Sei sulla pagina 1di 8

ACHILLE CAMPANILE Vite degli uomini illustri (estratto)

Le imitatrici di Cornelia

Scusate, non dovete credere che io sia un gioielliere o comunque un intenditore di preziosi.
Me ne intendo come tutti. Molto vagamente; difficilmente saprei riconoscere un brillante vero da
uno falso. Però debbo dirvi che, secondo me, la fama di Cornelia madre dei Gracchi è un po'
usurpata. Ma andiamo! Quale madre non ha avuto occasione di dire qualche volta dei propri figli:
« Questi sono i miei gioielli », senza per questo passare alla storia? Io ho sentito delle madri dire
perfino, del figlio: « È il mio tesoro ». Non un semplice gioiello, ma tutto il tesoro, addirittura.
E nessuno s'è mai sognato di tramandarne la fama alla storia.
Cornelia, invece, c'è passata proprio per aver presentato i propri figli come gioielli.
Il fatto è che in una Roma piena evidentemente di donne ingioiellate, lei voleva dire: « Questi sono i
miei veri gioielli, altro che le vostre pietre e pietruzze colorate ».
In fondo, avrebbe potuto anche voler dire: « Questi sono i miei unici gioielli. Non ne ho altri ». E in
questo caso l'avrebbe detto a titolo di recriminazione. Come per dire: « Guardate un po' a che sono
ridotta. Questi sono i miei gioielli. Che ve ne pare? ».
C'era dunque dell'ironia, nelle parole? Contro tutte le apparenze, direi di no. E questo è importante
perché a pronunziarle, cioè a dichiarare di non avere altri gioielli che i due marmocchi, era
nientemeno la figlia di Scipione l'Africano, la quale, di gioielli avrebbe potuto averne
probabilmente fin che ne avesse voluti. Dunque, nessuna recriminazione, ma, al contrario, orgoglio
e soddisfazione.
Comunque, è evidente che la frase, per esser rimasta nella storia, dovette far chiasso a quei tempi.
Essa non soltanto consacrò alla posterità Cornelia, ma le procurò anche una grande notorietà in vita.
Magari ci sarà stata anche qualche maligna che avrà sorriso di compatimento all'idea che l'illustre
dama non aveva altri gioielli che i suoi ragazzi. Ma insomma Cornelia, per la sua discendenza, per
la sua posizione nella società, era una dama alla moda. Quindi la frase fece scalpore e fu come
un'indicazione per l'appunto sulla moda, limitatamente ai gioielli.
Figurarsi le amiche. Crepavano dall'invidia. Non volevano esser da meno. Si misero tutte a
scimmiottare Cornelia.
Naturalmente, fra costoro non c'era nessuna che potesse vantare i sentimenti di Cornelia, e figli
come i Gracchi. I quali, tra l'altro - non state a dirlo a nessuno erano anche gemelli. Quindi
avrebbero potuto essere anche i gioielli del marito. Comunque, le amiche, gemelli o no, non
facevano che presentare i loro bambini come gioielli.
Gioielli per modo di dire, certe volte. Ci fu perfino una signora che ne portò un paio al Monte di
Pietà e pretendeva di lasciarli in pegno. « Sono i gioielli d'una mia amica » diceva.
A un'altra i ladri tentarono di rubare i gioielli ma, avendo rinviato il colpo per qualche anno, si
trovarono in presenza d'un paio di nerboruti giovinotti. Fu la volta che i giornali pubblicarono la
notizia: « Audaci ladri tentano di rubare dei gioielli, che li prendono a calci nel sedere ».
Un giorno si lesse un manifesto per le strade: « Competente mancia a chi riporterà i miei gioielli in
via tale al numero tale, andando a prenderli all'uscita della scuola ». Si trattava d'una signora che
cercava un'accompagnatrice per i propri bambini.
Un'altra perse un orecchino, mise un annunzio sui giornali, nel quale si parlava genericamente di un
gioiello e le riportarono un marmocchio, che d'altronde non s'era smarrito affatto, e pretendevano
anche la mancia.
Le signore, quando si vestivano per andare a teatro, domandavano alla cameriera: « Dove sono i
miei gioielli? ». La cameriera doveva cercare quei benedetti frugolini, che si nascondevano sotto i
letti, detestando il teatro. Non vi dico poi i concerti. I ragazzi certe volte dicevano: « Che noia,
stasera ci tocca andare a un ricevimento ».
« Ma chi vi obbliga? » « La mamma. Non vuole andare mai ai ricevimenti, senza gioielli. »
Un giorno un ragazzo disse una bugia. La mamma si mise a piangere. « Perché? » domandava il

