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Nuova Rivista di Letteratura Italiana


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Nuova Rivista di Letteratura Italiana

diretta da
Pietro G. Beltrami, Umberto Carpi, Luca Curti,
Piero Floriani, Marco Santagata, Mirko Tavoni

redazione
Annalisa Andreoni, Vinicio Pacca,
Marina Riccucci, Antonio Zollino

direttore responsabile
Pietro G. Beltrami

periodico semestrale
Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 15 del 1998

abbonamento 2009
Italia € 47,00, estero U.S. $ 70
prezzo di un fascicolo: Italia € 34,00, estero U.S. $ 45
conto corrente postale n. 14721567
intestato a Edizioni ETS
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Nuova
Rivista
di
Letteratura Italiana
XII, 1-2
2009

Edizioni ETS
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TESTI E DOCUMENTI

Annalisa Andreoni
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE
ALL’ACCADEMIA FIORENTINA

Tra le carte autografe di Benedetto Varchi dell’Archivio di Stato di Firenze sono


conservate tre lezioni accademiche di argomento petrarchesco vergate in una grafia
che non è quella varchiana (ASF, Carte Strozziane, s. III, 206, cc. 53r-54v; cc. 83r-
84v; c. 106r-v). La prima lezione ha come oggetto il madrigale Non al suo amante
più Diana piacque (RVF 52) ed è completa; la seconda riguarda il sonetto I dì miei
più leggier’ che nessun cervo (RVF 319) e arriva fino alla dichiarazione del ‘Soggetto’;
della terza, su un sonetto petrarchesco indeterminato, è rimasto solo il proemio. Le
caratteristiche delle numerose correzioni sembrano indicare che lo scrivente è an-
che autore del testo, ma la sua identità rimane sconosciuta. Si tratta con buona pro-
babilità di un personaggio legato a Varchi, forse un allievo, poiché le lezioni sem-
brano richiamare da vicino, per tipologia e contenuto, quelle varchiane, seppur in
modo un po’ didascalico e senza possederne la complessità teorica. In particolare,
nella prima vi è un richiamo alle «dottissime» Prose del «reverendissimo» Bembo,
cosa che sembra circoscrivere all’entourage varchiano l’appartenenza dell’autore,
essendo il Bembo fortemente osteggiato dalla parte avversa.
Non vi sono indicazioni che possano aiutarci a collocare cronologicamente le
lezioni, né gli annali dell’Accademia registrano incontri sugli argomenti in esse
trattati. Mi riferisco in particolare al ms. II IV 1 della Biblioteca Nazionale di Fi-
renze e al ms. B III 52 della Biblioteca Marucelliana, i quali ci informano sull’atti-
vità dell’Accademia degli Umidi e dell’Accademia Fiorentina, che ne prese il posto
dopo la riforma dell’undici febbraio 1541. Riscontriamo tuttavia la registrazione
di numerose lezioni di argomento petrarchesco indeterminato e sappiamo che gli
annali sono largamente incompleti, poiché non registrano lezioni di attribuzione e
datazione certa delle quali possediamo il testo, come le prime del Varchi. In par-
ticolare, per alcuni consolati, come quello di Francesco Guidetti, il numero degli
incontri registrati è talmente esiguo da non essere verosimile. Tenendo conto, fra
l’altro, della tipologia delle lezioni accademiche delineata da Michel Plaisance1,
tenderei ad attribuire i testi qui presentati ai primissimi anni di vita dell’Accade-

1. Tra le lezioni esaminate da Plaisance sono di particolare interesse, in proposito, quelle di Piero Fab-
brini su RVF 170 e di Francesco de’ Ricci su RVF 132 (Michel Plaisance, L’Accademia e il suo Princi-
pe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Roma, Vecchiarelli 2004,
pp.  104-116 e 271-280).
246 ANNALISA ANDREONI

mia. Più difficile stabilire se essi siano stati letti precedentemente o successiva-
mente al rientro di Varchi in patria, poiché sappiamo che molte delle lezioni da
lui tenute all’Accademia degli Infiammati di Padova circolavano a Firenze quasi in
tempo reale, esercitando un notevole influsso sulla produzione degli Accademici.
Nella prima lezione vi è un accenno al fatto che in quello stesso giorno doveva-
no svolgersi le elezioni per il nuovo Console e che quella era l’ultima delle lezioni
‘private’ del consolato, ossia delle lezioni riservate ad un pubblico di soli accademi-
ci. L’autore stabilisce un paragone fra il proprio intervento, «basso e debolissimo»,
e quello invece «profondissimo e gagliardo» che aveva inaugurato le lezioni private
consolato.
Si tratta di una lezione di particolare interesse, poiché, a quanto mi consta, è
l’unica sin qui pervenutaci che abbia come argomento un madrigale petrarchesco.
I madrigali non furono studiati molto dagli Accademici fiorentini; gli Annali re-
gistrano solo tre incontri in merito: una lezione privata di Pandolfo (Cattani?) da
Diacceto su RVF 106, tenuta l’undici luglio 1549 sotto il consolato di Francesco
D’Ambra (BMF, ms. B III 52, c. 53v); una lezione pubblica di Tommaso D’Aiolfo
su RVF 54, tenuta il 19 gennaio 1550 sotto il consolato di Piero Orsilago (BMF,
ms. B III 52, c. 58v); una lezione privata di Piero Orsilago su RVF 121, tenuta il 19
novembre 1551 sotto il consolato di Francesco Torelli (BMF, ms. B III 52, c. 72v).
La nostra lezione espone in maniera piuttosto semplice il concetto oraziano del-
la poesia che delectando docet e le specificità della poetica rispetto alle altre arti
razionali (grammatica, retorica e logica). Fra i principali testi di riferimento vi sono
le Prose della volgar del Bembo, dalle quali è mutuata quasi letteralmente la tesi
dell’origine provenzale delle sestine e della derivazione del termine ‘madrigale’ da
‘mandria’. Abbastanza accurata è la spiegazione letterale del testo, arricchita dal
richiamo a luoghi poetici di Tibullo, Virgilio e Ovidio.
Di respiro piuttosto ampio è il proemio della seconda lezione, dedicato alla
divisione dell’anima e alla descrizione delle virtù razionali ‘volontarie’ – prudenza,
giustizia, fortezza e temperanza – secondo l’esposizione ciceroniana del De finibus
bonorum et malorum e del De legibus. In accordo con la teoria retorica dei tre stili
il sonetto preso in esame viene giudicato «in instile alto nel secondo grado», ma a
questo punto il testo in nostro possesso si interrompe e manca la ‘sposizione’ lette-
rale del componimento.
Infine, il proemio della terza lezione verte sulla caducità delle «cose terrene e
mortali» e sull’ingannevolezza del piacere dei sensi che allontana dalla ragione e
dal vero bene. La genericità del riferimento al ‘pentimento’ del poeta rende poco
fruttuoso il tentativo di individuare con precisione il sonetto oggetto della lezione.

