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Presentazione

Il grande fiume si snoda nella pianura tra alberi secolari, barche e ponti, indifferente ai pesci
mostruosi che popolano le sue acque e all’orrore che un giorno si sprigiona sulle sue sponde. Un
brutale ritrovamento segna l’inizio della nuova indagine dell’ispettore Remo Jacobi, uomo di
cinquant’anni disilluso, divorziato e senza figli. O così dice. Vive con l’anziano padre rumeno in un
borgo rurale e il suo curriculum di poliziotto è ormai composto di casi che ha scelto deliberatamente di
affossare. È convinto che un velo di male puro si sia sovrapposto alla realtà quotidiana e si è rifugiato
nella misantropia per sopravvivere a un mondo che percepisce sempre più incomprensibile e ostile. Ma
di fronte all’ennesima, insulsa atrocità, Jacobi si ribella e lungo quelle rive antiche e lussureggianti
comincia a combattere una lotta che ha origini lontane: nei deserti della Somalia teatro di guerra di
mercenari disposti a tutto, e nell’Europa dell’Est dove altre violenze hanno piegato definitivamente la
logica del vivere civile. Fino ad approdare in una più vicina ma non meno torbida metropoli, dove ad
aspettare Jacobi ci sono una donna e la possibilità di un sentimento che forse potrebbe riscattarlo...

Massimo Gardella è nato nel 1973 e vive a Milano. È traduttore di saggi e romanzi per diversi
editori italiani. Nel 2009 è uscito il romanzo Il Quadrato di Blaum (Cabila Edizioni). Come musicista
ha scritto le musiche per il documentario di Giorgio Fornoni Ai confini del mondo (Chiarelettere,
2010). Il suo sito internet è www.massimogardella.com
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NARRATORI DELLA FENICE


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Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi somiglianza


con eventi, luoghi o persone reali è puramente casuale.

Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo


Per essere informato sulle novità
del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
www.illibraio.it
www.infinitestorie.it

ISBN 978-88-6088-871-6

© Massimo Gardella 2011


Published by arrangements with Berla & Griffini Rights Agency
© 2012 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
www.guanda.it

Prima edizione digitale 2012


Realizzato da Editype s.r.l.
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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ai miei genitori
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Quando il caso non esiste più, la storia gialla rientra nella realtà. Per dare un’idea della realtà, se
ne enumerano ancora una volta gli aspetti quotidiani. Si fa vedere che non ha più storia. Tutto è in
ordine, e quello che non è in ordine non viene più descritto. La deviazione rappresentata dal delitto è
stata eliminata. Tutto si ritrova al proprio posto o si muove nella propria direzione. Appena chiarito, il
delitto è trascorso da tanto tempo che non è più vero.

PETER HANDKE, L’ambulante


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Il piccolo bastardo trotterellava annusando la ghiaia a ridosso dei salici sul lungofiume.
Cercava, tra cadaveri di tronchi abbattuti da fulmini o sradicati dalla corrente, un angolo adatto per
liberare i modesti intestini. Si fermò con le orecchie tese verso il richiamo di un uccello, quasi
intimorito, con la coda dritta, quindi proseguì verso la sponda. L’acqua non lo spaventava. Dopo avere
raspato il terreno per coprire i suoi bisogni, si avvicinò alla riva per abbeverarsi. Rimase immobile per
un minuto buono, nella paralisi improvvisa degli animali, che a un’intelligenza umana fa pensare a
imperscrutabili capacità sovrannaturali delle bestie. Zampettò cauto verso l’acqua, sui sassolini e la
sabbia limacciosa, attento a non rimanere incastrato nel terreno infido. Era un piccolo bastardo
prudente. Chinò il muso e affondò la punta del naso nel fiume, e con veloci movimenti a paletta della
lingua si dissetò.
Alzò la testa di scatto, di nuovo con le orecchie tese, in allerta. Sentì la sabbia mancare sotto le
zampe anteriori, come se il fondale recedesse per aprire una voragine sotto di lui. Appena decise di
saltare indietro, il fiume si animò. Uno spruzzo si abbatté sul manto pulcioso del botolo un secondo
prima che l’acqua diventasse una cavità spaventosa pronta a ingerire animali vivi e morti, qualsiasi
cosa placasse una fame priva di appetito, una funzione meccanica di sopravvivenza. Il piccolo bastardo
riuscì a emettere un timido guaito, una specie di esclamazione di stupore, e la sua breve esistenza
terminò nel ventre di quella bestia orribile, come un inconsapevole Pinocchio. Non era ancora morto
quando il pesce tornò a immergersi nel gorgo che i suoi tre metri e più di lunghezza avevano creato,
diretto verso il fondale melmoso del Po, in attesa di sorprendere un altro boccone, un altro spuntino
notturno.
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L’ispettore Jacobi aveva bisogno di un caffè. Al volante dell’Alfa 155 blu scuro, percorreva il
tratto di strada provinciale che da Vidigulfo portava a Linarolo. Un’ombra in movimento nella notte,
definita solo dal raggio inclinato degli anabbaglianti. La luce del nuovo giorno faceva capolino dalla
macchia di vegetazione alle spalle del castello visconteo in rovina. Un paesaggio antico, che Jacobi
immaginava popolato da schiere di armati, mentre tagliavano la cappa di bruma mattutina con lunghe
lance e armature ammaccate dalle battaglie. Mentre superava il maniero diroccato lanciò come tutte le
volte un’occhiata al ponticello di pietra celato tra le frasche: bisognava sapere dove guardare. Un luogo
indicato per scene romantiche, con giovani amanti clandestini e coppie cronicamente perfette che si
tenevano per mano, giurandosi amore eterno.
Tuttavia non c’era niente di romantico nella levataccia di quell’alba primaverile. Il cellulare lo
aveva strappato al sonno poco prima delle sei. Il suo vice Borghesi, meticoloso apprendista, aveva la
voce più assonnata della sua.
«Remo, giuro che è da non crederci.»
Jacobi proseguì sulla strada provinciale verso Lardirago, alla rotonda svoltò per imboccare la
SS617 Broni-Stradella: nel giro di venti minuti sarebbe arrivato al Ponte della Becca, nel punto in cui il
fiume Ticino diventa Po, e dove Borghesi lo aspettava insieme a due volanti e un capannello di
canottieri. Anche una squadra della scientifica era in viaggio per raggiungerli.
L’ispettore aveva specificato a Borghesi di stare bene attento che nessuno dei presenti usasse
cellulari o si allontanasse, per evitare la diffusione di pettegolezzi. La provincia era un mondo in
miniatura, nel giro di pochissimo tempo sarebbero arrivati sul posto i cronisti rapaci, e prima di tutto
voleva essere certo che le notizie riferite da Borghesi non fossero esagerazioni.
«Secondo i canottieri è un esemplare da record» aveva spiegato tra i fumi del sonno Borghesi.
«Il pesce siluro più grosso mai pescato in questa zona del fiume, sicuramente del Ticino e forse anche
del Po.»
Non era per il silurus glanis che erano stati chiamati, ma per ciò che spuntava dalla sua bocca,
incorniciata dai barbigli.
«Non fate niente finché non arrivo» aveva biascicato Jacobi nel buio della camera da letto. Poi
aveva chiuso la comunicazione e si era alzato di peso, sbuffando. Remo si sciacquò rapidamente in
bagno e la voce sfumata di sua madre Eleonora si unì al flusso d’acqua del rubinetto: parole rimaste
nella memoria dagli anni della sua giovinezza, il ritornello tipico di ogni volta che scappava di corsa
alla fermata dell’autobus diretto in città, per il liceo: «Mi raccomando, non lavarti come i gatti». In quel
momento, svegliato alla fine della notte per presentarsi sulla scena di un crimine – se così poteva
definirlo, in base a quanto aveva riferito Borghesi – quasi rimpianse le corse per non arrivare tardi a
lezione, con il «pericolo» di essere schernito dai compagni o ripreso da alcuni professori.
Suo padre era già in piedi. Lo trovò in cucina che si rollava una sigaretta seduto al tavolo, di
spalle. Remo si chinò per baciarlo sulla nuca. Davanti a lui erano ancora sparpagliate le carte Modiano,
le vestigia del solitario in cui Johan si era cimentato la sera prima. Il suo innocuo sonnifero.
«Ciao, tata.»
Johan ricambiò mugugnando mentre leccava la cartina per sigillarla. «Vuoi un caffè?»
«Non ho tempo.»
Infilò la sigaretta tra le labbra, poi la accese con uno svedese da cucina, stringendo il
fiammifero tra le dita screpolate da più di sessant’anni di lavoro nei cantieri, segnate dalla calce e
ruvide come la pellaccia di uno squalo.
Jacobi aprì il frigorifero e si versò un bicchiere di succo di pompelmo, buttò dentro una dose
abbondante di zucchero e lo mandò giù d’un sorso.
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«La pillola non la prendi?» Johan indicò con uno sbuffo di fumo una confezione di medicinali
sul banco della cucina.
«Dopo. Ora devo scappare.» Jacobi raccolse da una ciotola di legno le chiavi dell’auto e aprì la
porta della cucina che si affacciava sul cortile. Vivevano in una cascina che il padre aveva rimesso in
sesto nell’arco di trent’anni, e dove lui aveva vissuto fin da ragazzino. C’era tornato dopo il divorzio da
Monica. Ora lui e Johan si facevano compagnia a vicenda, e Remo si sentiva più vicino all’età morale
del padre che ai suoi effettivi cinquant’anni. Tra lui e il vedovo Johan si era instaurato un rapporto che
andava oltre il legame di sangue, erano compatibili a livello più emotivo: entrambi soli, a loro modo
tacitamente disperati per quelle assenze che un tempo avevano impreziosito la loro esistenza.
«Ti chiamo più tardi.» Remo salutò il padre dalla soglia. Johan sorrise a labbra strette, per
Remo era come un vecchio cane lupo che sa di essere amato e accudito. Il figlio faceva un lavoro di
merda, proprio com’era stato il suo, e con la stessa dedizione e caparbietà. Era l’unica cosa che sapesse
fare, ed era bravo a farla. Non eccezionale, ma capace. Erano tutti e due uomini semplici, onesti. Gran
lavoratori.
«Copriti che fuori fa fresco» lo avvisò inutilmente Johan. Dopo due terzi della sua vita su suolo
italiano, Johan non aveva ancora del tutto perso una vaga ma inequivocabile inflessione rumena, che a
suo modo lo rendeva esotico.
Remo annuì e chiuse la porta alle sue spalle.
Per fortuna Johan non gli aveva chiesto il perché della sua uscita mattutina, di certo non così
usuale come ci si aspetterebbe da un ispettore della polizia criminale. Remo non aveva mai mentito ai
genitori, e non avrebbe saputo come mascherare la notizia. Un pesce siluro di almeno tre metri che un
gruppo di canottieri aveva trovato morto, a pancia in su nel fiume, e dalla cui bocca spuntava la mano
di un bambino.
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I lampeggianti blu bucavano lo schermo nero della notte, insinuandosi nei primi segnali
dell’alba incipiente. Jacobi superò il ponte di ferro e scese sulla stradina sterrata, fermando l’Alfa dietro
le volanti, a una ventina di metri dal molo di legno dello Sporting Club Becca. Borghesi gli si fece
lentamente incontro, con un bicchierino di plastica fumante in mano e il viso ancora vergato dai segni
del cuscino. L’ispettore si accese una sigaretta e s’incamminò verso di lui. Il vice gli porse un caffè
caldo. Dio benedica Antonio Borghesi, pensò Jacobi.
Più defilata rispetto alle auto della polizia, l’ambulanza riposava nei pressi del pontile,
l’equipaggio a terra curiosava vicino ai civili. Già da quella distanza, Jacobi scorse la sagoma del pesce
siluro allungata e inerte sulle assi erose dalla corrente. L’ispettore bevve un sorso di caffè, e passò la
sua sigaretta a Borghesi. Il vice stava cercando di smettere, ma sapeva che non avrebbe disdegnato un
tiro o due.
«La scientifica sarà qui a momenti» lo avvisò Borghesi.
Jacobi annuì. Odiava il fiume.
Scesero sul selciato verso il molo. Era sabato: nel giro di poche ore le rive del Ticino si
sarebbero riempite di famiglie e ragazzi, con moto e motorini ammassati sulla sponda, i ristoranti sul
lungofiume avevano già le luci accese per preparare le cucine e pulire i locali.
Passarono accanto a una volante, Borghesi infilò la testa dentro e ne uscì con un thermos color
crema e un altro bicchierino di plastica. Gli agenti salutarono Jacobi con un cenno.
«Chi ha trovato il pesce?» s’informò l’ispettore.
Borghesi indicò col mento un gruppo di sportivi in pantaloncini e maglietta che guardavano
verso di loro. Si diresse da quella parte, con gli occhi puntati sul siluro morto, accolto da un fetore
marcio che lo costrinse a storcere la bocca. Era un animale schifoso, un’offesa all’estetica di Madre
Natura. La sua somiglianza con il pesce gatto si limitava ai barbigli. A Jacobi, quel mostro sembrava
più un’anguilla mutata, una creatura fuoriuscita da storie dell’orrore.
Sollevò gli occhi sui canottieri.
Un uomo di mezza età spiava lo spettacolo con un cellulare in mano.
Jacobi non ebbe bisogno di avvisare gli agenti, un marcantonio in divisa si affrettò verso il
curioso.
«Niente foto!» intimò prima di requisire il cellulare, quindi attese una parola dall’ispettore.
Jacobi fissò l’uomo, che ricambiava lo sguardo con un’espressione spaventata.
«Lei» lo chiamò Borghesi. «È un giornalista?»
Jacobi lo guardò contrariato per la domanda idiota. Era evidente che fosse del posto, forse il
proprietario di uno dei ristoranti che si affacciavano sul fiume.
«Qualcuno di voi ha scattato foto?» s’intromise Jacobi.
Dal brusio confuso non uscì una risposta precisa.
«Ragazzi» disse rivolto agli agenti, «controllate tutti i telefoni.» Poi parlò di nuovo al gruppo.
«Ve lo chiedo per favore, niente fotografie. Chiaro?»
Il drappello annuì a velocità diverse, chi più intimidito e chi più sprezzante di fronte all’autorità.
«Allora» proseguì Jacobi, «chi ha trovato questo affare?» indicò il siluro.
I canottieri, soprattutto adulti, e un paio di adolescenti, si scambiarono un’occhiata poi uno di
loro prese la parola per tutti.
«Siamo venuti qui presto per preparare le barche, commissario.»
«Ispettore» lo corresse Jacobi, invitandolo a proseguire.
«Abbiamo visto qualcosa spuntare dall’acqua a pochi metri dal molo.»
«Ma era ancora buio, no?» interruppe Borghesi.
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«Eravamo abbastanza vicini.»


Jacobi percepì una specie di timore nella voce, le ultime parole quasi dissolte in un sussurro.
Conosceva quella gente, persone semplici. Borghesi era di Milano, uomo di città, abituato ad altri ritmi
e toni, doveva ancora adattarsi a quel microcosmo molto più circoscritto e autoprotettivo.
«Abbiamo notato una macchia chiara. Il siluro era a pancia in su, piuttosto vicino a terra.»
«Chi l’ha tirato sul pontile?» domandò Jacobi.
«Be’, con un arpione, di quelli che si usano per raccogliere le cime in acqua. Come le ho detto
era vicino. Questi bestioni non sono più così rari da queste parti, abbiamo visto tutti subito che era un
siluro. Non ha idea di quanti ne avvistiamo su questo tratto di fiume. A volte emergono con la testa in
superficie, come se volessero mangiarsi pure i remi.»
«Ma non vive sui fondali?» chiese una poliziotta, l’unica donna tra gli agenti.
Jacobi e Borghesi si voltarono.
«Scusi, ispettore» si giustificò la donna. «Questa zona la conosco bene. Mio papà ha l’hobby
della pesca e l’ho accompagnato molte volte, so qualcosa di questi pesci. Sono predatori notturni,
riposano sul fondo per la maggior parte del giorno. Mi sembra strano che emergano in superficie per
attaccare le imbarcazioni. Non è mica l’orca assassina» concluse rivolgendosi di nuovo ai canottieri.
Jacobi annuì senza smettere di fissarla. «Grazie, agente» disse e invitò l’uomo a continuare.
«L’abbiamo issato sul molo» guardò i suoi compagni, «in quattro. Non avevamo mai visto una
bestia così. È da record. Poi ci siamo accorti che aveva qualcosa incastrato in bocca.»
Jacobi annuì di nuovo. «Avete capito subito di cosa si trattava?»
L’uomo scambiò un’altra occhiata coi canottieri. «Non volevamo crederci, ispettore...»
s’interruppe, con la voce spezzata.
Jacobi oltrepassò il siluro e si piazzò davanti alla sua bocca. Il polso di un bambino, le dita della
mano leggermente piegate verso il palmo, come per chiedere di tirarlo fuori dalla pancia del mostro.
Jacobi scosse la testa senza accorgersene. Probabilmente era un boccone troppo sostanzioso anche per
il siluro, era morto soffocato.
«Gesù...» mormorò accovacciandosi a mezzo metro dal muso mucoso.
Ormai il giorno era sorto, la luce di un potenziale sabato soleggiato e senza nuvole, perfetto per
una gita sul fiume, batteva indifferente sulla macabra unione di natura e orrore.
E se fosse tuo figlio? si chiese Jacobi, che non aveva figli. Non poteva averne.
Lanciò un’ultima occhiata a quel polso. Un’altra richiesta di soccorso, pensò Jacobi
rabbrividendo al ricordo. Una parte della sua vita relegata negli archivi oscuri della biblioteca della
memoria, una zona ormai inaccessibile all’ispettore.
La strada selciata che dal ponte di ferro conduceva al molo si illuminò dei fari di un veicolo.
Era il furgone della scientifica, un Fiat TurboDaily blu notte, scortato da una terza volante. Jacobi si
raddrizzò.
«Temo che dovrete passare la mattinata con noi a Pavia» spiegò ai canottieri. «Per i verbali.»
Si sollevò un soffuso coro di proteste, a cui Jacobi pose fine alzando un po’ la voce, autoritario
quel che basta. «Abbiate pazienza, signori.» Si voltò verso gli agenti. «Voialtri, prendete le generalità
di tutti.» Guardò il drappello di civili. «Poi vi convocheremo uno a uno.»
I poliziotti si apprestarono a eseguire gli ordini dell’ispettore. Sul sentiero di ghiaia, la squadra
della scientifica con l’attrezzatura si avvicinava al molo con un’espressione fredda e professionale,
Jacobi s’incamminò per andare incontro al gruppo di specialisti che avrebbe tagliato la pancia al pesce
per estrarre il corpicino intrappolato nelle sue viscere. O almeno questa era la sua idea.
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«Non è meglio trovare un gancio o altro dove appenderlo?»


Luca Dettori sembrava sveglissimo, come se non fosse mai andato a dormire. Capelli cortissimi
brizzolati e una erre moscia che tradiva le sue origini alto-borghesi, il patologo ordinò ai tre subordinati
che lo accompagnavano di trovare un modo per sollevare il siluro.
Pur senza possedere tratti fisionomici particolari, Dettori era un singolare essere umano,
riconoscibile nella folta schiera di individui che si incrociano ogni giorno per strada. Era come se la sua
flemma producesse una bolla intorno a lui, una specie di richiamo dell’attenzione a livello subliminale.
Forse perché era buffo a vedersi, con la sua andatura vagamente scomposta, come se fosse sempre
reduce da una sbronza di lusso. Jacobi si era trovato più di una volta a esaminarlo con attenzione al
lavoro. I modi decisi del patologo si scontravano – ma era più onesto ammettere che si sposassero –
con una delicatezza e un tatto sconfinati per il mestiere che faceva. Sembrava che le macabre analisi di
Dettori su corpi interi o mutilati rendessero dignità assoluta ai resti fisici di quelle esistenze nella
maggior parte dei casi troncate con violenza. Jacobi lo conosceva da anni, rispettava il suo distacco nei
confronti degli orrori con cui aveva a che fare ogni giorno, o quasi. Era considerato un’autorità nel suo
campo. Eppure, le attenzioni che il patologo dedicava ai «suoi ragazzi», come li definiva lui stesso con
affetto, ricordavano all’ispettore la pacatezza e la gentilezza con cui Dettori si comportava con i propri
figli. Due ragazzini vivaci e intelligenti.
Dettori non sembrava particolarmente impressionato dallo spettacolo della mano che spuntava
dalla bocca del pesce. Anzi, ostentava una professionalità al limite del cinismo spiccio.
Jacobi si rifiutò di toccare il pesce, osservando con un certo ribrezzo gli esperti della scientifica
che si presero la briga di sollevare quel corpo floscio e molle di oltre tre metri, e trasportarlo fino alla
piazzola di cemento della pompa Total, mentre Dettori dirigeva la scena con l’attenzione di un regista
pignolo.
«Una vera schifezza» commentò in tono pratico.
Per contrastare il malessere, Jacobi si accese un’altra sigaretta.
«Senti, Remo» proseguì Dettori, «io di animali non so un cazzo. Cioè, bisogna chiedere alla
veterinaria di praticare la dissezione del siluro. Se ne occuperà Leonardi.»
Jacobi sembrò rifletterci sopra, ma pensava ad altro. «Sì, certo.»
Ricordò quella volta in cui l’avevano chiamato alle sei e mezzo di mattina per constatare il
decesso di un settantenne. Una sveglia simile, in un certo senso. Solo che il vecchio era placidamente
disteso nel suo letto. Si ricordava di come lui, allora molto giovane, e il collega anziano fossero entrati
nell’abitazione con rispetto, l’odore di medicinali e la dottoressa della ASL che compilava il certificato
del decesso sul tavolo del modesto salotto con gli occhi ancora stropicciati dal sonno. Non c’era stata
nessuna indagine, ovviamente. Morte naturale. Come forse non ci sarebbe stata alcuna indagine per
quel bambino, finito tra le fauci di un pesce siluro che avrebbe fatto bella figura sul calendario di
qualche rivista di pesca sportiva.
A pochi metri, Dettori ordinò ai suoi uomini di chiudere il siluro in una sacca di plastica, quindi
lo sollevarono per caricarlo sul furgone. Borghesi li seguiva qualche passo indietro, come se
partecipasse a un corteo funebre in solitaria.
Jacobi tornò verso i canottieri rimasti sul pontile. Quando si avvicinò, il gruppo si zittì.
«Sentite» esordì l’ispettore, «capisco che quel bestione è un esemplare da record, ma se proprio
dovete parlarne a qualcuno, almeno evitate di raccontare cos’aveva in bocca. Forse tra qualche giorno
potrete esporlo come trofeo, ma per ora non dite niente. Chiaro?»
Gli uomini rimasero in silenzio. Li squadrò uno a uno. Sapeva benissimo che non avrebbero
mantenuto la parola. In effetti, la sua era una richiesta impossibile. Era questione di ore prima che la
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notizia finisse sui giornali della provincia e poi su quelli nazionali, anche solo un trafiletto con la
«morbosità del giorno», ma era inevitabile.
Si voltò verso il furgone della scientifica. Dettori si stava togliendo i guanti di lattice, Borghesi
era al suo fianco.
S’incamminò per raggiungere il vice.
«Sarà meglio andare in ufficio e controllare le segnalazioni di bambini scomparsi.»
«Hai chiamato il pm per notificare il ritrovamento?» chiese Borghesi.
Jacobi sospirò e non rispose.
Borghesi annuì e si fece più vicino. «Remo, non come l’altra volta, siamo d’accordo? Se non lo
fai tu, ci penso io.»
Jacobi salutò Dettori e risalì la stradina verso la sua Alfa 155.
Lo sportello si chiuse con un tonfo morbido, poi nell’auto calò un silenzio ovattato quasi
innaturale e vagamente sinistro. L’ispettore osservò ancora un momento i lampeggianti della polizia e il
loro riverbero sulle acque del fiume, infine allacciò distratto la cintura di sicurezza. Jacobi era convinto
che la realtà di tutti i giorni fosse sempre più contaminata da un universo alternativo di orrore puro.
Contagiava ogni cellula di umanità rimasta nell’ordine naturale delle cose. Il vizio ormai consolidato di
accostare il sangue all’ambrosia nella più totale indifferenza: unico vaccino universale, forse l’unica
forma di salvezza possibile. Per questo aveva senso rifugiarsi nella finzione, a volte persino orchestrata
e consapevole, di una vita parallela: forse passata, o forse mai vissuta. Era necessario, anzi. Per
adattarsi e quindi sopravvivere, dimostrando di essere davvero una specie intelligente. Jacobi ne era
convinto, il male aveva vinto, non c’era bisogno di girarci intorno. Era imbattibile. L’ispettore sentì
bussare alla porta del cervello la parola che negli ultimi tempi, ormai diversi anni, condensava il
significato di quella specie di mondo parallelo in cui viveva. Un semplice avverbio interrogativo, che
racchiudeva il non-senso dei suoi rapporti col genere umano e i suoi bizzarri costumi.
Perché?
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Ogni anno in Italia sparivano migliaia di bambini, di cui non si avevano più notizie. A volte
erano i genitori stessi a portarli via, per conflitti domestici col coniuge, e nel migliore dei casi si poteva
sperare che non subissero violenze. Più spesso erano vittime di criminali animati dalle peggiori
intenzioni, tra cui il traffico di minori da vendere a coppie che non potevano avere figli.
Jacobi posò la penna e si massaggiò le palpebre, appoggiandosi allo schienale della scomoda
sedia nell’ufficio che condivideva con Borghesi. Anche lui non poteva avere figli, la ragione
fondamentale del suo divorzio, e per un momento si domandò se avrebbe mai accettato di comprare un
bambino «rubato». Scosse la testa. Follia.
Jacobi lanciò un’occhiata all’orologio sul monitor del computer, tardo pomeriggio. Sbuffò e
sollevò il ricevitore del telefono, quindi compose il numero di casa. Lasciò passare una decina di
squilli, Johan non rispondeva. Attaccò la cornetta e guardò fuori dalla finestra. Suo padre non aveva
mai voluto il cellulare, nemmeno quando lui e Monica glielo regalarono ormai molti natali prima –
sembravano trascorse ere geologiche. Probabilmente il vecchio stava sistemando qualche intonaco nella
cascina. Per tenersi occupato, il padre trascurava di proposito lo stato fatiscente di alcuni locali della
casa, così da poterci rimettere mano nelle lunghe giornate da muratore specializzato in pensione e
vedovo silenzioso.
«Dall’inizio dell’anno le denunce di minori scomparsi senza lasciare traccia sono più di
duemila, e siamo solo a maggio» si lamentò Borghesi, sbadigliò e guardò laconicamente le pile di
fascicoli sulla sua scrivania. «Ci vorrebbe una task force.»
Jacobi si alzò per aprire la finestra, accese una sigaretta e si appoggiò al davanzale. La campana
di San Michele Maggiore batté l’ora: prima i quarti, e poi sei colpi di timbro identico, ma più grave
rispetto al precedente. A Jacobi piaceva scandire la giornata con le campane, aveva imparato a
riconoscerne i rintocchi in base alle funzioni. Le torri longobarde di Pavia svettavano all’orizzonte,
bagnate da un sole già troppo caldo per essere solo metà maggio. Jacobi osservò per un paio di minuti il
traffico umano e di veicoli nella strada sottostante e sospirò. Lo squillo del telefono travolse quei
secondi di quiete. Borghesi rimase in linea meno di un minuto e riagganciò.
L’ispettore si girò con la sigaretta a penzoloni tra le dita, la sottile colonna di fumo saliva
leggera in volute eleganti.
«Era Dettori» riferì il vice. «La dissezione del siluro è fissata per domani. Se ne occupa
Leonardi, un vero stronzo.»
Jacobi annuì.
«Vai pure se vuoi.» L’ispettore spense la sigaretta sul davanzale e gettò il mozzicone nel
posacenere stracolmo.
«Sicuro?» Borghesi accennò vagamente al monitor, collegato col database della polizia dedicato
ai bambini scomparsi.
Jacobi annuì sbuffando fumo dalle narici, poi tornò alla sua postazione.
«Allora a domani.» Il vice non si preoccupò di spegnere il computer, raccolse gli occhiali da
sole dal tavolo e la giacca dall’appendino attaccato alla porta, frugò nelle tasche per controllare di avere
le chiavi della macchina e uscì.
Jacobi tamburellò con le dita sulla scrivania, arricciando la bocca mentre pensava. Allungò una
mano sul mouse e cliccò sull’icona di Internet Explorer; il programma si aprì sulla pagina iniziale
impostata sul sito della polizia di stato. Almeno il cinquanta per cento dei minori che sparivano in Italia
era composto da stranieri, con una base annua di oltre milleduecento casi per le comunità rom. Era una
vecchia storia quella. Anni prima aveva partecipato alle indagini della mobile che portarono alla cattura
di una banda di schiavisti rumeni. Tenevano i bambini al guinzaglio nella corte della cascina dove si
..

erano stabiliti, e li vendevano a prezzi irrisori. Meno di mille euro per un bambino di dieci anni. In altri
casi, i ragazzi scappavano dagli istituti di accoglienza che li ospitavano, ma si trattava soprattutto di
adolescenti. C’erano anche i casi di allontanamento dalla famiglia e sottrazione di coniuge, ma in
porzioni più ridotte sul totale. Per Jacobi erano i più «ordinati», perché seguivano una regolare
denuncia. Tra questi, solo l’uno per cento era vittima di reato.
Sospirò.
Non aveva senso. Non sapeva nemmeno che faccia avesse il bambino nel siluro. Si rese conto di
essere nervoso per la frustrazione. Per un senso di sconfitta incipiente. Un momento dopo aprì una
nuova finestra web e si connesse a Google, digitò «pesce siluro» e avviò la ricerca. Sullo schermo
apparve un nutrito elenco di siti, soprattutto gruppi di pesca sportiva e alcuni filmati su YouTube, ma
Jacobi cliccò sulla voce di Wikipedia per avere qualche informazione generale sulla specie.
L’impressione che fosse un animale indecente si rafforzò. A quanto pareva, stando
all’attendibilità dell’enciclopedia libera, il siluro apparteneva all’ordine dei Siluriformes, famiglia dei
Siluridae. Era una specie alloctona, introdotta nei corsi d’acqua italiani per ripopolare la fauna ittica per
la pesca sportiva. Gli allevatori di siluri, quando si erano accorti che quei pesci erano una calamità per
l’habitat, li avevano poi liberati nei fiumi. Col risultato di devastare la popolazione di lucci, anguille e
cavedani, oltre a numerose altre specie di uccelli che nidificavano tra i canneti fluviali e lacustri.
Passò alla sezione sulle dimensioni dei siluri. Esistevano esemplari di sedici e diciotto anni che
arrivavano a oltre tre metri e mezzo di lunghezza. Il record assoluto e documentato lo deteneva un
siluro pescato nel fiume Dnepr, in Russia: una bestia di cinque metri.
Una balena, pensò Jacobi.
Un articolo d’archivio del quotidiano «Brescia Oggi» riportava l’avvistamento di un potenziale
siluro di quelle dimensioni anche nel Lago di Garda, individuato da due sommozzatori stranieri in
vacanza. Ma non esistevano foto o materiale a comprovare la notizia. Per il cronista, poteva facilmente
trattarsi della carcassa di un automezzo.
Jacobi continuò a spulciare su vari siti. Scoprì di condividere qualcosa con quel pesce schifoso:
entrambi provenivano dall’Est, a loro modo erano immigrati. Il siluro abitava corsi d’acqua, lanche e
paludi del Kazakistan, era presente in grandi quantità nel Danubio, e le sue carni erano molto
apprezzate da quelle parti. Soprattutto in Ungheria e Romania.
La Romania. Jacobi ripeté più volte il nome della terra che lui considerava quasi alla stregua
della Bagdad de Le mille e una notte: favolosa e antica, colma di tradizioni arcane e mistiche, leggende
oscure e creature soprannaturali. Un paese politicamente arretrato per molti, pericoloso, dove si rischia
la pelle se guardi storto qualcuno per strada. Quasi un baluardo del Terzo Mondo nella sua marcia
verso l’Occidente, ma una vera incognita per l’ispettore. D’altra parte, nella terra di Dracula – anche la
sua in fin dei conti – non c’era da stupirsi se uno dei piatti forti della cucina tradizionale era a base di
un pesce schifoso.
Consultò la sezione sull’alimentazione del siluro. Era un vero cesso. Si nutriva di tutto. Animali
vivi e morti, vermi, larve, pesci, uccelli, ratti, nutrie. Addirittura si parlava di attacchi all’uomo, e le
esagerazioni mai confermate riferivano che potesse mangiare cani di piccola taglia e bambini.
Jacobi rilesse la frase un paio di volte. Chissà, forse un cane poteva anche starci, di randagi ce
n’erano a bizzeffe. Ma un bambino... Non ci credette.
Allungò le gambe sotto la scrivania. Fuori, la campana rintoccò le sette. Spense il computer e si
diresse alla porta. Jacobi meditò un momento prima di girare la maniglia, poi annuì tra sé e uscì dalla
questura con un piano. Sperava solo che il negozio fosse ancora aperto.
S’incamminò lungo corso Strada Nuova, e s’infilò furtivo nel Cortile delle Magnolie
dell’università. A quell’ora c’erano pochi studenti in circolazione, per sua fortuna: qualche ritardatario
approfittava della bella luce dorata del tramonto e della temperatura mite per fumare l’ultima sigaretta
sul ballatoio dell’istituto d’arte, che si affacciava sul chiostro rinascimentale. Anche Jacobi diede fuoco
..

alle polveri, fermandosi un momento vicino all’antico pozzo chiuso al centro del cortile. Rimase in
silenzio, origliando il chiacchiericcio di quei giovani pochi metri sopra di lui. Ridacchiavano, rilevò un
paio di goffi tentativi di rimorchio («Anch’io sto preparando quell’esame, studiamo insieme qualche
volta?»), qualche allusione all’impegno politico («Quelli sono fasci di merda») e scosse la testa. Per un
secondo, fu tentato di salire e raccontare del siluro mangia-bambini, lo avrebbero preso per pazzo. Non
avrebbero creduto a una sola parola. Jacobi non rispettava molto i giovani, non si fidava di loro. La sua
idea, per dirla con il pensiero conciso di Johan, era che fossero «pezzi di carne con gli occhi». Del
cervello, a quanto pare, nessuna traccia. Gli sembrava che quei ragazzi fossero diffidenti e ostili, lo
mettevano a disagio. Probabilmente, con l’impermeabile sul braccio e il nodo della cravatta allentato, i
pochi che lo incrociarono mentre passeggiava pigro sotto il portico dell’ateneo lo scambiarono per un
assistente o un ricercatore pensieroso, che magari si chiedeva come e se avrebbe ottenuto di nuovo
l’incarico accademico.
L’ispettore Jacobi pensava al dessert per la cena con Johan. Aveva in mente di passare dalla
Pasticceria Vigoni, proprio davanti all’università, e prendere la loro famosa torta Paradiso, che suo
padre adorava. Attraversò la strada e percorse il marciapiedi allungando il passo. Davanti all’armeria di
fianco a Vigoni – Pavia era terra di cacciatori – s’imbatté in un padre che indicava al figlio alcune
doppiette esposte in vetrina. Il ragazzino ascoltava attento, con la bocca semiaperta e gli occhi che
brillavano di curiosità ed eccitazione. Per qualche motivo, la scena incupì l’ispettore. Non tanto per la
palese fascinazione del bambino verso le armi, ma per il legame tangibile che scorreva tra padre e
figlio. Sospirò per scacciare l’ombra di una sensazione relegata al passato, ormai lontano come una
nebulosa ancora da scoprire, fuori dalla portata dei telescopi.
Si fermò un momento davanti alla vetrina della pasticceria, passando in rassegna meringhe e
biscotti alla ricerca del suo obiettivo. Lanciò un’ultima occhiata a padre e figlio, che si allontanavano
tenendosi per mano, e si ritrovò a seguirli con lo sguardo finché non salirono su un’auto parcheggiata in
seconda fila. Jacobi si sforzò di immaginare come fosse condurre un bambino per mano, quel senso di
protezione trasmesso da un semplice contatto epidermico. Si perse qualche minuto nella fantasia, e
anche l’intenzione del dessert per Johan sfumò in secondo piano, diventò l’esigenza insindacabile di
tornare a casa e accertarsi che stesse bene. Gli era rimasto solo lui.
..

«Buongiorno a voi, sedicenti tutori dell’ordine. Allora, siamo pronti?»


Il Prof. Emerito Marcello Leonardi entrò nel laboratorio della polizia veterinaria di Pavia, una
suggestiva sala in mattoni con soffitto a volta ricavata nel seminterrato del Collegio Sassaroli. Una sede
eccellente sebbene modesta come spazi, in pieno centro storico. Nel Cinquecento, i metri quadrati in
cui Leonardi e i due poliziotti aspettavano di sventrare il siluro erano utilizzati come ghiacciaia, i
blocchi trasportati su barconi da Porta Ticinese, nella Milano rinascimentale. L’edificio rosso di
impianto fiorentino, come si leggeva nella targa esposta vicino al passo carraio, era stato progettato da
un allievo del Filarete. Dal Settecento, con la dominazione austriaca e poi attraverso l’occupazione
napoleonica e il Risorgimento, il collegio si era laicizzato ed era persino diventato un’accademia
militare. Ora era un convitto di lusso per brillanti studenti di medicina, future speranze della ricerca
scientifica e dell’oncologia, di cui Leonardi figurava anche nel consiglio d’amministrazione.
Jacobi lo conosceva solo di fama.
Il luminare si presentò con la mascherina antisettica allacciata al collo ma lasciata cascare sul
petto; sembrava un rapinatore di diligenze dai gusti eccentrici, che derubava in camice bianco.
Giocherellava con un paio di guanti di lattice, tirando le dita elastiche per poi mollarle e provocare uno
schiocco secco. Un vezzo snervante, almeno per Jacobi.
Era un uomo dal torace ampio, grosso da un punto di vista osseo, con capelli bianchi e la
mascella volitiva, lo sguardo franco di chi non è più di primo pelo. Jacobi stabilì che Leonardi fosse il
tipo di persona che lo respingeva quasi fisicamente, molto lontano dal modello che vedeva in uomini
come Johan, più autentici secondo l’ispettore. L’eccessiva sicurezza e padronanza di sé, per Jacobi,
erano sempre un’arma a doppio taglio. Un atteggiamento che poteva tradire pericolose insicurezze di
fondo, manchevolezze personali e professionali difficili da perdonare. In base alle informazioni
ricevute da Borghesi, anche se l’ispettore era abbastanza onesto da misurarle con lo stesso metro del
pettegolezzo, Leonardi si era sposato e aveva divorziato tre volte, sparpagliando qui e là una serie di
figli con la stessa naturalezza e indifferenza di alcune stelle del cinema. Arroganza compresa. A quanto
pareva, le sue ex mogli erano tutte finite in cura dopo essere state con lui. Jacobi perse qualche secondo
a chiedersi se anche Monica era finita nello studio di qualche strizzacervelli dopo la separazione.
Leonardi sistemò bene il guanto sulla mano destra e si avvicinò al tavolo su cui giaceva la
sacca, quindi fece scorrere le cerniere e sollevò il lembo di tela scoprendo il siluro. Rallentò i
movimenti mentre infilava il guanto sinistro, con gli occhi fissi sulla bocca del pesce. Jacobi rimase
qualche passo indietro, avrebbe evitato volentieri di contemplare troppo a lungo quella scena.
«È la prima volta che mi capita una cosa del genere» constatò Leonardi con tono di genuina
curiosità, come se fosse sfrecciato nell’archivio dei ricordi alla ricerca di un precedente.
Nessuna voce.
Borghesi si avvicinò lentamente al tavolo operatorio. Leonardi si coprì la bocca con la
mascherina e indicò ai poliziotti un vassoio cromato vicino al piano di dissezione.
«C’è un vasetto di balsamo profumato, se vi fa schifo la puzza» disse.
Borghesi non se lo fece ripetere, dopo essersi disegnato due baffetti giallognoli sotto le narici
passò il vasetto nelle mani di Jacobi, che non lo utilizzò e lo ripose sul pianale. L’ispettore seguiva con
attenzione la tecnica umana di Leonardi, cercava di capire cosa e se provasse qualcosa al di là della
curiosità scientifica.
Leonardi esaminò un momento il siluro e il polso del bambino che spuntava dalla bocca.
«D’accordo» disse a bassa voce, avvicinò un carrello di metallo al tavolo; sopra era appoggiato un
registratore, di fianco a forbici, capsule petri, aghi da dissezione e altri strumenti.
Il medico impugnò il bisturi, si chinò sul pesce per studiarlo, si raddrizzò e camminò fino alla
..

coda affusolata, infine alzò gli occhi su Jacobi.


«Ispettore, ma cos’è, omicidio questo?»
Jacobi non capì se era una battuta, in ogni caso ricambiò lo sguardo senza fare una piega.
Leonardi fece cenno ai poliziotti di afferrare il pesce per la bocca e dargli una mano a girarlo sul
fianco destro. Jacobi notò che Borghesi era ancora pietrificato, e lo spronò con un colpo di tosse.
«Sì, sì, ho capito» obbedì il vice.
Una volta completata l’operazione, Borghesi e Jacobi ritrassero di scatto le mani dal corpo,
schifati dal contatto con quella carne flaccida e fredda.
«Di là potete sciacquarvi le mani.» Leonardi indicò vagamente una porta in fondo al
laboratorio. «L’interruttore è dentro, in alto a destra.»
Borghesi e Jacobi s’incamminarono da quella parte, e lasciarono il professore da solo per un
paio di minuti. L’ispettore notò che il vice era improvvisamente sbiancato in volto.
«Tutto a posto?» domandò asciugandosi le mani su una salvietta di carta. Borghesi annuì con
estrema fatica. Quando rientrarono nel laboratorio, Leonardi stava girando intorno al tavolo da
dissezione, esaminava il reperto e scuoteva la testa tra sé.
«Pensi un po’» disse rivolto a Jacobi quando i due poliziotti lo raggiunsero. «La prima
dissezione del grande Stenone in Italia fu la testa di un enorme squalo bianco pescato al largo di
Livorno.» Raccolse di nuovo il bisturi dal vassoio.
«Lei conosce Stenone, ispettore?» Non lo lasciò rispondere, in ogni caso Jacobi non lo sapeva.
«Uno dei più grandi anatomisti di tutti i tempi, oltre che padre della geologia moderna. Danese,
protestante incallito che si convertì al cattolicesimo. Fu addirittura nominato vescovo in Germania.
Arrivò a Firenze nel 1666, chiamato da Ferdinando de’ Medici, il granduca di Toscana scienziato
dilettante, e da suo fratello Leopoldo, di vedute meno ampie.»
Leonardi esaminò il bisturi sotto la luce e lo ripose in mezzo agli altri strumenti, quindi raccolse
dal piano inferiore del vassoio una piccola fotocamera digitale, la rigirò pensieroso tra le mani come se
fosse un manufatto alieno, infine posò anche quella e proseguì.
«Nel periodo in cui visse a Parigi, Stenone si esibiva come anatomista per i reali di Francia. Le
sue performance erano celebri al pari di uno spettacolo teatrale. Come dicevo, a Firenze il suo primo
incarico fu la dissezione della testa di un carcharodon carcharias. Ha visto il film Lo squalo? Lo stesso
pesce. Considerata la distanza da Livorno a Firenze, riuscirono solo a trasportare la testa di quel
terribile e meraviglioso animale, finito a bastonate sul litorale toscano dai pescatori. Se la immagina la
scena?» Lo sguardo di Leonardi si perse un momento nel vuoto. «Magnifico, semplicemente
magnifico» disse tra sé. «Il corpo lo fecero a pezzi per ributtarlo in mare o usarlo come pastura. Quei
mostri mangiano di tutto. In una cronaca francese del Seicento si racconta di un esemplare di squalo
bianco catturato nell’Atlantico nel cui stomaco trovarono un soldato, intero e con tanto di armatura.»
Jacobi lo ascoltò in silenzio, di tanto in tanto lanciava un’occhiata a Borghesi, che sembrava
avere riacquistato un po’ di colore.
«E ora guardi me» continuò il medico, assentendo quasi deluso, «che mi esibisco in un
seminterrato antico e fatiscente, la mia performance davanti a un ispettore di provincia, mentre eseguo
la dissezione di un aborto della natura, un parassita senza alcuna estetica, che s’è mangiato un bambino,
a giudicare dalle dimensioni di quel polso di non più di quattro anni, cinque al massimo.» Leonardi
scosse la testa, prese di nuovo la fotocamera, inquadrò il siluro per il lungo e scattò. Il flash rimbalzò
con violenza sulle piastrelle di formica.
Una volta conclusa la sessione fotografica, si avvicinò alla coda del siluro stringendo il bisturi
in mano, e praticò l’incisione a croce poco sopra l’ano. Jacobi seguì controvoglia le mani di Leonardi al
lavoro.
Scorse il gonfiore prodotto dal corpo del bambino incastrato nella pancia del siluro. Inspirò, la
stessa angoscia di quando era andato con Monica a ritirare i risultati per capire chi tra loro due non
..

potesse avere figli. Quel medico, di cui non ricordava il nome ma che in quel momento nella sua
memoria assunse viso e voce del maledetto Leonardi, e il suo lapidario epitaffio mentre lo fissava nelle
pupille.
Mi dispiace, lei è sterile.
Un rumore metallico lo fece voltare di scatto. Borghesi aveva urtato il carrello con gli strumenti
facendo cadere una bacinella di zinco. Il vice si affrettò a chinarsi per raccoglierla. Il tempo si congelò
per pochi secondi prima che l’acciaio del bisturi finalmente sventrasse il silurus glanis.
Leonardi fece scorrere la lama con una lentezza da moviola sportiva. Borghesi chiuse gli occhi,
sudava, si voltò con esasperante lentezza verso la parete.
Jacobi si impose di guardare.
Per farsi forza fu costretto a sovraimporre un’immagine mentale: Monica, il suo sguardo dolce e
sfuggente, quel sorriso inaspettatamente solare, gli occhi buoni. Ma non riuscì a trattenere la scena,
l’orrore ebbe la meglio sulla grazia.
«Gesù Cristo.» La voce del professore emerito era quasi rotta.
Sul tavolo da dissezione il piede di un bambino, amputato poco sopra la caviglia, sfidava
qualsiasi logica. Il cervello si rifiutò di processare l’immagine.
Leonardi posò il bisturi sul tavolo, a pochi centimetri dalla testa del siluro, con la mano che gli
tremava. Chiuse gli occhi e chinò la testa, quindi sbuffò.
«Il mio lavoro finisce qui» annunciò con un filo di voce. «Il pesce lo posso aprire, ma l’autopsia
di... quei pezzi la lascio volentieri a Dettori.»
Jacobi annuì, si guardò intorno e individuò una confezione di guanti di lattice nel ripiano
inferiore del carrello. Si piegò e ne raccolse un paio, li infilò cercando di non guardare il piede sul
tavolo. «Antonio» avvisò il vice senza voltarsi. «Chiama Dettori, digli di venire qui subito.» Borghesi
annuì in silenzio, e facendo bene attenzione a non dirigere lo sguardo sul tavolo da dissezione uscì dal
laboratorio.
Jacobi si avvicinò al tavolo operatorio, trasse un respiro profondo e finalmente dedicò al mostro
un’occhiata indagatrice, da professionista. Si concentrò su ciò che aveva di fronte per comportarsi
come uno scienziato, il cui metro di giudizio è la razionalità. Una successione di fotogrammi che
mettevano a fuoco il quadro generale degli eventi, per approdare almeno a un’ipotesi di massima.
Jacobi si chinò per sbirciare nella pancia aperta del glanis. Trattenne il respiro per non sentire il
fetore, benedicendo i suoi anni da tabagista per la ridotta capacità olfattiva. Nella penombra delle
interiora del siluro, Jacobi scorse una macchia di capelli scuri. Sollevò con coraggio lo sguardo: erano
sporchi di fango, cementati in ciocche rigide.
Leonardi e Jacobi si scambiarono un’occhiata muta. Il professore sfilò i guanti e s’incamminò
verso il bagno. L’ispettore uscì dal laboratorio e raggiunse Borghesi per respirare una boccata d’aria
fresca.
Riscaldarsi finalmente alla luce del sole.
..

«Tieni, ricordati di giocarli domani prima delle sei e mezzo, ho scritto combinazioni e ruote.»
Johan allungò sul tavolo un foglietto accuratamente piegato. Coi capelli ancora bagnati, Remo
si accomodò davanti al piatto di minestrone fumante. Johan si versò un bicchiere di vino rosso e tagliò
una fetta di pane per il figlio, poi senza aggiungere altro continuò a mangiare guardando il telegiornale
col volume azzerato.
Remo prese il foglietto e lo infilò nella tasca della camicia.
Johan era diventato una specie di sciamano per la comunità di pensionati delle cascine limitrofe.
L’anziano signor Jacobi da anni giocava al lotto i numeri che sognava quasi tutte le notti, da quando era
vedovo. Sorprendentemente, ci azzeccava con una certa frequenza, tanto che anche i più scettici si
erano ricreduti sul suo conto. Certo, non si trattava mai di cifre da capogiro, i jackpot miliardari che
finivano sulle prime pagine dei quotidiani e nei notiziari della sera, quelle somme che cambiavano la
vita. Ma più spesso che no, «il Giovanni» – come lo chiamavano tutti i vicini – riusciva a beccare un
paio di ambi e combinazioni che fruttavano qualche centinaia di euro, da dividere tra chi gli
commissionava le giocate. Di solito, era lo stesso Johan che offriva gratuitamente il servizio di
consulenza, oltre a giocare alcuni numeri per sé.
Jacobi sorseggiò il minestrone e studiò il padre, che seguiva alla tivù un incomprensibile
servizio muto: immagini di periferie romane, volanti della polizia, strade irrorate dalla luce blu dei
lampeggianti e interviste a passanti dall’aria delusa o sconfitta.
«Come fai a capire di cosa parlano?» domandò Remo schiacciando col cucchiaio una crosta di
pane nel piatto, per inzupparla di brodo.
Johan fece spallucce. «Son sempre le solite robe.» Bevve un sorso di vino. «Poi, è come vedere
i film senza audio. Ti rendi conto da come recitano se è buono o no. È tutta questione di gesti.»
Remo scosse la testa. Magari sognasse anche lui i numeri, come Johan. Si chiese perché a
tavola parlavano così poco. Suo padre era sempre stato un uomo taciturno. Non che per questo fosse
meno affettuoso. Nonostante la parca comunicazione verbale, aveva sempre trasmesso a Remo una
sensazione di certezza inossidabile, una sicurezza guadagnata con la fatica, che a volte lui sentiva
mancare in sé e che gli invidiava.
..

Quella notte Jacobi sognò mostri e bambini. Un buco nero di materia onirica e proiezioni
dell’inconscio, ombre che lo visitavano al ritorno da un sabba.

Si ritrova così a percorrere una galleria al volante della sua Alfa 155. Sul soffitto del tunnel
l’illuminazione lascia alquanto a desiderare. Il cruscotto è ricoperto da una specie di fanghiglia
verdastra, un sottile strato di muffa bagnata, e dal tettuccio cadono gocce d’acqua che si formano
addensandosi lentamente. Jacobi si sporge per sbirciare dalla parte superiore del parabrezza, chiazzato
di una strana pioggerella grassa che sembra l’olio del tonno in scatola. In fondo, all’estremità del
tunnel, si apre una lama di luce e si allarga mano a mano che l’Alfa procede in quella direzione. Altre
pesanti gocce piovono sul vetro, lasciando una scia bavosa mentre scivolano verso il basso. Inutile
attivare il tergicristalli, non c’è nemmeno la bacchetta. Remo assume un’aria perplessa mentre la luce
fuori dal tunnel si fa sempre più livida e vicina. Dalla sommità dell’arco di uscita vede in controluce le
sagome di liane, un rampicante che si è spinto fino a penzolare libero. Quando l’auto sbuca dalla
galleria, Remo rallenta e accosta dopo una quindicina di metri, infine sbircia un momento nel
retrovisore ed esce dal veicolo. Cammina verso la bocca della galleria, sull’asfalto smangiato di una
strada provinciale, odore di acqua dolce ristagnata nella brezza fredda, il cielo grigio e piatto, autunnale
e ostile. Il rampicante che pende moscio è un barbiglio gigantesco, e la bocca del tunnel è una bocca
vera, una cavità atroce e umida. Remo allenta la mascella fino a farla cascare mentre con lo sguardo
inquadra una balena siluro, un mostro mitologico, la galleria-Kraken da cui è sbucato. Nonostante lo
spettacolo repellente, continua ad avanzare verso la bocca, finché a pochi metri dall’apertura un suono
lo paralizza. Proviene dall’interno del pesce, uno stridio di mille urla in una tonalità acuta e perforante,
che corre verso l’esterno come un’inarrestabile locomotiva indemoniata. Remo resta immobile ad
aspettare di essere investito. L’urto dei decibel lo costringe a serrare gli occhi e tapparsi le orecchie.
Monta in una manciata di secondi fino a risultare insostenibile, un impatto fisico. Appena l’onda del
suono sfuma alle sue spalle, ormai indebolita, Remo apre gli occhi con le mani ancora sulle orecchie.
Nell’angolo in basso a sinistra della bocca, un punto di colore nel buio, sbuca il viso minuto e pallido di
una bambina, coi capelli biondi a caschetto e occhi grandi e luminosi, diffidenti ed esperti. Indossa un
costumino da bagno intero, candido quasi quanto la sua pelle.

Le palpebre di Remo scattarono sull’attenti. L’indistruttibile sveglia Brionvega di plastica


bianca – che interrompeva il suo sonno dagli anni Ottanta – segnava le 3.33 del mattino, l’ora in cui i
vapori diabolici che infestano l’aria si manifestano con breve intensità, stando alle tradizioni popolari
tramandate dal sangue dell’Est che gli scorreva nelle vene. Si raddrizzò col busto, lenzuola e canottiera
madide di sudore. Sospirò, lungo e lento, e rimase in quella posizione per qualche minuto, con la testa
bassa nel silenzio della casa, mentre il cervello incideva e scolpiva quell’ennesimo incubo nei solchi
della memoria.
..

