare a suo nome al monsignore una
raccolta poetica che, sotto la marca tipografica di Torrentino,
aveva poco prima personalmente offerto a Francesco de’
Medici24.

24. Converrebbe forse approfondire meglio la questione della doppia dedica, che mi
sembra tuttavia indicativa di un atteggiamento molto libero da parte di Varchi e direi
anche di un tentativo di smarcarsi dalla tutela medicea, riallacciandosi alla linea politi-
co-culturale di Bembo e della Casa.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 151

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magl. VI 168,


cc. 251r-274r25

Lezzione seconda

Il proemio

Tutti coloro che mai operarono o nell’arti o nelle scienze cosa al-
cuna perfettamente hebbero sempre, dottissimo e prudentissimo
Consolo, ingegnosissimi e virtuosissimi Accademici e voi tutti,
nobilissimi e cortesissimi ascoltatori, dinanzi a gli occhi, per re-
gola e maestra dell’opere loro, la maestra e la regola di tutte le
cose, cioè la natura, l’ordine della quale è che dalle cose prime e
meno perfette a l’ultime e più perfette si saglia e proceda di ma-
no in mano. Laonde tutti coloro che edificare vogliono gettano
la prima cosa i fondamenti, senza i quali vana sarebbe e del tutto
inutile ogni fatica, spesa e industria loro. Anzi, quanto più disi-
dera ciascuno di fare edifizii o maggiori o più durevoli, tanto fa i
fondamenti e migliori e più gagliardi. Similemente coloro i quali,
con incredibile lode loro e ineffabile utilità nostra, furono delle
scienze ritrovatori instituirono, l’ordine della natura giudiziosa-
mente seguendo, che quelle arti, le quali meritamente sono chia-
mate liberali, dalla gramatica incominciare si devessero, la quale
altro non è propiamente che una, non dico nè arte nè scienza,
ma facultà, la quale come correttamente favellare si debba n’in-
segna. Nè intendo in questo luogo più della gramatica greca o
Latina che della Toscana, ma di tutte generalmente, percioché
tutte le lingue hanno la lor gramatica e in tutte è necessario, a
chi saperla vuole, impararla, se già non credessimo, uditori giu-
diziosissimi, quello essere vero che alcuni usano di dire e cioè
che le lingue le quali si favellano, non nelle squole da’ maestri nè
25. Copia con correzioni autografe Varchi. Ho rispettato la grafia (ma ho reso l’usci-
ta ij con ii) mantenendo generalmente le oscillazioni tra scempie e doppie e tra scri-
zione unita e staccata (ho tuttavia generalizzato la scrizione unita nei casi delle con-
giunzioni cioé, perché, perciò, benché, conciosiaché, percioché, nonché). Ho sciolto le
poche abbreviazioni, ho modernizzato l’uso delle maiuscole, degli accenti, degli apo-
strofi (ho adottato però l’accento grave nella congiunzione negativa nè, che rispecchia
l’antica pronuncia aperta della vocale, testimoniata dallo stesso Varchi, cfr. VARCHI,
L’Hercolano…, p. 745) e dell’interpunzione.
152 ANNALISA ANDREONI

per l’Accademie da i leggitori industriosamente s’apparino, ma


nelle culle dalle balie e per le ville da’ contadini impensatamente
s’apprendano; nè niego io che da gli huomini delle ville e dalle
nutrici nostre medesime non impariamo di favellare, ma che di
correttamente favellare appariamo, questo nego. Perché se così
fosse, non bisognava che Aristoti(252)le (del quale huomo, se
pur huomo chiamar si dee, non fu mai alcuno nè più dotto nè
più giudizioso nè forse più eloquente in quel tempo che la lin-
gua greca felicissimamente fioriva nel mezzo de la Grecia, anzi
d’Atene stessa) scrivesse, non solo nella Rettorica e nella Poetica,
ma ancora in altri libri particolari, così minutamente e così dili-
gentemente della gramatica. Il medesimo fece ne’ tempi medesi-
mi e ne’ medesimi luoghi Platone, il quale come veramente fu
così è ancora hoggi meritamente e sarà sempre chiamato divino.
E chi non sa (per non dire di Palemone e di tanti altri innanzi a
lui) che Quintiliano, homo dottissimo, giudiziosissimo e elo-
quentissimo fu (mentre che via più fioriva la lingua latina in Ro-
ma che non fa hoggi la toscana in Firenze) fu, dico, maestro di
squola e insegnò (ancora che spagnolo fosse) non dico nel Lazio,
ma in Roma stessa, la gramatica latina a’ Romani medesimi? Ma
che vo io essempi tanto antichi e tanto lontani ricercando, quasi
non havessimo ne’ nostri giorni veduto (per tacer gli altri) il
R.mo Mon.re M. Pietro Bembo, il quale di dottrina hebbe pochi
pari, d’eloquenza pochissimi e di giudizio nessuno, havere sì al-
tamente scritto e sì dottamente, ancora che viniziano, della gra-
matica fiorentina? E con tutto ciò io per me, che pure fui nato e
cresciuto in Firenze anch’io e che ho molto più anni in essa che
nella greca speso e nella latina, confesso ingenuamente di non
saperla. Ma ben so che noi (mentre diamo a credere di succiare
insieme col latte l’eloquenza e che il cielo di Toscana, standoci
noi con le mani a cintola, la ci debba infondere mentre dormia-
mo) semo tanto nello scrivere da quella dolcezza e purità del
Boccaccio, da quella propietà e leggiadria del Petrarca e final-
mente da quella gravità e grandezza tralignati di Dante, che mol-
ti de i forestieri, quando de gli scrit(253)ti nostri così di prosa
leggono come di versi, si pensano fermamente, con gran biasimo
e vergogna di noi, o che questa non sia quella Firenze nella cui
lingua scrissero quei tre primi padri e maestri nostri o che se,
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 153

