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Nuova
Rivista
di
Letteratura Italiana
XII, 1-2
2009
Edizioni ETS
00pped:00pped 1-09-2011 10:46 Pagina 6
TESTI E DOCUMENTI
Annalisa Andreoni
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE
ALL’ACCADEMIA FIORENTINA
1. Tra le lezioni esaminate da Plaisance sono di particolare interesse, in proposito, quelle di Piero Fab-
brini su RVF 170 e di Francesco de’ Ricci su RVF 132 (Michel Plaisance, L’Accademia e il suo Princi-
pe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Roma, Vecchiarelli 2004,
pp. 104-116 e 271-280).
246 ANNALISA ANDREONI
mia. Più difficile stabilire se essi siano stati letti precedentemente o successiva-
mente al rientro di Varchi in patria, poiché sappiamo che molte delle lezioni da
lui tenute all’Accademia degli Infiammati di Padova circolavano a Firenze quasi in
tempo reale, esercitando un notevole influsso sulla produzione degli Accademici.
Nella prima lezione vi è un accenno al fatto che in quello stesso giorno doveva-
no svolgersi le elezioni per il nuovo Console e che quella era l’ultima delle lezioni
‘private’ del consolato, ossia delle lezioni riservate ad un pubblico di soli accademi-
ci. L’autore stabilisce un paragone fra il proprio intervento, «basso e debolissimo»,
e quello invece «profondissimo e gagliardo» che aveva inaugurato le lezioni private
consolato.
Si tratta di una lezione di particolare interesse, poiché, a quanto mi consta, è
l’unica sin qui pervenutaci che abbia come argomento un madrigale petrarchesco.
I madrigali non furono studiati molto dagli Accademici fiorentini; gli Annali re-
gistrano solo tre incontri in merito: una lezione privata di Pandolfo (Cattani?) da
Diacceto su RVF 106, tenuta l’undici luglio 1549 sotto il consolato di Francesco
D’Ambra (BMF, ms. B III 52, c. 53v); una lezione pubblica di Tommaso D’Aiolfo
su RVF 54, tenuta il 19 gennaio 1550 sotto il consolato di Piero Orsilago (BMF,
ms. B III 52, c. 58v); una lezione privata di Piero Orsilago su RVF 121, tenuta il 19
novembre 1551 sotto il consolato di Francesco Torelli (BMF, ms. B III 52, c. 72v).
La nostra lezione espone in maniera piuttosto semplice il concetto oraziano del-
la poesia che delectando docet e le specificità della poetica rispetto alle altre arti
razionali (grammatica, retorica e logica). Fra i principali testi di riferimento vi sono
le Prose della volgar del Bembo, dalle quali è mutuata quasi letteralmente la tesi
dell’origine provenzale delle sestine e della derivazione del termine ‘madrigale’ da
‘mandria’. Abbastanza accurata è la spiegazione letterale del testo, arricchita dal
richiamo a luoghi poetici di Tibullo, Virgilio e Ovidio.
Di respiro piuttosto ampio è il proemio della seconda lezione, dedicato alla
divisione dell’anima e alla descrizione delle virtù razionali ‘volontarie’ – prudenza,
giustizia, fortezza e temperanza – secondo l’esposizione ciceroniana del De finibus
bonorum et malorum e del De legibus. In accordo con la teoria retorica dei tre stili
il sonetto preso in esame viene giudicato «in instile alto nel secondo grado», ma a
questo punto il testo in nostro possesso si interrompe e manca la ‘sposizione’ lette-
rale del componimento.
Infine, il proemio della terza lezione verte sulla caducità delle «cose terrene e
mortali» e sull’ingannevolezza del piacere dei sensi che allontana dalla ragione e
dal vero bene. La genericità del riferimento al ‘pentimento’ del poeta rende poco
fruttuoso il tentativo di individuare con precisione il sonetto oggetto della lezione.