Il barista alzò gli occhi dalle tazzine appena uscite dalla lavastoviglie, insieme a un misto di
vapore caldo profumato di detersivo che avanzò sul bancone di metallo del Bar Irma.
«Il suo corretto grappa, ispettore.»
Jacobi abbozzò un cenno di conferma senza distogliere l’attenzione dal giornale sul tavolo.
Il ragazzo al bancone, un giovane rumeno di nome Alesandru, si sciacquò le mani velocemente
e raccolse una bottiglia di Nonino dallo scaffale, conosceva i gusti dell’ispettore.
«Doppia correzione» precisò.
Jacobi sfogliava l’edizione mattutina della «Gazzetta del Ticino». Spulciò tra vandalismi
adolescenziali di provincia («Tra i fermati anche un minorenne, di nazionalità romena»), coppie di
anziani aggredite in casa nel cuore della notte («Avevano un accento dell’Est, forse albanesi»), una
pensionata trovata morta in casa dopo tre giorni, la chiusura del mercatino russo-ucraino nei pressi del
Ponte della Libertà, richiesta da un comitato di pavesi scocciati dalla presenza degli slavi («Brutte
facce»). Del pesce siluro da record nemmeno una riga.
Strano, disse tra sé Jacobi.
Certo, poca visibilità era meglio per le indagini, ma era sicuro che la notizia sarebbe circolata.
Buttò giù il caffè in un sorso, la dose doppia di grappa alle otto e mezzo di mattina gli lanciò una
scarica nello stomaco, che risalì al cervello ancora annebbiato dalle poche ore di sonno e dagli incubi
persistenti.
Lasciò la copia della «Gazzetta del Ticino», che lui e Borghesi chiamavano «bollettino di
guerra», e uscì dal bar a passo svelto. Sperò che Borghesi fosse già arrivato, anche se di solito non si
presentava prima delle nove passate. Salì lo scalone nell’atrio della questura due gradini alla volta,
attraversò una serie di corridoi che avevano lo stesso odore dei ricordi scolastici dell’infanzia, salutò
qualche agente e collega di grado superiore, poi finalmente si chiuse nella quiete relativa del suo
ufficio. Appese l’impermeabile a un gancio sulla porta e spalancò la finestra. L’aria del mattino era
ancora fresca, ma vibrava già di saltuarie correnti calde di quella che si augurava fosse un’estate
torrida. Non sopportava il freddo, e la calura non gli dava alcun fastidio.
Passeggiò lungo l’ufficio per qualche secondo, si rimboccò le maniche della camicia e dedicò al
nuovo giorno la prima Pall Mall. Rimase un minuto in piedi nel centro della stanza, picchiettando il
pavimento con la punta della scarpa destra, poi si barricò dietro il muro di fascicoli della sua scrivania.
Allungò una mano sotto il tavolo e accese il pc ormai vetusto che si avviò ronzando, quasi infastidito,
poi estrasse dalle sue carte il primo elenco degli allevamenti di pesca sportiva che aveva spuntato con
Borghesi.
«Ma dove cazzo è finito...» mormorò l’ispettore con la sigaretta a penzoloni e una colonnina di
cenere pronta a cadere sui verbali dei canottieri, aperti davanti a lui. La ricerca si era rivelata
parzialmente infruttuosa.
Dopo l’introduzione del siluro negli allevamenti italiani alla fine degli anni Cinquanta,
considerata la fama del pesce come devastatore di habitat e la taglia sulla sua testa negli ultimi anni,
erano stati costretti a falciare dalla lista quasi tutti gli allevamenti, lasciando solo i pochi affiliati al
Gruppo Glanis, un’associazione che organizzava battute di pesca sportiva al «gigante dell’Est»,
com’era anche noto quel bestione d’acqua dolce. Aveva letto di qualche presunto avvistamento di siluri
nel mare, nei pressi della foce dei grandi fiumi che popolavano. Il pensiero di trovarsene uno che gli
nuotava tra le gambe lo fece rabbrividire. In ogni caso era un’ipotesi improbabile, Jacobi detestava
nuotare, l’acqua gli faceva paura.
Non poté fare a meno di comporre nuovamente un collegamento mentale forse infelice tra il
silurus glanis e se stesso: si fermò un momento a riflettere su ciò che poteva accomunare un ispettore di
..

polizia di origini rumene a un pesce tacciato di essere l’Attila delle acque dolci. Tutti e due erano
originari di una parte del pianeta che, di solito, veniva accomunata al concetto di «barbaro», o in ogni
caso la tendenza nazional-popolare la associava al termine «meno civilizzato». La leggendaria
cattiveria degli slavi, gente dura che aveva un senso altro della vita e del rispetto per la suddetta. Certo,
erano tempi difficili per i cittadini dell’Est in Italia, ma fino a quel momento nessuno l’aveva accusato
di essere la rovina del suo habitat. Alcuni tra i suoi superiori diffidavano comunque del suo mezzo
sangue rumeno, ne era certo. O meglio, del fatto di non essere «completamente italiano», come era
sfuggito una volta al questore Ferri, dopo il fallimento di un’indagine a lui affidata. Come se la sua
porzione di sangue slavo avesse offuscato la concentrazione necessaria a risolvere il caso per problemi
di «incompatibilità culturale». L’omicidio a sfondo sessuale di una studentessa universitaria, per cui
tutta la nazione si era brevemente unita in cordoglio mediatico con i pavesi, occupando la ribalta per
qualche settimana. Jacobi l’aveva affossata, tenace e lento nel dilatare i tempi del caso finché
l’interesse generale si fosse ridotto a zero. Ed era successo. Di sicuro, Jacobi era un maestro nel
compiere perigei intorno a un’indagine sgradita. Riusciva a mantenersi nella terra di confine che
rendeva impossibile accusarlo di inadempienza oppure di ostruzione delle indagini. Ma le rallentava
fino alla morte. Ferri non ne aveva le prove certe, ma sospettava che avesse deliberatamente intralciato
il meccanismo investigativo con una pessima coordinazione con la squadra di polizia giudiziaria, e non
vedeva l’ora di sospenderlo o richiamarlo ufficialmente.
Per il questore, il reintegro di Jacobi dopo la convalescenza psichiatrica era stato un boccone
indigeribile. Avevano sempre avuto opinioni discordanti sul concetto di giustizia e sui modi per
applicarla. Ferri non conosceva la strada, o se n’era completamente dimenticato. Era lontano dalla
gente e dagli emarginati che affollavano qualsiasi strato sociale, non era più abituato a tastare il polso
della creatura contro cui lottavano. Da tempo ormai concepiva la giustizia come un argomento da
salotto, da discutere intorno a un tavolo con microfoni e bottiglie di acqua minerale; eppure pretendeva
risposte e soluzioni immediate per mantenere fede alle promesse fatte a «chi sta in alto», come spesso
diceva. In quel caso specifico, Borghesi aveva fatto da spalla a Jacobi, coprendolo con i superiori. Era
la prima indagine a cui avevano lavorato insieme. E di fatto non aveva segnato un buon esordio per
Borghesi, che aveva messo in secondo piano la carriera per sostenerlo. Soprattutto in un caso di breve
ma intensa fama nazionale, un potenziale turbo per la scalata gerarchica. Quella fu l’unica e ultima
volta che lo aiutò.
Tuttavia, Jacobi continuava a pensare che in qualche modo Ferri era stato informato, e se solo
lui e Borghesi sapevano com’erano andate le cose, la lista della presunta talpa si limitava al nome del
suo vice. Jacobi, suo malgrado, sospettava che Borghesi e Ferri avessero stipulato una specie di
accordo per tenerlo d’occhio. Anche se l’ispettore non poteva spiegarsi le ragioni per meritare tanta
attenzione. La sua valutazione professionale, in termini di quantità di casi risolti, era nella media, con
alcuni picchi in basso e un paio di collinette verso l’alto. Il suo curriculum non era certo quello che
viene seguito per avanzamenti di carriera, ma nemmeno per richiami di solerzia.
Io e il siluro, pensò Jacobi, cos’abbiamo in comune? Portò gli occhi al monitor e si connesse
alla casella di posta elettronica. Mentre il sistema aggiornava le mail in arrivo navigò su internet
collegandosi al sito del Gruppo Glanis, che aveva salvato tra i «preferiti» in un’apposita cartella.
Un nuovo titolo, sottolineato in caratteri maiuscoli e lampeggiante, catturò la sua attenzione.
Impossibile non vederlo. Cliccò. Una manifestazione di protesta contro «lo strapotere dei pescatori
tedeschi e slavi nel tratto del Po tra Borgosaldo e Ferrara». Strapotere, pensò Jacobi con un sogghigno,
che esagerazione. Quella parola non gli era mai piaciuta. Era prevista per il sabato successivo. Jacobi
lanciò un’occhiata al calendario appeso alla parete per controllare la data, poi seguì un link in calce alla
pagina e si ritrovò a leggere un articolo nel portale online di un quotidiano indipendente. Il pezzo
denunciava che «le sponde lungo il corso del fiume Po e dei suoi grandi affluenti sono meta privilegiata
di turisti tedeschi, austriaci e ungheresi. Accorsi in massa per la presenza del silurus glanis, in continuo
..

aumento. Per la felicità e il portafoglio degli speculatori locali».


Jacobi continuò a leggere il pezzo.
«Il fenomeno negli ultimi anni ha assunto una dimensione sconvolgente, al punto che si può
tranquillamente parlare di spregiudicata lottizzazione del fiume. Anni fa, alcuni tour operator austriaci
e tedeschi hanno cominciato a investire in piccoli campeggi sul Po, riservati a clienti reclutati nei loro
paesi (solitamente un ’pacchetto’ completo è di una settimana) a cui vengono affittate sia le barche che
l’attrezzatura da pesca. Oltre al campeggio (20 euro a notte a testa) il ricavo di una barca è di 100 euro
al giorno per pescatore (ogni barca ha due posti). La stagione di pesca dura da aprile a ottobre.
Risalendo il Po abbiamo stimato che vi sono almeno 100 di queste barche e almeno 15 campeggi dotati
di tende con tutte le comodità, incluso frigorifero e piano cottura a gas. La maggior parte di tutto ciò è
illegale, senza alcun permesso. Il tratto di Po soggetto a questa ’invasione’ si estende dal cremonese al
mantovano, e prosegue nel tratto parmense fino alla foce dell’Enza. In particolare i tratti più occupati e
lottizzati sono San Cristoforo Po, Foce Oglio, Borgosaldo e Revere. Per gestire un campeggio e un
pescaturismo con l’affitto di barche, è necessario munirsi di autorizzazione o licenza comunale,
possedere un’iscrizione valida alla CCIAA (Camera di Commercio, Industria, Artigianato e
Agricoltura), in qualità di attività commerciale, avere le imbarcazioni iscritte al Registro Unità da
Diporto per Locazione e Noleggio detenuto dalle Province e averle assicurate. Tutte queste
autorizzazioni mancano e verificarlo non è così complesso (le barche sono tutte dello stesso modello,
colore e motorizzate in modo identico) ma nessuno lo fa.»
Jacobi lesse con maggiore attenzione la parte successiva.
«Nelle zone dove la presenza dei tedeschi è più ingente, la cattura del siluro non è a scopo
alimentare, ma un trofeo che una volta fotografato viene ributtato nel fiume, pratica vietata dalle
normative regionali sulla pesca, oppure venduto agli slavi, che hanno le loro basi fra un campeggio e
l’altro. Questi ultimi sono dediti soprattutto alla commercializzazione del pesce. Con reti o
elettrostorditori (nati per un impiego in ricerche di tipo scientifico) fanno razzia completa del pescato.
L’organizzazione fa capo a due europei dell’Est, muniti di un permesso di pesca professionale, che
però hanno a libro paga circa 300 braccianti, tra connazionali e stagionali provenienti da varie regioni
dell’Europa Orientale. I camion per l’Est, senza alcun controllo sanitario, partono tutti i giorni.»
L’articolo proseguiva con un elenco di ulteriori infrazioni che Jacobi non trovò particolarmente
interessanti. Tornò sulla pagina iniziale del Gruppo Glanis e annotò su un foglio la data della
manifestazione, poi studiò le altre notizie riportate dal sito. Aprì un nuovo link relativo alla
commercializzazione del siluro nei mercati ittici italiani. Stando all’articolo, in Ungheria e altri paesi
dell’Est come la Romania, la carne del siluro era considerata di un certo pregio, ma in alcuni ristoranti
italiani i NAS avevano scoperto frodi alimentari, caviale fatto con uova di siluro spacciato per storione.
Si menzionava il mercato ucraino di Cascina Gobba a Milano, uno dalle parti di Vicenza e di nuovo
quello alle porte di Pavia, come punti di smistamento e vendita di prodotti da e per il mercato dell’Est.
Jacobi accese una Pall Mall e guardò fuori dalla finestra, immerso in alcune impalpabili
congetture. Sentì vibrare la coscia, allungò una mano in tasca e prese il cellulare. Un messaggio
anonimo, numero sconosciuto. Niente testo. Guardò l’ora, erano quasi le nove. Monica, pensò. Rimase
col telefono in mano per qualche minuto, una manciata di tempo in cui rivisse un sentimento intenso
che forse non era mai stato in grado di esprimere. Ormai si era rifugiato dietro un isolazionismo
sentimentale a prova di megatoni. Sulle labbra gli si dipinse un sorriso da allocco, come tutte le volte
che riceveva un sms vuoto dalla sua ex moglie. Non si domandava mai perché non scrivesse niente, ma
passava ore a chiedersi perché non la richiamasse. Quasi le nove. Pensò a cosa faceva Monica a
quell’ora. Forse stava per iniziare la lezione al liceo di Sanremo, la cittadina della sua famiglia, dove
insegnava italiano. Jacobi odiava Sanremo, soprattutto per l’assonanza col suo nome, e non l’aveva mai
nascosto a Monica.
L’ispettore, colto di sorpresa, quasi lanciò il cellulare sulla scrivania quando Borghesi spalancò
..

la porta dell’ufficio. Reggeva due tazzine di plastica e ne passò una a Jacobi.


Aveva un’aria distrutta.
«Notte difficile?» chiese l’ispettore prendendo la tazzina bollente, nella speranza che il vice non
si fosse accorto della sua espressione ebete.
«Lasciamo perdere. I figli... una gioia, per carità, ma che sbattimento.»
Jacobi assaggiò il caffè schifoso con gli occhi bassi.
«Oh... scusa, non volevo...»
«Non ti preoccupare.»
Borghesi era diventato padre da pochi mesi, e sapeva bene quanto Jacobi lo invidiasse
tacitamente per quella fortuna che a lui era negata. Si sedette alla sua scrivania e aprì la «Gazzetta del
Ticino», sfogliandola direttamente fino alla cronaca locale.
«Nemmeno un trafiletto» esclamò a bassa voce un momento dopo.
«Già, ma è solo questione di tempo.»
Jacobi fissò Borghesi.
«Dì un po’, Antonio, hai programmi per sabato prossimo?»
Il vice lo squadrò con le sopracciglia inarcate.
«Non ti piacerebbe fare una gita a Rovigo?»
«Rovigo?»
«C’è una manifestazione di pescatori che potrebbe interessarti.» Un secondo dopo gli mandò
via mail il link del Gruppo Glanis, e un suono dal computer del vice lo informò dell’arrivo del
messaggio.
Borghesi puntò gli occhi sul monitor e scosse la testa.
«Basta che non ci siano più dissezioni a cui assistere.»
..

10

Jacobi lesse rapidamente l’oggetto della ventina di mail arrivate da quando aveva spento il
computer la sera precedente, fino all’ultima di circa mezz’ora prima.
La maggior parte erano comunicazioni interne, alcune le eliminò senza nemmeno prendersi la
briga di aprirle. Alla fine si concentrò sulle uniche due che meritavano attenzione. La prima era di
Dettori. Aveva eseguito l’autopsia e dava appuntamento all’ispettore per la visita all’obitorio, dove era
conservato il corpo. Jacobi si riservò il diritto di non rispondere subito. Non entrava nei particolari, ma
era chiaro che il corpo della bambina fosse incompleto. Sui resti aveva notato la presenza di ecchimosi
e bruciature. La seconda mail era un elenco delle segnalazioni di bambini scomparsi, la inoltrò a
Borghesi.
Borghesi annuì e attivò la stampante, che cominciò a tossire fogli.
«Antonio», l’ispettore si alzò in piedi stiracchiandosi, «perché non vai a fare un salto in quei
due allevamenti di pesca sportiva che abbiamo segnato?»
Borghesi frugò tra le carte sulla scrivania e raccolse un foglio. «Azienda Ittica Riccardelli e
Centro Pesca Ticino? E c’è anche il Gruppo Glanis.»
«Sono gli unici che allevano siluri ancora in attività, giusto?»
«Giusto. Tranne Glanis, che pratica solo pesca sportiva.»
«Fai vedere le foto del mostro, chiedi informazioni su quella specie particolare di siluro, vedi un
po’ di capire se è davvero un esemplare record. Quello che mangia, come si pesca, da quali acque
proviene, quali sono i gruppi di pescatori sportivi più accaniti, e che genere di persone sono. Età media
degli iscritti, professioni, istruzione. Insomma, un quadro generale. E chiedi di spiegarti bene cos’è un
elettrostorditore, ha un suono minaccioso, non mi piace.»
Borghesi lo studiò un momento.
«Adesso?»
Jacobi guardò l’ora. «Sì, adesso.»
Borghesi si alzò lentamente dalla sedia e prese la giacca dalla spalliera. Appena fu uscito,
Jacobi tornò al computer e stampò l’articolo sulla lottizzazione del Po, sottolineò alcuni passaggi con
l’evidenziatore giallo e sospirando rispose alla mail di Dettori, fissando con lui un appuntamento per
metà pomeriggio. Il patologo gli aveva dato appuntamento al Trinity, un pub irlandese nei pressi
dell’obitorio, di cui era un affezionato cliente.
Qualche minuto dopo, mentre annotava alcuni indirizzi di campeggi per pescatori tra
Borgosaldo e Revere, nel mantovano, ricevette la conferma da Dettori, che lo aspettava al pub per la
sua «pausa tibetana» di metà pomeriggio, da lì sarebbero andati all’obitorio insieme.
Contattò la redazione del quotidiano indipendente e chiese di parlare con B.M., sigla con cui era
firmato l’articolo sulla lottizzazione del Po. Gli dissero che si chiamava Barbara Moroni, era una
freelance e collaborava saltuariamente con loro. Annotò il numero di cellulare con l’idea di chiamarla
entro la mattinata. Si appoggiò allo schienale della scomoda sedia, con l’imbottitura ormai schiacciata
dal peso degli anni di servizio. Passò una mano tra i capelli e socchiuse gli occhi cercando di mettere in
ordine le informazioni che possedeva.
Prese una sigaretta e la roteò tra le dita per qualche momento prima di accenderla. Pensava. Gli
slavi che avevano invaso il Po. La lottizzazione del fiume. Il siluro. I camion che partivano
giornalmente per l’Est. La bambina fatta a pezzi.
Raccolse di nuovo la stampata con l’articolo e rilesse il passaggio sottolineato in cui si diceva
che «l’organizzazione fa capo a due europei dell’Est, muniti di un permesso di pesca professionale, che
però hanno a libro paga circa 300 braccianti, tra connazionali e stagionali provenienti da varie regioni
dell’Europa Orientale».
..
..

11

La Moroni rispose al terzo squillo.


Jacobi giocherellava con una matita dalla punta quasi consumata, l’estremità con la gomma
smangiata per il vizio di mordicchiarla. La donna attese un momento di troppo in silenzio dopo che
l’ispettore si presentò, e Jacobi si sentì in dovere di riempire il vuoto telefonico.
«Ho letto il suo articolo a proposito della lottizzazione del Po, sul giro d’affari organizzato con
l’Est. Mi ha incuriosito specialmente la parte che riguarda lo strapotere, mi corregga se il termine è
improprio, degli slavi.»
La giornalista attese qualche secondo prima di parlare.
«Posso sapere a che proposito le interessano le informazioni?»
Jacobi cercò di indovinare che età avesse dalla voce, senza sbilanciarsi oltre i quarant’anni.
«Stiamo conducendo una serie di controlli sui pescaturismo abusivi in alcune zone del Ticino e
del Po in area mantovana, mi scusi ma non posso entrare nello specifico. Il suo articolo forniva un
quadro piuttosto preciso, che in qualche modo coincide con le nostre rilevazioni. Mi chiedevo se e
quando potremmo parlarne a quattr’occhi.»
La giornalista si dimostrò più collaborativa di quanto previsto dall’ispettore. «Certo, dove è più
comodo per lei?»
Jacobi rimase vagamente spiazzato. «Be’, per me sarebbe più comodo se abitasse a Pavia...»
Lei ridacchiò e lo interruppe con garbo.
«A dire la verità vivo a Ferrara, ma domani sarò a Milano. Può andare come compromesso?»
Jacobi lanciò un’occhiata al calendario e confermò la sua disponibilità. Si diedero
appuntamento per il giorno successivo, davanti alla prefettura in corso Monforte, in pieno centro,
all’ora di pranzo.
Prima di riagganciare, la donna aggiunse: «Ha detto che sono in corso verifiche anche lungo il
Ticino? Non è ancora una zona sfruttata per quel tipo di attività, almeno in confronto al Po. Ma ho un
paio di indirizzi di strutture abusive non troppo lontane da Pavia, così vedrete coi vostri occhi. Anzi,
posso fare di più. Se sabato mattina non ha programmi, perché non viene a Borgosaldo?»
Jacobi accettò la proposta, si appuntò qualche veloce indicazione fornita dalla giornalista, le
lasciò il recapito di posta elettronica dove spedire l’elenco e riappese. Calcolò la strada per Borgosaldo
su internet, due ore di percorso, gran parte delle quali in autostrada. Si alzò e prese un pacchetto di Pall
Mall ancora da scartare nella giacca interna dell’impermeabile, e accese una sigaretta appoggiato al
davanzale della finestra.
Osservò per qualche minuto il traffico umano di Pavia, il flusso infinito di studenti in marcia
verso l’università in corso Strada Nuova, i pendolari diretti a Milano intubati nei loro veicoli, la
quantità cinese di motorini starnazzanti, gli anziani con il trolley per la spesa alle nove di mattina (una
scena che non mancava mai di sorprenderlo). Infine, gli occhi si catalizzarono su una giovane coppia
che gesticolava animatamente a pochi metri dall’entrata della questura. Jacobi aspirò una lunga boccata
riflessiva e aguzzò la vista. Una donna sui trent’anni con jeans, felpa e una giacchetta estiva, piuttosto
agitata. Spostò lo sguardo sull’uomo al suo fianco, un tizio con la barba un po’ sfatta, capelli neri corti
e il collo proteso. Gesticolava accanito, la donna si voltò per guardarsi intorno, in evidente imbarazzo.
Un gesto per Jacobi familiare. La stessa reazione di Monica per le sue improvvise intemperanze.
L’ispettore avvertì una fitta di malinconica tristezza. Com’era possibile che anche quei momenti, quegli
scontri verbali gratuiti, le incomprensioni tramutate in insoddisfazione reciproca, ora assumessero
un’aura nostalgica?
L’uomo si allontanò scuotendo la testa. La donna rimase un momento ancora immobile sul
marciapiedi, con l’aria un po’ confusa, prima di attraversare la strada e infilarsi in un tabaccaio.
..

Jacobi udì l’avviso di posta in arrivo. Era la giornalista, oggetto della mail: PESCATURISMO
ABUSIVI ZONA PAVIA. In allegato, un documento di testo che l’ispettore aprì subito. Rispose con un
laconico grazie e la lettera del cognome come firma.
Il file segnalava solo tre strutture «senza permesso» che la giornalista aveva sottolineato in
grassetto rosso. Jacobi notò che in tutti e tre i casi, la Moroni aveva fornito a fianco del nome
indicazioni precise su come raggiungere la destinazione, visto che non avevano un indirizzo reale a cui
fare riferimento. Era necessario lasciare l’auto a qualche centinaio di metri, quindi spingersi nella
macchia che occultava le strutture sul fiume.
Due erano in provincia di Mantova, ma l’ultima era a Zeccheto, «a poca distanza da Pavia»
secondo il documento della Moroni. Fidandosi più del diavolo che del prossimo, Jacobi digitò le
coordinate stradali Pavia-Zeccheto su Google Maps, e constatò che la donna era nel giusto: a circa
un’ora da Pavia, lungo la SP205.
..

12

L’autostrada di informazioni ramificata nel cervello di Jacobi si era dipanata e con nuovi snodi,
corsie a velocità diversa in cui ipotesi e riflessioni – nessuna molto logica, dovette ammettere
l’ispettore – si superavano, a volte affiancandosi e procedendo parallele, altre volte in coda a
ragionamenti più lenti da districare.
Alzò la testa dai verbali dei canottieri che avevano rinvenuto il siluro. Gli faceva male il collo.
Guardò l’ora, erano quasi le tre di pomeriggio. Si massaggiò le tempie e fece schioccare le ossa del
collo, poi sbuffò un lungo sospiro dalle narici e accese una Pall Mall. Lanciò un’occhiata mesta alla
tazzina di plastica bianca a portata di mano, ormai un cimitero di mozziconi galleggianti nel rimasuglio
del pessimo caffè.
Prima di rimettersi al lavoro, decise di scendere in strada e godersene uno decente.
Davanti alla finestra rettangolare del Bar Irma, con la tazzina di ceramica in mano, Jacobi
soffiava sul fumo caldo, da cui si librava la fragranza della correzione alla grappa. Mentre pensava,
spostò gli occhi sui piantoni davanti al passo carraio della questura, il semaforo giallo lampeggiante
davanti all’ingresso ad arco con decorazioni di bugnato. Spuntò il muso di una grossa berlina blu. Uno
degli agenti si avvicinò alla strada ed esibì una paletta, la sollevò con decisione e allungò la mano
libera per fermare il traffico in arrivo.
Jacobi bevve un sorso del caffè corretto e lo mescolò in bocca, muovendo il palato come una
lavatrice in miniatura. Il piantone abbassò la paletta e tornò al suo posto di guardia, mentre le auto
pazientemente ferme ripartirono.
Il cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni. Jacobi lo tirò fuori sovrappensiero.
«Remo...» Era Borghesi.
«Novità?» ribatté Jacobi.
«Ho preso qualche appunto, ma non credo sia il caso di pianificare una seconda visita.
L’Azienda Ittica Riccardelli ha chiuso i battenti circa un anno fa, il sito internet non era aggiornato.
L’altra sembrava ancora in attività, ho visto un computer acceso, ma non c’era nessuno in giro. Così
sono andato direttamente da quelli del Gruppo Glanis. All’inizio erano cordiali, poi hanno cominciato a
scaldarsi perché sono contrari alla demonizzazione del siluro nelle nostre acque. Sai, con la taglia che
hanno messo sulla testa del pesce e il proliferare di pescatori sportivi da Germania, Austria e
Ungheria...»
Jacobi spalancò le palpebre. Un nuovo casello nell’autostrada dei collegamenti mentali aveva
sollevato la sbarra. «Perché si sono scaldati?»
«Si lamentavano dell’abuso di potere degli stranieri sul fiume. In qualche modo, quelli del
Glanis cercano di proteggere il siluro. Le battute di pesca che organizzano sono da sportivi, roba da
appassionati. Gente che vive in stretto contatto con questi posti. Mi hanno parlato di alcuni campeggi
lungo il Po, strutture abusive che offrono tende attrezzate o piccoli bungalow sul fiume. Richiamano
soprattutto i pescatori stranieri attirati dal siluro. Per questo motivo, stando a quelli del Glanis, gli slavi,
oltre a filettare gli esemplari appena catturati sulle rive del fiume, alla luce del giorno, e lasciare le
carcasse spesso a marcire al sole, gestiscono il traffico per l’Est, dove è considerato un piatto da
buongustai. Si tratta di veri e propri corrieri, con partenze e arrivi regolari, soprattutto dal mantovano.»
Jacobi ascoltò con attenzione, cominciava a delinearsi una pista da seguire. A suo modo,
qualche tassello prendeva una forma plasmabile, e gli slavi erano in pole position nella griglia di
partenza delle speculazioni.
«Per soddisfare le esigenze e le aspettative dei clienti stranieri» proseguì Borghesi, «alcuni
gestori dei pescaturismo ’importano’ siluri dal Danubio e altri fiumi dell’Est, dove ci sono gli esemplari
più grossi. Ecco perché se ne trovano sempre di più anche nelle nostre acque, dicono quelli del Glanis.»
..

Jacobi annuì. «Ti hanno fatto qualche nome?»


«Di chi?»
«Gestori di pescaturismo, tedeschi e slavi collegati al traffico di siluro con l’Est.»
Borghesi fece una breve pausa per consultare i suoi appunti. «Mi hanno menzionato la
manifestazione organizzata a Rovigo, loro andranno tutti per protestare e chiedere una tavola rotonda
per regolamentare la pesca indiscriminata nel Po. Ce l’hanno a morte con gli slavi. Dicono che tedeschi
e austriaci almeno sono sportivi. È vero, arrivano in massa, ma pescano in modo regolare. Gli slavi no,
hanno allestito veri e propri mercatini del pesce in riva al fiume. Un’attività che ha attirato il caporalato
per gli immigrati dell’Est che vivono in quella zona, assoldati per fare a fettine il pescato fresco,
caricare e scaricare i trasporti diretti fuori dall’Italia. Quelli del Glanis dicono che è un giro da migliaia
di persone, gestito da un tizio che si fa chiamare Baba Yaga, l’intermediario per una ditta di
import-export con base in Ungheria. Per me esagerano, ma riconosco che sia un business che può
fruttare parecchio.»
«Può darsi» assentì Jacobi spegnendo la sigaretta. «Ho una novità per te, ti risparmio la gita a
Rovigo.»
«Be’, direi che è una buona notizia.»
Jacobi non commentò. «Ti mando a visitare un pescaturismo a Zeccheto, a poco più di un’ora
da qui. Vedi un po’ di cosa si tratta, parla col proprietario. Ti spedisco le indicazioni sul cellulare.»
Jacobi picchiettò sul dorso della mano l’ennesima sigaretta, con un sorriso sghembo da
caricatura. Impiegò un paio di minuti a comporre il messaggio con le indicazioni per il vice. Una volta
appurato che l’sms era stato inviato ripose il cellulare in tasca. Si massaggiò il mento e guardò fuori
dalla finestra. Con un movimento agile e deciso ripescò il cellulare e digitò il numero di Dettori per
avvisarlo che stava arrivando, ma lo trovò occupato. Posò la tazzina sul bancone e salutò Alesandru con
un cenno, poi s’incamminò per l’appuntamento con il patologo.
..

13

Nel seminterrato dell’obitorio c’erano tre sale autoptiche, due stanze adibite alla vestizione
delle salme, l’area di pesatura delle suddette e infine la zona magazzino, definizione tecnica che per
Jacobi era un eufemismo di «frigorifero per cadaveri». Per collegare il seminterrato al pianoterra e
spostare i cadaveri si utilizzava un montacarichi, dotato di una bilancia elettronica per pesarli.
Ogni centimetro di quel posto puzzava di morte. Di cadaveri Jacobi ne aveva visti, non una
quantità esagerata, ma un numero sufficiente a riconoscere una certa differenza tra quelli che avevano
appena «consegnato la divisa», come parafrasava Johan parlando di amici che avevano lasciato questa
terra, e quelli che erano già «rigidi da un pezzo». Jacobi trovava che i morti non fossero meri pupazzi
di carne disarticolati, completamente privi di qualsiasi «ricordo» della vita che li aveva abbandonati, o
da cui erano stati sottratti con la forza. Possedevano, in tutti i casi, una sorta di nobiltà che imponeva un
certo rispetto, una distanza contemplativa da cui non si poteva prescindere. Che fossero vittime di
un’aggressione, criminali uccisi per un regolamento di conti, gente comune morta per incidenti sul
lavoro o sotto un tram, persino i suicidi, tutti – nella diversità dell’occasione che li aveva uccisi –
avevano ancora qualcosa di reale da comunicare.
«Il tuo vice oggi non viene?» chiese Dettori, che lo precedeva di qualche passo.
«L’ho mandato a prendere informazioni sui pescaturismo abusivi, dalle parti di Zeccheto»
rispose Jacobi.
Dettori si voltò di tre quarti, senza fermarsi. «Zeccheto?»
«È a un’ora da Pavia, sul fiume» spiegò succintamente l’ispettore. Studiando Dettori di spalle,
mentre avanzava indifferente nella mestizia di quel corridoio, Jacobi pensò che non avrebbe mai potuto
fare il suo mestiere. Il patologo considerava i morti – tutti i morti – solo materia di analisi, come se non
ci fosse mai stata una vita prima, per non parlare di una dopo.
Davanti a loro, due portantini in camice bianco facevano strada verso il blocco di celle dov’era
conservato il corpo. Aprirono una pesante porta di metallo che cigolò sui cardini ed entrarono in
un’ampia sala dalle piastrelle smaltate e lucide. Lungo le pareti erano allineate le varie celle di acciaio,
regnava un ordine che con la precisione non aveva nulla a che fare. Gli inservienti si fermarono davanti
a uno sportello d’acciaio lucente, lo sbloccarono con uno schiocco metallico e lo spalancarono.
Dall’apertura fuggì velocemente una brezza di aria frigida, neutrale come l’assenza di dio, uno
qualsiasi.
Jacobi sospirò.
I due uomini, uno corpulento e l’altro secco come un giunco, estrassero il carrello col cadavere
coperto da un lenzuolo. Sbucava l’alluce del piede rimasto, a cui era appesa una targhetta: N.I. – Non
Identificato.
«Grazie» disse Dettori, e li lasciarono soli.
Jacobi sospirò di nuovo. Dettori premise che aveva cercato di «ricomporre» il corpo, e che
doveva aspettarsi uno spettacolo ben peggiore dell’effetto «Frankenstein». «Devo riconoscere che fa
una certa impressione.»
Il patologo si avvicinò al corpo e guardò l’ispettore.
«Siamo uomini, vero?» chiese come se gli avesse letto il pensiero.
Jacobi notò la delicatezza estrema di Dettori mentre scostava il lenzuolo bianco, rivelando il
viso della bambina. Indicò con un dito la gola della piccola vittima, senza toccarla, a pochi millimetri
dal taglio.
«Le ecchimosi sul collo, tranciato alla base, indicano un tentativo di strangolamento. Niente
impronte, hanno usato i guanti. Anche se il decesso è avvenuto per un colpo alla nuca. Ci arriveremo
tra un momento.»
..

Jacobi cercò di non fare caso alle macchie bluastre – ormai annerite – sulla gola minuta e seguì
la direzione dell’indice di Dettori.
«Il decesso risale a cinque giorni fa. L’esame del sangue mostra che la bambina non era
drogata. L’hanno uccisa nel pieno delle sue facoltà percettive. Ha sofferto molto, non c’è dubbio. Ma
questo» il medico indicò con la mano i resti in generale, «spero solo che l’abbiano fatto postmortem.»
Dettori infilò un paio di guanti di lattice che aveva estratto dalla sua borsa, girò di tre quarti la
testa della bambina. Jacobi si ricordò che il secondogenito del patologo era poco più grande della
vittima.
«Il colpo inferto alla nuca è stato secco e deciso. Dimostra la chiara volontà di uccidere
rapidamente. Non si tratta di un oggetto contundente, direi più arrotondato ma molto pesante, denota
una certa forza dell’assalitore.»
Dettori posò le mani sul carrello, vicino al corpo.
«Hanno abusato di lei» disse secco. «Prima» aggiunse per rispondere alla domanda che aveva
colto dall’espressione dell’ispettore. «Una sevizia ripetuta e accanita. Non c’è traccia di liquido
seminale. Hanno usato un oggetto, non è una penetrazione naturale.»
Dettori sfilò i guanti e sospirò. Con un gesto rapido afferrò il lenzuolo e coprì di nuovo il corpo.
Si spostò verso il piede, alzò il velo di lino bianco sulla caviglia per scoprire la marchiatura. Dopo la
pulizia del corpo, il disegno era molto più chiaro, addirittura troppo per Jacobi.
Perfettamente riconoscibile, la sagoma di una casupola con le zampe di gallina si stagliava per
la sua inadeguatezza nel contesto, immonda nei bordi smangiati della carne bruciata.
«Questa» Dettori indicò con la testa la marchiatura, «gliel’hanno fatta quand’era ancora viva.»
..

14

Jacobi si infilò nel traffico dei pendolari in uscita dagli uffici, poco prima delle sette di
pomeriggio. Non aveva alcuna fretta di tornare a casa. Fissava le auto davanti a sé, spesso con una sola
persona a bordo, e cercò di quantificarne il numero, calcolare la massa di umanità intorno a lui. Il
cellulare riposava sul sedile del passeggero, tra una scossa e l’altra di vibrazioni per chiamate senza
risposta. Remo appoggiò entrambe le mani sul volante, come insegnavano a scuola guida, e sospirò.
Chissà in quale mondo si trovava ora, dopo avere visto la Figlia di Frankenstein? Era entrato
definitivamente in una dimensione sfalsata e infernale, e perciò Johan avrebbe potuto improvvisamente
tagliargli la gola a cena, visto che erano tutti impazziti? Che compito era, quello di risolvere la follia
collettiva? Forse non il suo, stabilì Jacobi nel tripudio di clacson e incroci occlusi da veicoli e pedoni.
Allora lasciamo che questo orrore ci inondi, pensò sconfitto, per farlo scorrere e prima o poi si esaurirà.
O forse no. Remo Jacobi era un ispettore di provincia, non aveva l’ambizione del vendicatore, per lui in
alcune occasioni era meglio osservare il male dopo che si era manifestato. Non per codardia, ma perché
era così esagerato da essere inutile, e impossibile da «curare» perché privo di qualsiasi senso. Faceva
parte dell’ordine delle cose. Era come combattere la fortuna: qualcuno ce l’ha di natura, gli altri ne
beneficiano o la patiscono. Per un momento provò addirittura pietà anche per quel maledetto pesce
record che avevano ripescato.
Nel santuario della sua Alfa 155, Jacobi pregustava già il tepore della cucina di casa, i vapori e
il profumo del brodo caldo, nel tranquillo silenzio delle serate con Johan. Fu inondato da
un’improvvisa scarica di buoni propositi, un rigurgito di energia vitale inaspettata. Lanciò qualche
occhiata al telefono, sul sedile del passeggero.
Adesso chiamo Monica, ripeté tra sé per convincersi e prendere coraggio, senza mai togliere le
mani dal volante. Casa. Aveva bisogno di casa.
..

Somalia, 1993

I posti di merda sono uguali dappertutto, pensò Patrizio Scannetti sulla strada di ritorno verso
Balad. Dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno, come recitava l’unico frammento di poesia
che ricordasse dai tempi della scuola. Solo perché aveva dovuto impararla a memoria. E la sua era
ottima.
Le baracche dai tetti di lamiera ondulata si alternavano a palazzine bianche dall’intonaco
scrostato, alcune non completate e quasi abbellite da fori di proiettili di calibro diverso: sembravano
sventagliate decorative di architetti impazziti. La vernice rifletteva e amplificava la luce del sole
africano, di per sé già accecante nonostante fossero le otto di mattina. Scannetti, per tutti
semplicemente Scanna, sistemò con gesti automatici gli occhiali scuri avvolgenti, sobbalzando quando
il blindato su cui viaggiava incontrava qualche buca più profonda, dove molto probabilmente era
esplosa una granata o erano atterrati obici di mortaio.
L’aria all’interno del mezzo puzzava di uomini in guerra, mascherata sotto l’egida ambigua di
missione di pace, almeno per come la vedeva lui. Scanna aveva scoperto di trovarsi a proprio agio nel
sudore, nella polvere e nella paura. Il rischio costante di beccarsi un proiettile da un secondo all’altro,
soprattutto dopo la violenta battaglia al pastificio di qualche settimana prima, la più sanguinosa e
imponente affrontata dalle truppe italiane in cinquant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Stringeva i quattro chili del Beretta AR 70/90 con la naturalezza di un pittore abituato a
maneggiare il pennello, lanciò un’occhiata agli altri soldati. Regnava il silenzio, rotto solo dal rombo
meccanico del blindato, e dalle comunicazioni radio che crepitavano dalla testa della colonna di veicoli
in marcia nel gigantesco quartiere di Aliwa. Scanna aveva caldo, ma non vi badò. Il rastrellamento si
era rivelato un successo, con la cattura di cinque miliziani e il sequestro di numerose casse di AK-47 di
fabbricazione russa con caricatori modificati, granate M5 a frammentazione e munizioni da 5.56 mm.
Con la testa schiacciata nella calotta interna in poliuretano espanso dell’elmetto, Scanna chiuse
gli occhi per alcuni secondi e si concentrò sui rumori che lo circondavano. Quando finalmente la
colonna si fermò e il maggiore Gelsi spalancò il portellone del blindato, i soldati furono investiti da
un’ondata di caldo torrido e secco e odori sgradevoli: un misto di vomito, pattumiera e residui di
materia bruciata. Non sapeva dire cosa, carcasse di animali, esseri umani o detriti di varia natura.
Tutto era possibile, non aveva più importanza.
Scanna tolse l’elmetto con un sospiro e sgranchì le ossa della schiena. Camminò verso un
muretto, mentre la colonna si avviava pigra alla rimessa del checkpoint per verifiche meccaniche e fare
il pieno. Si passò la mano sulla fronte sudata e appoggiò il fucile d’assalto all’intonaco bianco
chiazzato da macchie di umidità. Estrasse dalla tasca laterale dell’uniforme kaki una busta di tabacco
Drum, prese le cartine corte che teneva nella confezione e rollò una sigaretta. La accese con lo zippo
cromato e istoriato con le insegne del reggimento, il suo reggimento. Gustò il fumo nel palato per
qualche secondo prima di sbuffarlo dalle narici, e allargò le braccia appoggiandosi al muretto dilaniato
da bossoli e intemperie. Ai suoi piedi, una pozzanghera marroncina che con l’acqua condivideva solo la
consistenza liquida, proiettava il suo riflesso tremolante e incerto, l’esatto contrario della sua essenza.
Qualche giorno prima, durante un giro di pattugliamento a piedi, si era imbattuto con la sua
squadra in una banda di ragazzini che cuocevano pezzi di carne su uno spiedo improvvisato, in mezzo
alla strada. Al loro fianco, giacevano i resti di un randagio che aveva avuto la sfortuna di avvicinarsi
troppo alle baracche e al machete della popolazione affamata. Quei teppisti, inzaccherati e cenciosi, si
erano limitati a sollevare lo sguardo sui militari per fissarli di sbieco, quasi timorosi che volessero
portargli via pure quel lurido pasto.
Spesso gli era capitato di presiedere la distribuzione delle provviste, col pericolo sempre
presente degli attacchi dei ribelli. Per non parlare dei trafficanti d’armi, della processione di signorotti
..

della guerra che controllavano quegli stramaledetti buchi di culo del mondo, dove lui e quelli come lui
venivano spediti per ripristinare una parvenza di «civiltà». Ma era un gioco da intellettuali e
benpensanti calcolare la morale umana, non certo roba di cui Scanna capisse qualcosa.
Immagini ed esperienze che lo avevano trasformato in un pezzo di ghiaccio con il cervello, la
temperatura del sangue perennemente sullo zero assoluto. Un uomo impassibile che non si poneva più
domande. In fondo, rifletté Scanna scambiando un cenno di saluto con due commilitoni che gli
passarono davanti, aveva capito che non c’era nulla da chiedersi. Il mondo, per come aveva imparato
sulla propria pelle, aveva sempre girato intorno a dinamiche degenerate per alcuni, assolutamente
normali o legittime per pochi altri. Che gusto c’è a essere cattivi all’inferno?, si domandò schiacciando
tra pollice e indice la sigaretta prima di gettarla con noncuranza nella pozzanghera.
Fece qualche calcolo mentale, meditò sulla strana proposta ricevuta dal maggiore Gelsi, un
livornese incazzato col mondo che odiava ogni essere vivente e non credeva più in alcuna istituzione.
Si domandò per l’ennesima volta perché si fosse rivolto proprio a lui, le ragioni che l’avevano spinto a
formulare quella che – in cuor suo – considerava un’occasione per tradire gli ideali stessi per cui era
entrato nella Folgore quasi otto anni prima, nel settembre 1985.
La disillusione di fronte alle speranze disattese di portare ordine e controllo in posti di merda
come quello, pensò, poteva indurre il più irreprensibile dei soldati a varcare la linea di demarcazione tra
dovere e orrore, o peggio: disonore. Le ragioni, concluse Scanna, si riducevano a una sola parola: soldi.
O meglio: un mucchio di soldi. Quando non c’era più niente in cui credere, ormai ne era pienamente
convinto, l’unica soluzione era approfittare delle occasioni e abituarsi al massacro, cercando di trarne il
maggior profitto possibile.
Gelsi, insospettabile ufficiale apparentemente ligio alle proprie responsabilità militari e
apprezzato dai vertici del comando, lo aveva avvicinato poco alla volta, quasi avesse voluto testarlo
prima di alludere e poi esporre con lucida spietatezza la proficua collusione. Il maggiore aveva seguito
il graduale processo di decadimento morale del soldato. Un lento ma imperterrito avvicinarsi al confine
con l’indifferenza, quindi il desiderio di assistere alle brutalità commesse di straforo dalla truppa. Dopo
lo scandalo per la foto che ritraeva un suo compagno sorridente mentre applicava elettrodi sui testicoli
di un somalo, Scanna si era assicurato che nessuno dei presenti scattasse foto durante gli episodi di
tortura successivi. Gelsi aveva sorriso tra sé per quel comportamento. Era pronto.
Scanna aveva reagito con grande calma, ascoltando senza interrompere, un riflesso automatico
dell’addestramento. Conosceva il momento in cui erano crollate le sue convinzioni: aveva una data, un
luogo e un orario precisi. Lui stesso si era stupito mentre stringeva la mano a pugno per stendere quel
cagasotto di veneziano, quando li aveva sorpresi mentre se la spassavano con una ragazza del posto. Il
colpo si era caricato da solo. Un’azione quasi programmata dal cervello di Scanna, ormai svincolato da
barriere e limiti inconsci. Preciso e inconfutabile come un calcolo matematico, il pugno aveva centrato
il soldato sullo zigomo destro, mandandolo al tappeto all’istante. Ne era seguita una piccola
colluttazione tra chi difendeva il veneziano e il branco, inebriato dalla cupidigia ferina di approfittare
della ragazza. Ma anche quella poveraccia, pensò Scanna, non era una vittima e men che meno una
verginella. Al ricordo scosse la testa sovrappensiero, quasi impercettibilmente.
Come se nessuno sapesse come funzionava durante un’occupazione militare. Nugoli di donne
giovani e vecchie, alcune anche sdentate e claudicanti, che ronzavano intorno alle basi e ai checkpoint
per offrirsi in cambio di un po’ di cibo o pochi soldi, una fortuna da quelle parti. E quel soldatino del
cazzo che voleva fare il cavaliere solitario, il probo viro candido come un chierichetto, solo perché era
una spina al primo incarico in zona di guerra. Un lupacchiotto di primo pelo, pensò Scanna con
sarcasmo, pronto a difendere quella corte dei miracoli di disperati.
La ragazza era scappata, nuda e spaventata, approfittando della concitazione tra i soldati per
raccogliere i suoi quattro stracci e rialzarsi dai sacchi di sabbia dove l’avevano buttata senza troppe
cerimonie, prima di scoparsela a turno. Tutti tranne Scanna, che osservava la scena in disparte, per
..

contemplare la vera natura umana che rivelava istinti bestiali solo annacquati dal vivere civile. Il
maggiore si era avvicinato e gli aveva offerto da fumare.
«Nessuno ti vieta di essere buono» aveva detto l’ufficiale sbuffando fumo dalle narici e con la
sigaretta tra i denti. «Solo che il male non lo batti. E allora...» Dall’informalità con cui pronunciò le
parole sembrava il diavolo in persona, o uno scienziato col ghiaccio nelle vene.
Scanna aveva aspettato che proseguisse, ma quello rimase zitto. «Allora cosa?»
«Allora ti ci abitui. E ti adegui. Sai perché siamo la specie dominante? Perché siamo bravissimi
ad adattarci a nuove condizioni di vita.»
Fu la prima volta che sentì parlare dei mercenari che si facevano chiamare Baba Yaga,
riconoscibili per un buffo tatuaggio. Una masnada di nazionalisti provenienti dall’Est, come gli eserciti
di Gog e Magog dell’Apocalisse: «Un’Armata Brancaleone di figli di puttana» così li aveva definiti
Gelsi, «che traffica armi con Aidid e Ali Mahdi, stanno facendo il doppio degli affari dalla rottura del
loro sodalizio: due eserciti di ribelli per il dominio della Somalia, due canali di smercio ugualmente
redditizi». Erano loro che rifornivano i miliziani di Kalashnikov ed esplosivi, quelli con cui avevano
ingaggiato le truppe italiane all’inizio di luglio, le stesse armi che avevano recuperato il maggiore Gelsi
e un paio d’altri per Baba Yaga, ricavandone un bel gruzzolo esentasse. Sempre che nessuno li
scoprisse, ovvio, o prima che quegli slavi bastardi decidessero di interrompere la collaborazione con
un’esecuzione sommaria. Erano capaci di tutto, e forse anche per questa mancanza di scrupoli, Scanna
in fondo nutriva un senso di rispetto e ammirazione nei loro confronti. L’idea di entrare in affari con
Baba Yaga lo elettrizzava.
..

15

Remo chiuse lo sportello dell’Alfa e si affrettò verso la porta della cascina, bersagliato dalle
prime gocce di un acquazzone primaverile. Si era alzato un vento fresco, che solcava la campagna
sollevando piccoli mulinelli di polvere.
Appena entrato, l’ispettore posò le chiavi dell’Alfa nella ciotola di palissandro vicino
all’ingresso, e appoggiò i giornali su un vecchio scrittoio che ora serviva a raccogliere la posta
indirizzata a lui e suo padre (quella di Johan era soprattutto propaganda di case di riposo, assicurazioni
private per la terza età e programmi di sconto di vari supermercati e centri commerciali).
Intravide il riflesso azzurro del televisore acceso in cucina, sfilò l’impermeabile e lo appese,
prese qualche foglietto dalla tasca interna e s’incamminò in corridoio. Fuori esplose il primo tuono,
piuttosto vicino. Posò la ricevuta del lotto coi numeri giocati di fianco al piatto di Johan, che aveva
apparecchiato la tavola. Del vecchio nessuna traccia.
«Tata?» chiamò nel silenzio della casa, puntellato solo dalle gocce che picchiettavano sui vetri.
Remo entrò in soggiorno, al buio, e si diresse in camera di Johan. Lo trovò sdraiato
nell’oscurità.
«Tata? Tutto bene?»
«Sì, riposavo.» Johan rispose placido, quasi a filo di voce.
Remo premette uno degli interruttori sulla parete e la stanza s’illuminò di colpo. Il vecchio serrò
le palpebre, infastidito, si coprì gli occhi con il braccio e Remo spense subito la luce.
«Scusa» disse. «Stai bene?»
«Sì, ti ho già detto. Vai di là che ti raggiungo tra poco. Hai voglia di preparare qualcosa?
Stasera mi sento stanco.»
«Certo.»
Indietreggiò per tornare in cucina.
«Remo.» Il vecchio fece una pausa, il figlio si voltò affacciandosi nella camera da letto e gli
lasciò il tempo di continuare. «Vorrei che ci fosse ancora tua madre.»
Remo annuì, senza sapere cosa dire. Capitava molto di rado che Johan esternasse le sue
emozioni, non era mai stato bravo a farlo. In questo, aveva preso da lui. Sospirò e si infilò nel
corridoio. «Ti ho lasciato il lotto sul tavolo in cucina» disse ad alta voce mentre camminava togliendosi
la giacca.
Dopo essersi sciacquato e cambiato, ispezionò la credenza pensando a cosa cucinare. Mise a
scaldare una pentola d’acqua e optò per tortellini in brodo e qualche bruschetta d’antipasto. Dispose a
portata di mano il barattolo con la polvere per il brodo vegetale e un paio di dadi, a Johan il brodo
piaceva saporito. Poi scelse un coltello dalla lama non seghettata, corta e affilata, e appoggiò una
corona d’aglio sul tagliere, accese il forno e prese una ciabatta di pane per preparare le fette.
Johan entrò in cucina qualche minuto dopo. Controllò la giocata del lotto per verificare che
fossero i numeri sognati e si sedette al suo posto.
«Tata.» Remo sfregò l’aglio sulle fette di pane, con perizia.
Johan alzò gli occhi su di lui.
«Ti dice qualcosa il nome Baba Yaga?» chiese senza distrarsi dalla preparazione delle
bruschette.
Johan lo studiò un momento e poi ridacchiò.
Remo si voltò, non capiva la reazione.
«Dovresti conoscerlo anche tu» spiegò Johan. «È una storia che ti leggevo quand’eri piccolo.
Anzi, aspetta.»
Johan si alzò e sparì in soggiorno, Remo lo sentì borbottare tra sé e trafficare. Un attimo dopo
..

tornò in cucina con un volume in mano e lo appoggiò sul tavolo. Remo si pulì le mani su un canovaccio
e si piazzò in piedi alle spalle di Johan. Il titolo era: Afanasiev – Tutte le favole VOL. I. Una vecchia
edizione. La riconobbe, ripescata negli anfratti della memoria. Sulla copertina erano rimaste tracce di
pennarelli colorati, opera di un bambino vivace.
Johan aprì il libro sulle ultime pagine, inforcò gli occhiali che portava sempre appesi al collo e
scorse l’indice.
«Baba Yaga...» ripeté cercando il nome. «Davvero non te la ricordi?»
Renzo scosse la testa, indeciso sulla risposta.
«Ti faceva una paura del diavolo» proseguì il vecchio.
Johan aprì il libro all’inizio della fiaba, gli occhi di Remo puntarono immediatamente
l’illustrazione a tutta pagina che la accompagnava. Circondata da un cancello di ossa e teschi, sopra una
collina a punta illuminata da una luna sinistra, ecco la casa della strega: una baita di legno sorretta da
zampe di gallina.
«Ogni volta che vedevi questo disegno, ti coprivi la faccia con le lenzuola» disse con pacata
nostalgia, priva di retorica.
La ricordò di colpo. Un secondo vivido in cui il cervello tornò a essere quello dei suoi quattro
anni. Quell’immagine, e la paura che la accompagnava, era rimasta dentro di lui. Seppellita da una
discarica di altri ricordi pericolosi. Si chiese cosa lo spaventasse tanto di quel disegno quand’era
piccolo.
Baba Yaga, la strega che si nutriva di bambini.
Il fascio di luce dei fanali di un’auto illuminò per un momento lo spiazzo fuori dalla finestra,
poi un motore si spense per lasciare posto alla quiete della campagna. Remo non trovò necessario
vedere chi fosse. Borghesi l’aveva cercato più volte sul cellulare, tutte chiamate senza risposta. Non
voleva saperne più niente, almeno per qualche ora, possibilmente per sempre.
Riconobbe il ritmo dei passi sulla ghiaia, e si avviò lentamente alla porta d’ingresso. Girò le
chiavi per aprire, un secondo dopo il trillo del campanello.
«Ti ho cercato sul cellulare oggi pomeriggio, dove cazzo eri?»
«Antonio, entra.»
Spalancò la porta e lo fece accomodare. Il vice notò subito il cellulare dell’ispettore sul
mobiletto vicino al citofono, ma preferì non insistere.
«Remo, hanno suonato.» Johan si era trasferito in salotto dopo aver controllato il brodo, e
nell’attesa si era sintonizzato su una partita di calcio di chissà quale coppa. Remo sentiva il commento
ovattato dei cronisti, così indistinto che sembrava un’altra lingua. Il vecchio non aveva nemmeno
accennato ad alzarsi per andare alla porta.
Borghesi fece capolino in salotto e lo salutò. «Buonasera, signor Jacobi. Scusi il disturbo.»
Johan voltò di pochi centimetri il viso verso l’ingresso, il suo profilo di un azzurro catodico.
«Buonasera, buonasera.»
«Tata, esco un momento.» Indicò la porta a Borghesi e si sedettero su una panca di pietra con i
bordi ormai smussati da decenni di natiche assortite.
«Ci sono novità. Forse» disse Borghesi.
Jacobi accese una sigaretta e aspettò che proseguisse.
«Al pescaturismo di Zeccheto ho parlato con il custode. Un vecchio, non è il proprietario, si
occupa solo di dare una ripulita ai bungalow quando se ne vanno gli ospiti, controlla lo stato delle
imbarcazioni e cerca di soddisfare le richieste dei clienti quando chiedono attrezzature da pesca. Non
dev’essere un maniaco dell’igiene, viste le condizioni del posto.»
Borghesi studiò un momento la reazione di Jacobi, che guardava davanti a sé nel buio, in
silenzio.
«Abbiamo parlato un po’» continuò il vice, «e gli ho chiesto come andavano gli affari e che tipo
..

di attività svolgesse nello specifico. Non ha fatto che lamentarsi dei turisti stranieri, in particolare di
tedeschi e austriaci, che affittano i bungalow per la pesca sportiva. ’Fanno come a casa loro’ era il
commento che ha ripetuto più spesso, insieme a ’Quelli restano sempre nazisti’ mentre si batteva un
dito all’altezza del cuore e poi sulla fronte. Mi ha confessato che nel periodo di riproduzione di alcune
specie da trofeo, come il siluro, non hanno spazio per accettare tutte le richieste.»
«Gli hai detto che eri un poliziotto?»
Borghesi scosse la testa. «Certo che no. Mi sono spacciato per un pescatore dilettante, che
voleva informarsi sull’affitto dei bungalow e via dicendo. Ci ha creduto fino a quando non ho chiesto
se avesse notato qualcosa di strano nelle ultime due settimane. Da lì in poi, ha cambiato atteggiamento,
come se nascondesse qualcosa.»
Jacobi lo guardò. «Scusa, ma perché non glielo hai detto?»
Borghesi ignorò la domanda e proseguì. «Di solito, i pescatori che affittano le casupole
appartengono a circoli di pesca sportiva, si muovono in gruppo affidandosi a tour operator che
organizzano pacchetti di viaggio ’all inclusive’.» Borghesi si frugò nella giacca, prese il portafoglio ed
estrasse un foglietto che consegnò a Jacobi. L’ispettore lo inclinò verso la finestra illuminata e
socchiuse le palpebre per leggere.
«Hanno un sito internet piuttosto rozzo, con le tariffe e le offerte di soggiorno. Non credo che i
loro clienti appartengano al jet set internazionale, sia per i prezzi che per il posto. Era davvero
deprimente.»
Jacobi cercava di decodificare il biglietto da visita. «Tutto qui? Sarebbero queste le novità?»
domandò con la sigaretta a penzoloni.
«A un certo punto s’è lasciato scappare che il proprietario a volte lascia le chiavi dei bungalow
agli amici. Circa una settimana fa, il custode ha intravisto un tizio che lasciava il bungalow. Aveva con
sé uno zaino capiente e trasportava in spalla una sacca, e il vecchio l’ha scambiata per una di quelle
borse che si usano per i pesci grossi.»
Jacobi guardò Borghesi negli occhi per la prima volta da quando si era presentato alla porta di
casa.
«Lo sconosciuto si è diretto sulla salita che conduce alla strada provinciale. Il vecchio ha detto
di non avere visto auto nello spiazzo, mentre in genere i pescatori tengono i propri veicoli vicino.
Inoltre, il tizio non aveva attrezzatura da pesca con sé.» Borghesi inarcò le sopracciglia e lasciò cadere
la frase.
Jacobi mugolò impercettibilmente e rimase un momento zitto.
«Poteva essere uno degli amici del proprietario.»
Il vice scosse di nuovo la testa. «Il custode non l’ha riconosciuto.»
«Secondo te, il fatto che non avesse la canna da pesca lo inquadra come potenziale sospetto?»
Borghesi si accorse del sarcasmo.
«Veniamoci incontro, per favore. Non me ne intendo di pesca, gli unici pescatori con cui ho a
che fare sono quelli da cui mia moglie compra le orate al mercato.»
Jacobi aspirò una lunga boccata e annuì. Borghesi continuò.
«Il vecchio si è chiesto per un po’ chi fosse quell’uomo, era certo che non ci fossero
prenotazioni in quei giorni. Lo ha seguito sullo sterrato che porta alla provinciale, giusto in tempo per
vederlo caricare la sacca su un furgone frigorifero.»
«Non si è avvicinato?»
«Non ha fatto in tempo. È più lento di uno zombie. Il furgone è ripartito subito in direzione est,
verso Suzzara e Borgosaldo. Secondo lui, si trattava dei furgoncini frigoriferi per le consegne ai
ristoratori lungo il fiume. ’Quasi tutti albanesi’ mi ha detto, anche se credo volesse indicare quelli
dell’Est in generale.» Borghesi tirò su col naso, quindi proseguì.
«Per chiarire la cosa, ha chiamato il proprietario del pescaturismo, e gli ha raccontato dello
..

sconosciuto. Il suo capo, a quanto pare, ha minimizzato senza fornire una spiegazione adeguata. Non
doveva più pensarci...» Borghesi aggrottò la fronte e cercò nelle tasche il suo taccuino. Lo sfogliò un
momento e lesse gli appunti. «’Ha solo detto che era tutto a posto.’ Cito dalle sue parole.»
«Chi è il proprietario del pescaturismo?»
Borghesi alzò un indice e gli spuntò la lingua dall’angolo della bocca mentre rovistava di nuovo
nelle tasche dei pantaloni. Esaminò un paio di scontrini, infine passò a Remo un altro foglio
spiegazzato con un nome e un numero di telefono scritti a matita.
«Guarda che calligrafia, Gesù... cosa c’è scritto qui?» Jacobi avvicinò il foglietto al vice, che si
sporse per decifrare.
«Pietro Tosatti, quello è il cellulare con cui si prenotano i bungalow. Non so se sia anche il suo
numero privato.»
«Hai già fatto qualche ricerca su di lui?»
«Non ancora. Sono venuto direttamente qui.»
Jacobi gettò la sigaretta sul selciato e la strofinò più volte con la scarpa.
Borghesi approfittò del momento di silenzio.
«Com’è andata con Dettori?»
Johan si affacciò sulla soglia. «Remo, è pronto in tavola. Mangia con noi?» domandò a
Borghesi, che declinò cortesemente.
Jacobi mollò una pacca sulla spalla al vice.
«Ci vediamo in ufficio.» Quindi sparì nella cascina in perenne bisogno di ristrutturazioni.
Borghesi aspettò un momento, quando sentì chiudere dall’interno a tripla mandata risalì in auto, e
chiamò sua moglie, per avvisarla del ritardo.
..