1
bimbo. « Perché ho un gioiello falso ».
La moda di questi gioielli, diciamo così, di famiglia, dilagò e le signore più pretenziose scesero a
particolari tipi di monili.
Una signora, per esempio, obbligava i figli a menare una vita di solitudine austera, in eremi di
montagna, a rifuggire i contatti con la società, per poterli presentare come i suoi "solitari". E
siccome portava i "solitari" a tutte le feste, a tutti i ricevimenti, i suoi "solitari" non erano solitari
affatto. Un'altra assunse al proprio servizio diverse cameriere, che si chiamavano tutte Gemma, per
poter dire che aveva molte "Gemme" a casa.
Una terza, figuratevi, andò a un ballo portandosi dietro il suo vecchio servitore, dicendo a tutti: « È
una perla ».

Poi, come accade, a poco a poco passò la scalmana per i gioielli veri e propri e le signore passarono
ad altro. Una, avendo bisogno di occhiali, mandò il figliuolo a misurarsi la vista dall'oculista,
dicendo: « È la pupilla dei miei occhi ».
Ma le vecchie rimasero sempre attaccate alla moda dei gioielli "di famiglia".
Una si presentava nei ricevimenti col singhiozzo: « È il mio vezzo ».
Un'altra arrivava alle feste accompagnata dal marito e da un vecchio amico di famiglia. E spiegava,
con orgoglio: « Sono i miei pendenti ».

Galileo

Quando Galileo, osservando le oscillazioni del pendolo, fece la grande scoperta, per prima cosa andò a dar la
notizia al Granduca.
« Eccellenza, » gli disse « ho scoperto che il mondo si muove. »
« Ma davvero? » fece il Granduca, maravigliato e anche un po' allarmato. « E come l'avete scoperto? »
« Col pendolo. »
« Accidenti! Colpendolo con che cosa? »
« Come, con che cosa? Col pendolo, e basta. Non c'era nient'altro, quand'ho fatto la scoperta. »
« Ho capito. Ma colpendolo con che cosa? Con un oggetto contundente? Con un'arma? Con la mano? »
« Col pendolo, soltanto col pendolo. »
« Benedetto uomo, ho capito. Avete scoperto che il mondo si muove colpendolo. Cioè, che si muove quando
lo si colpisce. Bisogna vedere con che cosa lo si colpisce. Non potete averlo colpito con niente. E ci vuole
un bell'aggeggio per colpire il mondo in modo da farlo muovere. »
Il grande astronomo e matematico si mise a ridere di cuore.
« Eccellenza, » disse « ma voi credete che "col pendolo"
«vada legato con "si muove". No. Va legato con "ho scoperto". Col pendolo ho scoperto che il mondo si
muove. L'ho scoperto col pendolo. »
« Colpendo il mondo. Ho capito. »
« Ma no. Col pendolo. Col pendolo! »
« Ma colpendo chi, allora? E con che? »
« Ma non colpendolo. Col pendolo! »
« Che modo di ragionare! Non colpendolo, ma colpendolo! »
Insomma, dovette scriverglielo su un pezzo di carta!.
E dire che avrebbe chiarito tutto se avesse detto: « Con il pendolo ».

