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LA VIRTÙ DEL POPOLO

Paulo Butti de Lima

«In tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desi-


derii e quelli medesimi omori»1. Sulla base di simili constatazio-
ni, Machiavelli può non solo procedere all’analisi dell’anima po-
polare, fondandosi su esempi antichi e recenti, ma anche conside-
rare il linguaggio della storia quando svincolato dalle azioni dei
singoli individui. L’immutabilità dei sentimenti e passioni, rife-
riti a città e popoli, giova all’osservatore, il quale sarebbe altri-
menti incapace di trasformare in lezioni, o in «discorsi», le pro-
prie letture. Ma l’autore aggiungerà non molto dopo un altro at-
tributo dell’anima di cui constata la presenza nelle città e soprat-
tutto nei popoli: le virtù. In modo particolare, vi riscontrerà la
virtù propria di chi deve governare. Della gratitudine, gagliardia
e di ben altro si discute nelle pagine dei Discorsi, e alcune volte
sono caratteristiche riferite alla plebe, altre volte al popolo o alla
moltitudine. Ma verso la fine del primo libro, Machiavelli affer-
ma (e il tono della dichiarazione non è irrilevante): «La moltitu-
dine è più savia e più costante che uno principe»2.

1 MACHIAVELLI, Discorsi I XXXIX.


2 Discorsi I LVIII. La centralità del capitolo è stata colta da L. STRAUSS
(Thoughts on Machiavelli, Glencoe, IL, The Free Press, 1958, pp. 128 ss.),

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Il titolo è volutamente d’impatto. L’autore si cura di farlo ri-


suonare contro la voce corale di alcuni individui contraddistinti
dal loro sapere:

Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la mol-


titudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri stori-
ci, affermano.

Sotto il segno della novità e del paradosso, Machiavelli attri-


buisce alla moltitudine la virtù per eccellenza dell’agire tra gli
uomini e quindi del governarli3. Come per i desideri e gli umori,

con una lettura certamente diversa da quella che qui proponiamo (il «po-
pulismo» di Machiavelli, come detto da Strauss per questo capitolo, viene
ripreso da P. A. RAHE, Against Throne and Altar. Machiavelli and Political
Theory under the English Republic, Cambridge, Cambridge University Press,
2008, pp. 53 ss.). Per le questioni trattate in questo saggio è utile rinvia-
re, in particolare, alle voci della Enciclopedia Machiavelliana, diretta da G.
SASSO e G. INGLESE, Roma, Treccani, 2014, su Virtù (di A. CAPATA) e Ari-
stotele (di P. FALZONE), con i rispettivi rinvii alla bibliografia specifica. Per
l’uso di plebe e di popolo, ma in particolare nelle Istorie fiorentine, cfr. J.-C.
ZANCARINI, Gli umori del corpo politico: «Popolo» e «plebe» nelle opere di Ma-
chiavelli, in La lingua e le lingue di Machiavelli, a cura di A. PONTREMOLI, Fi-
renze, Olschki, 2001, pp. 61-70. Mi sono naturalmente avvalso, per i Dis-
corsi, del commentario di L. J. WALKER (The Discourses of Niccolò Machiavel-
li, 2 voll., London, Routledge, 1955; 1970) e delle edizioni e delle note di
commento di G. INGLESE (Milano, Rizzoli, 1984), C. VIVANTI (Torino, Ei-
naudi, 1997) e F. BAUSI (Roma, Salerno, 2001).
3 Per la sostituzione di «savio» con «prudente» si veda infra. «Savio», inve-
ce, è un attributo spesso riferito da Machiavelli al principe, nell’opera omo-
nima. La nozione di virtù in Machiavelli non può essere qui sviluppata;
tuttavia, anche per richiamare il senso più ampio del termine, e con più fre-
quenti corrispondenze con le riflessioni antiche di quanto si è soliti am-
mettere, conviene ritenere, in particolare, l’elogio delle «virtuose qualita-
di» nella dedica dei Discorsi e i riferimenti, in quest’opera, ai vizi: tra cui
l’ingratitudine (I XXIX, XXX) – nata dall’avarizia e dal sospetto (I XXIX) –
la superbia, la crudeltà e la lussuria (III XX), il dispregio e l’odio (III XXII).

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si ha a che fare con un tratto costante del carattere di individui


osservati come un solo organismo, considerati nei loro pensieri e
nelle azioni in comune. Ma diversamente da desideri e umori, di
questa virtù popolare, e già antica, nessuno si è avveduto. O qua-
si nessuno.
Vanità e incostanza sono attribuite alla moltitudine da «tutti
gli storici». Poco dopo l’attribuzione è ampliata: si tratta di «tut-
ti gli scrittori». Sapremo, più in là, con un nuovo allargamento,
che essa è la «commune opinione». L’espressione è ambigua e po-
trebbe fare pensare alla voce stessa del popolo, che, come è ricor-
dato, è vox Dei. In realtà, si tratta dell’opinione comune tra colo-
ro che osservano il popolo e lo descrivono: nel caso specifico degli
storici, raccontano. L’opinione comune di questi osservatori non
può coincidere con l’opinione comune di coloro che sono invece
oggetto di osservazione. La moltitudine è savia, ma non invece i
molti che la osservano. Ad una simile e derivata ‘moltitudine’ di
osservatori del popolo non sembra addirsi l’attributo della sag-
gezza. Mentre imputano con frequenza passioni e desideri alla
moltitudine, gli scrittori non vi riscontrano il potere di controllo
dei movimenti irrazionali dell’anima, ciò che sarebbe, secondo
tradizione, virtù. Cos’altro significa la «costanza», se non la ca-
pacità di non essere sopraffatti da passioni momentanee e da de-
sideri transitori?
I lettori di Machiavelli hanno spesso cercato esempi per corro-
borare il tono critico della sua osservazione e che sarebbero, quin-
di, presenti in questo momento alla mente dell’autore. Alla voce
singola di Livio, la sola ricordata, subentrano altre, come quelle
di Cicerone, Sallustio e Tacito, mentre ai prosatori si aggiungono
anche i poeti, come Orazio e Ovidio4. Meno si sono cercate le ec-
cezioni ad un tale coro di critici della virtù popolare. Ma è legit-

4 Sono gli esempi ricordati da F. BAUSI, e dagli altri commentatori dei Dis-
corsi.

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timo domandarsi se, tra gli «scrittori» tutti qui accomunati, non
vi sia qualcuno che osservi le decisioni e le azioni del popolo sen-
za indugiarsi nei suoi difetti. L’autore dei Discorsi, in questo mo-
mento, si presenta nella veste di lettore e giudice di storici, non
di storico egli stesso, e smentisce affermazioni che sono da tutti
ribadite. Se non si trova solo in questa posizione, allora la sua cri-
tica manca di universalità. Non siamo informati su quali altri
scrittori, che parlano della moltitudine ma non sotto forma nar-
rativa, potevano essere inclusi tra i suoi denigratori. Ma di uno fra
loro sappiamo che ha potuto, almeno per un momento, ammira-
re la saggezza popolare.
Il rapporto tra Machiavelli e Aristotele è una questione assai
discussa e non sarebbe possibile ora riprenderla, nonostante la
pertinenza di un tale tema ad un incontro dedicato al lessico mo-
rale. Più limitatamente, le pagine seguenti intendono offrire
qualche commento a margine delle note affermazioni machiavel-
liane sulla virtù del popolo – un’etica popolare e politica –, sen-
za, però, trascurare l’importanza del precedente aristotelico nella
valutazione della superiorità morale e intellettuale degli uomini
quando collettivamente intervengono nell’ambito delle decisioni
politiche.
***
La sequenza dei capitoli finali del primo libro dei Discorsi sem-
bra essere determinata non tanto dagli argomenti trattati, ma dal-
la lettura dei passi di Livio, seguiti sempre in successione. Ma un
tema, in particolare, domina l’attenzione dell’autore: la natura del
popolo o della moltitudine. In un primo momento, non solo so-
no menzionati episodi ripresi dalla narrazione liviana, ma in più
si accetta dallo storico il giudizio sugli attori e sulla natura della
politica: «la plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole»5. Livio