16

L’ispettore lanciava occhiate ai pioppeti. Viaggiava tranquillo a bordo dell’Alfa 155 sulla
provinciale in uscita da Pavia, in orario per l’appuntamento con la giornalista a Milano. Con la mano
destra salda sul volante e la sinistra posata in modo quasi riflessivo sulla guancia, Jacobi procedeva alla
velocità costante di settanta chilometri orari sul rettilineo assolato.
A quell’ora incrociò solo una manciata di veicoli, la piatta campagna si estendeva a destra e
sinistra, punteggiata qui e là da macchie di pioppeti e campi di granturco. Di tanto in tanto facevano
capolino tra le fronde i tetti delle cascine e i silos, oltre ai saltuari centri di vendita all’ingrosso,
squadrati robot di cemento. A Jacobi piaceva quel paesaggio scarno, aveva la sua poesia. Era allo
stesso tempo consolatorio e pacifico nella sua immobilità, due caratteristiche dell’animo umano in cui
aveva smesso di credere da molto tempo e che ritrovava solo in quella natura a suo modo asettica, ma
pulita.
All’altezza di Certosa, superò un autovelox con relativa pattuglia dei vigili, appostati nella
piazzola di un distributore chiuso. Erano a caccia di guidatori insofferenti al quasi ridicolo limite di
velocità, nei tratti in cui si abbassava a cinquanta chilometri orari. Jacobi sapeva benissimo che era
impossibile percorrere quelle strade tranquille a meno di settanta-ottanta, era uno stratagemma dei
comuni per rimpolpare le casse approfittando della poca pazienza degli italiani al volante.
C’erano alcuni momenti in cui Jacobi quasi immaginava di essere un forestiero, sebbene fosse
italiano a tutti gli effetti. Madre lodigiana purosangue, Johan aveva ottenuto la cittadinanza in tempi in
cui l’immigrazione non era bollata come pseudo reato o percepita come invasione. In famiglia si era
parlato sempre e solo italiano. L’ispettore afferrava giusto qualche raro intercalare di Johan in rumeno.
Si era sentito ripetere fin da bambino che la Romania l’avrebbe visitata solo se avesse desiderato farlo.
Johan era originario di Lago, nei pressi di Timisoara, ma non aveva alcun parente rimasto laggiù.
Nonostante il suo orgoglioso attaccamento spirituale a quella terra, il vecchio aveva sempre messo bene
in chiaro che non ci avrebbe mai più messo piede: «Ci dev’essere un perché se me ne sono andato».
Non cambiò idea nemmeno dopo l’esecuzione di Ceausescu, che seguì blandamente sui notiziari con la
curiosità e il distacco di un qualsiasi telespettatore italiano, senza esternare commenti liberatori o
manifestare una sorta di piccato risentimento per la morte del dittatore.
L’Alfa 155 rallentò per imboccare la rotonda di snodo per la SS412. Una donna di colore,
seduta all’ombra del cavalcavia su una sedia di plastica bianca per ripararsi dal sole già caldo, gli
mandò un bacio mentre la superava piano per imboccare la salita. Jacobi sorrise. Non si stupì per il
rimorchio diurno. Sulla statale il traffico di autoarticolati era un flusso continuo, e quello del sesso per
camionisti stanchi era un business assicurato, in mano agli slavi. Jacobi sorrise di nuovo.
Mentre sfrecciava verso Milano, oltrepassando i quartieri popolari di sobborghi senza grazia
architettonica e i palazzoni dove abitavano molte famiglie di poliziotti, anche per la vicinanza col
carcere di Opera, l’ispettore Jacobi ripensò a quella stramaledetta casupola con le zampe di gallina.
Perché la bambina era stata marchiata come un capo di bestiame? Apparteneva a qualcuno, che
si firmava come la strega delle fiabe russe? Chi poteva fare una cosa simile? Aveva rovistato negli
archivi informatici della polizia alla ricerca di casi analoghi, un precedente qualsiasi da associare, senza
trovare alcun riscontro. Insieme a Borghesi, avevano passato in rassegna l’elenco delle denunce di
bambini scomparsi, nessuna corrispondeva nemmeno lontanamente alla piccola trovata nel siluro.
C’era quel gruppo che si faceva chiamare Baba Yaga, ma non riusciva ad associare il traffico di pesce
con l’Est a quel crimine osceno.
È un mondo impazzito, pensò Jacobi quasi ipnotizzato dal susseguirsi della linea tratteggiata
sull’asfalto. Si sentiva sconfitto, defraudato da una potenza superiore delle sue funzioni di organismo
vivente.
..

Mi dispiace, lei è sterile.


L’ondata di rabbia arrivò con l’inaspettata violenza di un uragano. Jacobi intravide lo spazio di
sosta per le emergenze e cambiò corsia senza segnalare, l’auto dietro di lui lo mandò affanculo via
clacson mentre l’Alfa si fermava con poca delicatezza nell’area riservata. Jacobi serrò la mascella e
digrignò i denti a bocca chiusa, stringeva il volante con ambedue le mani come se volesse stritolarlo, il
sangue pestava sui tamburi delle tempie, non esisteva altro suono, nessun pensiero secondario. Solo
una fumata di cieca rabbia.
Toc toc.
Jacobi voltò la testa di scatto. Un’altra donna di colore, con un’evidente parrucca di boccoli
neri, troppo lucidi e brillanti per essere veri. Lo fissava con un sorriso lascivo masticando
sguaiatamente una gomma. Disse qualcosa che Jacobi non sentì, vuoi per il chiasso del traffico, vuoi
perché nella scatola cranica c’era un concerto per sole percussioni. L’ispettore la osservò meglio: dita
troppo lunghe e ossute, spalle da scaricatore di porto, tette giganti al silicone. Era un uomo. Jacobi
appoggiò la fronte al volante, respirò profondamente e ingranò la marcia, poi attivò la freccia e quando
non vide alcun veicolo comparire sullo specchietto, ripartì per non arrivare tardi all’appuntamento con
la Moroni in corso Monforte.
..

17

Milano non gli era mai piaciuta.


Jacobi attraversò il traffico della pausa pranzo in piazza del Tricolore, fermo davanti al
semaforo rosso a contemplare la sfilata di una dozzina di persone dall’atteggiamento diversamente
indaffarato. Una donna in carriera con tacchi alti e camminata severa, con un culo di marmo fasciato
nella gonna del tailleur grigio; una coppia di signore filippine di mezza età che parlavano nella loro
rapida lingua, priva della «effe»; tre o quattro poveri cristi diretti verso il centro, provenienti dalla
mensa dell’Opera San Francesco in corso Concordia; qualche studente universitario e un giovanotto di
nemmeno trent’anni, molto elegante e curato nel suo completo scuro e valigetta di pelle nera lucida:
poteva essere indifferentemente un sicario prezzolato o un avvocato rampante diretto in tribunale.
Parcheggiò e uscì nell’aria intrisa di polveri sottili della metropoli lombarda, o «padana» come
a molti piaceva specificare. Sfilò l’impermeabile e lo piegò sul braccio, stringendo nell’altra mano un
paio di giornali. Cominciava a fare troppo caldo per il soprabito. L’aria di quella città, per Jacobi, era
permeata da un sub-aroma dal vago sapore di merda. Sotto il puzzo dei gas di scarico e degli odori e
profumi sempre cangianti della città, l’ispettore intercettava una sfumatura sgradevole, che aveva
condizionato il suo modo di immaginare quell’ammasso di cemento e metallo. Non la ricordava così
tetra e poco accogliente.
Borghesi, invece, adorava Milano al punto che aveva fatto dipingere i vecchi simboli delle porte
cittadine sugli stipiti di quelle di casa. Sosteneva addirittura che Milano fosse magnifica d’autunno e
inverno, con la sua pioggerellina e i banchi di nebbia. Esattamente le caratteristiche per cui Jacobi la
deplorava ancora di più. Per lui, il manto di nebbia che avvolgeva la pianura intorno a Vidigulfo era
insuperabile per fascino e suggestione.
Alzò la testa sul cielo azzurro malaticcio, sopra il rombo dei motorini pronti a schizzare
all’incrocio, proseguendo a passo deciso verso corso Monforte. Vide l’ingresso della prefettura, il via
vai di agenti e funzionari dall’edificio, i due piantoni. Alle sue spalle sentì qualche colpo secco di
clacson. Si voltò in tempo per vedere passare un piccolo convoglio, una volante coi lampeggianti accesi
seguita da un’auto della polizia municipale a sirene spiegate e un autobus dei trasporti cittadini in coda.
Il piantone si piazzò in mezzo alla strada facendo largo ai veicoli, che si infilarono nel cortile al numero
31; infine l’agente riprese il suo posto e il traffico ricominciò a scorrere. Era l’autobus che
l’amministrazione comunale aveva modificato per caricare gli immigrati dalla strada e prenderne le
generalità, a caccia di clandestini. Sui finestrini erano state fissate delle sbarre. Jacobi aveva visto le
foto sui giornali.
L’ispettore guardò l’ora sul cellulare, era in anticipo all’appuntamento con Barbara Moroni,
giornalista freelance dalla voce calda e roca, più giovane di lui. Fumatrice, suppose Jacobi tra sé.
Si fermò all’incrocio con via Conservatorio, accese una sigaretta e si appoggiò al muro
dell’edificio di fronte alla prefettura a sfogliare i giornali. Aprì la «Gazzetta del Ticino» e volò alla
cronaca locale. Gli occhi investigarono la pagina. Ancora niente. Aspirò una lunga boccata, un po’
deluso.
Ma come, si chiese perplesso, una bambina fatta a pezzi e trovata nella pancia di un pesce di
fiume, e non è trapelata nemmeno un’indiscrezione?
Spese qualche energia a leggere gli altri pezzi di cronaca, i piccoli delitti e peccati del pavese, e
stabilì che non c’erano notizie che potessero surclassare quella del siluro. Eppure nessuno si era preso
la briga di occuparsene. Jacobi pensò che per una volta le cose erano andate come da manuale, nessun
giornalista era accorso allo Sporting Club Becca quella mattina, e nemmeno si erano fatti vivi dopo il
ritrovamento. Nessuna imbeccata interna da qualche agente. Le premesse per un’indagine perfetta
c’erano tutte, diciamo. Allora perché quel silenzio, quella disattenzione mediatica, lo innervosivano?
..

Una notizia del genere scivolata via nell’indifferenza generale? Un fatto così orribile nella sua inutilità
che non meritava alcuna considerazione. L’ispettore aggrottò le sopracciglia mentre rifletteva. Una
sensazione conosciuta, di cui aveva fatto esperienza sulla propria pelle, soprattutto nei casi che poi
aveva scelto di affossare.
«Scusi.»
Jacobi abbassò il giornale e si trovò faccia a faccia con il piantone che aveva bloccato il traffico
poco prima.
«Aspetta qualcuno?» domandò il giovane poliziotto fissandolo negli occhi.
Jacobi ricambiò lo sguardo, indeciso se mostrare il tesserino subito o no. «Perché?» chiese
infine.
«Quella è la sede della prefettura. Devo chiederle di allontanarsi, per motivi di sicurezza. Non
può stare fermo qui.»
Jacobi trattenne un sorriso nervoso. «Qual è il problema, agente? Ho fatto qualcosa?»
Il poliziotto lo scrutò un secondo, inclinando la testa.
«È italiano?»
Jacobi si avvicinò. «E lei, è di Milano?»
«Prego? Avanti, mi faccia vedere un documento.»
Jacobi guardò sopra le spalle del poliziotto, nel cortile della prefettura, dove si era raccolto il
gruppo di immigrati scesi dall’autobus modificato: maghrebini, un paio di sudamericani e soprattutto
slavi. Allungò una mano ed estrasse il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni.
«Ispettore Jacobi?»
Remo e il poliziotto si voltarono all’unisono. Si avvicinò una donna di circa quarant’anni, con
un’ampia gonna verde scuro fino al ginocchio e una camicetta azzurra. Sul braccio era appeso un
trench beige, dalla spalla pendeva una borsa di pelle color crema molto capiente ed elegante.
«Sono io» rispose Jacobi scoccando un’occhiata al piantone, e mostrando il tesserino di
identificazione. Il giovane poliziotto farfugliò qualcosa.
«Grazie, vai pure» lo congedò Jacobi fulminandolo con gli occhi, poi si voltò sorridendo alla
giornalista e le strinse la mano.
..

18

La prima impressione di Jacobi su Barbara Moroni non fu gradevole, e forse era ricambiata. La
catalogò come la classica ex pasionaria universitaria, un’idealista votata alla causa sociale, una smania
che poi aveva riversato nel giornalismo ambientalista. Una simpatizzante hippie con la borsa di Gucci.
Una donna attraente, anche. Possedeva il fascino di chi mostra di sentirsi a proprio agio con gli anni
che passano, secondo Jacobi non più di quarantacinque. Vedendola, era evidente che Barbara Moroni
fosse sempre stata bella, una linea di continuità dal fiore degli anni, dalla sfavillante giovinezza fino
all’età adulta.
Su proposta della giornalista, si erano infilati nell’affollato bar del Conservatorio, a tre minuti a
piedi dalla prefettura. La sala brulicava non solo degli studenti di musica, ma anche di quelli della
facoltà di scienze politiche, che aveva sede nella stessa via, in cerca di giovani promesse della classica
da rimorchiare. A Jacobi non piaceva la confusione in generale, ancora meno quella chiassosa e un po’
arrogante degli studenti.
Jacobi e la Moroni presero posto su due alti sgabelli vicino al banco, a portata dei frigoriferi per
le bevande. Il vociare dei ragazzi si mescolava a saltuarie incursioni di fiati e archi, che provenivano
dai corridoi e da alcune aule con le finestre aperte per la bella stagione. I metri quadrati intorno a Jacobi
erano permeati dal profumo del pane bruciacchiato sulle piastre, in funzione costante, mentre un aiuto
barista sudamericano dagli occhi stanchi lavorava alla catena di montaggio di focacce e panini.
La Moroni insistette per occuparsi delle ordinazioni e fare lo scontrino alla cassa, e Jacobi la
osservò un momento muoversi in quella fiumana di giovani. Era evidente che lei non aveva alcun
problema a stare in mezzo alla folla, forse condivideva con quei ragazzi un linguaggio comune.
Quando tornò con il caffè lungo di Jacobi – senza correzione, non aveva l’abitudine di pranzare – e una
piadina cotto e fontina per sé, l’ispettore la ringraziò.
La giornalista si allungò verso il frigorifero, prese una bottiglia da mezzo litro d’acqua frizzante
e la sollevò per mostrarla alla cassa, quindi bevve un sorso a canna. Dalla scioltezza dei gesti, Jacobi
elaborò che fosse una cliente abituale.
«Viene spesso qui?» domandò.
Barbara avvitò bene il tappo per non sgasare l’acqua. «Quando sono a Milano e riesco a
organizzarmi sì. Ci sono affezionata. Ho studiato qui, tre anni. Molto tempo fa.»
L’ispettore meditò sulla risposta.
«Non è di Ferrara?»
«Vivo a Ferrara da anni, ma sono di Milano.» Frugò un momento nella borsa e lo guardò di
sottecchi. «Non ha preso informazioni su di me prima di incontrarmi, ispettore?»
Gli occhi di Jacobi volarono sulla mano sinistra della giornalista, all’anulare portava un anello
d’oro di forma vagamente squadrata, con un simbolo impresso in cima, oltre a un paio di anelli più
sottili. Difficile che una donna così non avesse un tipo determinato e deciso al suo fianco. Un vero
maschio, di quelli che trasmettono sicurezza. Jacobi lo immaginava virile, sofisticato e pieno di soldi,
per una come la Moroni, ma indugiò forse troppo nell’analisi.
«Divorziata.» Barbara sintetizzò con una parola i dieci anni di calvario del suo matrimonio.
Jacobi soffiò meditabondo sul caffè, in vago imbarazzo. «Per tornare al suo articolo sulla
lottizzazione del Po e sulle attività abusive...»
La Moroni si sporse più vicina, più attenta, e una scia del suo profumo serpeggiò fino alle narici
dell’ispettore, che si interruppe un momento per assaporarlo. Un istinto sopito che ora lo infastidiva
attivando canali della memoria che aveva deciso di chiudere. Si schiarì la gola e riprese.
«Non è solo un problema di tipo territoriale?»
«Be’, ci sono di mezzo abusivi che praticano traffici illegali perché non regolamentati, ma non
..

solo» rispose Barbara. «Insomma, gestire un pescaturismo di per sé è lecito, solo che questi non hanno
la licenza. Poi sicuramente c’è tutto un giro di clandestini per la manovalanza sul fiume.»
«Ed è in mano agli slavi, giusto?»
La Moroni ridacchiò come se Jacobi avesse banalizzato un discorso molto più complesso, tono
che l’ispettore registrò come «niente affatto gradito». Un altro punto a sfavore della giornalista.
«I capoccia sono un ungherese che non ho mai incontrato e un ucraino, il mio contatto. Ma ci
sono anche un sacco di altri slavi, pachistani e sudamericani, assoldati per il trasporto e la filettatura.
Certo, la componente dell’Est è predominante.»
L’ispettore annuì pensoso.
La Moroni lo squadrò con un sopracciglio inarcato. «Di dov’è lei?»
Jacobi ricambiò lo sguardo indagatore prima di rispondere. «Nato, cresciuto e vissuto a Pavia.
Perché?»
«Ha un accento strano. Neutro ma non del tutto. A volte spunta un’inflessione che non riesco a
cogliere.»
L’ispettore scosse la testa. «Mia madre era di Lodi, mio padre è rumeno.»
La giornalista fece per parlare, ma Jacobi alzò le mani per fermarla, e proseguì.
«In casa si parlava italiano, non conosco il rumeno, e forse pure mio padre se l’è dimenticato.»
Dal modo in cui bevve il sorso successivo di caffè, con gesti rapidi e nervosi, era evidente che
non fosse disposto a concedersi molto. Una ragione in più per stuzzicarlo, pensò Barbara.
L’ispettore si grattò la testa e sbirciò fuori, verso il cortile assolato. Moriva dalla voglia di
fumare. Si rivolse alla Moroni con lo sguardo ancora oltre la porta a vetri.
«Il nome Baba Yaga le dice qualcosa?»
La Moroni esibì un’espressione involontariamente buffa mentre rifletteva sulla domanda, poi
arricciò il mento. «La strega delle favole russe.»
Jacobi annuì e fece tintinnare il cucchiaio sulla ceramica del piattino. Si sentì in dovere di aprire
uno spiraglio a favore della giornalista. «Forse è anche il nome di un’organizzazione criminale che
opera sul fiume: caporalato, traffici illeciti e via dicendo. Mai sentita?» Sospirò senza accorgersene,
mascherando male l’impazienza.
La Moroni si accigliò e lo fissò. «No.»
Stronza, pensò Jacobi, senza ribattere. Da quanto tempo non gli capitava di sedersi con una
bella donna? Non era più abituato alle conversazioni a due, anche se l’argomento riguardava crimini
grotteschi e folclore russo.
«L’organizzazione è gestita da ucraini e ungheresi, ma ci lavorano parecchi rumeni» aggiunse
piccata la giornalista.
Jacobi ignorò la polpetta avvelenata e si distrasse al passaggio di una ragazza con capelli
selvaggi, che gli spostò di peso la spalla per farsi largo verso la cassa. La seguì con lo sguardo finché
non fu seduta. Non si era nemmeno scusata. E poi esigono rispetto, pensò Jacobi dilungandosi a
osservare i nugoli di giovani da cui si sentiva assediato. Barbara si accorse della perdita di
concentrazione dell’ispettore.
«È sposato?» chiese per curiosità professionale, in realtà un appiglio per eventuali stoccate.
Jacobi non le piaceva affatto.
La fissò, di nuovo serio, quasi allarmato. Un momento dopo si rabbuiò e convertì la tenebra in
arida risposta. «Divorziato.»
Si divincolò agilmente dal contatto visivo con Barbara, non amava sentirsi osservato – sotto
esame – soprattutto dagli estranei. Finse interesse in un’insalata russa esposta in vetrina. «Secondo lei è
possibile che, oltre ai siluri e altri pesci, ci siano traffici più...»
«Importanti?» lo interruppe. La Moroni sollevò il palmo delle mani. «Guardi, lo so bene che ci
sono reati ben peggiori del traffico di pesce e dell’abusivismo turistico. Ma io mi occupo di quello.»
..

«Però» insistette Jacobi, «dal momento che, immagino, è stata un bel po’ in mezzo a quella
gente, forse le sarà capitato di vedere giri strani. Che magari col filetto di siluro non c’entrano niente,
dico.»
La Moroni sospirò con un sorriso sghembo. «Ripeto la mia offerta, perché sabato non viene con
me a dare un’occhiata di persona?»
Jacobi annuì e la guardò negli occhi.
«Comunque no» continuò la donna. «Non ho visto ’giri strani’. Le assicuro che basta già quello
che c’è. Oltre al tanfo del pesce sbudellato c’è un aspetto scenografico da non sottovalutare. I pescatori
appendono i siluri più grandi, e sono parecchi, ad alcuni ganci fissati ai rami degli alberi sulla sponda.
Un macello all’aria aperta. Oppure li sbattono a terra, avvolti in sacchi di plastica trasparente, come
cadaveri di un regolamento di conti. Uno spettacolo piuttosto brutale.»
«Immagino» commentò Jacobi mascherando perfettamente il sarcasmo.
Aveva forse cinque anni, l’hanno fatta a pezzi e data in pasto a uno di quei pesci. Uno
spettacolo piuttosto brutale.
Buttò giù l’ultimo sorso di caffè, ormai gelido.
«Un’ultima cosa.» Jacobi la esaminò. Senza sapere per quale ragione, la immaginò nuda nella
doccia, con lui a un passo. «Lei l’ha mai assaggiata la carne di siluro?»
La giornalista lo guardò un momento con una smorfia sprezzante, quasi offesa. «È un modo
tutto suo per invitarmi a cena?» Scrollò le spalle. «Non ci penso neanche. A dire la verità, sono davvero
schifosi. Dicono che durante la Seconda guerra mondiale, lungo il Danubio, si pescavano siluri che
avevano mangiato pezzi dei soldati dilaniati dalle bombe. Lei lo mangerebbe un animale del genere?»
Jacobi si alzò dallo sgabello, ringraziò la Moroni per la disponibilità e le strinse la mano. «Ci
vediamo sabato a Borgosaldo.»
«Se vuole sapere altro, sa come contattarmi» si congedò lei con un sorriso quasi aggressivo.
Jacobi raccolse i giornali dal ripiano su cui li aveva posati e uscì. Si sentiva un burattino,
imprigionato in uno schema ordinato e folle al tempo stesso, con una serie di incastri multipli che lo
conducevano inesorabilmente verso una sola, laconica certezza: affossare le indagini. Nella luce di un
primo pomeriggio di maggio, accompagnato dall’improbabile sinfonia scordata di giovani orchestrali
alle prime armi, l’ispettore Jacobi attraversò il cortile del Conservatorio con la falcata di un uomo
consapevole di buttare via il proprio tempo.
..

19

Jacobi guidò nervosamente sulla strada verso Pavia. Si sentiva irrequieto, continuava a
incastrare e togliere frammenti di informazioni dal quadro che si era composto, tutt’altro che completo.
E non poté sottovalutare quella sensazione di sconfitta annunciata, quasi un invito. I segni c’erano tutti,
a partire dall’assenza assoluta di indiscrezioni sul ritrovamento del siluro record. Non era normale.
O forse sì? Può anche darsi, ponderò Jacobi in coda all’ultimo semaforo di via Ripamonti,
prima di svoltare a sinistra verso Noverasco e imboccare la Val Tidone.
Era abituato a insistere sul silenzio stampa nelle indagini, in fondo perché sapeva che nessuno
l’avrebbe rispettato. Una specie di gioco, ormai, quello tra forze dell’ordine e giornalisti più morbosi
che curiosi. E per quello che forse era il caso più assurdamente brutale degli ultimi anni, nemmeno una
riga. Gli sembrò incredibile, come se quel mondo parallelo che era convinto si sovrapponesse a quello
di tutti i giorni, in quel caso avesse preso il sopravvento e cancellato ogni parvenza di normalità
quotidiana.
Risolvere cosa poi?
Superò una vecchia Honda Civic nera con un anziano alla guida.
Non poteva nascondere a se stesso che, nella migliore delle ipotesi, non avrebbero mai preso chi
aveva commesso quel crimine. Un caso come il suo, rifletté Jacobi, scaldava l’indignazione popolare
solo per il tempo di lettura di un trafiletto, oppure di un servizio al telegiornale. Attraversò un incrocio
al limite del rosso meditando sulla lista dei delitti più squallidi da programmare in tivù e sui giornali,
un lungo elenco. Ce n’erano sempre. Il suo, semplicemente, non l’aveva notato nessuno. Guardò in
faccia la realtà, almeno per come era giunto a maturarla. Non erano coinvolti personaggi noti, mancava
completamente la figura di qualcuno su cui riversare ombre di colpevolezza, ed erano assenti drammi
familiari per soddisfare la brama di j’accuse dell’opinione pubblica. Certo, Jacobi ragionava in modo
mediatico, perché era così che ormai si risolvevano i crimini. Con le ricostruzioni televisive dei delitti, i
più miserabili soprattutto, magari allestendo un cast di attori per interpretare le parti. Una messinscena
da pochi soldi di drammi reali, sofferenze patite da altre persone macinate nel grande ragù
dell’informazione, ora anche in alta definizione e in tre dimensioni.
Ma c’era anche di peggio, e Jacobi lo sapeva, l’aveva conosciuto quel peggio, appurando con
cocenti sconfitte personali che era inafferrabile. Si palesava solo per rammentare la sua presenza. La
scintilla di follia che sempre più spesso sembrava colpire gli esseri umani di tutto il mondo, non solo
quelli in condizioni disperate. Era la manifestazione tangibile del piano sfalsato della sua realtà
alternativa, la prova che esisteva davvero. E l’ispettore non era più disposto a farsi prendere in giro,
prima di tutto da se stesso.
Se n’era accorto fin da quella mattina di due giorni prima, sul pontile dello Sporting Club
Becca. Si sentì infilato a caso tra le pagine di un romanzo, o sul set di un film, perché la scena faceva
quasi ridere. Allora cos’era l’orrore? Una questione di rappresentazione visiva o uno stato mentale,
forse. Un’abitudine viziosa, che nello spettatore crea l’esigenza di respingerla con il riso o con un
rifiuto netto, mentre per chi la pratica è la normalità, il non pensiero di commetterla. Ecco perché era
inutile risolvere certi casi.
Cosa si aspettava Jacobi? Di scoprire una tratta di bambini che faceva capo agli slavi che
trafficavano pesci siluro per i mercati dell’Est? Perché era proprio quello il collegamento che aveva
naturalmente isolato dalle altre ipotesi. Era inevitabile. La marchiatura sulla bambina con la casa di
Baba Yaga – la strega che si nutriva di bambini – e il gruppo criminale di slavi con lo stesso nome, che
gestiva lo smercio illecito di un pesce mostruoso. Jacobi sbuffò e scosse la testa mentre rifletteva, sentì
addirittura formarsi il principio di un’emicrania, di cui non soffriva.
Anche se fosse così, pensò Jacobi, non sarebbe cambiato nulla. Si ricordò di quando nel 2007,
..

anno in cui Bulgaria e Romania entrarono nell’Unione Europea, fu invitato a un convegno


internazionale delle forze dell’ordine, organizzato a Milano. I rappresentanti delle polizie europee
confrontavano metodi e problemi di gestione della sicurezza, e Jacobi si trovò a parlare con un capitano
della polizia rumena, che lo avvicinò incuriosito dal cognome parlando nella sua lingua. Jacobi ricordò
la delusione del poliziotto rumeno quando, in inglese stentato, spiegò che non conosceva una sola
parola della lingua paterna. Anzi, una sì: tata.
L’ufficiale, mentre Jacobi rispondeva alle sue domande sulla delinquenza giovanile a Pavia –
evidentemente era convinto che avesse le dimensioni di una metropoli con milioni di abitanti – a un
certo punto lo interruppe e raccontò che a Bucarest la situazione era fuori controllo. C’era il problema
dei branchi di cani randagi che infestavano la città, centro compreso. Era stato necessario eliminarli con
le maniere forti. Jacobi aveva letto un paio di articoli sugli accalappiacani di Bucarest, che sparavano
sui branchi di randagi o li ammazzavano a bastonate in mezzo alla strada. Quella storia si era
guadagnata la vetrina dei giornali per qualche tempo.
Poi c’erano le periferie. Pullulavano di bambini strafatti di colla, non c’era un censimento che
ne contasse il numero, era semplicemente impossibile calcolarlo. Questo aveva favorito l’attività delle
organizzazioni criminali specializzate nel traffico umano.
Sulla questione non esisteva metodo.
Pura utopia.
Non c’era modo di scoprire che fine facessero i bambini scomparsi. I neonati passavano da
Italia e Spagna, conosciute come zone di «transito», diretti soprattutto verso Inghilterra e Danimarca
per coppie che li avevano comprati, evitando così il lento e meticoloso processo delle adozioni a
distanza. Per un maschietto si saliva a quindicimila euro, con punte fino a quarantamila per bambine
«su commissione». Poi c’erano quelli più grandicelli. Era una lotta alla sopravvivenza, spiegò il
poliziotto rumeno. Chi finiva in strada, anche perché c’era nato e non conosceva altro che quella realtà,
rischiava di sparire senza lasciare traccia. Nessuno se ne sarebbe accorto, men che meno i genitori –
spesso solo la madre, in genere ancora adolescente – che li avevano abbandonati. C’era il giro dei
pedofili, spiegò il poliziotto con estrema naturalezza, e quello della pedopornografia a esso collegato,
per esempio.
Jacobi assentì. I crimini legati alla pedofilia erano cresciuti notevolmente nel primo decennio
del duemila, o forse erano gli stessi di sempre e godevano semplicemente di maggiore esposizione,
pensò Jacobi.
Forse non è mai successo, arrivò a domandarsi l’ispettore. E io sto uscendo di testa, aggiunse un
momento dopo. O più semplicemente, ribatté una voce stridula e fastidiosa che a volte faceva da
controcanto finale, era arrivato il momento di appendere il tesserino al chiodo. Definitivamente.
Che gratificazioni poteva desiderare a quel punto della sua vita? Cinquant’anni, divorziato e
senza figli. Ispettore di polizia con quasi trent’anni anni di servizio alle spalle, nessuna promozione in
vista. Totalmente disilluso. Non si accorse di avere superato il limite di velocità, né del telefono che
squillava sul sedile del passeggero.
«Il tuo problema» gli aveva confessato una volta Borghesi, «è che vuoi essere vecchio, è la tua
ambizione. Ma non lo sei ancora.»
L’ispettore sorrise al ricordo. Antonio Borghesi aveva ragione, anche se ovviamente non lo
aveva ammesso. Il suo obiettivo, la sua metamorfosi finale, era Johan: un baluardo che non si lasciava
scuotere e affrontava la vita come se ogni attimo fosse l’allenamento per una serie di difficoltà
successive, senza un vero momento di tregua. Ma bisognava arrivarci col tempo a quella salute
mentale, a quella pulizia di sé necessaria per non lasciarsi ferire.
..

20

Il sole tiepido e rassicurante prima del tramonto, Remo lo adorava. Chiuse lo sportello dell’auto
nello spiazzo erboso davanti alla cascina, e rimase un momento in piedi, con gli occhi chiusi, a lasciarsi
accarezzare dalla luce. E all’improvviso si sentì beatamente spossato, quasi come se fluttuasse a
qualche centimetro dal suolo.
Durò solo pochi attimi. Come tutti i momenti di equilibrio che ho vissuto, pensò Remo ancora
appagato da quella breve esperienza. Abbassò la testa e sbuffò, riaprì gli occhi e li puntò sulla finestra
della cucina. Sentì un rumore sul selciato. Johan sbucò dall’angolo e sollevò il braccio per salutarlo,
senza aprire bocca e continuando a camminare. Prima di entrare in casa si spazzolò la polvere dalla
camicia e dai pantaloni che indossava quando faceva «i suoi lavori», come definiva le infinite
ristrutturazioni del vecchio stabile.
Jacobi accese una sigaretta e aspettò che il sole sparisse dietro una striscia di nuvole. Sentiva
trafficare il vecchio in cucina. Entrò e si sedette al tavolo. In punta di piedi, Johan si era allungato sopra
il vano a parete con il boiler per depositare la scatola degli attrezzi.
«Tata.»
Johan si voltò un istante a guardarlo, sempre trafficando con la sua cassetta. «Hai una faccia di
merda, figlio.»
Remo annuì. Possibile che a cinquant’anni non avesse idea di come stabilire una conversazione
personale con suo padre?
Il vecchio sciacquò le mani nel lavello per pulirle meglio. «Mi fai una sigaretta, per favore?»
chiese mentre si asciugava col canovaccio.
Remo si allungò sul tavolo per raccogliere la confezione di tabacco e le cartine, e le portò
davanti a sé. «Senti tata, ti ricordi qualcosa di quando eri bambino?»
Johan arricciò le labbra inarcando le sopracciglia, con gli occhi in alto. «Più che ricordi, pochi
ancora lucidi, è una sensazione legata a quegli anni.» Si batté la tempia con il dito. «M’è rimasta solo
qualche immagine precisa, certe scene, per il resto è qualcosa che ho vissuto e che trasmette una bella
sensazione. Un bel ricordo, tutto sommato.»
Remo acchiappò con le dita un ciuffetto di tabacco e lo posò sul tavolo, poi estrasse una cartina
e la imbottì. Johan storse la bocca mentre ripescava dalla memoria. «Erano tempi duri, il rapporto tra
genitori e figli diverso. Tua nonna era molto severa con noi.» Il fratello e la sorella di Johan, che Remo
non aveva mai visto, erano scomparsi insieme ai suoi legami fisici con la Romania. «Ci faceva lavorare
fin da piccoli, io a otto anni. Ma non c’era un vero pericolo a cui pensare, ricordo che ero felice.
Nonostante la fame e la fatica.»
Jacobi sigillò la cartina leccando sulla striscia di colla, affusolò il tubicino e lo passò a Johan,
che si frugò le tasche alla ricerca del pacchetto di svedesi. Era la prima volta che sentiva pronunciare
dal padre la parola «felice». Jacobi registrò il fatto con calma placida, una pura constatazione.
«Perché lo chiedi?» domandò Johan sbuffando fumo.
Remo scosse lentamente la testa. «Tu avresti mai pensato che a cinque anni qualcuno poteva
rapirti, violentarti, marchiarti a fuoco, farti a pezzi e infilarti in bocca a un pesce mostruoso?»
Il vecchio socchiuse le palpebre. «Ti stai occupando di questo?»
«Dimmi che non è vero, tata. Dimmelo tu, a te posso credere.»
Johan abbassò gli occhi e aggrottò la fronte. «Non ho risposte, figlio. Lo chiedi alla persona
sbagliata. La mia non è stata una vita di quelle che ti permettono di osservare il mondo dall’alto e
fornire spiegazioni.» Lo guardò. «Remo, io non so niente.» Sollevò le spalle con un sogghigno. «C’è
gente che fa cose di questo genere in giro? Be’, per me andrebbero appesi, ma lo chiedi a un vecchio.
Remo tu hai cinquant’anni, le cose sono cambiate dai miei tempi, hai un’altra testa, devi poter credere
..

che ci sono altre soluzioni, no? Te lo sei scelto tu il mestiere che fai, scusa la franchezza, ma sono cazzi
tuoi. Sei un buono, tu. Guarda che lo so, me ne accorgo dalla faccia. Lo capisco che non ne puoi più.»
Jacobi rimase immobile un minuto, poi allungò la mano nella tasca della giacca e sfilò una
sigaretta dal pacchetto morbido dilaniato. «Johan...» Era la prima volta che chiamava suo padre per
nome. Il vecchio lo guardò con evidente sorpresa. «Come faccio a diventare come te?»
Johan fissò il figlio un momento, scuotendo leggermente la testa. «Un vecchio, dici?»
..

21

«Lo immaginavo, sai.»


Jacobi mandò giù le due dita di espresso bollente e guardò Borghesi con gli occhi socchiusi per
la reazione al calore eccessivo. «Cosa?»
Intorno a loro, il bar pullulava di poliziotti, funzionari di uffici postali e comunali in eterna
pausa mattutina, impiegati di vario genere, studenti universitari dall’aria perennemente assonnata e
immancabili vecchietti muniti di amaro impegnati con lo scopone. L’orologio sopra il banco indicava
un quarto alle undici. Jacobi ordinò un altro caffè.
Borghesi girò il cucchiaio nella tazzina vuota prima di rispondere, sul tovagliolo era rimasta
qualche briciola della sua frolla al cioccolato. «Che avresti mollato le indagini.»
La frase stupì Jacobi, che rimase in silenzio.
«Non sarebbe la prima volta» aggiunse Borghesi.
Jacobi si irrigidì.
Il vice sospirò, cercava un modo per esprimersi senza incrinare il loro rapporto di fiducia.
«Remo, lo sai a cosa mi riferisco.»
Jacobi non rispose. Borghesi aspettò che Alesandru servisse il secondo espresso all’ispettore
prima di continuare.
«Altri tempi» disse Jacobi.
«Sì, ma è successo.»
Jacobi, che a suo modo amava la logica, non poté contraddirlo. Annuì.
«Ho imparato a conoscerti, Remo. Ho visto che faccia hai in questi giorni...»
Jacobi abbassò gli occhi sulla tazzina.
«Non ti sembra assurdo che non sia uscito nemmeno un trafiletto?» domandò. «Andiamo, lo sai
bene anche tu che nonostante le precauzioni, un dettaglio riesce sempre e comunque a trapelare.»
Scosse la testa. «Sai cosa c’è? Alla gente non gliene frega un accidenti di questa roba.» Lanciò
un’occhiata agli avventori del bar. «Sono già sfiancati dalla vita di tutti i giorni, da altri tipi di orrore
quotidiano. C’è la crisi, c’è la crisi. Non si pensa o parla d’altro. Qui non c’è una pazza che ha
massacrato il figlio in uno chalet, un attacco kamikaze con decine di morti, o uno scabroso omicidio a
sfondo politico su cui impostare servizi per un paio di settimane, prima del nuovo ’scandalo’. Antonio,
la gente pensa ad arrivare a fine mese, e quelli che hanno la fortuna di non pensarci saltano del tutto
notizie con titoli come FIUME DI SANGUE: BAMBINA SENZA NOME STUPRATA E FATTA A
PEZZI NEL PAVESE – I RESTI TROVATI NELLA PANCIA DI UN PESCE SILURO. Se lo trovassi
sul giornale, forse mi metterei a ridere per l’assurdità.»
Jacobi scosse ancora la testa. «Non scopriremo mai chi è stato. Tantomeno perché. E poi, cosa
cambierebbe?» Indicò il barista con un cenno della testa. «Guarda Ales. Quanti anni ha, poco più di
venti? È scappato dalla periferia di Bucarest quando ne aveva sedici. Quasi tutti i ragazzini con cui è
cresciuto hanno il cervello in pappa per la colla che sniffavano da quando avevano otto o nove anni. Ci
hai mai parlato con Ales, oltre a ordinare toast e caffè? Ti sei mai fatto raccontare delle Mercedes nere
che perlustrano le periferie degradate di Bucarest in cerca di bambini? C’è sempre richiesta. Alcuni li
vendono a coppie sterili, altri finiscono storpiati per chiedere l’elemosina, altri ancora spariscono chissà
dove senza che nessuno li cerchi.»
Borghesi lo fissò e inspirò con una vaga smorfia. «Va bene, sarà anche vero che alla gente non
gliene frega un cazzo. Ma allora noi che ci stiamo a fare?»
«Sei giovane tu, idealista. Magari anche per la carriera.» Jacobi si interruppe un secondo,
distogliendo lo sguardo dal vice. «Non fraintendermi, Antonio. Non c’è niente di male, anzi. Sulla tua
dedizione al lavoro posso mettere tutte e due le mani sul fuoco, ma non è questo il punto.» Jacobi si
..

sporse sul tavolino. «Il problema, se possiamo chiamarlo così, è che il mondo è impazzito, e noi non
possediamo gli strumenti per controllare la follia dilagante. Questo cazzo di pesce siluro con la
bambina dentro è il demenziale che si trasforma in orrore. Scusa, ma il mio cervello ha qualche
difficoltà a processare il fatto. Eppure è successo, è reale. E se ne fottono tutti.»
Borghesi esibì una smorfia diversa, quasi sconfortata. «Così però mi deludi, Remo. Che razza di
discorsi sono? Mica devi urlare slogan al megafono. Per quel che mi riguarda, e forse una volta era così
anche per te, voglio capire come ci è finita una bambina a pezzi in quel pesce. Mi tengo alla larga dalle
implicazioni mentali, è la prima cosa che ho imparato in questo mestiere, anche se la parola ti
infastidisce. Cazzo, lo so anch’io che se risolviamo il caso, il giorno dopo il mondo sputerà altri orrori.
Non mi illudo, mi basta mettere ordine in ciò di cui mi occupo. Nel mio piccolo.»
«Il tuo piccolo» ripeté Jacobi.
Rimasero in silenzio. Approfittando di una pausa nel flusso di clienti, Ales e un altro barista
cominciarono a preparare l’espositore di vetro per i panini e i piatti da scaldare nel microonde all’ora di
pranzo, ormai vicina.
«Non ti preoccupare» Jacobi parlò per primo, «sono convinto che non lo risolveremo. Detto
questo, non ho intenzione di affossare le indagini. Almeno non prima di renderci conto che è del tutto
inutile.» Si alzò dal tavolo senza aspettare Borghesi, e accese una sigaretta appena uscì sul marciapiedi.
Dal traffico si sollevò una sirena familiare, e un momento dopo una Pantera sfrecciò davanti a lui.
L’agente seduto al posto del passeggero sventagliava la paletta per bloccare gli automobilisti che non
avevano recepito il segnale. Jacobi seguì la volante finché non sparì in fondo a Strada Nuova, anche se
già a metà percorso i suoi pensieri lo portarono altrove.
..

22

«Ragazzi, che schifo di posto.»


Jacobi arricciò il naso.
«Te l’avevo detto.» Borghesi spense il motore dell’Alfa nello spiazzo vicino alla strada sterrata
che scendeva verso i bungalow del pescaturismo di Zeccheto.
«Almeno ha smesso di piovere» commentò laconico il vice.
L’odore marcescente del fiume pizzicava le narici dell’ispettore. Percorsero in silenzio i metri
che li separavano dalla riva, Jacobi si guardò intorno con una smorfia disgustata. Borghesi lo precedeva
di pochi passi. Non videro nessuno sul pontile, le imbarcazioni a motore erano allineate e coperte da
una cerata blu.
«Cercate qualcuno?»
I due poliziotti si voltarono all’unisono. Da un capanno seminascosto tra i salici si affacciò un
vecchio. Impugnava un rastrello, un tubo di gomma verde appallottolato intorno alla spalla.
«È il custode» disse Borghesi indicandolo, e si diresse verso l’uomo.
«Salve, si ricorda di me?»
Il vecchio inclinò la testa e lo squadrò, non rispose.
«Sono passato un paio di giorni fa» ricordò Borghesi.
«Ah già. Sì, può darsi.»
Il vice prelevò di tasca il portafoglio e mostrò il tesserino della polizia. Il vecchio emise un
grugnito poco piacevole e puntò gli occhi su Jacobi, che non aveva ancora aperto bocca.
«Quello chi è, suo padre?»
L’ispettore sorrise per la tracotanza inaspettata, apprezzava sempre l’ostile diffidenza degli
sconosciuti, lo caricava.
«Temo di no» replicò e si avvicinò.
«Siamo della polizia di Pavia.» Antonio indicò il suo superiore con un cenno della testa.
L’uomo esaminò da vicino il tesserino di Borghesi e ripeté il grugnito.
«Se c’è qualche problema, io qui faccio solo le pulizie e controllo le barche» anticipò. «Per tutto
il resto, chiedete al padrone.»
«Per l’appunto» ribatté Borghesi. «L’ispettore Jacobi e io vorremmo fare due chiacchiere con
Pietro Tosatti, ma non riusciamo a raggiungerlo al numero che mi ha lasciato.» Estrasse dalla giacca il
foglio con l’annotazione a matita e lo mostrò al custode.
«Non capisco cosa c’è scritto» disse il vecchio socchiudendo le palpebre per decifrare la
calligrafia di Borghesi.
Jacobi sogghignò, finse di non cogliere l’occhiata che il vice gli lanciò di soppiatto.
«Il numero è giusto, non si preoccupi. Dove possiamo trovarlo?»
L’uomo rimuginò qualche secondo.
«Dobbiamo parlare con lui» intervenne Jacobi.
Il vecchio posò a terra il rastrello e il tubo di gomma, si tolse il berretto e lisciò la testa calva
con la mano. Fissò Jacobi in silenzio.
«Ci dica dov’è il padrone» disse l’ispettore, più risoluto.
Il custode si massaggiò la mascella.
«Che giorno è oggi?»
«Giovedì» rispose Borghesi.
Il vecchio controllò l’orologio e si voltò verso la strada. «Avanti cinque o sei chilometri
prendete la strada per Zeccheto. Seguite i cartelli per il centro fino alla parrocchia di don Aldo, è
l’unica chiesa del posto. Lo trovate lì.» Senza aggiungere altro, recuperò da terra rastrello e tubo di
..

gomma e si incamminò verso la fila di bungalow.


I due poliziotti lo osservarono mentre si allontanava lungo il pontile.
Borghesi lo raggiunse dopo qualche secondo. «L’uomo che ha visto uscire dal bungalow, quello
con lo zaino e la sacca in spalla, senza attrezzatura da pesca. Se lo ricorda? Da quale è uscito?»
Il custode si fermò e sollevò la testa su di lui. Increspò le labbra con gli occhi socchiusi, poi
sospirò, voltò la testa e indicò tre baracche sulla sinistra. «Il cinque, quello in mezzo.»
«Ha le chiavi?» Jacobi si avvicinò.
«Certo» rispose scontroso il vecchio.
«Voglio dare un’occhiata.»
«Avete il mandato?»
«No» ammise Jacobi.
Il vecchio scosse la testa, ma stava solo pensando. Posò sul pontile il rastrello e il tubo di
gomma, quindi marciò verso il bungalow 5 con il mazzo di chiavi in mano.
Jacobi e Borghesi lo seguirono a pochi passi, guardandosi intorno. Il custode armeggiò con il
lucchetto nuovo, infine spalancò la porta con la zanzariera che penzolava da un angolo e cigolava.
L’umidità aveva gonfiato il legno tarlato. Con la vernice scrostata e un aspetto generale che
manifestava carenza di manutenzione, era una baracca squallida e miserevole. Dall’interno buio esalò
una folata di aria chiusa, Jacobi dovette trattenere il respiro per un momento.
Il vecchio si fece da parte in modo scorbutico e attese che uno dei due varcasse la soglia. Jacobi
entrò per primo e si fermò per abituare gli occhi alla semioscurità. Dalle fessure delle persiane si
allungavano filamenti di luce biancastra, che illuminavano il pulviscolo e pochi scorci di quella stanza
opprimente. L’aria puzzava, non erano solo l’umidità e la mancanza di ventilazione. L’ispettore avanzò
e si guardò intorno. Lungo una parete di quattro metri, sotto le finestre, erano allineati una branda e un
comodino di plastica. Al muro di fondo erano appesi alcuni ganci e un rudimentale appendiabiti, con
gli ometti in fil di ferro tutti storti. Il resto dell’arredo comprendeva solo un tavolino pieghevole da
campeggio verde dissenteria.
«Quanto costa per notte?» domandò Jacobi più a se stesso che al vecchio.
«Dipende» rispose il custode.
«Da cosa?» L’ispettore si voltò.
«A volte il capo applica tariffe speciali per gli amici, o quando organizza le cose con la
parrocchia.»
«Che genere di ’cose’?» chiese Borghesi.
Il vecchio scrollò le spalle. «Scampagnate sul fiume, coi ragazzi dell’oratorio e il parroco, don
Aldo.»
«Il signor Tosatti è molto credente?» si informò Jacobi.
«Eh sì» rispose il vecchio con un ghigno.
Jacobi compì una panoramica del bungalow con lo sguardo. Si avvicinò al tavolo e si sporse per
esaminarlo da vicino, approfittando di una lama di luce che lo colpiva. C’era un sottile strato di
polvere, non si vedeva niente altro.
«Si può fare più luce qui?» protestò Borghesi implicando la richiesta di aprire le finestre.
«È una rottura» disse il custode, annoiato. «Alcune non si aprono, il legno è marcio.» Si
incamminò svogliato verso una finestra. «Va bene se apro solo questa? C’è bisogno di una sistemata,
qui dentro.»
«Non è il suo compito?» fece notare Jacobi.
«Già, già...» Il vecchio aprì rumorosamente i vetri e faticò un momento per spingere in fuori le
persiane con la zanzariera.
Quando ci fu più luce, Jacobi avanzò di qualche passo nella stanza, con gli occhi puntati sulle
assi di legno del pavimento. Sotto si sentiva il ritmico tambureggiare dell’acqua. L’ispettore si piegò
..

sulle ginocchia, esaminando eventuali macchie o graffi. Passò la mano su una tavola.
«Ha pulito il bungalow dopo che l’occupante l’ha liberato?» domandò.
Il custode si appoggiò di spalla allo stipite della soglia. L’ispettore cercò di immaginarselo a
vent’anni, che faceva il bullo nelle balere per rimorchiare qualche mondina, col pacchetto di sigarette
nella manica arrotolata della camicia e la brillantina sui capelli.
«Non ho avuto tempo» rispose il vecchio esaminando le unghie smangiate, e sputacchiandone
un frammento per terra.
«Immagino che abbia molto da fare.»
Jacobi sapeva cosa stava cercando. L’unghia del dito mignolo della Figlia di Frankenstein. In
cuor suo, l’ispettore sperava davvero di volgere lo sguardo per caso su un angolo del pavimento, e
individuare incastrata nel legno la minuscola unghia di una bambina di cinque anni.
Jacobi sollevò la testa e incrociò lo sguardo del custode. «So che ha qualche anno più di me e
dovrei portare rispetto.» L’ispettore si raddrizzò e sfregò le mani per pulirle dalla polvere. «Ma devo
proprio dirle che lei non mi piace affatto.» Lo oltrepassò sfiorandolo volutamente, senza staccare gli
occhi dai suoi.
«Andiamo a fare due chiacchiere col signor Tosatti» proseguì l’ispettore. «Ma lei non si
muova.»
«Dove vuole che vada? Vivo lì.»
Il custode indicò un’altra fila di bungalow, lungo la sponda, infrascata nella boscaglia.
L’ispettore si girò a fissare il vecchio. «E soprattutto chiuda la porta del bungalow e non tocchi
niente.»
Jacobi s’incamminò, con Borghesi che lo seguiva a poca distanza. Il vecchio custode sputò un
altro frammento di unghia, osservando la coppia di sbirri allontanarsi. Era inconsapevole che in quel
momento, a meno di due metri sotto di lui, un silurus glanis attraversava le acque melmose del fiume
per procacciarsi il pranzo nei canneti lungo la riva.
..

23

Zeccheto era un agglomerato di villette bifamiliari erette senza senso estetico in mezzo ai
campi. Jacobi calcolò che la popolazione non doveva superare le ottocento anime. La chiesa, un
edificio moderno che cercava di imitare grossolanamente le forme dell’architettura razionalista,
svettava in quella solitudine padana con l’inadeguatezza di un fast food nella giungla amazzonica.
Parcheggiarono l’Alfa davanti al tempio. Dal campo da calcio in terra e sassi dell’oratorio
adiacente, con le porte di ferro bianche, arrugginite e prive di rete, giungevano gli schiamazzi di una
partitella in corso. Vedevano nubi di polvere sollevarsi e sentivano i colpi sordi del pallone calciato,
che rimbombavano nel pomeriggio altrimenti soporifero del paese.
Salirono la scalinata della chiesa in silenzio. A pochi metri dall’ingresso, due signore di età
avanzata uscirono a passi lenti, con le borsette a penzoloni sulle braccia avvolte in golfini di lana,
probabilmente sferruzzati da loro stesse. Quando Borghesi e Jacobi le oltrepassarono sussurrando un
saluto, le donne alzarono su di loro uno sguardo diffidente e non ricambiarono la cortesia.
Il corpo principale della chiesa era a una sola navata, le panche di legno scuro allineate erano
occupate da un manipolo di fedeli, seduti in silenzio in ordine sparso, forse qualcuno addormentato. I
brutti mosaici sulle vetrate coloravano l’interno di una luce artificiale che non aveva nulla di divino.
Sopra l’altare, incassato in una specie di abside appena accennata, pendeva un crocifisso gigante di
marmo. Il Messia dalla testa inclinata sembrava sonnecchiare invece di suscitare pietà per avere pagato
il conto dei nostri peccati. L’aria sapeva di stantio, deboli scie di incenso si mescolavano all’aroma
sgradevole dei luoghi chiusi. Non si respirava conforto spirituale lì dentro, solo noia e rassegnazione.
Jacobi e Borghesi percorsero la navata con passo felino, attenti a non fare rumore. Solo il vice
accennò il segno della croce quando varcarono la soglia. Arrivarono in fondo alla navata e bussarono
alla porta della sagrestia. Nessuno rispose e non udirono passi provenire dall’interno.
«Diamo un’occhiata intorno?» propose Borghesi.
Prima di annuire, Jacobi provò di nuovo a bussare, e alla mancata risposta procedettero verso
l’uscita. Circa a metà strada, udirono lo scatto di una porta e una voce che li chiamava a decibel
misurati.
«Sì?»
Dalla porta socchiusa si affacciò un prete di mezza età. L’ispettore e il suo vice tornarono
indietro e si presentarono. Il prete li fece accomodare in una stanza dall’arredamento scabro ed
essenziale. Alle pareti erano appese riproduzioni di celebri dipinti che raffiguravano santi e Padri della
Chiesa.
«Stiamo cercando Pietro Tosatti» disse Jacobi. «È qui?»
Don Aldo li misurò con lo sguardo, poi fece un cenno per indicare di seguirlo. Attraversarono
un corridoio che puzzava di cera per pavimenti e quello che sembrava vomito, e sbucarono nella sala
interna dell’oratorio, che si sviluppava alle spalle della chiesa. Al centro della sala principale erano
collocati due tavoli da ping pong e alcuni biliardini, cinque o sei adolescenti impegnati nel gioco si
fermarono un momento per osservare i due sconosciuti. A giudicare dall’aspetto, potevano essere
piccoli spacciatori di provincia, e non era escluso che lo fossero.
Senza altre domande, don Aldo li condusse in una stanza munita di videoproiettore, appoggiato
su un banco scolastico. Probabilmente la sala cinematografica dell’oratorio, se non di tutta Zeccheto.
Un uomo era seduto in prima fila. Quando entrarono non si voltò.
«Pietro» disse don Aldo, «questi signori ti cercano.»
Tosatti si girò di tre quarti e si alzò in piedi.
«Signor Tosatti buongiorno, sono l’ispettore Jacobi della questura di Pavia, lui è il mio vice
Borghesi.»
..

Tosatti strinse la mano ai poliziotti e annuì.


«Cosa posso fare per voi?»
Jacobi cercò di leggere il suo sguardo, ma non interpretò alcuna emozione particolare. Lanciò
un’occhiata a don Aldo. «Possiamo fare due chiacchiere in privato?»
Il prete indietreggiò verso la porta. «Sono di là, se avete bisogno» disse cortesemente prima di
sparire nell’oratorio
Tosatti fece segno ai poliziotti di accomodarsi sulle sedie di plastica della sala.
«Riguarda la sua attività di pescaturismo» esordì Borghesi.
«È tutto in regola» ribatté subito Tosatti.
L’ispettore esaminò il suo abbigliamento. Indossava pantaloni militari kaki con tasconi laterali,
scarponcini da trekking e un gilet da pescatore a mezze maniche pieno di tasche, da cui spuntava un
maglione blu scuro con il tricolore sovrastato dalla scritta ITALIA all’altezza del tricipite.
«Non è per i permessi che siamo qui» anticipò Borghesi.
«Non per il momento, almeno» precisò Jacobi che voleva studiare le reazioni di Tosatti.
Borghesi tacque per cedere la palla all’ispettore.
«Che tipo di clientela frequenta il suo pescaturismo?» disse Jacobi.
Tosatti annuì e lo fissò. Aveva lo sguardo di chi non ha nulla da nascondere.
«Dipende dalla stagione» rispose. Parlava a bassa voce, in tono pacato, come se volesse
ammansire le belve.
«La maggior parte è clientela locale. A volte passano anche stranieri, gente a posto, non creano
problemi.»
«Che tipo di stranieri e che tipo di problemi?» si informò Borghesi.
Tosatti inarcò le sopracciglia mentre pensava. «Parecchi tedeschi e austriaci, qualche inglese.
Sapete, questo tratto di fiume abbonda di pesci siluro. Sono bestie enormi, alcuni arrivano anche a...»
«Diversi metri di lunghezza, lo sappiamo» lo interruppe l’ispettore.
Tosatti non batté ciglio e proseguì. «Per i problemi, così per dire, a volte qualcuno lascia i
bungalow in condizioni pessime. E mi tocca farglielo notare. Magari non reagiscono bene, ecco.» Li
guardò a turno. «Cosa volete sapere in particolare?»
L’ispettore drizzò le antenne. Ebbe l’impressione che Tosatti fosse più sveglio di quanto dava a
vedere. Si mostrava disponibile e collaborativo, ma lesinava partecipazione. Sembrava ripetere a
memoria un copione, un ruolo assimilato al punto da fare ormai parte della sua personalità. Jacobi saltò
i preamboli.
«È vero che le capita di affittare i bungalow a conoscenti e amici, anche se non praticano la
pesca sportiva?»
Tosatti intrecciò le mani, come se pregasse, e puntò gli occhi su Jacobi.
«Ve l’ha detto Carlo?»
«Il vecchio custode?» ribatté Borghesi.
Tosatti scosse la testa con un mezzo sorriso. «È un brav’uomo, ma non riesce a tenere la bocca
chiusa.»
«C’è qualcosa che non dovrebbe dire?» chiese Jacobi.
«Niente di grave, beninteso.» Fece una breve pausa. «Solo piccoli squallori di provincia.
Peccati veniali, diciamo.»
«Ci faccia un esempio» lo punzecchiò Jacobi.
«Sono nato e vissuto qui» spiegò Tosatti. «La mia vita ha preso strade diverse da quelle degli
amici con cui sono cresciuto. Forse venite dalla città, ma qui la gente si dà una mano senza chiedere
troppe spiegazioni, senza giudicare. Almeno in apparenza. Quello spetta a Dio.» Si interruppe di nuovo
per una manciata di secondi. «Ogni tanto qualcuno mi chiede in affitto i bungalow per portarci
l’amichetta di turno, sanno che di me si possono fidare. Non li faccio pagare, glieli presto. Vedete, si
..

tratta di modesti favori personali, anche se lo scopo non è certo esemplare.»