Criteri di trascrizione

Ho seguito un criterio conservativo della veste grafica e fonomorfologica del mano-


scritto, mantenendo le oscillazioni tra scempie e geminate e conservando l’alternan-
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 247
za tra scrizione unita o staccata delle parole, comprese le preposizioni articolate.
Nelle congiunzioni, per non mantenere inutili ostacoli alla comprensione sintattica
del testo, ho generalizzato la scrizione unita in cioè (ms.: cio è; cioè); tuttavia (ms.
tutta via); laonde (ms.: la onde); perché (quando sia causale, adottando la scrizione
separata per che quando abbia valore relativo = per la qual cosa, o dichiarativo =
e per questo); poiché (quando sia causale, riservando la scrizione staccata poi che ai
casi in cui prevalga il valore temporale); perciò che (ms.: per cio che, percio che, ecc.);
purché (ms.: pur che). Ho separato invece, quando si presentava unita, la grafia di
altre espressioni che avrebbero inutilmente ostacolato la lettura (es. vela > ve la, III,
I, 2; segli > se gli, II, I, 6; overamente > o veramente, I, I, 1; perventura > per ventura,
I, II, 4).
Ho eliminato l’h diacritica superflua dopo c velare (finischano > finiscano, III,
I, 1) e la i dopo il nesso gn (ngegniosissimamente > ingegnosissimamente, I, II, 7).
Ho mantenuto l’oscillazione nella resa grafica delle affricate dentali (spositione /
sposizione).
Per indicare le correzioni e le integrazioni autoriali ho adottato i segni seguenti:

\a/ a aggiunta in interlinea


/a\ a aggiunta in linea
\\a/ a aggiunta nel margine sinistro
[a + b] b ricalcata su a
[a] a depennata ma leggibile
[ … ] lezione depennata non leggibile
a³ b¹ c² diverso ordinamento (= b c a) segnalato da esponenti numerici
<a> integrazione congetturale
[[a]] lacuna materiale sanabile ope ingenii

Ho adottato una moderna interpunzione interpretativa, limitando in particolare


l’uso delle parentesi. Ho sciolto le abbreviazioni e modernizzato l’uso dei segni pa-
ragrafematici (introducendo la numerazione per paragrafi), delle maiuscole, degli
accenti, degli apostrofi. Ho introdotto la distinzione tra u e v; ho trascritto j con i,
rendendo l’uscita ij con ii. Ho utilizzato uniformemente il corsivo per i titoli – o gli
incipit di componimenti usati in funzione di titolo – delle opere citate e per eviden-
ziare singole parole o versi oggetto della trattazione.
I brani poetici citati seguono, nella sostanza e nella grafia, la lezione del ma-
noscritto; laddove questa si discosti sostanzialmente da quella oggi adottata, ho
riportato nel commento la lezione delle edizioni oggi di comune riferimento. La
punteggiatura è invece, anche in questo caso, quella moderna.
Il Canzoniere di Petrarca è citato secondo l’edizione commentata a c. di Marco
Santagata, Nuova edizione aggiornata, Milano, Mondadori 2004.
248 ANNALISA ANDREONI

I
LEZIONE SUL MADRIGALE DI PETRARCA
NON AL SUO AMANTE PIÙ DIANA PIACQUE (RVF 52)2

[I]

[1] Io non dubito punto, Magnifico Consolo et voi, nobilissimi Accademici, che
ciascuno di voi non sappia benissimo che la poesia o vero arte poetica, favellando
massimamente di quel terzo genere, il quale consiste nell’immitare et contraffare,
ha, come tutte l’altre arti et scienze, alcuno fine et alcuno subbietto: il fine suo è,
come n’insegna Horazio nella Poetica, giovare o dilettare o veramente dilettare et
giovare insieme, perciò che, come n’afferma il medesimo, quel poeta è degnissimo
d’ogni lode, il quale mescola l’utilità col piacere, sì che i[l] lettori ne tragghino non
men[o] frutto che dilettazione. [2] Il subbietto poi della poetica è, come di tutte
l’altre arti che si chiamano da questo razionali, [l’orazione] le parole – et queste
sono quattro: gramatica, retorica, poetica et loica – et benché tutte queste habbiano
per soggetto et si maneggino intorno alle parole, fanno però questo diversamente,
perciò che altramente considera le parole il gramatico, cioè, per dir come i Latini,
se sono congrue o incongrue, altramente le considera il retore overo oratore, cioè
come sono non solamente congrue, ma come sono leggiadre et ornate, altramente
il poeta, il quale, devendo, oltra l’insegnare et muovere come il retore, generar
negli animi ammirazione, usa non solamente parole \\numerose et voci c’habbiano
leggiadria, alteza et sonorità/, ma figure et modi di favellare rimoti et lontanissimi
dal volgo et dall’uso comune; il loico poi non tiene conto dell’orazione, overo par-
lare, se non quanto egli è o vero o falso. [3] Veduto brevemente qual sia il fine et il
subbietto della poesia, diciamo dividendola che le parti o più tosto le spezie della
poetica sono più et diverse, ma noi raccontando per hora solamente quelle che usò
il nostro leggiadrissimo lirico Messer Francesco Petrarca, diremo, lasciando stare
i Trionfi divisi in capitoli, che alcuni chiamano canti et alcuni serventesi, et alcuni
vogliono che quegli siano i versi esametri overo heroici, diremo dico, che il Petrar-
ca non usò se non cinque maniere overo sorti di poemi o componimenti: canzoni,
sestine (benché le sestine, \\ingegnoso ritrovamento de’ provenzali compositori,
come molte altre cose nella nostra lingua/, si potrebbero annoverare tra le canzoni),
sonetti, ballate et madriali, et benché tutte queste cinque sorti si dividino in più

2. ASF, Carte Strozziane, s. III, 206, cc. 53r-54v.


TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 249
parti, tuttavia l’intendimento nostro è di favellare solo et brevemente de i madriali,
devendo noi hoggi, per seguitare l’ordine usato et ubbidire al nostro Consolo, spor-
re quasi all’improvviso il chiaro et agevole, ma dolce et leggiadro madriale Non al
suo amante più Diana piacque.
[4] Dico dunque primieramente, in quanto a nome, che si chiamano madriali
dalle mandrie perché in essi et con essi si solevano cantare per lo più cose d’amore
ma boscareccie et materie pastorali da’ pastori et contadini medesimi molte volte,
onde il Petrarca disse:
Et con parole et con alpestre note
Ogni graveza del suo petto sgombra
etc.