Criteri di trascrizione
I
LEZIONE SUL MADRIGALE DI PETRARCA
NON AL SUO AMANTE PIÙ DIANA PIACQUE (RVF 52)2
[I]
[1] Io non dubito punto, Magnifico Consolo et voi, nobilissimi Accademici, che
ciascuno di voi non sappia benissimo che la poesia o vero arte poetica, favellando
massimamente di quel terzo genere, il quale consiste nell’immitare et contraffare,
ha, come tutte l’altre arti et scienze, alcuno fine et alcuno subbietto: il fine suo è,
come n’insegna Horazio nella Poetica, giovare o dilettare o veramente dilettare et
giovare insieme, perciò che, come n’afferma il medesimo, quel poeta è degnissimo
d’ogni lode, il quale mescola l’utilità col piacere, sì che i[l] lettori ne tragghino non
men[o] frutto che dilettazione. [2] Il subbietto poi della poetica è, come di tutte
l’altre arti che si chiamano da questo razionali, [l’orazione] le parole – et queste
sono quattro: gramatica, retorica, poetica et loica – et benché tutte queste habbiano
per soggetto et si maneggino intorno alle parole, fanno però questo diversamente,
perciò che altramente considera le parole il gramatico, cioè, per dir come i Latini,
se sono congrue o incongrue, altramente le considera il retore overo oratore, cioè
come sono non solamente congrue, ma come sono leggiadre et ornate, altramente
il poeta, il quale, devendo, oltra l’insegnare et muovere come il retore, generar
negli animi ammirazione, usa non solamente parole \\numerose et voci c’habbiano
leggiadria, alteza et sonorità/, ma figure et modi di favellare rimoti et lontanissimi
dal volgo et dall’uso comune; il loico poi non tiene conto dell’orazione, overo par-
lare, se non quanto egli è o vero o falso. [3] Veduto brevemente qual sia il fine et il
subbietto della poesia, diciamo dividendola che le parti o più tosto le spezie della
poetica sono più et diverse, ma noi raccontando per hora solamente quelle che usò
il nostro leggiadrissimo lirico Messer Francesco Petrarca, diremo, lasciando stare
i Trionfi divisi in capitoli, che alcuni chiamano canti et alcuni serventesi, et alcuni
vogliono che quegli siano i versi esametri overo heroici, diremo dico, che il Petrar-
ca non usò se non cinque maniere overo sorti di poemi o componimenti: canzoni,
sestine (benché le sestine, \\ingegnoso ritrovamento de’ provenzali compositori,
come molte altre cose nella nostra lingua/, si potrebbero annoverare tra le canzoni),
sonetti, ballate et madriali, et benché tutte queste cinque sorti si dividino in più
(c. 53v) et da questo vogliono alcuni che si chiamino mandriali. [5] Ma perché
de’ nomi non si debbe far molta stima quando le cose sono chiare, diremo che i
madriali sono di varie ragioni et quanto a’ versi, essendone de i più lunghi et de i
più brevi, et quanto alle rime, cioè ultime parole et consonanze de’ versi, et benché
alcuni diano più et diverse regole di fargli, tuttavia io per me, rimettendomi però
sempre a voi altri di maggior letteratura et giudizio, \\et a quello che ne scrive leg-
giadrissimamente il reverendissimo Bembo nel secondo libro delle sue dottissime
Prose/, credo che siano a placito et che ciascuno possa, et quanto al numero de’
versi et quanto alla corrispondenza delle rime, fargli come più gli piace, solo che
s’osservino alcune regole in guisa che non diventino altra maniera di compositione
et non trapassino il diritto segno et dovuto ordine loro, come si può imparare dal
Petrarca ne’ suoi madriali, che sono questo per uno et gli altri Per ch’al viso d’Amor
portava insegna, Hor vedi, Amor, che giovinetta donna, Nuova angioletta sovra l’ali
accorta, benché ne’ poeti antichi sopra Dante et al suo tempo medesimo se ne truo-
vano di varie guise, come si vede ancora hoggi ne i moderni ch’ogni dì si cantano.
[6] Dico bene che deveno essere agevoli et chiari et di materia bassa et anzi volgare
che non, come si vedrà in questo, il subbietto del quale, secondo che a me pare, è
questo.