2
Casanova

Casanova è un personaggio che, stando alle sue stesse affermazioni, avrebbe sedotto qualcosa come
due o tremila pollastrelle d'ogni età, condizione e paese (beato lui), un personaggio che fu definito
«la prostituzione fatta uomo », e del quale un accademico di Francia ebbe a scrivere:
« La sua vita fu un incesto senza fine, un adulterio da Parigi a Roma, una fornicazione di tutti i
giorni e di tutte le ore ».
Anche a voler fare qualche riserva circa quell'adulterio da Parigi a Roma, che pare un po' esagerato
(più di mille chilometri; e che diamine!), pure non si può non restare scossi da simili referenze. Che
il detto accademico di Francia così completò: « Figlio d'una donna di facili costumi e d'un padre
analogo, a quindici anni aveva già superato in corruzione i genitori; un uomo al cui confronto don
Giovanni è un collegiale. Un essere abbietto il cui libertinaggio si esercitò perfino in conventi e
cattedrali, e financo su madri badesse, e che piegò alle proprie voglie padrone e cameriere, ricche e
povere, giovani e vecchie ».
Anche qui, lascia un po' perplesso l'espressione: « in conventi e cattedrali ». Capisco i conventi, ma
le cattedrali? Non si contentava d'una deserta chiesetta di campagna, o d'una modesta parrocchia.
Andava in cerca di cattedrali. Di grandi chiese monumentali, con ampie navate, colonne, cupole
grandiose, pulpiti marmorei, sculture. Che non sembrano il luogo più adatto per pratiche libertine. A
meno che quell'uomo cinico non abbia voluto servirsi di qualche confessionale, o di qualche pulpito
in cui acquattarsi. Magari sarà stata una forma di sadismo. Ma pulpiti e confessionali si trovano
anche in chiese di più umili proporzioni.
Lui no. Aveva bisogno del tempio solenne. Senza dire che la cattedrale, che io sappia, è la chiesa
principale della diocesi e ce n'è al massimo una nell'intero territorio diocesano.
Come faceva, Casanova? Andava a caccia d'avventure nelle cattedrali, sotto gli occhi del vescovo e
dell'intero capitolo, magari durante le funzioni solenni? O gli capitava un incontro chi sa dove,
lontano dalla città sede della cattedrale, e lui per prima cosa diceva alla vittima:
« Niente alberghi o locande, o camere a ore, o case private. Partiamo per il capoluogo, dove c'è
un'interessante cattedrale gotica, che può fare al caso nostro ».
Forse era un trucco, per attirare la vittima col miraggio del turismo o del matrimonio. Ma c'era
bisogno d'una cattedrale addirittura?
Quanto poi alle vecchie, io francamente non gliele perdono, anche se posso chiudere un occhio sulle
madri badesse (con beneficio d'inventario). Ma può chiudere un occhio un libro che entrerà in tutte
le famiglie e, spero, perfino nei conventi di suore? Direte che si può procedere a una cernita, con
esclusioni; escludere dalla rievocazione della vita di Casanova gli episodi scabrosi. Si sa, per
esempio, che il famoso avventuriero fu anche seminarista e abate. Si potrebbe presentarlo soltanto
in questa veste. Con un po' di buona volontà, potrebbe venirne fuori l'immagine d'un Casanova tutto
casa e chiesa, un Casanova poco noto, topo di sacrestia, baciapile, bacchettone, timorato del cielo,
timido con le donne.
Ahi! Stando alle sue memorie, anche da seminarista il bravo Giacomo trovò modo di farsi
imprigionare per uno scandalo. E, come abate, ha all'attivo gli episodi di quelle madri badesse.
Col sistema dell'esclusione di tutto quello che è un po' licenzioso, data « l'estrema licenziosità, che
c'è in ogni riga delle sue memorie » (J. Janin, Casanova), e data la sua precocità, non resterebbe che
limitare il campo ai primissimi anni della sua vita. Ammesso pure che non s'incontri qualche
scoglio con la sua balia. E allora?
Forse un rimedio ci sarebbe. Si sa che, per ricostruire la vita di questo personaggio, si brancola in
una selva composta, oltre che dei ventidue volumi delle sue memorie, anche d'una quantità di
documenti dai quali risulta che molte delle storie da lui raccontate sono inventate di sana pianta. Gli
storici incontrano le maggiori difficoltà per sceverare il vero dal falso; debbono passare giorni e
settimane e mesi per trovare fatti accertati al cento per cento. Si sa anche che Casanova fu un
millantatore. Allora, si potrebbero escludere dalla sua biografia tutti fatti non storicamente accertati.