(c. 53v) et da questo vogliono alcuni che si chiamino mandriali. [5] Ma perché
de’ nomi non si debbe far molta stima quando le cose sono chiare, diremo che i
madriali sono di varie ragioni et quanto a’ versi, essendone de i più lunghi et de i
più brevi, et quanto alle rime, cioè ultime parole et consonanze de’ versi, et benché
alcuni diano più et diverse regole di fargli, tuttavia io per me, rimettendomi però
sempre a voi altri di maggior letteratura et giudizio, \\et a quello che ne scrive leg-
giadrissimamente il reverendissimo Bembo nel secondo libro delle sue dottissime
Prose/, credo che siano a placito et che ciascuno possa, et quanto al numero de’
versi et quanto alla corrispondenza delle rime, fargli come più gli piace, solo che
s’osservino alcune regole in guisa che non diventino altra maniera di compositione
et non trapassino il diritto segno et dovuto ordine loro, come si può imparare dal
Petrarca ne’ suoi madriali, che sono questo per uno et gli altri Per ch’al viso d’Amor
portava insegna, Hor vedi, Amor, che giovinetta donna, Nuova angioletta sovra l’ali
accorta, benché ne’ poeti antichi sopra Dante et al suo tempo medesimo se ne truo-
vano di varie guise, come si vede ancora hoggi ne i moderni ch’ogni dì si cantano.
[6] Dico bene che deveno essere agevoli et chiari et di materia bassa et anzi volgare
che non, come si vedrà in questo, il subbietto del quale, secondo che a me pare, è
questo.

[II]
[1] Soggetto

Essendo una volta di state a mezodì il poeta nostro in campagna alla foresta o per
cagione di viaggio o per altro suo diporto, vide una pastorella che lavava a una fon-
te una cuffia, overo uno sciugatoio o velo da portare in capo, come le donne fanno,
et perché gli parve di bell’aria et di buono aspetto, come se ne vede alcuna volta,
ella molto gli piacque et come huomo che egli era si risentì alquanto, non essendo
i primi moti in nostra² potestà¹, onde poi et forse alora, fece come poeta questo
madrialetto gentile, sopra quel tale atto et movimento, dicendo Diana non piacque
250 ANNALISA ANDREONI

più al suo amante, cioè ad Atteone; quando la vide: vide lei; tutta ignuda: ignuda
nata, come si dice hoggi; per tal ventura: ventura nella nostra lingua è di quelli
vocaboli che i Latini chiamano medii, come facinus, cioè che significano bene et
male, perciò che ventura alcuna volta si pon per buona sorte et fortuna, come la
‘mia ventura’: «Mia ventura et amor m’havean sì adorno» etc., et là: «Qual ventura
mi fu, quando da l’uno» etc., et tal volta per disgrazia et rea fortuna, come \nel/la
canzone In quella parte dove amor mi sprona: «poi che la dispietata mia ventura» et
in molti altri luoghi. [2] Qui si può pigliare nell’un modo et nell’altro, per buona se
haremo considerazione al principio et desiderio d’Atteone, per rea (c. 54r) se al fine
et al danno che gliene seguì.
[3] In mezo delle gelide acque: in una fonte chiara et fresca; disse gelide, non
gelate, ma fresche, che così lo pigliano i Latini, non havendo voce niuna che pos-
sa sprimere propiamente quello che noi diciamo fresco, et però disse Virgilio /
nell’ultima\ \\Egloga/ [Gelidique Lycei] /«M<a>enalus et gelidi fevlerunt saxa Ly-
caei\». [4] Ch’a me: s’intende piacesse; la pastorella alpestra et cruda: perché era \
per ventura/ in su l’Alpi et anco, come son le più volte, salvatic[a]\chetta et ritrosa/;
posta a bagnare: a lavare; è da notare questo modo posta, il quale è propio nostro et
non significa altro se non ‘che lavava’; un leggiadretto velo: o fusse una cuffia o uno
sciugatoio o altro velo, questo non importa, basta che alla netteza et leggiadria del
verso non conveniva dire altramente; che: il quale velo; chiuda: serre et racchiuda,
a l’aura: al vento, ancora che alcuni vogliono che si riferisca a Madonna Laura et \
che/ questa fusse una sua servente; il capello vago: o vago a vedere o perché fusse
come nel sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; biondo: biondo è propio il colo-
re dell’oro et quel che i Latini dicono \hora/ flavus et \hora fulvus/ onde [altrove
disse] \\Tibullo, poeta leggiadrissimo/, \comincia la sua opera:
Divitias alius fulvo sibi congerat auro
et teneat culti iugera magni [corretta è la forma multa, prob. da dove leggeva era
scritto m.] soli/,

\\et Virgilio disse nel fine del quarto libro della sua divina Eneida:

nondum illi flavum Proserpina vertice crinem


abstulera<t> Stygioque caput damnaverat Orc[[o]]/

\et il Petrarca medesimo altrove/:

Et le chiome hor avvolte in perle e ’n gemme,


allora sciolte, et sovra òr terso bionde.

[5] Tal che: di maniera, in guisa che; mi fece hor quando egli arde il cielo: perché era
di state et a mezo giorno \et piglia il cielo per l’aria/; tutto tremar d’uno amoroso
g\i/elo: cioè divenir pallido et tremante come si fa ne i primi \assalti et/ riscontri
d’amore, il che viene perché il sangue si fugge al quore, onde le membra divengono
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 251
et bianche et tremanti, ancor che alcuni voglino riferirlo alla gelosia intendendo
pur per ‘l’aura’ Madonna Laura, il che a me non pare che quadri.
[6] Detto così brevemente l’ordine delle parole, più per sodisfare in qualche
parte al’uficio et debito mio che per bisogno che ce ne fusse, potrei dire di molte
cose, s’io mi volessi distendere intorno a quanto si potrebbe dire di Diana et d’At-
teone, ma perché, oltra il tempo che nol comporta, devendosi hoggi, per quanto
io avviso, trattare in questo luogo della creazione del nuovo Consolo, elleno sono
parte notissime et parte non fanno a proposito, dirò [non] solamente che Atteone,
quanto all’allegoria della favola, fu un grandissimo cacciatore et però finsero \i po-
eti, i quali sempre sotto varii velami et coverte insegnano cose belle et utili alla vita
civile/, che egli fusse innamorato ardentissimamente di Diana dea della caccie, il
quale, havendo veduta Diana ignuda, cioè havendo in ispazio di tempo conosciuto
quanto fusse vano et dannoso lo studio del cacciare, fu morto et lacerato da’ suoi
cani medesimi, cioè spese et logorò tutte le sostanze et facultà sue ne i cani che
teneva. [7] Questa favola, discritta da Ovvidio ingegnosissimamente, racconta il
poeta nostro con grandissima leggiadria a proposito suo nella canzone delle Tra-
sformazioni quando disse nell’ultima stanza:
Io seguì’ tanto avanti il mio disire
ch’un dì cacciando sì com’io solea,
mi mossi; et quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando il sol più forte ardeva.
(c.54v) Io, perché d’altra vista non m’appago
stetti a mirarla: onde ella hebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l’acqua nel viso colle man’ mi sparse.
Vero dirò (forse parrà menzogna)
ch’io sentì’ trarmi della propia imago,
et in cervio solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et ancor de’ miei can’ fuggo lo stormo.