pure quella è, habbia la sua favella (come ancora a Roma addi-


venne) mutata. La qual cosa nel vero non è, il che confessano
ancora essi, tosto che sentono i contadini nostri o noi medesimi
favellare; nè per questo intendo negare che di molte parole mu-
tate non si siano, che se ne sono, ma dico, prima, che alcune in
meglio mutate si sono, poi, che tante mutate non se ne sono che,
se bene l’hanno variata in alcuna parta, l’habbiano però mutata
del tutto. Ma due cagioni la colpa sostengono di questo fatto. La
prima delle quali è che a noi (per lo essere in ella nati e con lei
cresciuti) non pare haver bisognio d’altramente appararla, onde
scrivendo ciascuno come più gli piace, senza arte e senza imita-
zione o regola alcuna, venghiamo a scrivere ancora non solo sen-
za numeri e senza leggiadria, ma eziandio (il che comportare e
massimamente in questo luogo non si doverebbe) barbaramente
e a chi dicesse che a lui basta di favellare in modo che il volgo
l’intenda e esso lui si risponde che non a quello che si può, ma a
quello che si dee, si debbe risguardo havere, senza che non so io
quello che egli rispondere potesse a chi lui dimandasse perché
mangiare come il volgo, vestire come il volgo e finalmente vivere
come il volgo non si contenta. Oltra ciò, se quegli che alle gre-
che lettere o alle latine danno opera non altramente che da uno
scoglio da i barbarismi e dai sollecismi si guardano, anzi si fanno
beffe di tutti coloro i quali altri, che solo i più lodati scrittori,
non pure imitano, ma leggono, per qual cagione non devemo
guardarci noi e andare solo i più migliori imitando? E se essi
nell’altrui (254) lingue s’arrecano a gran vergogna l’errare pur
una volta sola, perché non devemo vergognarci noi d’errare nel-
la nostra ogni giorno mille? E ben so dove e a cui queste cose fa-
vello, ma la libertà che si tira dietro questo celebratissimo luogo
e l’ufizio di chiunche sopra questa honorata cattedra saglie non
solo m’invitano e m’assicurano, ma mi sforzano a dire quello che
io, per non dire, sono già più anni stato senza salirci, nè minore
autorità o men dolce forza bisognavano a farmi il proponimento
mio mutare che quelle d’un Consolo così fatto. Ma venghiamo
alla seconda cagione, la quale è che il nome del gramatico, il
quale non meno onorato che premiato essere doverebbe, è hoggi
dì in così picciolo pregio e in tanto poca stima venuto che gli
huomini d’essere chiamati gramatici si vergognano e pochissimi
154 ANNALISA ANDREONI

sono coloro i quali scrivere o ragionare di gramatica cosa bassa e


vile e del tutto indegna non riputino, non sappiendo o non si ri-
cordando che, oltra a coloro i quali pur testé nominai, e ciò fu-
rono Aristotile e Platone e Quintiliano e il Bembo, Galeno altre-
sì, il quale la vera via insegnò della medicina, fra tante sue cure
della gramatica ancora, non meno diligentemente nè meno lun-
gamente che dell’altre scientie, scrisse e compose. Ma che dire-
mo, che Giulio Cesare, il quale come a tutti gli altri soprastette
nell’armi così a niuno fu nelle lettere inferiore, in quel tempo
della gramatica latina trattò nel quale non meno le lettere che
l’armi romane erano a grande honore poco meno sparse che per
tutto il mondo? E affine che niuno pensi ciò essere stato da tali
huomini e tanti temerariamente fatto e senza giustissima cagio-
ne, devemo sapere che la felicità humana senza la gramatica con-
seguire non si puote, la qual cosa in questo modo brevemente si
pruova. L’ultimo fine e la somma perfezzione dell’huomo, cioè
la felicità e (255) la beatitudine nostra, non consiste in altro che
in intendere e contemplare Dio. Dio intendere senza le scienze
non si può, le scienze hanno bisogno della loica, la loica presup-
pone necessariamente la gramatica. Dunque dal primo all’ultimo
(come si dice loicamente) la perfettione e felicità nostra, cioè la
beatitudine humana, senza la gramatica non può conseguirsi. La
qual cosa fa che io più prontamente e con più lieto animo vengo
a trattarne senza temere i morsi e le ripre<n>sioni di coloro i
quali, giudicando per avventura la mia dalla loro dottrina, pen-
savano che io di cose troppo più alte e più malagevoli che queste
non sono trattare dovessi. Ma posto fine hoggimai, uditori beni-
gnissimi, a così lunga, ma non forse impertinente prefazione, da-
remo principio, coll’aiuto di Dio e favore vostro, a quanto inten-
diamo hoggi di dover dire.