5 Discorsi I LVII.

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offre, in questo modo, sia il materiale su cui discorrere, sia anche


le conclusioni dei discorsi. Non lo stesso, però, nel capitolo suc-
cessivo, dove si parla ancora attraverso aneddoti liviani, ma non
più letti sotto la guida del narratore. Machiavelli si oppone allo
storico romano nell’apprezzamento della saggezza popolare. Sono
cambiamenti di non poco conto, trattandosi sempre di discorrere
sul popolo. Se prima si cercava di mostrare la «natura d’una mul-
titudine», era per chi con essa doveva confrontarsi: «quando tu sia
ordinato… che non ti offenda». Ora, invece, lo sguardo sulla mol-
titudine sembra distante da ogni fine strumentale.
Non si tratta di un compito semplice, quello di attribuire sag-
gezza e costanza all’azione politica dei più, e Machiavelli lo ac-
centua con forza retorica:

Io non so se io mi prenderò una provincia dura e piena di


tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con ver-
gogna o seguirla con carico, volendo difendere una cosa, la
quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata.

Con un tono che richiama precedenti antichi (e già così Socra-


te nella Repubblica affermava i suoi paradossi e affrontava la vio-
lenza dei difensori delle opinioni comuni), Machiavelli pretende
di difendersi, contro tutti, «con le ragioni». E ancora, sempre d’ac-
cordo con precetti classici, indica come tema principale la legge,
a cui devono sottoporsi individui e popoli. Non si trova nella na-
tura della moltitudine la causa degli eccessi che le sono attribui-
ti. Di questi eccessi si possono fare altrettanti esempi per i prin-
cipi. Diversamente da quanto afferma Livio, superbia e umiltà
non sono da riconoscere soltanto nel comportamento della molti-
tudine, la quale proprio sotto la repubblica romana, finché rima-
se incorrotta, agì come era necessario. E quando si riprende l’e-
sempio non più dai Romani, ma da Siracusa, allora si vede che
quella moltitudine era «sciolta», non vincolata cioè dalle leggi.
Nemmeno in questo caso, però, l’insieme degli uomini agisce di
modo inferiore agli individui presi isolatamente, tra i più poten-

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ti e insigni. Anche ora la moltitudine procede «come fanno gli


uomini infuriati e sciolti», per i quali sono richiamati ad esempio
Alessandro Magno ed Erode. Se questa è la «natura della molti-
tudine», in essa si trova meno «incostanzia» e «variazione di vi-
ta» che negli imperatori, nei tiranni e nei principi.
Dice quindi la comune opinione «come i popoli, quando so-
no principi, sono vari, mutabili ed ingrati». Un’opinione che si
vuole qui contrastare, «affermando che in loro non sono altri-
menti questi peccati che siano ne’ principi particolari». Ciò si
mostrerebbe vero di ogni governo, anche di quelli dove principi
sono davvero i principi. Se invece l’argomento è applicato di for-
ma esclusiva al governo dei più, allora è falso:

perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà


stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe,
o meglio che un principe, eziandio’ stimato savio: e dal-
l’altra parte un principe sciolto dalle leggi sarà ingrato,
vario ed imprudente più che un popolo.

Questa è la prima ed esplicita conclusione di quello che pro-


babilmente è il più democratico capitolo machiavelliano. L’infe-
riorità morale del popolo, rispetto ai singoli individui, viene così
contrastata.
A fermarci qui, dovremmo pensare che si può certamente ac-
cettare che esista una psicologia delle masse (ricorriamo pure ad
una espressione poco machiavelliana), ma che essa non si distin-
gua dalla psicologia dei capi. Ci ritroviamo così in sintonia con la
conclusione di un altro tra i capitoli ‘democratici’ dei Discorsi in
cui si afferma che il popolo non è più ingrato dei principi6. Ma

6 Discorsi I XXIX. Il pretesto per parlare in questo capitolo del «vizio» del-
l’ingratitudine, nel popolo e nel principe, è la comparazione tra Atene e
Roma: una comparazione che va a discapito della città greca, e conduce ad
una conclusione in cui si vede con favore il carattere popolare, almeno equi-

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solo per poco tempo rimaniamo di questa opinione, che vede alla
pari singoli e molti in quanto soggetti politici: l’autore si appre-
sta invece a sottolineare, nei paragrafi seguenti, che non solo è le-
cito parlare dell’anima popolare, come parliamo dell’anima dei
singoli individui, ma che nel popolo l’anima ha dei tratti propri
ed è spesso di segno opposto rispetto a quella che osserviamo in
ognuno di noi, preso di per sé. Con l’equiparazione fatta tra il po-
polo e il principe nei sentimenti, passioni e virtù, Machiavelli ha
concluso una prima confutazione di «tutti gli scrittori». Ma in
questo capitolo in difesa della virtù del popolo, l’autore prepara
nuove e diverse conclusioni.
Conviene ricordare, vista l’attenzione per le decisioni e azioni
popolari, che il termine ‘democrazia’ non fa parte del vocabolario
di Machiavelli. Questo neologismo trovava allora poca accoglien-
za a Firenze, a ragion veduta. Mentre con Moerbeke e altri prima
di lui, le traduzioni aristoteliche avevano arricchito il latino di for-
me greche e avevano creato un linguaggio quasi esoterico per una
nuova ‘provincia’ – diciamo, adoperando un altro neologismo, la
riflessione politica –, già con la traduzione della Politica aristoteli-
ca preparata dal Bruni questi vocaboli erano aborriti, in favore di
formule propriamente latine, quindi adeguate anche al volgare.
Non lo stesso è parlare di politica in testi che trattano di città o di
stati (status), e non di polis. Così anche appaiono cose assai diverse,
da un lato, riprendere, in latino o in volgare, la parola ‘democra-
zia’, dall’altro, ricorrere di forma consonante al popolo e al gover-

parato a quello dei principi. Uno lavoro più particolareggiato sulla psico-
logia e sulla morale popolare nei Discorsi dovrebbe iniziare almeno da qui.
In effetti, i capitoli del primo libro si alternano tra, da un lato, i consigli
all’agire politico dei capi politici e, dall’altro, le descrizioni dell’anima del
popolo, temi distinti e intersecanti. Uno studio così ampio sull’immagine
del popolo, che tenesse conto complessivamente del primo libro dei Dis-
corsi, non sarebbe possibile in queste pagine, e dovrebbe comunque sfuggi-
re alla tentazione di trovare, in questi vari «discorsi», la coerenza che ci si
aspetterebbe da un trattato politico-morale.

