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La società iatrogena
In questi tempi di epidemia non sarò certo il primo a citare la celebre scena della Spada nella
roccia nella quale mago Merlino, per sconfiggere Maga Magò, si trasforma in un bacillo e la fa
ammalare. L'ironia di quella scena sta nel fatto che i due avversari si trasformano in creature
sempre più grandi; ma quando Merlino sembra ormai prossimo a essere sconfitto da un gigantesco
drago, improvvisamente inverte la strategia: capisce che la massima minaccia viene dal mondo
dell'infinitamente piccolo. Maga Magò, malgrado le sue potenti arti magiche, non può fare nulla
contro una malattia che la contagia dall’interno. Un colpo di scena simile si trova nel
finale nella Guerra dei mondi di H. G. Welles, quando i tripodi alieni che hanno invaso la Terra
vengono sconfitti dai batteri presenti nell’atmosfera.
Il coronavirus ha colpito in maniera quasi chirurgica i punti fragili della macchina del capitalismo,
provocando quella che si annuncia come una recessione globale. Nei prossimi mesi ci aspettano
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La certezza tipicamente capitalistica che basti disporre di maggiori risorse per rendere più
efficiente un sistema viene continuamente contraddetta dai fallimenti industriali e militari
delle grandi potenze.
Secondo la virologa Ilaria Capua, l’apparizione del medesimo ceppo virale in un diverso contesto
storico avrebbe avuto conseguenze molto più lievi: sarebbe nato e morto in un villaggio a Nord del
lago Dongting oppure avrebbe messo decenni a diffondersi, lasciando il tempo necessario
all’umanità per immunizzarsi. Insomma se anche il virus SARS-CoV-2 fosse venuto al mondo non
sarebbero esistite le condizioni per un’epidemia. Ma il mondo del ventunesimo secolo è costituito
da una fitta maglia di collegamenti che come grandi siringhe in poco tempo portano gli agenti
patogeni da una parte all’altra del mondo. Il ciclo di trasmissione ed evoluzione dei virus ne risulta
in questo modo accelerato, aumentato anch’esso attraverso la simbiosi con la mega-macchina del
trasporto aeronautico.
Se in una prima fase molti specialisti hanno dato l’impressione di «minimizzare» la gravità della
malattia è perché l’ennesima sindrome simil-influenzale non costituiva, in sé, un fenomeno nuovo
né oltremodo allarmante. Avevano sottovalutato la capacità del sistema tecnologico di funzionare
come ripetitore del contagio e amplificatore del rischio – e in particolare quella, pure già nota, del
sistema sanitario. A poco più di un mese dalla scoperta del primo caso di coronavirus sul territorio
italiano, stanno emergendo con forza ipotesi sul ruolo svolto dagli ospedali nella catastrofe che si è
manifestata in Lombardia. Una catastrofe che rischia di verificarsi ovunque vi siano condizioni
simili.
Tra le file del personale sanitario, costretto a lavorare in condizioni inadatte, stressanti e
pericolose, si conta un numero elevatissimo di contagiati e decine di caduti. Già dalla fine del mese
di febbraio era stata aperta un’inchiesta sulle procedure adottate negli ospedali di Codogno,
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Casalpusterlengo e Lodi, che potrebbero aver contribuito al contagio. A Capua che ha ricordato
che il virus SARS 1 si era diffuso sfruttando i condotti di aerazione di un albergo di Hong Kong, a
stretto giro ha risposto un ex direttore sanitario di ASL lombarde, Giuseppe Imbalzano, insistendo
sul fatto che la questione sia organizzativa prima ancora che medica: sarebbe stato opportuno,
come in Cina, isolare le strutture per i contagiati da coronavirus dalle altre. Non c’entra quindi
tanto la disponibilità di «posti letto» in assoluto, che in certi casi può rivelarsi parte del problema,
quanto la capacità di una burocrazia complessa di adattare rapidamente i suoi protocolli. La
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Nei primi giorni della crisi sanitaria qualcuno ha ironizzato sull’eredità intellettuale di autori come
Michel Foucault e Ivan Illich, colpevoli di aver criticato in vario modo l'approccio moderno alla
malattia; avrebbe fatto meglio a rileggerli. In particolare quel Nemesi medica che nel 1974
denunciava i rischi iatrogeni della medicina, ovvero la produzione su scala industriale di effetti
collaterali. Oggi sembra fargli eco questa amara constatazione dei medici di Bergamo, dai toni
sorprendentemente illichiani: «Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus».