[II]
[1] Soggetto
Essendo una volta di state a mezodì il poeta nostro in campagna alla foresta o per
cagione di viaggio o per altro suo diporto, vide una pastorella che lavava a una fon-
te una cuffia, overo uno sciugatoio o velo da portare in capo, come le donne fanno,
et perché gli parve di bell’aria et di buono aspetto, come se ne vede alcuna volta,
ella molto gli piacque et come huomo che egli era si risentì alquanto, non essendo
i primi moti in nostra² potestà¹, onde poi et forse alora, fece come poeta questo
madrialetto gentile, sopra quel tale atto et movimento, dicendo Diana non piacque
250 ANNALISA ANDREONI
più al suo amante, cioè ad Atteone; quando la vide: vide lei; tutta ignuda: ignuda
nata, come si dice hoggi; per tal ventura: ventura nella nostra lingua è di quelli
vocaboli che i Latini chiamano medii, come facinus, cioè che significano bene et
male, perciò che ventura alcuna volta si pon per buona sorte et fortuna, come la
‘mia ventura’: «Mia ventura et amor m’havean sì adorno» etc., et là: «Qual ventura
mi fu, quando da l’uno» etc., et tal volta per disgrazia et rea fortuna, come \nel/la
canzone In quella parte dove amor mi sprona: «poi che la dispietata mia ventura» et
in molti altri luoghi. [2] Qui si può pigliare nell’un modo et nell’altro, per buona se
haremo considerazione al principio et desiderio d’Atteone, per rea (c. 54r) se al fine
et al danno che gliene seguì.
[3] In mezo delle gelide acque: in una fonte chiara et fresca; disse gelide, non
gelate, ma fresche, che così lo pigliano i Latini, non havendo voce niuna che pos-
sa sprimere propiamente quello che noi diciamo fresco, et però disse Virgilio /
nell’ultima\ \\Egloga/ [Gelidique Lycei] /«M<a>enalus et gelidi fevlerunt saxa Ly-
caei\». [4] Ch’a me: s’intende piacesse; la pastorella alpestra et cruda: perché era \
per ventura/ in su l’Alpi et anco, come son le più volte, salvatic[a]\chetta et ritrosa/;
posta a bagnare: a lavare; è da notare questo modo posta, il quale è propio nostro et
non significa altro se non ‘che lavava’; un leggiadretto velo: o fusse una cuffia o uno
sciugatoio o altro velo, questo non importa, basta che alla netteza et leggiadria del
verso non conveniva dire altramente; che: il quale velo; chiuda: serre et racchiuda,
a l’aura: al vento, ancora che alcuni vogliono che si riferisca a Madonna Laura et \
che/ questa fusse una sua servente; il capello vago: o vago a vedere o perché fusse
come nel sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; biondo: biondo è propio il colo-
re dell’oro et quel che i Latini dicono \hora/ flavus et \hora fulvus/ onde [altrove
disse] \\Tibullo, poeta leggiadrissimo/, \comincia la sua opera:
Divitias alius fulvo sibi congerat auro
et teneat culti iugera magni [corretta è la forma multa, prob. da dove leggeva era
scritto m.] soli/,
\\et Virgilio disse nel fine del quarto libro della sua divina Eneida:
[5] Tal che: di maniera, in guisa che; mi fece hor quando egli arde il cielo: perché era
di state et a mezo giorno \et piglia il cielo per l’aria/; tutto tremar d’uno amoroso
g\i/elo: cioè divenir pallido et tremante come si fa ne i primi \assalti et/ riscontri
d’amore, il che viene perché il sangue si fugge al quore, onde le membra divengono
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 251
et bianche et tremanti, ancor che alcuni voglino riferirlo alla gelosia intendendo
pur per ‘l’aura’ Madonna Laura, il che a me non pare che quadri.