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no, riferendosi a ‘regime’ o ‘stato popolare’. Con Bruni e i suoi let-


tori, il vocabolario politico si adatta alla lingua d’uso e alla realtà
politica presente, senza la distanza creata da termini sentiti come
inadeguati. In Machiavelli troviamo, ma di rado, espressioni come
il «vivere politico», ma le leggiamo come brevi intrusioni di un
vocabolario straniero, o una reminiscenza di un linguaggio scola-
stico sempre rinnovato7. Saranno altre le tradizioni dei testi ari-
stotelici, circolanti in città e paesi più a nord, a rendere familiari i
neologismi della politica e della democrazia.
In un capitolo che – fatte queste precisazioni – possiamo chia-
mare democratico, Machiavelli non sembra procedere secondo la
consueta disputa sui vantaggi di ogni forma di governo. Ma di
questo in fondo si tratta. In un primo momento, abbiamo impa-
rato che le azioni dei popoli non sono inferiori a quelle dei prin-
cipi, e che all’anima popolare conviene ciò che si può attribuire
anche a quella dei singoli. Ora, l’autore non nasconde invece la
superiorità popolare, proprio in quelle cose che, secondo ragione,
dovrebbero giustificare l’attribuzione del potere e quindi il go-
verno sugli uomini: il popolo «è più prudente, più stabile e di
miglior giudizio che un principe»8. La sostituzione dell’attributo

7 L’espressione « vivere politico » ricorre più volte nei Discorsi, ed è l’unico


uso di ‘politica’ o ‘politico’ nell’opera (cfr. I VI, XVIII, XXV, LV; II I; e ‘poli-
ticamente’ in III VIII). Il termine non compare nel Principe. Per l’uso di ‘po-
litico’ nella prima età moderna si veda ancora N. RUBINSTEIN, The history
of the word politicus in early-modern Europe, in Studies in Italian History in the
Middle Ages and the Renaissance (ed. orig. 1987), a cura di G. CAPPELLI, Ro-
ma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp. 317-333.
8 Il tema della superiorità del giudizio del popolo su quello del principe è ri-
preso in III XXXIV: «giudicano dunque i popoli, nella elezione a’ magistra-
ti, secondo quelli contrassegni che degli uomini si possono avere più veri,
e quando ei possono essere consigliati come i principi, errano meno de’
principi». Ma diversamente da I LVIII, l’attenzione è qui rivolta al «cittadi-
no che voglia cominciare a avere i favori del popolo», piuttosto che all’agi-
re del popolo per se stesso.

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della saggezza con quello della prudenza conferma che si parla di


quanto permette agli uomini di governare. Cos’altro può meglio
giustificare la guida della città se non il «buon giudizio», l’eubou-
lia dei Greci? Invece di rispolverare, i vecchi argomenti sulle va-
rie forme di governo, Machiavelli si rivolge al giudizio corrente,
e già antico, sulle virtù, e riconsidera le passioni che portano ad
agire gli uomini assemblati: ovvero, la massa degli individui con-
trapposta al principe, in vista dell’esercizio del potere.
Il popolo è superiore al principe nella prudenza, stabilità e
buon giudizio. Non altro è necessario per indicare che siamo sul
piano del paradosso e che le opinioni comuni sono del tutto ab-
bandonate. Se consideriamo la stabilità una virtù politica, allora
l’ordine è chiaro, e va dal principe al popolo, e dal popolo alla leg-
ge, secondo un valore crescente. Rispetto al singolo, il popolo
prevede e giudica meglio. La voce del popolo è voce di Dio, e «per
occulta virtù» è capace di pronosticare il proprio bene e male.
Trattandosi di previsione, si deve ricordare che prima si era fatto
un accenno a Savonarola, quando si pensava – con un simile tono
esoterico – a «questo aere... pieno di intelligenze» e alla compas-
sione di uomini capaci di cogliere i segni del futuro (I LVI). Ciò
che è nell’aere, ed è colto da uomini come il frate ferrarese, è an-
che colto dal popolo, per ragioni nascoste, presumibilmente
quando non è governato dal principe. Ma non si considera ora sol-
tanto la previsione, quindi il futuro: anche nel giudizio, ovvero
nell’osservazione delle cose presenti, si manifesta la capacità al-
trettanto misteriosa della moltitudine, quando deve decidere tra
le contrapposte concioni presentate da uomini «di eguale virtù»
(I LVIII). Se la virtù degli oratori è la stessa, di conseguenza non
deve costituire il criterio che permette di discernere la verità di
discorsi contrapposti; se poi questo criterio non si trova sempli-
cemente nell’argomento delle concioni, allora esso deve apparte-
nere ai loro destinatari: deve cioè derivare da una capacità di giu-
dizio che nel popolo, per imprecisata ragione, è di natura supe-
riore.
A previsione e giudizio si aggiungono altre capacità, in cui si

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manifesta la superiorità della moltitudine o quantomeno la sua


non inferiorità: così nell’opinione sulle cose gagliarde, come si era
già detto nel capitolo precedente per il popolo che non è «sciol-
to». Il coraggio evidentemente non è una virtù secondaria per uo-
mini di governo, tanto più se si mostra alleato alla saggezza (co-
me già sapeva Platone). Lo stesso avviene anche nelle cose utili –
il campo proprio dell’agire politico –, dove la moltitudine erra
tanto quanto il principe, se è vero che l’errore nell’agire, secondo
un’antica consapevolezza, è motivato dalle passioni: e le passioni
del principe «sono molte più che quelle de’ popoli». Scopriamo
in questo modo un’altra peculiarità dell’anima popolare, meno af-
flitta da quei sentimenti che portano all’errore e che deviano i sin-
goli individui al potere dal bene proprio e comune. E se nelle co-
se menzionate i popoli si mostrano almeno pari al principe, nel-
l’elezione dei magistrati e nella costanza sono superiori9. Come se
mancassero ragioni per rifiutare ogni visione tradizionale dell’a-
nima popolare e dell’agire politico delle masse, ecco esplicitarsi il
vantaggio insuperabile del governo democratico: nelle città «do-
ve i popoli sono principi» si fanno «in brevissimo tempo augu-
menti eccessivi e molto maggiori che quelle che sempre sono sta-
te sotto uno principe». Gli esempi di Roma dopo la cacciata dei
re e di Atene liberata da Pisistrato rendono chiaro che la visione
delle anime degli individui e dei gruppi ha per conseguenza una
gerarchia delle forme politiche:

Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori


governi quegli de’ popoli che quegli de’ principi10.

9 Sulla superiorità del popolo nella scelta dei magistrati cfr. anche Discorsi III
XXXIV.
10 Gli esempi di Atene e Roma sono ricordati ancora più enfaticamente («ma-
ravigliosa cosa... maravigliosissima...») in Discorsi II II, dove si riprende an-
che la distinzione tra bene comune e bene privato (vedi infra), riconducen-
do però la discussione non al confronto tra le forme di governo, ma alla dif-
ferenza tra antichi e moderni.

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L’argomento va contro quello che dice «lo istorico nostro», e


lo si evince dalla stessa materia storica. Livio offre le armi a chi
argomenta contro di lui, per cui possiamo dedurre che non sa
trarre lezioni dal proprio racconto. Se la prima conclusione disdi-
ceva l’opinione comune, secondo cui i popoli «sono varii, muta-
bili ed ingrati», ora la seconda afferma la superiorità del popolo
nella «bontà» e nella «gloria». Difficile attenuare la forza di tali
affermazioni. Contro i denigratori del popolo, Machiavelli, in
quanto osservatore sincero dell’anima popolare, ha saputo trarne
le conseguenze estreme nella sfera dell’azione politica. Al popolo
dovrebbe spettare il governo non tanto perché si tratta di tutti co-
loro che hanno dato origine alle varie comunità (secondo la con-
sueta visione del consenso iniziale, così cara ai pensatori scolasti-
ci), ma perché è l’agente migliore della loro conservazione e pro-
sperità. Preoccupato apparentemente con la foga di tali conclu-
sioni, che alla Roma repubblicana aggiunge l’esempio dell’Atene
democratica, l’autore riprende a soppesare i vantaggi e i difetti di
ogni parte. I principi sono superiori «nell’ordinare leggi, forma-
re vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi», i popoli li supe-
rano di molto «nel mantenere le cose ordinate». Sembra una pre-
sa di distanza, rispetto alla precedente ed entusiastica adesione al-
la causa popolare, non sapessimo dell’importanza della virtù, qui
attribuita al popolo e non ai principi, che permette alle città di
conservarsi e di conservare quanto è stato ordinato.
La durabilità delle repubbliche è almeno simile a quella degli
stati de’ principi, quando regolati dalle leggi. Ecco la seconda con-
clusione, moderando ogni visione dell’agire politico, di una par-
te o dell’altra, con il riferimento all’esigenza di un fondamento
normativo alla vita politica. Ma l’auspicata costrizione delle leg-
gi nulla cambia alla superiorità dell’anima popolare. «Incatenata
dalle leggi», essa è più virtuosa, «sciolta», meno esposta all’erro-
re. Dalla precedente conclusione politica ritorniamo così al cam-
po della psicologia e alla cura dell’anima. Alla mancanza di virtù
popolare – a un «popolo licenzioso e tumultuario» – si può por-
re rimedio. La «malattia del popolo» si cura con le parole, men-

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tre quella del principe richiede «il ferro» (si ricordi la metafora
delle Leggi platoniche, dove alle parole ricorre il medico libero di
uomini liberi, agli ordini i medici servili di uomini servili).
Quando si vive sotto il popolo «sciolto» si teme il futuro, e cioè,
il tiranno; quando invece si è sotto «principi cattivi», si teme il
presente. Se mancasse altro a connotare come democratico questo
capitolo, siamo condotti all’estremo della valutazione morale del
popolo e dei principi: le azioni violente del popolo sono dirette a
chi attenta al «bene commune», quelle del principe a chi invece
può occupare il suo «bene proprio».