L’intendimento nostro è (come nella precedente lezzione si


disse) favellare di tutti i tempi, de i verbi così greci e latini come
toscani con quella se non brevità, certamente agevolezza che sa-
perremo maggiore. Ma perché queste tre lingue, sì come hanno
molte cose somiglianti l’una a l’altra così n’hanno ancora molte
dissomiglianti, perciò havemo pensato di dovere alcuni avverti-
menti porre, innanzi che a trattare particolarmente de’ tempi
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 155

venghiamo. Ma prima che tali avvertimenti poniamo è, se non


necessario, senza dubbio utilissimo ragionare per maggiore chia-
rezza di tutti i verbi generalmente.
Divisione de i verbi
Devemo dunque sapere che i verbi si dividono principalmen-
te in due parti, percioché alcuni d’essi si chiamano personali e
alcuni impersonali.
(256) De’ verbi impersonali.
I verbi impersonali sono quegli i quali non hanno, o più tosto
non pare che habbiano, nè persone nè numeri, onde così chiama-
re innumerali come impersonali si potevano. E sono di due ma-
niere, percioché alcuni sono impersonali di voce attiva, e questi
sono tutti quegli i quali forniscono come la terza persona singula-
re de’ verbi attivi, così appresso i Greci e Latini come Toscani.
Alcuni sono impersonali di voce passiva, e questi sono tutti que-
gli che forniscono come la terza persona singulare de’ verbi pas-
sivi, così appresso i Greci come i Latini, ma i Toscani avanzano in
questo (come di sotto si vedrà) così i Latini come i Greci.
De’ verbi personali
I verbi personali sono quelli i quali hanno i numeri e le perso-
ne, e in ciascuno d’essi si possono, anzi si debbono considerare
appresso tutte le lingue otto cose, chiamate da i Greci conse-
guenti e da’ Latini accidenti, le quali sono queste:
Genere o vero Disposizione
Congiugazione
Modo
Tempo
Numero
Persona
Figura
Spezie
delle quali tutte favellaremo a una a una quanto ci parrà che alla
proposta materia convenga.
156 ANNALISA ANDREONI

1. Del Genere
I generi o vero disposizioni de i verbi sono cinque a novero,
perché ciascuno verbo è necessariamente o attivo o passivo o
neu(257)tro o comune (che i Greci chiamano medio, cioè mez-
zo) o diponente. Dove notaremo che per attivi intendiamo in
questa materia tutti quei verbi che attivamente si diclinano, cioè
così gli attivi come i neutri, e per passivi tutti quegli che passiva-
mente si diclinano, cioè passivi, comuni e diponenti.
2. Della Congiugazione
Quello uffizio che fanno le diclinazioni ne’ nomi fanno ne’
verbi le congiugazioni, le quali appresso i Latini sono quattro,
amâre, vidêre, lègere, audîre, onde hanno i Toscani senza alcun
dubbio le loro cavate: amare, vedere, leggere, udire. Appresso i
Greci sono tredici secondo l’uso comune e secondo Teodoro
due. Noi per hora le faremo tre, perché tutti i verbi greci forni-
scono o in o grande coll’accento grave, e questi si chiamano da
loro baritoni o vero gravisoni, cioè d’accento grave, o in o pur
grande, ma collo accento circonflesso, e questi si chiamano cir-
conflessi, o in questa sillaba mi, chiamati da loro per cotale ca-
gione i verbi in mi. Dove notarete che noi favellaremo principal-
mente de i tempi de i verbi baritoni o vero gravisoni, benché
trattandosi di questi si viene a trattare ancora di tutti gli altri,
conciosiacosaché l’intendimento nostro è dichiarare in questo
ragionamento la forza de’ tempi, non delle persone che ne’ tem-
pi si truovano.
3. Del Modo
I modi appresso tutte le lingue sono cinque, il primo de’ quali
è chiamato da’ Latini indicativo, cioè mostrativo, e da’ Greci difi-
nitivo e da altri narrativo; il secondo imperativo, cioè comandati-
vo; il terzo ottativo, cioè disiderativo, il quarto soggiuntivo o vero
congiun(258)tivo, il quinto e ultimo, il quale nel vero non è pro-
piamente modo, si chiama infinito cioè indefinito e indetermina-
to. De’ quali solo il primo è necessario appresso i filosofi, gli altri
non sono tanto per isprimere la verità, quanto per mostrarne le
varie disposizioni e diversi effetti degli animi nostri.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 157