[6] Detto così brevemente l’ordine delle parole, più per sodisfare in qualche
parte al’uficio et debito mio che per bisogno che ce ne fusse, potrei dire di molte
cose, s’io mi volessi distendere intorno a quanto si potrebbe dire di Diana et d’At-
teone, ma perché, oltra il tempo che nol comporta, devendosi hoggi, per quanto
io avviso, trattare in questo luogo della creazione del nuovo Consolo, elleno sono
parte notissime et parte non fanno a proposito, dirò [non] solamente che Atteone,
quanto all’allegoria della favola, fu un grandissimo cacciatore et però finsero \i po-
eti, i quali sempre sotto varii velami et coverte insegnano cose belle et utili alla vita
civile/, che egli fusse innamorato ardentissimamente di Diana dea della caccie, il
quale, havendo veduta Diana ignuda, cioè havendo in ispazio di tempo conosciuto
quanto fusse vano et dannoso lo studio del cacciare, fu morto et lacerato da’ suoi
cani medesimi, cioè spese et logorò tutte le sostanze et facultà sue ne i cani che
teneva. [7] Questa favola, discritta da Ovvidio ingegnosissimamente, racconta il
poeta nostro con grandissima leggiadria a proposito suo nella canzone delle Tra-
sformazioni quando disse nell’ultima stanza:
Io seguì’ tanto avanti il mio disire
ch’un dì cacciando sì com’io solea,
mi mossi; et quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando il sol più forte ardeva.
(c.54v) Io, perché d’altra vista non m’appago
stetti a mirarla: onde ella hebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l’acqua nel viso colle man’ mi sparse.
Vero dirò (forse parrà menzogna)
ch’io sentì’ trarmi della propia imago,
et in cervio solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et ancor de’ miei can’ fuggo lo stormo.
[8] Questo è quel poco che m’è sovvenuto di dire in sì corto tempo sopra la spo-
sizione di questo breve et agevolissimo madriale, nel che spero d’havere a trovar
perdono agevolissimamente, sì da voi benignissimi uditori per la humanità et
cortesi[e+a] vostr[e+a], et sì massimamente dal prudentissimo Consolo nostro, il
quale come poteva imporre questo peso a molto più forte di me, o almeno dare a
me stesso spazio maggiore, così ha voluto ch’io sia quelli il quale dia termine alle
lezioni private del suo consolato, et ha in ciò, come in tutte l’altre cose, operato di-
scretissimamente, essendo dritto et ragionevole che a colui tocchi l’ultimo luogo il
quale è inferiore a tutti gl’altri et veramente come il principio et quasi fondamento
fu, se ben vi ricorda<te>, profondissimo et gagliardo, così il fine et quasi tetto è[t]
stato basso et debolissimo.
252 ANNALISA ANDREONI
II
1 «Mia … adorno»: Petr., RVF 201. | «Qual … l’uno»: Petr., RVF 233. | poi che …
ventura: Petr., RVF 107, v. 15.
3 «M<a>enalus … Lycaei»: Verg., Buc., X, 15.
4 ancora che … servente: Aveva avanzato questa ipotesi Daniello nel suo com-
mento petrarchesco (Sonetti, canzoni et triomphi di Messer Francesco Petrarca con la
spositione di Bernardino Daniello da Lucca, Venezia, Giovanniantonio de Nicolini
da Sabio 1541, c. 39v). Sulla lettura di ‘Laura’ per ‘l’aura’ cfr. anche Vellutello:
«onde egli, come forse dell’altrui bene invidioso, per esser da M. Laura lontano,
lo desidera [il velo] a coprire il vago e t biondo capello di lei», (Le volgari opere del
Petrarca con la espositione di Alessandro Vellutello da Lucca, Venezia, Giovannanto-
nio e fratelli da Sabio 1525, c. 199v) e Gesualdo (Il Petrarca con l’espositione di M.
Gio. Andrea Gesualdo. Nuovamente ristampato […], Venezia, Iacomo Vidali 1574,
c. 63r). | «Erano … sparsi»: Petr., RVF 90 | «Divitias … soli»: Tib., El., I, 1, vv. 1-2.
| «Nondum … Orco»: Verg., Æn., IV, vv. 698-699. | «Et le … bionde»: Petr., RVF
196, vv. 7-8.
7 Questa … Ovvidio: cfr. Ov., Met., III, vv. 138-253. | «Io … stormo»: Petr., RVF
23, vv. 147-160.