***

Superiorità del popolo e regno della legge. Le due conclusioni


non fanno dimenticare, però, quello che ne sembrerebbe il corol-
lario: la poca saggezza di tutti gli storici e di tutti gli scrittori,
incapaci di osservare una simile verità dell’anima popolare e del-
la vita politica. Se i «desideri» e gli «omori» dei popoli sono sem-
pre gli stessi, se poi immutabile ne è la costanza e la saggezza –
come si evince dagli esempi storici –, perché non è dato allora ai
più comprendere questo linguaggio dell’anima? Se «tutti gli
scrittori», quegli stessi che raccontano le azioni dei popoli e del-
le città, e descrivono le loro passioni, vizi e virtù, sono incapaci di
trarne le giuste lezioni dalle proprie parole e narrazioni, questo si-
gnifica, quanto meno, che la saggezza degli osservatori non può
essere soltanto la conseguenza della lettura degli esempi, ma li
precede ed è la condizione per poterne poi trarre i frutti. L’occhio
dell’anima, come quello del corpo, non dipende dall’esercizio e
dall’esperienza, ma è una capacità all’origine di questo esercizio
ed esperienza.
Insomma, questo capitolo dei Discorsi non è solo una difesa ac-
corata della superiorità del dominio popolare (e di quello delle
leggi), ma un duro attacco contro tutti coloro che si sono dedica-
ti all’osservazione delle cose umane e politiche. È perciò con sor-
presa che vediamo, all’ultimo momento, capovolto un tale atto di

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accusa. Nella chiusura dell’argomentazione, tace la critica a Livio


che sino ad allora fungeva da tema conduttore, e insieme a Livio,
a tutti gli storici e scrittori. A questi autori è offerta una strada
per scagionarsi, almeno per quanto era attribuito alla loro cecità.
Ora impariamo che l’opinione comune sui governi trae origine
dagli stessi governi. O per ricorrere ad un vocabolario apparente-
mente meno appropriato: il pensiero sulla politica ha la sua fonte
nella stessa politica e ne è condizionato. Se «tutti gli scrittori»
sbagliano nel loro giudizio sulle azioni dei popoli e dei principi,
sull’agire delle città, non è perché sono incapaci di decifrare la
scrittura della politica, ma perché sono essi stessi soggetti alle sue
regole. Le motivazioni del giudizio erroneo sul potere di uno o dei
molti devono trovarsi nel rapporto con lo stesso potere:

Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de’ popoli


ciascuno dice male sanza paura e liberamente ancora men-
tre che regnano: de’ principi si parla sempre con mille
paure e mille rispetti.

Si potrebbe dedurre che dei popoli si «dice male» sempre, sia


mentre regnano, sia invece mentre regnano i principi. Questi, in-
vece, sono criticati soltanto mentre non regnano, quando cioè non
sono principi. L’argomento si mostra più intricato di quanto al-
l’inizio si poteva immaginare: ora sono ravvicinate l’opinione co-
mune, quella degli storici o di tutti gli scrittori, e l’opinione co-
mune che si esprime sotto il governo popolare o sotto quello mo-
narchico. Non di errore, quindi, si tratta, ma di un artificio, ado-
perato da «tutti gli scrittori» ai fini della propria salvezza (un fi-
ne che non dovrebbe apparire ingiustificato). Ma se questa è la ra-
gione dell’opinione degli scrittori, non riscontreremmo in questo
modo un limite alla saggezza popolare e invece una prerogativa
dei principi? Il popolo – il quale mantiene la libertà di esprimer-
si a chi è sotto il suo governo – è incapace di farsi vedere come ve-
ramente è, mentre i principi possono annoverare tra i loro poteri
anche quello di forgiare i giudizi dei loro osservatori e di render-

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li opinione ‘comune’. Un’opinione forse non sincera, ma che ri-


mane impressa, e non confutata, negli scritti tramandati. Come
conciliare l’incapacità dei popoli di promuovere un simile ap-
prezzamento, in questo caso veridico, dei propri pensieri e azioni,
e la loro saggezza poc’anzi proclamata? Non troverebbe in questo
modo la virtù del popolo il suo punto più debole?
E ancora: se le ragioni della politica giustificano i discorsi de-
gli uomini, al di sopra della loro verità e menzogna, resta da chie-
dersi sulla posizione da cui parla l’autore di queste osservazioni,
che non esita a scagliarsi contro l’opinione comune e a rivalutare,
contro il principe (la cui apologia consisteva anche nell’argomen-
tare sull’incapacità dei popoli a governare se stessi), l’azione poli-
tica del popolo. La validità delle precedenti osservazioni critiche
di Machiavelli era generale, si applicava a tutti gli scrittori, e
quindi mirava ad un’opinione comune, contro cui l’autore dice di
posizionarsi. Si trattava di affermare la verità contro l’errore, la vi-
sione corretta contro quella miope, nella lettura comune dello
stesso libro della storia. Ma la regola che ora giustifica quelle va-
lutazioni erronee in ragione del timore del potere politico costi-
tuito sembra valere per lo storico Livio e per tutti gli altri scrit-
tori, ma non per il segretario Machiavelli, il quale pretende quin-
di di porsi nella posizione di chi svela ciò che resta nascosto e i
motivi per cui resta nascosto.
Non si possono tacere le conseguenze di simili affermazioni
per la comprensione di altri e fondamentali passi dell’opera ma-
chiavelliana. A iniziare dalla dedica stessa dei Discorsi, dove si ri-
cordano i fini adulatori delle dediche ai principi, a cui si sfugge
con la dedica a quelli che principi non sono ancora, ma ne hanno
solo il sapere (e questo non sarebbe adulazione). Potremmo im-
maginare che, proprio perché si rivolge a chi ha l’arte della poli-
tica, ma non il potere di comando, Machiavelli sia libero di evo-
care la saggezza del popolo, di cui si parla male davanti ai princi-
pi e davanti al popolo stesso. Ma cosa dire dell’altrettanto nota e
per certi aspetti similare dedica del Principe?
Come tutti ricordiamo, nel rivolgersi a Lorenzo, Machiavelli