3
Peggio che andar di notte. Allora non resterebbe niente, o quasi. Pare, per esempio, che nelle sue
memorie il fantasioso Giacomo faccia vivere la sorella quarant'anni dopo che era morta. Pare che
perfino la famosa fuga dai Piombi sia una balla. Pare che in quello che racconta, l'unica verità sia
che tutto è falso, a cominciare dal nome e cognome. Secondo alcuni storici, Casanova era uno che
non si chiamava neppure Casanova, ma si chiamava in altro modo. Secondo altri storici, invece,
Casanova non era Casanova, ma era un altro che pure si chiamava Casanova.
C'è anche qualche storico il quale sostiene che Casanova sarebbe stato perfino impotente. Non è
difficile crederlo.
Spesso, sotto il pornografo si nasconde quello che non ce la fa: uno che racconta tutto quello che
vorrebbe fare ma che non riesce a fare. Allora, si potrebbe presentare Casanova sotto una luce
nuova e forse più vera di quella tradizionale: sotto l'aspetto non più del libertino e del seduttore di
professione, ma dello studioso e del lavoratore. Un Casanova misogino e tutto dedito alle severe
discipline dello spirito. Fu anche bibliotecario, sia pure senza biblioteca, d'un principe tedesco
analfabeta. Uno sgobbone, insomma. Che tale in realtà egli fu.

In ogni caso, sarebbe stato uno sgobbone: tremila donne sedotte, d'ogni età, anche le vecchie; e
anche madri badesse. Una bella sfacchinata. Ma, a parte questo, sapete dirmi come avrebbe potuto
permettersi il lusso d'essere un libertino, giocatore, baro, spadaccino, duellatore, sfruttatore
di donne, corruttore di minorenni, ciarlatano, magnetizzatore, collezionista di cimeli femminili
intimi, agente segreto della repubblica veneta, spione, conservatore di trofei come il dente di latte
d'una quindicenne disonorata ed espugnatore di chiostri, uno che ha scritto quanto ha scritto lui?
Ventidue grossi volumi di memorie, signori, non si scherza. E, in più, varie opere di storia e di
fantasia, in francese e in italiano. Non basta. Saggi d'economia politica, un Récit de sa captivité, una
Confutazione dell'opera di Amelot de la Houssaye sulla costituzione della Repubblica Veneta. E
perfino, udite!, una traduzione in versi dell'Iliade d'Omero.
Passi per il resto, ma uno che traduce l'Iliade in versi non ha tempo di disonorare due o tremila fra
giovinette, anziane, vecchie e madri badesse! È un lavoro faticoso, quello dell'Iliade, che presume
lo studio del greco. Povero Casanova, altro che donne! Era un grafomane, che stava sempre a
tavolino. Forse, per dissipare qualche voce maligna che circolava fra quelli che lo vedevano sempre
a scrivere, scrisse quelle sue memorie. Forse si può adattare a lui la battuta di quel cacciatore che si
vantava d'aver ucciso centinaia di uccelli con un sol colpo di fucile.
« Ma scusi, » gli domandava l'ascoltatore, incredulo, « lei è un cacciatore? »
E lui: « No. Sono un fregnacciaro ».