254 ANNALISA ANDREONI
II
LEZIONE SUL SONETTO DI PETRARCA
I DÌ MIEI PIÙ LEGGIER’ CHE NESSUN CERVO (RVF 319)3
[I]
[1] Essendo composto l’huomo, non altramente che si sieno tutti gli altri animali,
d’anima et di corpo, come chiaramente et da sé medesimo, s’io non m’inganno,
può conoscer ciascuno, et sì come testifica et fa fede M. Tullio più volte nel quinto
libro De’ fini de’ beni et de’ mali, degnissimo Consolo, virtuosissimi Accademici et
voi tutti nobilissimi uditori, è da sapere che, sì come Dio ottimo et grandissimo,
facitore et conservadore dell’universo, gli diede le membra et parti del corpo, con
tutta la statura et figura sua parimente, tanto atte et accomodate ad esequire le bi-
sogne et ufici loro naturali quanto non è possibile ad immaginarsi niuno et quanto
si poteva il più, et havendolo fatto in questo di grandissima lunga superiore a tutti
gli altri animali, come ne dimostra il medesimo Cicerone nel primo libro delle Leg-
gi distesamente, così ancora gli piacque, per l’ineffabile et incomprensibile bontà
sua, dotarlo d’un’altra parte dell’anima oltra quella mediante la quale egli è simile
et comunica colle bestie et sì come questa si chiama […] irrazionale et manca al
tutto di ragione, s[e]\’ella/ non è retta et governata da l’altra, così quella è detta
razionale, et quanto a lei se[[mo]] simili grandissimamente agli angeli. [2] Di q[[u]]
este due parti dell’anima, que[[ll]]a ch’è chiamata irrazionale fu divisa dagli [[h]]
uomini saggi et dotti in due altre parti: nella vegetativa, la quale è propia delle
pi[[a]]nte, et nella sensitiva, la quale è comune a tutti gli animali, et in questa parte
[[se]]nsitiva dicevano stare l’appetito nostro sensitivo, il quale appetito et senso
humano non es[[sen]]do per sé medesimo razionale è non di manco capevole di
ragione, ogni volta ch’egli [[s]]i lasci reggere et regolare da quella, come deve, et
contiene in sé due parti, cioè la irasci[[bi]]le et la concupiscibile, dalle quali ven-
gano et si generano tutti quelli affetti o perturbazioni che continovamente mole-
stano et travagliano l’anime nostre, quando la ragione è vinta et superata da loro,
et si chiamano per quattro nomi principali: disiderio, allegreza, timore et dolore.
[3] Et se bene di queste quattro passioni et commovimenti dell’animo ce ne sono
tre che possano essere così buone, come ree, et queste sono disiderio, allegreza et
il quale io, più per ubbidire a quanto m’è stato [[im]]posto dal meritissimo Consolo
nostro et per seguitare il lodevole ordine di questa felicissima et fioritissima Acca-
demia che per altra cagione, ho tolto a dovere hoggi leggere et isporre, secondo le
poche et debolissime forze mie, disideroso di compiacere [non tanto a lui qua] non
pure a lui solo, ma a ciascuno di voi, non altramente in questo che in tutte l’altre
cose troppo più che per avventura non mi si converrebbe, rispetto alla grandissima
dottrina che si ricerca a dichiarare et interpretare gli scritti altrui et alla insuffi-
[II]
[1] Soggetto
et quel che seguita, conciosia cosa che tutti questi sonetti, s’io non m’inganno,
siano in istile alto, perciò che se bene gli stili principali sono tre, cioè alto, mezano
et humile, nondimanco ciascuno di loro si sottodivide poi in tre altri, chiamati
per i medesimi nomi. [4] Ora verremo finalmente, per non tenervi più a tedio, alla
particolare spositione del presente sonetto, pregando prima Colui che ’l tutto regge
et governa che mi presti tanto del suo favore et aiuto, che mi baste a spedirmi \et
sgravarmi/ di tutto quello \peso/ che per disiderio grandissimo d’ubbidire et voglia
incredibile d’imparare et non per \alcuna/ altra cagione mi sono hoggi recato a
dosso volontariamente, dicendo che se bene si potrebbe dividere principalmente in
due parti, cioè ne’ duoi quade[[rna]]rii et ne’ sei versi che seguitano, nondimanco
noi per più agevoleza et maggiore intelligenza lo divideremo in quattro. [5] State-
mi, vi prego, a[d] udire pazientemente et io con più brevi et chiare parole ch[[e]]
saperrò et potrò mi sforzarò di dichiararlo.