72
LA VIRTÙ DEL POPOLO

considera le condizioni con cui sono costruiti i discorsi, i loro fon-


damenti politici, come criterio di verità. Il principio è ripreso dal
campo dell’imitazione artistica (e non è la sola volta in cui si
prendono dalle arti imitative i parametri dell’arte politica). Dal-
la prospettiva bassa si guarda in alto, e quindi del principe può
parlare chi è tra il popolo, e viceversa è dall’alto che si può osser-
vare ciò che resta in basso, la natura popolare: «a conoscere bene
la natura de’ populi, bisogna essere principe, e, a conoscere bene
quella de’ principi, conviene essere popolare». Se accettiamo que-
sto principio, e leggiamo il capitolo sopra analizzato dei Discorsi,
dovremmo dedurre la non adeguatezza di quanto vi è detto a pro-
posito della moltitudine, da parte di qualcuno che non è princi-
pe. Quei discorsi sulla superiorità popolare, se veridici, sarebbero
discorsi principeschi, mentre per ammissione esplicita dell’auto-
re non lo sono.
Se invece diamo la priorità ai Discorsi, e sulla base di quanto
ivi affermato, guardiamo alla dedica del Principe, dobbiamo con-
statare (essendo la stessa persona autore e soggetto delle conside-
razioni) che non di verità si tratta, quando si parla del principe ri-
volgendosi a costui. E nemmeno quando vi si parla della «natura
varia» del popolo, contrariamente a quello che è detto in pagine
apparentemente più sincere11. Nei capitoli del Principe, a fonda-
mento di tutta una tradizione di riflessione politica, dovremmo
riscontrare, almeno in quanto è elogio e non consiglio per l’agire,
menzogna e adulazione. Ma nell’intenzione stessa di consigliare
vi sarebbe qualcosa di artificiale, in chi ha presente l’inferiorità
della guida del principe per quanto riguarda il bene della città.
Infine, così come in un pur ammirato «frammento» di una

11 Principe VI: «la natura de’ populi è varia ed è facile persuadere loro una co-
sa, ma è difficile fermargli in quella persuasione». Si veda anche la lettera
a Guicciardini (X, 1525), dove si parla del re che non è «savio» e dei po-
poli che «sono vari et sciocchi; nondimeno, così fatti come sono, dicono
molte volte che si fa quello che si doverebbe fare».

73
PAULO BUTTI DE LIMA

statua antica (un altro parametro per la scrittura della storia e del-
la politica) si può scoprire, alle volte, la cattiva fattura, così anche
dalla lettura degli antichi, che si diceva in principio trascurata,
non sempre si possono trarre delle lezioni: quegli autori non han-
no saputo, o meglio, potuto fare emergere la verità dai loro rac-
conti e dalle loro osservazioni. E quale verità: trattasi del giudi-
zio sul popolo, proprio quando si cerca di considerare, davanti ai
futuri governanti, i vantaggi di attribuire al popolo stesso il po-
tere sulla città.
Sarebbe rischioso, però, proseguire su aspetti di così vasta por-
tata nelle pagine ristrette di questo saggio. Ad essi accenniamo
soltanto a margine di un commento e soprattutto di un richiamo
all’importanza delle considerazioni finali di questo capitolo dei
Discorsi, il cui oggetto esplicito sono tutti gli (altri) scrittori. Co-
me abbiamo visto, il limite della loro osservazione si fa notare in
quello che dicono dei movimenti dell’anima e delle virtù del po-
polo. In altre parole, una analisi morale e politica che si rivela al
contempo falsa e insincera.
«Una cosa da tutti gli scrittori accusata» viene difesa da Ma-
chiavelli solo «con le ragioni». Questo scritto, i Discorsi, si pone
contro tutti gli altri che hanno trattato della stessa materia, del
«vivere politico». Le ragioni, apportate ora e mai prima, fanno ta-
cere le autorità antiche. L’attacco è tanto più forte perché si fon-
da sulla stessa materia storica da cui gli antichi stessi traevano le
loro lezioni. Ma esso appare tanto più persuasivo perché, alle ra-
gioni adoperate per difendere la virtù del popolo, aggiunge una
giustificazione per l’apparente ignoranza dei loro osservatori.
***
Si è spesso accettato, in ossequio alle affermazioni dei Discorsi,
che nella letteratura precedente non si trovano difese, almeno al-
trettanto enfatiche, della saggezza popolare. Ma è necessario qui
opporre, a questo convincimento, una eccezione. La ritroviamo
nei momenti in cui, nel terzo libro della Politica, Aristotele dis-
corre su chi debba essere kyrios nella città – a chi spetti avere il

74
LA VIRTÙ DEL POPOLO

potere sovrano –, e offre argomenti perché una tale attribuzione


avvenga a favore della moltitudine. Evochiamo ora brevemente
queste pagine, per osservare in quale modo esse possono essere ri-
chiamate come un precedente per l’argomentazione di Machia-
velli. Come per i Discorsi, ci limitiamo a considerare questo passo
singolarmente, lasciando ad altri, o ad altre occasioni, il compito
di approfondirne l’inserimento nel contesto di tutta l’opera.
Aristotele espone le ragioni che rendono superiore la decisione
della maggioranza o moltitudine, plethos, su quella dei pochi buo-
ni. Come per Machiavelli, si tratta di una tesi che presenta delle
difficoltà:

Che sia necessario affidare il governo alla maggioranza


(plethos), piuttosto che ai pochi migliori (aristous men oli-
gous de), sembra costituire una soluzione che, pur portan-
do con sé alcune difficoltà, ha forse anche qualche sostan-
ziale verità12.

Se Machiavelli intitola il suo capitolo alla saggezza superiore


della moltitudine sul principe, Aristotele enuncia chiaramente, in
principio, la superiorità dei molti sui pochi:

I più (tous pollous), ciascuno dei quali non è un uomo buo-


no, possono tuttavia, se presi tutti insieme, essere miglio-
ri di coloro [i pochi migliori], non singolarmente, ma nel-
la loro totalità13.

12 Politica III 1281a40-42 (qui e in seguito ho tenuto presente la traduzione


di C.A. VIANO, Milano, Rizzoli, 2002, modificandola). Nella traduzione di
Moerbeke: quod autem oportet dominans esse magis multitudinem quam optimos
quidem, paucos autem, videbitur utique solvi et alicuius habere dubitationem, forte
autem et utique veritatem. Bruni traduce: Quod autem magis penes multos debeat
esse potestas, quam penes paucos, licet optimos, videtur solui posse, et quodam habe-
re dubitationem, imo forte et veritatem.
13 Politica III 1281a42-b2. Moerbeke traduce: Multos enim, quorum unusquis-

75
PAULO BUTTI DE LIMA

Gli uomini buoni, gli studiosi dei traduttori latini medievali,


corrispondono agli uomini spoudaioi di Aristotele, e ogni lettore
dei trattati etici del filosofo greco sa che si tratta di coloro che
possono offrire il parametro delle azioni morali e dell’agire poli-
tico: gli uomini che hanno nella serietà delle loro occupazioni
l’indizio della loro superiorità.
Sono annoverate da Aristotele alcune ragioni e varie immagi-
ni che saranno oggetto di ripresa e ampliamento tra i commenta-
tori della Politica sin dalla seconda metà del Duecento. Menzio-
niamole in sequenza, senza approfondirne il contenuto ed analiz-
zarne le ragioni. Il primo riferimento è ad un banchetto, superio-
re quando organizzato dai più che non dai singoli. Ciascuno, in
effetti, ha una sua parte di «virtù» (arete) e di «saggezza» o «pru-
denza» (phronesis)14. Ne consegue il vantaggio degli uomini as-
semblati, espresso per mezzo di un’altra immagine: la superiorità
di un individuo dotato di molti piedi, di molte mani e di molti
organi sensibili. Questo individuo avrebbe non soltanto costumi
(ethe), ma anche un intelletto (dianoia) superiore. In altre parole,
si tratta di un vantaggio certamente morale, ma ugualmente in-
tellettuale del popolo. Ovvero, siamo nel campo della virtù, pre-
sa come un attributo collettivo. Come per Machiavelli, la virtù del
popolo, secondo Aristotele, è superiore a quella dei pochi.
Sarà stato il riferimento alle capacità intellettuali a condurre in
seguito il filosofo ad una comparazione: il giudizio dei più è su-
periore a quello dei singoli nella sfera politica al modo stesso di
quando il giudizio ha per oggetto le opere musicali e poetiche.