«È molto credente, signor Tosatti? Parla come un prete.»
Quello sorrise.
«Il fatto è che sono un prete. Anzi, lo ero. Un cappellano militare, per la precisione.» Indicò il
simbolo del tricolore sul maglione. «Mi sono liberato del collare, diciamo, ma non ho perso la fede.
Anche se c’è mancato poco, lo ammetto.»
Jacobi e Borghesi si scambiarono un’occhiata.
«La fede per l’esercito o quella verso...» Jacobi finì la frase roteando gli occhi al cielo.
Tosatti ridacchiò. «Be’, come recita il motto dei Marine americani: semper fidelis.»
«E com’è che adesso gestisce un pescaturismo?»
Tosatti aprì e congiunse le mani. «I casi della vita, appunto. Ho chiesto il congedo anticipato e
sono tornato da queste parti. Ho sempre pescato lungo il fiume, fin da bambino. Amo questo posto, non
c’è molto altro da aggiungere.»
«È per questo che la gente si fida di lei? Per il suo passato da prete?»
«Credo di sì, ma anche perché mi conoscono tutti. Bado agli affari miei, e lascio ad altri le
opinioni sulla morale del prossimo. Non mi interessa più.»
«Torniamo un momento ai suoi clienti» incalzò Jacobi. «Ha parlato di turisti stranieri. Sono più
o meno degli italiani?»
Tosatti si passò la lingua sulle labbra mentre rifletteva. «No, direi di meno. È un’attività
stagionale, gli stranieri vengono verso fine maggio.»
«Ormai ci siamo» osservò Borghesi interrompendolo.
«Già.» Tosatti annuì e proseguì. «La loro affluenza si intensifica per tutto giugno, parte di luglio
e quindi subisce un calo in agosto, mese affollato di italiani. Poi ha una lieve ripresa in settembre.
Siamo all’inizio dell’alta stagione, diciamo, ma quest’anno anche per le attività modeste come la mia si
sente la crisi.» Fece una pausa e guardò i poliziotti. «La gente che abita da queste parti ha le proprie
barche, persone che hanno sempre vissuto qui, vanno a pescare tutti i giorni. La maggior parte dei miei
clienti italiani proviene dalla città. Milano, Torino, Genova, persino Roma.»
«Tutti per il siluro?» domandò Jacobi.
Tosatti incassò le spalle. «È la celebrità del fiume. A chi non piacerebbe catturare un mostro ed
esibirlo come trofeo?» L’ex cappellano militare ammiccò vagamente ai poliziotti, o almeno così pensò
Jacobi, convinto di avere individuato una smorfia nella sua espressione.
«Qual è l’età media dei suoi clienti?» chiese l’ispettore.
«Se pensa che siano solo cariatidi e pensionati, si sbaglia. Il cliente di Roma, per esempio, mi
sembra poco più vecchio del suo collega.» Indicò Borghesi con un cenno.
«Come si fa pubblicità?» chiese Borghesi.
«Soprattutto passaparola tra persone che si conoscono, amici pescatori della zona.»
«A giudicare dal sito internet, non sembra che si prodighi molto per aumentare il flusso di
clienti» commentò Borghesi.
Tosatti rise. «È vero. Il sito fa schifo. Vedete, per me è un’attività parallela. Dopo il congedo mi
sono occupato dei terreni della mia famiglia. Una piccola azienda agricola, ma ce la caviamo bene.»
«Quindi il pescaturismo è un extra. Se è tutto in regola come sostiene, sono sicuro che non avrà
problemi a mostrarci il registro delle prenotazioni» disse Jacobi.
«Sì, certo. Non qui, ovviamente. È nel baracco che uso come ufficio, giù al fiume, insieme ad
altri documenti.»
Borghesi e Jacobi si guardarono.
«Potrebbe tornare con noi al pescaturismo?» chiese Jacobi.
Tosatti guardò l’ora e annuì. «Non c’è problema.»
Jacobi sorrise con affabilità forzata. In qualche modo, il cappellano non lo convinceva.
..

«Ho il furgone qui fuori, mi seguite?»


Borghesi annuì e fece strada a Tosatti. Lo seguirono attraverso l’oratorio, dove i ragazzini al
biliardino erano spariti. L’ex cappellano cercò don Aldo e gli spiegò succintamente che l’avrebbe
chiamato in serata. Borghesi e Jacobi si congedarono con un cenno del capo, quindi i tre uscirono in
strada dal passo carrabile. Tosatti si avvicinò a un Fiorino bianco che necessitava un lavaggio
immediato, salì a bordo e aspettò che i poliziotti gli facessero segno di partire. Borghesi mollò un paio
di brevi colpi di clacson e il piccolo convoglio si mosse sulla provinciale per tornare al pescaturismo di
Zeccheto.
..

24

Scesero con i veicoli fino all’estremità del sentiero sterrato che conduceva ai bungalow, si
fermarono a pochi metri dal pontile di legno dove una manciata di barche fluttuava placidamente sul
fiume. Non avevano ancora spento il motore che il custode si avvicinò a passi lenti e cauti verso il
Fiorino di Tosatti.
«Tutto a posto, Carlo.» L’ex cappellano scese dal furgoncino e sbatté lo sportello con eccessiva
forza. Jacobi e Borghesi lo guardarono perplessi per il gesto improvviso.
«Altrimenti non si chiude bene» rispose Tosatti. «Da questa parte.»
Scortati a debita distanza dal vecchio custode, attraversarono una stradina che si insinuava nella
boscaglia di salici bianchi.
«Quanto spesso le capita di prestare le baracche ai conoscenti?» chiese Borghesi mentre
camminavano.
Tosatti lo studiò prima di rispondere, corrugò la fronte abbassando gli occhi per riflettere. «Non
troppo spesso, capiterà al massimo cinque o sei volte l’anno.»
«Quando ha aperto questa attività?» si intromise Jacobi.
«Sei anni fa ho preso le barche, i bungalow c’erano già. Sono stato costretto a risistemarli tutti,
erano a pezzi.»
«Chi era il proprietario?»
«Un vecchio di Zeccheto, è morto l’anno scorso. Ho rilevato l’attività in fallimento.»
Arrivarono davanti a una baracca identica alle altre, forse leggermente più larga e curata.
Tosatti armeggiò con un mazzo di chiavi e aprì il lucchetto. Spalancò le finestre e accese una lampada
nell’angolo della stanza. Anche lì dentro si respirava aria di chiuso, umida e nauseabonda, mista alla
fragranza dolciastra dei salici, ma sembrava più ordinata e pulita. Dava l’impressione di essere
utilizzata regolarmente.
Vicino alla parete di fondo, su cui campeggiava un crocifisso di legno scuro rozzamente
intagliato, un’ampia scrivania di metallo lucido ospitava un telefono, un cestello con fogli archiviati
con cura e un vasetto da cui spuntavano penne e matite. Saltava subito agli occhi un fermacarte che
poteva essere di pietra, nero e dalle forme esotiche, forse un manufatto etnico. Jacobi notò l’assenza di
un computer, e domandò a Tosatti perché non lo utilizzasse.
«Non ho un buon rapporto con la tecnologia. E per questo genere di attività non mi serve, basta
solo un registro cartaceo. Ho un portatile che tengo a casa, per l’azienda agricola e alcuni documenti
fiscali e bancari. Le prenotazioni online le gestisco da casa, stampo tutto e inserisco nel registro.» L’ex
cappellano scrollò le spalle, sempre con quella smorfia un po’ bonaria.
L’ispettore cominciava a non sopportare la sua pacatezza innaturale, quel sorriso di
compiacenza che gli uomini di fede spesso si stampano in faccia. Passivi di fronte agli orrori del
mondo, con la scusa che bisognava sopportare il male perché c’era un «piano superiore», o un «disegno
più grande». Più grande di cosa? Forse credeva anche lui in Dio, si era posto la domanda più volte,
senza i mezzi per trovare risposta. Ma per lui Dio era una questione privata. Immaginava che tutti
avessero il proprio, e che a seconda delle occasioni e dei contesti poteva talvolta essere simile a quello
di milioni di altri.
«Perché non è più cappellano militare?» Jacobi fu il primo a parlare.
Tosatti sospirò.
«In certe situazioni, contesti particolari... estremi, i soldati sono la cosa più lontana che esista
dalla luce di Dio. Al di là di ogni redenzione. E la cosa peggiore, per l’uomo di chiesa che ero allora, è
la consapevolezza che una certa brutalità sia necessaria per ristabilire l’ordine. Bisogna reagire, non è
possibile porgere sempre l’altra guancia. Il mondo è molto diverso dai tempi di Gesù Cristo. È così che
..

un prete perde la fede, e un soldato la testa.» Fece una pausa, si mordicchiò le unghie della mano. «Non
dico che siano tutti animali, forse sono stato sfortunato io a ritrovarmi con certi soggetti. Forse non ero
un granché come prete...» Scosse la testa. «Non ne potevo più, rischiavo di rinnegare Dio e la ragione.»
Jacobi e Borghesi si scambiarono un’occhiata. In qualche modo, le parole di Tosatti smentivano
l’idea che l’ispettore si era fatto di lui, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che
quell’uomo nascondesse abissi insondabili. Senza bisogno di spronarlo, Tosatti riprese a parlare.
«Sono stato in Somalia nel ’93, una ferma di otto mesi, divisa in due periodi da quattro
ciascuno, poi in Kosovo nel ’99. In mezzo, una serie di altre missioni, se perdonate la battuta, in posti
dimenticati da Dio. Ne avevo abbastanza. Angherie, soprusi, comportamenti bestiali. L’umanità al suo
punto più basso.»
«In che senso?» domandò Jacobi.
«Be’, la leva l’avete fatta anche voi, perciò avete presente il cameratismo che si instaura tra
soldati. Quel sentimento di unione con i compagni è vitale. Una specie di legge. Ci si protegge a
vicenda, anche di fronte a gesti repellenti. Soprattutto in quei casi, anzi. Se non ci stai, finisci per essere
preso di mira, isolato, denigrato, o peggio. Perdi subito onore e rispetto, un’esclusione senza mezzi
termini. Non sono cose che finiscono col congedo, a volte certe schifezze ti restano nel sangue. Insieme
a episodi e immagini...» Lo sguardo di Tosatti si perse nella memoria. «In un piccolo villaggio a ovest
di Mogadiscio, durante una perlustrazione dalle parti di Afgooye se mi ricordo bene, interrompemmo
un rito magico. Uno stregone stava per fare a pezzi un albino. Laggiù sono considerati un abominio
della natura, portatori di sventura. Fanno bollire le parti del corpo e gli organi per preparare pozioni e
unguenti contro gli spiriti maligni. E se ottenuti smembrando persone vive, gli effetti dei talismani sono
ancora più potenti. Un vero e proprio traffico, e non parlo solo di adulti. Purtroppo, anche parecchi
bambini ne fanno le spese. Sul mercato, un albino adulto vale anche venti o trentamila euro, una
fortuna in quelle zone. Per un bambino, la cifra si raddoppia tranquillamente. È un fenomeno legato più
all’Africa nera, Kenya e Tanzania soprattutto. Ma succede anche in Somalia e altri stati africani.»
Tosatti si morse il labbro superiore e rimase un momento in silenzio. «È per questo che ho
mollato, non potevo più voltare la testa dall’altra parte, porgere l’altra guancia a me stesso. Insomma,
ne avevo abbastanza degli schiaffi che mi tiravo da solo.» Si sforzò di sorridere, era evidente che quei
ricordi lo turbavano.
Jacobi ci pensò un momento prima di aprire la bocca. «Stiamo cercando qualcuno che ha fatto a
pezzi una bambina di cinque anni, dopo averla violentata e uccisa e marchiata a fuoco, prima di
infilarla nella pancia di un siluro di quasi quattro metri. Ne ha sentito parlare? L’hanno trovato morto al
Ponte della Becca.»
Tosatti ascoltò con un’espressione neutrale, da confessore.
«Non ne sapevo niente» disse scuotendo la testa. «Marchiata a fuoco ha detto?»
«Proprio così.» Jacobi si domandò tra sé perché proprio quel particolare aveva suscitato la
curiosità dell’ex cappellano militare. «Le viene in mente qualcosa?»
Tosatti rispose con un ritardo di qualche secondo. «No, no. Per carità. È solo...»
Borghesi tossì, i due uomini si voltarono a guardarlo come se chiedesse la parola.
«Quando è successo?» chiese Tosatti.
«Abbiamo ritrovato il corpo pochi giorni fa» rivelò Jacobi in tono quasi assente.
«Sui giornali non ho letto niente» ammise Tosatti.
«Esatto.» Jacobi si alzò ed estrasse dall’impermeabile il pacchetto di sigarette. «Non ha fatto
notizia.»
«Scusi» disse Tosatti, «qui non si può fumare».
«Nemmeno se tengo la sigaretta fuori dalla finestra?» tentò Jacobi.
«No, mi dispiace.»
L’ispettore annuì imbronciato e ripose in tasca le Pall Mall.
..

«Il custode, Carlo, mi ha detto di avere visto un uomo, più o meno una settimana fa, allontanarsi
da uno dei bungalow. Non lo conosceva, e ha pensato che fosse uno dei suoi amici» disse Borghesi.
Tosatti annuì. «Possibile.»
«Quando il custode l’ha avvisata per telefono, in base a quello che mi ha raccontato, lei gli ha
detto di non preoccuparsi, che era tutto a posto. Conferma?»
«È vero, Carlo mi ha telefonato, ma avete visto che è un uomo anziano, la sua memoria non è
molto affidabile. Quando non riesco a venire qui, ci sentiamo quasi tutti i giorni. Può avere fatto
confusione sulla data.»
«Ha insistito sul fatto di non sapere chi fosse quell’uomo» precisò Borghesi. «Il custode
sostiene che trasportava una sacca per pesci di grosse dimensioni. Ma il tizio non aveva attrezzatura da
pesca. Il periodo corrisponde con il ritrovamento del siluro e della bambina. Non abbiamo elementi per
collegare le due cose, ma dobbiamo vagliare ogni possibilità.»
«Certo, capisco.» Tosatti annuì vigorosamente. «Se non aveva attrezzatura da pesca,
evidentemente era un mio amico e non l’ha riconosciuto. Pensate abbia a che fare con la vostra
indagine?»
Jacobi sentiva la mancanza di qualcosa, ignorò la domanda di Tosatti. «Se le capita di affittare
le casupole ai suoi amici cinque o sei volte l’anno, dovrebbe ricordarsi chi c’era una settimana fa, no?
Immagino che almeno avrà segnato il nome sul registro. Oppure la sua memoria non è più fresca di
quella del vecchio custode?»
«Agli amici non chiedo i documenti per la registrazione, segno solo un nome, magari le iniziali,
una sigla o un nomignolo, come promemoria personale nel caso qualche cliente ’vero’, pescatori
intendo, mi contatti per affittare un bungalow.»
«Tutto in regola, insomma» osservò Jacobi senza mascherare il sarcasmo.
Tosatti afferrò l’intenzione. «Già, come vi ho detto» replicò sostenendo lo sguardo di Jacobi.
L’ispettore lesse in quegli occhi nocciola che l’ex cappellano non aveva simulato la
sgradevolezza del suo passato militare. Eppure brillavano di una luce nera che poteva non avere a che
fare con le esperienze che aveva vissuto sulla pelle. Erano occhi turbati da scene riprovevoli, retrocesse
in un angolo della memoria ma impossibili da dimenticare. Anche lui possedeva ricordi simili.
Tosatti passò dietro la scrivania, aprì un cassetto e posò sul tavolo un registro dalla copertina
plastificata verde, piuttosto vissuta, e una cartelletta di cartoncino.
«Qui ci sono il registro con le prenotazioni e le fotocopie dei documenti di identità dei clienti.»
Sollevò le carte in aria. «Ci sono licenza di esercizio e i permessi, l’iscrizione e l’atto di passaggio di
proprietà.» L’ex cappellano consegnò a Borghesi la cartelletta con i documenti. «Abbiamo finito?»
aggiunse palleggiando lo sguardo tra i due poliziotti.
L’ispettore si guardò intorno e annuì tra sé. Indicò il fermacarte. «Da dove arriva?»
Tosatti raccolse il pesante oggetto e lo rigirò tra le mani. «Dalla Somalia.» Fece un cenno verso
il crocifisso alla parete. «Anche quello. Li facevano i bambini in una scuola di missionari. Forse non
sapevano nemmeno che significato avesse.»
«Posso?» chiese Jacobi allungando una mano.
«Certo.» Tosatti gli consegnò il fermacarte. Ne saggiò la consistenza soppesandolo sul palmo.
Rappresentava una testa di donna, con la nuca arrotondata come una palla da biliardo, e il viso dai
lineamenti africani che si affusolava all’estremità opposta. Era un oggetto di buona fattura. Jacobi lo
esaminò, girandolo su ogni lato. Cercava una parte ammaccata, oppure con qualche residuo da grattare
via, ormai secco. Non poté fare a meno di immaginare, fin dal primo momento in cui l’aveva notato,
quel fermacarte che cadeva pesantemente sulla testa della bambina. Come aveva detto Dettori: «Il
colpo inferto alla nuca è stato secco e deciso. Non si tratta di un oggetto contundente, direi più
arrotondato ma molto pesante...»
Jacobi chiuse gli occhi mentre toccava il fermacarte, vide una mano che impugnava il
..

manufatto e lo abbatteva sulla bambina.


«Ha mai visto una persona fatta a pezzi, signor Tosatti? Durante gli anni di servizio, voglio
dire» chiese Jacobi posando il fermacarte sul tavolo.
«È mai stato in una zona di guerra, ispettore?»
«Lo prendo come un sì.» Jacobi se ne infischiò del divieto, si avvicinò alla finestra e si accese
una sigaretta. Tosatti non protestò. «In ogni caso, non sono mai stato in zona di guerra. Ho fatto il
carrista ad Albenga, se ci tiene a saperlo. Il maggiore pericolo che ho corso è stato farmi riempire di
botte dal fidanzato di una ragazza con cui ci provavo.
«È un’esperienza formativa, glielo assicuro» disse l’ex cappellano più a se stesso che ai
poliziotti.
«Per me è stata una perdita di tempo, mi ha fatto comodo solo per entrare in polizia qualche
anno dopo.» Jacobi sbuffò il fumo fuori dalla finestra, e perlustrò di nuovo il bungalow con lo sguardo,
fissando il crocifisso per qualche secondo. «Visita spesso la parrocchia?»
«Don Aldo è una brava persona. Lo aiuto a organizzare qualche attività ricreativa per i ragazzi
del posto. Qui non c’è molto da fare, tanti rischiano di prendere cattive strade.»
Jacobi annuì e pensò ai giovinastri che giocavano al calciobalilla all’oratorio.
«Durante l’estate, metto sempre a disposizione della parrocchia il pescaturismo per gite sul
fiume. Quando non ho altri clienti, ovviamente» proseguì Tosatti.
Jacobi e Borghesi si scambiarono un cenno d’intesa.
«Bene, signor Tosatti. Grazie per il suo tempo.»
«Nessun problema. In ogni caso, vi scrivo il numero e l’indirizzo di casa.»
L’ex cappellano prese una penna dal vasetto sulla scrivania e si chinò su un foglio bianco, preso
da una risma ordinata a portata di mano.
Mentre uscivano, Jacobi si voltò verso Tosatti.
«Un’ultima cosa, le dice niente il nome Baba Yaga?»
Tosatti aggrottò la fronte e rifletté un momento. «In Kosovo c’era un gruppo di soldati che si
faceva chiamare con quel nome.»
«Che tipi erano?»
Tosatti scrollò le spalle. «Mercenari. Non li ho mai incontrati, ho solo sentito storie su di loro.
Erano famosi per le mutilazioni sui corpi dei nemici. Li temevano tutti.»
Jacobi annuì senza disfarsi del sorriso. «Grazie. In caso, ci rifaremo vivi.»
..

25

L’acqua è un pulviscolo di particelle giallastre, sporche, al contatto è quasi oleosa. Non filtra
luce in quel liquido unto. Remo avanza a fatica, spalanca gli occhi per mettere a fuoco, ma è tutto
inutile. Con un ampio movimento delle braccia si sospinge verso la superficie, rallentato dai vestiti.
Finalmente emerge e sputa quell’acqua malsana. Solleva le palpebre e dà un’occhiata intorno.
Istintivamente porta lo sguardo al cielo per il rombo potente di un tuono lontano, ma non troppo. Le
nuvole si ammassano all’orizzonte in movimenti concentrici, irreali e grottesche, sopra di lui è solo un
tappeto di varie sfumature di grigio.
Remo si tiene a galla muovendo le braccia. Lo stagno in cui è immerso è cupo e tetro, e non
ricorda come ci è finito. Eppure, in qualche angolo nascosto della sua mente, conosce quel luogo, l’ha
già visitato. Una specie di ricordo d’infanzia, dal sapore lontano, una memoria sgradevole mai del tutto
rimossa. Sbirciando a destra e sinistra, nuota verso la sponda più vicina, ricoperta da una vegetazione
fitta e poco attraente: una foresta rinsecchita e grinzosa, alberi neri e senza foglie, le geometrie rigorose
dei rami spogli si abbinano a cespugli spinosi, pieni di astio verso la vita.
Esce dall’acqua e si volta indietro appena appoggia i piedi sulla riva fangosa, giusto in tempo
per scorgere un’increspatura sinistra nel punto da cui è emerso poco prima, e qualcosa simile al dorso
di una poderosa creatura che si inabissa. Remo non si chiede cosa sia, non è spaventato e nemmeno
incuriosito. Vuole semplicemente sapere dove diavolo si trova.
Un movimento nella boscaglia catturato con la coda dell’occhio lo costringe a voltarsi di scatto.
Una macchia bianca, luminosa, che si allontana di corsa da lui. Remo si aziona, insegue l’impressione
cromatica. Dopo qualche metro si ferma di colpo e si guarda in giro, affonda le mani nelle tasche
dell’impermeabile e solo allora si accorge di essere completamente asciutto. Non fa in tempo a
sorprendersi dello strano fenomeno, la macchia bianca si manifesta qualche metro alla sua destra.
Remo si lancia in quella direzione e chiama.
«Ehi!»
Il terreno sale, prima leggermente poi si fa più ripido. Deve appoggiarsi a terra con le mani per
scalare il declivio e non scivolare sul terriccio melmoso. Vicino alla sommità, alza gli occhi. La
bambina col costume da bagno bianco lo fissa immobile, con la testa leggermente inclinata. «Aspetta!»
esclama Remo quasi senza fiato. «Ti prego, fermati!» La bambina rimane congelata qualche secondo
prima di voltarsi e sparire oltre la curvatura della collina, cammina lentamente, senza più fretta di
fuggire.
Remo aumenta il ritmo dell’arrampicata, inciampa un paio di volte e perde un metro o due. Con
un certo sforzo e ribrezzo si appiglia alle radici degli alberi scheletrici, schifose al tatto, e finalmente
giunge sulla cima. Davanti a lui si spalanca una radura, al terriccio cimiteriale si sostituisce una distesa
d’erba verde marcio, ma ben curata. La visibilità è limitata, una nuvola bassa, molto densa, gli
impedisce di intuire il paesaggio che lo accoglie. Riesce a malapena a distinguere la sagoma della
bambina, seduta di spalle nel prato a una dozzina di metri da lui. Il costume bianco come un faro
antinebbia.
Remo si avvicina, i suoi passi quasi non producono suono, nemmeno il friabile calpestio dei fili
d’erba disturba il silenzio irreale di quel luogo.
«Piccola?»
È quasi a portata di braccio. La bambina non si volta. Remo torreggia sopra di lei,
delicatamente si inginocchia e con una certa titubanza le posa una mano sulla spalla. La bambina tiene
le braccia strette sulle ginocchia piegate, la testa infossata. Una leggera brezza muove il caschetto di
capelli biondo cenere.
«Piccola?» Remo prova di nuovo.
..

La bambina solleva il viso e si volta a fissarlo. L’incarnato spettrale non toglie nulla alla sua
dolcezza. I grandi occhi azzurri, le labbra piccole e rosse la dichiarano viva. Accenna un sorriso, Remo
ricambia.
«Come ti chiami?» chiede.
La bambina lo studia un momento.
«Sofia.»
Incoraggiato, Remo si siede accanto a lei.
«Cosa ci fai qui, Sofia, ti sei persa?»
La bambina scuote piano la testa.
«Abiti vicino?»
Sofia ci riflette sopra, poi annuisce.
«Sarà meglio che ti porti a casa. I tuoi genitori saranno preoccupati.»
La bambina si imbroncia, l’espressione gentile si oscura quasi impercettibilmente. «Non posso
tornare a casa.»
Remo si lecca le labbra, incupito. La psicologia infantile per lui è una scienza occulta.
«Perché?» È l’unica domanda che gli viene in mente.
Sofia si volta a guardarlo. «Fa freddo lì dentro.»
«A casa? Dove?»
«Nella pancia del mostro.»
Remo aggrotta la fronte, questa non se l’aspettava. Apre bocca per parlare, ma la bambina lo
anticipa.
«Ti prego, non venire più a cercarmi.»
«Non capisco, Sofia.»
La bambina sposta gli occhi sulla distesa nebbiosa davanti a loro. «Non ti ho invitato io. E se ti
perdi, non potrò aiutarti.»
«Perdermi? Spiegati. Invitarmi dove?»
Un fragore secco, un crepitare di rami spezzati si alza dal cuore della nuvola bassa sull’erba.
«È qui.» Sofia si alza in piedi di scatto.
Remo la osserva un momento prima di imitarla. Punta lo sguardo seguendo la traiettoria della
bambina, socchiude la palpebre perché dentro l’ammasso vaporoso qualcosa sta prendendo forma.
«Devo andare.» Si gira e Remo vede la sua pelle diventare bianca, gli occhi vitrei e le labbra
blu. Il volto di un annegato. «E anche tu.»
Remo guarda verso il centro della radura, dove si profila la sagoma di una baita di legno,
sorretta da due mostruose zampe di gallina. Le assi di cui è composta si assestano cigolando, uno
stridio perforante e innaturale che sembra provenire dall’intero edificio, quasi urlasse. Remo rimane a
bocca aperta, senza parole, poi un singulto gli blocca l’aria in ingresso.

Un secondo dopo, Jacobi riemerse singhiozzando dalla vasca da bagno. Si era di nuovo
addormentato. Sputò l’acqua impastata dal bagnoschiuma con qualche colpo di tosse, passandosi la
mano sugli occhi e sui capelli bagnati, sturando il naso occluso. Sentì bussare alla porta.
«Remo?»
«Sì, tata.»
«Tutto bene lì dentro?»
Jacobi sospirò, si allungò nella vasca. L’acqua si era raffreddata. «Mi sono assopito.»
«Sbrigati, è quasi in tavola.»
«Sì, cinque minuti e arrivo.»
Jacobi riconobbe il passo strascicato del padre allontanarsi nel corridoio, poi una porta si chiuse.
..

Allungò la mano per aprire al massimo il rubinetto col pallino rosso e ripristinare una temperatura
accettabile dell’acqua.
«Cristo» mormorò tra sé.
Serrò un momento le palpebre, con un leggero tremito di paura. I suoi stramaledetti incubi
ricorrenti. Non c’era rimedio. Aveva provato di tutto, senza risultati. L’unica soluzione era
assecondarli, e sperare che finissero alla svelta. A differenza di altri, che da sveglio ricordava
benissimo in tutti i loro particolari vividi e inquietanti, questo era svanito quasi senza lasciare traccia.
L’unico ricordo era una specie di sensazione, accompagnata da quell’immagine assurda: la casa di
Baba Yaga, con le sue spaventose zampe di gallina.
Chiuse di nuovo gli occhi. Meccanicamente gli venne in mente la visita all’obitorio. Fu in quel
momento, mentre scandagliava con la memoria i particolari dell’autopsia che si rese conto di un indizio
della sua follia. La casa del suo incubo era una replica esatta del marchio a fuoco sulla caviglia della
piccola. Identica a quella della strega, sintesi di tutti i mali, che lo terrorizzava da bambino. E a quanto
pare non voleva abbandonarlo nemmeno da adulto.
..

26

Jacobi lasciò acceso il motore dell’auto per scaldarlo, era pronto alle due ore di strada circa
verso Borgosaldo. L’orologio digitale dell’Alfa segnava le cinque e mezzo di mattina, un’altra
levataccia per l’ispettore di provincia. Barbara Moroni lo aspettava, ed era stata categorica: «Mi
raccomando, arrivi prima delle otto, altrimenti non si può fare un’idea dello spettacolo».
Jacobi accese una sigaretta e aprì di pochi centimetri il finestrino. Appoggiò la testa allo
schienale e aspirò una boccata dritto in gola fino ai polmoni, esalando solo una sbiadita nuvoletta di
fumo. Era la mattina di sabato, non ricordava mai se i camion avessero il divieto di transito autostradale
dalla mezzanotte di venerdì o di sabato. Si riservò di sciogliere il dubbio con la prova sul campo,
ingranò la prima, accese gli anabbaglianti e si allontanò dalla cascina. Dal retrovisore, vide accendersi
la luce della cucina. Immaginò Johan che avanzava in ciabatte nella stanza, con l’accappatoio, l’aria
assonnata e gli occhi cisposi, che si grattava la schiena sbadigliando al nuovo giorno. Anche l’ispettore
sbadigliò.
Alla rotonda in fondo a viale Cremona svoltò a destra lungo la Provinciale 202. Arrivò
all’ingresso della A21 verso Mantova, quasi confortato dal segnale acustico del telepass quando si
sollevò la sbarra del pedaggio. Per il momento, era stato fortunato. Aveva incrociato solo un pugno di
veicoli fino all’ingresso in autostrada, era un breve tratto prima di uscire e allacciarsi alla Statale 10.
Immettendosi nella corsia di marcia normale, un fascio di luce abbagliante lo investì dal deflettore
sinistro, e per un momento chiuse gli occhi di scatto, pestando il piede sul freno. Dallo spiffero del
finestrino entrò uno sbuffo d’aria fredda accompagnato da un sibilo mentre un autoarticolato sfrecciava
accanto all’Alfa a una velocità ben superiore a quella consentita.
Jacobi fugò ogni dubbio sul traffico di camion nei fine settimana. Ripartì dopo che altri due tir
lo superarono, e si spostò subito nella corsia centrale. Dietro di lui, come dischi volanti sospesi
sull’asfalto, i fanali di altri veicoli in marcia disegnavano monotone traiettorie di movimento. A
velocità diverse, piccole utilitarie, berline e furgoncini superavano Jacobi e venivano a loro volta
superati. Quando poteva, Jacobi sbirciava all’interno degli abitacoli che lo oltrepassavano. C’era chi
viaggiava solo, e ricambiava lo sguardo; altri erano in coppia, di solito il passeggero dormiva. Jacobi
giocò a immaginarsi l’esistenza dietro quei volti. Assegnava ai suoi fantocci un lavoro, una famiglia e
uno status sociale, li vedeva tornare a casa per cena o giocare a biliardo con gli amici dopo l’ufficio,
oppure nascosti da un velo di monotonia apparente, quando in realtà nascondevano vite segrete –
magari anche solo mentali – impossibili da prevedere. Era questa imperscrutabilità degli uomini che
spaventava Jacobi.
Si era già domandato, in altre occasioni, se per caso la sua capacità di giudizio si fosse incrinata
in qualche punto, e lui se ne fosse accorto in ritardo. Non riceveva più impressioni folgoranti, niente lo
stupiva nelle indagini a cui lavorava. La curiosità era in fondo alla sua lista di stimoli. Era schifato oltre
il punto di non ritorno. Si muoveva come un automa, un cursore in movimento appena viene sollecitato
da un comando, ma in fondo privo di coscienza. Forse Antonio aveva ragione, il suo era solo un
mestiere. Dopo un po’, era come timbrare i bolli in posta o avere riunioni tutte le mattine alle nove. Ci
si abitua, la sorpresa non esiste più. Si guarda oltre, chiedendosi: «E dopo?»
Buttò un’occhiata al cellulare lanciato sul sedile del passeggero, il display si era illuminato di
colpo. Era un messaggio della Moroni, chiedeva dove fosse. Jacobi rispose spostando di continuo gli
occhi dalla tastiera alla strada, e prima di inviare ipotizzò un orario di arrivo. Infine confermò con
«OK» e gettò con noncuranza l’apparecchio sul sedile.
Fuori, l’alba si profilava dalle sagome di capannoni industriali e cascine diroccate, spettrali in
quella mezza luce. Jacobi non fece più caso al traffico intorno a sé, procedeva tranquillo a velocità
costante verso Borgosaldo, per assistere di persona alla mattanza dei pesci siluro.
..

Il cielo si velò sempre di più quando Jacobi uscì dal casello dopo Cremona, inserendosi sulla
SS10 che proseguiva sonnolenta fino allo svincolo per la Provinciale 78 in direzione San Michele, e
infine verso Borgosaldo.
L’ispettore accese una sigaretta, guidava quasi in trance, senza rivolgere il minimo pensiero
all’incombenza della giornata. La monotonia del paesaggio non stimolava certo fantasie o riflessioni
particolari: sembrava di attraversare un infinito quadro impressionista, dipinto da un appassionato di
campi e coltivazioni tutte identiche tra loro. La noia della pianura padana, che conservava un suo
fascino in ogni caso, unica nella sua fredda ed elegante piattezza, costrinse Jacobi a una sosta in
autogrill per un caffè corretto grappa. Mosse le pupille dalla strada per verificare la distanza fino alla
stazione di servizio successiva, indicata su un cartellone di latta verde e bianco con la pompa di benzina
stilizzata, la marca del carburante e le tariffe, bozzato in più punti. Jacobi immaginò un viaggiatore che
aveva accostato per prenderlo a pugni, colto da un attacco di rabbia per il costante rincaro dei prezzi.
Appena aprì lo sportello dell’Alfa 155 dovette chiudere il bavero dell’impermeabile per una
folata di vento inaspettatamente gelido. Alzò lo sguardo al cielo, le nuvole si muovevano snelle
nonostante l’evidente fardello d’acqua che contenevano. Tirava una brutta aria. Jacobi percorse svelto i
pochi passi fino alla porta, fece per spingerla quando si aprì dall’interno, e l’ispettore si trovò di fronte
due agenti della Polstrada che tornavano alla loro auto. Era parcheggiata proprio davanti all’entrata.
Non se n’era accorto.
«Buongiorno» disse Jacobi ed entrò prima che gli agenti uscissero, un gesto automatico, in
fondo era un loro superiore. Il poliziotto che teneva la porta lo guardò avvicinarsi alla cassa mentre il
collega usciva, e disse seccato: «Prego, eh».
Jacobi si voltò, come se lo avesse interrotto a metà di chissà quali calcoli astrofisici, senza
intendere il tono. Annuì con un mezzo sorriso da robot e ordinò il caffè. Il poliziotto scosse la testa,
s’infilò il cappello e uscì.
L’unico altro avventore a quell’ora era un uomo di mezza età, con baffi a manubrio biondi, gilet
di pelle e t-shirt. Le braccia spesse come tronchetti ma flaccide per la supremazia dei lipidi erano
istoriate da tatuaggi variopinti, che non manifestavano un’intelligenza dietro il loro schema. Alcuni
erano orribilmente sbavati e scoloriti, altri monocromi e quasi cancellati rivelavano una mano
maldestra e scarsa qualità dell’inchiostro utilizzato, ormai ridotto a un azzurrino pallido e a tratti
illeggibile. Jacobi era quasi sicuro che almeno un paio recassero il segno della detenzione, retaggio di
qualche pena scontata in gattabuia. La pancia debordava dai jeans sgualciti, pendeva floscia verso il
pavimento, una conferma non certo edificante della legge di gravità. L’uomo sorseggiava assonnato
una tazza fumante, con gli occhi incollati allo schermo appeso alla parete, un breve notiziario del
mattino con le informazioni sul traffico, cui seguì un servizio sull’imminente Gran Premio di Formula
1 in Spagna.
La cassiera uscì dalla cucina con una teglia di croissant industriali appena sfornati. Jacobi ne
prese uno e cercò in tasca le monete per pagare.
«Il suo caffè.»
L’ispettore si voltò. Un’altra dipendente posò la tazzina sul banco e strappò lo scontrino che
Jacobi aveva appoggiato vicino alla zuccheriera.
Al primo sorso sentì squillare una squallida suoneria dance di cellulare. L’altro cliente affondò
una mano in tasca e pescò un telefono, esaminò un secondo il display e lo avvicinò all’orecchio.
Rispose in una lingua sconosciuta, dall’inconfondibile taglio slavo.
Jacobi rimase in ascolto, concentrandosi sul sapore fin troppo amaro di un caffè fatto alla svelta.
Era meglio quello della questura. Cercò di cogliere qualche parola, consapevole di fallire, alla ricerca di
una potenziale radice comune delle parole per accostarle a un possibile significato italiano. Ma gli
giunsero solo brevi suoni smozzicati che alternavano fonemi duri a slanci melodici di vocali aperte.
Poteva essere la lingua degli angeli, o il marziano, per quanto ne sapeva. Dopo meno di un minuto,
..

l’uomo ripose il cellulare in tasca, finì il suo intruglio bollente e uscì dall’autogrill.
Con metà croissant in bocca, Jacobi attese una manciata di secondi e lo seguì. Lo vide
allontanarsi verso un autoarticolato in sosta dopo le pompe di benzina. Gettò la metà rimasta del
croissant nel cestino e accese una Pall Mall. L’uomo salì sulla pedana dello sportello ed entrò nella
cabina di guida dell’imponente veicolo. L’ispettore raggiunse l’Alfa e s’infilò veloce nell’abitacolo,
mentre il camion partiva lento verso l’imbocco della provinciale. Jacobi allacciò la cintura e mise in
moto, quindi seguì il bestione fino a raggiungerlo sulla carreggiata, a cinque o sei metri dai fanali di
coda del rimorchio. Il portellone doppio era bloccato da un robusto e minaccioso gancio di acciaio,
sulla superficie bianca smaltata campeggiava un logo blu scuro con una grossolana sfera a
rappresentare il pianeta, e una freccia che ne percorreva l’orbita: EUROGLOBAL TRANSFER, e sotto
il recapito della sede a Budapest.
Jacobi abbassò il finestrino di pochi centimetri e lanciò impunemente la cicca di sigaretta sulla
strada, quindi richiuse per la temperatura ostile di quella primavera iniziata male. Un momento dopo,
sul parabrezza caddero due gocce pesanti che si spaccarono sul vetro come uova in padella. I filamenti
d’acqua piovana si allungarono verso il basso, poi Jacobi attivò il tergicristallo spappolando senza
alcuna pietà il tuorlo trasparente della pioggia. Decise di seguire il camion ungherese per un po’, tanto
la strada era la stessa. Controllò l’ora sul cruscotto, meditò se avvisare la Moroni con un messaggio, ma
se ne dimenticò subito e allungò una mano nell’impermeabile per un’altra sigaretta.
..

27

Jacobi seguì il camion per circa quaranta chilometri, fino all’imbocco con la SP56, l’ultimo
tratto prima di arrivare a destinazione. Aveva controllato la strada sul computer in ufficio, il giorno
prima. Borghesi aveva insistito per prestargli il navigatore satellitare, ma l’ispettore non bazzicava la
tecnologia, temeva di perdersi. In ogni caso, la tentata spiegazione di Borghesi sul funzionamento
dell’aggeggio («Praticamente un giocattolo»), aveva convinto Jacobi che nemmeno lui sapesse
esattamente come operava. Sospettava che glielo avesse regalato e impostato sua moglie Anita, donna
pratica e moderna.
La Moroni aveva chiamato due volte. Il primo appello ignorato da Jacobi, il secondo sciolto con
un rapido scambio di monosillabi per confermare il suo arrivo imminente.
Cosa si aspettava di trovare sulle rive del grande fiume Po? Una scena infernale? Slavi coperti
di sangue che urlavano al cielo il proprio furore? Un’orgia di carni ittiche mescolate ai vapori dei vicini
campi concimati? Di sicuro non immaginava di trovare indizi o piste per scoprire chi fosse la bambina.
Alla fine della strada Borgosaldo-Macario raggiunse il piccolo centro abitato, infilò via Pascoli
e la seguì per un paio di svolte fino a ritrovarsi in via Argine Po, dove parcheggiò lungo il ciglio della
strada a due corsie. Prima di spegnere il motore, Jacobi controllò l’ora: un quarto alle otto. Uscì dallo
sportello col respiro trattenuto, ma cedette dopo una manciata di secondi, pronto ad accogliere le
esalazioni del posto. Con sua sorpresa, l’aria era quasi inodore, frigida per l’acquazzone che Giove
Pluvio minacciava di scagliare da un momento all’altro. L’elettricità sospesa era così palpabile che
quasi faceva girare la testa. Guardò la riva, dove attraverso i salici scorse una vivace attività in corso, e
s’incamminò nel tratto di campo che lo separava dal fiume. Prese il cellulare e chiamò la Moroni. La
giornalista spuntò dalla macchia come una creatura silvana in impermeabile beige. Aveva i capelli
arruffati, gli occhi ancora mezzo addormentati, ma per il resto sembrava più sveglia di lui. Sicuramente
più bella. Mentre avanzava verso l’ispettore, riuscì però a esibire un sorriso e tendere la mano.
«Apprezzo la puntualità» lo salutò. Jacobi si chiese se c’era del sarcasmo in quel benvenuto. Un
secondo dopo, si rese conto che diffidare del prossimo era diventato un automatismo. La Moroni stava
dicendo qualcosa, l’ispettore non ascoltava, immerso in spicciole elucubrazioni gratuite. Si sentiva
come la comparsa in un film sulla sua vita, un cameo che non buca lo schermo. Non doveva nemmeno
pronunciare battute memorabili per i posteri, solo espletare la sua funzione di indagatore, ormai
istituzionale. Si sentì colmare dell’indifferenza necessaria per quel ruolo.
«Scusi, ero distratto» si limitò a dire alla giornalista, che si interruppe aggrottando un
sopracciglio. Jacobi la invitò a ripetere e accese una sigaretta.
«Oggi c’è meno attività del solito» sintetizzò seccata, indicando la riva con un cenno della testa.
Camminarono verso il fiume. L’ispettore abbassò lo sguardo sulle impronte di pneumatici per terra, che
proseguivano fino a un passaggio tra gli alberi. Barbara notò la sua attenzione.
«A volte scendono con camion e furgoni fino alla sponda.» Puntò il dito nella direzione.
«Ovviamente non ci sono controlli. Non dico a riva, nemmeno lungo il fiume. Sa che si può percorrerlo
per decine di chilometri senza incontrare una sola imbarcazione della polizia fluviale?»
Jacobi si rese conto che non lamentava una deficienza in sé della polizia, ma la vaga allusione
bastò per erigere un muro di ghiaccio per i pochi secondi successivi.
«Quindi oggi è giornata magra?» chiese sperando di sembrare superiore.
Barbara scosse la testa. «Niente affatto, ma ultimamente le associazioni di pescatori sportivi
della zona hanno alzato la voce contro la lottizzazione del Po: assemblee, manifestazioni e proteste a
livello locale, ma che enti pubblici e politici non hanno potuto ignorare. Non è che sia la soluzione,
intendiamoci.»
Sbucarono dai salici sulla sponda del fiume. Le acque scorrevano placide, dalla superficie
..

emergevano banchi di sabbia bianca e ghiaiosa. Se qualcuno avesse mostrato a Jacobi una foto che
inquadrava solo quel particolare, avrebbe potuto convincerlo che si trattava di uno scatto del mondo
alle sue origini. Acqua, terra, cielo e vegetazione. Un paesaggio che non comunicava emozioni, quasi
fosse solo funzionale alle esigenze dell’uomo.
Alla sua sinistra, lungo un tratto di un centinaio di metri, decine di persone erano affaccendate a
trasportare casse frigorifere, oltre a bancali da cui spuntavano tranci, code e teste di pesce, oppure
esemplari appena pescati e subito gettati nel mucchio destinato al macello. La filettatura veniva
eseguita da silenziosi personaggi con guanti di gomma fino al gomito, grembiule bianco imbrattato di
brandelli polposi e altre schifezze assortite, scarponi o stivali da pesca, e sigaretta a penzoloni tra le
labbra. Di tanto in tanto, sentiva una voce alzarsi sopra le altre. Era Babele reincarnata. Spagnolo
sudamericano, un campionario di lingue dell’Est, oltre ad arabo, hindi, italiano e dialetti vari tutti
insieme, quasi non ci fossero barriere.
«Se qualche sindaco o governatore si impunta» continuò Barbara con un cenno ai braccianti,
«mettono l’attività in sordina per un po’, ma non si fermano. Funziona come un alveare, o un
formicaio, dipende quale insetto le piace di più.»
Jacobi gettò la sigaretta ormai al filtro e guardò la giornalista, lasciandola proseguire.
«Prima di scrivere i miei pezzi, ho dovuto aspettare che si fidassero di me. E in ogni caso, non
mi hanno detto tutto. Sono una donna, oltre a una giornalista. Mi considerano inferiore.» La Moroni
precedette l’ispettore di qualche passo, si dirigeva verso il punto da cui sentiva sporadici richiami ai
lavoratori. «Se vuole sapere qualcosa o fare arrivare un messaggio a tutti, bisogna parlare con Oleg. È
lui che assolda e gestisce il flusso di lavoratori giornalieri.»
«Un caporale, insomma» condensò Jacobi.
Barbara abbassò la voce. «Ho dovuto specificare che venivo accompagnata.» Fece una breve
pausa, Jacobi la fissava da sopra la spalla. «Capisce, è per mantenere una relazione di fiducia, d’altra
parte per me è comunque un rapporto di lavoro.»
«Cosa gli ha detto di preciso?»
Barbara tentennò. «Lei è un mio collega giornalista, quindi faccia le domande che le servono,
ma non abusi della recita» sintetizzò guardandolo di traverso, una raccomandazione quasi materna.
L’ispettore si convinse che non avrebbe cavato un ragno dal buco da quel viaggio a Borgosaldo.
Al massimo una ricetta per cucinare il siluro.
Si fecero largo tra ragazzotti ben piantati con occhi piccoli e incattiviti, capelli a spazzola da
reparti speciali dell’esercito, e uomini di mezza età sconfitti dalla vita e dal peso di tonnellate
trasportate in decine d’anni di varia manovalanza. Jacobi rubò occhiate a destra e sinistra, sui teloni di
plastica dove ammassavano i pesci appena pescati e ancora vispi, oppure quelli immobili o fatti a pezzi.
Un colpo secco e violento lo costrinse a voltarsi di scatto. A un paio di metri da lui, un orco rasato a
zero e col triplo mento sollevò una mannaia da un asse di legno, dove aveva appena decapitato una
carpa extra large. Un ragazzo lo urtò per sbaglio, trasportava un secchio d’acqua per far respirare i
pesci vivi, e si affrettò verso una vasca di plastica dove si dibattevano alcune anguille. Jacobi si sentì
strattonare. Era Barbara, lo guardava con urgenza.
«Su, andiamo.»
L’orco fissò Jacobi, come se fosse lui la prossima vittima, quindi si chinò e raccolse da un
catino azzurro di plastica un’anguilla, che ancora si dimenava debolmente. Senza togliere le pupille da
quelle dell’ispettore, il filettatore calò il colpo letale sulla creatura serpentiforme, mozzandola a metà,
infine mostrò a Jacobi lo splendore del suo sorriso bucato. Aveva almeno due spazi ciechi in una
dentatura gialla e cresciuta in modo anarchico. Cercò di immaginarsi la faccia di chi avrebbe gustato
quell’anguilla, sapendo chi l’aveva uccisa. L’ispettore s’incamminò verso la giornalista, che parlava
con un giovanotto magro e dal viso scavato, con un bomber color petrolio, jeans sformati e polacchine
ai piedi. Anche lui portava un taglio militare. L’ispettore non si sarebbe stupito di trovare una croce
..

uncinata tatuata sul braccio. Il ragazzo annuiva ma sembrava non ascoltare la donna, distratto dal
controllo sull’attività nei metri intorno a loro. Si accorse di Jacobi a pochi passi da lui, e lo guardò
senza mutare espressione, solo alzando un po’ il mento per studiarlo.
Barbara indicò Jacobi e scandì bene le parole a suo beneficio, con uno sguardo eloquente.
«Questo è il collega giornalista di cui ti parlavo.»
Il giovane annuì lentamente, ma non tese la mano. Era molto serio. Calò subito un silenzio
imbarazzante, a cui cercò di rimediare la Moroni. «Tranquillo» disse a Oleg, «è un amico, vuole solo
farti qualche domanda sul traffico di pesce. Niente nomi, vero?» concluse la frase rivolgendo un cenno
d’intesa all’ispettore, che afferrò l’antifona.
Mentre la giornalista parlava, l’ucraino mantenne gli occhi su Jacobi, che accese una sigaretta
ricambiando l’interesse.
«Tu non sei di qui» disse Oleg con marcato accento slavo.
Jacobi fece di no, soffiò un po’ di fumo dalla bocca.
«Italiano, dico» precisò Oleg.
L’ispettore aspettò un momento prima di rispondere. «Di sicuro più di te» sorrise per
stemperare la risposta diretta. Oleg comprese la battuta e abbozzò un ghigno.
«Albanese?» indagò il ragazzo.
Jacobi scosse la testa. Senza capire perché, si sentì offeso nel dna. «Mio padre è rumeno, ma
non conosco la lingua. Sono nato e cresciuto in Italia.»
Oleg sorrise. «Rumenia, eh?»
Jacobi fece spallucce. «Senti un po’, come funziona il trasporto del pescato verso l’Est?»
L’ispettore socchiuse le palpebre e si voltò a osservare i lavoratori mentre aspettava la risposta.
Lungo la strada sterrata che scendeva sulla riva dall’imbocco del ponte sul fiume, vide una piccola
flotta di furgoncini, tutti bianchi, senza insegne, alcuni con il portellone spalancato e mezzi carichi, un
altro con il conducente seduto sul cofano, in pausa sigaretta.
«Quelli dove vanno?» domandò Jacobi indicando i veicoli con la Pall Mall.
Oleg osservò un momento i Fiorino e altri furgoni di medie proporzioni, e urlò qualcosa in
quella direzione. Il conducente seduto a fumare si voltò di scatto verso di lui, gettò via la cicca e corse a
dare una mano a un collega che caricava il proprio mezzo. Il giovane squadrò l’ispettore, con la testa
inclinata e quell’aria seria. «Mercati in Italia e Ungheria, Romania, Slovacchia, Croazia. Molti posti.
Molti ristoranti. Tutto regolare.»
«Certo.» Jacobi non riuscì a trattenere una mezza risata. Barbara sudava freddo, non si
aspettava quell’atteggiamento. Jacobi se ne accorse, sospirò e cercò di mascherare l’indifferenza.
Doveva sfruttarla a livello personale, non esibirla in pubblico. «Non vi conviene usare un camion vero
e proprio invece di furgoncini? Fate più alla svelta.»
Oleg alzò le spalle. «Meno tasse.»
Jacobi aggrottò la fronte per decrittare la risposta. Non sapeva niente delle tasse doganali,
poteva anche essere vero. Si occupava di morti ammazzati, lui, non di import-export. E in fondo non gli
interessava investigare oltre la faccenda. Si ritrovò come a un appuntamento al buio, in un limbo di
silenzio, senza argomenti con cui almeno fingere di interagire. Cercò disperatamente di inserire il pilota
automatico del buon detective, la risma di domande d’ufficio che si immagina direbbe un poliziotto dei
telefilm.
«Spiegami come organizzi il lavoro di questa gente. Chi sono, da dove vengono, come li
contatti o se arrivano per conto loro. Hanno referenze? Te li presenta qualcuno? Forse qualcuno per cui
lavori anche tu? Insomma, chi diavolo sono questi?» Jacobi allargò le braccia per comprendere il tratto
di sponda sovrappopolato.
Oleg osservò i suoi sottoposti con la superiorità di un uomo che sa di essere temuto. Fissò
Jacobi. «Albanesi, rumeni, polacchi stagionali, qualche italiano e indiano, ungheresi e ucraini. Come
..

me.» Alzò una mano a pugno sul petto, all’altezza del cuore. Per un momento, Jacobi pensò che
volesse intonare l’inno nazionale. «Gente dura, bravi lavoratori. Tutto regolare. Arrivano con amici, li
presentano loro. Li metto in prova, poi li prendo o vanno via. Pagati a giornata.»
Jacobi annuì. «Quindi coi permessi di soggiorno tutto a posto?»
Oleg lo squadrò curioso e perplesso insieme, forse non si aspettava quel genere di domanda.
Sorrise. «Tutto regolare.»
«Tutto regolare» ripeté Jacobi senza troppa convinzione. La Moroni si voltò a guardarlo, Oleg
rimase impassibile.
Jacobi scosse la testa, si sentiva già stupido per le domande che aveva in mente di rivolgere al
ragazzo. «Senti, hai mai avuto problemi con qualcuno dei tuoi? Insomma, non puoi occuparti di tutto
da solo. Guarda quanti sono.»
«Siamo due che controlliamo il lavoro» disse Oleg, e anticipò la domanda di Jacobi, che stava
per interromperlo. «Ma oggi solo io, e non ti dico come si chiama. Se vuoi parlare, parla a me.»
Incrociò le braccia sul petto e aumentò l’inclinazione della testa.
Jacobi recepì il messaggio, ma non riuscì a trattenersi. In fondo, anche lui aveva un ruolo da
recitare, non certo quello del giornalista.
«Sai che posso fare un casino qui, vero?» disse l’ispettore mentre esibiva con tutta la calma del
mondo il tesserino nella fodera plastificata del portafoglio. «Quando meno te lo aspetti, potresti
abbronzarti alla luce blu delle volanti, al posto di pesci squartati ci sarebbe una distesa di agenti e
manette. Perciò non fare lo stronzo, e vedi di essere più gentile.»
Barbara sbiancò ed estrasse con gesti goffi un pacchetto di sigarette dalla tasca interna
dell’impermeabile. L’ispettore notò il suo nervosismo dalla fiammella tremolante dell’accendino, retto
da una mano instabile. La sigaretta cadde dalle labbra della giornalista e finì nel terriccio duro e umido.
Jacobi le offrì una delle sue, che Barbara accettò con riluttanza, e gliela accese con polso fermo.
«Non sapevo che fumasse» disse l’ispettore.
«Solo quando ho freddo» sibilò lei con l’odio nella voce. Se avesse potuto iniettargli veleno con
lo sguardo, lo avrebbe fatto senza rimorso.
Jacobi sentì due gocce atterrare sulle spalle dell’impermeabile, a pochi secondi l’una dall’altra.
Alzò gli occhi al cielo, imprecò in silenzio e sospirò. «Allora, mai avuto problemi?»
Oleg tirò su col naso. «A volte bisogna intervenire, bevono, qualcuno alza le mani.»
«Tu, per esempio?» ammiccò Jacobi.
Quello non rispose.
«Sei mai stato costretto a mandare via qualcuno perché aveva precedenti penali seri o aveva
fatto qualcosa di grave?» Jacobi lottò per sembrare convincente.
«Tanta gente. A me basta che lavora sodo, quello che fanno dopo me ne frego. O quello che
fanno prima. Alcuni ex soldati, ex Jugoslavia. Gente che ha bisogno di lavoro. Sempre senza soldi.»
«Qui invece ne fanno a palate, eh?» Jacobi commentò quasi sovrappensiero. «Quanti slavi ci
sono?»
Oleg sollevò gli occhi per riflettere. Con quell’espressione sembrava quasi profondo. «Dipende
da stagione. Più rumeni e albanesi di ungheresi. E polacchi, tanti polacchi.»
«Questo me l’hai detto, ma quanti sono? Il numero.»
«Non so. Dipende.»
«Supervisioni il lavoro o ti occupi anche delle spedizioni?»
«Controllo il lavoro, sicurezza, guardo che va tutto bene, senza problema. Il trasporto lo
guardano altri.»
«Chi?»
«Altri.»
Jacobi lo fissò intensamente per qualche secondo. Aveva letto da qualche parte a proposito di
..

una tecnica utilizzata dagli intervistatori. Nei momenti di vuoto successivi a una risposta, lasciavano
una pausa di sospensione, stimolando il soggetto a proseguire. Oleg non aggiunse una parola.
«Si fanno buoni affari con il pesce siluro?» chiese l’ispettore.
Oleg si voltò interrogativo verso la Moroni, la giornalista guardò Jacobi come si fa con
qualcuno che si spera di non incontrare mai più.
«È una curiosità personale» sottolineò l’ispettore. «So che se ne pescano di dimensioni
impressionanti. È vero?»
Oleg annuì e sorrise. «Il gigante di Est» disse. «Ottimi affari.» Si guardò intorno e s’incamminò
verso il fiume, in direzione di un paio di barche a motore tirate a riva. Fece cenno di seguirlo.
Continuava a sorridere. Quasi di colpo la pioggia cominciò a cadere sul serio. Malefici spilli d’acqua,
fastidiosi e aggressivi. L’ucraino si fermò accanto a un’imbarcazione e si chinò all’interno, poi chiamò
un uomo nei paraggi che accorse ad aiutarlo. Jacobi e la giornalista si fermarono a pochi passi dalla
prua, mentre i due faticavano per trasportare a terra un esemplare di silurus glanis di un paio di metri.
Jacobi puntò subito gli occhi sulla bocca del pesce morto, penzolava floscia come il labbro di un
cantante blues in disarmo. Inspirò profondamente, forse troppo, e sentì la testa alleggerirsi. I suoni si
acuirono. L’elettricità nell’aria si canalizzò nei pensieri dell’ispettore, una sensazione di improvvisa
leggerezza.
Oleg e l’uomo adagiarono il siluro sulla riva, poi l’ucraino passò una mano lungo il corpo
flaccido del pesce. Appoggiò la faccia a quel muso mostruoso, quasi in posa per un’istantanea souvenir.
«Mica male» commentò Jacobi. Si sentiva quasi levitare a pochi centimetri da terra. Un effetto
curioso ma non sgradevole. Si avvicinò a Oleg, che si raddrizzò in piedi. «Ma ne ho visti di più grossi.»
Gesticolò verso il fiume.
«Circa una settimana fa ne hanno trovato uno di oltre tre metri, all’altezza del Ponte della
Becca» proseguì l’ispettore. «Dimensioni da record, a quanto pare. Non lo sapevi? Non si è sparsa la
voce?»
Oleg scosse la testa.
Jacobi annuì. Non gli credeva. «Non raccogliete i siluri pescati in altre zone?»
«No. Solo lungo questo pezzo di fiume. Non conosco dove dici.»
«A Pavia, sul Ticino alla confluenza col Po. Non ne hanno mai presi di così grossi da quelle
parti. Strano che la notizia non sia girata.»
«Qui non è pesca sportiva» disse Oleg scrollando le spalle. «Peschiamo per vendere. Ottimi
affari coi siluri.»
«Già, già.» Jacobi si voltò verso la strada sterrata. «Che ne dici se do un’occhiata ai furgoncini?
Qualche problema?»
«Senza problema.» Oleg s’incamminò risoluto precedendo l’ispettore e Barbara, ormai certa
che invitare l’ispettore era stata una pessima idea. Jacobi non si aspettava sorprese. Allungò la mano in
tasca per un’altra sigaretta.
«Questa è la prima e ultima volta che la aiuto» disse Barbara sottovoce.
Le identiche parole pronunciate da Borghesi quando lo aveva coperto sull’indagine affossata,
anche il tono era lo stesso. Jacobi picchiettò la Pall Mall sulla manica dell’impermeabile, poi la accese
con lentezza quasi aristocratica.
«Per me è un contatto di lavoro. Coi suoi cazzo di modi rischia di compromettermi.»
«Guardi, non me ne frega niente se le sembro sgarbato.»
Oleg si voltò per controllare a che distanza fossero, quindi chiamò a gran voce e con un paio di
fischi il drappello di persone al lavoro vicino ai furgoni. Posarono casse e bancali a terra, e fissarono
Jacobi.
L’ispettore lanciò occhiate fugaci nelle cassette, nelle celle frigorifere di Nissan, Fiat e Hyundai
bianchi, l’abitacolo incasinato dei veicoli, bottiglie di plastica da mezzo litro lanciate su sedili e
..

tappetini, bolle e documenti di viaggio sparsi a casaccio sul cruscotto, gli interni logori e consumati dal
sudore di innumerevoli corse lungo la monotona rotta di quel commercio «tutto regolare». Vedeva i
tranci di pesce nel vano posteriore dei furgoni, e vi sovrapponeva quelli della bambina. Non ci
volevano un analista dell’FBI o un criminologo di fama per capire che la mano fosse la stessa: quella di
un macellaio. Gli girava la testa. Barbara se ne accorse.
«Tutto bene?»
Jacobi tossì per liberarsi la gola e prese fiato. Annuì.
Sulla strada sterrata si affacciò un furgone in arrivo, che avanzò fino a fermarsi appena Oleg
fece cenno al conducente di spegnere il motore. Si aprì lo sportello e uscì un uomo di mezza età dal
fisico asciutto e l’aria esausta, le guance incavate e un berretto da baseball giallo schiacciato sulla testa,
appiattito come una coppola. Si muoveva lento, con la cadenza di uno spettro, in qualche modo stanco
e irrequieto. Si avvicinò a Oleg ed estrasse una sigaretta da un pacchetto morbido quasi stritolato. I due
scambiarono qualche battuta in russo e ridacchiarono, quindi il nuovo arrivato s’incamminò verso il
portellone del furgone, lo aprì e cominciò a scaricare casse di plastica vuote, ammonticchiandole l’una
sopra l’altra.
Jacobi gettò la sigaretta per terra e si sforzò di dare un’ultima occhiata ai furgoni, ma non vi
riuscì e con un sospiro fece cenno a Oleg e alla Moroni che per lui la questione era chiusa.
Il conducente di mezza età li sorpassò trasportando una pila di casse. Jacobi cercò
istintivamente un’altra sigaretta e la infilò tra le labbra, poi frugò nelle tasche per l’accendino.
«Forse non è il caso» suggerì Barbara. «È pallido, fumarne un’altra subito mi sembra proprio
inutile.»
Jacobi annuì e continuò a frugare. Pur non vedendosi in faccia, provava la sensazione fisica del
pallore. Gli erano cedute le forze tutto d’un tratto. All’improvviso, l’aria intorno a lui sembrò puzzare
di marcio. Alzò gli occhi sul Po, sul movimento fluido della corrente, e li sgranò quando ebbe
l’impressione che il dorso di una creatura da incubo emergesse per pochi secondi, solo per lui, prima di
immergersi negli abissi di un esaurimento nervoso incipiente. Il secondo. Jacobi trasse un respiro
profondo, il filtro della sigaretta ancora spenta ormai incollato alle labbra secche.
Sto uscendo di testa, pensò.
Chiuse gli occhi e vide il buio, riempito dal rombo del vuoto in sottofondo e dallo sfrigolio di
scariche elettriche lungo la schiena. Sentì uno scatto metallico e aprì le palpebre. Il conducente di
ritorno dal fiume lo fissava, in mano stringeva uno zippo. L’ispettore si allungò con il collo verso la
fiamma, si sentiva debole. Accese e aspirò una boccata piena, poi soffiò una scia di fumo che serpeggiò
verso gli occhi azzurri e gelidi di quel tizio. Era più vecchio di quanto sembrava. Vide qualcosa, una
macchia scura sulla pelle all’altezza dell’orologio, semicoperta dalla manica di una felpa grigia: una
sbavatura di inchiostro scuro che catturò la sua attenzione. Jacobi girò lentamente il polso dell’uomo e
si sporse con gli occhi socchiusi per vedere meglio. Di colpo, lo strinse senza accorgersene, solo per
esaminare il tatuaggio.
Jacobi si voltò verso Oleg. «Chi è quest’uomo?» Li guardò in faccia. «Come ti chiami?»
Quello alternò lo sguardo tra Oleg e l’ispettore, scuoteva la testa. «Parli italiano?»
I lavoratori intorno si irrigidirono, alcuni si allontanarono di qualche passo, per osservare
l’evoluzione degli eventi, coi muscoli tesi e pronti alla fuga. Oleg si avvicinò a Jacobi di scatto,
minaccioso. Barbara cercò di fermarlo, inaspettatamente con successo. L’ucraino sospirò per reprimere
l’aggressività, poi raggiunse a passo svelto il furgone bianco, trafficò nell’abitacolo per un momento e
tornò con un fascio di documenti di trasporto spiegazzati.
«Tutto regolare» ringhiò mostrando a Jacobi le carte. Le prese Barbara.
Jacobi guardò Oleg e l’uomo. «Cos’è questo tatuaggio, dove l’ha fatto?»
Oleg si avvicinò e guardò quello strano disegno sull’avambraccio del conducente. «Anche altri
hanno il disegno. Ex soldati.» Lui stesso ne era fregiato: tra le scapole, alla base della nuca. Nascosto.
..