4. Che cosa e quanti siano e come si chiamino i tempi


secondo i gramatici

I gramatici, i quali essendo artefici razionali non hanno a fa-


vellare delle cose ma delle parole, non dichiararono nè divisero
il tempo secondo la natura o l’essenza sua, ma secondo gli atti e
operazioni nostre, niuna delle quali si può fare in istante, cioè
senza tempo. Onde il tempo appo loro non è altro che una certa
propietà la quale è ne’ verbi di significare l’azzioni loro o le loro
passioni sotto alcun tempo, cioè nel presente o nel preterito o
nel futuro. Onde si vede manifestamente che i tempi principali
non sono se non tre: il preterito, che è quello il quale (come di-
mostra il nome) è passato, il futuro, che è quello il quale ha an-
cora a venire, e il presente, che è quello il quale è tra il passato e
l’avvenire, congiungendo e continovando l’uno coll’altro. Il pre-
sente non fu da niuna lingua nè si poteva dividere, il futuro non
fu da i Latini, per lo essere egli incerto, assai giudiziosamente di-
viso nè ancora da i Toscani. I Greci, che non lasciarono mai cosa
alcuna indietro che potesse aricchire e far grande la lingua loro,
lo divisero ne’ verbi passivi in due parti, come vedremo. Il prete-
rito perfetto, essendo certissimo, anzi non havendo noi cosa al-
cuna certa se non il passato, fu diviso da i Latini in tre parti: in
preterito imperfet(259)to o vero passato non compito, in prete-
rito perfetto o vero passato compito, e in preterito più che per-
fetto o vero passato più che compito. I Greci, oltra questi tre
tempi passati, n’hanno un’altro che essi chiamano aoristo, cioè
indefinito, o più tosto indeterminato, che così suona la voce gre-
ca, e è così chiamato perché significa il tempo passato senza al-
cuno termine, cioè senza aggiugnervi o poco o assai, come
e“ tuya, cioè verberavi, io battei, per che i Toscani hanno anch’es-
si gli aoristi, cioè cotali passati indeterminati, nè più nè meno
come i Greci. Onde potemo dire che i tempi in tutto sono sei:
presente, io amo, passato non compito, io amava, passato compi-
to di poco, io ho amato, aoristo o vero passato indeterminato, io
amai, passato compito d’assai, io haveva amato, e futuro, io
amarò. De’ quali per maggior chiarezza favellaremo poco di sot-
to a uno a uno, chiamandogli per essere più brevi e più distinti e
per consequente meglio intesi
158 ANNALISA ANDREONI

il tempo che corre


il tempo che correva
il tempo che è corso
il tempo che corse
il tempo che era corso e
il tempo che correrà.
5. Del Numero
De gli quattro accidenti passati niuno è il quale ne i nomi si
ritruovi, perché sono propii de’ verbi; i quattro che seguono si
ritrovano tutti ancora ne’ nomi da i quali non è dubbio che il
verbo dipenda, anzi sia (come di sopra fu detto) una cosa
me(260)desima. Hanno dunque da i verbi due numeri, quello
che significa uno solo, chiamato da’ Latini singulare e da noi il
numero del meno, e quello che significa più d’uno, chiamato la-
tinamente plurale e in toscano il numero del più. E di questi due
numeri così ne i nomi come ne i verbi si contentarono tutte le
lingue, solo i Greci (la qual cosa fu ritrovamento degli Ateniesi)
hanno oltra questi due, così ne i verbi come ne i nomi, un altro
terzo numero, chiamato da loro (perché significa due soli) il
duale. È ben vero che ne i verbi attivamente declinati non usano
mai la prima persona di questo numero, dicendo noi due battia-
mo, ma sempre la seconda e la terza dicendo voi due battete, co-
loro due battono, dove ne’ passivamente diclinati l’usano in tutte
e tre le persone, benché cotale osservazione no<n> è perpetua,
perché non solo i poeti, ma i prosatori ancora, anzi gli Ateniesi
medesimi molte volte non l’osservano e divero cotale numero è
più tosto a pompa che per bisogno.
6. Della persona
Egli non è dubbio alcuno che la persona è prima accidente del
nome e poi del verbo, e perché non si puone fingere ancora più
che una cosa che favelli e una a chi si favelli e una di chi si favelli,
però sono le persone tre e non più, la prima nel singulare io amo
e nel plurale noi amiamo, la seconda tu ami e voi amate, la terza
colui ama e coloro amano; del duale, nollo havendo nè i Latini nè
i Toscani, per li quali massimamente trattiamo questa materia,
non occorre di ragionarne più che fatto si sia.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 159

7. (261) Della Figura


Chiamano i gramatici, così ne’ nomi come ne’ verbi, figure le
composizioni d’essi. Onde quando un verbo non è composto,
cioè fu trovato così da’ primi inventori senza aggiugnervi prepo-
sizioni o altra cosa dinanzi, essi lo chiamano di figura semplice,
cioè non composto, come verbi grazia lascio; quando poi dinanzi
al verbo si truova alcuna particella posta, cotal verbo si chiama
di figura composta, come tralascio, de’ quali verbi composti i
Greci n’hanno quasi infiniti, i Latini moltissimi, e i Toscani non
pochi, e non è dubbio che, se queste composizioni non fussono,
le lingue sarebbero poverissime. Quando poi a un verbo non
semplice ma composto s’aggiugne alcuna altra particella dinanzi,
cotal verbo si chiama decomposto, cioè composto da un compo-
sto. E nel vero, come la figura non conviene propiamente a un
verbo semplice ma rispettivamente, cioè per relazione e habitu-
dine o vero comparazione al composto, così sotto nome di com-
posto cade ancora il decomposto, come essempi grazia intrala-
sciare, se fusse composto della proposizione in e di tralasciare,
verbo composto da tra e lasciare, e di cotali decomposti n’hanno
i Greci molti, i Latini pochi e i Toscani pochissimi.
8. Della spetie
Quando alcun verbo non diriva da cosa nessuna, ma fu così
trovato dall’inventor suo primo, egli si chiama di spetie primiti-
va, come per cagion d’essempio scrivo o dormo. Ma quando poi
dirivano e sono tratti o formati da alcuno altro ver(262)bo si
chiamano di spetie dirivativa, come scrivacchio e dormac<c>hio;
potremmo chiamare dirivativi montare da monte, poggiare da
poggio e altri quasi infiniti. E in questi consiste gran parte così
dell’ornamento come della ricchezza delle lingue, nella qual co-
sa i Toscani vanno molto più appresso a’ Greci che i Latini, co-
me si vede nel verbo pagoneggiarsi, tratto dall’uso de’ pagoni, e
in altri non pochi de’ quali mancano i Latini, benché in questa
vece hanno gli incoativi e frequentativi, i desiderativi, i meditati-
vi e altri de’ quali i Toscani parte mancano, parte non ne sono
così abondevoli. Ma venghiamo hoggi mai a gli avvertimenti
promessi.
160 ANNALISA ANDREONI