È con questo paradosso che dobbiamo fare i conti per capire la scelta tragica che ci viene imposta.
Naturalmente non ha senso buttar via il bambino con l’acqua contaminata. Se calcolato in termini
di «nuda vita», per citare Agamben, è indubbio che il sistema salvi molte più persone di quante
(molto occasionalmente) ne uccida: le stesse vittime di eventuali contaminazioni nosocomiali da
coronavirus sono per gran parte pazienti che erano fino a quel momento tenuti in vita dal sistema
sanitario attraverso strumenti chirurgici e farmacologici. La critica di Illich riguarda semmai
la qualità della vita garantita in questo modo, perché nella sua incessante medicalizzazione di ogni
aspetto dell’esistenza il sistema tende all’overdiagnosis e all’overtreatment. In questo modo milioni
di persone sane vengono arruolate tra le file dei malati, il che talvolta finisce per farle ammalare
effettivamente. In ciò tiene la logica perversa di quella che Ulrich Beck ha chiamato da parte
sua società del rischio: ovvero nella produzione inesauribile di minacce la cui necessaria
prevenzione garantisce sempre nuovi bisogni da soddisfare.
Tuttavia il discorso illichiano sulla qualità della vita rischia di essere piuttosto soggettivo, e a tratti
moralistico, soprattutto se contrapposto alla potente oggettività della riduzione dei tassi di mortalità
nelle società avanzate, indubbio progresso sul quale il sistema sanitario (e con esso l’intero
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sistema tecnologico) ha fondato la propria legittimità nel corso dell’ultimo secolo. Il problema è che
questa narrazione è vera soltanto per metà. La straordinaria caduta dei tassi di mortalità
dell’ultimo secolo si deve in primo luogo all’aumento della qualità della vita, all’acqua potabile e
alle reti fognarie, e solo in secondo luogo alla medicina, anzi a uno spettro ristretto di tecnologie
mediche — Illich sottolinea, per esempio, l’indubbia efficacia delle politiche vaccinali. Ma fuori da
questo spettro i risultati sono assai meno eclatanti. La produzione della salute segue
fondamentalmente lo stesso andamento di tutte le curve di produzione e quindi raggiunge
inevitabilmente l’altopiano dei rendimenti decrescenti: superata la soglia delle cose che fa «molto
bene», la medicina è condannata a fare sforzi sempre più importanti per ottenere risultati sempre
meno soddisfacenti e a un certo punto dannosi. Ottiene sempre un po’ di meno per ogni singolo
euro che investe e per ogni singolo medico che assume; mentre d’altra parte viene spinta allo
stiramento da una crescente domanda di salute ingenerata dal sistema stesso. Questa logica di
espansione infinita è evidentemente insostenibile nella sfera sanitaria come lo è in quella
economica più ampia.
Se vaccini e antibiotici hanno sospinto la curva di produzione della salute nella sua fase
ascendente, le cure psichiatriche caratterizzano l’altopiano in cui si faticano a misurare risultati
convincenti. Il caso di iatrogenesi più eclatante degli ultimi anni è sicuramente quello dell’abuso di
psicofarmaci e oppiacei, che negli Stati Uniti ha assunto il carattere di una vera e propria
epidemia: secondo Allen Frances, già curatore della quarta edizione del Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), a provocarla è stata la tendenza crescente in psichiatria a
individuare sempre maggiori disturbi e potenziali devianze da medicalizzare. Ricordate la vespa
gioiello e il fungo a testa di clava? In questo caso è la mega-macchina sanitaria a condizionare il
comportamento di milioni di esseri umani trasfondendo neurotossine nel loro sistema nervoso.
Questa relazione simbiotica con la macchina può in certi casi salvare la vita al paziente, mentre in
altri casi lo condanna a una maggiore infelicità. Ma cosa succede quando all’individuo ormai
assuefatto viene sospeso, per cause di forza maggiore, il trattamento medico? La trama del
film Joker di Todd Phillips fornisce qualche spunto.