4
La cuoca di Molière e quella di Kant

Molière usava leggere alla cuoca le proprie commedie appena scritte, per vedere che impressione
facessero su una mente semplice. E in questo niente di strano. O, tutt'al più, di strano c'è soltanto
che Molière avesse una cuoca. Si sa che il giudizio dei competenti sulle opere letterarie
è sempre viziato, o partigiano, o tendenzioso e, in ogni caso, non genuino. Ottimo, dunque,
l'espediente di Molière.
In verità, ora che ci penso, non so se fosse soltanto Molière a regolarsi così e se non facessero la
stessa cosa anche Balzac, Sardou, o altri. L'ho sentito dire di parecchi e sembra che quasi tutti gli
scrittori francesi usassero leggere le loro opere alle cuoche. Non vi starò a dire con quanto gioia
delle cuoche stesse.
Quelli che non potevano permettersi il lusso d'una cuoca, o che usavano mangiare in trattoria,
quando avevano da leggere una commedia andavano in casa di amici:
« Permettete che vada un momento in cucina? »; oppure bazzicavano negli uffici di collocamento e
davano lettura ad alta voce dei loro parti letterari alle numerose cuoche ivi stazionanti in attesa
d'essere ingaggiate.
Ma questo non ha importanza. Quello che interessa, qui, è Molière, il quale teneva la cuoca al solo
scopo di leggerle i copioni. Naturalmente gli occorrevano sempre cuoche illetterate, altrimenti non
sarebbero servite allo scopo. Egli non si preoccupava che sapessero cucinare un buon pasticcio e
intingoli prelibati. L'essenziale era che fossero ignoranti. Pubblicava annunci nei giornali: « Cercasi
cuoca digiuna lettere ». Naturalmente, dopo le prime letture era costretto a cambiare la cuoca,
perché essa finiva per acquisire una certa competenza in materia di commedie e il suo giudizio non
aveva più valore. Ragion per cui in casa di Molière c'era un via vai di cuoche e un continuo
cambiar di cucina.
Non vi dico come ne risentisse lo stomaco del famoso commediografo. E quante volte, in casa sua,
si mangiava roba scotta o si restava addirittura digiuni. Perché Molière, appena finito un nuovo
lavoro, chiamava la cuoca:
« Teresina ». « Che c'è? » « Vieni qui, ho da leggerti un dramma in cinque atti. »
« Ma ho la pentola sul fuoco. » « Non m'interessa. Vieni qui, ti dico. »
Sbuffando, la cuoca andava nello studio, Molière chiudeva la porta a chiave e si metteva a leggere:
« Atto primo, scena prima... ». La cuoca pensava alla pentola a bollore e stava sulle spine, ma il
padrone non sentiva ragioni. Fuori la famiglia strepitava.
« Non si mangia oggi? » « Figuriamoci, » diceva la moglie « s'è messo a leggere cinque atti in versi
a quella cretina. Oggi non si va a tavola.»
Se la cuoca restava impassibile, Molière dava alle fiamme il manoscritto.
Insomma, voglio dire che tutti conoscono quell'abitudine di Molière che dava alle scene i propri
lavori soltanto se la cuoca mostrava di apprezzarli. Ma pochi sanno che anche Kant aveva adottato
lo stesso sistema e pubblicava soltanto dopo aver constatato che i suoi scritti facevano una
favorevole impressione sulla cuoca.
Quando, per esempio, aveva finito un capitolo, chiamava la cuoca e continuava a leggere: « Non si
deve identificare la distinzione sapere puro e sapere empirico con la distinzione senso e intelletto;
l'empiricità è bensì portata dal senso nell'intelletto; ma questa empiricità intellettiva non è tutto il
senso, ma quanto vi è d'empirico nel senso stesso, giacché v'ha anche un sapere sensibile puro ».
Certe volte la cuoca diceva: « Non ho capito bene l'ultima parola ».
Allora Kant rifaceva tutto da capo.
Leggendo, osservava ogni tanto la fisionomia della cuoca: se questa aveva un aspetto di
approvazione, Kant pubblicava; ma se la cuoca restava impassibile, stracciava tutto.

5
Gutenberg o L'invenzione della stampa

Recentemente, chi non lo sa?...


« Io » dirà il lettore. Aspettate.
Recentemente, chi non lo sa?, è ricorso il centenario della nascita — o della morte, è lo stesso; cioè, non è lo
stesso, ma la cosa non ha importanza — di Gutenberg, inventore della stampa. È interessante rievocare come
avvenne questa invenzione per dimostrare una volta di più che spesso da una piccola cosa viene fuori una
grande idea.
Bisogna dunque sapere che Gutenberg aveva la passione...
« Dei libri » diranno gli incompetenti.
Come poteva avere la passione dei libri, se ancora libri non se ne stampavano? Si facevano libri manoscritti,
ma era tutta un'altra cosa.
Dunque, l'ottimo Gutenberg aveva la passione del teatro, ma gli mancavano i quattrini per andarci. Il
brav'uomo aveva più volte chiesto biglietti di favore, ma i capocomici gli avevano risposto picche. Ed egli,
avendo un certo ingegnaccio per le invenzioni, si scervellava per farne una che gli permettesse di entrare
gratis a teatro. In un primo momento gli era venuta l'idea d'un ritrovato
che rendesse invisibili le persone, per poter passare non viste sotto gli occhi della maschera. Ma era
un'invenzione troppo difficile. Provò con acidi, filtri, pillole ed eliotropi, sempre invano. Veniva visto
benissimo e respinto dal controllore che sedeva presso l'entrata. Provò a circondarsi di vapori. Ma, scoperto,
fu mandato indietro. Provò a gettare sabbia negli occhi della maschera. Ma fu arrestato.
Né gli sorrideva l'idea di fingersi attore, per passare dalla parte del palcoscenico. Voleva l'invenzione. La
trovata semplice e sicura, che gli permettesse di entrare gratis. Si scervellava per questo. Non dormiva la
notte.
E finalmente, una sera, ebbe la divinazione, il lampo di genio. Si presenta all'ingresso del teatro e dice
semplicemente: « Stampa ».
« Stampa! » grida la maschera di rimando.
E lo lascia entrare.