Avvertimento primo
La prima cosa che mi pare di dovere avvertire è che io ho di
sopra favellato e disotto favellarò secondo i gramatici principal-
mente e non secondo i loici nè secondo i filosofi, perché altra-
mente di troppo harei fallato e in troppe cose, conciosiaché, per
tacer dell’altre, il verbo amare non significa azzione, cioè fare se-
condo la verità, ma passione, cioè patire; per la medesima cagio-
ne toccare, gustare, odorare, udire, vedere e altri molti non sono
verbi attivi (come tutti i gramatici dicono) ma passivi, come ne
pruova il Filosofo nel secondo libro dell’Anima, perché se l’in-
telletto, ricevendo le forme e spezie de gli intelligibili, si chiama
patire, onde prese il nome di passibile, molto più il senso, rice-
vendo le spezie e le forme de’ sensibili, si chiamarà patire, onde
così intendere come sentire non azzione veramente significano,
ma passione. (263) Nè per questo sono da dovere essere ripresi i
gramatici perché, oltra che altramente considera le cose il gra-
matico, altramente il filosofo, a lui non istà trattare delle cose ma
delle parole e delle parole non se sono vere o false, che questo è
ufizio del loico, ma se sono congrue o incongrue (come dicono i
medesimi filosofi) cioè se concordano o discordano e in somma
se mancano di quei duoi vizii che soli al gramatico s’aspettano,
cioè barbarismo e solecismo.
Avvertimento secondo
Avvertiremo secondariamente che se bene i verbi sono di cin-
que maniere secondo i gramatici, non sono però secondo la ve-
rità di più che di due, cioè o attivi o passivi, perché ne’ neutri,
ne’ comuni e ne’ deponenti, sempre vi si trova necessariamente
o azzione o passione. Bene è vero che l’azzione è di due maniere,
perché alcuna passa in altrui, come si vede nel verbo uccidere e
infiniti altri, e alcuna rimane in colui che la fa, come si vede nel
verbo vivere e infiniti altri, ma i gramatici così Greci come Latini
per più agevolezza e maggiore distinzione gli divisero in cinque
sorti, come s’è detto, dove i Toscani non hanno se non tre, attivi,
passivi e neutri. Nè sia alcuno che creda, perché io ho detto che
i verbi comuni si chiamano da i Greci medii, che i latini habbia-
no i medii come i Greci, perché i comuni appresso i Latini sono
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 161

pochissimi e non hanno se non una voce sola, cioè la passiva,


dove i Greci in tutti quasi i verbi attivi che significano fare han-
no il passivo, che significa esser fatto, e oltra questo il medio,
che in una voce (264) sola e medesima così significa fare come
esser fatto, diclinandosi parte passivamente e parte attivamente,
la qual cosa è una felicità troppo grande. Nè paia ad alcuno cosa
strana che una medesima voce come tuvptomai significhi così
verbero, io batto, come verberor o vero vapulo, io sono battuto,
perché appresso i filosofi l’azzione e la passione sono realmente
e in sostanza una cosa medesima, differenti solamente di rispetto
e di considerazione. Ma in qualunche modo a noi basti di sapere
che i Greci hanno di più che i Latini e che i Toscani i verbi me-
dii, cioè che significano con una voce sola hora passiva hora atti-
va così il fare come il patire. Il che fa non solamente abbondante
quella lingua, ma riccha e non genera quella incertezza e confu-
sione che alcuni s’immaginano, perché i casi, se non altro, gli di-
stinguono, mostrando quando azzione significano e quando pas-
sione, e in somma in questi verbi medii e ne’ participii così attivi
come passivi sono troppo più ricchi e felici i Greci che i Latini
nonché i Toscani, i quali si può dire che non habbiano participii
se non pochissimi, come s’è nel suo luogo dimostrato.
Avvertimento terzo
Tutti i verbi, di qualunche maniera siano, si diclinano o atti-
vamente o passivamente, ma è degno d’avvertimento che i Gre-
ci, la ricchezza della cui lingua è sopra ogni credere varia e feli-
ce, hanno in tutti i verbi attivamente diclinati, in tutti i cinque
modi e in tutti i sei tempi le voci propie, cioè voci semplici e so-
le, senza haver bisogno o di participio o d’altro verbo, se non se
per avventura nel futuro del soggiuntivo, del (265) quale non
havendo la voce propia sono costretti a servirsi, il che facciamo
ancor noi, del participio passato e del verbo futuro, come di sot-
to si vedrà. Questa medesima felicità d’havere le voci propie in
tutti i tempi di tutti i modi ne’ verbi attivi l’hanno ancora i Lati-
ni, eccetto però che ne i duoi futuri dell’infinito, ne’ quali non
havendo voci propie sono forzati servirsi del participio di tempo
futuro e del verbo essere, perché nel futuro primo indetermina-
to dicono amaturum esse, cioè dovere o havere ad amare, e nel
162 ANNALISA ANDREONI