Ordinò qualcosa a uno dei lavoratori che assistevano alla scena, e quello partì di corsa verso la riva
chiamando un nome.
«Perché questo disegno?» chiese Jacobi, rivolto a Oleg.
L’ucraino sbuffò e tradusse con riluttanza. I due scambiarono qualche battuta in russo. «Dice
che era il suo plotone, in guerra.» L’uomo continuò a parlare veloce, ma non era spaventato. Oleg
aspettò che finisse prima di proseguire con la traduzione. «Molte guerre. Jugoslavia, Africa,
Sudamerica.»
«Plotone di quale esercito? Cosa cazzo ci fanno i militari russi in Africa e Sudamerica?»
«Prima esercito, poi soldato di carriera. Anche lui ucraino, come me» disse Oleg.
«Mercenari» s’intromise la Moroni, che non comprendeva la reazione quasi animalesca
dell’ispettore alla vista del tatuaggio. «È vero, ce ne sono parecchi che hanno cambiato vita. Troppo
vecchi e spompati, e si accontentano di lavori di fatica. Andiamo, ispettore, non lo sapeva? Molti hanno
debiti in patria, devono pensare al sostentamento della propria famiglia, e qui cavano qualche soldo. Se
non li bevono tutti.»
Dal sentiero fangoso della riva salì un uomo di mezza età, seguito da altri due di circa
quarant’anni. Si fermarono vicino a Oleg e Jacobi, il più vecchio di loro si rivolse al conducente e poi
guardò l’ispettore. Sbottonò la camicia, la sfilò e sollevò la manica della t-shirt che indossava. Sul
tricipite sodo, Jacobi riconobbe la casa di legno dalle zampe di gallina.
«Baba Yaga» disse l’uomo guardandolo negli occhi. I due lavoratori che l’avevano
accompagnato ripeterono il nome e mostrarono due tatuaggi identici, uno sulla caviglia e l’altro
sull’avambraccio.
Jacobi rimase paralizzato con la mano intorno al polso del conducente, senza sapere cosa fare.
Doveva arrestarli tutti come potenziali sospetti per omicidio e barbarie? Oppure si stava immaginando
tutto, vittima di una ricaduta nella psicosi più bieca? Nel frastuono dell’indecisione, la sirena di un
camion spazzò via ogni titubanza. L’ultima immagine che folgorò Jacobi prima di perdere i sensi fu un
autoarticolato ungherese che sfrecciava sul ponte attraverso il fiume. Fece in tempo a leggere la scritta
EUROGLOBAL TRANSFER sulla fiancata, quindi alzò gli occhi al cielo con la bocca semiaperta,
come un pesce siluro umano, la pioggia gli batteva in faccia e penetrava in gola. Fu sopraffatto da una
cospirazione universale di mostri, tutti in combutta per creare una rete di brutalità che non riusciva più
a reggere. L’ispettore si accasciò per terra e vomitò tra i furgoni bianchi, Barbara prese un kleenex
dalla borsa e si avvicinò per sorreggerlo. Tra un conato e l’altro, quella voce cosciente e spietata che si
fa sentire quando è richiesta lucidità in situazioni critiche, ripeté un mantra che ormai Jacobi recitava
quasi quotidianamente: lascia perdere, tanto non cambia niente.
..

28

L’aria profuma di salsedine, condita da una vaga scia di pesce trasportata dalla brezza marina.
Remo schiude le palpebre, svegliato dal morbido rollio della risacca. Si sente la bocca impastata, ha
una sete tremenda.
All’inizio vede solo una macchia di luce bianca, poco alla volta mette a fuoco i contorni di una
spiaggia di sabbia e sassi. Si alza col busto, appoggiandosi sui gomiti, e si guarda intorno. Si sente
accaldato e spossato, appena risvegliato da una pennichella sotto un implacabile sole agostano. È in
uno stabilimento balneare, deserto. Non ci sono sdraio né ombrelloni allineati, le assi delle cabine
smontate sono disposte lungo il muretto a ridosso della strada sovrastante, su cui torreggia una parete di
roccia impervia. A qualche decina di metri, unico elemento di presenza umana, si erge la torretta di
legno del bagnino. Aggrotta le sopracciglia per esaminare meglio, gli sembra di scorgere una sagoma
seduta in cima, a scrutare un mare privo di onde, piatto come una tavola. Si alza, accorgendosi di
indossare il costume da bagno.
Riconosce il posto, il litorale che si estende nella distanza, fino a sfumare nella foschia. Sulla
sommità dei promontori che punteggiano la costa si ergono antiche torri di osservazione saracene,
ruderi di roccia che raccontano di epoche lontane. Come la memoria di Remo, un ammasso di nozioni
che si credono assimilate, e invece stupiscono ogni volta per il rinnovato vigore con cui si manifestano.
È già stato qui, con Monica, in un’altra vita. Nonostante l’assenza totale di nuvole, il sole alto nel cielo
preserva una temperatura neutrale, né calda né fredda. I piedi di Remo spazzano la sabbia ghiaiosa, che
stranamente sembra vellutata come moquette. Remo avanza verso la torretta di legno, lanciando
saltuarie occhiate al mare.
Arrivato a pochi metri, il bagnino si volta e lo guarda con indifferenza per pochi secondi,
l’espressione di qualcuno che lo conosce da una vita, stranamente identica a quella di chi incrocia lo
sguardo per la prima volta.
«Tata» bisbiglia con naturalezza, senza scomporsi di fronte a Johan che, seduto in cima alla
torretta riparato sotto un ampio ombrellone rosso, avvicina un binocolo agli occhi e scruta l’orizzonte.
Remo punta lo sguardo nella stessa direzione. Il mare si è ingrossato da un secondo all’altro,
vicino alla torretta sventola la bandiera rossa del divieto di balneazione. Onde nere spumeggiano senza
produrre il loro tipico rombo, si infrangono sulla riva silenziose e inquietanti. All’improvviso, Jacobi
vede spuntare dall’acqua una testolina bionda, una figura minuta di bambina che non si sbraccia per
chiedere soccorso, ma galleggia verticale, sospinta da chissà quali correnti oniriche.
Istintivamente, Remo corre per gettarsi in acqua e salvare la piccola. L’acqua è densa e viscosa,
anch’essa priva di temperatura. Non sembra affatto acqua di mare, è limacciosa come quella di fiume.
Remo spezza le onde e lotta contro la corrente per raggiungere la bambina, che continua a non
accennare alcun richiamo di aiuto, ma resta immobile con la testa che emerge dai flutti, e lo fissa
inespressiva.
Nuota fino a trovarsi a pochi metri da lei, quando il mare si placa con la stessa rapidità con cui
si è gonfiato. Remo si volta verso la riva, Johan è sceso dalla torretta, lo osserva col binocolo senza
battere ciglio. La bambina lo fissa in silenzio. Sotto di loro, una massa enorme scivola silenziosa sul
fondale, ha le dimensioni di una bestia mitologica e la spregiudicatezza di un mostro affamato. L’acqua
comincia a ruotare, prima lentamente poi sempre più veloce. L’epicentro del gorgo è la bambina. Remo
non prova paura, non cerca di mettersi in salvo, resta in acqua e immerge il viso spalancando le
palpebre. Ma non vede altro che oscurità. Il vortice acquista velocità. Un corpo gigantesco gli sfiora la
caviglia, come se il fondale del mare si fosse improvvisamente sollevato permettendogli di stare in
piedi in mezzo alle onde. Una sensazione di pochi secondi, quindi il gorgo riprende a girare implacabile
sotto di loro, e finalmente, dal bordo increspato delle onde, vede affacciarsi qualcosa.
..

La bambina comincia a inabissarsi, poco alla volta, mentre giganteschi barbigli spezzano
l’acqua per innalzarsi e sondare l’aria prima di ributtarsi in mare con violenza. Remo si volta verso la
riva, ma la torre di osservazione e Johan sono spariti. Al loro posto, si erge il profilo di una baita di
montagna. La porta si spalanca, dall’interno spunta una donna e avanza di qualche passo sulla sabbia,
fissa un momento nella sua direzione, poi si copre il volto con le mani e torna dentro di corsa,
disperata.
«Monica» mormora Remo. In quel momento, la casa barcolla come se fosse a un passo dal
crollare. Invece si innalza sulle fondamenta, due zampe di gallina alte almeno dieci metri, e quella
costruzione disumana emette un grido stridulo, quindi s’incammina sulla riva.
Remo si gira di scatto, la testa della bambina sprofonda nella bocca nera del mostro, gira nel
vortice provocato dalla sua fame atavica. Chiude gli occhi e si lascia anche lui mangiare da
quell’orribile megattera da incubo. Nel sogno, si rende conto di provare una limpida sensazione di
pace, un oblio finalmente appagante.
..

29

Jacobi si svegliò per l’odore sgradevole di medicinali e ambienti clinici sterilizzati. In


sottofondo, riconobbe l’aroma di brodo di minestra, come lo ricordava dal doposcuola delle elementari.
Quando finalmente aprì gli occhi su un soffitto bianco con illuminazione al neon, freddo come
un’estate artica, il primo viso che gli diede il benvenuto nel mondo cosciente fu quello di Borghesi.
Alle sue spalle, la Moroni era appoggiata al muro del pronto soccorso, con le braccia conserte e l’aria
un po’ annoiata.
«Ehi» lo salutò Borghesi con una smorfia rassicurante.
Jacobi deglutì a fatica. Aveva la gola secca. «Acqua» riuscì a bisbigliare.
Borghesi lanciò un’occhiata all’infermiera che assisteva l’ispettore. La ragazza annuì e uscì
dalla stanza.
Borghesi si sedette su una scomoda sedia di plastica vicino al letto. «Cos’è successo?»
«È svenuto» rispose Barbara.
Jacobi si lamentò e cercò di sollevarsi col busto, a fatica. «Da quanto sono qui?»
Borghesi guardò l’orologio da polso. «Circa quattro ore.»
L’infermiera tornò con una bottiglia d’acqua di plastica da mezzo litro, la posò sul comodino
vicino al letto di Jacobi e uscì di nuovo.
«Sono svenuto per quattro ore?»
«No, solo qualche minuto» intervenne la Moroni. «Ma poi si è addormentato subito. Non si è
svegliato nemmeno quando le hanno infilato l’ago per la flebo.» La giornalista indicò con un cenno.
Jacobi si accorse dell’ago solo in quel momento. Un tubicino di gomma trasparente centellinava
sali minerali nelle sue vene.
«Portami via da qui, Antonio.»
«Calma, calma» il vice frenò l’ispettore. «Prima sentiamo cosa dicono i medici.»
«Ho solo perso i sensi, mica sono entrato in coma.»
«Esco a fumare» annunciò Barbara estraendo il pacchetto di sigarette.
«Ha ancora freddo?» ironizzò Jacobi. Barbara scosse la testa e infilò la porta senza rispondere.
«Vedo che hai fatto colpo» commentò Borghesi dopo un momento.
«È una stronza» sentenziò Jacobi.
Rimasero in silenzio per un paio di minuti. Jacobi bevve un lungo sorso d’acqua, poi esalò un
sospiro di soddisfazione. «Sentivo la lingua incollata al palato.»
Borghesi annuì. L’ispettore comprese che volesse dire qualcosa.
«Allora, cos’è successo?»
Jacobi si massaggiò le tempie con i polpastrelli, concentrandosi per trovare un modo di
spiegarlo a Borghesi. «Il marchio a fuoco sulla bambina» iniziò a dire. «È il simbolo di un gruppo di
mercenari, quelli che si fanno chiamare Baba Yaga e gestiscono il traffico illegale e la lottizzazione sul
Po.»
L’ispettore si appoggiò alla testata del letto. «Tra i braccianti ci sono alcuni ex soldati, veterani
delle guerre balcaniche. Almeno così ha detto Oleg.»
Jacobi bevve un altro sorso e spiegò.
«È il contatto della giornalista. Sui trent’anni, sembra un naziskin, è lui che gestisce il
caporalato per il commercio di pesce con l’Est. Insieme a un socio, ma non sono riuscito a cavargli
altre informazioni. Dice di non sapere niente del siluro pescato al Ponte della Becca, ma non gli credo.
Coi siluri fanno affari d’oro.»
Borghesi aggrottò la fronte. «Come?»
Jacobi indicò la porta con la testa. «La Moroni. Per salvaguardare il suo rapporto professionale,
..

lo ha avvisato che sarei andato a fare due chiacchiere.»


«Quando hai perso i sensi, Remo?»
Jacobi scosse la testa, quasi per scusarsi. «C’erano almeno quattro uomini con quel maledetto
tatuaggio. La casa della strega, Baba Yaga. Non so spiegarti com’è successo, Antonio. All’improvviso
mi è venuta la nausea, ho vomitato l’anima, poi il black-out.»
Borghesi tacque per un minuto, abbassò lo sguardo. «Non capitava da un pezzo.»
Già, pensò Jacobi, non capitava da un pezzo. «Senti» cominciò a dire, ma il vice lo interruppe.
«Remo, devo dirti una cosa.» Fece una pausa, si arruffò i capelli sovrappensiero, era evidente
che aveva qualche difficoltà a elaborare le parole. «Prima di mettermi per strada ho parlato con Ferri.
Mi ha convocato lui.»
Jacobi lo fulminò con lo sguardo. Tra lui e il questore Giordano Bruno Ferri – come lui stesso
amava pronunciare per intero – c’erano antichi dissapori, mai sopiti. L’ispettore sospettava che alla
base, oltre forse a un’antipatia epidermica e reciproca, da parte del prefetto si aggiungesse una vaga
componente razzista nei suoi confronti, per essere una specie di «mezzo sangue».
Borghesi si alzò e passeggiò per la stanza gesticolando. «Ferri pensa che tu sia troppo coinvolto,
personalmente. Almeno per questo caso.»
Jacobi lo studiò perplesso. «In che senso?»
«Credimi, non sai quanto mi costa affrontare l’argomento.»
«Di cosa stai parlando?» Il tono dell’ispettore si fece ostile.
«Lo sai. Non ne abbiamo mai discusso...»
«Deduco che Ferri ti abbia raccontato la sua versione della storia.» Jacobi sprofondò di nuovo
con la testa nel cuscino, si passò una mano sugli occhi. «Antonio. Ho paura di impazzire.»
Borghesi si morsicò le labbra, era in evidente imbarazzo. «Riposati, forse non è il momento più
opportuno.»
L’ispettore annuì e si sforzò di chiudere il flusso dei pensieri, dei ricordi. Un momento prima
che Borghesi uscisse dalla stanza lo chiamò.
«Sto bene, Antonio. Non devi preoccuparti per me, sono perfettamente in grado di gestire
questo caso. Ho solo avuto un cedimento. Può capitare a tutti.»
Il vice sorrise. «Già.» Strizzò il piede di Jacobi sotto il lenzuolo. «Se hai bisogno di me, basta
che mi chiami. Sono qui fuori con quella giornalista.»
..

30

Borghesi aiutò Jacobi a salire sull’auto e si sistemò al volante per tornare verso Pavia.
Sprofondato nel sedile del passeggero, l’ispettore osservava dal finestrino lo stesso paesaggio
piatto che aveva attraversato alcune ore prima, sperando di trovarlo meno ostile e deprimente.
Trascorsero la prima ora, circa metà del percorso, quasi in silenzio. Borghesi notò che Jacobi
non accese nemmeno una sigaretta. Di tanto in tanto, lo studiava con la coda dell’occhio, non voleva
essere invadente e conosceva gli scatti di stizza del superiore. Tentò un approccio tattico.
«Va meglio?»
Jacobi tirò su col naso. «Mi sento un po’ debole» rispose con un ritardo di qualche secondo. Si
raddrizzò contro lo schienale per darsi un contegno, e trasse un respiro profondo, come per reprimere
un nuovo conato.
«Se devi vomitare, dimmelo che accosto.»
Jacobi grugnì qualcosa, poi diede fuoco alla Pall Mall fino a quel momento posticipata.
«Potrebbe essere uno di quelli» disse sbuffando un po’ di fumo.
Borghesi si voltò a guardarlo, in attesa che continuasse.
«Gli ex soldati, col tatuaggio.»
Borghesi rifletté su come rispondere, così cambiò argomento.
«Quando hai perso i sensi, la Moroni ti ha portato subito al pronto soccorso. Sono arrivato lì
direttamente da Pavia. La mia auto l’hanno recuperata gli agenti di una volante.»
«Li avete portati a Pavia o a Mantova?» domandò l’ispettore.
«Chi, scusa?»
Jacobi si voltò con un’espressione di pietra.
«Ma sei scemo? Gli slavi tatuati.»
Il silenzio di Borghesi lo irrigidì ulteriormente.
«Allora?»
«Remo, sei svenuto e ti hanno portato al pronto soccorso. La Moroni non sapeva niente del
ritrovamento del siluro, della bambina e del marchio a fuoco sulla caviglia. Me l’hai detto tu. Gli
equipaggi delle volanti non avevano alcuna segnalazione, non erano autorizzati a effettuare una retata,
o a fermare qualche sospetto. Non era in corso nessuna operazione, era solo un sopralluogo. C’eri solo
tu sul posto, e poi hai perso i sensi.»
Jacobi socchiuse le palpebre e fissò Borghesi, che proseguì.
«Quando siamo arrivati sulla sponda del fiume non c’era quasi più nessuno. Solo qualche
pescatore del posto, pensionati e dilettanti appassionati.»
«Quindi la risposta è no.»
«Remo... sei sicuro che fosse lo stesso disegno?» chiese infine Borghesi.
Jacobi lo fissò con gli occhi sgranati.
«Non mi credi? Pensi che sia impazzito?» Si concentrò per respingere la rabbia. Borghesi se ne
accorse, cercò di correre ai ripari.
«Non ho detto questo, Remo. Ho solo chiesto se sei sicuro di ciò che hai visto.»
Jacobi aprì una fessura del finestrino e lanciò fuori la sigaretta a metà.
«Da te non me l’aspettavo» commentò acido.
A quanto pareva, la convinzione di Jacobi che a nessuno fregasse un accidenti di scoprire chi
era quella bambina, e chi l’avesse fatta a pezzi, sembrava corroborata da una tacita ammissione di follia
personale.
La stampa aveva ignorato la notizia, la Moroni sembrava interessata solo alla lottizzazione del
fiume e a tenersi buoni quegli avanzi di galera che macellavano pesce lungo la riva. Forse era vero, il
..

caso non esisteva se non nella sua mente, nel suo rancore. Era il prodotto della disillusione che nel
corso degli anni l’aveva spinto a concepire la realtà – la vita stessa – come un mostruoso ibrido di
orrore senza senso alternato a sporadici lampi di luce interiore. Quella luce che per Jacobi si era ormai
ridotta alla figura di Johan.
..

31

Jacobi e Borghesi si salutarono davanti alla questura di Pavia intorno alle sei di pomeriggio.
L’ispettore assicurò al suo vice di essere abbastanza in forze per guidare fino a casa. Controllò la
posizione di sedile e specchietti giusto per perdere tempo, quindi preparò il pacchetto di Pall Mall nel
vano vicino al cambio.
Rimase seduto in macchina, nella quiete relativa dell’abitacolo, con le dita strette sulla chiave
infilata nel quadro. Ma non accese il motore. Chiuse gli occhi per scacciare vaghi residui di nausea, che
nei picchi gli fecero temere un nuovo svenimento. Aprì la portiera, uscì e appoggiò la fronte al tettuccio
freddo dell’Alfa, inspirando profondamente e cercando di svuotare la mente. Non funzionò. Corse
davanti al cofano dell’auto e si chinò verso il muro della questura, nascosto alla vista di eventuali
passanti e colleghi, e spalancò la bocca per liberare lo stomaco. Niente. Trascorse alcuni minuti con la
mano posata sul cofano e l’altra sul ginocchio piegato, l’impermeabile che toccava terra ripiegandosi
come lo strascico di un prezioso abito di corte. Una macchia nera tra le ombre. Jacobi il pazzo,
ispettore di provincia con un atavico senso di inferiorità nei confronti del coraggio, non aveva più
niente che valesse la pena di vomitare.
Con uno sforzo si raddrizzò, tirò su col naso e deglutì. Aveva mentito a Borghesi. Non era in
condizioni di guidare, non ancora. S’incamminò per corso Strada Nuova, pallido in volto, incurante
dello sguardo interrogativo dei pavesi che lo incrociavano. Era visibilmente alterato e smunto, lo
sapeva ma non gliene importava. I rumori del traffico, la sirena di un’ambulanza in corsa disperata,
colpi di clacson rabbiosi, il vociare e i passi della gente intorno a lui sembravano filtrati attraverso un
amplificatore interiore. Li percepiva a un volume insopportabile. Avrebbe voluto gridare, ordinare a
tutto il mondo di immobilizzarsi e zittirsi. Almeno per un po’.
Le gambe lo condussero fino al Ponte Coperto, una delle zone tabù di Pavia per Jacobi. Evitava
di andarci, addirittura di passarci vicino, se poteva farne a meno. Troppi ricordi. Quel fiume maledetto,
anche prima del siluro. Un’altra bambina. Uno spettro. E una donna. I fantasmi dell’ispettore. Il suo
corto circuito cerebrale. Il ricovero. Sprazzi di memoria fallata che lo visitavano con la violenza dei
flash di paparazzi invadenti. Vide un corridoio bianco, il giardino di una villa secentesca convertita in
casa di cura, un uomo distrutto con lo sguardo fisso davanti a sé. Cieco. Sentì l’odore di medicinali e di
chiuso. Le pastiglie colorate, due volte al giorno: alle nove di mattina e alle cinque e mezzo, prima di
cena. Perché in ospedale si mangia presto e si spengono le luci subito dopo il tramonto.
Jacobi sbuffò e alzò il bavero dell’impermeabile, nonostante la temperatura fosse mite. Si
appoggiò al parapetto di arenaria prima dell’ingresso al ponte. Lanciò un’occhiata oltre il fiume, verso
Borgo Ticino, la parte antica di Pavia, separata dalla città da poche decine di metri di ponte. Un paese
nel paese, con le sue osterie tipiche, le vecchie case un tempo popolari e ora prese di mira dagli studenti
universitari. Se ne pentì subito. Forse è vero, pensò Jacobi a proposito di quello che si diceva
sull’autolesionismo dell’uomo. Alcuni individui sono portati naturalmente a rimestare nel proprio
dolore, nell’amalgama dei ricordi, in cerca di un’utopica redenzione.
La vide subito. Avevano ridipinto la facciata con una tinta rosata, ma la vecchia casa dove
viveva con Monica e Sofia era ancora lì, identica. I suoi anni prima dell’orrore, prima della creazione di
un passato alternativo costruito su menzogne dozzinali.
Mi dispiace, lei è sterile.
Si sforzò di volgere gli occhi altrove, ma senza successo. Credeva di esserne immune, ma si
sbagliava. Era stato un amico di Johan a trovarla, poco dopo essersi sposato. L’affitto era molto basso,
un prezzo di favore. Era stato felice allora. Almeno per un po’.
Finalmente abbassò lo sguardo sulle acque del fiume, la corrente che lambiva i ruderi
medioevali del ponte, ormai indistinguibili da anonimi massi fluviali. È così che finisce la storia, ogni
..

storia, disse tra sé Jacobi maledicendosi per avere lasciato le sigarette nell’auto. Si trasforma tutto in un
pezzo di roccia senza passato, che passa inosservato in mezzo ad altri, addirittura scomodo. Remo
odiava il fiume. Gli aveva rubato tutto, eppure continuava a scorrere come se niente fosse successo. E
così, per sopravvivere, Jacobi si era adattato al suo volere, rifugiandosi in un mondo dove non era
davvero successo niente.
..

32

Tornò all’Alfa con lo sguardo puntato per terra, e una presa più salda sulla realtà. Almeno la
testa non girava più. Jacobi si infilò nel traffico leggero di viale 11 Febbraio che costeggiava il castello
visconteo fino alla rotonda, poi svoltò a destra in via Bligny. Abbassò completamente i finestrini
anteriori, creando una corrente che servì a risollevare i sensi ancora intorpiditi.
Sfrecciando nella città, popolò gli scorci urbani che attraversava con i fantasmi del suo vero
passato. Innocui fino a un certo punto, oltre il quale non si spingeva mai. Un confine mnemonico
invalicabile. Quasi riusciva a sentire la fragranza stucchevole di ciambelle e zucchero filato, esposte nei
chioschi allestiti in estate davanti al castello, sotto le fronde del piccolo parco. C’erano le giostre. Non
c’era bambino in tutta Pavia che non ci fosse stato almeno una volta. Corrugò la fronte. Cambiò
registro della memoria, quell’immagine sconfinava pericolosamente nel settore proibito. Forse era la
timida magia di quella cittadina a stimolarli.
Jacobi amava Pavia, soprattutto perché viveva nelle campagne vicine. Gli anni della sua
infanzia, quando la famiglia abitava in città, si limitavano a lontane chiazze quasi sfocate, una massa di
ricordi sensoriali limitati: la segatura della falegnameria di cui Johan era stato per qualche tempo socio,
in una stradina del centro storico che sembrava asportata da un antico borgo toscano. Uno scorcio della
cucina della casa dove era nato. Aveva scoperto Pavia al liceo scientifico. Dopo tutto quel tempo,
ancora non riusciva a sorridere al ricordo della delusione di Johan per la bocciatura al secondo anno, a
settembre. Sapeva quanti sacrifici avevano fatto i genitori per farlo studiare, e Johan non aveva mai
nascosto quali risultati volesse ottenere da suo figlio. Non gli aveva mai fatto pesare il costo della sua
educazione, ma non era stato il padre permissivo e tollerante di certi suoi compagni di classe. Johan lo
aveva ammonito in un paio d’occasioni, senza girarci troppo intorno, che se non aveva voglia di darsi
da fare, poteva anche fare fagotto e cercare fortuna altrove. Si erano scontrati spesso nel secolo buio
che molti chiamano adolescenza.
L’ispettore si godette il viaggio di ritorno. L’eleganza parigina di alcuni edifici sette e
ottocenteschi, la successione di vie anguste, porticati e improvvise aperture. Pavia lo stregava con la
sua atmosfera mistica, addirittura pagana nonostante la presenza massiccia di chiese e collegi religiosi.
Jacobi spense il cervello finché non parcheggiò quasi mezz’ora dopo nello spiazzo davanti alla cascina.
Nel buio della sera primaverile, contro la finestra illuminata della cucina, scorse la silhouette di
Johan e vide una nuvoletta di fumo sollevarsi dalla sua testa e dileguarsi alla chetichella nella lieve
brezza.
«Ciao, Remo.» La voce del vecchio tradiva un accenno di apprensione, ormai accantonata.
«Tata.»
Si sedette accanto al padre. Per una volta, invece delle Pall Mall, raccolse dalla panca la
confezione di tabacco di Johan, con le cartine corte occultate tra i ciuffetti marroni all’interno, e rollò
una sigaretta con gesti calmi e misurati, per prendere tempo. Era consapevole della preoccupazione del
genitore, si sentiva in colpa per non averlo chiamato in tutto il giorno, nonostante le due telefonate
senza risposta e un messaggio che Johan aveva spedito quando era al pronto soccorso. Antonio lo ha
avvisato, ricordò mentre passava la lingua secca sulla colla della Rizla. Infilò tra le labbra qualcosa più
simile a un babà che a una sigaretta, e schermò con la mano la fiammella dal vento per accenderla.
«Scusa se non ho telefonato» disse.
Johan sbuffò fumo e rispose dopo un paio di secondi. «Non fa niente» minimizzò incassando le
spalle e subito aggiunse: «Stai bene?»
Remo annuì deciso. «Sì, sto meglio.» Dopo appena due tiri della sigaretta cubista che aveva
rollato, la gettò a terra e prese il pacchetto di Pall Mall. «Ho perso i sensi per qualche minuto, niente di
grave.»
..

Dai leggeri ritardi nelle risposte del padre, Remo immaginò di comunicare con lui da distanze
siderali, raggiungibili con un palleggio tra satelliti ad anni luce di distanza.
«Le prendi le pillole?» disse Johan.
Remo sospirò senza accorgersene. «Sì.»
Johan balzò in piedi, di spalle.
«Non mentirmi, figlio.»
«Tata, sono svenuto per pochi minuti, tutto qui. Un po’ di stress, mi è mancato l’ossigeno,
saranno le sigarette, che ne so. Non devi preoccuparti.»
Johan spazzò un po’ di ghiaia con la punta dei sandali da casa, nel buio scosse la testa. «Ti
dicevo che sbagliavi.»
«A fare cosa?» ribatté Remo sulla difensiva.
«A tornare al lavoro, dico. Non sei ancora guarito.»
Remo incassò la testa nelle spalle, abbassò lo sguardo sulle scarpe. Ridacchiò, ma non era
credibile.
«Non sono malato. Ho superato gli esami per riprendere le mie mansioni. Non sono malato,
tata.»
«Non si scherza con l’esaurimento nervoso. Sei stato mesi sotto psicofarmaci, in quella clinica.
Dovevi chiedere di lavorare in ufficio. Basta coi morti.»
«È l’unica cosa che so fare.»
«Remo, non sono più tanto giovane.»
Adesso ricomincia, pensò Remo, in fondo cosciente del fatto che Johan avesse banalmente
ragione. Ma cos’è una banalità, rifletté l’ispettore, se non una verità scontata, un avvertimento popolare
che si tramanda dalle origini dell’umanità, che disturba proprio perché è una certezza assodata? Una
cosa che duole sentirsi ripetere di continuo.
«Ringraziamo il Signore che sono in salute.» Johan accennò un rude segno della croce con la
mano stretta a pugno, ultimando l’operazione battendola sul cuore. «Ma devi pensare a te, a stare bene.
Credi che non vedo la faccia che hai, come ti muovi in casa da un po’ di tempo?»
«A volte mi è difficile prendere sonno, ma capita a tutti» si giustificò blandamente.
«Dai, Remo, non dire fesserie. Non posso farti da guardiano per sempre.» Si avvicinò col viso,
appoggiando le mani sulle ginocchia del figlio. «Li sento i sogni che fai di notte. Parli a voce alta. Li
racconti per filo e per segno.»
Rimasero in silenzio per un lunghissimo minuto.
Remo chiuse gli occhi e corrugò la fronte, cercava un appiglio a quei sogni nefasti e vividi, li
braccava nell’oscurità della memoria, nei ripostigli chiusi a doppia mandata di ciò che si desidera
dimenticare. Doveva afferrarne il senso per riuscire ad affrontarli, e infine forse abbatterli. Perciò
doveva nutrirsi di loro, fino a rodersi il fegato dal dolore. Sbuffò.
«Non devi più pensarci, Remo. La vita va avanti.»
Dal buio dietro gli occhi serrati scorse la riva del fiume, una giornata di sole tempo prima, non
avrebbe saputo dire quanto, l’aveva rimosso.

L’acqua del fiume scorre veloce dopo le piogge battenti di aprile. Fa abbastanza caldo da stare
in costume. Una testolina bionda spunta con un braccio alzato dalla corrente, urla, invoca aiuto. Remo
corre e si getta senza sentire la temperatura dell’acqua, in quel momento ne è immune. La corrente è
molto forte, respinge e rallenta i suoi movimenti. La bambina affonda e riemerge di continuo dal gorgo,
a poche bracciate da lui, irraggiungibile. Continua a urlare, in panico, e l’acqua le occlude i polmoni
grido dopo grido, finché dopo essersi inabissata per l’ennesima volta non riemerge più. Remo si
sbraccia e spalanca gli occhi nel pulviscolo torbido creato dai mulinelli subacquei. Vede qualcosa
..

colorare quello sfondo marroncino di melma di fiume. È una mano che si allunga e rotea nel gorgo,
come la lancetta ribelle di un orologio fermo. Una forza invincibile lo allontana, schiacciandolo verso il
fondo, una corrente lo frusta sulla schiena e lo spinge verso riva. Remo è convinto di morire. Una mano
d’acqua gelida lo scaglia in superficie, sente i sassolini della riva incidergli la schiena. Si lascia andare
esanime sulla sponda, sente braccia che lo trascinano a terra, voci ansiose, una donna che urla. Riapre
le palpebre sputando acqua, tossisce catarro e lurida acqua di fiume. Un corpo si china su di lui, la voce
disperata, piange e grida e lo schiaffeggia. Monica. Sviene.

«Non puoi farci niente» disse Johan, raddrizzandosi con un gemito. Alzò le mani e fece una
breve pausa prima di parlare. «So che non ti piace sentirlo, ma forse è il caso che pensi a un’altra
famiglia, una nuova dico.»
«Non posso avere figli, tata. Non più.»
«Certo che puoi. Piantala con queste stronzate. Hai vissuto una tragedia, quelle che capitano
sempre agli altri quando leggi il giornale. Cosa vuoi farci? Niente, sopportare e ricominciare da capo.
Fattene una ragione. Alla mia età, forse era più giusto che ci andavo io in clinica, non tu.»
«È stato solo per qualche mese, dopo...» mormorò tra sé, ma abbastanza chiaro per essere
intercettato dal padre.
«Basta!» lo interruppe bruscamente Johan, rispolverando la grinta dell’uomo deciso e irruente –
del padre severo – che un tempo era stato. Aveva vissuto come un torto celeste la scomparsa della
nipote Sofia, ingaggiando una battaglia personale contro qualsiasi potenza divina. In cuor suo, era
convinto che il trauma provocato dalla morte della piccola avesse influito sullo stato di salute già
precario della moglie Eleonora, che se n’era andata meno di due anni dopo. Si era spenta poco alla
volta, ogni giorno le veniva meno un pezzo di vita. E lui era stato con lei fino all’ultimo respiro. Per
questo malediva doppiamente il cielo, e comprendeva le ragioni di Remo, che aveva cancellato dalla
memoria il nome della figlia e qualsiasi riferimento a lei, sostituendo quel buco nero con varianti della
realtà: alternative di comodo, architettate per alleviare almeno un po’ la sofferenza, che invece lo
avevano ridotto a un clone di se stesso. Senza tuttavia chiudere quel buco nero.
«Vieni dentro» disse Johan. «C’è una lettera per te.»
Remo sollevò la testa e guardò il padre.
«Ho riconosciuto la calligrafia» aggiunse Johan.
«L’hai aperta?»
Johan scosse il capo. «È arrivata un paio di giorni fa, ma ho preferito non dartela subito.»
Seguì il padre in casa, trovò la busta sopra il suo piatto, sul tavolo in cucina. La raccolse e la
soppesò un momento, era molto leggera. Un foglio appena. Il bollo postale dell’ufficio di Sanremo, la
data di tre giorni prima. Posta prioritaria. La aprì con il coltello ed estrasse un educato e secco invito a
non telefonare, inviare messaggi e mail, in poche parole cercare una qualsiasi forma di comunicazione.
Lo stampatello di Monica era molto elegante, un piacere da leggere, anche quando gli proibiva di farsi
vivo.
Remo rilesse un paio di volte l’unica frase in cui non sembrava di leggere un mandato di
restrizione scritto da avvocati: «Ti ho mandato anche un sms, e non hai risposto. Devi lasciarmi in
pace». Posò la lettera sul tavolo e si versò un bicchiere d’acqua dalla brocca. «Vuoi leggere?» Allungò
il foglio verso Johan.
Il vecchio alzò le spalle, era voltato e sciacquava alcune verdure in una centrifuga. «Cosa
dice?»
«Come l’altra volta.»
Johan scosse la testa. «Anche per lei sono stati momenti duri, vuole dimenticare, come te. Ma ti
vuole bene lo stesso, credo. È una donna sensibile e intelligente.» Chiuse il rubinetto e lanciò al figlio
..

una rara occhiata d’intesa.


«Già.» Remo prese posto a tavola.
«Però vedi di non cercarla più. Dimenticala, ma per davvero.»
Remo alzò la testa e fissò Johan per un minuto, infine annuì. Il vecchio uscì dalla stanza e
rientrò poco dopo, posò una pastiglia vicino al bicchiere di Remo. Era ancora chiusa nel rivestimento
argentato, lo riconosceva bene.
Remo la raccolse e la posò sul ripiano della cucina alle sue spalle, vicino al tostapane. «La
prendo dopo. Non mi piace vedere le medicine a tavola, vicino al piatto dove si mangia.»
«Ricordati di prenderla, stavolta.» Johan si voltò e tornò a occuparsi della cena.
..

Macedonia, 2001

La città era ridotta a uno scheletro di macerie, calcinacci e muri portanti di edifici alti otto o
nove piani abbattuti dal pugno di un gigante. Sembravano erezioni di cemento di una civiltà votata allo
squallore. Scanna pensò che forse era un bene che le bombe li avessero tirati giù.
Si muoveva con la sua squadra in quel dedalo di rovine come un esperto guardiacaccia che
conosce a menadito il territorio da pattugliare. Radenko, l’ex maggiore dell’esercito russo che li
comandava, precedeva di pochi metri il resto del gruppo, sei uomini in tutto. Dalle colline scavate a
suon di bombe che circondavano la città, giungeva il crepitio di raffiche di fucili automatici, il fragore
di granate e razzi anticarro si insinuava nell’ossatura del tessuto urbano come folate di vento
dall’inferno.
Scanna non ci faceva più caso. Ormai era un veterano delle zone di guerra. Dopo la Somalia e il
Kosovo aveva deciso di lasciare l’esercito senza abbandonare le armi. Non gli importava delle
decorazioni al valore ricevute per atti di coraggio sul campo – o incoscienza, a seconda dei punti di
vista – che comunque non aveva mai ricevuto. Anzi, lo avevano trattato come un sottoprodotto
indesiderato della disciplina militare, una macchina d’assalto ormai ingestibile, che era meglio isolare e
da cui prendere le distanze. A differenza di alcuni altri suoi commilitoni che nel ’93 avevano
partecipato alla missione africana, era uscito indenne dalla tormenta di ingiurie e dagli scandali che li
avevano coinvolti. Razza di stronzi codardi, pensò a proposito della stampa e dell’opinione pubblica
che avevano puntato il dito accusatore contro le forze armate, attribuendo a uomini come lui crimini e
misfatti assortiti: tortura, violenza carnale e persino l’omicidio di giornalisti ficcanaso.
Nessuno aveva idea della seconda vita dell’uomo in guerra: un’esistenza parallela, i cui
parametri servono a misurare e giudicare il comportamento e si trasferiscono su un piano diverso da
quello della realtà quotidiana. Ormai non conosceva un altro modo di vivere, e gli andava bene così.
Radenko si fermò, sollevò la mano destra e si accovacciò. La squadra si paralizzò e tutti si
acquattarono, due uomini in coda al gruppo trovarono riparo dietro alcune macerie e puntarono le armi
sul viale da cui erano arrivati, per evitare sorprese. Il russo si voltò e fece cenno al cecchino di
avvicinarsi. Indicò un punto alla sua sinistra e il tiratore scelto avanzò a testa bassa per prendere
posizione.
Scanna era l’unico italiano in quel manipolo di uomini in armi a pagamento. Si concentrò su
Radenko, osservando ogni suo gesto, pronto a obbedire senza fiatare, come da contratto.
Qualcuno chiamò da un punto imprecisato davanti a loro. Il russo non fece una piega, attese che
la voce parlasse di nuovo prima di aprire la mano ancora chiusa a pugno e alzarsi con cautela. La
squadra aspettò che fosse in piedi e schiudesse completamente la mano prima di imitarlo.
Da un cumulo di detriti a una ventina di metri da loro sbucarono tre uomini armati, indossavano
divise improvvisate, pantaloni e giacche di schieramenti diversi, non appartenevano ad alcuna
formazione regolare. Scanna non li aveva mai visti prima. Quello al centro doveva essere il capo.
Imbracciava un AK-47, occhiali scuri e una kefiah rossa e bianca, che in quel contesto non c’entrava
niente.
Radenko s’incamminò lentamente ma risoluto verso di loro, infine abbassò la sua arma e
abbracciò il tizio con la kefiah. Parlarono brevemente tra loro in russo, Scanna comprese solo qualche
parola: «carico», «consegna» e «denaro». Si guardò intorno. I combattimenti si erano trasferiti dalla
città nelle campagne e sulle colline circostanti, anche perché lì ormai c’era ben poco da distruggere.
Molti civili erano fuggiti alle prime avvisaglie dell’attacco imminente; i caschi blu, quei viscidi
vigliacchi, si tenevano alla larga dagli scontri. In ogni caso, non potevano aprire il fuoco, nemmeno se
attaccati.
Scanna seguì con vago interesse la trattativa in corso tra Radenko e Kefiah. Dopo alcuni minuti,
..

tutta la compagine di mercenari si mosse attraverso quel paesaggio devastato. Rifletté sulla facilità con
cui interi centri abitati, complessi che si erano sviluppati nell’arco di decenni, venivano abbattuti nel
giro di pochi giorni. A volte ore. Gli ricordava di quando era bambino, e assemblava con mattoncini
colorati elaborate astronavi o altre macchine di fantasia. Impiegava ore per farlo, e appena collocato
l’ultimo pezzo, scagliava la creazione a terra con tutta la forza di cui era capace, per il gusto di vederla
in frantumi.
Dopo una decina di minuti di marcia, raggiunsero una palazzina che miracolosamente era
sopravvissuta allo scempio di cannoni e attacchi aerei. Si ergeva solitaria in quello che un tempo era
stato un quartiere popolare di una città di mezzo milione di abitanti. Kefiah entrò nell’androne, scabro e
annerito dalla caligine. Radenko si voltò verso i suoi uomini, scelse Scanna e un paio di altri e fece
cenno di seguirlo all’interno. Kefiah pescò una torcia elettrica dalle tasche laterali dell’uniforme e
puntò il fascio di luce su una scala che scendeva nello scantinato. Per precauzione, Scanna controllò la
sicura e posò il dito con leggerezza sul grilletto del fucile, un gesto automatico.
Arrivarono davanti a una porta blindata, Kefiah disse qualcosa a Radenko e scelse una chiave
da un mazzo che gli pendeva dalla cintura. La infilò nel massiccio lucchetto cromato e lucente, in netto
contrasto con la porta di metallo arrugginito, e aprì. Radenko lo seguì all’interno, anche lui munito di
torcia. Kefiah accese una lampada a gas e il bagliore fioco illuminò una serie di volti emaciati, spettrali
e smunti, che decoravano la cantina. Soprattutto ragazze, la maggior parte adolescenti, ma anche
bambini. Li fissavano con occhi spaventati, in silenzio, ormai incapaci persino di piagnucolare,
sfiancati oltre il limite dell’umana disperazione. Scanna ricambiò i loro sguardi con indifferenza. Non
era più uno spettacolo inedito. Kefiah si avvicinò a una bambina, avrà avuto dieci anni, e le afferrò il
viso dai lineamenti delicati con la mano sporca. La piccola non ebbe alcuna reazione. Radenko scosse
la testa, seguì una breve e concitata conversazione tra lui e Kefiah. L’ex parà si concentrò, pronto a
qualsiasi sorpresa. All’improvviso, una ragazza sbucò dalle tenebre e implorò i mercenari in un dialetto
incomprensibile, strattonando Kefiah per il risvolto dei pantaloni. Quello la allontanò con un calcio, ma
la ragazza gli fu addosso nel giro di pochi secondi. Piangeva e singhiozzava. Uno dei luogotenenti di
Kefiah le mollò un colpo col calcio del mitra, poi ci fu silenzio. Radenko indirizzò la torcia sul corpo
della giovane riversa a terra. Il viso era una maschera di sangue, una pozza rossa si stava formando
sotto la tempia. Radenko le sollevò la testa e inveì contro Kefiah, poi la lasciò cadere pesantemente sul
pavimento impolverato. Il russo imprecò nella sua lingua, Kefiah gesticolava e indicava il resto degli
occupanti della cantina. Radenko si calmò, sbuffò e sospirò, quindi impartì ai suoi uomini in inglese
grossolano l’ordine di uscire e contattare il trasporto via radio.
Abbandonarono lo scantinato procedendo in fila indiana. Fuori, il tempo faceva schifo come
sempre in posti di merda come quello. Dopo pochi minuti, dalla palazzina sbucarono Kefiah e i suoi
uomini, seguiti da una dozzina di ragazze e bambini, con un’età che variava dagli otto ai sedici anni.
Radenko e la giovane colpita alla testa non erano tra loro. Scanna fece per incamminarsi verso lo
scantinato e controllare, si bloccò quando sentì detonare un colpo singolo di Makarov, suono che
avrebbe riconosciuto anche con il paraorecchie. Un momento dopo, il russo fece capolino dall’edificio
e fece cenno ai suoi uomini di stare tranquilli, non c’era alcun problema.
I mercenari attesero una decina di minuti, poi sentirono il rumore di mezzi in avvicinamento.
Da un angolo della città distrutta apparvero due ambulanze, da cui uscirono altri mercenari armati.
Ammassarono il carico umano nei veicoli e in poco tempo sparirono di nuovo. Kefiah estrasse una
fiaschetta di metallo e condivise un brindisi con Radenko, per sigillare il buon fine della transazione. I
due si abbracciarono, quindi il russo chiamò a raccolta i suoi uomini e si diressero a passo svelto verso
la periferia sud di Skopje. Scanna calcolò mentalmente il ricavo dell’affare appena concluso. Non certo
per lui, visto che la paga era stata pattuita in anticipo, e già consegnata in contanti per metà. Saccheggi
esclusi, ovviamente, ma lui non era il tipo che si lasciava andare a certe pratiche. Era un professionista.
Una ragazza in buona salute poteva essere venduta per una cifra che oscillava tra i quindici e i
..

ventimila euro. I bambini fruttavano molto di più: quando si trattava di richieste su commissione, un
po’ più rare, con specifiche caratteristiche fisiche, si arrivava anche a cinquantamila. Non si era mai
domandato in quali mercati finissero, anche se lo immaginava perfettamente. Ma non era un suo
problema, di quello si occupava Baba Yaga.
..

33

Jacobi si svegliò con lo sguardo sul ventilatore a pale, appeso al soffitto della camera da letto.
Sbadigliò rumorosamente, stirando braccia e gambe per sgranchire le ossa. Si sentiva intorpidito, come
convalescente da una febbre che l’aveva costretto a letto per lunghi mesi. Il riassunto in un unico
secondo di quattro anni di recupero dall’esaurimento nervoso. Rimase sotto le lenzuola a baloccarsi con
gli ultimi strascichi del sonno, quasi senza rendersi conto di avere dimenticato l’incubo della notte
appena trascorsa. Forse un altro effetto della medicina.
Spostò gli occhi sulla sveglia Brionvega, erano quasi le undici di domenica mattina. Il sole
entrava docile nella stanza dalle fessure delle persiane, che soprattutto verso l’estate l’ispettore teneva
sempre socchiuse per creare un po’ di corrente naturale, nonostante l’audacia e il numero delle zanzare
sembrassero aumentare di anno in anno. Ormai non era più un supplizio dei mesi caldi. Si grattò il
polpaccio sinistro, e il dito individuò la collinetta provocata dalla puntura di uno dei maledetti insetti
succhiasangue.
Con uno sforzo non indifferente, Jacobi si tirò su con il busto. Facendo più attenzione al mondo
che lo circondava, cominciò a prendere dimestichezza con i suoni di attività in corso. Provenivano
dall’esterno. Non poteva essere che Johan, impegnato in qualche lavoretto nella cascina. L’ispettore si
trascinò in bagno a passi lenti e aprì il rubinetto della doccia, quindi si massaggiò le mascelle allo
specchio, esaminando il suo aspetto. Per essere sull’orlo della follia, disse tra sé, faccio ancora la mia
porca figura.
Il contatto con l’acqua appena tiepida lo rinvigorì all’istante, detestava le temperature troppo
alte. Rimase sotto il getto con la mente sgombra da qualsiasi pensiero oltre al sollievo fisico immediato
di lavarsi, detergere qualsiasi macchia fosse visibile sulla pelle.
Circa mezz’ora più tardi, dopo essersi asciugato, rasato e cambiato, si presentò in cucina. Johan
aveva lasciato la caffettiera pronta sul fornello, un pacchetto di pan carré vicino al tostapane e in tavola
zucchero, miele e qualche fetta biscottata nel cestello di vimini. Jacobi osservò un momento la natura
morta e accese il fornello per il caffè, non aveva alcun appetito. Di rado si svegliava affamato, e le
colazioni pantagrueliche erano ormai solo un bel ricordo d’infanzia.
Uscì di casa con la tazza fumante in mano e si diresse verso la corte della cascina. Udiva il
familiare scricchiolio della sega sul legno uscire dalle porte aperte della rimessa. Si appoggiò allo
stipite e bevve un sorso di caffè bollente.
«Ciao, tata.»
Suo padre bofonchiò una risposta.
«Qualcosa non va?»
Johan posò la sega sull’asse di legno incastrata tra i morsetti del pianale e lo guardò.
«Le medicine» disse secco Johan. «Le devi prendere, figlio.»
Remo aggrottò le sopracciglia, perplesso.
«L’ho presa ieri sera» assicurò al padre.
I muscoli facciali di Johan cedettero per la delusione. «Certo.»
Confuso e un po’ seccato, Remo tornò a passi veloci in cucina. Sul tavolo, di fianco alla
zuccheriera, vide l’involucro argentato ancora chiuso della pillola. Posò la tazza di ceramica bianca sul
banco della cucina e chiuse gli occhi, maledicendosi più volte.
Troppo orgoglioso per farsi vincere dal senso di colpa, e chiedere inutili scuse a Johan per la
dimenticanza, provò a riazzerare quella giornata partita non proprio in modo eccelso, e lesse i messaggi
sul cellulare.
Due chiamate senza risposta di Borghesi, alle dieci di mattina, e un sms in cui il vice
riassumeva: SONO IN UFFICIO CON REGISTRO TOSATTI PASSI?
..

Jacobi ci pensò sopra un momento, rispose con un elegante e conciso: NO A DOMANI


AGGIORNAMI DOPO.
Un secondo sms era della Moroni, chiedeva in tono spiccio se stava bene. D’impulso, Jacobi la
chiamò. La giornalista rispose quasi subito.
«Si sente meglio, ispettore?»
Riconobbe una punta di sarcasmo nella voce della giornalista.
Barbara proseguì secca. «Volevo solo avvisarla di non cercarmi più. Dopo quello che è
successo a Borgosaldo, non ho più intenzione di aiutarla.»
Jacobi il rubacuori, le donne facevano a botte per sbarazzarsi di lui.
«Sono svenuto, c’era anche lei. Non vedo perché debba prendersela così. Se le fa piacere, le
chiedo scusa.»
«Ma sì, certo. Grazie, ispettore, grazie. Il mio orgoglio di donna ora è appagato. Sa quanto
tempo c’è voluto prima che Oleg si fidasse di me?»
«Un paio di mesi?» Jacobi non capì che era una domanda retorica.
«Quasi due anni, ispettore, cazzo. Due anni. E le è bastata metà mattina per distruggerli. Sembra
un film della Pantera rosa.» Barbara era infuriata.
«Lei non conosce tutta la verità sulle indagini.» Jacobi parlò in automatico, senza avere
elaborato una strategia di emergenza. Quando era messo alle strette, soprattutto da una donna,
l’ispettore andava in palla. Non era più abituato a discutere con una donna. Dopo Monica, la sua vita
sentimentale si era atrofizzata fino a diventare una specie di arto inutile, un moncone i cui terminali
nervosi solo di rado trasmettevano segnali al cervello. E al cuore.
La Moroni fece una pausa. «Allora me la dica.»
Jacobi si passò la lingua sulle labbra. «Oggi lavora?»
«Vivo a Ferrara, ispettore.»
Jacobi imprecò tra sé, l’aveva scordato, ma la giornalista non gli fornì il tempo di trovare una
seconda proposta.
«Ma è fortunato» aggiunse Barbara. «Questa settimana sono rimasta a Milano per impegni di
lavoro. Ho ancora un appartamento qui.»
Jacobi concordò di incontrarsi per pranzo, lei propose un locale in viale Montenero. L’ispettore
segnò l’indirizzo e qualche indicazione generale, calcando il tratto su «Porta Romana» come
riferimento principale, l’unico che conosceva in quella zona di Milano.
Raccolse la pastiglia dal tavolo e la infilò nella tasca dei pantaloni, quindi uscì a sedersi sulla
panca nella corte, bagnata da uno splendido sole, alleggerito da una brezza fresca. Chiuse le palpebre,
sottili pennacchi di vapore al caffè salivano alle narici dalla tazza che stringeva ancora in mano.
Nell’aria si sentivano gracidare alcune rane, qualche grillo nei campi e la sega di Johan nella rimessa.
L’ispettore si stupì di non avere ancora fumato una sigaretta, e portò automaticamente la mano
alla tasca dei pantaloni dove teneva il pacchetto. Ne prelevò una con estrema calma, e sempre a occhi
chiusi la accese e assaporò il primo tiro, il migliore. Si appoggiò con la schiena al muro e si crogiolò al
sole. In fondo, era curioso di rivedere la Moroni. Forse poteva cavarle qualche altra notizia su Oleg e
gli slavi di Borgosaldo.
Jacobi era un discreto fisionomista, ma a volte si stupiva di non ricordare il viso di una persona,
sebbene l’avesse vista di recente e avessero trascorso del tempo insieme. Era capitato così anche con
Monica, pensò Jacobi senza rammarico, pura constatazione. Prima di abituarsi ai suoi lineamenti, alle
forme sinuose del suo corpo, ci aveva impiegato anni. E ogni volta che la vedeva era come se le avesse
appena puntato sopra gli occhi, come se fosse ancora da conquistare. Ma non pensava a parole carine
con cui blandire Barbara, solo al tono più adatto per spiegare a pranzo cosa c’era nella pancia
squarciata di un pesce siluro da record.
..