II
1 «Sì come … Dio»: Petr., RVF 191. | «Lasso … prede»: Petr., RVF 101.
3 «Rotta … lauro»: Petr., RVF 269. | «Se … spense»: Petr., RVF 48. | «levommi
… terra»: Petr., RVF 302, vv. 1-2. | gli stili … nomi: La teoria dei tre stili, attribuita
a Teofrasto, fu canonizzata da Cicerone («Is est enim eloquens, qui et humilia sub-
tiliter et alta graviter et mediocria temperate potest dicere», Cic., Or., 29, 100); cfr.
anche quanto scritto da Varchi nello scritto De’ tre stili: «E’ ben da notare che tutti
e tre questi stili si dividono anch’essi in tre parti, in altro, più alto e meno alto, e
così degli altri due, secondo che ricercano le materie; e per lo più si ritruovano tutti
e tre questi stili in tutti i componimenti; perciocché si vanno mescolando secondo
che sono le cose delle quali si scrive; oltra che si debbe fuggire sempre la sazietà so-
pra ogni cosa, e niuna cosa è tanto bella, che continovamente non venga a fastidio, e
massimamente essendo il giudizio superbissimo. Onde si deveno andare scambian-
do et alternando, passando dal grave ed alto non già in un tratto al leggiero e basso,
ché questo sarebbe piuttosto cadere che scendere, ma nel mezzano, e dal mezzano
all’umile, ritornando da questo non al sublime, ma al temperato, perché non appaia
diseguaglianza sì grande. E per fuggire la sazietà, non si deve servare questa regola
sempre; oltraché, come ne la musica si vede, alcuna voce discordante e non bene
concordevole fa migliore paragone all’altre e le rende più grate» (Varchi, Lezioni
sul Dante…, II, pp. 303-304).
TRE ANONIME LEZIONI PETRARCHESCHE 261
III
LEZIONE SU UN SONETTO DI PETRARCA 5
[I]
[3] La cagione di questa nostra follia et cecità di mente è, secondo ch’io giudico,
che, essendo noi composti di ragione et di senso, la maggior parte degli huomini,
contra quello che fare si doverria, seguitando i sensi abbandona la ragione, et mas-
simamente nell’età giovinile, nella quale, vinti dallo appetito (c. 106v) o ingannati
dalla spetie et apparenza del bene, disideriamo molte volte molte cose come buone
o vere, le quali sono et ree et false, et questo n’avviene più spesso et con maggior
danno che in niuna altra cosa nell’amore, come si vede tutto ’l giorno assai più che
di mestiero non ci farebbe, del che però radissime volte o non mai ci accorgiamo, se
non quando passati i tempi migliori et conoscendo i danni nostri inremediabili non
ci avanza altro col pentere che il dolersi in vano et attristarsi. [4] Ma essendo l’in-
gannarsi et l’errare cosa humana, pare a me che quelli che ciò fanno meritino non
solamente scusa, ma compassione ancora dagli altri huomini, purché non vogliano,
come molti fanno, stare ostinati et perseverare nell’errore loro, ma conoscendolo a
qualche tempo et confessandolo cerchino d’ammendarsi, come cristianamente fece
il nostro prudentissimo poeta, sì in molti altri [sonetti] luoghi del suo leggiadris-
simo Canzoniere et sì in questo presente sonetto, il quale io, per ubbidire, come
si deve, al magnifico Consolo nostro, et osservare l’ordine di questa honoratissima
Accademia, ho preso non a sporre, ma a conferire con esso voi, essendo via più
atto ad imparare molte cose che ad insegnarne pure una. [5] Il sonetto è questo,
il quale, mentre ch’io leggerò pregovi, nobilissimi uditori, che vogliate ascoltarmi
pazientemente come havete fatto sempre infino qui.
2 «Miser … pone!»: Petr., Tr. Mor., I, 85. | «Ma chi … ragione»: Petr., Tr. Mor., I,
85-86 («e se si trova»).
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