secondo futuro, chiamato da loro olim futurum, cioè futuro pas-


sato, dicono amaturum fuisse, del quale futuro mancano non so-
lamente i Toscani, ma eziandio i Greci, come di sotto si vedrà.
Ma i Toscani, qualunche se ne fosse la cagione, mancano di co-
tale felicità, percioché non hanno essi voce nessuna propia nel
tempo che è corso, cioè passato di poco, nè nel tempo che era
corso, cioè passato d’assai, in niuno de’ cinque modi, nè nel fu-
turo del soggiontivo, ma si servono in quello scambio ne’ verbi
attivi del participio passato, e del verbo havere come amavi, io
ho amato, amaveram, io haveva amato e così in tutti gli altri, e
ne’ verbi ne<u>tri si servono del participio passato e del verbo
essere, come vixi, io sono vivuto, vixeram, io era vivuto e così in
tutti gli altri. Bene è vero che in alcuni verbi si servono dell’uno
e dell’altro parimente, come cucurri, io ho corso o veramente io
sono corso e in tutti gli altri somiglianti. Quanto a’ verbi passivi,
o più tosto passivamente diclinati, i Greci hanno in tutti colla
medesima felicità le lor voci propie in tutti i tempi di tutti i mo-
di, salvo però che (266) in alcuni verbi ne’ quali non possono
formare la voce propia della terza persona del numero del più
nel tempo che è corso, cioè passato di poco, e del tempo che era
corso, cioè passato di molto, ma si servono in quella vece del
participio passato di poco e del verbo essere, così nel modo in-
dicativo come nel disiderativo e nel soggiuntivo, del che non da-
remo essempio, perché a coloro i quali sanno diclinare greca-
mente non fa di mestiero e quegli che non sanno non intende-
rebbono. Ma a’ Latini avviene in questo caso come avveniva a’
Toscani negli attivi, cioè non hanno voce nessuna propia nel
tempo che è corso e nel tempo che era corso e in tutti quegli
tempi che da questi dirivano, cioè nel tempo che è corso e nel
tempo che era corso così del modo ottativo come del soggiunti-
vo e infinito, e di più nel futuro del soggiontivo, ma usano in
luogo di loro il participo passato e il verbo essere, dicendo non
come i Greci con una voce sola tevtummai, ma con due verbera-
tus sum, io sono stato battuto, e così in tutti gli altri. I Toscani
non hanno verbi passivi, cioè voce alcuna propia in tempo nes-
suno d’alcun modo, se non se per avventura nella terza persona
d’ambidue i numeri, come di sotto si vedrà, ma pigliano in quel-
lo scambio il participio passato e il verbo essere, perché essi non
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 163

dicono nè tuvptomai come i Greci, nè verberor come i Latini


con una voce sola, ma con due io sono battuto, io era battuto, io
sono stato battuto, io era stato battuto, io sarò battuto, e di tutti
gli altri nel medesimo modo. Dove è da notare che fra i passati
de i verbi passivi e quegli de i verbi attivi o neutri è questa diffe-
renza, che (267) ne’ passivi il tempo si conosce e si piglia non
dal participio, il quale è sempre passato, ma dal verbo, perché io
sono amato è tempo presente come il verbo sono, e non passato
come il participio amato, e così io era amato e in tutti gli altri,
dove ne’ verbi attivi avviene tutto il contrario, perché il tempo si
piglia e si conosce non dal verbo ma dal participio, onde io ho
amato non è tempo presente come il verbo ho, ma passato come
il participio amato. E così ne’ neutri io sono andato non è pre-
sente come il verbo sono, ma passato come il participio andato, e
così in tutti gli altri. Nella qual cosa, cioè nel non haver noi voci
propie ne’ verbi passivi, si vede apertamente che la lingua nostra
è difettosa o vero manchevole e tanto inferiore alla latina quanto
la latina alla greca. Ma è ben vero che ne gli impersonali di voce
passiva ella avanza l’una e l’altra di gran lunga, non solamente
perché ella gli ha separati e divisi da’ passivi, il che non ha nè la
latina nè la greca, ma ancora perché gli ha doppii. Conciò sia
che tanto significa cantasi quanto si canta, tanto si vive quanto
vivesi. Onde Dante disse un luogo
Vassi in San Leo, e descedesi in26
e in uno altro pure impersonalmente nel medesimo significato
Per me si va nella città dolente27
Dove tra si va, e vassi non è altra differenza nessuna, se non
che in vassi la particella si è dopo il verbo e in si va è dinanzi, e
chi dicesse che nell’una è la s doppia e nell’altra no, sappia ciò
avvenire solamente per cagione dell’accento, perché è regola ge-
nerale che sempre si debbia raddopiare la conso(268)nante ogni
volta che l’accento al quale si aggiugne cotal particella è acuto,
come si vede in cantò, che si dice cantòssi et non càntosi. Dove se