[8] Questo è quel poco che m’è sovvenuto di dire in sì corto tempo sopra la spo-
sizione di questo breve et agevolissimo madriale, nel che spero d’havere a trovar
perdono agevolissimamente, sì da voi benignissimi uditori per la humanità et
cortesi[e+a] vostr[e+a], et sì massimamente dal prudentissimo Consolo nostro, il
quale come poteva imporre questo peso a molto più forte di me, o almeno dare a
me stesso spazio maggiore, così ha voluto ch’io sia quelli il quale dia termine alle
lezioni private del suo consolato, et ha in ciò, come in tutte l’altre cose, operato di-
scretissimamente, essendo dritto et ragionevole che a colui tocchi l’ultimo luogo il
quale è inferiore a tutti gl’altri et veramente come il principio et quasi fondamento
fu, se ben vi ricorda<te>, profondissimo et gagliardo, così il fine et quasi tetto è[t]
stato basso et debolissimo.
252 ANNALISA ANDREONI

1 il fine … dilettazione: cfr. Hor., Ars. Poet., 333-34 e 343-44.


2 l’altre arti … loica: sono le discipline trattate Aristotele nell’Organon, nella Re-
torica e nella Poetica. Cfr. quanto osservato da Varchi nella Grammatica comparata:
«Per che l’arti loiche, ovvero razionali, chiamate da’ filosofi moderni sermocinali,
non si maneggiano intorno alle cose, come pur testé si disse, ma, come il nome
loro ne dimostra, intorno all’orazione, o vero parlare, si dividono principalmente
in quattro parti, nella gramatica, retorica, loica, poetica […] La cagione e soffi-
cienza di questa diffinizione si dichiara in questo modo: ciascuno parlare, o vero
favellare, qualunque egli sia, si può considerare o come corretto e ammendato, e
questo s’appartiene al gramatico, o come leggiadro et ornato e questo s’aspetta al
retore, o come vero e certo, e questo è propio del loico […] o come falso e favoloso,
e questo usa il poeta» (Benedetto Varchi, Scritti grammaticali, a c. di Antonio So-
rella, trascrizione e note di Annalisa Civitareale, Pescara, Libreria dell’Univer-
sità 2007, p. 199). Cfr. anche lo scritto sulla Divisione della filosofia: « Tutte le cose
composte sono composte di materia e di forma, o di cosa alla materia ed alla forma
equivalente; onde ancora le parole sono composte di queste due cose, di materia,
e queste sono le lettere e le sillabe, e di forma, e questa è i significati delle parole.
Ora considerando il parlare quanto alla materia, egli deve essere, come dicono i
filosofi moderni, o congruo o incongruo, il che Cicerone chiamò conseguente, cioè
in somma concordante o discordante, e di questo tratta e considera la grammatica
sola. Puossi ancora in un altro modo considerare, il quale presuppone questo, cioè
se egli è leggiadro ed ornato, e di questo considera la rettorica. Quanto alla forma,
si può considerare il parlare in tre modi; perciocché di necessità egli sarà o vero o
verisimile, che si chiama probabile, o apparente, cioè che parrà bene o probabile
o verisimile, ma non sarà: e di tutti questi tre favella e tratta la loica» (Benedetto
Varchi, Lezioni sul Dante e prose varie […], per cura e opera di Giuseppe Aiazzi e
Lelio Arbib, Firenze, Società Editrice delle Storie del Nardi e del Varchi 1841, vol.
II, pp. 272-273). In questo scritto, come nella Lezione sulla poetica in generale, Var-
chi aggiunge alle quattro arti elencate anche la storica (Benedetto Varchi, Opere
[…], Trieste, Tipografia del Lloyd Austriaco 1859, vol. II, p. 685), che da Aristotele
non fu trattata specificamente come le altre.
3 sestine … compositori: «Sono medesimamente regolate le sestine, ingenioso
ritrovamento de’ provenzali compositori» (Pietro Bembo, Prose della volgar lingua,
a c. di Carlo Dionisotti, Milano, TEA 1989, p. 152 – II, 11).
4 dico dunque … si chiamino madriali: «sono tutte madriali chiamate o perciò
che da prima cose materiali e grosse si cantassero in quella maniera di rime, sciolta
e materiale altresì; o pure perché così, più che in altro modo, pastorali amori e altri
loro boscarecci avenimenti ragionassero quelle genti, nella guisa che i Latini e i
Greci ragionano nelle egloghe loro, il nome delle canzoni formando e pigliando
dalle mandre» (Bembo, Prose…, p. 152 – II, 11.
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 253
5 quello che … placito: cfr. Bembo, Prose…, II, 11: «Libere sono poi quell’altre
[rime], che non hanno alcuna legge o nel numero de’ versi o nella maniera del ri-
margli, ma ciascuno, sì come ad esso piace, così le forma; e queste universalmente
sono tutte madriali chiamate» | «Per ch’al … insegna»: Petr., RVF 54. | «Hor …
donna»: Petr., RVF 121. | «Nuova … accorta»: Petr., RVF 106.

II

1 «Mia … adorno»: Petr., RVF 201. | «Qual … l’uno»: Petr., RVF 233. | poi che …
ventura: Petr., RVF 107, v. 15.
3 «M<a>enalus … Lycaei»: Verg., Buc., X, 15.
4 ancora che … servente: Aveva avanzato questa ipotesi Daniello nel suo com-
mento petrarchesco (Sonetti, canzoni et triomphi di Messer Francesco Petrarca con la
spositione di Bernardino Daniello da Lucca, Venezia, Giovanniantonio de Nicolini
da Sabio 1541, c. 39v). Sulla lettura di ‘Laura’ per ‘l’aura’ cfr. anche Vellutello:
«onde egli, come forse dell’altrui bene invidioso, per esser da M. Laura lontano,
lo desidera [il velo] a coprire il vago e t biondo capello di lei», (Le volgari opere del
Petrarca con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, Venezia, Giovannanto-
nio e fratelli da Sabio 1525, c. 199v) e Gesualdo (Il Petrarca con l’espositione di M.
Gio. Andrea Gesualdo. Nuovamente ristampato […], Venezia, Iacomo Vidali 1574,
c. 63r). | «Erano … sparsi»: Petr., RVF 90 | «Divitias … soli»: Tib., El., I, 1, vv. 1-2.
| «Nondum … Orco»: Verg., Æn., IV, vv. 698-699. | «Et le … bionde»: Petr., RVF
196, vv. 7-8.
7 Questa … Ovvidio: cfr. Ov., Met., III, vv. 138-253. | «Io … stormo»: Petr., RVF
23, vv. 147-160.
254 ANNALISA ANDREONI