que est non studiosus vir, tamen contingit, cum convenerint, esse meliores illis, non
uti singulum, sed ut simul omnes... Bruni: Nam si plures sint, quorum unusquis-
que non sit studiosus, tamen fieri potest ut in unum convenientes omnes meliores sint
quam illi, non ut singuli, sed ut omnes...
14 Politica III 1281b4-5. Moerbeke: multis enim existentibus unumquemque par-
tem habere virtutis et prudentiae… Bruni: Nam cum plures sint, unusquisque par-
tem habet virtutis, ac prudentiae…

76
LA VIRTÙ DEL POPOLO

Sembra un paradosso: nel campo proprio dell’argomentazione


sulla superiorità della techne, e quindi dell’attribuzione del potere
a chi ha una qualche competenza (e Platone aveva più volte fatto
ricorso a questo genere di argomentazione), Aristotele presenta
una difesa del giudizio di chi ne è escluso, non ritrovandosi tra co-
loro che sono studiosi.
Le immagini si susseguono a catena in questo breve testo ari-
stotelico. Inizialmente, quella del banchetto aveva permesso di af-
fermare una collettiva superiorità intellettuale, e di conseguenza
la distinzione nel giudizio artistico e musicale. Ora, da un tale ri-
ferimento al discernimento nelle arti emerge, e non per caso, il te-
ma del bello: la differenza tra i pochi buoni e i più è come quel-
la tra il bello e il non bello, o come quella tra un disegno o ri-
tratto e la realtà o modello15. Sembrerebbe in principio un argo-
mento non pertinente all’attuale tesi, e invece favorevole ai pochi
che sono belli, così come belle sono le opere imitative, anziché la
molteplice realtà. Ma in ciò che è meno bello o in ciò che si tro-
va nella realtà (e non solo nell’imitazione) si possono notare alcu-
ni aspetti superiori a quanto è presente negli uomini più belli, o
nei dipinti, e sono particolari sparsi tra i più. Sarebbe questa,
cioè, una maniera per sottolineare il vantaggio dell’insieme com-
posito della moltitudine rispetto ad una minoranza di uomini su-
periori. Ad ogni modo, l’argomentazione appare ora rovesciata:
mentre prima si parlava della superiorità dei pochi, quando il
confronto tra i molti e i pochi si fa tra individui presi singolar-
mente (mentre insieme la moltitudine è superiore), ora nel con-
fronto tra i singoli elementi, sono i dettagli degli individui pre-
senti tra i molti ad essere superiori alla loro imitazione ideale. E
come se non mancassero immagini in un campo già ampiamente
immaginifico, Aristotele aggiunge: è meglio disporre di un ali-
mento mescolato e abbondante, piuttosto di quello puro ma esi-

15 Politica III 1281b12-15.

77
PAULO BUTTI DE LIMA

guo. In conclusione alla serie di argomenti a favore del governo


popolare, si aggiunge uno di tipo diverso. Contro la difesa della
superiorità dello specialista – l’argomento più forte per togliere ai
più il potere di governo –, il filosofo offre l’evidenza della priori-
tà dell’utente, sia esso l’abitante della casa, rispetto a chi la co-
struisce, il capitano di nave, rispetto al carpentiere che produce il
timone, il banchettante, rispetto al cuoco16.
L’esegesi di questi vari argomenti, e soprattutto di queste va-
rie immagini, a difesa della sovranità popolare sarebbe qui fuori
luogo, e così anche la considerazione del senso complessivo della
riflessione aristotelica, che non sempre asseconda la portata radi-
calmente democratica di queste tesi eccezionali. L’analisi invece
delle argomentazioni dei due autori, Aristotele e Machiavelli, in
difesa della superiorità del governo popolare non può trascurare le
differenze nel tono e nel contenuto. Menzioniamo alcune di esse.
Possiamo subito notare – ma è soltanto una notazione parziale –
che in Aristotele il vantaggio è spesso conferito alle forme di me-
scolanza, piuttosto che agli elementi pochi, puri e superiori; in

16 Abbiamo trascurato, nell’elencare le immagini, alcuni momenti importan-


ti dell’argomentazione, anche in riferimento al ragionamento machiavel-
liano dei Discorsi. Aristotele si chiede se le tesi esposte valgono per ogni po-
polo (dovrebbero, per estensione, valere per gli animali, e quindi per le be-
stie) e conclude dicendo che l’accesso della folla agli organi deliberativi e
giudiziari deve essere garantito, ma non (singolarmente) l’accesso degli uo-
mini inferiori alle magistrature, come voleva Solone. E ancora, preso insie-
me, il popolo è superiore al singolo, e il censo di tutti è superiore a quello
degli individui più ricchi. Il ragionamento si conclude con un riferimento
alla sovranità della legge (1282b1-13). Successivamente, all’interno dei ca-
pitoli del terzo libro dedicati alla regalità (III XIV-XVII), si ritorna al pro-
blema della sovranità della legge, e questo riporta ad un’immagine prece-
dente: il banchetto dei più è superiore a quello del singolo (1286a29-31).
Ora il ragionamento è meno radicale: to plethos è meno corruttibile del sin-
golo e meno soggetto alle passioni, ma in questo caso la folla deve essere
composta da uomini liberi e rispettosi della legge, buoni cittadini e buoni
uomini (1286a32-1286b1).

78
LA VIRTÙ DEL POPOLO

Machiavelli, sono invece virtù pure che si esprimono al meglio


nella moltitudine, senza un confronto tra singoli individui nei
due campi raffrontati. Si può aggiungere che gli elementi classi-
ficati da Aristotele sul piano morale (superbia-umiltà, costanza-
incostanza, bontà-crudeltà) convivono, in Machiavelli, con ap-
prezzamenti sulle capacità intellettuali (buon giudizio, pruden-
za). Ma non conviene generalizzare distinzioni proprie della ri-
flessione morale del filosofo greco. Piuttosto si può constatare
che, nel passo della Politica, sono soprattutto le capacità intellet-
tuali del popolo a prevalere, nonostante si parli sia dei «costumi»
(ethe), sia dell’«intelletto» (dianoia). L’argomento aristotelico del-
la superiorità del fruitore rispetto al competente – un argomento
dalle implicazioni radicali, che rischia di suggerire l’estensione a
tutti dei diritti della piena cittadinanza – non trova spazio nel te-
sto del fiorentino, tranne che nella più vaga opposizione tra bene
comune e bene privato. Aristotele riprende gli argomenti plato-
nici – come quello della competenza medica o della superiorità
del giudizio dei pochi nelle arti – e li ribalta in chiave popolare.
Machiavelli medita sugli esempi storici e prende le distanze dai
loro narratori. Aristotele sa di difendere tesi polemiche, ma è Ma-
chiavelli a inquadrare le visioni erronee in una propria teoria.
Tuttavia, la differenza principale tra i due passi in difesa della
superiorità politica del popolo consiste nel fatto che in Aristotele
si contrappongono i più ai pochi, mentre in Machiavelli, come da
subito è detto, la moltitudine è paragonata al principe. Democra-
zia e oligarchia sono le forme di governo all’orizzonte della rifles-
sione aristotelica in questo passo, anche se non sono esplicita-
mente nominate. Invece, nel pensatore fiorentino, il ragionamen-
to si struttura in funzione della distinzione tra repubbliche e
principati. Così faceva già buona parte dei lettori medievali di
Aristotele, pur avendo davanti a sé il testo del filosofo antico.