Era la grande trovata.


Così Gutenberg, dopo avere per vario tempo utilizzato l'invenzione per andare a teatro gratis, pensò di
perfezionarla e farne altre utili applicazioni, che dovevano in breve portare il suo ritrovato a un alto grado di
sviluppo. Cominciò a utilizzarla per stampare libri e, una volta trovata
la via, il più era fatto.
Onore a Gutenberg.

Voltaire

Voltaire - di cui non conosco che Candide — lo trovo insipido e noioso. Non si venga a dire che il tempo gli
ha tolto causticità; si vede in confronto a lui, come resiste, per esempio, Sterne.
La strombazzata causticità di Voltaire forse è una fama usurpata. È una causticità addomesticata, sembra
fatta su commissione delle stesse persone che colpisce. Voltaire è un cagnolino da salotto. Mordicchia, fa
pipì ed è la delizia delle signore. Non c'è nessuna sofferenza in lui, perciò mi è antipatico. È un morto che fa
il buffone. Non dà nessuna impressione d'indipendenza, tra l'altro; la sua è una falsa indipendenza; come di
uno che, stipendiato, fa la parte del selvaggio e dell'enfant terrible o del maleducato per abbellire una corte
con la presenza d'un simile personaggio. Come quegli chansonniers che insultano il pubblico il quale li paga
perché facciano questo.
Prendeva 72 tazze di caffè al giorno. Lo dicono la storia, la cronaca e il pettegolezzo del tempo.
Ma perché proprio 72 e non 71 e 73? Teneva una contabilità? E non si spostava da questa cifra? Ci voleva,
oltre tutto, una bella costanza. Tolte le ore di sonno (ma già, con 72 tazze di caffè, che volete dormire?),
ammesso che le prendesse in continuazione notte e giorno, erano esattamente 3 tazze all'ora. Gli restava ben
poco tempo per il resto. E non si riposava mai?
Trovo in un'enciclopedia: « È nota la sua risposta a Franklin, che gli presentava il suo figlioletto da
benedire... ». Ma in che mondo viviamo? Erano tutti pazzi? Uno fa benedire il figlioletto da Voltaire!
E la risposta di Voltaire: « Dio e la libertà ».
Si può essere più gigioni?

6
La quercia del tasso

Quell'antico tronco d'albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e
ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o
non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide,
Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand'essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c'era, ai tempi del grande e infelice poeta, un'altra quercia fra
le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la "t" maiuscola e della quercia del tasso
con la "t" minuscola. In verità c'era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per
distinguerlo dall'altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano "il tasso del Tasso"; e l'albero era
detto "la quercia del tasso del Tasso" da alcuni, e "la quercia del Tasso del tasso" da altri.
Siccome c'era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch'egli), il quale andava a
mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: "E' il Tasso dell'olmo o il Tasso della quercia?". Così
poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".
"Della quercia del Tasso." E dell'animaletto di cui sopra, ch'era stato donato al poeta in omaggio al
suo nome, si disse: "il tasso del Tasso della quercia del Tasso".
Poi c'era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s'era dedicata al poeta e perciò
era detta "la guercia del Tasso della quercia", per distinguerla da un'altra guercia che s'era dedicata
al Tasso dell'olmo (perché c'era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: "la
quercia della guercia del Tasso"; mentre quella del Tasso era detta: "la quercia del Tasso della
guercia": qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete
com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto
l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. Ora voi vorrete sapere se anche nella
quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. Viveva. E lo chiamarono: "il tasso
della quercia della guercia del Tasso", mentre l'albero era detto: "la quercia del tasso della guercia
del Tasso" e lei: "la guercia del Tasso della quercia del tasso".
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle
Alpi), che per un certo tempo fu detto: "il tasso del Tasso". Anche il piccolo quadrupede del genere
degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero,
l'animaletto venne indicato come: "il tasso del tasso del Tasso".
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all'ombra d'un tasso perché non ce n'erano a portata di
mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da
allora: "il tasso barbasso del Tasso"; e Bernardo fu chiamato: "il Tasso del tasso barbasso", per
distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell'animaletto fu
indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso
del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del
Tasso. Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto
gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il
tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