II
LEZIONE SUL SONETTO DI PETRARCA
I DÌ MIEI PIÙ LEGGIER’ CHE NESSUN CERVO (RVF 319)3

[I]

[1] Essendo composto l’huomo, non altramente che si sieno tutti gli altri animali,
d’anima et di corpo, come chiaramente et da sé medesimo, s’io non m’inganno,
può conoscer ciascuno, et sì come testifica et fa fede M. Tullio più volte nel quinto
libro De’ fini de’ beni et de’ mali, degnissimo Consolo, virtuosissimi Accademici et
voi tutti nobilissimi uditori, è da sapere che, sì come Dio ottimo et grandissimo,
facitore et conservadore dell’universo, gli diede le membra et parti del corpo, con
tutta la statura et figura sua parimente, tanto atte et accomodate ad esequire le bi-
sogne et ufici loro naturali quanto non è possibile ad immaginarsi niuno et quanto
si poteva il più, et havendolo fatto in questo di grandissima lunga superiore a tutti
gli altri animali, come ne dimostra il medesimo Cicerone nel primo libro delle Leg-
gi distesamente, così ancora gli piacque, per l’ineffabile et incomprensibile bontà
sua, dotarlo d’un’altra parte dell’anima oltra quella mediante la quale egli è simile
et comunica colle bestie et sì come questa si chiama […] irrazionale et manca al
tutto di ragione, s[e]\’ella/ non è retta et governata da l’altra, così quella è detta
razionale, et quanto a lei se[[mo]] simili grandissimamente agli angeli. [2] Di q[[u]]
este due parti dell’anima, que[[ll]]a ch’è chiamata irrazionale fu divisa dagli [[h]]
uomini saggi et dotti in due altre parti: nella vegetativa, la quale è propia delle
pi[[a]]nte, et nella sensitiva, la quale è comune a tutti gli animali, et in questa parte
[[se]]nsitiva dicevano stare l’appetito nostro sensitivo, il quale appetito et senso
humano non es[[sen]]do per sé medesimo razionale è non di manco capevole di
ragione, ogni volta ch’egli [[s]]i lasci reggere et regolare da quella, come deve, et
contiene in sé due parti, cioè la irasci[[bi]]le et la concupiscibile, dalle quali ven-
gano et si generano tutti quelli affetti o perturbazioni che continovamente mole-
stano et travagliano l’anime nostre, quando la ragione è vinta et superata da loro,
et si chiamano per quattro nomi principali: disiderio, allegreza, timore et dolore.
[3] Et se bene di queste quattro passioni et commovimenti dell’animo ce ne sono
tre che possano essere così buone, come ree, et queste sono disiderio, allegreza et

3. ASF, Carte Strozziane, S. III, 206, cc. 83r-84v.


TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 255
timore – imperò che il dolore è sempre vano et di so[p]\v/erchio, et gli huomini
prudenti et temperati non si addolorano mai di cosa alcuna che sia loro avvenuta
o che deggia avvenire – perciò che si possano disiderare cose lodevoli et honeste,
et a questo modo il disiderio non sarebbe [bia] da esser dannato; puossi ancora
pigliare allegreza et temere di quello che si deve, et faccendo questo ciascuno sa-
rebbe lodato [et+di] rallegrarsi et d’haver paura, tuttavia perché noi ci lasciamo [le
più] [alcune] alle volte vincere et tirare dalla sensualità et appetito et trascorriamo
intanto dietro i soverchi et falsi piaceri di queste cose quaggiù terrene et mortali et
di queste pigliamo so[[lam]]e[[n]]te piacere et diletto \et queste sole disideriamo/,
fuggendo et temendo tutte quelle che a più altre et magnanime [[im]]pre[[s]]e ci
alzarebbero, et inna<ni>mirebbero, ancora ci fu data, \come si disse di sopra, per
ispetial grazia/ dal grandissimo et ottimo Dio datore di tutti i beni [come si disse]
(c. 83v) quella parte dell’anima nostra che si chiama razionale, come un freno et
regola acciò che con quelle vertù che in essa si contengano potessimo indirizarci
al ben fare et raffre[…]\\narci et ritirarci/ dalle operagioni inhoneste, […] volendo
che sì come in assai altre cose così ancora in queste più che in tutte l’altre fussimo
differenti dalle bestie.
[4] Le virtù che sono nella parte razionale sono di due maniere, perciò che al-
cune di loro, come sono la docilità, cioè agevoleza nell’imparare una qualche arte o
scienza o vero qual si voglia altra [al] cosa, et la memoria, mediante la quale potemo
et solemo agevolmente et lungo tempo rammentarci delle cose passate, et queste
portandosenele ciascuno, se già per qualche accidente non ne fusse privato, dal suo
nascimento, in quel medesimo modo che ’l vedere et l’udire, e ’l senso comune et gli
altri, che generalmente ci son dati dalla natura, sono dette naturali et non volonta-
rie, delle quali non occorre favellare al presente. [5] Altre poi ne sono più vere mol-
to et maggiori, le quali, per accozarsi nell’acquistarle non solamente la natura ma
etiamdio la voglia et studio dell’huomo, furono chiamate volontarie et sono quattro
principalmente: prudenza, giustizia, forteza et temperanza, delle quali la prudenza
è tutta intenta a conoscere le cose buone et cattive o ve[[ra]]mente l’una o l’altre, et
bisogna a chi vuole esser prudente non tanto riandare le c[[os]]e che sono seguite
per l’addrieto, ma considerare et conoscere le presenti et antived[[er]]e le future.
[6] La giustizia è un certo habito et consuetudine dell’animo, mantenuta per [[b]]
ene et utilità comune et universale, che attribuisce et dà a ciascuno quel che se gli
c[[onv]]iene, et benché ella fusse da principio cosa natural[a+e], tuttavia molte di
quelle cose che da lei procedevano furono di poi messe in uso et continovate dagli
huom[[in]]i per cagione dell’utilità grandissima che di quelle si cavava da ciascuno
generalmente; oltra questo le leggi et la religione confermarono et stabilirono tutto
quel che era venuto dalla natura et quello ancora che l’usanza haveva approvato.
[7] La forteza non è altro che una considerazion grandissima nel mettersi a qualche
pericolo et sopportare pazientemente l’avversità et si divide in magnificenza, fidan-
za, pazienza et perseveranza: mediante la magnificenza gli huomini maneggiono et
governano tutte le cose grandi et mirabili, con maravigliosa grandeza et intrepidità
256 ANNALISA ANDREONI