34

Jacobi parcheggiò l’Alfa 155 all’inizio di corso di Porta Romana. Si incamminò verso l’arco,
vestigia annerite dallo smog, costrette nella camicia di forza dei ponteggi pubblicitari che le
avvolgevano. Chiamò la Moroni per farsi spiegare la strada. Da piazzale Medaglie d’Oro, svoltò a
sinistra e si trovò magicamente in viale Montenero.
«Prosegua dritto sul marciapiedi sinistro, segua i binari. Sono seduta fuori a un tavolino» disse
Barbara e riagganciò.
L’ispettore si accese una sigaretta e sfilò la giacca sportiva di cotone, faceva troppo caldo anche
per quella. Si guardò intorno, la penuria di veicoli e passanti corroborò la pessima immagine che aveva
della città.
Non potrei mai vivere qui, rifletté sbuffando fumo dall’angolo della bocca. Regnava la quiete
spossata che si respira in genere il primo gennaio, dopo l’abbuffata di cotechino e botti della sera di
capodanno. Un’atmosfera irreale, di tregua forzata durante un conflitto in cui le parti in lotta avevano
smesso di avere una fisionomia precisa. Si combatte il ritmo regolare della vita, in questa città, pensò
Jacobi. Non contro un nemico che ha aggredito i sacri crismi del vivere civile.
L’ispettore gettò la cicca per terra e alzò gli occhi, una donna con spessi occhiali da sole agitava
il braccio in aria e guardava dalla sua parte. Jacobi strizzò le palpebre per mettere bene a fuoco mentre
si avvicinava. Con i capelli raccolti, gli occhiali scuri e il top nero non aveva riconosciuto la giornalista.
Quando arrivò a pochi metri da lei, notò che calzava sandali sottili di cuoio, e la gonna bianca lasciava
scoperta buona parte delle gambe sode e snelle, tostate dal sole. Lo sguardo di Jacobi indugiò sulle
caviglie affusolate della Moroni. Aveva un debole per le caviglie femminili.
«Ce l’ha fatta, ispettore.» Barbara sfilò gli occhiali scuri e li appese al bordo del top, mentre
l’ispettore non poté fare a meno di seguire la loro transumanza, soffermandosi sulla scollatura.
Jacobi sorrise e strinse la mano. «C’è poca gente in giro» rispose senza sapere perché gli fosse
uscita una frase così, in parte convinto che la donna si fosse accorta della radiografia che le aveva
appena fatto.
Si sedettero e un ragazzo con pantaloni neri e t-shirt attillata dello stesso colore uscì con due
menù, li posò davanti a loro e sparì di nuovo all’interno del locale.
Jacobi ne aprì uno e studiò le combinazioni proposte dallo chef.
«Non è un tipo da brunch?» domandò Barbara, notando il sopracciglio inarcato dell’ispettore
mentre consultava la carta.
«A dire la verità no» ammise lui. «Mangiare a quest’ora di domenica l’ho sempre chiamato
’pranzo’. Al massimo ’tarda colazione’.»
Barbara rise, questa volta in modo genuino. «Possiamo darci del ’tu’? Per comodità» propose.
Jacobi sorrise e annuì. Sentiva che forse avrebbe dovuto scusarsi per avere compromesso i suoi
contatti a Borgosaldo, invece non disse una parola.
«Al telefono hai detto qualcosa a proposito delle tue indagini» lo incalzò subito Barbara.
Jacobi apprezzò il fatto che quella donna non perdesse tempo in chiacchiere, anche perché così
si sarebbe risparmiato l’imbarazzo di rispondere a eventuali domande personali. Chiuse il menù.
«Si tratta di informazioni riservate» ricordò alla giornalista, senza credere del tutto a ciò che
usciva dalla propria bocca.
«Non sto indagando sui pescaturismo abusivi. Anzi, prima di leggere il tuo articolo, non avevo
nemmeno idea che ci fossero attività del genere. A quanto pare, sono fiorite per la pesca al siluro,
giusto?»
Barbara annuì senza aggiungere altro, per lasciarlo continuare.
«Una settimana fa» Jacobi prese una sigaretta e la accese senza fretta, «hanno ripescato un
..

siluro record all’altezza del Ponte della Becca, sul Ticino.»


«Conosco il posto» disse svelta Barbara.
«Un esemplare di tre metri abbondanti, un vero mostro. In base a quello che ho letto, in Russia
ne hanno pescati anche di cinque metri.» Fece una pausa per cercare un posacenere, lo prese da un
tavolo libero al suo fianco. «Dalla bocca del siluro spuntava la mano di una bambina.» Jacobi parlò in
tono asciutto, senza badare all’espressione incredula di Barbara.
«Non c’era niente sui giornali» commentò sorpresa la Moroni.
Jacobi sogghignò. «Nessuno ha scritto una virgola a proposito.»
«C’erano testimoni? Chi l’ha scoperto?»
«Un gruppo di canottieri, alle prime luci del giorno. Ma non è tutto.»
L’ispettore riprese dopo l’interruzione del cameriere, che servì le bevande nel silenzio più
assoluto.
«La bambina è stata fatta a pezzi dopo essere stata torturata, abusata e uccisa. Non mi chiedere
in quale ordine, per favore.» Jacobi abbassò la voce e si guardò intorno quando pronunciò l’ultima
frase.
Barbara esibiva una smorfia di palese ribrezzo.
«Inoltre, l’hanno marchiata a fuoco sulla caviglia, come un capo di bestiame» concluse Jacobi.
«È impossibile che nessuno abbia riportato la notizia.» Barbara era sinceramente sgomenta.
L’ispettore scrollò le spalle. «Eppure è così. All’inizio non ero stupito. Anzi, la mancanza di
indiscrezioni va a beneficio delle indagini, in un primo momento. Ma sappiamo tutti che presto o tardi
qualcosa esce, le voci circolano.»
Jacobi sbuffò.
«Insomma, quei cazzo di canottieri avranno detto qualcosa in famiglia o agli amici, nonostante
la mia espressa richiesta di tenere la bocca chiusa. Si sa come vanno queste cose, dai per scontato che
non lo faranno. Invece niente.»
Barbara gli lasciò il tempo di riprendere il discorso, ma l’ispettore rimase zitto per più di un
minuto. «Cos’ha a che fare con i pescaturismo abusivi e il traffico di pesce con l’Est da Borgosaldo?»
chiese con calma.
«Mi sono imbattuto nel tuo articolo quando cercavo informazioni sul siluro. Non sapevo niente
nemmeno del traffico illegale di siluri, degli slavi che lo gestiscono alla luce del sole, lungo il Po, o
della taglia sulla testa di quel pesce. Al diavolo, sapevo a malapena che esistesse.» Jacobi versò un
bicchiere d’acqua e si dissetò.
«Abbiamo fatto una visita informale a un paio di allevamenti di pesca sportiva, al Gruppo
Glanis e ai due o tre pescaturismo che mi hai segnalato, quelli più vicini a Pavia. Giusto per chiedere
altre informazioni su quel pesce, capire che movimento di persone c’è, trovare un eventuale punto di
partenza.»
«Quelli del Glanis sono dei fanatici. Vanno a pescare come se partissero per il Vietnam»
commentò acida Barbara, e un momento dopo aggiunse: «Scusa, continua».
Jacobi non diede l’impressione di essersela presa per l’interruzione. «L’ultimo pescaturismo
visitato, a Zeccheto, ha attirato la nostra attenzione. Il custode ricorda di avere visto un tizio, più o
meno una settimana fa, che si allontanava da un bungalow con una sacca sulle spalle, di quelle che in
genere si utilizzano per trasportare pesci di grosse dimensioni. Solo che l’uomo non aveva attrezzatura
da pesca con sé. Il periodo combacia con la morte della bambina, secondo il parere del patologo dopo
l’autopsia, e precede di un paio di giorni la data del ritrovamento.»
Il ragazzo portò al tavolo le ordinazioni, entrambi avevano optato per un club sandwich con
verdure grigliate. Aveva un aspetto invitante, ma Jacobi non aveva ancora finito. Era chiaro
dall’attenzione di Barbara che il primo brunch dell’ispettore potesse aspettare ancora un po’.
«Il proprietario dell’attività è un ex cappellano militare, Pietro Tosatti.»
..

«Sul sito non c’è l’intestatario dell’attività, solo Pescaturismo Zeccheto.» Barbara raccolse una
melanzana dal piatto e la assaggiò.
«Tosatti, che assicura di avere tutte le carte in regola e di non essere abusivo, dice che gli capita
di prestare i suoi bungalow agli amici. Era disposto a collaborare.» Jacobi mantenne per sé
l’impressione di ambiguità ricevuta da Tosatti. «Ci ha fornito il registro delle prenotazioni, Antonio è
in ufficio a esaminarlo.»
«Continuo a non capire cos’abbia a che fare tutto questo con il traffico illegale di pesce»
confessò Barbara, in tono misurato.
«Il marchio a fuoco sulla bambina» Jacobi parlò con praticità, da professionista «raffigura la
casa di Baba Yaga, la strega delle favole russe.»
Barbara inarcò un sopracciglio. «La strega?»
«Proprio lei. Da quanto sappiamo, è il nome di un gruppo criminale di slavi, composto da ex
soldati e mercenari. In base alle memorie belliche di Tosatti, erano famigerati per le mutilazioni sulle
vittime.»
«Pensi che uno dei braccianti a Borgosaldo abbia commesso quell’atrocità?»
Jacobi sospirò. Preferì non confessare l’idea che si era fatto del traffico di bambini legato
all’Est, gestito da Baba Yaga. Per un collegamento automatico e perverso del cervello, l’ispettore
identificava i vertici dell’organizzazione in una vecchia decrepita e marcescente, sdentata e puzzona,
che si nutriva di rifiuti e carne di bambino, spostandosi da un incubo all’altro nella sua dimora
agghiacciante.
«Quando ho letto nel tuo articolo che il caporalato a Borgosaldo era in mano agli slavi, ho
pensato che valeva la pena cercare possibili collegamenti. Era ed è l’unica pista che abbiamo.»
«Perché sei svenuto?» chiese Barbara all’improvviso.
La domanda personale, ma che in un certo modo era pertinente al contesto e allo sviluppo delle
indagini, spiazzò l’ispettore.
«Un calo di pressione.» Preferì non ammettere le allucinazioni di mostri nel fiume. «C’erano
almeno quattro uomini con il tatuaggio di Baba Yaga» continuò Jacobi, ma si interruppe subito,
scuoteva la testa.
«Sei sicuro che fosse lo stesso disegno?» chiese titubante Barbara.
Anche Borghesi aveva manifestato lo stesso atteggiamento, mentre lo riaccompagnava a Pavia
dal pronto soccorso. Jacobi prese istintivamente un’altra sigaretta, e sfiorò con le dita l’involucro della
pastiglia di fianco al pacchetto in tasca.
«Sì» rispose secco.
..

35

La giornalista propose all’ispettore di fare due passi e riaccompagnarla a casa. «Abito qui
vicino.» Jacobi acconsentì. Ormai le aveva riassunto a grandi linee la cornice delle indagini, omettendo
di proposito alcune riflessioni personali a proposito di improbabili cosche slave.
La Moroni chiese una sigaretta, e Jacobi ne approfittò per accenderne una anche per sé. Da
quando si erano alzati da tavola, qualche minuto prima, la giornalista era rimasta quasi del tutto in
silenzio. Dall’espressione e dai gesti, Jacobi immaginò che rimuginasse sulle informazioni ricevute.
«Pensi che l’esposizione mediatica gioverebbe allo sviluppo del caso?» domandò lei aspirando
una profonda boccata.
Da come sbuffò il fumo, l’ispettore intuì che fumare per lei fosse più uno schermo difensivo che
un piacere, o un vizio. «Chissà» rispose per prendere tempo.
Barbara attese un momento prima di intervenire. «Non per dire, ma non mi sembri molto
convinto del tuo lavoro.»
Jacobi non staccò le pupille dal marciapiede. «Mi sembra incredibile» sintetizzò e scosse la
testa. «Ormai siamo così abituati a credere alle storie più impossibili, che quando te ne capita una
davvero assurda la ignori del tutto. Non si può capire il perché di un omicidio del genere. È un percorso
che si ramifica in abissi troppo profondi. Non è più solo una questione di scoprire il ’colpevole’, ed è
troppo facile sostenere che lo siamo tutti, ciascuno a proprio modo, nel nostro piccolo. In fondo, se
togliamo la criminalità organizzata, il traffico umano e qualsiasi fatto assodato o circostanza
comprovata nel caso specifico, cosa rimane? L’idea stessa del come hanno ucciso quella bambina,
l’intelligenza in grado di partorire e mettere in pratica un’aberrazione del genere, è questo che mi
manda in tilt.»
Jacobi si fermò e guardò in alto, per riassumere i pensieri.
«Non risolveremo niente scoprendo chi ha materialmente fatto a pezzi quella bambina, non ha
più importanza. Si tratta soltanto di aggiungere una nuova voce nell’archivio. L’ennesimo tassello di un
puzzle cosmico, che nessuno è in grado di completare. Mi chiedo cosa spinge a risolvere un delitto,
soprattutto uno come questo. L’idea del ’fare giustizia’, ma verso chi o cosa non so più dirlo.»
Barbara aspirò un paio di tiri corti. «Hai figli?»
Il pugno che colpì Jacobi nel cervello fu tanto rapido quanto doloroso. «No.» Sbiancò, ma non
se ne accorse.
Barbara sì. «Era una domanda troppo personale, scusa.» Continuò a fumare.
«Avevo una figlia» disse Jacobi. «È morta molti anni fa.» Tacque, convinto di non poter
aggiungere altro. In fondo, cosa c’è da dire ancora, proseguì l’ispettore, ma solo nella sua testa.
Barbara vide l’uomo davanti a lei spezzarsi dall’interno. Una fulminea e violenta contrazione
che lo torturava. Preferì non porgere condoglianze di circostanza, era sensibile abbastanza da
comprendere che avrebbero solo peggiorato il malessere di Jacobi. Slittò di nuovo sul caso, un tentativo
di cavarsi da quel disagio.
«Non mi occupo di cronaca nera» esordì Barbara parlando lentamente. «I giornali con cui
collaboro si interessano di eco-mafie, problemi legati all’ambiente e illegalità di calibro ridotto rispetto
ai tuoi brutali omicidi.»
Jacobi ascoltò in silenzio.
«Anche scrivere un nuovo pezzo sull’abusivismo lungo il Po non ha molto senso in questo
momento. Sarebbe un copia e incolla di quello che hai già letto. Per non parlare della figuraccia che mi
hai fatto fare sabato» concluse con un sorriso fintamente crudele.
Jacobi ricambiò piegando in modo vago le labbra in su.
Barbara gettò la sigaretta e si fermò a frugare nella borsa. «Siamo arrivati.»
..

Siamo? si chiese Jacobi.


La giornalista infilò le chiavi in un portone di vetro protetto da sbarre in ferro battuto.
L’ispettore studiò l’edificio con un’occhiata. Una costruzione degli anni Sessanta, elegante ma non
priva di un retrogusto anonimo.
Barbara aprì il portone e si voltò verso Jacobi. «Grazie per il brunch.»
L’ispettore aveva insistito perché fosse sua ospite, e annuì con un sorriso più vero del
precedente.
«In ogni caso» aggiunse Barbara, «forse posso rimediare all’invisibilità che ha avvolto il caso.»
Jacobi inclinò la testa con la fronte aggrottata.
«Le informazioni che ti ho dato...» iniziò l’ispettore.
«Sono riservate» Barbara concluse la frase per lui. «Ma sono una giornalista, so cosa farmene di
una notizia.»
Salutò Jacobi con una stretta di mano e salì i gradini ricoperti da un tappeto rosso.
L’ispettore rimase in strada finché Barbara non sparì nell’ascensore, ma i suoi occhi erano
scollegati dal cervello, che proiettava immagini tutte sue. Prime pagine di quotidiani nazionali, servizio
da cinque minuti sui maggiori telegiornali. Finalmente il clamore della ribalta, tutto per comprovare la
sua teoria che il mondo è impazzito. Vedeva scorrere nella sua mente gli inevitabili strilli.
UN MOSTRO NEL TICINO: BIMBA SENZA NOME TROVATA A PEZZI NELLE
VISCERE DI UN SILURUS GLANIS, L’ATTILA DEI FIUMI.
L’ispettore si riprese con un battito di palpebre. Sospirò e s’incamminò lentamente verso Porta
Romana, per una volta senza rivolgere un solo pensiero alle sigarette.
..

36

Barbara posò la borsa sul tavolo di teak dell’ingresso e si avvicinò al portatile, appoggiato sul
divano del salotto. Era sempre acceso. Attese qualche secondo perché il sistema si riprendesse e aprì la
finestra della posta elettronica. Cliccò sulla lista dei contatti e la spulciò con attenzione, per essere
sicura di averlo ancora in rubrica. Trovò l’indirizzo che cercava, quello privato e non della redazione.
Di domenica, probabilmente Alessandro non era al giornale. Disse di avere una notizia interessante da
proporre, e lasciò il suo numero di cellulare sotto le iniziali, infine inviò il messaggio.
Alessandro non lo sentiva e vedeva da mesi, era un collega del coglione, come chiamava il suo
ex marito, l’Innominato. Lanciò un’occhiata istintiva verso una foto incorniciata tra gli scaffali della
libreria. Non era di grande formato e nemmeno in bella vista. L’aveva lasciata apposta arretrata,
incombente dall’ombra del vano in cui riposava. Risaliva a qualche anno prima, Barbara e il coglione
abbracciati, lui al timone di una barca a vela. Quella barca del cazzo, pensò Barbara.
Non rimuoveva di proposito la foto. La considerava un catalizzatore di rabbia. Se ne serviva per
caricarsi la mattina, prima di buttarsi come tutti i giorni nella mischia che era diventato il suo lavoro.
Guardava la foto e diventava una belva, per tutto il tempo perso con l’Innominato e i compromessi che
si era autoimposta per evitare il naufragio della loro relazione, prima di capire definitivamente che era
un coglione. La conservava per ricordarsi ogni giorno di non ripetere mai più errori simili.
Il cellulare squillò pochi minuti dopo, era un numero privato col prefisso di Milano, non lo
riconobbe.
Barbara rispose alla seconda vibrazione. «Pronto?»
Era Alessandro, chiamava dalla redazione. Con i tagli dovuti alla crisi, la mancanza di
personale lo costringeva a sacrificarsi due domeniche al mese, a volte anche tre.
Dopo uno scambio di convenevoli che Barbara aveva immaginato di affrontare, riferì senza
fornire troppi particolari del macabro ritrovamento al Ponte della Becca.
«Sei sicura?» chiese Alessandro. «Di solito notizie del genere finiscono nella cronaca.»
«Questa volta no. L’hanno ignorata tutti.»
Si accordarono per sentirsi in serata. Alessandro sarebbe rimasto in redazione almeno fino
all’ora di cena. Voleva pensarci su, intanto chiese a Barbara di mandargli via mail una sinossi del
pezzo, senza promettere nulla.
Una volta terminata la conversazione, Barbara guardò l’ora. Erano quasi le tre e mezzo.
Controllò nella borsa e trovò le chiavi della Polo parcheggiata quasi sotto casa, inforcò gli occhiali da
sole, raccolse la borsa e uscì di nuovo, per il Ponte della Becca.
..

37

Jacobi ricevette un messaggio pochi minuti dopo essersi messo al volante. Era Borghesi.
Bilanciando lo sguardo tra il display del telefono e la strada, non riuscì a leggere chiaramente i piccoli
caratteri mentre sobbalzava sul pavé. Lo chiamò, ma dopo qualche squillo scattò la segreteria.
Un momento dopo, il cellulare si illuminò e cominciò a vibrare sul sedile del passeggero. Jacobi
lanciò un’occhiata e riconobbe il numero dell’ufficio.
«Antonio. A che punto sei?» chiese l’ispettore.
«Il bungalow 5, da cui è uscito il tizio con la sacca due giorni prima del ritrovamento del corpo,
non risulta prenotato. Però è come se avessero cercato di cancellare un nome. Ho chiamato Tosatti per
capire meglio la cosa, sta venendo qui.»
Jacobi ponderò un momento prima di decidere. «Aspettami, ti raggiungo in ufficio.»
Per fare prima, approfittando dell’esiguo traffico nella cerchia urbana, Jacobi imboccò
l’autostrada e arrivò al casello di Bereguardo in poco più di mezz’ora. Quasi un’ora esatta dopo la
breve conversazione con Borghesi, l’ispettore aprì la porta dell’ufficio.
Il vice lo salutò con un cenno. Sulla scrivania erano ammonticchiati sottili fascicoli, fotocopie,
fogli singoli istoriati dalla calligrafia a scarabocchio di Borghesi. Su tutti campeggiava il registro di
Tosatti, spalancato vicino a una tazzina di plastica del caffè, vuota. Gli occhi di Borghesi facevano la
spola dalle carte al monitor del computer.
Jacobi prese la sua sedia e si sedette di fianco a Borghesi, quindi raccolse il registro dal tavolo e
lo studiò sommariamente.
«Ho cercato di farmi un’idea del traffico di clienti. La frequenza delle prenotazioni, gli abituali,
il volume d’affari» disse Borghesi leggendo le sue note, appuntate sul retro di una stampata da buttare.
«Sto facendo ricerche sui nomi per eventuali precedenti.» Scosse la testa. «Niente di niente. Tosatti
dovrebbe essere qui a momenti.»
Borghesi cercò una pagina internet nella cronologia.
«L’unico meritevole di attenzione è Moreno Lanzicchi, un avvocato penalista, il cliente romano
menzionato da Tosatti.» Caricò un’altra pagina. «Quarantotto anni, apparentemente a posto, ma legato
a episodi controversi.»
Jacobi si sporse per vedere meglio.
«Nel suo curriculum, come praticante talentuoso in uno studio legale di Roma, compare tra gli
assistenti dell’avvocato Raimi, il difensore al processo contro il parà Giorgio Peraldi, accusato di
torture in Somalia nel 1993.»
«Me lo ricordo» disse Jacobi. «Lo scandalo, voglio dire.»
«Più di recente» proseguì Borghesi, «Lanzicchi ha ottenuto una breve ma intensa esposizione
mediatica come difensore di un deputato, una vicenda di festini a base di droga e sesso. Ho salvato gli
articoli online dove citano le sue dichiarazioni e un paio di interviste.»
Jacobi sospirò. Erano quelle storie a fare notizia. Rifletté un momento.
«Tosatti lo conosce dal processo?»
«Il suo nome non compare negli articoli e negli archivi giudiziari relativi al processo.» Borghesi
indicò lo schermo scuotendo la testa. «Lanzicchi lavora tra la capitale e Milano, ha uno studio
d’appoggio dalle parti di via Manzoni. Pieno centro.»
Jacobi si lasciò andare sullo schienale della sedia, la plastica cigolò per lo sforzo.
«Ho esaminato i documenti del pescaturismo, permessi e licenze» proseguì Borghesi. «Tutto
regolare, finora. C’era anche un listino prezzi per affitto di bungalow e attrezzatura. Ci sono clienti
occasionali provvisti già di tutto, che magari usano solo la barca per una gita in giornata. Poi ci sono
alcuni pacchetti, per chi invece non possiede attrezzatura e si ferma qualche giorno.»
..

«Un avvocato coi soldi che viene a pescare in squallide baracche?» Jacobi pensò a voce alta, in
tono dubbioso, quindi raccolse dalla scrivania la fotocopia della carta d’identità di Lanzicchi inserita
nel registro ed esortò il vice a proseguire.
«Tosatti è un tipo ordinato. Lanzicchi è suo cliente da quasi tre anni, e ha riservato un bungalow
con barca e attrezzatura in qualche occasione, solo nell’ultimo anno. L’ultima più o meno otto mesi
fa.»
«Tosatti dice di prestare i suoi bungalow agli amici» commentò Jacobi.
«Già.» Borghesi annuì. «C’è anche la faccenda delle chiavi non restituite al custode. Uno che si
fa vedere così di rado è facile dimenticarlo.»
Jacobi si trovò suo malgrado a concordare con Antonio. Eppure qualcosa non quadrava. «Strano
che Tosatti non si ricordi di averlo prestato a Lanzicchi, se si conoscono da tempo. Può anche essere
che la vita riservi sorprese, e l’avvocato abbia incrociato di nuovo la strada di Tosatti per puro caso. Ma
non mi convince, è un prurito alla base del cervello quando ripenso all’ex cappellano.»
Bussarono alla porta, un agente infilò dentro la testa.
«Ispettore, c’è qui Pietro Tosatti.»
Jacobi fece cenno di farlo entrare e congedò l’agente.
«Parli del diavolo» mormorò.
L’ex cappellano avanzò nell’ufficio con uno sguardo mite e paziente, salutò i poliziotti
cordialmente. Jacobi si alzò e gli indicò la sedia libera.
«Prego, si accomodi pure.»
Tosatti si sedette e accavallò le gambe, in attesa.
Jacobi ebbe la sensazione che fosse in qualche modo preparato alla situazione.
«Il registro riporta una prenotazione cancellata» disse subito Jacobi indicando la pagina.
Tosatti inforcò un paio di occhiali da vista, pescati da una delle mille tasche del gilet, ed
esaminò il registro per un minuto buono.
«Si ricorda il nome?» chiese Jacobi.
«No.» Tosatti approfittò di altri preziosi secondi di riflessione, poi rispose con un sorriso.
«Forse la prenotazione l’ha segnata Carlo, il custode.»
«Perché è cancellata?»
Tosatti li guardò a turno e allargò le mani. «Evidentemente perché non volevano più pescare.
Cosa c’è di strano?»
«Di solito i registri si tengono a penna, per evitare proprio situazioni come questa. Sia a noi che
a lei.» L’ispettore arrotolò le maniche della camicia, con calma e un bagliore di irritazione negli occhi.
«Signor Tosatti, forse l’aveva prestato all’avvocato Lanzicchi? Vi conoscete da parecchio,
almeno dal processo del ’93 contro Giorgio Peraldi. Il parà incriminato era un suo commilitone?»
L’ex cappellano cambiò espressione mentre l’ispettore elencava le sue domande. Rimase in
silenzio senza staccare gli occhi da Jacobi, per misurare la sua forza in base a tono, gesti e
determinazione. Rifletté un momento prima di rispondere. Era necessario scaricare la zavorra. Quando
fu certo che dalle sue parole sarebbe sorta una nuova ramificazione, per certi versi ancora più
inaspettata e rischiosa della faccenda della bambina, annuì deciso e composto.
«Sì, ho conosciuto Lanzicchi durante il processo. Giorgio era un mio commilitone, come dice
lei.»
«L’avvocato si è scoperto patito di pesca sportiva?» Jacobi raccolse il registro dalla scrivania
insieme agli appunti di Borghesi. «Oppure frequentava altri circoli prima di capitare da lei, a
Zeccheto?»
«Lo so, non è il massimo» disse Tosatti, «se intende che poteva permettersi posti migliori e più
attrezzati.»
«Stando al registro, sono a malapena tre anni che Lanzicchi è suo cliente. Vi siete rimessi in
..

contatto da poco, oppure dal ’93 a oggi vi siete frequentati?»


«Abbiamo avuto entrambi da fare» rispose tranquillo Tosatti, poi contrattaccò: «Ricorda come
finì il processo?»
Borghesi assisteva con la flemma di un arbitro di tennis. Jacobi non era certo l’Houdini degli
investigatori, ma si muoveva bene, era credibile.
«Peraldi fu condannato, mi sembra» cominciò a dire Jacobi.
«E si suicidò in carcere» lo interruppe concludendo Tosatti. «Quattro anni dopo. I giornali lo
scrissero per un paio di giorni, poi basta.»
«Quindi?»
Tosatti sorrise. «Il processo fu una sconfitta per Lanzicchi, come avvocato. Ricevette minacce
di morte, qualcuno dei compagni di Peraldi che non aveva preso bene la notizia. Mi chiese di
intercedere per lui, e lo lasciarono tranquillo.»
«Lei come l’ha presa, la notizia?» chiese Borghesi bucando il silenzio in cui si era arroccato.
Tosatti sbuffò con un ghigno, come se avesse già risposto mille altre volte alla stessa domanda.
Incassò le spalle.
«È successo tanti anni fa. Una vita fa, forse più di una ormai. Quasi non me lo ricordo più.
Credo sia stata una delle ragioni per cui ho deciso di cambiare tutto, e di lasciare collare ed esercito.»
«Crede? Non sa perché ha cambiato vita?» intervenne Jacobi.
L’ex cappellano lasciò trapelare uno sguardo di fastidio verso l’ispettore. Per un momento,
Jacobi scrutò nella cortina di serenità monastica che Tosatti evocava intorno a sé, come misura
difensiva. Ma per difendersi da cosa? Negli occhi dell’ex prete soldato, l’ispettore riconobbe la scintilla
di un furore latente, tenuto a bada con estrema fatica, soggiogato dai sensi del quieto vivere civile.
Tosatti lo metteva a disagio, era di lettura piuttosto ostica e non classificabile. Non lo lasciò rispondere,
virò la conversazione verso sponde più sicure.
«Qualcuno del suo vecchio gregge voleva fare la pelle a Lanzicchi, e lei appiana tutto. O ha il
dono dell’oratoria, oppure aveva molta influenza su di loro. Un favore da amico, non c’è che dire.»
«Riguardo a Lanzicchi» tagliò corto Tosatti, «non siamo propriamente amici. Era almeno dieci
anni che non sapevo niente di lui. Avevo letto di quel politico che aveva difeso, c’era il suo nome sui
giornali, e tornò tutto a galla.»
L’ex cappellano fece una pausa e guardò Jacobi con il suo sorriso mansueto da curato di
campagna, a metà tra il lascivo e il sornione. Curiosa la scelta delle sue ultime parole, pensò Jacobi
senza staccare gli occhi da Tosatti. Lo lasciò proseguire.
«Quando Lanzicchi ha aperto lo studio a Milano mi contattò e ci incontrammo. Fu così che
scoprii della sua passione per la pesca, e io gli dissi della mia piccola attività. Se poi volete sapere altro,
per esempio se Lanzicchi ha sempre amato pescare, chiedetelo a lui.» Tosatti frugò in un’altra tasca del
gilet e prese il cellulare, lo posò sulla scrivania e fece un cenno a Borghesi. «Il numero è lì dentro, nella
rubrica.»
..

38

Barbara trovò un parcheggio fortunato, all’ombra e a due passi dal sentiero di terra e sassi che
scendeva sulla sponda del fiume. Il litorale a ridosso del ponte di ferro era gremito di gente.
Ombrelloni, borse frigorifere, tavolini di plastica da pic-nic, bagnanti distesi sulle spugne ad asciugarsi
dopo un tuffo rigenerante, gruppi di ragazzini indolenti che prendevano il sole e si scambiavano
impacciate dimostrazioni di intimità e affetto. Sembrava già ferragosto, complice anche la temperatura
fin troppo alta per la stagione.
Si diresse verso il pontile con le barche. Percorrendo il sentiero lungo la riva, subito dopo avere
superato il ristorante «La Sponda» di fianco allo Sporting Club Becca, ci si imbatteva in casette di
villeggiatura nascoste nella vegetazione. La terrazza coperta del locale era affollata di clienti a torso
nudo, si rinfrescavano all’ombra con birra e bevande fredde a portata di mano, qualcuno succhiava
avidamente ghiaccioli colorati prima che si sciogliessero per l’arsura.
Barbara individuò un uomo sul pontile: folta barba bianca, maglietta rosso fuoco, pantaloncini
blu a righine e zoccoli di legno. Il vecchio fumava serafico la pipa. Quando fu a pochi passi e lo guardò
bene di profilo, Barbara lo paragonò a certe figure di contorno dipinte nei ritratti di corte
rinascimentali. I popolani dai lineamenti antichi, geometricamente improbabili eppure armonici. In
questo caso, il mento dell’uomo sembrava tutt’uno con il labbro inferiore, aveva gli occhi minuscoli e
incorniciati da lembi di pelle cascante. Inutile cercare di stabilirne l’età. Per un momento, la giornalista
si domandò se per caso avesse scelto lo scemo del villaggio per cominciare la sua inchiesta.
«Buongiorno.» Barbara lo salutò col sorriso più naturale che riuscì a sfoggiare.
L’uomo si voltò e la squadrò dall’alto in basso prima di annuire, senza rispondere.
«Sono una giornalista» si presentò cercando il tesserino nella borsa.
L’uomo cominciò a scuotere la testa senza nemmeno rivolgere uno sguardo alle credenziali, con
la pipa stretta in mano, quasi temesse che quella donna gliela portasse via.
Barbara rinunciò alle formalità e affondò le mani nelle tasche della giacca.
«Lei è un pescatore o affitta le barche?»
Il vecchio annuì una volta, con decisione.
La Moroni rimase in attesa di un seguito.
«Pescatore» precisò l’uomo con uno sforzo evidente.
«Quindi conosce il pesce siluro?»
«Altro che» rispose sollevando ad arco le folte sopracciglia.
«Sa che ne hanno pescato uno da record, proprio qui, una settimana fa?»
Il vecchio aspirò dalla pipa, e rimase in silenzio.
«È così?» insistette Barbara.
L’uomo scrollò le spalle. «Se ne pescano tanti, oramai.»
«Sì, ma questo era di quasi quattro metri» precisò Barbara.
Il vecchio la fissò con i suoi occhi in miniatura.
«Non sa dirmi niente? Pare ci fosse la polizia, anche se non capisco perché. In fondo si tratta
solo di un pesce» mentì Barbara.
«Parli con Lele» disse l’uomo.
«Chi?»
«Lele» ripeté seccato, indicando con la pipa verso il ristorante.
Barbara seguì la direzione del gesto.
«È il proprietario?»
L’uomo la ignorò e puntò lo sguardo sulle acque del fiume, sui riflessi ballerini del sole. Con
quella luce, sembrava impossibile considerarlo minaccioso, eppure ogni estate qualcuno annegava nei
..

suoi gorghi e correnti.


«Grazie.»
Barbara lo lasciò e si incamminò verso il ristorante, consapevole degli sguardi maschili nella
veranda, puntati sulle sue gambe abbronzate.
Salì qualche gradino e si trovò nella sala d’ingresso del ristorante, che in questo caso coincideva
con il bar. Si avvicinò al bancone di metallo, un giovane era impegnato ad asciugare alcuni bicchieri.
«Vorrei parlare con Lele, per favore» chiese Barbara.
Il ragazzo la guardò un momento, senza interrompere il suo lavoro. «Chi lo cerca?»
Barbara pescò il portafoglio nella borsa ed estrasse un biglietto da visita, quindi lo porse al
barista.
Il giovane posò il bicchiere e lesse, infine lo restituì a Barbara. «Sono io.»
«Possiamo parlare un minuto?» Barbara si guardò intorno. Non vedeva altro personale.
Lele sparì un momento in una porta alle sue spalle. Nei pochi secondi che rimase aperta,
Barbara intravide pentole antiaderenti e tegami assortiti appesi a una parete di piastrelle bianche. Lele
uscì seguito da un uomo con la barba in camicia bianca a mezze maniche da cui si vedeva chiaramente
la canottiera, studiò dubbioso la giornalista e sostituì il ragazzo al bancone.
«Il tempo di una sigaretta» avvisò Lele mostrando nel palmo della mano un pacchetto e
l’accendino.
Si allontanarono di qualche decina di metri lungo il sentiero che sovrastava la sponda del fiume.
Camminarono in silenzio finché non si fermarono, e Lele accese la sigaretta. Fu abbastanza educato da
offrirne una a Barbara, che declinò.
«Lele sta per...?» domandò per alleggerire la tensione che avvertiva nel ragazzo.
«Raffaele.»
«Ci diamo del tu?» Lo avrebbe fatto in ogni caso, non aveva nemmeno vent’anni.
Lele annuì e abbassò gli occhi, poi li puntò sul pontile. Sembrava a disagio, insofferente.
«Cosa vuoi sapere?»
Sveglio e di poche parole, pensò Barbara. Meglio così.
«Una settimana fa hanno trovato un siluro, proprio qui davanti.» Barbara indicò con un cenno il
punto dove guardava Lele. «Alcuni canottieri che si preparavano a un’uscita all’alba» aggiunse a
beneficio del ragazzo.
«C’ero anch’io» confessò placidamente Lele. Aspirò una boccata e fissò Barbara. Era
spaventato, ma non da lei. Si passò la lingua sulle labbra. «Non voglio essere nominato nell’articolo»
disse senza nemmeno chiedere per chi scrivesse Barbara o di cosa si occupasse.
«D’accordo» assicurò lei.
Il ragazzo allungò il dito verso il fiume. «Era là in mezzo. Avevamo appena messo la barca in
acqua, cominciava a fare giorno, c’era già abbastanza luce. Qualcuno ha visto la sagoma. Se vivi qui, lo
riconosci subito un pesce a pancia in su. Soprattutto se è grosso.» Gettò la sigaretta. «Ci siamo
avvicinati e l’abbiamo toccato con la punta di un remo per voltarlo verso di noi.» Fece una lunga pausa.
«Poi?»
«Poi l’abbiamo portato a riva» rispose titubante, stava omettendo dei particolari.
«Avete visto subito la mano che usciva dalla bocca?» chiese Barbara.
Lele la fulminò con gli occhi. Era ancora spaventato, stavolta anche da lei.
«Ho parlato con l’ispettore che si occupa del caso. Vai avanti» tagliò corto Barbara, per fargli
capire che non mentiva.
Il ragazzo parve riprendersi e trasse un respiro profondo.
«Quando lo abbiamo girato verso la barca spuntavano solo le dita dall’acqua, di tanto così.»
Alzò una mano e la coprì con l’altra fino alla base delle unghie.
«L’avete tirato fuori dal fiume, giusto?»
..

Lele annuì. «Un bestione. Secondo me almeno quattro metri.»


«Quasi quattro metri» puntualizzò Barbara. «Non hai parlato con nessuno di questa storia?»
«No, no. La polizia ha detto di tenere la bocca chiusa, e l’abbiamo fatto. Almeno io, parlo per
me.»
Barbara lo lasciò rimuginare per un minuto.
«Chi può avere fatto una cosa simile?» Voleva incalzarlo a proseguire, fargli aggiungere
qualche particolare. Lele era ancora restio.
«Non riesco a pensarlo» rispose scuotendo la testa. «È la prima volta in vita mia che vedo una
roba così. Non capita tutti i giorni.»
«Spero proprio di no» lo assecondò Barbara per aumentare i suoi punti fiducia.
«Quel siluro era enorme, ma la mano che usciva era proprio piccola» disse il ragazzo quasi tra
sé, e guardò Barbara.
La giornalista impiegò qualche secondo prima di decidere se rispondere alla tacita domanda del
ragazzo. I punti fiducia, pensò, e aprì la bocca.
«Una bambina di cinque anni.»
Tralasciò i particolari sulla fine della piccola. Lele annuì lentamente.
«Ho una sorellina di sei» disse con una specie di smorfia, triste e beffarda insieme.
Alla fine, Barbara glielo chiese. «Di cosa hai paura?»
La guardò dritta negli occhi. «Pensavo a mia sorella in bocca a un pesce siluro.» Scosse la testa.
Barbara fu lieta di non averlo messo al corrente dei dettagli. Il ragazzo era davvero terrorizzato.
«Pensi che sia stato qualcuno a farlo?»
Lele corrugò la fronte e si voltò di sbieco verso Barbara.
«Non lo so, ma non credo che quel pesce mangia i bambini.»
Barbara incassò cercando altre domande.
«Non ne hai parlato nemmeno a casa?» insistette.
«No, l’ho già detto.»
«Conosci qualche altra storia che potrebbe collegarsi a questa?»
Lele negò con fermezza. «Al massimo affoga qualcuno.» Poi sembrò illuminato da un’idea.
«Magari il siluro ha trovato il corpo sul fondale, l’ha ingoiato, poi ci è rimasto soffocato.»
Barbara fu tentata di sorridere per l’ingenua teoria del ragazzo, a sua volta ignara che fosse la
prima ipotesi vagliata da Jacobi. «La polizia segue un’altra pista» rispose in tono vago.
«Lele!»
Si voltarono insieme.
Sulla veranda del ristorante si era affacciato l’uomo con la barba che l’aveva sostituito al
bancone. Senza dire altro, batté un dito sull’orologio da polso, che non aveva. Il ragazzo annuì e fece
un cenno con la mano.
«Devo tornare al lavoro» sorrise, ma con la stessa ritrosa timidezza che lo permeava, e si
incamminò.
«Lavoretto estivo?» Barbara camminava al suo fianco. Curiosa per deviazione professionale.
Lele allungò il mento verso l’uomo con la barba, che li seguiva con lo sguardo. «È mio zio. Lo
aiuto nei fine settimana e d’estate, quando c’è un sacco di gente.»
Barbara lanciò istintivamente un’occhiata verso la sponda affollata. Qualcuno stava facendo
armi e bagagli per tornare a casa, ma c’era ancora un discreto numero di persone a pancia all’aria, per
gli ultimi raggi di sole. Guardò l’ora e calcolò i tempi per rientrare a Milano e stendere una bozza di
massima del pezzo da proporre al suo gancio al «Corriere».
Salutò e ringraziò Lele, che riprese silenzioso il suo posto dietro il bancone con lo zio a due
passi. Barbara era sicura che gli avrebbe fatto il terzo grado appena girato l’angolo. Mentre si dirigeva
alla Polo, vide il vecchio pescatore che la fissava dall’ormeggio sul pontile. Con le braccia conserte, la
..

sua pipa e quella faccia da museo. Per un secondo fu tentata di insistere e provare di nuovo. Ma
quell’Achab di fiume, che doveva ancora pescare il suo Moby Siluro, gelò qualsiasi slancio di Barbara
con una sfumatura torva in quegli occhi impossibilmente piccoli.
..

39

Jacobi scoccò uno sguardo all’orologio sopra il bancone del bar, il profumo caldo del caffè
corretto gli saliva alle narici. Le otto spaccate. L’ispettore mandò giù la tazzina bollente e fece cenno al
barista di prepararne un altro. In quel momento non c’erano altri clienti, una di quelle oasi
imprevedibili in cui per pochi minuti un luogo solitamente affollato è del tutto deserto, e lo si sente
proprio.
«Ales.» Jacobi chiamò con un cenno il giovane rumeno.
Il barista si avvicinò con un ghigno amichevole ma cauto. L’ispettore Remo Jacobi, sedicente
«connazionale». Suo padre era rumeno, si era informato su di lui da alcuni amici nella comunità. Era un
vecchio rispettato da tutti, si faceva gli affari suoi in periferia e aveva la fama di uomo onesto, uno che
lavorava sodo. L’ispettore era suo figlio, certo, ma in fondo Ales si rendeva conto di parlare con un
poliziotto italiano. Dal momento che l’ispettore non conosceva una parola di rumeno, non poteva essere
che così. Un quasi meticcio, non meritevole di essere catalogato nemmeno come mezzosangue di
razza, che aveva perso i costumi della propria terra.
«Ales, l’hai mai mangiato il pesce siluro?»
Il ragazzo lo squadrò un momento.
«In Romania è una specialità, no?»
Alesandru scosse la testa. «No, ispettore. Ho capito, mi fa schifo.»
Jacobi annuì e si appoggiò con le spalle al bancone, con una panoramica del bar, tutto per sé.
«Bravo ragazzo» disse con gli occhi verso la porta del locale, consapevole che il momento privato
fosse quasi giunto al termine. Si preparò al conto alla rovescia, meno di un minuto dopo la porta si aprì
ed entrarono due tizi in giacca e cravatta e una donna che probabilmente si recava in ufficio, dai gesti
frettolosi, pratica, puntuale.
Ales lo chiamò. «Il suo secondo caffè, ispettore.»
Jacobi si voltò verso il banco, ringraziò e bevve d’un colpo. Lasciò scendere la palla di fuoco
con un sospiro, soppresse un rutto di protesta dello stomaco, salutò e s’incamminò verso l’ufficio.
Jacobi riconobbe di sentirsi carico, in forma come non gli capitava da tempo, colmo di un
entusiasmo un po’ sbarazzino, magari ingenuo ma creativo. Aveva ancora in tasca la sua pillola.
Odiava le medicine, sebbene lo avessero aiutato quando ogni altro appiglio sembrava avere ceduto.
Attraversò corridoi e uffici a passo snello, con lo sguardo deciso, salutando tutti con sincera cordialità.
Aprì la porta dell’ufficio, trovò le finestre spalancate. Borghesi era in maniche di camicia,
sollevò gli occhi dalla scrivania e lo salutò.
«Mattiniero oggi» commentò l’ispettore sedendosi alla sua postazione. Accese il computer,
tamburellò sovrappensiero con le dita mentre la macchina prendeva vita.
«Non ho chiuso occhio» disse Borghesi senza guardarlo. «Ha strillato tutta la notte» borbottò
tra sé.
Quando l’ultima icona si stabilizzò sul monitor, Jacobi cliccò sulla connessione internet. Prima
ancora di leggere la posta, fece una ricerca preventiva e generale su Google, digitando «baba
yaga+mercenari». Le prime voci erano collegamenti a enciclopedie online e si riferivano al folklore
russo, oltre a qualche birreria che si chiamava come la strega, non certo un buon auspicio per gli
avventori. Arrivato a metà elenco, vide il link per alcuni portali di reportage che si occupavano di ONG
e zone di guerra.
«Sto facendo una piccola ricerca sul passato militare di Tosatti, la sua scheda di servizio, dov’è
stato, cosa ha fatto» annunciò Borghesi.
«Un momento, Antonio.»
Jacobi annuì e cliccò per accedere a un sito di giornalismo militante. Cominciò a leggere alla
..

ricerca della menzione che gli interessava, sorvolando rapidamente da un paragrafo all’altro di articoli
e sezioni. Dopo venti minuti di rimandi a interventi troppo faziosi per essere interessanti, Jacobi sbuffò
stanco della poca obiettività delle notizie riportate, che fornivano quasi esclusivamente titoli enfatici di
protesta in salsa no global.
Staccò la mano dal mouse e cercò ispirazione sulle torri longobarde. Aprì la posta elettronica.
Saltò subito agli occhi dell’ispettore un messaggio della Moroni. Oggetto: SORPRESA.
Jacobi detestava le sorprese. Barbara spiegava in poche righe che aveva contattato un amico al
«Corriere», senza aggiungere molto altro. Sotto le iniziali, era incollato un link.
L’ispettore rilesse la mail di Barbara per essere sicuro di non essersi perso niente, sebbene
fossero a malapena poche righe essenziali, infine puntò la freccia del mouse sul link azzurro e cliccò.
Dopo quasi un minuto di caricamento, sul monitor apparve una pagina dell’edizione online del
quotidiano milanese, nella sezione di cronaca della provincia. Una foto che l’ispettore aveva già visto
durante le sue ricerche campeggiava sulla colonna a sinistra del pezzo, e raffigurava un siluro di un
paio di metri sollevato come trofeo da due uomini sulla quarantina, a bordo di una piccola barca a remi.

PAVIA – Il devastatore dei fiumi, il pesce siluro, torna a far parlare di sé. Una settimana fa, un
esemplare di silurus glanis di quasi quattro metri è stato pescato al Ponte della Becca, punto in cui le
acque del Ticino confluiscono nel Po. Secondo la testimonianza di un canottiere presente al momento
del rinvenimento, si trattava di un siluro da record. Tuttavia non rientra nel contesto di una gara di
pesca sportiva, ma a quanto pare di un’indagine di polizia. Il siluro infatti era già morto quando è stato
avvistato dai canottieri, in bocca spuntava quella che per un testimone sembrava «una mano molto
piccola». Sulla banchina del fiume erano presenti le forze dell’ordine. Interpellato a riguardo,
l’ispettore Jacobi della polizia di Pavia, anch’egli presente sulla scena del ritrovamento, non ha voluto
rilasciare dichiarazioni. Il problema legato al traffico illegale di pesce con l’Est lungo il Po, soprattutto
nel cremonese e ferrarese, ha assunto proporzioni che non escludono la presenza di gruppi criminali a
gestirlo, non solo italiani. Il fenomeno è organizzato da slavi, che reclutano lavoratori a giornata per
filettare il pesce direttamente sulla sponda del fiume. Il silurus glanis è noto per cibarsi di pesci e
uccelli che popolano le aree confinanti con il fiume, e le leggende parlano anche di cani di piccola
taglia. L’ispettore Jacobi si è rifiutato categoricamente di rispondere ad alcuna domanda circa la
possibilità che all’interno del siluro ci fosse il corpo di un bambino.

Due righe più in basso, gli occhi dell’ispettore volarono sulla firma dell’autore. Anzi,
dell’autrice, come temeva e sospettava.
REDAZIONE ONLINE
Jacobi corrugò la fronte. Il taglio era quello della Moroni, e nessuno l’aveva «interpellato a
riguardo», come riferiva l’articolo. Doveva essere lei per forza.
«Antonio.» Chiamò il vice a bassa voce. «Vieni un po’ qui.»
Borghesi si avvicinò e rimase un momento a bocca aperta, guardò l’ispettore. «Quando ti hanno
intervistato?»
«Mai.»
«È quella giornalista di Milano?» Borghesi inclinò la testa con una smorfia eloquente. Jacobi
annuì.
«Be’, non sei contento?» chiese il vice. «Adesso almeno qualcuno ne parla.»
Jacobi lesse di nuovo l’articolo, pensando che non sarebbe cambiato niente. Non c’erano
riferimenti chiari a smuovere qualcosa. L’unica cosa che non gradiva davvero era il suo nome nel
pezzo.
..

40

Scanna si pulì la bocca e gettò il tovagliolino di carta unto sul piatto, con gli avanzi dei gusci di
gamberi e qualche frammento di pastella del pescaíto frito che aveva appena terminato. Puntò gli occhi
oltre la finestra aperta della Cervecería Varadero, verso un blocco dell’Atlante che si tuffava nel
Mediterraneo, sulla punta meridionale della penisola iberica, oltre Gibilterra. Una parete di roccia
imponente, grigia e preistorica, la costa del Marocco ad appena undici chilometri.
Si respirava aria di Africa quando il vento perenne soffiava da levante, gioia lussuriosa per la
popolazione di gabbiani che rimanevano immobili nel cielo turchese, senza l’ombra di una nuvola. Un
furgoncino Nissan carico di tavole da surf sfrecciò sulla lingua di asfalto che separava la linea delle
costruzioni dal porto e dalla spiaggia di sabbia fina, desertica.
Vide un braccio tatuato spuntare dal finestrino del passeggero, accompagnato da musica rock
che si allontanò alla stessa velocità del veicolo. Per quasi tutto l’anno, Tarifa diventava meta di surfisti
di varie categorie che si lanciavano sulle onde dell’Atlantico, e molto più spesso attendevano per ore a
mollo avvolti nelle mute. Si guardò intorno nel locale. A un tavolo vicino erano seduti tre ragazzi in
costume da bagno, abbronzati e con i capelli schiariti dal sole. Come se ce ne fosse bisogno, pensò. A
giudicare dall’aspetto, dovevano essere olandesi o tedeschi, già biondi di natura. Sembravano usciti dai
poster nazisti: «La Germania è veramente vostra amica», il fante crucco con la mano tesa verso il
mondo e un sorriso bonario sotto il famigerato elmetto. Peraldi gliene aveva fatti vedere parecchi, era
un collezionista dei manifesti di propaganda del Terzo Reich. Povero Giorgio, pensò Scanna
trattenendo un rutto. Alla fine, ha perso la testa. E col nostro mestiere, con le scelte che abbiamo fatto,
non te lo puoi permettere.
Scanna finì l’ultimo sorso di cañita e si alzò, pagò e inforcò gli occhiali da sole, quindi si
diresse a piedi verso il castello di Guzmán «El Bueno». Pensò alla storia del nobile spagnolo che nel
1296 aveva difeso Tarifa dai mori, e aveva gettato al nemico il proprio coltello perché tagliassero la
gola al figlio preso in ostaggio, piuttosto che arrendersi alla capitolazione. Rispettava quel gesto fiero, e
forse anche gli spagnoli dal momento che avevano eretto una statua in onore del Bueno, immobilizzato
con la lama in pugno, pronto a scagliarla giù dai bastioni.
Varcò l’ingresso del porto verso la biglietteria dei traghetti ad alta velocità per Ceuta e Tangeri.
Era stato costretto a fermarsi due giorni più del previsto a Tarifa, a causa del forte vento che aveva
costretto a interrompere il transito da e per l’Africa. Nel parcheggio affacciato sul molo, numerosi
veicoli di marocchini sostavano al bivacco con i loro occupanti, gruppi di tre o quattro uomini e
famiglie intere. Le auto quasi toccavano per terra tanto erano cariche. Portapacchi artigianali e avvolti
nel cellophane, con elettrodomestici e altri regali per i familiari e conoscenti rimasti in patria. Per il
casino scoppiato nel Maghreb, si era triplicato il cordone di controlli della Guardia Civil, la ex polizia
franchista per cui Scanna doveva confessare un certo rispetto. Gente tosta. Ma lui non aveva
appartenenze, e non ne aveva mai avute. Considerava l’umanità davvero in modo globale, una versione
quasi surreale della modernità per un lupo d’altri tempi e valori come lui. Non concepiva le ideologie o
la collettività, solo l’istinto di sopravvivenza individuale, con il sangue e l’astuzia, il trionfo dell’uomo
sulle altre specie animali.
Arrivò davanti allo sportello della biglietteria, ancora chiuso, e scrutò il mare per pronosticare le
possibilità di partire in giornata. Il tappeto blu scuro era scheggiato da lampi di spuma bianca,
sembrava tutt’altro che navigabile, almeno secondo i parametri della compagnia di trasporto.
Non era la prima volta che tornava in Africa. Poteva contare su diversi contatti sparsi per il
continente nero quando aveva bisogno di nascondersi per qualche tempo. Per la cifra giusta, si riusciva
a comprare un po’ di invisibilità temporanea. In alcuni casi, poteva avvalersi di favori resi e non
sborsare un quattrino per qualche mese di alloggio e documenti falsi. Il suo programma prevedeva di
..

entrare in Mauritania dal sud del Marocco, senza fretta. E poi da lì spingersi a est, verso il Sudan.
Voleva evitare il nord in fiamme, anche se paradossalmente avrebbe potuto mimetizzarsi con più agio
in quel delirio di rivoluzioni e proteste. E non intendeva avvicinarsi troppo alla Somalia. Nemmeno i
suoi amici di Baba Yaga potevano garantire per lui laggiù dopo quello che era successo. Anche dopo
un milione di anni, pensò Scanna, quella gente non si dimentica se hai un debito da saldare. Grandi
regolatori di conti.
Sbuffò e guardò l’ora, quindi sentì vibrare il telefono in tasca. Un messaggio. GUARDA LA
POSTA. Riconobbe il numero. Tosatti. Mugolò spazientito e scosse la testa. Rimase un paio di minuti
immobile nel vento, con il cellulare in mano e gli occhi socchiusi per la luce accecante, già africana.
Non avrebbe dovuto ricevere altre comunicazioni da quel numero, dopo il lavoro a Zeccheto. Forse era
un incarico inatteso e voleva sondare la sua disponibilità? Strano, pensò. Si conoscevano da molti anni,
e da altrettanti lavoravano spesso in coppia. Lui il braccio, il suo socio la mente, l’organizzatore.
Sebbene non avesse quasi mai premuto un grilletto, Tosatti poteva essere più spietato e letale di lui. A
volte pensava alla loro amicizia come a un rapporto affettivo tra due squali bianchi: privo di
intelligenza ed emozioni, solo ricordi meccanici e comportamenti di causa-effetto, o azione-reazione.
Proteggersi a vicenda, e non farsi scrupoli a divorare l’altro con ferocia per portare a casa la pelle.
Si incamminò verso il centro dell’antica medina, vicino ai vicoli dove si stipavano caffè,
boutique e negozi sportivi, verso una cartoleria con una decina di postazioni internet. Gli consegnarono
un foglietto con un numero e si accomodò al computer corrispondente, di fianco a una cicciona con la
carnagione lattea che sembrava inglese e puzzava di sudore. Aprì la connessione e inserì la password
per una delle caselle che aveva aperto, sempre da internet café diversi e chiudendo la casella ogni due
settimane, per aprirne altre «fresche». A volte, i contatti preliminari per un contratto specifico erano
inseriti su finti profili di alcuni social network meno battuti, ma non capitava tanto spesso. Ci volevano
nove mesi per chiudere definitivamente un account, perciò aveva un taccuino su cui appuntava indirizzi
e parole di accesso per le caselle ancora attive. In questo caso, si trattava della stessa con cui aveva
accettato l’ultimo incarico, e l’avrebbe sicuramente chiusa dopo avere letto quel messaggio.
Oggetto: PESCA MIRACOLOSA.
Il testo, nella sua brevità, spiegava fin troppo: È DI STAMATTINA, ABBIAMO UN
PROBLEMA. DEVO PREOCCUPARMI?
Sotto, un link per il sito internet del «Corriere» di Milano. Scanna cliccò e scoccò un’occhiata
alla sua vicina di postazione. Leggeva la posta con un sorriso ebete. Quando portò di nuovo lo sguardo
sul monitor, vide la foto dei pescatori che reggevano un pesce siluro e lesse l’articolo. Memorizzò il
nome dell’ispettore citato, Jacobi, e non gradì l’anonima firma redazionale in calce al pezzo. Preferiva
sapere il nome dei potenziali pericoli da aggirare o eliminare. Tamburellò le dita sul tavolo per qualche
secondo, quindi digitò: STO TORNANDO.
Uscì dalla posta e impiegò qualche minuto per iniziare la procedura di annullamento della
casella di posta elettronica. Entro nove mesi, quell’indirizzo sarebbe scomparso dalla Rete. Imprecò a
denti stretti, nel silenzio quasi religioso dell’internet café, punteggiato solo dal ticchettio delle dita
lipidiche della cicciona inglese sulla tastiera. Maledì il suo socio. Per una volta, si era lasciato
convincere dall’avidità, invece che dall’istinto. E forse dalla paura. L’avvocato poteva incastrarli
entrambi per la storia delle torture in Somalia. Lanzicchi aveva pagato sull’unghia quarantamila euro
per procurare la bambina a quel suo cliente importante, uno degli insospettabili mostri mascherati da
individui di spicco della società. L’unico compito di Scanna era stato quello di procurare «l’articolo»,
come lo aveva definito Lanzicchi, e «ripulire in caso di problemi». E i problemi c’erano stati.
Sentì la mascella tramutarsi in marmo, dovette trattenere l’impulso di devastare il computer e il
resto del locale, urlando come un folle. Ma era un professionista. Sapeva controllarsi. Non sarebbe mai
uscito di testa. Non avrebbe mai toccato il fondo avvilente del barile, immune a quella sensazione di
oblio e instabilità psicologica che aveva spinto ex poliziotti e militari a commettere stragi su autobus
..

pieni di turisti o sparare contro gli zingari in una piazza cittadina.


