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Illuminismo giuridico
Durante il Settecento, così come in tutti gli altri campi, anche in quello giuridico l’atteggiamento
degli illuministi fu generalmente razionalistico e polemico nei confronti della tradizione, delle
istituzioni giuridiche e dell’ordine morale e normativo vigenti. Per gli illuministi è fondamentale
rompere con il passato, con la tradizione e la storia e procedere alla razionalizzazione del diritto
vigente. Come i giusnaturalisti, essi affermano l’esistenza di un diritto naturale, espressione
della natura razionale dell’uomo. Tale diritto è universale e sovraordinato a qualsiasi legislazione
storicamente realizzata. A differenza dei giusnaturalisti, gli illuministi ritengono che la razionalità
delle norme del diritto naturale possa realizzarsi solo nel diritto positivo. Essi affidano alla volontà
razionale del legislatore e quindi alla legge il compito di tradurre in diritto vigente le norme del
diritto naturale.
Nel campo penale le esigenze di razionalizzazione degli illuministi danno luogo ad una concezione
complessivamente garantista (abolizione tortura, pena di morte, delitti di magia e stregoneria) ed
ispirata a tre principi: 1) la necessità di una proporzione tra reato e pena; 2) la necessità di rendere
più umano il trattamento del reo; 3) la necessità di rendere la pena funzionale alla rieducazione
del reo. In particolare, C. Beccaria nell’opera “Dei delitti e delle pene” 1764 pone l’accento sulla
necessità di applicare con certezza e rapidità una pena che non necessariamente deve essere
terribile, dal momento che una pena mite ma certa ha un potere intimidatorio superiore rispetto a
quello di una pena terribile ma incerta nella sua applicazione.
Le istanze illuministe furono accolte in molti Stati europei, tra cui la Russia di Caterina II, la
Prussia, l’impero austroungarico e il Granducato di Toscana di Pietro Leopoldo. Infine, tali
principi furono accolti anche nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” approvata
dall’Assemblea costituente francese nel 1789.