d’animo; per la fidanza l’animo nelle cose d’importanza et honeste si fida in sé


medesimo grandemente et con una speranza certissima; la pazienza ci fa habili per
l’honesto o per l’utile a sopportare le cose dure et malagevoli [volontariamente]
volentieri et lungo tempo; la perseveranza produce in noi una fermeza stabile et
perpetua in tutte le cose et propositi nostri considerati bene et diligentemente. [8]
Ora la temperanza, ch’è la quarta et ultima delle vertù intellettive, si può dire che
sia solamente una ferma et moderata signoria della ragione sopra la lussuria et altre
perturbaz[[ioni]] dell’animo disoneste et nocive, nella quale si considera non pure
l’essere modesto et no[[n]] isfacciato, ma clemente ancora et benigno nel rimettere
l’engiurie et di più la contenenza per la quale col reggimento et governo del con-
siglio si regolano le sfrenate cupidità dell’animo. [9] Queste dunque sono quelle
vertù le quali, (c. 84r) come s’è detto et veduto di sopra chiaramente, ci furon date
da Dio et dalla natura non per altro che per salveza dell’anime nostre et per farci
differenti in tutto dagli animali bruti, i quali si lasciano guidare agevolissimamente
et naturalmente da i loro appetiti senza freno o reggimento veruno di ragione; ma
gli huomini, quando accade che mediante gli impeti \et agitazioni/ dell’animo, che
rapiscono et tirano altrui per forza dove [par] più a lor pare, trascorrino in qualche
errore et disordinato appetito, raffrenano et reggano colla ragione, la quale ci mo-
stra apertamente quel che si deve fare et quello ancora che sia da fuggire, la parte
dell’anima irrazionale et bestiale, et si ritirano4 et riducano come da horribile et
tempestoso mare in sicurissimo et tranquillissimo porto, levando l’animo in tutto
et per tutto dallo amare et porre speranza in cose humane et caduche \et/ contem-
plando et pensando a quelle solamente che [che] sono divine et sempiterne. [10]
Et questo si può vedere, oltra la ragione naturale, manifestissimamente per varii et
infiniti essempi d’assaissimi huomini di tutte le na[t+z]ioni, come si legge non pure
ne i libri sacri dove ne sono senza novero, ma ancora in tutti ’ gravi et dotti scrittori
di prosa et di ver<s>o, così greci et latini come [[t]]oscani, et più che in tutti gli altri
nel nostro ottimo et dottissimo Messer Frances[[c]]o Petrarca in [assai] moltissimi
de’ suoi leggiadri et maravigliosi sonetti et canzoni, e[[t]] non meno che in alcuno
altro, per quanto a me ne paia, in quello il cui principio è:

I dì miei più leggier che nessun cervo


etc.

il quale io, più per ubbidire a quanto m’è stato [[im]]posto dal meritissimo Consolo
nostro et per seguitare il lodevole ordine di questa felicissima et fioritissima Acca-
demia che per altra cagione, ho tolto a dovere hoggi leggere et isporre, secondo le
poche et debolissime forze mie, disideroso di compiacere [non tanto a lui qua] non
pure a lui solo, ma a ciascuno di voi, non altramente in questo che in tutte l’altre
cose troppo più che per avventura non mi si converrebbe, rispetto alla grandissima
dottrina che si ricerca a dichiarare et interpretare gli scritti altrui et alla insuffi-

4. ritirano: ms.: ritarano.


TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 257
cienza mia. [11] Pregovi dunque, mentre io recito il presente religiosissimo sonetto
et vi narro il suo soggetto con brevi parole, ad ascoltarmi per vostra solita cortesia
benignamente et intentamente come fate.

[II]
[1] Soggetto

Accorgendosi il nostro leggiadrissimo et costumatissimo poeta, mediante la ra-


gione, la quale ogni buon’alma affrena, d’esser già assai bene oltra con gli anni et
della velocità grandissima del tempo, parendogli [quasi] omai hora del ravvedersi
et ammendarsi de’ passati falli et conoscendo chiaramente, per esser morta la sua
bellissima et castissima Madonna Laura, onde non poteva più godere dell’amata
sua vista, la quale gli era cagione non solamente di mantenerlo in vita, ma di farlo
felice, come ne mostra egli stesso in più luoghi et massimamente in quello altissimo
[[son]]etto che comincia Sì come eterna[ment] vita è veder Dio (c. 84v), conoscendo
dico quanto grave errore fusse stato il suo a non si levare per le belleze del corpo
di lei a contemplare quelle dell’anim[a+o] et in quelle fermarsi come cosa durevole
et eterna et che per morte né per altro accidente non pote[v]a venir meno, si duole
primieramente seco stesso d’havere speso i suoi giorni in amare et disiderare cose
terrene et caduche, vedendo di non haver trovato in quelle bene alcuno stabile et
perpetuo, et che se pure alle volte haveva sentito cosa veruna c’havesse in sé punto
di somiglianza di bene era stata non di meno tanto breve et fugace che non l’ha-
veva potuta a pena gustare, il che dimostra venire in parte dalla natura di questo
mondo quaggiù, il quale, come disse là nel sonetto Lasso ben so, che dolorose prede,
n’abbandona rapidamente et ne tiene fede picciolissimo tempo, perciò che chi in lui
o veramente in sue cose pone speranza ha del tutto perso il lume dell’intelletto. [2]
Laonde egli rivolto in tutto col pensiero a considerare le grandissime et rarissime
vertù di Madonna Laura come cosa immortale et divina, di quelle di mano in mano
più s’invaghiva et continovamente accresceva loro amore con ferventissimo disiderio
[di quelle] et non pensava ad altro mai che quale et quanta fusse allora la belleza et
splendore dell’anima sua, et ’n qual parte del cielo fuss[[e]] collocata, quasi volendo
inferire, come disse altra volta, ch’ella tenesse la più beata par[[te]] di quello, et che
il suo corpo tanto leggiad\r/o et bello, già piaciutogli oltra modo \\et/ più \ch[[e]
[[tu]]tte/ [alcuna] l’altr[a+e] cos[a+e] insieme che degne sono d’esser disiderate per
qualunque cagione, \\era/ allora [era] \terra et/ bruttissimo, avvedendosi in questo
modo et dolendosi d’havere apprezato troppo oltra il dovere quello che non deveva
et ingegnandosi di correggere il suo mancam[[en]]to quanto poteva il più. [3] E’
questo moralissimo sonetto, per quello che a me ne pare, in istile alto nel secondo
grado, perciò che se bene non arriva alla alteza così del soggetto et dispositione come
delle parole di quello il principio del quale [comincia così] \è questo/: Rotta è l’alta
colonna et ’l verde lauro, o veramente Se mai foco per foco non si spense et altri molti,
tuttavia non s’abbassa tanto colla dispositione et colle parole quanto quell’altro:
258 ANNALISA ANDREONI