26. DANTE, Purg. IV, 25.


27. DANTE, Inf. III, 1.
164 ANNALISA ANDREONI

l’accento fusse grave non si raddoppiarebbe la consonante come


si vede nel tempo presente, che si dice càntasi e non cantàssi. E
per la medesima cagione si dice nel presente dassi e ne l’aoristo
diedesi, e così di tutti gli altri. Ma ben devemo notare che cotali
voci, come fassi e si fa, e tutte l’altre somiglianti possono ancora
essere non solamente impersonali, ma passive nell’un numero e
nell’altro. Onde il Petrarca disse in un luogo
E se cosa di qua nel Ciel si cura,28
e in un altro
Tal, ch’à buon’ solamente uscio si chiude29
È ancora da notare che simili voci si truovano alcuna volta nè
passive propiamente nè attive, quando vengono da’ verbi i quali
hanno dinanzi sé questa particella mi. Onde il Petrarca disse
Muovesi il vecchiarel canuto e bianco30
Dove col medesimo sentimento, ma non già colla medesima
vaghezza, poteva dire muove, come si vede che fece M. Giovan-
ni Boccaccio, il quale nel principio della quarta novella della se-
conda giornata disse già si tacea Philomena e nel principio della
terza novella e giornata disse taceva già Pampinea, come si dice
ancora in un sentimento medesimo, tacque, tacquesi e si tacque.
Ma di queste cose, che sono in questa lingua non meno molte
che belle, non è il tempo, nè hora nè qui, però passaremo all’av-
vertimento quarto.
Avvertimento quarto
Diclinare i verbi non vuole altro dire se non piegargli o quasi
torcergli e in som(269)ma variargli dal primo caso (per che an-
cora ne’ verbi sono i casi) cioè mutare l’ultime desinenze e silla-
be loro, come si vede dicendo grecamente, tuvptw, tuvptei",
tuvptei e in latino verbero, verberas, verberat e toscanamente io

28. PETRARCA, R.V.F. 53, v. 43.


29. PETRARCA, R.V.F. 53, v. 51.
30. PETRARCA, R.V.F. 16, v. 1.
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 165

batto, tu batti, colui batte. Dove si vede che tutte e tre cotali voci
in tutte queste tre lingue sono varie e diverse l’una dall’altra,
nell’ultime sillabe non terminando in uno modo medesimo tutte,
anzi tutte diversamente terminando e similmente mutandosi i
tempi se mutano ancora le voci, come si vede diclinando in gre-
co tuvptw, e“ tupton, tevtufa, etetuv
j feon, e“ tuya, tuvyw, e in la-
tino verbero, verberabam, verberavi, [verberavi] verberaveram,
verberabo, cioè in toscano io batto, io batteva, io ho battuto, io
battei, io haveva battuto, io battarò. Dove è da notare che i Greci
nel diclinare i loro verbi mutano non solamente l’ultima sillaba,
ma ancora la prima e talvolta quella del mezzo, dove i Latini non
mutano mai se non l’ultime, lasciando stare quelle del mezzo e le
prime in un modo medesimo, se non se ne’ preteriti perfetti
molte volte, perché fa[c]cio fa nel tempo che è corso feci et do fa
d[i]edi e così in molti altri, ma riserbano non di meno la prima
consonante, eccetto che in alcuni verbi anomali, cioè fuori di re-
gola e che non servano niuna delle quattro coniugationi, come si
vede nel verbo eo, io vo, che nel preterito perfetto fa ivi, io an-
dai, e così di tutti gli altri cotali. I Toscani ordinariamente non
mutano mai se non l’ultima sillaba, eccetto che in alcuni verbi o
anomali, come andai da vo, ben(270)ché andare, per dirne il ve-
ro, vien più tosto dalla voce antica ando che da vo o contratti
(verbi contratti chiamo hora quegli che sono abbreviati dalle lo-
ro prime voci, come vo da voglio e fo da faccio e altri tali), onde
il verbo do fa nell’aoristo, o vero tempo che corse, diedi, mutata
la vocale, e così in alcuni altri così fatti. Ma riserbano almeno la
prima consonante senza mai mutarla in altre lettere o aggiugner-
vi dinanzi cosa alcuna il che non fanno i Greci, i quali spessissi-
me volte in tutti i preteriti o le mutano mediante l’accrescimento
temporale o v’aggiungono il sillabico, come è notissimo a chi
mai diclinò greco, la qual cosa quanto aggiugne alla lingua loro
di varietà tanto le scema di chiarezza.
Avvertimento quinto
Tutti i gramatici, così i Greci come i Latini, dicono che le lor
lingue hanno nel diclinare i verbi alcuni tempi chiamati da essi
congiunti e noi gli potremmo chiamare pregni o vero doppii,
perché servono per due tempi, essempii grazia questa voce ama-
166 ANNALISA ANDREONI