***

79
PAULO BUTTI DE LIMA

Non sappiamo se Machiavelli avesse presente le riflessioni ari-


stoteliche quando compose il capitolo dei Discorsi sulla saggezza
popolare. Sulla conoscenza che egli poteva avere della Politica di
Aristotele si è in genere discusso per altro: il riferimento esplici-
to ed ambiguo al filosofo nella lettera a Francesco Vettori e il
quinto libro della Politica, ricordato per il problema delle con-
giure e della tirannide17. Sono molti i canali attraverso i quali le
teorie aristoteliche sulla superiorità popolare potevano circolare
nella Firenze del primo Cinquecento, e conviene ricordarli breve-
mente.
Se si considerano i commentari alla Politica nati sulla scia del-
la traduzione in latino preparata da Moerbeke a metà del secolo
tredicesimo, si può subito notare che la forza democratica delle ri-
flessioni nel terzo libro viene annullata o comunque affievolita.
Non possiamo soffermarci sulla ricchezza delle interpretazioni cui
ha dato origine quel passo, in autori come Pietro d’Alvernia, Al-
berto Magno, Egidio Romano, Marsilio da Padova, Guglielmo di
Ockham o altri18. Una caratteristica, però, richiama subito la no-

17 Per la discussione sul rapporto tra Machiavelli e Aristotele possiamo qui ri-
cordare soltanto alcuni saggi, nell’ampia bibliografia: G. SASSO, Machiavel-
li e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli, Ricciardi 1987-1997
(spec. vol. 1, ma non solo sulla Politica aristotelica); M. MARTELLI, I detta-
gli della filologia, in Tra filologia e storia (2001), a cura di F. BAUSI, Roma,
Salerno, 2009, pp. 307-309; C. GINZBURG, Machiavelli, l’eccezione e la rego-
la, in «Quaderni storici», CXII, 2003, pp. 195-213; G. INGLESE, Per Ma-
chiavelli, Roma, Carocci, 2006, p. 84 e p. 243, n. 154; G. PEDULLÀ, Ma-
chiavelli in tumulto, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 293 ss.; G. GIORGINI, Ma-
chiavelli e i classici, in La filosofia politica di Machiavelli, a cura di G.M.
CHIODI e R. GATTI, Milano, Franco Angeli, 2015, pp. 117 ss. (pp. 102-
128); e la voce a cura di P. FALZONE per l’Enciclopedia Machiavelliana. Per il
riferimento alla tirannide (Discorsi, III, 26), si veda M.C. FIGORILLI, Ma-
chiavelli moralista, Napoli, Liguori, 2006, p. 27 (su cui torneremo infra).
18 Alcune interpretazioni sono state riportate da J. DUNBABIN, The Reception
and Interpretation of Aristotle’s Politics, in The Cambridge History of Later Me-
dieval Philosophy, a cura di N. KRETZMANN, A. KENNY e J. PINBORG, Cam-

80
LA VIRTÙ DEL POPOLO

stra attenzione, quando osserviamo il confronto menzionato pri-


ma tra la posizione aristotelica e quella di Machiavelli: in alcuni
commentari, al posto della contrapposizione tra i molti e i pochi,
su cui il filosofo peripatetico costruiva la sua argomentazione, ri-
troviamo quella tra i molti e il principe. Si realizza così un capo-
volgimento della riflessione divenuta oggetto di commento, per
cui più di una volta è la superiorità (presupposta) del governo re-
gale ad emergere come il risultato della stessa riflessione aristote-
lica.
Senza potere analizzare i vari testi scolastici, possiamo invece
fare una breve notazione su alcuni interpreti del Quattrocento.
Non sembra casuale che proprio nella Toscana di questo periodo si
renda esplicito un collegamento aneddotico che è invece taciuto
nell’immagine artistica a cui ricorre Aristotele. La bella opera pit-
torica, vista nel confronto con la molteplicità delle cose «vere», ri-
chiama il ben noto racconto del pittore Zeuxis che, a dipingere
Elena a Crotone, prende a modello le più belle vergini della città.
Le principali versioni di questo aneddoto si trovano in Plinio e Ci-
cerone19. Nella prima metà del Quattrocento, a questi testi, assai
noti, si rifanno, più o meno contemporaneamente, Leon Battista
Alberti e Matteo Palmieri20. Ma è nella seconda metà del secolo
che Francesco Patrizi, a Siena, e Donato Acciaiuoli, a Firenze, in-

bridge, Cambridge University Press, 1982, pp. 723-737. Si veda anche M.


OSSIKOVSKI, Some Medieval Readings of Aristotle’s Argument for the Collective
Superiority of “the Many”, in «Studia Neoaristotelica», IX, 2012, pp. 133-
151. Sul tema torneremo in un lavoro in preparazione sul concetto di ‘de-
mocrazia’.
19 CICERONE, De inventione II 1; PLINIO, Naturalis Historia XXXV 64. Questi
aneddoti e la loro tradizione sono ora riuniti nel sito Pictor in fabula (pic-
torinfabula.org).
20 Si noti che la ripresa dell’aneddoto di Elena e Zeuxis nel trattato De pictu-
ra di Alberti è destinato a sottolineare l’importanza degli esperti, quindi
della conoscenza nel campo della pittura. Per Matteo Palmieri, cfr. Vita Ci-
vile, ed. a cura di G. BELLONI, Firenze, 1982, p. 166.

81
PAULO BUTTI DE LIMA

troducono il riferimento al pittore antico quando rileggono il pas-


so del terzo libro della Politica aristotelica21.
Anche l’immagine precedente a cui ricorre il filosofo, intesa a
dimostrare la superiorità della moltitudine come quella di un es-
sere dalle molteplici mani, piedi o organi sensoriali, richiama l’at-
tenzione dei commentatori e assume una vita propria. Patrizi e
Acciaiuoli la ricordano esplicitamente. Sempre Acciaiuoli ne of-
fre il corrispondente mitologico e poetico: le figure di Argo e di
Briareo. Quell’essere umano dalle molteplici capacità, introdotto
per suggerire il valore del giudizio popolare, rivela così la sua na-
tura mostruosa, per mezzo di un richiamo ora non tanto di ma-
trice pittorica quanto poetica. Nel caso di Argo, il gigante dai
molti occhi poteva raffigurare la straordinaria capacità dell’uomo
dotato di molti sensi, come suggerito da Aristotele22. Nel caso in-
vece di Briareo, abbiamo il mostro dalle molte teste e braccia.

21 Sul commento di Donato Acciaiuoli alla Politica di Aristotele (che si con-


sulta ancora nell’edizione del 1566: Donati Acciaioli in Aristotelis libros Octo
Politicorum Commentarii, Venetiis, apud Vincentium Valgrisium) si veda U.
STAICO, Esegesi aristotelica in età medicea, in La Toscana al tempo di Lorenzo il
Magnifico, III, Pisa, Pacini, 1992, pp. 1275-1321. La novità di questi rife-
rimenti nel commento di Acciaiuoli è stata notata da L. LANZA, The ‘Scrip-
tum super III-VIII libros, in Peter of Auvergne. University Master of the 13th
Century, a cura di C. FLÜELER - L. LANZA - M. TOSTE, Berlin-München-Bo-
ston, De Gruyter, 2015, (pp. 255-319), p. 267 e nn. 31-32. I principali
commentari della Politica aristotelica prodotti nel Cinquecento, non ulti-
mo quello di Pier Vettori, manterranno il riferimento artistico, ma faran-
no dimenticare i nomi di questi primi interpreti.
Invece nel trattato De Institutione Reipublicae, di Francesco Patrizi, il riferi-
mento a Zeuxis si trova a l. I, tit. primus (nell’edizione del 1608, Argen-
torati, Lazari Zetzneri, p. 14). Per il rapporto, invece, tra Machiavelli e la
trattatistica De Regimine Principum si veda, ad esempio, G. INGLESE, Per Ma-
chiavelli, cit., pp. 82-84; in genere, per Machiavelli e Patrizi, cfr. G. PE-
DULLÀ, Machiavelli in tumulto, cit., pp. 300 ss. Per la riflessioni politica di
Francesco Patrizi, cfr. M. VIROLI, Dalla politica alla ragion di stato. La scien-
za del governo tra XIII e XVII, Roma, Donzelli, 1994, pp. 76 ss.
22 Apparentemente è Egidio Romano, nel De Regimine Principum libri tre