Per quello che ci aveva guadagnato, si era sbattuto fin troppo per esaudire la richiesta. Era stato
difficile. La tratta di minori dall’Est, Africa e Asia era un mercato attivo e fiorente, ma una bambina di
massimo sei anni con specifiche caratteristiche fisiche era una commissione particolare. Aveva dovuto
rispolverare un paio di contatti che risalivano al dopo tsunami in Thailandia.
Con la scusa delle missioni di soccorso, nascosti tra veri operatori umanitari di ONG e
fondazioni filantropiche di tutto il mondo, c’erano anche trafficanti di bambini e schiavisti assortiti.
Con le loro guardie del corpo di mercenari, di cui faceva parte anche lui. Per loro il cataclisma era stato
una manna. Si ricordava di un florido americano, un ex sergente dei Marine di Biloxi, Mississippi. Un
uomo corpulento di quasi cinquant’anni, con taglio a spazzola e abbronzatura da miliardario, le mani
così grandi che poteva impugnare due pistole in una sola. Erano seduti davanti a un piccolo cimitero di
bottiglie di Singha vuote, al tavolino di plastica di un baracco sulla strada lungo la baia di Phang Nga,
devastata dalla furia dell’onda assassina. Una vecchia cucinava wok per la decina di clienti,
alternandosi su un paio di fornelli da campo e con una capiente borsa frigorifera con le bevande a
portata di mano. Un ragazzo, forse il figlio o il nipote, di tanto in tanto portava provviste e rifornimenti
liquidi su uno scooter scassato giallo. L’ex sergente sorseggiava la birra come un turista qualsiasi,
osservava il brulicare di soccorritori e operatori umanitari con un ghigno. Si definiva un «talent scout»:
«Dopo trent’anni nell’esercito, ho scoperto di avere un grande talento nella scoperta di talenti» e
rideva. Si riferiva ai bambini che procurava per il mercato di film pedopornografici su commissione.
«Certo qui non se la passerebbero meglio» sosteneva con una scrollata di spalle. «Anche se qualche
porco se li sbatte un po’. Dovresti vedere quanti ne fanno uscire dal Messico» e rideva e ululava come
un coyote, uno dei nomignoli per chi trasportava clandestini oltre il confine.
C’era voluto del tempo, ma Scanna si era rivolto ai canali giusti, e alla fine la transazione si era
conclusa con successo.
Nonostante il «problema» con Lanzicchi.
Quel viscido, Scanna pensò all’avvocato. Tosatti si era messo in affari con lui solo perché aveva
difeso un amico nel processo scandalo seguito alle denunce per tortura, ai tempi della Somalia. C’erano
anche Scanna e Tosatti nel gruppo di soldati presenti alla scena, ma per fortuna non comparivano in
nessuna delle fotografie. Solo Lanzicchi lo sapeva. Era stato abile nel tenere fuori i loro nomi, ma il
credito per quel favore si era esaurito con la bambina.
Percorse sovrappensiero il lungomare e si sedette su una panchina che sovrastava il porto. Sentì
la sirena di un traghetto e un momento dopo la fila di veicoli strabordanti dei marocchini cominciò a
muoversi per salire a bordo. Evidentemente, la capitaneria considerava le condizioni del mare
accettabili per la traversata. Scanna sbuffò scocciato. Si chiese com’era stato possibile ritrovare il corpo
della piccola. Chi cazzo l’ha infilata in bocca a un pesce? Pensò a Oleg e al gruppo di sbandati ai suoi
ordini. Pazzi drogati. Gente disturbata sul serio. Cercò di ricostruire una possibile spiegazione degli
eventi successivi alla sua partenza dal pescaturismo.
Sollevò gli occhi sulla costa africana, ma in realtà vedeva un tratto di fiume nel mantovano, con
un macello all’aria aperta ed ex mercenari slavi che si improvvisavano pescatori, e facevano a pezzi a
colpi di machete e coltellacci tutto ciò che gli portavano davanti. Senza intelligenza, solo meccanica
muscolare.
Si passò una mano sulla testa quasi rasata. Non era possibile. Non potevano essere stati così
idioti. Si alzò in piedi di scatto. Si incamminò stringendo il telefono nella mano, imboccò un tratto di
passeggiata coperta da veicoli parcheggiati, sotto di lui il Mediterraneo. Non c’era nessuno. Posò il
cellulare a terra e lo fece a pezzi pestandolo con i piedi, quindi raccolse la carcassa e la gettò tra i flutti.
Doveva scoprire cosa sapeva la polizia, quel Jacobi. Chi era e dove abitava. Era necessario incontrare
Lanzicchi e chiudere i rapporti con lui.
Sbucò dalla porta della città vecchia e percorse il rettilineo che conduceva fuori dal paese,
..

diretto alla pensione per turisti fricchettoni dove alloggiava indisturbato da qualche giorno. In pochi
minuti chiuse il bagaglio, una capiente e spartana sacca di tela, che la disciplina militare gli aveva
insegnato a ottimizzare con i contenuti indispensabili. In spagnolo fluente domandò alla ragazza alla
reception se aveva un orario degli autobus, lei materializzò un sottile dépliant da sotto il banco e fu
abbastanza gentile da consultare velocemente un sito alla ricerca di un volo da Madrid o Málaga per
Milano o Bergamo, per il giorno dopo al più tardi. Scanna lesse i risultati della ricerca e annotò su un
foglietto i voli a portata di tempo. La ragazza chiese se voleva prenotarlo da lì, ma lui ringraziò con un
sorriso e disse che avrebbe preso il biglietto direttamente in aeroporto, gli bastavano gli orari.
Dieci minuti dopo era davanti alla fermata degli autobus, seduto al tavolino di un caffè per
surfisti con una tazza fumante di caffè americano che alla fine non assaggiò neppure. Calcolò che al
massimo in trentasei ore sarebbe arrivato a Zeccheto, prima di tutto doveva rivedere un vecchio amico.
..

41

L’aria portava con sé un vago aroma di interiora di pesce e vegetazione fluviale, una fragranza
sgradevole a cui Oleg si era abituato. Sputò la gomma che masticava sovrappensiero da ore, e spazzò
un po’ di terra con la punta consunta delle polacchine, come i cani che coprono i loro bisogni. L’ultimo
furgone si avviava traballando sul ripido sterrato per immettersi nella stretta corsia della provinciale.
Oleg sospirò per la fine di un’altra giornata di lavoro. Si incamminò a testa bassa verso la sua
Audi A3 nera, parcheggiata sotto una macchia di pioppi. Prese le chiavi dalla tasca e controllò il
cellulare. Vide un messaggio non letto, e aspettò di essere seduto al volante prima di aprirlo. Un
momento dopo, appena associato il messaggio al numero, imprecò e tirò una manata sul cruscotto.
Si piegò indietro e frugò sotto il posto del passeggero, quindi afferrò il portatile e lo posò sulle
ginocchia. Lo accese e cercò in tasca la chiavetta di connessione wi-fi. Nei pochi minuti finché non si
connesse alla casella di posta, Oleg cercò di immaginare perché lo avesse contattato. Aprì il messaggio
e cliccò sul link. Per poco non vomitò bile quando lesse ISPETTORE JACOBI.
Per Oleg, l’Italia era un posto strano con leggi esotiche. Potevi trafficare nel torbido davanti a
tutti, e potevi anche essere osannato dalla comunità per questo, ma rischiavi anni di carcere per
un’infrazione stradale. Non aveva ancora imparato a muoversi con scioltezza nel groviglio di tacite
norme da seguire per non richiamare attenzioni ufficiali. Tutto, in fondo, si svolgeva alla luce del
giorno.
Per questo si fidava del prete, come lo chiamava insieme ad altri giù al fiume. Anche lui aveva
il tatuaggio, lo aveva mostrato subito al primo incontro. Che fosse un soldato e un uomo di fede gli
aveva fatto guadagnare il rispetto immediato di alcuni veterani delle guerre balcaniche, ridotti ormai a
scaricare bancali e fungere da pedoni. Ferventi guerrieri cristiani. Gli venne in mente Viktor, che di
fianco al tatuaggio di Baba Yaga ne aveva uno della Madonna di Medjugorje con l’AK-47 in braccio.
Baba Yaga, pensò Oleg, improvvisamente concentrato su come lo avrebbero eliminato se
qualcosa andava storto. Cercò di ricostruire i passaggi che avevano condotto al problema. Esaminò i
dettagli relativi alla sua parte nell’affare. Ricordava la mattina quando era arrivato il furgone
frigorifero, identico a tutti gli altri che operavano nella sua zona. Bianco, senza scritte e insegne,
anonimo come il corpo che trasportava insieme ai pesci morti. Oleg era arrivato prima del solito, per
dedizione al lavoro, animato dalla preoccupazione. Era teso. Per combattere il panico, consumava
cocaina in quantità smodata, per lui una panacea contro qualsiasi torpore decisionale. Quell’affare non
poteva andare storto, e invece era accaduto un imprevisto.
Quella mattina...
L’autista si era fermato vicino a lui, era sceso dal furgone lasciando le chiavi nel quadro.
Quando fu abbastanza lontano, Oleg aveva spalancato il portellone e lanciato una prima occhiata alle
sacche nere e azzurrine di plastica con i pesci. Era entrato per metà nella cella frigorifera e aveva
scostato qualche sacca con le mani, finché non aveva trovato quella con la cerniera. L’aveva fatta
scorrere sul ciuffo di capelli biondi, e aveva visto subito che qualcosa non andava. La bambina era
immobile. Si ricordava bene quel momento, il vuoto che si era spalancato dentro di lui. Non doveva
essere morta. La rete di contatti che aveva già messo in moto interrotta in modo inesorabile. Non aveva
considerato l’eventualità di problemi. Aveva organizzato il prete, con lui era sempre filato tutto liscio.
Di certo lui avrebbe saputo trovare una soluzione. Forse avrebbe dovuto lasciare tutto com’era.
Richiudere la cerniera della sacca, assumere la responsabilità di cancellare il suo programma personale
con la piccola, avvisando tutti i contatti di annullare le trattative.
Poi cos’era successo? Oleg aveva chiuso il portello posteriore, si era seduto scomodamente sul
parafango del furgone e aveva fumato per distendere i pensieri.
Dal palato, risalì il gusto amaro della coca tirata prima di uscire di casa. Provò a ragionare,
..

anche se non era la sua specialità. Era consapevole di non essere un pianificatore, preferiva inserirsi e
giocare la sua parte in una strategia ben studiata da altri. Il prete, per esempio. Invece aveva voluto fare
di testa sua, col miraggio di un mucchio di soldi da tenere tutti per sé, senza «devolvere»
all’organizatsya la parte predominante delle sue finanze.
Innanzi tutto, la bambina doveva essere viva. Oleg era sceso sulla riva e aveva chiamato un paio
di connazionali di cui si fidava, e su cui avrebbe potuto scaricare responsabilità senza alcun rimorso.
Disse loro di seguirlo al furgone, dove prelevarono la sacca con il corpo e la trasportarono in una
macchia di pioppi, nella fitta vegetazione.
«Facciamola a pezzi.» Oleg balbettava. C’era in gioco la sua vita, e non riusciva a concentrarsi.
Era sicuro che fosse la soluzione migliore. Spostò lo sguardo sulla riva mentre pensava a come
occultare i resti. Bruciarli? Infilarli in un sacco della spazzatura e farli affondare nel fiume con una
pietra? Poi li vide, quasi con l’occhio del subconscio, e si accese la lampadina immaginaria che
attendeva. Ordinò ai braccianti di occuparsi del corpo e si incamminò verso l’acqua. Adagiati uno di
fianco all’altro, come proiettili pronti all’uso in una bandoliera, quattro siluri di grosse dimensioni
richiamavano lo sguardo in mezzo ai catini di plastica pieni di pesci. Uno degli esemplari era davvero
gigantesco, ma nella sua terra ne aveva visti anche di più impressionanti. Oleg avvertì una piacevole
scossa di tepore al cervello e allo stomaco, un anelito di salvezza. Si sentì un genio maledetto e
incompreso. Con la mente poco allenata alla matematica, fece un calcolo di dimensioni tra l’ampiezza
della bocca del glanis più grande e il corpo della bambina. Se non ci stavano tutti, potevano sempre
infilare gli altri pezzi in bocca a un altro siluro. Lo avrebbero trasportato lontano da Borgosaldo,
nessuno lo avrebbe scoperto. Può funzionare, pensò Oleg.
Riconobbe di avere peccato di ingenuità, dando per scontato che non sarebbero sorti problemi.
La mail del prete. Sapeva tutto dei suoi traffici privati, e di sicuro esigeva una spiegazione. Non aveva
mai incontrato un uomo del genere. L’idea di trovarsi faccia a faccia con Tosatti lo terrorizzava. Per la
prima volta in vita sua, Oleg temette davvero che lo avrebbero ammazzato. Era convinto che il prete
fosse all’oscuro delle sue iniziative personali per incrementare al massimo i guadagni con la bambina.
Se lo avesse scoperto, Oleg avrebbe fatto prima a lanciarsi con l’auto giù da una scarpata e farla finita
così. Un incidente stradale, senza sollevare sospetti o coinvolgere altri.
Tamburellò con le dita sul volante. Una vita per un’altra, erano i termini universali del
sacrificio.
Rilesse l’articolo online.
La giornalista di Milano.
Perché aveva accettato di parlare con lei? Oleg non dovette sforzarsi molto per ottenere la
risposta. Voleva scoparla a sangue. Era diversa dalle ragazzette con cui se la faceva di solito, ingenue
connazionali o provenienti dalla galassia disintegrata dell’ex Unione Sovietica che lavoravano nei
locali di lap-dance della provincia ferrarese, e d’estate sulla riviera romagnola. Quelle poteva
sbattersele quando voleva. Era lui a occuparsi della prima selezione quando arrivavano i nuovi carichi.
Scartava quelle troppo grasse, ma a volte quando avevano un bel viso riusciva a rimediare sempre un
pompino. Il destino delle ragazze rifiutate era variabile, chi finiva per prostituirsi sulle provinciali del
Nord-Est, e chi invece aveva abbastanza fortuna da trovare lavoro come badante. Ma quella giornalista
era diversa, sofisticata, elegante... più donna. Soprattutto, era italiana e rispettabile. Una vera signora.
Oleg era ambizioso, e ignorava completamente i limiti della sua capacità di calcolo. Come un bambino,
convinto che un giorno avrebbe rappresentato il genere umano muovendo i primi passi su Marte, sicuro
che tutto sia davvero possibile, Oleg fantasticava una vita regolare, composta da ritmi e pause normali:
una casa, il rispetto degli altri più che per gli altri, l’esibizione di uno stile di vita in base a cui più
ostenti e più conti. E ovviamente una donna come totem dello status raggiunto. Nei suoi deliri indotti
da idiozia, alcol e droghe assortite, Oleg aveva eletto Barbara come sua regina. Ma il suo futuro regno
da favola rischiava di crollare prima ancora della fondazione. In quel momento c’era poco da
..

rimuginare su folli fantasie di successo.


Era stata lei a portare al fiume quel finto giornalista, «l’ispettore Jacobi della polizia di Pavia».
Prima che si presentasse con lo sbirro non c’erano mai state grane. Al massimo qualche contestazione e
un paio di multe, per raffreddare gli animi a qualche gruppo di ambientalisti locali e organizzazioni di
pescatori sportivi. Perché era stato così idiota da non richiedere più informazioni a quella donna quando
gli aveva parlato del collega? Cosa gli passava per il cervello? Fiumi di coca. Spulciò nella rubrica
della posta e dalla cronologia risalì a uno scambio recente, per l’appuntamento a Borgosaldo dove si
era presentata con il poliziotto. Non aveva il suo cellulare, la giornalista non aveva voluto lasciarlo.
Non inserì alcun oggetto e le propose di incontrarsi due giorni dopo al fiume, aveva
informazioni sul ritrovamento del siluro con la bambina, ma non voleva anticipare niente via posta
elettronica. Inviò la mail e allargò la finestra con l’articolo del «Corriere», quindi rilesse la parte in cui
si citava l’ispettore. Pochi minuti dopo controllò di nuovo la posta. La donna aveva già risposto. Oleg
propose di incontrarsi sulla sponda del fiume, come sempre, nel tardo pomeriggio di due giorni dopo.
Si disconnesse e chiuse il portatile, poi mise in moto l’auto e si avviò. Le ruote sul terriccio e gli
ingranaggi nel suo cervello procedevano alla stessa velocità, con cautela e decisione, ma col rischio di
perdere il controllo da un momento all’altro.
..

42

Borghesi accese l’aria condizionata, nonostante Jacobi avesse abbassato il finestrino per
l’ennesima sigaretta. Lanzicchi era a Milano per qualche giorno. Li avrebbe ricevuti subito dopo
un’udienza prevista prima di pranzo. L’autostrada era quasi vuota, la maggior parte del traffico
composto da autotreni che procedevano come file di mammut a benzina sulla corsia di destra.
L’ispettore cercò di costruire uno schema mentale per formulare le domande a Lanzicchi.
Tuttavia, non riusciva a concentrarsi, poco convinto dell’utilità di quella visita. Nonostante l’interesse
della Moroni verso l’indagine – parlare di entusiasmo gli sembrava esagerato – Jacobi era certo che
avrebbe fatto prima a restare in ufficio. Forse, tutto sommato, era meglio se quel breve articolo non
fosse apparso in Rete. Sempre in bilico tra la frustrazione di un’umanità rassegnata agli orrori
quotidiani, tanto da ignorarli, e il desiderio di urlare alla folla che fosse necessario trovare una
soluzione a quel piano sfalsato di bestialità che sembrava dominare la vita di tutti i giorni, Jacobi quasi
non aspirò nemmeno una boccata dalla Pall Mall che stringeva tra le dita. Poteva comprendere la
dedizione di Borghesi per risolvere il caso. L’idea che in qualche modo lo avessero messo al suo fianco
per controllarlo, il reintegro in servizio dopo un anno di sospensione e quasi dieci mesi di psicofarmaci
antidepressivi, si appaiava ai progetti di carriera che il vice aveva almeno la bontà di non nascondere.
Più volte, Antonio aveva dimostrato una solerzia professionale che tradiva il desiderio di
imporsi agli occhi dei superiori. Soprattutto del questore Ferri. Di certo non ai suoi. Jacobi era il
vecchio cane pastore che insegnava i rudimenti al cucciolo in prova. Sempre più spesso con la
recondita sensazione che il cucciolo ormai avesse superato il maestro per energia, intuizione e capacità.
L’ispettore si riferiva alle alte gerarchie in comando, uomini con pochi anni più di lui, che avevano
scalato i gradi nella metà del tempo che lui aveva impiegato per diventare ispettore.
Per la prima volta dopo la rimozione della morte di sua figlia, Jacobi meditò almeno per dieci
secondi sulla possibilità di chiedere il prepensionamento e ritirarsi a vita privata. Con Johan, a eseguire
una serie infinita di lavoretti nel rustico per non ricordare troppo il passato. Tenere occupate le meningi
con incombenze al limite della noia, giusto per lasciare defluire la sabbia nella clessidra della sua
esistenza. Un po’ d’amore, quello vero, di sangue, con il vecchio Johan era garantito. Senza
compromessi. Chissà, pensò Remo con gli occhi sui campi di pannocchie che si estendevano nella
campagna, forse è proprio quello di cui ho bisogno.
Borghesi probabilmente intuì la discesa di Jacobi negli abissi del post trauma. L’ispettore non
se ne accorgeva, ma i segni dell’esaurimento nervoso erano ancora visibili. Improvvisi crolli umorali,
silenzi panici che potevano durare anche mezza giornata in ufficio. Quando capitava, Borghesi avrebbe
voluto chiedere il trasferimento su due piedi o afferrare Jacobi per le spalle e scuoterlo come un albero
da frutto. Per tutto il tragitto rimasero quasi in silenzio. Solo poche battute per riepilogare il punto delle
indagini.
Più che altro parlò Borgesi, mentre l’ispettore si limitava a semplici risposte monosillabiche e
grugniti dubbiosi. Lasciarono l’auto in piazza Cavour, e si incamminarono lungo via Manzoni.
Borghesi, milanese puro, conosceva l’indirizzo.
Si fermarono a bere un caffè in un bar vicino al monumento di Aldo Rossi a Pertini, e Borghesi
spiegò all’ispettore che la città era divisa tra estimatori accaniti e detrattori mordaci di quel cubo scuro
intitolato all’ex presidente partigiano.
«I giovani quasi non sanno manco chi era, ricordano solo un simpatico vecchio esultante per il
Mondiale del 1982. Le nuove generazioni sono tremende. In un sondaggio per il 25 aprile, ho letto che
buona percentuale dei giovani interpellati credeva che fosse la festa dei lavoratori. E parlo di studenti.»
Borghesi aveva un figlio di pochi mesi, ma sembrava già preoccupato per il futuro del suo
erede. L’ispettore era lieto di condividere la sua stessa sfiducia verso i giovani.
..

Al bancone, Jacobi focalizzò l’attenzione su una signora di sessant’anni che sembrava pronta
per un pranzo di gala, e invece era lì solo per un caffè. Il muso vampiresco di un chihuahua spuntava
dalla borsetta Louis Vuitton – in questo caso autentica, Jacobi non aveva dubbi – con la testolina
scheletrica e gli occhi da invasato che sporgevano dalle piccole orbite. Jacobi definiva i cani di quella
taglia «cani pedata», perché calzavano esattamente il numero necessario a farli decollare con un calcio
ben assestato. Anche se Jacobi non amava gli animali, non l’aveva mai fatto.
Raggiunsero il vecchio edificio di via Bigli, stretta e buia, molto milanese, e citofonarono allo
studio di Lanzicchi. Rimasero in strada qualche minuto, e guardarono l’ora. Erano puntuali. Poco dopo,
una donna di circa quarant’anni sopraggiunse con passo accelerato e aprì il vecchio portone di legno
massiccio, da cui pendevano due larghi anelli di ferro battuto. Prima di varcare l’ingresso, si voltò
verso Borghesi e Jacobi.
«Dovete entrare?»
«Abbiamo un appuntamento con l’avvocato Lanzicchi» disse Jacobi.
«Salite, sono la segretaria. L’avvocato sarà qui a minuti.»
Seguirono la donna su una rampa di scale di marmo ed entrarono in un elegante salottino. La
segretaria posò la borsa e aprì un’altra porta, l’anticamera dell’ufficio di Lanzicchi.
«Prego, accomodatevi. Appuntamento a nome?»
«Siamo della polizia di Pavia» disse Borghesi. «Ho chiamato stamattina.»
«Certo, certo.» La donna annuì. «Volete un caffè nell’attesa?»
«No, grazie» rispose Jacobi con un sorriso di circostanza.
La segretaria sparì dietro la sua scrivania, e i poliziotti si sedettero su due comode poltrone
imbottite. La piccola stanza era arredata con gusto quasi ancien régime, una serie di ritratti a olio con
cornici tarlate – lasciate così apposta per esaltarne il valore antiquario, pensò malignamente Jacobi, che
di antichità non sapeva niente –, scaffali di volumi e trattati legali dal dorso consumato e un vaso di
ceramica da cui spuntava un mazzo di asfodeli. Borghesi rivisse la sensazione della gita scolastica alle
medie nella casa di Alessandro Manzoni. Tutto sapeva di vecchio, stantio.
Dieci minuti dopo, sentirono aprirsi la porta e udirono un attutito scambio di battute dall’altra
stanza. Infine comparve Lanzicchi. Indossava un completo canna di fucile vagamente sformato sul
corpo a forma di pandoro. Si sforzò di sorridere e accennò un saluto con la testa.
«Buongiorno, prego» disse e aprì la porta del suo ufficio, lasciando che i poliziotti lo
precedessero all’interno. Posò la valigetta ai piedi di un’ingombrante scrivania di mogano e sfilò la
giacca. La camicia era pesantemente chiazzata di sudore, sotto le ascelle c’erano due repliche del lago
Balafon. La prima impressione di Jacobi su Lanzicchi oscillava dal ridicolo al disgustoso. Non si
sarebbe fatto difendere nemmeno per divieto di sosta da un tizio del genere.
Lanzicchi sospirò come se si fosse tolto un peso, si lasciò cadere sulla confortevole poltrona in
pelle dallo schienale reclinabile e passò una mano sui capelli unti come olio da frittura. A quella
distanza, Jacobi e Borghesi notarono le cicatrici lasciate da un’acne particolarmente violenta.
«Cosa posso fare per voi?» esordì l’avvocato, già impaziente alla prima domanda.
I due poliziotti si scambiarono un’occhiata. Jacobi avrebbe preferito che fosse Borghesi ad
aprire le danze, ma lo sguardo del vice suggerì il contrario.
Jacobi decise di andare subito al sodo. «Sappiamo che conosce Pietro Tosatti.»
Lanzicchi intrecciò le mani dietro la nuca e attese un momento prima di parlare. «A che
proposito lo chiedete?»
Borghesi aprì la sua borsa e cominciò a estrarre la copia del registro con le prenotazioni di
Zeccheto e della carta d’identità di Lanzicchi e li appoggiò sulla scrivania dell’avvocato.
Lanzicchi raccolse i fogli, li esaminò brevemente e guardò i poliziotti. «È illegale andare a
pesca?»
«No, solo noioso, per quanto mi riguarda» rispose Jacobi. «Ma in alcuni casi è anche illegale.
..

Molte attività di pescaturismo lungo il Po sono sprovviste di licenze e permessi.»


«Dai documenti che mi avete presentato, sembra che l’attività di Tosatti sia in regola» precisò
Lanzicchi. «Altrimenti» proseguì con un sorriso a metà tra lo sprezzo e la sfida, «non ci sarei mai
nemmeno andato.»
«Quando ha conosciuto Tosatti?» domandò Jacobi.
Lanzicchi alzò gli occhi al cielo per riflettere. «Nel ’93, al processo contro il parà Giorgio
Peraldi, accusato di torture. Era il cappellano dei soldati. Molto uniti. Tre anni fa ho aperto lo studio
anche a Milano e ho ricontattato Tosatti, così ho scoperto la sua attività.»
«Ha sempre avuto la passione della pesca?» si intromise Borghesi.
«Da ragazzo ci andavo con mio zio, è un’attività rilassante. Per quanto noiosa» aggiunse
scoccando un’occhiata a Jacobi. «Purtroppo, per impegni di studio prima e di lavoro poi, sono stato
costretto a interrompere per lunghi anni.»
«Lei di solito risiede a Roma, non è così?» chiese Jacobi.
Lanzicchi annuì.
«Perché frequenta un pescaturismo sul Ticino? Di sicuro non per scarsità di corsi d’acqua nella
zona della capitale.»
Lanzicchi incassò il sarcasmo senza battere ciglio. «Certi pesci si pescano solo qui da voi.»
«Perché proprio l’attività di Zeccheto?» Borghesi si sporse sulla sedia. «Insomma, è abbastanza
decadente, per non dire squallido.» Incastonò il sontuoso ufficio nello sguardo, con le braccia allargate.
«A quanto vedo, è chiaro che può permettersi circoli più... prestigiosi, diciamo. Forse ha un rapporto
speciale con Tosatti? Magari risalente al processo per le torture in Somalia? Avrà ricevuto minacce,
visto l’esito del processo...» Lasciò la frase in sospeso.
Lanzicchi inclinò la testa e squadrò Borghesi. «Il signor, anzi il caporale Tosatti non aveva e
non ha nulla a che fare con quella storia» sottolineò con decisione.
«Era cappellano militare durante l’operazione Restore Hope, nel 1993» ribatté Jacobi.
Lanzicchi stirò nervosamente la cravatta. «In Somalia erano stanziati parecchi soldati italiani, e
quelli che si sono macchiati di gesta disonorevoli sono un’esigua minoranza, a esagerare. A quei tempi
ero solo un giovane praticante nello studio di Alfio Raimi, che si occupò della difesa di uno di loro, il
capro espiatorio per rabbonire il grande pubblico.»
Jacobi e Borghesi annuirono all’unisono.
«Già, ora invece difende politici da scandali a base di droga e prostitute di lusso» commentò
Jacobi.
Anche questa volta, Lanzicchi non fece un plissé. Anzi, ebbe il coraggio di esibire una smorfia
di tracotanza. «Il deputato è risultato estraneo ai fatti, scagionato da tutte le accuse. Provate a leggere i
giornali, oltre all’enciclopedia libera su internet.»
Jacobi ridacchiò. «Il giornale lo leggiamo, avvocato. Forse dovrebbe farlo anche lei.»
Lanzicchi corrugò la fronte, perplesso.
«Quasi dieci giorni fa hanno ripescato un pesce siluro record lungo il Ticino, non lontano da
Zeccheto. Ha presente che pesce è? Dovrebbe, visto che è il motivo principale per cui le attività di
pescaturismo abusive sono spuntate come funghi lungo il Po.»
«Sì» ammise Lanzicchi, «mi è sembrato di leggere qualcosa a proposito.» L’avvocato sembrò
perdere un po’ dell’eccessiva sicurezza dimostrata fino a quel momento. «Ma perché vi rivolgete a me?
Non l’ho certo pescato io.» L’ultima frase uscì come una mezza risata.
«No, infatti. L’hanno trovato dei canottieri. Ma era già morto, povera bestia. Soffocato dai resti
di una bambina di cinque anni, sei al massimo. Pensi che fine.» L’ispettore lasciò all’avvocato la
facoltà di interpretare se si riferiva al siluro o alla bambina. Si allungò sullo schienale e fissò Lanzicchi
per studiare la reazione. Era un individuo repellente, sembrava avvolto da una sottile pellicola di
sozzura, uno strato quasi invisibile, una specie di aura che circondava il suo corpo flaccido e sformato.
..

«Mi state accusando di qualcosa?» Lanzicchi optò per il contropiede. «Altrimenti, se vogliamo
discutere dei miei hobby personali, possiamo anche rimandare. Sapete, ho di meglio da fare e ho
l’impressione che voi stiate solo perdendo tempo.»
«Siamo qui per sapere se quello cancellato nel registro è il suo nome.» Indicò il registro ancora
in mano a Lanzicchi.
«Non ho prenotato bungalow di recente» disse l’avvocato fissando Jacobi. «Non ho bisogno di
consultare il registro per saperlo.»
L’ispettore sospirò. «Per favore, può controllare?»
L’avvocato sbuffò e chinò la testa per esaminare il documento. Si aiutò con la luce della
scrivania, per sondare meglio nei solchi tracciati dalla matita sul foglio, visibilmente cancellati.
«No» annunciò infine sconsolato. «Se per quelle poche volte che riesco ad andare a pesca ho
scelto Zeccheto, che voi definite luogo squallido e decadente, è perché mi ricorda un posto dove
pescavo da ragazzino. Non è un crimine, e francamente me ne frego se non corrisponde ai vostri gusti o
se ci trovate qualcosa di strano.»
Jacobi e Borghesi rimasero un momento in silenzio.
«A quanto sostiene Tosatti, il vostro sembra un rapporto solido.» L’ispettore estrasse
lentamente le sigarette. «Posso?» chiese alzando il pacchetto.
Lanzicchi acconsentì e avvicinò un posacenere a Jacobi, con gesti nervosi. L’ispettore accese e
continuò.
«Quel parà fu condannato. Immagino che alcuni suoi commilitoni non fossero contenti del
risultato.»
«Diventò un caso politico. E tale fu il verdetto. È la mia opinione personale. Posso capire chi ha
espresso qualche rancore.»
«Minacce di morte comprese?» Jacobi si sporse per liberarsi della cenere. «Tosatti dice di
averla aiutata con alcuni elementi un po’ aggressivi, se capisce cosa intendo. Era molto influente sui
soldati?»
Lanzicchi corrugò la fronte. Una domanda trabocchetto. Quel poliziotto sospettava qualcosa.
Intuì che conosceva più informazioni di quanto desse a vedere. Si spaventò, e si sforzò di non
mostrarlo. Non poteva restare zitto per troppi secondi.
«Tosatti era rispettato come cappellano militare. Nessuno ha mai dubitato della sua parola. Sì,
mi fece un favore e parlò con alcuni dei parà che avevano esagerato. Ma non so cosa disse loro, e
nemmeno con chi parlò.»
«Non ricorda il nome di qualcuno di quei parà che la minacciavano?»
Lanzicchi scosse la testa, per una volta quasi credibile. Poteva spingersi ad ammettere di
conoscere Tosatti, con qualche dettaglio a beneficio dei poliziotti curiosi. Ma non avrebbe mai fatto il
nome di Scannetti, o Scanna, come si firmava nei messaggi minatori. L’unico a siglarli.
«No, è successo molti anni fa, non ricordo.»
«Che genere di pesci si prendono dalle parti di Zeccheto?» chiese Jacobi dopo una pausa.
Lanzicchi attese un momento e rispose con una scrollata di spalle. «Trote, carpe, lucci.»
«Ha mai preso un siluro?» disse Borghesi.
«No, mai.»
«Creatura disgustosa» intervenne Jacobi. «Un vero mostro. Cosa se ne fa dei pesci, li cucina? O
meglio, li fa cucinare?»
«No. Li getto di nuovo in acqua. Me ne sbarazzo.»
Jacobi avvertì la puntura delle pupille di Lanzicchi su di sé.
«In tutto questo, non mi è ancora chiara la sua posizione con Tosatti» confessò l’ispettore.
«Se volete interrogarmi formalmente, è meglio se mi accusate di qualcosa.» Lanzicchi incrociò
le braccia al petto e chiuse la bocca.
..

Jacobi si accorse dell’improvvisa tensione di Lanzicchi.


Borghesi si allungò sulla scrivania e riprese il registro del pescaturismo, finse di studiarlo con
attenzione. «Avvocato, dove si trovava il giorno della prenotazione?» chiese girando di nuovo il
registro al penalista.
Lanzicchi meditò un momento e spalancò le mani con un ampio sorriso. «Potrei anche non
rispondere, ma non ho nulla da nascondere.» Aprì un cassetto della scrivania e prelevò un’agenda di
pelle, la sfogliò, infine batté un dito su una pagina. «Ero all’inaugurazione di una mostra nella galleria
di Leonardo Tusco, un mio cliente. Potete chiederlo a lui, gli uffici sono a dieci minuti da qui, in via
Ciovassino. Se volete lo chiamo subito.»
«Sarebbe un gesto gentile.» Jacobi simulò una smorfia di gratitudine.
Lanzicchi spulciò un momento nel suo cellulare hi-tech nero e premette un tasto. Poco dopo
parlò con qualcuno che a giudicare dal tono non era Tusco, forse la segretaria o qualche assistente. La
conversazione durò meno di un minuto, infine si rivolse ai due poliziotti.
«Leonardo è a Parigi per la vernice di una mostra fotografica, per cui ha prestato alcuni pezzi
della sua collezione. Sarà a Milano tra un paio di giorni.» Lanzicchi palleggiò lo sguardo da un
poliziotto all’altro.
«Eppure» disse l’ispettore esaminando la stanza, senza guardare direttamente Lanzicchi, «non
capisco proprio perché un professionista del suo calibro vada a pescare in un cesso di posto come
Zeccheto.»
«Abbiamo finito?» Lanzicchi si sporse sulla scrivania e fissò Jacobi.
«Sì.» L’ispettore si alzò in piedi, seguito un momento dopo dal vice. «Per ora abbiamo finito.
Ma resti a disposizione, sia reperibile. Magari trovi il tempo per andare a pesca, rilassarsi» aggiunse
Jacobi senza ottenere reazioni.
Lanzicchi si alzò dalla poltrona con l’agilità di un’orata che soffrigge in padella e accompagnò i
poliziotti alla porta. Per fortuna, nessuno fu così ipocrita da scambiarsi formali strette di mano per
congedarsi. Scesero in strada in silenzio, e Jacobi si accese una sigaretta appena sbucarono dal portone.
«Cosa ne pensi?» domandò Borghesi.
«Quell’uomo è una merda» disse Jacobi. «Lo arresterei solo per i capelli unti.»
Si incamminarono verso piazza Cavour. Lanzicchi forse non aveva nulla a che fare con il pesce
siluro e la bambina, ma sicuramente nascondeva qualcosa. Era losco in ogni fibra del corpo. Una
sensazione condivisa sia da Borghesi che da Jacobi.
..

43

Jacobi lesse il nome MORONI sul display del cellulare vibrante, ma lasciò che squillasse
almeno tre volte prima di rispondere. Per un momento, la donna si era sostituita alla giornalista – al
contatto professionale – nella mente dell’ispettore. Fu solo per pochi secondi.
«Pronto» rispose con piglio deciso, come se l’avessero interrotto da un impegno urgente.
«Ciao, puoi parlare?»
L’ispettore lanciò un’occhiata a Borghesi, che guidava assorto nel traffico milanese.
«Dimmi» tagliò corto Jacobi.
«Ho ricevuto una mail da Oleg, sono sicura che ti interessa.»
La Moroni riferì della proposta di incontro a Borgosaldo per informazioni sul caso di Jacobi.
«Non mi sento sicura» confessò alla fine. «Ci siamo sempre visti di mattina, davanti a un sacco di altre
persone. Qui mi chiede di incontrarci verso sera, e specifica ’da sola’.»
«Hai paura?» Jacobi per primo si stupì della propria domanda.
«Certo che ho paura. Finora abbiamo solo parlato di abusi sul fiume, non di bambini fatti a
pezzi» rispose netta la giornalista.
«Vuoi che venga con te?» propose Remo.
La donna soppesò le parole per un momento. «Nella mail specificava di presentarmi da sola. E
dopo l’ultima volta che ti ho portato con me...» La voce tradiva una forte preoccupazione.
«Cosa mi stai chiedendo?» Jacobi riconobbe di non essere un maestro di diplomazia.
«Ci vado o no?»
L’ispettore si rese conto che Barbara era spaventata. «Dove sei?»
«A casa.»
Jacobi si morse le labbra e coprì con la mano il microfono del cellulare. «Cambio di
programma» comunicò a Borghesi l’indirizzo della giornalista, l’aveva memorizzato quando l’aveva
riaccompagnata dopo il brunch. Deformazione professionale.
«Sai dov’è?»
Antonio gli mollò un’occhiata sarcastica dalle lenti scure degli occhiali da sole, come per
ricordare a Jacobi che in quella città era lui lo straniero.
«Sono a Milano, passiamo da te.»
Barbara disse che li aspettava e chiuse la chiamata. Jacobi spiegò in due parole a Borghesi il
motivo della visita alla giornalista.
Dieci minuti dopo parcheggiarono sotto casa di Barbara. Appena li fece entrare, gli occhi dei
due poliziotti vagarono col pilota automatico per l’appartamento, in esplorazione. Un gesto meccanico,
la ricerca di indizi sulla vita degli altri. Borghesi si avvicinò al pesante mobile di legno scuro che
ospitava un televisore a schermo piatto, libri stipati con ordine e piglio di donna su alcune mensole, e
qualche soprammobile etnico, probabilmente proveniente da viaggi esotici. Non gli sfuggì nemmeno
una foto incorniciata e collocata nella penombra di una nicchia. Si avvicinò e allungò una mano, prima
di prenderla si voltò verso Barbara. «Posso?»
La Moroni annuì.
«Suo marito?» domandò Borghesi.
«Ex marito» sibilò Barbara.
Il vice studiò un momento l’immagine con le ciglia inarcate. «Ehi, ma lo conosco. Non è quel
commentatore...»
«Sportivo, sì» concluse Barbara.
Antonio comprese di avere toccato un tasto delicato. «Scusi.»
La Moroni rispose con un sorriso e guardò Jacobi. «L’ispezione è finita?»
..

«Fammi vedere la mail.» Jacobi indicò con un cenno il computer, aperto sul divano.
«L’ho ricevuta ieri, nel tardo pomeriggio» confessò Barbara.
«Perché me lo dici adesso?»
«Volevo pensarci sopra» ammise lei candidamente, e dopo un secondo aggiunse: «Poi ha vinto
la paura. Ho immaginato cose terribili».
«Hai mai usato un’arma?» chiese l’ispettore.
«Direi proprio di no» ribatté Barbara.
«Remo, non dici sul serio, vero?» si intromise Borghesi che conosceva bene il suo superiore,
più di quanto Jacobi stesso credeva o sospettava.
«Allora non andare» disse serafico. «Rimanda l’appuntamento di altri due giorni, proponi un
incontro alla luce del sole, e vedi un po’ cosa ti risponde. Stavolta però diccelo subito.»
Barbara si lasciò cadere sul divano, con lo sguardo sulla posta elettronica. Sospirò, era
visibilmente turbata.
«Lo ascolti» intervenne Borghesi a sostegno dell’ispettore.
Entrambi i poliziotti sapevano che accompagnarla avrebbe potuto mandare all’aria l’occasione.
Se Oleg si fosse accorto della presenza di estranei, la giornalista rischiava di correre guai seri. A Jacobi
Barbara sembrava aggressiva, decisa e autonoma nella vita professionale, ma forse non aveva idea della
spazzatura umana con cui allacciava relazioni superficiali per lavoro, come nel caso di quell’ucraino.
«Facciamo ancora due chiacchiere con Tosatti.» Jacobi si voltò verso il vice. «Non mi fido dei
preti, figurati di quelli spretati. Soprattutto militari.»
Borghesi annuì e si avvicinò alla porta con le chiavi dell’auto in mano, gesto inequivocabile.
«Digli che non puoi, inventa una scusa qualsiasi. Proponi a Oleg di incontrarvi di mattina, come
sempre, uno dei prossimi giorni.»
«E se poi rifiuta?»
«Se rifiuta vado a parlarci io, insieme a una dozzina di agenti.»
Barbara annuì in silenzio. «D’accordo» mormorò infine.
L’ispettore raggiunse Borghesi e aprì la porta. «Fammi sapere cosa risponde, subito» sottolineò
prima di sparire nel pianerottolo. Borghesi salutò con un cenno e raggiunse Jacobi all’ascensore.
«Perché Tosatti?» chiese quando furono soli nel cubicolo di acciaio zigrinato.
Jacobi scosse la testa. «È qualcosa che ha detto la prima volta che gli abbiamo parlato,
all’oratorio di Zeccheto. Sui mercenari e la tratta dei bambini in Africa.»
«Quelle schifezze sui riti degli stregoni?»
Jacobi confermò. «Non mi sembravano solo ricordi. Conosceva i prezzi, parlava di ’mercato’
come un tecnico. Aggiornato.»
Borghesi fece spallucce. «Non vedo cosa ci sia di strano. Sono notizie pubblicate sui giornali.»
Jacobi scosse lentamente la testa. «C’è qualcosa che mi sfugge. Tra lui e Lanzicchi, un anello
che manca. E non penso che sia Oleg.»
Borghesi rimase in silenzio, mentre l’ascensore raggiunse il pianterreno e la porta meccanica si
aprì sferragliando.
..

44

Il sole del tramonto non era coperto da nuvole. Tosatti alzò gli occhi dal tagliere sul banco della
cucina, scrutò il cielo esaminandone i colori, alla ricerca di qualche vaticinio meteorologico. I campi in
cui era immersa la piccola azienda agricola di famiglia profumavano di erba appena tagliata e concime,
decisamente più penetrante e fastidioso. Ma insieme, per Tosatti, creavano una fragranza pagana che lo
rasserenava. Un odore antico come la terra coltivata, primigenio. Tagliò la crosta dal pezzo di Nisso di
Menconico e assaporò un cubetto di formaggio piccante e stagionato. Lo spuntino rustico prima di cena
era diventato automatico come la preghiera del mattino, ai tempi in cui la recitava ancora.
Il momento di quiete pastorale fu interrotto dal trillo invadente del campanello. Tosatti posò il
coltello sul tagliere e per un momento si domandò se fosse il caso di prenderlo, considerato il suo
visitatore non poteva escludere che gli sarebbe tornato utile. Lasciò perdere e si incamminò verso la
porta. In fondo, si conoscevano da lungo tempo. Non aveva nulla da temere, ma sentì comunque
scorrere un brivido di tensione. La maschera imperturbabile del suo socio lo accolse a mezzo metro di
distanza.
«Ciao, Scanna» lo salutò chiamandolo con l’abbreviazione che usavano in Somalia, la stessa
con cui lui si era presentato la prima volta. Sapeva che in fondo quel soprannome gli piaceva.
Patrizio Scannetti lo fissò negli occhi e accennò una smorfia, il suo modo di ricambiare
l’accoglienza. Tosatti spalancò la porta e lo invitò a entrare.
Scanna avanzò in salotto e gettò la giacca leggera sul divano. «Allora, Pietro, spiegami un po’
questa storia della bambina.» Si appoggiò al tavolo e incrociò le braccia.
Tosatti chiuse la porta e si avvicinò al vecchio compagno d’armi. «La bambina non doveva
morire, lo sappiamo bene tutti e due. Ma è andata com’è andata.» Scandì bene le parole. Scanna
riconobbe i gesti e il tono del cappellano militare che si era convertito in mercenario, senza perdere la
fede. O così almeno sosteneva.
«Il tuo amico s’è fatto scappare la mano, sono dovuto intervenire» spiegò Scanna. «Dovevo
solo aspettare che l’avvocato facesse quel che voleva, riprendere tutto e consegnare al suo cliente
importante filmino e bambina. Viva, s’intende. Ma non ho bisogno di ricordarti i termini dell’accordo,
visto che l’hai organizzato tu. A un certo punto Lanzicchi è impazzito, era fuori di sé e ha cominciato a
infierire sulla piccola. Ha rovinato tutto quel pezzo di merda. Avrei dovuto ammazzarlo dieci anni fa.»
Fissò Tosatti, come per incolparlo di qualcosa.
L’altro ascoltò con attenzione, sfiorandosi il mento con le dita mentre dalle parole di Scanna
ricavava elementi su cui imbastire strategie, calcoli di probabilità per un’eventuale via di fuga. Senza
versare nemmeno una goccia del suo sangue. Tosatti sbuffò e camminò su e giù per la stanza.
«Le ho dato una botta in testa, molto forte» proseguì Scanna. «Ho usato il calcio della pistola.
Ma quando l’ho infilata nella plastica e poi nel furgone era intera.»
Tosatti scosse la testa. «Perché farla a pezzi?»
«Me lo chiedo anch’io.» Scanna si avvicinò minaccioso.
«Evidentemente c’è stato un corto circuito da qualche parte» disse l’ex cappellano militare.
Scanna non era avvezzo a lasciare segni del suo passaggio, almeno non così evidenti e
grotteschi come una bambina smembrata in bocca a un pesce. Annuì e socchiuse le palpebre, quasi
volesse leggere il pensiero del socio. «Hai parlato con quell’ucraino del cazzo?»
«Pensavo giusto a lui. Prima volevo sentire la tua versione.»
Scanna fece il giro del divano e si accomodò, con le braccia distese sui cuscini imbottiti. «Oleg
è una mina vagante, è capace di farci beccare. Un teppista di periferia che gioca a fare il padrino» disse
quasi con disgusto. «Sarà stato qualcuno dei suoi pazzi bastardi che affettano il pesce sul fiume, e
magari quel coglione non se n’è manco accorto. Anzi, è talmente stronzo che secondo me ha pensato di
..

mettere i pezzi in bocca a un pesce per non essere scoperto. Aveva in mente qualcos’altro con quella
bambina. Conosco questa gente meglio di te. Ci scommetto il culo che aveva una lista lunga così di
gente da contattare per piazzarla sul mercato.»
Tosatti soppesò le parole in silenzio. Il tono di Scanna non gli piaceva affatto, con le velate
promesse di vendetta e rappresaglia personale. Ma aveva ragione. Oleg poteva rappresentare un
problema. L’anello debole della catena. Forse si era fidato troppo di lui, sicuramente ora pagava lo
scotto della sua superficialità di giudizio. Si insultò per avere sottovalutato i potenziali rischi che uno
come Oleg poteva rappresentare. Soprattutto per quell’affare. Era la prima volta che organizzava un
traffico di minori. Era stato l’ucraino ad allacciare i primi contatti con i corrieri, gli stessi che
organizzavano i carichi di ragazze dall’Est. Sosteneva di averlo già fatto in passato. E lui ci aveva
creduto, senza insistere troppo. Sapeva del suo ruolo di selezionatore nel giro di prostituzione legato a
Baba Yaga, e si era fidato. Non era riuscito a scorgere il pericolo, l’assenza completa di ragionamento,
di intelligenza in Oleg.
Tosatti era ormai così lontano dalla fede che non riuscì nemmeno a considerare il rischio che
correvano come un possibile segno celeste. Un monito a non superare certi limiti. In quel momento,
pensava solo a quali teste tagliare per uscirne senza un graffio.
«Dobbiamo capire come muoverci adesso» continuò Scanna.
Tosatti lo guardò, un muto invito ad andare avanti.
«Lascia che ci pensi io. Mi sento più sicuro se gestisco le cose da me» propose Scanna. «Cosa
sai di quel poliziotto citato nell’articolo?»
«L’ispettore Remo Jacobi, di Pavia. L’ho visto due volte. È venuto al pescaturismo con il suo
vice, hanno parlato con Carlo e poi con me. Gli ho lasciato i documenti dell’attività e il registro dei
clienti. Poi mi hanno chiamato in ufficio da loro.»
Scanna sgranò gli occhi e fece per parlare, Tosatti gli indicò di lasciarlo finire. «Mi hanno
chiesto di verificare una cancellatura sul registro, due giorni prima del ritrovamento della bambina.»
«Hai segnato la prenotazione?» domandò Scanna sinceramente allibito.
«No.» Tosatti scosse la testa. «Carlo aveva segnato una gita con l’oratorio, posticipata.»
Scanna si sedette e rimase in silenzio. Brutto segno.
«Non sospettano niente» disse Tosatti. «Ma è meglio sbarazzarsi delle complicazioni sul
nascere, giusto?»
Scanna annuì, inspirò profondamente e si appoggiò allo schienale del divano. «Che tipo è
questo poliziotto?»
«L’ispettore Jacobi è per metà rumeno, da parte di padre. Vive col suo vecchio vicino a
Vidigulfo, in una cascina. Non è sposato, nessuna famiglia a quanto pare. Oleg sarà un invasato nazista
del cazzo, ma la sua rete di contatti nella comunità dell’Est è affidabile.» Tosatti frugò in tasca e
consegnò a Scanna un foglio piegato in quattro. «Qui c’è l’indirizzo.»
Scanna si sporse e prese il foglietto. «Allora a Lanzicchi ci penso io, d’accordo?»
L’ex cappellano si massaggiò la mascella mentre rifletteva.
«D’accordo. Gli darò appuntamento stasera nel suo studio a Milano, ma ci andrai tu.»
Scanna lo guardò con una scintilla di gratitudine nello sguardo. «Sono dieci anni che aspetto di
farlo. Sarà contento di vedermi, una vera sorpresa.»
«Ma un rischio che ha sottovalutato» precisò Tosatti, freddo e lucido. «Quando hai finito con
Lanzicchi rimani lì» proseguì, «tagliamo i legami una volta per tutte.»
«Oleg?» chiese Scanna conoscendo già la risposta.
«Oleg» confermò Tosatti. «Gli dirò di raggiungermi all’indirizzo di Lanzicchi. Di me si fida,
non ci saranno problemi. Gli faccio una paura fottuta.»
Scanna ridacchiò e si alzò dal divano. «Stavolta andrà tutto liscio» sorrise e il sangue di Tosatti
cessò di scorrere per un secondo di puro terrore. A volte, anche lui dimenticava che Scanna era una
..

macchina. Avrebbe potuto ucciderlo quando gli aveva aperto la porta di casa, senza fare una piega, e
incamminarsi tranquillo lungo il vialetto d’accesso.
Tosatti lo accompagnò alla porta, bene attento a rimanere alle sue spalle.
Scanna dispiegò il foglio con la stampata della mappa stradale per arrivare a casa Jacobi e
qualche appunto scribacchiato a penna. «Sei sicuro che non sospetti niente?»
Tosatti meditò se rivelare a Scanna che Jacobi aveva parlato con Oleg. «Sono sicuro» mentì,
consapevole che ingannare Scanna fosse una scelta potenzialmente fatale.
Scanna grugnì pensieroso, si grattò il mento senza distogliere gli occhi da Tosatti. Ondeggiò il
foglio in aria. «Grazie» disse incamminandosi. «C’è anche l’indirizzo dell’avvocato?» chiese con la
mano sul pomello.
Tosatti annuì.
«Bene, chiamalo e avvisalo che passi da lui per chiarire. Fai in modo che rimanga da solo in
ufficio, poi mandami un sms e ci penso io.»
Scanna si avviò sul selciato che conduceva alla strada. Tosatti si affacciò sulla soglia, non vide
alcun veicolo parcheggiato lì vicino. La luce si era affievolita, le ombre a terra sempre più lunghe. «Hai
trovato un posto per la notte? Posso organizzare, qui da me non è sicuro.»
«Non preoccuparti» rispose senza voltarsi. Agitò il foglio sopra la testa, con l’indirizzo di casa
Jacobi. «La campagna da queste parti è molto accogliente. Soprattutto in questa stagione.»
..

45

Johan mise la testa sotto il getto d’acqua fredda della pompa, nel cortile della cascina. Non si
era nemmeno preparato il pranzo, pur di finire la piallatura delle assi per il soppalco del fienile, che
sebbene non utilizzassero non amava vedere divorato dai tarli. Gli era passato l’appetito. Si sedette
sulla panca vicino all’ingresso della rimessa, la canottiera bianca macchiata da trucioli impastati di
sudore, la folta peluria bianca che gli spuntava sul petto dal bordo della maglia. L’odore della segatura,
rassicurante e domestico, filtrava nel cortile dall’accesso della rimessa. Chiuse gli occhi e sorrise alla
nostalgica fantasia di riaprirli e vedere Eleonora che gli portava un vassoio con una tazza di caffè
bollente e un paio di amaretti, per cui andava pazzo. D’istinto, ogni volta che pensava a lei – e
accadeva molto spesso –, allungò una mano sulla catenina d’oro appesa al collo e la portò alle labbra,
baciando l’immagine stilizzata di San Cristoforo. Il portatore del Bambin Gesù, venerato da cattolici e
ortodossi, che aveva traghettato il Cristo infante da una sponda all’altra del fiume. Sinistra coincidenza
con la sorte della nipote, e del disastro mentale in cui era caduto il figlio. Eppure, Johan non aveva
smesso di venerare privatamente quell’icona, che portava al collo fin da piccolo.
Quando aprì le palpebre, la visuale sfocata dal sudore sulle ciglia rivelò una figura che si
avvicinava.
Johan si asciugò gli occhi col dorso della mano e attese che l’immagine tornasse a fuoco. Era un
uomo.
«Remo?» chiamò Johan.
Quando fu più vicino, il vecchio si accorse che non poteva trattarsi di suo figlio. Era più alto di
Remo, più giovane ma non di molto, eppure in qualche modo sembrava avere il doppio dell’età che
dimostrava. Indossava un paio di jeans, scarponi neri e una camicia azzurra coperta da una giacca
sportiva. Un individuo anonimo. A pochi metri da Johan, l’uomo sfilò gli occhiali da sole avvolgenti e
si passò una mano sulla testa quasi rasata. Sorrise, come un coccodrillo. Johan sentì un fremito, e
azionò le difese automatiche.
«Buongiorno» esordì lo sconosciuto.
Johan annuì ma non si alzò. L’altro non tese la mano, continuava a sorridere e a guardarsi
intorno, come un ladro recidivo che studia l’ambiente per il prossimo colpo.
«Lei chi è?» chiese Johan alzando la testa e senza scomporsi.
«Sono un giornalista, volevo parlare con l’ispettore Jacobi. È suo figlio, vero?»
Johan lo studiò. «Sì, ma non c’è.»
«A che ora torna?»
Il vecchio raccolse la busta di tabacco dalla tasca e cominciò lentamente a trafficare all’interno.
«Giornalista dice. Mi fa vedere un tesserino?»
L’uomo accentuò il sorriso. «È proprio il padre di un poliziotto, eh?»
Johan infilò un ciuffo di tabacco nella cartina e leccò il bordo con la colla fissando l’estraneo.
«Anche, ma soprattutto sono un vecchio diffidente.»
Il tizio smorzò il sorriso, che si trasformò in un ghigno sinceramente divertito. «Fa bene»
commentò estraendo uno zippo cromato per fare accendere Johan. «Sa» proseguì, «per lavoro mi è
capitato spesso di trovarmi nell’Europa dell’Est. Lei è rumeno, vero?»
Johan sbuffò il fumo lontano. Inutile rispondere, era chiaro che quel tizio conosceva già la
risposta.
«Gente fiera, gente tosta. Permette?» L’uomo indicò il posto libero sulla panca. Johan non disse
una parola e quello si sedette, giocherellava con gli occhiali da sole. «Conosco bene quei posti, quelle
persone. Mi creda, non c’è da fidarsi di quella gente. Sono i peggiori figli di puttana che il buon Dio
abbia spedito su questa terra. Li rispetto, ma non mi piacciono. Sa perché?»
..