Levommi il mio pensiero in parte ove era


quella ch’io cerco, et non ritruovo in terra

et quel che seguita, conciosia cosa che tutti questi sonetti, s’io non m’inganno,
siano in istile alto, perciò che se bene gli stili principali sono tre, cioè alto, mezano
et humile, nondimanco ciascuno di loro si sottodivide poi in tre altri, chiamati
per i medesimi nomi. [4] Ora verremo finalmente, per non tenervi più a tedio, alla
particolare spositione del presente sonetto, pregando prima Colui che ’l tutto regge
et governa che mi presti tanto del suo favore et aiuto, che mi baste a spedirmi \et
sgravarmi/ di tutto quello \peso/ che per disiderio grandissimo d’ubbidire et voglia
incredibile d’imparare et non per \alcuna/ altra cagione mi sono hoggi recato a
dosso volontariamente, dicendo che se bene si potrebbe dividere principalmente in
due parti, cioè ne’ duoi quade[[rna]]rii et ne’ sei versi che seguitano, nondimanco
noi per più agevoleza et maggiore intelligenza lo divideremo in quattro. [5] State-
mi, vi prego, a[d] udire pazientemente et io con più brevi et chiare parole ch[[e]]
saperrò et potrò mi sforzarò di dichiararlo.

1 sì come … mali: «Atqui perspicuum est hominem e corpore animoque constare,


cum primae sint animi partes, secundae corporis. Deinde id quoque videmus, et
ita figuratum corpus, ut excellat aliis, animumque ita constitutum, ut et sensibus
instructus sit et habeat praestantiam mentis, cui tota hominis natura pareat, in
qua sit mirabilis quaedam vis rationis et cognitionis et scientiae virtutumque om-
nium» (Cic., De fin., V, 12, 34). | havendolo … Leggi: «animal hoc providum, sagax,
multiplex, acutum, memor, plenum rationis et consilii, quem vocamus hominem,
praeclara quadam condicione generatum esse a supremo deo; […] Ipsum autem
hominem eadem natura non solum celeritate mentis ornavit sed et sensus tamquam
satellites adtribuit ac nuntios et rerum plurimarum obscuras nec satis <inlustratas>
intellegentias inchoavit, quasi fundamenta quaedam scientiae figuramque corporis
habilem et aptam ingenio humano dedit. Nam cum ceteras animantes abiecisset ad
pastum, solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis domiciliique pristini
conspectum excitavit, tum speciem ita formavit oris, ut in ea penitus reconditos
mores effingeret» (Cic., De leg., I, 7, 22 e 9, 26).
2 Di queste … concupiscibile: la divisione dell’anima secondo la filosofia ari-
stotelica | dalle quali … dolore: «Nec vero perturbationes animorum, quae vitam
insipientium miseram acerbamque reddunt, quas Graeci pathe appellant (poteram
ego verbum ipsum interpretans ‘morbos’ appellare, sed non conveniret ad omnia;
quis enim misericordiam aut ipsam iracundiam morbum solet dicere? at illi di-
cunt pathos; sit igitur perturbatio, quae nomine ipso vitiosa declarari videtur) […]
omnesque eae sunt genere quattuor, partibus plures: aegritudo, formido, libido,
quamque Stoici communi nomine corporis et animi edonen appellant, ego malo
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 259
laetitiam appellare, quasi gestientis animi elationem voluptariam» (Cic., De fin.,
III, 10, 35). Cfr. anche quanto scritto da Varchi nella Lezione sul sonetto del Bembo
“A questa fredda tema”: «Nelle quali due parti sono tutti gli affetti ovvero passioni
umane; le quali passioni, perciocché siccome venti contrari turbano la tranquillità
dell’anima ed ogni quiete della nostra vita, sono per più segnato vocabolo pertur-
bazioni chiamate dagli scrittori. E sono principalmente quattro: desiderio, allegrez-
za, timore e dolore, dalle quali e nelle quali, non altramente che i fiumi dal mare,
derivano e ritornano, si può dire, tutte l’altre, e non sono altro questi affetti, ovvero
perturbazioni, che alcuni moti e commovimenti dell’anima nostra» (Benedetto
Varchi, Opere […], Milano, Bettoni 1834, vol. I, p. 168).
3 Et se bene … paura: «Di questi quattro affetti o passioni dell’anima nostra,
i tre primieri si dividono, perché possono essere o buoni o rei, conciossiacosaché
il desiderare quello che si deve, e come si deve, sia cosa in ciascun luogo e d’ogni
tempo lodevole, e il rallegrarsi e temere dove e quando si debbe, non sia mai bia-
simevole» (Varchi, Opere…, 1834, p. 169). | il dolore … avvenire: «Il dolore non si
divide, perciocché i saggi e costanti uomini non deono né attristarsi né affliggersi
giammai, essendo superfluo e del tutto vano ogni dolore il quale o delle cose le
quali avvenute siano o di quelle le quali avvenire deggiano si piglia» (ibid.).
4 Le virtù … al presente: «Animi autem et eius animi partis, quae princeps
est, quaeque mens nominatur, plures sunt virtutes, sed duo prima genera, unum
earum, quae ingenerantur suapte natura appellanturque non voluntariae, alterum
autem earum, quae in voluntate positae magis proprio nomine appellari solent,
quarum est excellens in animorum laude praestantia. Prioris generis est docilitas,
memoria, quae fere omnia appellantur uno ingeni nomine, easque virtutes qui ha-
bent, ingeniosi vocantur» (Cic., De fin., V, 13, 36).
5 Altre poi … temperanza: «Alterum autem genus est magnarum verarumque
virtutum, quas appellamus voluntarias, ut prudentiam, temperantiam, fortitudi-
nem, iustitiam et reliquas generis eiusdem. Et summatim quidem haec erant de
corpore animoque dicenda, quibus quasi informatum est quid hominis natura po-
stulet» (Ibid.). | la prudenza … cattive: «proprium suum cuiusque munus est, ut […]
prudentia in dilectu bonorum et malorum [cernatur]» (Cic., De fin., V, 23, 67).
6 la giustizia … conviene: «Quae animi affectio, suum cuique tribuens atque
hanc quam dico societatem coniunctionis humanae munifice et aeque tuens, iusti-
tia dicitur, cui sunt adiunctae pietas, bonitas, liberalitas, benignitas, comitas, qua-
eque sunt generis eiusdem. […] iustitia in suo cuique tribuendo [cernatur]» (Cic.,
De fin., V, 23, 65 e 67).
7 La forteza … l’avversità: «ut fortitudo in laboribus periculisque cernatur»
(Cic., De fin., V, 23, 67).
8 Ora la temperanza … lussuria: «ut […] temperantia in praetermittendis volup-
tatibus [cernatur]» (ibid.).
260 ANNALISA ANDREONI