7
Lord Brummel o Del non farsi notare

Lord Brummel, che dell'eleganza aveva fatto la propria ragione di vivere, aveva di essa un famoso
concetto: la suprema eleganza consiste nel vestire in modo che non si venga notati. Donde, la sua
notorietà.
Si sa che quando un amico, incontrandolo, gli diceva: « Come siete elegante », l'elegantissimo Lord
esclamava sgomento: « Mi si vede forse qualche cosa? », e correva a cambiarsi. È incredibile le
pene che provava quando nelle cronache mondane leggeva: « Notato tra i presenti Lord Brummel».
Ne faceva un casus belli. Era tale la sua eleganza che a lungo andare i cronisti mondani finirono
per scrivere nei resoconti dei ricevimenti e delle feste aristocratiche:
« Non notato, fra gli intervenuti, Lord Brummel, benché ci risultasse presente ».
Ormai tutti sapevano che l'eleganza di Brummel consisteva in questo e — come sempre accade -
anch'egli ebbe imitatori. Talché spesso nelle riunioni degli elegantissimi cronisti dovevano
scrivere: « In questa festa mondana non siamo riusciti a notare nessuno, tanto erano eleganti
tutti , di quella speciale eleganza che consiste nel non farsi notare ».
Naturalmente, anche fra gli imitatori, Lord Brummel era quello che meno si faceva notare. Nessuno
riuscì mai a uguagliarlo in quest'arte difficile e raffinata. « Non notato nessuno » scrivevano sovente
i cronisti; « quanto a Lord Brummel, addirittura impossibile scoprirlo ». Quando l'elegantissimo
s'accorse che tutti più o meno l'imitavano su questo terreno, riuscì a batterli con mezzi talvolta
sleali. Un giorno, per esempio, in una festa a Corte, per non essere notato si nascose sotto una
tavola.
« Che fa, Vostro Onore, qui? » gli chiedevano i camerieri. E lui : « Non mi tradite. Sono qui per non
farmi notare».
Giunse a dei travestimenti. Nelle feste di dame si vestì talvolta da donna per passare inosservato. Se
faceva il suo giro di beneficenza tra i poveri del rione, per non essere notato si vestiva da pezzente.
Quando s'accorse che con questa storia di non farsi notare era diventato celebre, fu per lui una
mazzata sul capo. Dovunque andava, sentiva mormorare:
« Quello è Lord Brummel. Guarda, guarda come non si nota! ».
E tutti se l'additavano bisbigliando: « È straordinario, non si nota affatto ».
Quando usciva di casa, la folla si stringeva intorno a lui per ammirare l'uomo che non si notava.
Codazzi di gente lo seguivano attraverso la città per godere lo spettacolo di Lord Brummel che
passava inosservato.
Questo fu il supremo trionfo dell'eleganza di Lord Brummel intesa a non dare nell'occhio. I cronisti
scrivevano: « Notato, per il modo come riusciva a no notare, Lord Brummel ».
Brummel, però, non era felice. Deperiva. Non sapeva più come fare per non essere notato. Finì per
né uscire più di casa.
Ma i familiari l'osservavano. Dava nell'occhio quello starsene tappato in casa per non essere notato.
Giunse a restare in letto, col capo sotto le coltri. La mattina il vecchio servitore gli portava la
cioccolato: dov' è andato? Non c'è. Il letto presentava un rigonfiamento spetto. Eccolo! Lord
Brummel, zitto, lasciava palpeggiare e non si muoveva.
« È lui o non è lui? »
Il servitore tirava via le coperte e Brummel appariva rannicchiato.
« Maledetto, » borbottava « mi ha notato. »
Vedendo che non riusciva a non farsi notare, s' ammalò di crepacuore.
Il medicò lo notò .
Morì . La cosa non passò inosservata: fu chiuso in una cassa.
Per disposizione testamentaria, Lord Brummel dando ancora un'ultima prova di buon gusto, aveva
voleva che il funerale passasse inosservato.
La cosa incuriosì talmente che tutta Londra era lì a vedere come riusciva bene a passare inosservato.

Potrebbero piacerti anche