Era ovvio che fosse una domanda retorica, infatti l’uomo continuò un secondo dopo.
«Il senso della vita per quella gente è pari a zero. Sono infidi, non ci mettono niente a piantarti
un coltello nella schiena per approfittare di qualche occasione. Un momento prima ti fumi una sigaretta
con loro, quello dopo ti ritrovi a terra in una pozza di sangue, il tuo.»
«Funziona così in tutto il mondo, ormai» disse Johan imperturbabile in superficie, ma
terrorizzato nel cuore. La temperatura era calata sotto zero vicino a quel tizio, come succede quando si
manifesta uno spettro o qualche altra entità maligna. Almeno secondo le antiche credenze, dure a
morire.
L’uomo ridacchiò. «Già, infatti il lavoro non mi manca. Anzi, sembra destinato a crescere. Per
quelli come me, non esistono crisi o recessioni, si fidi. In guerra e in pace, il mercato di cui mi occupo
non subisce rallentamenti.»
Johan voltò la testa e lo fissò negli occhi. «Cosa vuole da me?»
Scanna passò una mano sulle ginocchia e si alzò dalla panca. «Niente, solo fare due
chiacchiere.»
«Chi è lei?» ripeté il vecchio Jacobi, consapevole dell’inutilità della domanda.
«Se tutto va come deve andare, non mi vedrà più» disse Scanna e puntò il mento verso la
rimessa. «Si tiene in forma, con tutte queste riparazioni.»
«Si intende di carpenteria?» Johan per primo si chiese perché lo avesse provocato.
«So fare molte cose.» Scanna sorrise. «Per esempio adoro andare a pesca. Da queste parti si
trovano esemplari di pesci siluro da record, a quanto mi dicono.»
Johan mantenne lo sguardo sul visitatore, finalmente aveva capito. Forse, se fosse stato più
giovane, lo avrebbe aggredito. Ma, come aveva già spiegato, era solo un vecchio diffidente. E
spaventato. Deglutì a fatica, studiando i movimenti dell’uomo e immaginando di essere davanti a un
cobra. Si sforzò di capire quando lo avrebbe attaccato. Pregò che in quel momento, per magia, Remo si
affacciasse dalla soglia per un rientro anticipato dall’ufficio. A Johan fu evidente che quel tizio sapeva
che non avrebbe trovato l’ispettore, ma suo padre. Anziano e indifeso, colpito nella tranquillità
quotidiana. Nello stesso istante, gli fu chiaro che per lo stesso motivo forse l’uomo non aveva
intenzione di fargli del male, solo di intimidirlo. I secondi successivi si dilatarono come buchi neri.
«Ha un messaggio per mio figlio?» domandò Johan con un filo di voce.
Scanna si compiacque per il tono dimesso. Lo faceva sentire capace di tutto, e lo era. Rifletté
sulla domanda enfatizzando teatralmente la pausa, come se cercasse di cogliere qualcosa di impalpabile
nell’aria.
«Non ci sono parole per esprimerlo» disse infine. «Anzi, questa conversazione può anche
rimanere un segreto tra noi. Così aumentano le probabilità che non ci rivedremo.»
Scanna si incamminò verso la strada. «È stato un piacere conoscerla» disse mentre si
allontanava. «Suo figlio dovrebbe passare più tempo con lei.»
Johan rimase seduto finché non fu sparito, poi si svegliò per una sensazione di bruciatura alle
dita e gettò per terra la sigaretta ormai consumata. Si appoggiò con una mano alla panca e rientrò
stordito nella rimessa. Si sentiva come appena uscito da un’anestesia totale, sensorialmente paralizzato.
Passò una mano sull’asse di legno adagiata contro il piano di lavoro, e scoppiò a piangere per sfogare il
terrore di quella visita, ripetendo tra i singhiozzi «Ticâlos», «bastardo», improvvisamente conscio che
senza sapere la ragione, pochi minuti prima uno sconosciuto avrebbe potuto tagliargli la gola nel cortile
di casa, e nessuno se ne sarebbe accorto.
..

46

Barbara aprì un cassetto della cucina e trascorse qualche minuto a rovistare tra i coltelli, alla
ricerca del più affilato e pericoloso. Si sentiva vagamente ridicola, ma doveva munirsi di una
precauzione.
Non aveva ascoltato Jacobi. Lo aveva chiamato per avvisarlo di avere risposto a Oleg
proponendo un rinvio dell’incontro. In realtà lo aveva confermato. L’incoscienza dello spirito di
cronaca, pensò Barbara, che ti spinge a cogliere al balzo qualsiasi occasione per una notizia. Si
domandò se in parte non lo facesse anche per aiutare Jacobi, non la polizia ma l’ispettore. Un uomo
insolito. Era evidente che avesse sofferto molto. Oltre che dalle sue stesse parole, lo aveva intuito dal
genere di dettagli su cui si concentrava per farsi un’idea di qualcuno. L’inclinazione dello sguardo,
l’ampiezza dei gesti – o la loro quasi assenza –, il tono di voce e la ritrosia a riprogrammare il robot che
controllava il suo rapporto con il mondo. Non doveva essere un uomo facile, eppure era a suo modo
sincero. Onesto nella sua brutale schiettezza, genuino nella misantropia apocalittica che usava come
schermo di difesa. Forse non era un adone, ma nemmeno da buttare via. In ogni caso, aveva l’aria di
essere intelligente e silenzioso, due qualità che Barbara aveva imparato ad apprezzare negli uomini.
L’esatto contrario del coglione.
Impulsivamente lanciò un’occhiata in salotto, verso la foto seminascosta nel mobile di legno.
Le parole «testa di cazzo» sibilarono basse appena si posarono sul viso sorridente dell’ex marito.
Raccolse un coltellaccio da macellaio e lo infilò nella borsa color crema, prese le chiavi
dell’auto dal ripiano nell’ingresso e prima di uscire controllò per l’ultima volta il documento che aveva
scritto al computer. Non era così esagerata da stendere un testamento vero e proprio, ma sarebbe errato
sostenere che Barbara non avesse preso seriamente in considerazione l’eventualità di non tornare a casa
dopo l’incontro con Oleg.
Per questo motivo, si era premurata di mettere per iscritto alcune disposizioni, giusto in caso.
D’altronde, le era già capitato di fare una cosa simile prima di partire per lunghe trasferte aeree. Il
vecchio adagio che preferiva di più, quasi uno stile di vita, era: «Non si sa mai».
Venti minuti dopo era ancora sulla circonvallazione esterna, bloccata nel traffico di pendolari in
uscita da Milano. Si sforzò di scacciare il presentimento negativo che avvertiva, il pessimismo che
permeava le sue insicurezze e che si era acuito dopo il divorzio, dopo tutto il tempo buttato per cercare
di ricompattare il rapporto con il coglione. Doveva la sua salvezza mentale al lavoro, in cui si era
gettata con più grinta e caparbietà di quando aveva iniziato. Lo stesso lavoro che forse, nel giro di un
paio d’ore, l’avrebbe uccisa per mano di un bifolco assassino, come ormai considerava Oleg, senza
alcuna prova tangibile se non il pregiudizio dettato dalla paura. Si sentì come Cappuccetto Rosso
invitata a merenda dalla nonna, consapevole però che sotto la cuffia si nasconde un lupo mannaro
pronto a triturarla con le zanne aguzze.
Lanciò un’occhiata alla borsa. Aveva nascosto il coltello tra le pieghe di un foulard di seta,
acquistato molti anni prima in un mercatino in Laos. L’immagine di quel paese lontano balzò dalla
memoria con nitidezza iperrealista, con tanto di odori e tasso di umidità dell’aria, come se fosse appena
tornata da laggiù. Barbara pensò che la sensazione fosse così intensa perché, sotto sotto, era convinta
che non ne sarebbe uscita viva.
Forse, pensò Barbara, prima di morire, tutte le sensazioni legate ai ricordi più belli della nostra
vita tornano per visitarci un’ultima volta, al massimo della potenza sensoriale.
Per averne conferma, doveva solo aspettare un paio d’ore. Quando superò il casello di Assago,
fu certa che sarebbe tornata a casa in una sacca di plastica.
..

47

Scanna posò sul marciapiede la pesante borsa che portava a tracolla. La città vibrava del rombo
di mezzi pubblici, auto e motorini che scorrazzavano nelle strade, autobus e tram con la gente al ritorno
dal lavoro.
Tosatti aveva organizzato tutto. L’avvocato gli aveva dato appuntamento nel suo studio
milanese per discutere di come risolvere il problema dell’articolo. Lanzicchi lo avrebbe avvisato di
salire appena la segretaria se ne fosse andata. Poi ci avrebbe pensato Scanna.
Sentì il portone del vecchio palazzo liberty di via Bigli aprirsi con uno scatto, una donna minuta
con un caschetto biondo uscì dall’oscurità e si avviò svelta verso via Manzoni. Un momento dopo gli
vibrò il cellulare, un sms di Tosatti: VIA LIBERA.
Scanna attraversò la strada e citofonò allo Studio Lanzicchi & Ass. Dopo qualche secondo
riconobbe la voce dell’avvocato, «Primo piano, a destra», e il portone si sbloccò di nuovo.
Salì le scale infilando un paio di guanti di pelle nera e arrivò alla porta dello studio, lasciata
semiaperta. Lanzicchi parlava con qualcuno. Si bloccò sulla soglia. Una conversazione a senso unico,
era al telefono. Entrò e chiuse la porta evitando di fare rumore, quindi avanzò a passi lenti verso la
fonte del suono e aspettò qualche secondo fuori dall’ufficio dell’avvocato. Quando sentì il congedo di
Lanzicchi dall’interlocutore, Scanna inspirò profondamente, tese i muscoli ed estrasse la Beretta 92F
dalla cintola, senza silenziatore.
«Pietro?» chiamò Lanzicchi.
Scanna rimase immobile. Cigolò una sedia, e i passi di Lanzicchi si avvicinarono attutiti sul
soffice tappeto. Quando furono abbastanza vicini, Scanna si mosse di scatto e si affacciò sulla soglia, a
qualche decina di centimetri dalla faccia di Lanzicchi.
«Tu?» esclamò l’avvocato con spaventato stupore, prima che Scanna gli infilasse in bocca la
canna della pistola e con un dito ad altezza labbra intimasse di stare tranquillo.
Scanna vide una macchia lucida bagnare i pantaloni eleganti di Lanzicchi, un rivolo di liquido
giallognolo cominciò a ricoprire il fianco di una delle scarpe inglesi di vitello dell’avvocato.
Con la mano libera, Scanna afferrò la poltrona di Lanzicchi e la posizionò al centro della stanza,
quindi gli indicò di sedersi e di mettere le braccia dietro lo schienale. Avvicinò le spesse tende di
fustagno verdi che si affacciavano sulla via, e accese tutte le luci della stanza. Prese un panno dalla
tasca dei pantaloni e lo spinse in gola a Lanzicchi, che sobbalzava dal pianto e puzzava di piscio e
sudore. Sempre tenendolo sotto tiro, sebbene certo che fosse troppo terrorizzato per tentare una
reazione, Scanna pescò dalla tasca interna della giacca un rotolo di nastro adesivo argentato, e un paio
di minuti dopo finì di avvolgere alla poltrona caviglie e torace di Lanzicchi.
Scanna si sedette su un’altra sedia a un metro da lui, incrociò le gambe e posò la Beretta sul
ginocchio, col dito sul grilletto. Lo studiò per qualche minuto in silenzio, finché Lanzicchi diminuì il
ritmo dei sussulti in attesa del seguito.
«Bravo, non piangere» disse Scanna. Spostò la pistola sulla scrivania e indicò la borsa nera per
terra.
Lanzicchi ricominciò a frignare. Scanna storse la bocca, spazientito. «Hai visto in che casino ci
hai messi? Sono io che dovrei piangere.»
L’avvocato cercò di dire qualcosa, scuotendo vigorosamente la testa.
«Non agitarti troppo. Rischi di romperti l’osso del collo. Dopo tutti questi anni, finalmente
siamo solo tu... e io» Scanna ridacchiò mentre l’avvocato ululava per la paura, con i decibel che si
schiantavano sul panno infilato in bocca. «Riconosci la borsa, vero? Rispondi.»
Lanzicchi annuì a scatti.
«Quindi sai cosa c’è dentro. Oppure, chissà, forse ho portato qualche aggeggio che usavamo in
..

Somalia. O in qualche altro posto del cazzo. Per far parlare quei selvaggi recalcitranti, anche quelli che
confessavano subito.» Ridacchiò di nuovo.
Lanzicchi si dibatté come un indemoniato sulla poltrona, con movimenti tragicomici.
«Ma sei fortunato. Non è il tuo caso.» Scanna si piegò in avanti con il busto. «Sai perché sono
qui? Al posto di Pietro, dico.»
L’avvocato annuì di nuovo.
«La festa è finita.» Scanna si alzò, poi si accovacciò vicino alla borsa e aprì le cerniere con
solennità. «Anzi, no.» Raccolse un oggetto all’interno e lo mostrò a Lanzicchi. Era un cavalletto nero.
Scanna lo montò e lo dispose a un paio di metri da Lanzicchi, poi si chinò di nuovo e mostrò una
piccola videocamera palmare. «Il vero spettacolo sta per cominciare.»
Scanna installò la videocamera sul cavalletto e prese un momento per regolare l’inquadratura.
Quando ebbe finito, si sedette di nuovo e si rollò una sigaretta.
«Bene» disse il mercenario agitando un lembo di tessuto acrilico nero, che si rivelò un
passamontagna. Lo infilò e aggiustò i fori sugli occhi. La fessura della bocca, con le labbra rosa in
evidenza in quella maschera buia, esibì un sorriso inquietante. «Ti porto i saluti di Giorgio Peraldi.
Nessuno sentirà la tua mancanza» concluse accendendo la videocamera e avvicinandosi a Lanzicchi.
..

48

Come si aspettava, Barbara trovò la sponda del Po deserta. Appena scesa dall’auto, l’occhio
captò un movimento nei pressi di una macchia di pioppi, a pochi metri di distanza, e la sagoma di Oleg
sgusciò nella luce del tramonto.
L’ucraino aspirò un’ultima boccata dalla sigaretta e la gettò nella polvere con noncuranza,
quindi alzò un braccio verso di lei ma non mosse un passo. Barbara lo imitò, poi Oleg le fece cenno di
avvicinarsi. Istintivamente lei affondò una mano nella borsa e sfiorò il freddo metallo della lama,
chiuse la serratura degli sportelli con il comando a distanza e si avviò lenta verso il suo contatto.
«Ho fatto prima che ho potuto» disse subito quando fu a pochi metri da lui, senza smettere di
camminare e fingendo una sicurezza che non le apparteneva. «Spero ne valga la pena.»
Oleg incassò le spalle. «Informazioni, importanti.» Si guardò furtivamente intorno, e anche
Barbara.
«Sono sola» precisò la giornalista. «Fidati.»
Oleg la guardò un momento con un sorriso.
Barbara non voleva perdere tempo. «Allora, cosa devi dirmi?»
«Non qui. Non è posto giusto. Seguimi.» Oleg si voltò verso la macchia di pioppi, Barbara notò
solo in quell’istante un’Audi nera parcheggiata tra i fusti sottili degli alberi.
«Dove?» si informò la giornalista.
«Seguimi, vicino» ripeté Oleg. «Fidati» aggiunse.
«Prendo la macchina.» Barbara fece per voltarsi e tornare alla sua auto.
«No» la fermò Oleg. «Insieme, con la mia.»
Barbara rimase immobile, a metà strada tra la sua Polo e l’Audi nera di Oleg, il suo carro
funebre di lusso. Il giovane aprì lo sportello e la guardò. «Avanti, niente tempo da perdere.»
Con uno sbuffo per farsi coraggio, e scuotendo la testa, Barbara aprì lo sportello del passeggero
ma aspettò che Oleg si infilasse alla guida. Prima di salire, lanciò un’ultima occhiata al fiume e alla sua
vegetazione, maledicendosi per non avere dato retta a Jacobi. Sembrava che il peso dell’aria fosse
cambiato, gravato dalle molecole di puro terrore che il suo corpo emanava.
Oleg allacciò la cintura di sicurezza, e suggerì a Barbara con lo sguardo di fare lo stesso.
Un’assurdità che costrinse Barbara a sorridere. Oleg inserì la retro, fece manovra e poco dopo
imboccarono una strada sterrata che correva parallela al fiume. Barbara si voltò verso la strada
provinciale, con le auto che procedevano sonnolente verso destinazioni sicuramente più confortevoli. In
quel momento, avrebbe fatto cambio a caso con uno qualsiasi dei conducenti al volante, tutto pur di
non trovarsi seduta nell’Audi con Oleg. Eppure, lo aveva scelto lei.
Proseguirono in silenzio per un paio di minuti, accompagnati dal sottofondo delle sospensioni e
dei tonfi sulla strada dissestata. Oleg di tanto in tanto rallentava e correggeva lo sterzo per evitare
buche e sassi. Si dirigevano verso un’altra striscia di alberi, isolati nella campagna fluviale.
«Dove andiamo?» chiese nervosa Barbara.
Oleg increspò le labbra, con gli occhi fissi davanti a sé. «Vicino» ripeté. «Quasi arrivati.»
«Non sono tranquilla» confessò Barbara. «Dimmi dove stiamo andando.»
«Hai paura, giornalista?»
Barbara non ebbe il coraggio di rispondere.
«Tranquilla» proseguì Oleg. «Il tuo amico poliziotto sa che sei qui?» La guardò sorridendo con
la bocca, e con occhi da ghigliottina.
Barbara corrugò la fronte e sentì mancare l’ossigeno nei polmoni.
«Lo sa, vero?» Oleg annuì tra sé. «Cosa sa?»
«Cosa dovrebbe sapere?» trovò il coraggio di ribattere.
..

«Andiamo da amico mio» disse Oleg di nuovo concentrato sulla strada. «Amico che sa perché
pesci mangiano bambini. Interessa?»
Era evidente che si divertiva a giocare con il suo terrore.
«Notizia esclusiva» concluse Oleg ridacchiando. «Magari vinci premio, eh?»
Barbara non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. Arrivò a pensare che se l’avessero
stuprata a turno in qualche baracca sul fiume, prima di ucciderla, forse sarebbe stato meglio farla finita
subito.
Arrivarono a ridosso della linea degli alberi. Oleg fermò l’auto e scese, poi si affacciò
all’interno e con uno scatto della testa ossuta indicò a Barbara di seguirlo. Si addentrò nella macchia,
con la giornalista a pochi metri alle sue spalle.
«Da questa parte» la spronò procedendo tra rami spezzati e boscaglia, un intrico che si infittiva
quasi subito, inghiottendo Oleg e il suo bomber color petrolio nella vegetazione dopo pochi passi.
Barbara si guardò intorno, cercando tra le ombre degli alberi eventuali complici di Oleg, pronti
a saltarle addosso e gettarla a terra. Il presagio di una fine ingloriosa le occupò la concentrazione al
punto di perdere di vista Oleg. Lo chiamò, ma l’ucraino non rispose.
«Oleg? Dove sei?»
Niente.
Barbara infilò la mano nella borsa e impugnò il coltello. Si fermò e fece un giro completo su se
stessa con la lama verso l’esterno, pronta a scattare.
..

49

Quando l’ispettore e Borghesi arrivarono in auto quasi fino al pontile di legno del pescaturismo,
sorpresero Tosatti che scaricava insieme al custode Carlo tubi di gomma verde e reticolati di recinzione
di plastica dal vano di un furgoncino, stipato di sacchi di sabbia e attrezzi di vario genere.
Tosatti scambiò due parole con il custode, che guardò in cagnesco i poliziotti prima di
allontanarsi verso l’ufficio dell’amministrazione, carico come un mulo da soma. L’ex militare si sfregò
le mani sui pantaloni a tasche laterali e andò incontro a Jacobi e Borghesi.
«Manutenzioni?» chiese l’ispettore.
«Già» mentì Tosatti, la fronte imperlata di sudore. «C’è sempre qualche lavoretto da fare.
L’acqua mangia via tutto.»
«Signor Tosatti» Jacobi prese una sigaretta, era l’ultima del pacchetto, «lei era caporale,
giusto?»
Tosatti annuì e aspettò in silenzio che continuasse.
«Lanzicchi ha ammesso di conoscerla dal processo a Peraldi, abbozzando qualcosa sulla sua
intercessione con i soldati che lo minacciavano» proseguì l’ispettore.
Tosatti si morse le labbra e distolse lo sguardo.
Jacobi scosse la testa di scatto, come se il suo ragionamento si fosse arenato all’improvviso.
«Non capisco» disse. «C’è qualcosa che manca in tutto questo.»
L’ex cappellano non si mostrò sorpreso.
«Qualcosa a che fare con le minacce ricevute dall’avvocato tra il ’93 e il ’99. Sono quelli gli
anni, giusto?»
Tosatti annuì.
«Lei e Lanzicchi proteggete qualcuno, lo so ma non posso provarlo. Per esempio questo gruppo
di mercenari criminali, Baba Yaga. Lungo il Po sembra che ci sia un esercito di affiliati.»
Borghesi sospirò, ma non intervenne. Quella di Jacobi stava diventando un’ossessione
imbarazzante. Notò che anche Tosatti aveva inarcato un sopracciglio, sorpreso al nome della strega
delle favole.
L’ispettore mosse in aria un braccio seguendo la corrente del Ticino. «Non posso credere che
una persona come lei, con la gestione di un’attività di pescaturismo, non sappia cosa succede a cento
chilometri da qui, a Borgosaldo.»
Per un momento, Jacobi fu tentato di chiedere a Tosatti se anche lui si era fregiato del tatuaggio
di appartenenza, la casa con le zampe di gallina.
Tosatti calcolava la strategia in tempo reale, una bella sfida per un pianificatore come lui. «Ha
ragione, ispettore» disse con gli occhi sul fiume. «Proteggo qualcuno.»
Jacobi inclinò la testa e lo lasciò proseguire. Borghesi faticò a nascondere una certa sorpresa.
«Nell’estate del ’97, due mesi dopo il suicidio di Peraldi, ricevetti una richiesta da parte di
Lanzicchi, ma non fu lui a contattarmi. Nel 1993, durante l’operazione in Somalia, prestava servizio un
buon amico di Lanzicchi, il maggiore Gelsi.»
«Non lo è più?» domandò Borghesi.
Tosatti lo fissò laconico. «È uno dei due soldati morti qualche mese fa, una mina in
Afghanistan.» Si voltò verso Jacobi. «Potete controllare, anche se era su tutti i giornali e in televisione.
In ogni caso, Lanzicchi chiese a Gelsi di calmare i suoi ragazzi per le minacce, ma anche il maggiore
aveva perso punti ai loro occhi. In fondo, l’amicizia dell’avvocato con Gelsi, dopo l’esito della
sentenza e il suicidio di Peraldi, contribuì a offuscare la sua stella.»
«Così Gelsi lo chiese a lei» disse Jacobi niente affatto stupito.
«Esatto.» Tosatti tirò su col naso e allargò le braccia. «Tutto qui.»
..

«E chi starebbe proteggendo? Non l’ho capito» disse Jacobi.


Tosatti annuì e lo guardò con un mezzo sorriso. «La buona memoria del maggiore Gelsi. Non
meritava di morire così.»
L’ispettore non era convinto, continuava a scuotere la testa. Era bravo, quel Tosatti. Gli
bloccava ogni ingresso. Indicò il bungalow numero cinque. «Possiamo dare ancora un’occhiata?»
Tosatti annuì. «Nessun problema.»
Mentre si dirigevano alla casupola, Jacobi si affiancò a Tosatti. «Non le manca la vita
militare?»
Quello minimizzò incassando le spalle. «È un sistema di valori complesso, più grande della vita
del singolo.»
«Più grande anche della fede?» lo stuzzicò Jacobi.
«Cosa c’entra, sono due cose diverse.»
«Mi dica la verità, quanto c’entrano gli orrori che ha visto durante il servizio militare con la
decisione di abbandonare Dio?»
Tosatti si voltò di scatto verso Jacobi. «Non ho mai abbandonato Dio.»
«Riformulo la domanda. Perché non è più un prete? Per favore, eviti di ripetere la solita
manfrina sulla perdita dell’innocenza e via dicendo. Mi interessano le sue ragioni pratiche. Perché ha
smesso di alleggerire il peso morale dei suoi fratelli d’armi? Mi sembra di capire che avesse una certa
influenza su di loro.»
Tosatti cambiò faccia, quasi letteralmente. L’ostilità con cui squadrò Jacobi spinse Borghesi ad
avvicinarsi all’ispettore.
«Cosa ne pensa delle torture avvenute laggiù, e magari anche in altri ’teatri di guerra’, si dice
così?» insistette Jacobi.
«Penso che se non si vivono certe esperienze sulla propria pelle, è meglio non azzardarsi in
ipotesi e finzioni.» Tosatti armeggiò nervosamente con un mazzo di chiavi.
«Allora, perché non è più un prete?»
«Perché la morte ammorba, ispettore. Striscia sottopelle finché non ti contagia, o ne diventi
immune. Qualcuno va fuori di testa, diventa una droga. Qualcun altro non ne può più, e decide di
mollare il colpo. Diciamo che ho smesso di credere in valori universali, e non significa avere smesso di
credere.»
«E chi invece ci rimane sotto?» disse Jacobi. «I mercenari, per esempio. Gente che sguazza
nella morte, senza difendere niente se non il proprio conto in banca. Non parlo dei professionisti della
sicurezza privata, mi riferisco a quelli che non si fanno problemi a massacrare altri esseri umani per
denaro. Gente che magari è anche capace di fare a pezzi una bambina e infilarla in bocca a un pesce.»
Tosatti scosse la testa. «Quella è roba da deviati, non da mercenari. Il mondo è un posto
orribile, ispettore. Mi fa piacere che se ne sia accorto.»
«A chi lo dice. Lo vede questo cazzo di fiume? Mia figlia ci è annegata dentro qualche anno fa,
e per poco non ci sono rimasto pure io tentando di trascinarla fuori dal gorgo che l’ha inghiottita. Mia
moglie mi ha mollato perché non era più capace di vivere al fianco dell’uomo, del padre, che aveva
lasciato morire la sua unica figlia. Non sopportava il peso di una vita con me. In tutto questo tempo,
dopo essere finito in una clinica psichiatrica e avere sospeso il lavoro per un anno e mezzo, sono
riuscito a furia di psicofarmaci e megatoni di antidepressivi a ricostruire una parvenza di normalità. Ma
ripeto, solo una parvenza. In realtà, mi sono inventato una vita alternativa, cercando di trovare conforto
in una finzione ragionata. In questo mondo fantastico e altrettanto deprecabile ero sterile, e mia moglie
ha semplicemente chiesto il divorzio perché non sopportava l’idea di non avere un figlio da me. Ora,
perché mai lo confesso proprio a lei? Perché in qualche modo sono convinto che lei sappia più di quel
che dice, su Lanzicchi e sul suo passato nell’esercito. O su questa sua attività di pescaturismo. Solo che
non ho le prove per accusarla di niente, solo sensazioni. E con le sensazioni si fa poca strada,
..

soprattutto se parliamo di omicidio. A meno che i pesci siluro non abbiano imparato a usare le posate e
siano così intelligenti da affettare il cibo prima di ingerirlo. Lasci stare il bungalow, lo tenga pure
chiuso, so già che non troveremo niente. Figuriamoci l’unghia del mignolo di una bambina.
Probabilmente ci sono solo quelle del suo lurido custode.»
Jacobi accese la sigaretta, senza curarsi della mascella cascante di Borghesi, rimasta tale per
tutto il discorso.
«Adesso ce ne andiamo, sono sicuro che tra le sue carte troveremo almeno una ragione per
mandare qui qualche ispettore di categoria diversa, magari sanitario o fiscale, per farle chiudere questa
topaia. Poi ci concentreremo su di lei, Tosatti.» Jacobi richiamò il vice e si incamminarono verso
l’auto.
Tosatti li osservò allontanarsi. Quando l’Alfa dei poliziotti sparì alla vista, prese il cellulare
dalla tasca e scrisse un messaggio a Oleg, aspettava una conferma dell’incontro proposto la sera prima.
Rimase con il cellulare in mano, aspettando la vibrazione sul palmo da un momento all’altro.
Scanna si sarebbe occupato anche dell’ucraino. Senza farlo muovere dall’ufficio di Lanzicchi.
Gli avrebbe servito a domicilio la seconda portata della cena, aveva già organizzato tutto. Come
sempre. Ecco a cosa serve la fede, pensò Tosatti riempiendosi i polmoni con l’aria dolciastra del fiume:
strategia per la risoluzione di problemi. Era sempre più convinto che seguire il Verbo fosse mettere in
pratica astute tattiche belliche, e le Scritture abbondavano di consigli su come apprenderle. Per vincere
le guerre probabilmente non servivano, ma per vincere gli uomini erano più che sufficienti. Forse, se
l’ispettore Jacobi voleva far chiudere i battenti al pescaturismo di Zeccheto, poteva approfittarne per
cambiare aria. Sparire per un po’, se non definitivamente.
..

50

Barbara procedette tra gli alberi con cautela, voltandosi a ogni schianto di ramo, ogni
adeguamento naturale del bosco. Persino il richiamo degli uccelli la terrorizzava. Alle sue spalle, a
meno di dieci metri, la canna cromata di una Glock 17 era puntata alla sua testa. La mano salda di Oleg
seguiva i movimenti spaventati della giornalista, che continuava a chiamarlo.
Nemmeno lui sapeva cosa avrebbe fatto. Non era un buon pianificatore, e i residui della
precedente nottata a base di coca, convinto che avrebbe stimolato una strategia a prova di bomba, di
certo non lo aiutavano a concentrarsi.
Tenne sotto tiro la Moroni per diversi minuti. Invisibile in mezzo al fogliame, la seguì mentre lo
chiamava con voce sempre più disperata. Se l’avesse uccisa, forse quello sbirro sarebbe venuto a
cercarlo subito. Ma forse no. Dalla visita, aveva respirato una certa ostilità reciproca tra i due.
Ucciderla non aveva senso, ma Oleg si focalizzò su questa possibilità solo una frazione di secondo. In
realtà sentiva crescere l’adrenalina, dalla punta dei piedi al polpastrello appoggiato sul grilletto. Quella
specie di paura orgasmatica prima di fare fuoco per uccidere. La droga sopraffina per eccellenza.
Voleva uccidere, e per un momento si dimenticò che non era un’azione priva di conseguenze. Nel suo
caso, potevano essere drasticamente letali.
Vide la donna singhiozzare il suo nome impaurita, ferma con una mano sulla corteccia
screpolata di un castagno, e l’altra sul manico di un coltello da cucina.
Oleg sentì una vibrazione all’altezza del cuore, ma non per motivi sentimentali. Allungò la
mano libera nel bomber e prese il cellulare. Era un messaggio del prete. Lo lesse due volte per essere
sicuro: un indirizzo di Milano, e la richiesta di presentarsi lì alle undici di quella sera. Il problema era
risolto, spiegava Tosatti, ma dovevano discutere di un nuovo lavoro.
Oleg tirò su col naso, un vezzo automatico ogni volta che doveva considerare proposte lampo.
Poteva fidarsi del prete, concluse dopo una riflessione di pochi secondi. D’altronde, era sempre meglio
rimettersi a lui piuttosto che all’intraprendenza personale. Con il casino che aveva combinato, era un
miracolo se non si trovava al posto della giornalista. Con qualcuno pronto a freddarlo alle spalle. Era
così sollevato dal messaggio inatteso che non si soffermò nemmeno un secondo a ponderare la
possibilità di finire in una trappola. Inserì la sicura all’arma e la infilò di nuovo nella cintola, quindi la
coprì con il giubbotto. Quando la donna chiamò di nuovo il suo nome, Oleg sbucò da un tronco e la
fissò.
Barbara urlò per lo spavento, ormai era sicura del peggio. L’ucraino aspettava che si
avvicinasse.
«Niente amico» disse Oleg. «Torniamo indietro.»
Barbara lo raggiunse senza accorgersi delle lacrime che solcavano il viso, gelide e penetranti.
Stringeva ancora il coltello, e quando gli si avvicinò, Oleg lasciò scappare una risatina.
«Metti via» disse e scosse la testa, come se si rivolgesse a un bambino che rischia di farsi male
con qualche gioco pericoloso.
Attraversarono la macchia di alberi in silenzio. Oleg telefonò a qualcuno e parlò nella sua
lingua. Rideva, forse stava organizzandosi la serata, pensò Barbara. Salirono sull’Audi e questa volta
Oleg non ricordò alla giornalista di allacciare la cintura, si limitò a fermarsi col motore acceso davanti
all’auto della Moroni, e ripartì appena lei fu scesa.
Barbara aspettò di trovarsi sola, poi si lasciò cadere a terra, appoggiata con la schiena allo
sportello, e pianse come non le capitava da anni. In quel momento, il profumo della vegetazione e
l’odore dolciastro e vagamente ammuffito del fiume le sembrarono più potenti che mai, di un’antichità
primigenia. Quasi fosse la prima volta che li percepiva. Finì per addormentarsi in quella posizione,
spossata dal terrore, ma senza alcuna paura dei pericoli della notte. Le fronde degli alberi frusciavano
..

sopra di lei, rassicuranti e terapeutiche, risvegliando echi di un’infanzia spensierata. Era sopravvissuta
al suo incontro con la morte, se ne rendeva conto, e quando chiuse gli occhi sognò di essere di nuovo
bambina, e di giocare in mezzo ai prati completamente all’oscuro della malvagità degli uomini.
..

51

Remo arrivò a casa che era già buio. Si era fermato in ufficio con Borghesi e insieme avevano
esplorato altri possibili angoli per incastrare Tosatti, senza trovarne.
«Come Al Capone» aveva commentato il vice. «Lo freghiamo con qualche magagna
amministrativa.»
«Sai che roba, per il cesso di posto che si ritrova. Magari gli facciamo pure un favore.» Jacobi
stritolò il pacchetto vuoto di Pall Mall. L’ispettore aveva apprezzato che Antonio non avesse
commentato la confessione in cui si era lanciato a Zeccheto. Da quando lavoravano insieme, Jacobi non
aveva mai parlato di questioni private con Antonio. In fondo, i veterani in ufficio sapevano tutti della
figlia di Remo, sebbene senza i particolari clinici. O così credeva Jacobi. Prima di uscire dall’ufficio,
però, il vice lo aveva richiamato.
«Remo, posso farti una domanda?»
Jacobi si era fermato sulla soglia.
«Sei pazzo?» aveva chiesto Borghesi.
«Certo. E tu faresti meglio a chiedere il trasferimento. Se vuoi ci parlo io con Ferri, tanto mi
odia già.»
Jacobi entrò nel tinello d’ingresso, appese l’impermeabile blu al gancio a muro e chiamò Johan.
Lo sentiva muoversi in cucina, ma il vecchio non rispose. Si affacciò nella stanza.
«Ciao» disse allentando il nodo alla cravatta.
Il padre ricambiò con un mugugno, e continuò ad apparecchiare la tavola.
Remo gli si avvicinò. «Tata, tutto a posto?»
Johan sollevò lo sguardo su di lui. Aveva gli occhi arrossati e il viso particolarmente tirato.
«Che succede, papà?» disse chiamandolo in italiano, una rarità.
Johan deglutì con un certo sforzo e scosse la testa.
«Oggi tua madre mi manca molto» parlò a voce bassa. «Più che mai» aggiunse con fatica.
Remo voleva abbracciarlo, ma erano trent’anni che non lo faceva. E Johan aveva bisogno di una
dimostrazione spontanea di affetto, questo era evidente. Il volto di suo padre sembrò ancora più
grinzoso e antico, come quello di un’apparizione lontana.
«Anche a me» disse Remo sedendosi a tavola, con sincera solidarietà. Un mondo di affetti
scomparso come i dinosauri, con altrettanta irruenza di una meteora che cambia i connotati della storia
senza preavviso, o quasi. Di colpo, Johan posò rudemente le stoviglie sul tavolo e strinse forte la testa
di Remo contro il suo petto. Remo si irrigidì per la sorpresa e comandò a se stesso di sfiorare il braccio
di Johan, finché il gesto acquisì la naturalezza dell’amore di un figlio per il padre. Sentiva il corpo di
Johan sobbalzare lievemente, ma preferì continuare ad accarezzarlo invece di scoprirlo con il volto
rigato dal pianto. Non lo aveva mai visto piangere, nemmeno al funerale di sua madre, e ora sapeva che
anche lui poteva farlo. Rimasero abbracciati goffamente per qualche minuto, dondolandosi di pochi
centimetri, affettuosi e disperati. Remo chiuse gli occhi, scavando dentro di sé alla ricerca di una
ragione per versare le stesse lacrime. Ma le aveva già sprecate tutte anni prima, diluite nella corrente
mortale del fiume maledetto. Poteva piangere per se stesso, ma si rese conto che forse non ne valeva la
pena.
..

52

Era una di quelle mattine in cui nemmeno un thermos di caffè aveva il potere di svegliare
Jacobi. Con gli occhi ancora stropicciati dal sonno, varcò la soglia dell’ufficio e la prima cosa che gli
venne in mente fu di scendere da Ales e farsi un corretto grappa, possibilmente doppio. Il bar pullulava
della clientela frettolosa della prima mattina, l’aria permeata dall’aroma di frolle e brioche calde. Un
paio di agenti e colleghi lo salutarono, e lui ricambiò senza prestare attenzione a chi rivolgeva il
buongiorno.
Jacobi ignorò le copie dei quotidiani a disposizione del locale, comunque già nelle mani di altri
avventori, e si piazzò subito al bancone. Sembrava un cowboy appena smontato da cavallo dopo
l’attraversamento senza sosta della Sierra Nevada.
«Ispettore, il solito?»
Jacobi finì di massaggiarsi le palpebre e guardò Ales come se fosse la prima volta che lo
vedeva. «Sì, grazie. Doppio.»
Un momento dopo, il ragazzo gli servì la tazzina fumante. Il profumo penetrante della grappa
risvegliò i sensi dell’ispettore, che si guardò intorno alla ricerca di facce note con cui scambiare due
chiacchiere e cercare di svegliarsi del tutto. Ordinò un secondo caffè, stavolta ristretto, augurò buon
lavoro ad Ales e uscì a passo svelto. Prima di raggiungere la porta, il barista lo chiamò. Aveva in mano
un pacchetto.
«Ispettore, hanno lasciato questo per lei.»
Jacobi si avvicinò e prese in mano la busta imbottita. In pennarello nero e stampatello recava
solo il suo nome, senza titolo: REMO JACOBI. L’ispettore la soppesò, era piuttosto leggera.
«Chi l’ha lasciato?»
Alex scrollò le spalle. «Un giornalista.»
La parola gli faceva subito venire in mente Barbara. «Come fai a saperlo?»
«Me l’ha detto lui.»
Jacobi scosse la testa con innocenza. «Quando?»
Il barista guardò l’orologio sulla parete. «Una mezz’oretta fa.»
«Ti ha detto il nome?»
«No. Era di fretta, e qui c’era parecchio casino. Mi ha chiesto se conoscevo l’ispettore Jacobi e
quando gli ho detto di sì mi ha detto di essere un giornalista e mi ha consegnato il pacchetto.»
«Com’era fatto?» Jacobi girò il pacchetto. Niente francobolli, timbri postali o indirizzo del
mittente.
«C’era un sacco di gente, avevo da preparare i caffè e svuotare la macchina. Non ci ho fatto
caso. Portava un berretto da baseball e un paio di occhiali da sole. Mi ha lasciato il pacco e se n’è
andato.»
Jacobi annuì, agitò il pacchetto in aria per ringraziare e uscì.
Salì le scale della Questura di corsa, era curioso di aprire la busta e scoprire il contenuto.
Quando entrò in ufficio, trovò Borghesi seduto alla scrivania, incollato al monitor del computer con gli
occhi fuori dalle orbite.
«Remo, giuro che è da non crederci» furono le sue prime parole.
«Hai detto la stessa cosa la mattina in cui hanno ripescato il siluro» gli fece notare Jacobi. Posò
il pacchetto sulla sua postazione e si piazzò alle spalle del vice. Per poco non gli venne un infarto. Lo
schermo mostrava una pagina della cronaca metropolitana del «Corriere», dedicata al brutale omicidio
dell’avvocato romano Moreno Lanzicchi nel suo studio in pieno centro a Milano.
Jacobi sfiorò la blasfemia per la sorpresa. Il cadavere di Lanzicchi, che secondo le macabre
indiscrezioni del giornalista portava impressi i marchi della tortura e della violenza sessuale, era stato
..

scoperto dalla segretaria appena messo piede in ufficio quella mattina. Si trattava di una notizia
freschissima, tanto che nella decina di righe era specificato che fossero in corso le indagini preliminari
e di seguire gli aggiornamenti online.
Ma non era tutto. Lanzicchi non era morto da solo. Al suo fianco giaceva il corpo di Oleg
Zarov, cittadino ucraino con regolare permesso di soggiorno in Italia, freddato con un colpo in piena
fronte.
La prima cosa che venne in mente a Jacobi fu di telefonare a Barbara. Provò sul cellulare ma lo
trovò «spento o irraggiungibile», e anche a casa la giornalista non rispondeva.
L’ispettore raccolse in fretta l’impermeabile e si diresse alla porta. «Manda subito un paio di
volanti da Tosatti. Chiama la Questura di Mantova, informali sulle ricerche che abbiamo fatto a
Borgosaldo, non tralasciare niente, basta che oggi pomeriggio qualcuno arresti tutti quei bastardi.
Parlaci tu con Ferri se devi chiedere qualche autorizzazione.»
«Dove vai?»
«Barbara non risponde.»
Borghesi lo fissò con un sopracciglio inarcato. Gli aveva già chiesto la sera prima se fosse
pazzo, non c’era motivo di ripetere la domanda.
Prima di sparire in corridoio, Jacobi insistette con Borghesi di essere aggiornato su ogni nuovo
sviluppo, infine corse alla sua Alfa e partì verso Milano.
Durante il tragitto provò a richiamare Barbara inutilmente. A ogni squillo a vuoto corrispondeva
qualche chilometro in più di velocità sulla lancetta del cruscotto. Arrivò alla barriera di Assago in meno
di mezz’ora, e per alleggerire il passaggio nel traffico intenso della città più stressata d’Italia fece
ricorso alla sirena d’ordinanza, espediente che aveva sempre odiato.
Arrivato quasi in fondo a viale Bligny, verso piazzale Medaglie d’Oro, il cellulare squillò. Era
Barbara. Jacobi accostò senza preavviso davanti alla fermata di un autobus. I passeggeri in attesa,
soprattutto studenti, sbirciarono nell’abitacolo dell’auto sperando forse di intravedere la sagoma di un
politico o un altro pezzo grosso.
«Tutto bene?» chiese subito Jacobi. «Ho provato a chiamarti, non rispondevi e mi sono
preoccupato.»
«Che succede?» Barbara sembrava appena emersa da un sonno profondo.
Jacobi le riferì la notizia dell’omicidio di Lanzicchi e di Oleg. «Cosa ti ha risposto nella mail?»
domandò l’ispettore. «Per l’incontro.»
Avvertì la titubanza della giornalista nella lunga pausa che seguì. «Non mi ha risposto» mentì
Barbara, non trovò il coraggio di confessare di avere rischiato la vita solo dodici ore prima, e sotto sotto
forse temeva la rabbia di Jacobi. Non dell’uomo, questa volta, ma del poliziotto. Inoltre, avrebbe fatto
qualsiasi cosa per dimenticarsi di quell’episodio, ed evocarlo a beneficio di un ispettore non era certo il
sistema più adatto per riuscirci.
«Perché non rispondevi?» chiese Jacobi.
«Sono ancora a letto, non sentivo.»
Jacobi chiese di nuovo se stava bene, e quando Barbara rispose di sì, l’ispettore sentì i nervi
rilassarsi. Ma non si rese conto che forse, a Barbara, avrebbe fatto più piacere sentirselo chiedere di
persona. Dal momento che per Jacobi fare trenta e non trentuno era sufficiente, non rivelò alla
giornalista di essersi precipitato a Milano e di trovarsi a pochi minuti di strada da casa sua. Si limitò a
salutarla e disse che l’avrebbe chiamata nel corso della giornata.
Fece marcia indietro e imboccò il viale trafficato per tornare verso l’autostrada. Era una
giornata luminosa, come l’inizio di una nuova epoca per un’umanità che invece non accettava cambi di
ritmo, a giudicare dal rigoroso e monotono andirivieni di auto e veicoli.
Tutta questa gente, pensò Jacobi dopo cinque minuti in coda a un semaforo rosso per un tipico
ingorgo da Ecopass. Il telefono trillò di nuovo. Borghesi.
..

«Dimmi, Antonio.»
«Ho parlato con un collega di Milano, a proposito di Lanzicchi.»
«Sai chi se ne occupa?»
«Hanno prelevato il computer di Lanzicchi per esaminare il disco fisso. Lo tenevano d’occhio
già da un po’, insieme a quel gallerista che ha chiamato ieri, Leonardo Tusco.»
«Evasione?»
«No, pedopornografia, a quanto pare.»
«Ci siamo, Antonio, ci siamo.»
«Remo, la palla passa a loro.»
Qualcuno suonò il clacson con veemenza alle spalle di Jacobi. Guardò allo specchietto, un Suv
nero con una bella figa al volante e un marmocchio biondo seduto sul sedile del passeggero. Senza
cintura. Il semaforo era diventato verde, Jacobi non se n’era accorto. Ingranò la marcia e partì mentre la
luce diventava gialla.
«In che senso passa a loro?»
«Hanno richiesto il fascicolo sul siluro e sulla bambina, è ufficiale. L’indagine si trasferisce a
Milano.»
E così, pensò Jacobi, ecco che qualcuno fa secco un viscido leguleio vicino agli ambienti della
società che conta, e subito l’indagine salta in primo piano. Scosse la testa. Meglio così, disse tra sé. In
fondo, cosa può risolvere un ispettore di provincia, per di più di origini rumene?
«Remo, ci sei?»
«Sì, scusa Antonio. Senti, passo in ufficio e poi torno a casa, se per te va bene.»
«Qualcosa non va?»
«No. Cioè non lo so. Mi sembra di vivere perennemente sotto psicofarmaci.»
L’atmosfera metafisica in cui era piombato il mondo intero aleggiava anche in Questura. Jacobi
la trovò più silenziosa del solito, quasi avessero foderato i muri del vecchio edificio con pannelli
insonorizzanti. Entrò nel suo ufficio, Borghesi non c’era. Prelevò il pacchetto marroncino che gli aveva
lasciato Ales – quasi se n’era scordato – e lasciò un appunto al vice per sentirsi nel pomeriggio. Infine
salì di nuovo sull’auto e spense il cervello lungo il familiare tragitto fino alla cascina.
..

53

Per prima cosa rassicurò Johan, stupito di vederlo rientrare all’ora di pranzo, quindi riempì la
vasca da bagno di acqua tiepida e vi si immerse con la speranza di addormentarsi quasi subito. E di non
sognare. Per una volta, i suoi desideri si esaudirono. Si svegliò per la temperatura dell’acqua, calata
vertiginosamente. Si lavò in pochi minuti, di fretta, infilò l’accappatoio rosso di spugna – un cimelio
quasi decennale – e camminò a piedi nudi in cucina per un caffè, lasciando le impronte bagnate sulle
piastrelle.
Appena la miscela di arabica brontolò sul fuoco, si accese una sigaretta e trasse un profondo
respiro. Dalla rimessa giungevano rumori disarticolati di lavori in corso, ogni tanto arrivava qualche
imprecazione in rumeno di Johan. L’ispettore sorrise e si passò una mano sui capelli umidi, appena
passati con l’asciugamano. L’occhio gli cadde sul mobile dell’ingresso, sul pacchetto marrone che non
aveva ancora scartato. Finì la sigaretta e si alzò a raccoglierlo. Tagliò la parte sigillata con un coltello
preso dal cassetto in cucina e riversò il contenuto nella mano. Era un cd. Senza etichette,
completamente bianco. Si trasferì in camera da letto e aprì la borsa dove teneva il portatile, quindi si
munì dell’alimentatore e trasportò tutto in salotto. Accese il computer e quando la macchina smise di
macinare, infilò il disco nella fessura apposita sul fianco. Si aprì una finestra che mostrava uno sfondo
nero. Jacobi ingrandì l’immagine a tutto schermo e si allungò sul divano per guardare il video più
comodamente. Le casse integrate del computer riprodussero un fruscio sgradevole, che per fortuna durò
solo pochi secondi. Poi apparvero le immagini.
Un uomo legato a una poltrona con nastro adesivo rinforzato e una calza infilata in bocca, forse
uno straccio. Riconobbe un quadro che si intravedeva alla parete, era lo studio di Lanzicchi.
L’inquadratura era fissa, compiaciuta, a un paio di metri dal volto irriconoscibile dell’avvocato. La
faccia era una maschera di sangue, un budino di carne pestata con palese violenza e determinazione.
Per terra, ai piedi della poltrona di pelle, si era formata una pozza rossa in cui navigavano corpi
flaccidi, frammenti di sostanza biancastra e scura dall’aspetto molliccio. Jacobi quasi poté sentirne il
fetore uscire dagli altoparlanti del computer.
Si raddrizzò di colpo per osservare da vicino la scena, e alzò il volume.
Un momento dopo entrò in scena un secondo uomo, completamente vestito di nero, con guanti
e passamontagna. Si voltò di fronte all’obiettivo e parlò.
«Ispettore Remo Jacobi» esordì l’uomo. «Vuoi sapere che fine fanno gli orchi? Allora continua
a guardare.» Si batté un dito sulla tempia. «Il male non esiste. È una forza che si esprime e si annulla da
sé. Ci vuole un mostro per sconfiggerne un altro. Non sono un filosofo, ispettore, solo un
professionista. Ti sembrerà strano, ma quelli come me rispettano un codice. È inutile spiegare quale. Ce
ne sono molti e sono tutti diversi. Ma quelli come lui non meritano di respirare su questa terra. Almeno
dal mio punto di vista. I soldi non sono tutto, nemmeno per un mercenario.» Indicò Lanzicchi. «Gli ho
fatto quasi tutto quello che lui ha fatto alla bambina che avete trovato in bocca a quel pesce. Ma non
sono stato io a farla a pezzi. Mi raccomando, leggi i giornali stamattina. Se ti serve un colpevole, lo
troverai insieme a Lanzicchi. Non lo faccio per darti una mano a raggiungere la pensione, ispettore.»
Scanna sorrise e aspirò una boccata di sigaretta.
Si avvicinò a Lanzicchi e raccolse un oggetto da terra, un martello da carpentiere con manico e
testa lordi di sangue. Da un angolo dell’inquadratura prese una busta di plastica a chiusura ermetica e vi
infilò il martello. Il video si interruppe di colpo, un brevissimo stacco nero. Quando riprese,
l’inquadratura non era cambiata e neppure la scenografia, ma Lanzicchi era piegato sulla poltrona.
Jacobi sentì montare in bocca il sapore di un conato imminente, eppure non riuscì a staccare gli occhi
dal video.
Lanzicchi non reagiva più, forse era già morto. Invece no, vide che muoveva un piede
..

spasmodicamente. L’uomo impugnò una pistola. Jacobi la riconobbe, una Beretta 92F. Afferrò
Lanzicchi per i capelli e lo trascinò molto vicino alla videocamera. La vista del volto tumefatto era di
per sé insostenibile. Poi l’uomo allontanò la testa dell’avvocato di qualche centimetro e guardò in
camera. Un momento dopo, senza dire una parola, sferrò un colpo violentissimo e netto sul cranio di
Lanzicchi con il calcio della Beretta. L’avvocato crollò esanime sul tappeto dello studio.
L’inquadratura oscillò vorticosamente, l’uomo aveva preso in mano la videocamera e si mosse
nella stanza prima di fermarsi sulla scrivania, davanti al computer. L’immagine sparì per qualche
secondo. Jacobi si sporse e notò che la barra di lunghezza del filmato sul monitor non era ancora alla
fine. Un momento dopo gli altoparlanti del computer riversarono nella stanza la voce del killer.
«Domani troveranno un hard disc collegato al computer dell’avvocato» disse Scanna. «Dentro
c’è quello che vi serve per chiudere la faccenda del pesce siluro e della bambina. Se tutto va come deve
andare, non sentirai più parlare di me. L’ho già detto a tuo padre, ieri pomeriggio. Un simpatico
vecchio. Io e lui siamo già d’accordo, pensaci sopra. E passa più tempo con lui. Goditelo, finché puoi.»
Scanna strizzò un occhio e abbozzò un sorriso da belva, quindi la finestra del lettore video si
chiuse, e il portatile ronzò ancora un momento prima di avviare le ventole di raffreddamento.
Jacobi rimase a bocca aperta sul divano. All’improvviso i suoni che provenivano dall’esterno
sembrarono più intensi, disturbanti. L’ispettore premette il comando di espulsione del disco e lo inserì
nella custodia di plastica. Avrebbe dovuto portarlo in ufficio, consegnarlo agli ispettori di Milano che
ora si occupavano dell’omicidio di Lanzicchi. Invece rimase seduto, per una volta senza accendersi
sigarette per ammazzare il tempo e stimolare i pensieri. Chiuse gli occhi e cercò di immaginarsi un
epilogo. Quello era l’epilogo, concluse ignorando il cellulare che si dibatteva sul cuscino al suo fianco.
Quando lo raccolse, vide che aveva ricevuto quattro chiamate, tre di Borghesi e un messaggio da
Barbara.
Rimase immobile con gli occhi sul display, anche se in realtà gli scorrevano davanti le
immagini del filmato, il ritrovamento del siluro, la bambina prima a pezzi, poi disposti alla meglio da
Dettori, la filettatura all’aria aperta sul Po, e l’odore terribile della morte come sfondo comune. Si alzò
di scatto e corse in bagno, si inginocchiò sul water e quasi affondò dentro la testa, infine vomitò tutto
ciò che il suo organismo gli concesse di espellere. Non si accorse della porta di casa e dei passi pesanti
di Johan che si avvicinava.
«Remo?»
L’ispettore si voltò e vide il vecchio affacciato sulla soglia del bagno. D’istinto, Remo Jacobi si
lanciò verso suo padre e lo abbracciò con tutta la forza che sentiva ancora di possedere. Pensò che non
avrebbe sopportato la vita senza di lui, pregò qualsiasi divinità disposta a prendere in considerazione le
sue richieste di farlo morire un minuto dopo Johan, quando fosse giunta la sua ora. Percepì la
perplessità di Johan, che alla fine ricambiò il gesto con altrettanta goffaggine.
«Remo, non hai sentito il telefono? Era Borghesi, dall’ufficio. Dice che è urgente.»
Jacobi si staccò dal genitore, chiuse la porta del bagno e si lavò la faccia sotto il getto di acqua
gelata del lavandino. Tornò in salotto e chiamò Borghesi dal cellulare.
«Ho una bella novità» annunciò il vice. «Il russo che hanno trovato morto insieme a Lanzicchi,
il nostro Oleg...»
«È ucraino, Antonio» puntualizzò l’ispettore.
«Fa lo stesso.» Il vice era impaziente di parlare.
«Non proprio, dimmi.»
«Aveva un bel tatuaggio tra le scapole, una casetta da film dell’orrore, con le zampe di gallina.»
«Non mi dire» si lasciò sfuggire Jacobi, che ormai non si sarebbe più sorpreso di niente.
«Baba Yaga, proprio così.»
«Bene, adesso sono cazzi della polizia di Milano» disse Jacobi.
«I casi sono collegati, avevi ragione.»
..

«No, Antonio. Non c’entrano niente. Non esistono collegamenti né casi da risolvere. Al
massimo ci penseranno i colleghi della metropoli. Non credi?»
Il silenzio che seguì non procurò alcun disagio all’ispettore, ormai convinto della sua decisione.
«C’è un particolare che non mi torna.»
Jacobi attese che proseguisse.
«Non hai mai avvisato il pm, vero?» chiese il vice, sicuro della risposta.
«Per cosa, Antonio? Lo avranno avvisato stamattina i colleghi di Milano, non credi? Adesso se
ne occupano loro, in grande stile e con efficienza. Hai visto anche tu, Lanzicchi si è subito guadagnato
gli onori della cronaca. Senti, guarda che ti capisco. Se vuoi fare carriera, è meglio che chiedi il
trasferimento, magari proprio a Milano, per continuare a seguire questo caso. Ti hanno messo vicino a
quello sbagliato, ragazzo.»
«Ti avevo avvisato, Remo. Non sono più disposto ad aiutarti.»
«Non devi giustificarti. L’ho già detto, ti capisco. Anzi, ti dico io che è meglio così. A
proposito, credo che per un po’ non verrò in ufficio. Ho bisogno di una pausa. Forse è meglio se
ricomincio a curarmi davvero. Può darsi che sia l’unico antidoto.» Chiuse la conversazione mentre
Borghesi continuava a protestare in linea. Jacobi non fece caso ai due tentativi di chiamata che
seguirono, e infine lesse il messaggio di Barbara. Temeva che anche lei chiedesse o rivelasse
aggiornamenti sull’omicidio. Invece gli proponeva di cenare insieme, a casa sua.
Jacobi non rispose subito, ma per la prima volta dopo Monica, dopo la morte di sua figlia, si
sentì smarcato dal terrore atavico delle relazioni umane. Forse per l’esigenza di trovare una scappatoia
che gli rendesse l’esistenza più accettabile, senza dover essere costretto a sondare i territori dei suoi
incubi alla ricerca di un vaccino inesistente. La perenne e dolorosa conquista della ragione rischiava di
fargliela perdere del tutto. Avrebbe dato retta all’assassino di Lanzicchi, e quasi certamente anche di
Oleg: si sarebbe preso cura di Johan. In cuor suo, nel frammento pulsante che non si era spento con
l’esaurimento nervoso e la perdita di ogni fede, Jacobi si dichiarò d’accordo con un emissario diretto
del male che vedeva proliferare ovunque. Chissà, pensò l’ispettore accettando l’invito di Barbara, forse
ne avrebbe tratto qualche beneficio.
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Indice

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Somalia, 1993

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