rem nell’ottativo dicono che è tempo presente e tempo preterito


imperfetto, cioè passato non compito o vero tempo che correva.
Similmente dice Prisciano che questa altra voce nel modo mede-
simo, utinam amavissem, serve per lo preterito perfetto, o vero
tempo che è corso, e per lo preterito più che perfetto, o vero
tempo che era corso, la qual cosa non crediamo vera, come di
sotto diremo. Dicono ancora che il presente dell’infinito serve
ancora per lo preterito imperfetto, e il preterito perfetto per lo
preterito più che perfetto, così appo i Greci come i (271) Latini,
le quali cose se vere sono, i Toscani avanzano ancora in questo
non meno i Latini che i Greci, perché appo noi niuna voce di
niuno tempo in niuno modo è congiunta o vero doppia, la qual
cosa genera tanta chiarezza, quanto quella confusione.
Avvertimento sesto
Se bene il propio de’ verbi è di non confondere i numeri, cioè
di non haver voce nessuna la quale a più d’un numero accomo-
dare si possa, non di meno i Greci in tanta loro ricchezza manca-
rono in questa parte, perché in tutti i verbi loro la prima persona
del tempo che correva nel numero del meno è la medesima che
la terza del numero del più, perché così significa questa voce sola
v e“ tupton, verberabam, io batteva, come verberabant, coloro batte-
vano, e per questo forse quegli d’Eolia nel plurale non ponevano
l’accrescimento. Il medesimo avviene in tutti gli aoristi secondi, i
quali anco sono molte volte il medesimo che il preterito imper-
fetto, perché tanto vuol dire e“ tupton verberavi, io battei quanto
verberaverunt e verberavere, coloro batterono. La qual cosa non
fanno mai i Latini nè i Toscani ancora, se non in questa voce so-
no, che così significa sono sum, io sono, come sunt, coloro sono e
se altra è tale che hora non mi sovviene, e per questa cagione di-
cono forse i Sanesi io so’ e non io sono. Confondono ancora i
Greci e mescolano le persone non solo ne’ medesimi tempi e
modi ma ancora in diversi. Per che, oltra che i duali, spessissime
volte sono così seconda persona come terza (272), perché tanto
significa tuvpteton, voi due battete quanto coloro duoi battano, e
così d’infiniti altri, questa voce tevtufe nel modo indicativo è
terza persona del tempo che è corso e ne l’imperativo è seconda,
onde tanto vuole significare verberavit, colui ha battuto quanto
LA LEZZIONE SECONDA SULLA GRAMMATICA 167

habbi battuto tu, (non ho dato l’essempio latino perché, come di


sotto si vedrà, i latini non hanno nel modo comandativo cotal
tempo). Medesimamente questa voce tuvyw si truova nel futuro
dell’indicativo e nell’aoristo del[l’] soggiontivo, e così avviene
d’alcune altre voci come di tuvyai, non solo negli attivi ma anco-
ra ne’ passivi. I Latini, se bene hanno tutte le le medesime voci
nel soggiuntivo che nell’ottativo, mai però non hanno una voce
che significhi più che una persona sola, se non nel futuro del-
l’imperativo amato, che così vuol dire amarai tu come amarà que-
gli, e così in tutti gli altri così attivi, come passivi. Hanno ancora
amemus, che tanto è presente quanto futuro, e così nell’imperati-
vo come nell’ottativo e nel soggiontivo. I Toscani, oltra che han-
no anch’essi tutte le medesime voci nel soggiuntivo che ne l’otta-
tivo come i latini, hanno ancora una voce che significa più perso-
ne, perché tutte le prime persone del numero singulare di tutti i
verbi nel tempo che correva sono le medesime che le terze del
medesimo modo, tempo e numero, perché così significa questa
voce amava io amava come colui amava. E ben so che huomini di
grandissimo ingegno e giudizio e amicissimi nostri scrivono e vo-
gliono che si scriva non io amava per a, ma io amavo per o, se-
quendo per avven(273)tura l’uso corrotto del favellare nostro
d’hoggi, la qual cosa havemo altrove dimostrato essere, non vo’
dire fuora di ragione, ma ben contra l’uso e l’autorità di tutti i
migliori, così antichi come moderni. Hanno ancora i Toscani tut-
te le seconde persone del numero del più dell’aoristo nel dimo-
strativo, le medesime che quelle del tempo più che passato così
nell’ottativo come nel soggiuntivo, come amaste, faceste, e così di
tutti gli altri.
Avvertimento settimo e ultimo
Tutte le cose composte, come s’è detto altre volte, sono com-
poste di materia e di forma, o di cose alla forma e alla materia
equivalenti: la forma delle parole è il significato, la materia sono
le lettere e le sillabe. Il che ho detto perché appresso i Greci si
truovano quasi infiniti verbi difettivi o vero anomali, i quali
mancano hora d’un qualche modo, hora d’un qualche tempo et
quando d’una qualche persona, la qual cosa molte volte viene
dalla forma, come per atto d’essempio egli non si può dire pro-
piamente e con verità io sono morto, per che i morti non favella-
no, anzi non si può dire ancora, secondo i filosofi, io muoio, per-
ché non si dà mai in cosa nessuna l’ultimo essere ma solo il pri-
mo non essere. E a chi queste cose paressero troppo sottili tro-
vandosi il contrario appo tutti gli scrittori, tolga per essempio il
verbo soglio, il quale manca di molti tempi e modi mediante la
forma, perché non si può dire nel futuro dell’indicativo io sorrò,
nè comandare a uno che soglia, e così di altri non pochi. Alcuna
volta sono defettivi mediante la materia, perché o la ragione o
l’uso o la regola nollo comporta, come si vede (274) appo i Lati-
ni nel verbo memini, che in una voce sola ha tre tempi e conse-
quentemente tre significati, dove appo noi è distintissimo, io mi
ricordo, io mi ricordava, io mi son ricordato, o vero mi ricordai,
tolto non dal verbo memini, ma da recordor. I Toscani ancora
hanno non pochi di questi verbi anomali o vero difettivi, come
fora e altri cotali. E so bene anch’io che queste sono cose basse e
che s’apparano tra i primi principii nelle squole, ma qualunche
siano bisogna intendere prima queste a chi vuol bene intendere
la materia de i tempi, della quale (per non infastidire hoggi più
lungamente l’humanissime cortesie vostre, le quali humilmente
ringrazio), Dio concedendoloci, vedremo di fornire la domenica
vegnente senza alcun fallo31.

31. Depennato: Vegnente senza alcun fallo.

Potrebbero piacerti anche