II

1 «Sì come … Dio»: Petr., RVF 191. | «Lasso … prede»: Petr., RVF 101.
3 «Rotta … lauro»: Petr., RVF 269. | «Se … spense»: Petr., RVF 48. | «levommi
… terra»: Petr., RVF 302, vv. 1-2. | gli stili … nomi: La teoria dei tre stili, attribuita
a Teofrasto, fu canonizzata da Cicerone («Is est enim eloquens, qui et humilia sub-
tiliter et alta graviter et mediocria temperate potest dicere», Cic., Or., 29, 100); cfr.
anche quanto scritto da Varchi nello scritto De’ tre stili: «E’ ben da notare che tutti
e tre questi stili si dividono anch’essi in tre parti, in altro, più alto e meno alto, e
così degli altri due, secondo che ricercano le materie; e per lo più si ritruovano tutti
e tre questi stili in tutti i componimenti; perciocché si vanno mescolando secondo
che sono le cose delle quali si scrive; oltra che si debbe fuggire sempre la sazietà so-
pra ogni cosa, e niuna cosa è tanto bella, che continovamente non venga a fastidio, e
massimamente essendo il giudizio superbissimo. Onde si deveno andare scambian-
do et alternando, passando dal grave ed alto non già in un tratto al leggiero e basso,
ché questo sarebbe piuttosto cadere che scendere, ma nel mezzano, e dal mezzano
all’umile, ritornando da questo non al sublime, ma al temperato, perché non appaia
diseguaglianza sì grande. E per fuggire la sazietà, non si deve servare questa regola
sempre; oltraché, come ne la musica si vede, alcuna voce discordante e non bene
concordevole fa migliore paragone all’altre e le rende più grate» (Varchi, Lezioni
sul Dante…, II, pp. 303-304).
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 261
III
LEZIONE SU UN SONETTO DI PETRARCA 5

[I]

[1] Tutte le cose materiali et sensibili, prudentissimo Consolo, honoratissimi Acca-


demici et voi altri, cortesissimi uditori, hanno da Dio et dalla natura alcuno ter-
mine et fine, chi più breve et chi più lungo, secondo che ad esse conviene, oltra il
quale è impossibile che elleno durino più, perciò che, essendo composte di materia
et di forma, è necessariisimo che manchino et finiscano d’essere quando che sia, et
se alcune sono le quali ci paiano lunghissime et durevoli molto, viene perciò che
la brevità et corteza del vivere nostro non ci lascia vedere \i/l[à] fine et \la/ morte
di quelle, ma egli non [h] è dubbio alcuno, benignissimi uditori, che se noi aggua-
gliassimo, delle cose terrene et mortali qual si voglia di quelle le quali hanno vita
maggiore et più lungamente bastano, elle sarebbero brevissime et quasi un punto
verso le celesti et immortali, del che possono fare manifestissima fede et indubitato
testimonio, oltra infiniti altri essempii, tante città et regioni già popolatissime et
fioritissime, le quali hoggi, disolate del tutto et tornate in nulla, ritengono il nome
loro a gran pena, consumate affatto et divorate [et divorate] dal tempo, il quale col-
la sua velocità incredibile vince et spegne le cose terrene tutte quante. [2] Et di qui
[ancora] si può vedere manifestissimamente quanto siano non pur folli et ciechi, ma
miseri ancora et veramente infelici tutti quegli, qualunque siano, i quali pongano
la loro speranza nelle cose di quaggiù, le quali sono tutte instabili et caduche, tutte
corrottibili et vane, tutte ingannevoli et traditrici, il che considerando prudente-
mente il nostro dottissimo messer Francesco Petrarca gridò, non meno con pietà
che con isdegno, poeticamente: «Miser chi speme in cosa mortal pone!», poi, consi-
derando che pochissimi erano quegli che ciò non facessero et che ragionevolmente
si trovavano sempre ingannati, soggiunse:
Ma chi non ve la pone? Et s’ei si truova
alla fine ingannato, è ben ragione.

[3] La cagione di questa nostra follia et cecità di mente è, secondo ch’io giudico,
che, essendo noi composti di ragione et di senso, la maggior parte degli huomini,
contra quello che fare si doverria, seguitando i sensi abbandona la ragione, et mas-

5. ASF, Carte Strozziane, s. III, 206, c. 106r-v.


262 ANNALISA ANDREONI

simamente nell’età giovinile, nella quale, vinti dallo appetito (c. 106v) o ingannati
dalla spetie et apparenza del bene, disideriamo molte volte molte cose come buone
o vere, le quali sono et ree et false, et questo n’avviene più spesso et con maggior
danno che in niuna altra cosa nell’amore, come si vede tutto ’l giorno assai più che
di mestiero non ci farebbe, del che però radissime volte o non mai ci accorgiamo, se
non quando passati i tempi migliori et conoscendo i danni nostri inremediabili non
ci avanza altro col pentere che il dolersi in vano et attristarsi. [4] Ma essendo l’in-
gannarsi et l’errare cosa humana, pare a me che quelli che ciò fanno meritino non
solamente scusa, ma compassione ancora dagli altri huomini, purché non vogliano,
come molti fanno, stare ostinati et perseverare nell’errore loro, ma conoscendolo a
qualche tempo et confessandolo cerchino d’ammendarsi, come cristianamente fece
il nostro prudentissimo poeta, sì in molti altri [sonetti] luoghi del suo leggiadris-
simo Canzoniere et sì in questo presente sonetto, il quale io, per ubbidire, come
si deve, al magnifico Consolo nostro, et osservare l’ordine di questa honoratissima
Accademia, ho preso non a sporre, ma a conferire con esso voi, essendo via più
atto ad imparare molte cose che ad insegnarne pure una. [5] Il sonetto è questo,
il quale, mentre ch’io leggerò pregovi, nobilissimi uditori, che vogliate ascoltarmi
pazientemente come havete fatto sempre infino qui.

2 «Miser … pone!»: Petr., Tr. Mor., I, 85. | «Ma chi … ragione»: Petr., Tr. Mor., I,
85-86 («e se si trova»).
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Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di settembre 2011
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