82
LA VIRTÙ DEL POPOLO

L’immagine aristotelica non si spingeva ad una tale suggestione


paurosa, piuttosto prefigurava la capacità superiore della perce-
zione collettiva rispetto a quella dei singoli individui. Ma in un
contesto in cui spesso la metafora organica serve a giustificare il
governo regale, le forme mostruose possono facilmente rappre-
sentare in negativo l’azione popolare e democratica. Del mostro
popolare parlerà, ad esempio, Guicciardini, e Machiavelli stesso si
riferirà, sempre nei Discorsi, all’idra del popolo23.
Il testo aristotelico continua a circolare nel Cinquecento fio-
rentino, riletto direttamente o mediato dagli autori medievali, e
verrà poi tradotto da autori a cui Machiavelli non era certamente
estraneo24. Ma un riferimento, in particolare, merita di essere qui
considerato. Nel suo recente saggio su Machiavelli, Raffaele Rug-
giero ha riportato l’attenzione su un riferimento interessante del
maestro di Guicciardini, Filippo Decio, ad Aristotele25. Negli Ac-
ta primi concili pisani, Decio annota:

(un’opera da datare tra il 1276 e il 1280, di cui si veda ancora l’edizione


del 1607, Romae, apud Bartholomaeum Zanettum) il primo a parlare dei
molti «occhi», allorquando Aristotele pensava ai molti «sensi» e così era
tradotto in latino (si veda infra). L’occhio è invece menzionato in seguito
nel testo aristotelico, come il dettaglio della bella immagine che può inve-
ce trovare un corrispondente più bello nel suo modello.
23 GUICCIARDINI, Ricordi B 123 («monstro pieno di confusione e di errori»);
MACHIAVELLI, Discorsi II XXIV. L’immagine dell’idra è probabilmente di
origine platonica (non direttamente riferita al demos), ma viene ampiamen-
te applicata al popolo a partire dalla seconda metà del Cinquecento, in mo-
do particolare in Francia e in Inghilterra, dove diventa un elemento ricor-
rente della propaganda antipopolare: cfr. C. HILL, The Many-Headed Mon-
ster (1965), in Change and Continuità in Seventeenth-Century England, Lon-
don, Weidenfeld and Nicolson, 1974, pp. 181-204.
24 Si tratta, naturalmente, di Bernardo Segni, che menziona Machiavelli nel-
la sua traduzione di Aristotele (Trattato dei governi) pubblicata postuma nel
1549; e di Antonio Brucioli, la cui traduzione della Politica appare a Ve-
nezia nel 1547.
25 Cfr. R. RUGGIERO, Machiavelli e la crisi dell’analogia, Bologna, il Mulino,
2015, p. 128 n. 16.

83
PAULO BUTTI DE LIMA

Monarchia in ordine et executione excedit aristocratiam,


et ab illa exceditur providentia et concilio. Plus enim vi-
dent plures oculi quam unus, ut in politici Aristoteles re-
fert.

La menzione di Aristotele, in questo caso, non doveva deriva-


re da una lettura diretta della Politica. Il testo greco è probabil-
mente mediato dalla lettura di Egidio Romano, laddove quelle
considerazioni sulla superiorità del popolo, da democratiche, si
trasformano in un’illustrazione dell’utilità del consiglio al princi-
pe, ovvero, in una difesa del fine stesso cui si prefiggeva l’auto-
re26. Con un richiamo esplicito ad Aristotele, Egidio contrappo-
ne i molti al principe e tesse l’elogio del governo di un solo indi-
viduo, sempre che accompagnato dal consiglio di pochi. Anche il
riferimento ai molti «occhi» – quando più correttamente i tra-
duttori latini parlavano dei molti sensus – tradisce qui la media-
zione di Egidio. Vista attraverso le lenti di più autori medievali,
la difesa della virtù popolare non sembra trovare l’adesione di
Aristotele.
Il testo di Egidio era, però, solo uno dei possibili vettori di tra-
smissione delle riflessioni aristoteliche e non era l’unico a farne un
uso per così dire invertito, rispetto al principio stesso enunciato
dal filosofo, ovvero, l’affermazione della superiorità della decisio-
ne popolare. Inoltre, Egidio non è il solo a trasformare l’opposi-
zione aristotelica tra i molti e i pochi nell’opposizione tra i mol-
ti e il principe, recuperando l’elemento oligarchico nella forma
del gruppo di consiglieri del re. Si aggiunga che la distinzione tra
bene comune e bene proprio che si legge anche in Egidio – un te-

26 Ecco il testo di Egidio Romano, nel De regimine principum (III, pars 2, cap.
4, nell’edizione romana citata, p. 458): nam plures oculi plus vident quam
unus, et plures manus plus possunt quam una, et plures intellectus superant unum
in cognoscendo. Già Alberto Magno commentava queste pagine aristoteliche
nel senso del consiglio al principe.

84
LA VIRTÙ DEL POPOLO

ma assai diffuso tra i vari commentatori (e di cui si può rintrac-


ciare un’origine aristotelica) –, è ripreso da Machiavelli alla fine
del capitolo dei Discorsi sulla saggezza popolare27.

***

Se non si tratta qui di offrire prove o controprove della cono-


scenza machiavelliana del testo aristotelico, possiamo almeno dire
che l’ipotesi di una lettura diretta della Politica, da parte dell’au-
tore fiorentino, appare meno convincente. Com’è stato suggerito,
il solo riferimento esplicito a quest’opera in Machiavelli potrebbe
provenire da una citazione indiretta28. Le osservazioni aristoteliche
circolavano ampiamente, mediate dalle interpretazioni scolastiche
e dalla ripresa del testo della Politica nell’umanesimo fiorentino.
Tuttavia, sembra poco probabile che Machiavelli potesse pensare a
quelle pagine, mentre scriveva la sua accorata apologia della virtù
popolare: la sua critica agli scrittori sarebbe quindi sincera, ma
non vera. Si potrebbe anche ridimensionare la difesa della superio-
rità popolare ricorrendo ad altre pagine machiavelliane, e lo stesso
varrebbe per gli argomenti aristotelici nel terzo libro della Politi-
ca, con il richiamo a pagine di natura diversa nella stessa opera. In-
dipendentemente da ogni sforzo mirante a stabilire una coerenza
interna nei due autori, abbiamo prudentemente richiamato il va-
lore intrinseco di queste riflessioni, nella configurazione del popo-
lo come soggetto politico e morale.

27 «Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il
bene commune; quelle d’un principe sono contro a chi ei tema che occupi
il bene proprio». Cfr. anche Discorsi II II: «perché non il bene particulare,
ma il bene comune è quello che fa grandi le città» Cfr. ARISTOTELE, Politi-
ca III 1279a28-32.
28 Discorsi III XXVI: il riferimento ai tiranni potrebbe derivare da un volga-
rizzamento di PETRARCA, De remediis II 81: cfr. FIGORILLI, Machiavelli mo-
ralista, cit., p. 27.

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PAULO BUTTI DE LIMA

Aristotele sembra convinto, come Machiavelli, della peculiare


saggezza della moltitudine. Non si potrebbe quindi ricorrere alle
sue pagine per contraddire o quanto meno attenuare la forza del-
la conclusione di quel capitolo dei Discorsi, sia pur inconsapevole
di tale precedente? Non sempre i principi sono stati ‘virtuosi’ nel
forgiare la propria immagine, né i popoli ‘sciocchi’ nel trascurare
la propria. La giustificazione politica del parlare «contro ai popo-
li» si rivela, essa stessa, «dura e piena di tanta difficultà», se op-
poniamo, agli scrittori «tutti», l’eccezione di una difesa antica
della virtù popolare.

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