Il sistema tecnologico produce di fatto degli individui dipendenti dalla tecnologia. Torniamo
all’immagine del cyborg, mezzo-uomo e mezzo-macchina — in questo caso tutti quanti cablati alla
medesima grande macchina che garantisce l’approvvigionamento in risorse, la sicurezza, in certi
casi la sopravvivenza fisica. Questa macchina non può permettersi nessun «calo di tensione»
senza mettere in pericolo i milioni di persone che vivono in simbiosi con essa, che siano negli
ospedali in senso stretto o nei centri urbani in senso lato. Il che significa inoltre che siamo
indirettamente dipendenti dal modo di produzione che genera la ricchezza necessaria per
finanziare questa tecnostruttura che ci tiene in vita, dall'acqua potabile ai respiratori. Non esiste
dunque nessun trade-off tra le esigenze della sopravvivenza e quelle della produzione, in quanto la
sussistenza biologica stessa nelle nostre società è ormai per gran parte mediata dal sistema
capitalistico. I danni alla sfera economica stanno già ora producendo un esercito di disoccupati e
presto milioni di persone incapacitate a garantire la propria sussistenza e la propria salute.
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In che momento la conservazione della nuda vita finirà per condannarci, come civiltà, a
un'esistenza non più degna di essere vissuta?
Accelera o muori
Ancora una volta il sistema tecnologico, dopo aver contribuito a produrre il problema, ci propone i
suoi rimedi. Ma in questo caso sono molto più drastici del solito: reclusione forzata di una
maggioranza della popolazione, presenza massiccia dell’esercito nelle strade e piani per un
controllo pervasivo degli spostamenti. Domani, probabilmente, un rigido sistema di workfare per
risollevare le forze produttive. A questi rimedi «non c’è alternativa», per citare il premier Conte,
perlomeno se vogliamo mettere al riparo le nostre strutture sanitarie. Nulla di nuovo in fondo:
l’assenza reale di alternative è precisamente la logica del sistema tecnologico. Dal momento in cui
viene storicamente prodotto, esso si presenta come realmente irreversibile. Producendo sempre
nuovi rischi, continua a riprodurre la propria necessità. Imponendo il suo monopolio radicale, ha
azzerato lo spettro delle possibilità. La natura ha creato il virus ma è il sistema tecnologico che
l’ha trasformato in un’epidemia. Così ci pone oggi il suo estremo ricatto: sacrificare la nuda vita
oppure accelerare verso la distopia.
Riflettendo nel 1966 sulla Legittimità dell’età moderna, il filosofo Hans Blumenberg aveva
osservato che «i mali del mondo dipendono sempre meno dai difetti fisici della natura, e, per via
delle amplificazioni tecniche, sempre più chiaramente dagli effetti delle azioni umane». Perciò il
principio di legittimazione del sistema tecnologico è ormai quello di una pura corsa in avanti per
sperare di risolvere i problemi generati dalla sua stessa esistenza, accelerando. Ma via via che si
accumulano i rischi iatrogeni questa corsa è sempre più disperata e presto persino inutile. Per
riprendere un cruccio formulato (non del tutto efficacemente) sempre da Giorgio Agamben,
dobbiamo chiederci: in che momento la conservazione della nuda vita finirà per condannarci, come
civiltà, a un'esistenza non più degna di essere vissuta?
Il capitalismo si era venduto come l’unico sistema ormai in grado di gestire i pasticci da lui
combinati, ma non avevamo preso in debita considerazione l’esistenza di ampi margini
d’imbarbarimento. Oggi, portando all’estremo la traiettoria della modernizzazione, l’emergenza
sanitaria impone all’Occidente di far evolvere il suo sistema politico-economico in qualcosa di più
simile al modello cinese: un sistema altamente razionalizzato, centralizzato, gerarchizzato, un salto
evolutivo nella specie. L’eclissi dei più elementari diritti civili sembra sollevare solo poche timide
obiezioni a fronte della nostra paura animale per la sopravvivenza. «Non c'è alternativa»: dobbiamo
accelerare o morire.
Il progresso tecnologico prometteva di liberare l'umanità; ha finito invece per scaraventarci nella
gabbia d’acciaio intravista da Max Weber un secolo fa nei suoi studi sulla razionalità burocratica.
Forse ci salverà dal coronavirus, isolandoci da ogni contatto con il mondo esterno e imponendoci il
trionfo definitivo della «separazione generalizzata». Ma quello che oggi ci sembra essere il rifugio
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più sicuro potrebbe presto rivelarsi come il luogo del pericolo più grande.
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