INTRODUZIONE
CAPITOLO 1: L’UNIONE EUROPEA E IL SUO DIRITTO
-La nozione di Unione europea
Non si può dire con certezza cosa sia o cosa dovrebbe essere l’Ue --- in effetti, l’Ue è
stata ed è segnata in modo straordinario da caratteristiche così originali e peculiari da
non consentire di assimilarla né alle tante organizzazioni internazionali né ad alcun
altro modello di unioni tra stati storicamente realizzato.
Neppure la formalizzazione dell’espressione nei trattati ha risolto il problema,
pertanto si può dire che ancora oggi la nozione di Ue si presenta in termini tali da
giustificare l’espressione di nozione “meravigliosamente ambigua”.
Se si volesse ricorrere ad una formula poco tecnica ma efficace, si potrebbe dire che
l’Ue è un’entità che non si può definire come federale ma è che è più federale delle
precedenti comunità e ha i mezzi per diventarlo ancora di più.
L'unione si presenta come una sorta di esercizio di ingegneria costituzionale, volto a
definire via via l'impianto istituzionale più appropriato per assicurare la convivenza
tra stati che hanno accettato di condividere una parte importante della loro sovranità e
al tempo stesso non vogliono perdere la propria individualità in un superstato
federale. E’ stata preferita una scelta di libertà dai modelli, una scelta cioè che
salvaguardasse il carattere originale ed evolutivo di quel processo e lasciasse aperte
tutte le opzioni nell'ingegneria istituzionale che auspicabilmente deve marcare, nelle
forme via via praticabili, il progresso verso un'integrazione sempre più spinta.
Si è preferito evitare di irrigidire l'unione in uno schema predefinito, si è trattato di
una scelta che ha permesso al processo di integrazione di subire le più profonde
evoluzioni ed al tempo stesso di mantenere una condizione di almeno apparente
continuità.
Il sistema ha mantenuto, almeno all’apparenza, una continuità formale e sostanziale e
una carica identitaria.
Si tratta di un processo dinamico e di un’evoluzione continua verso un traguardo
indefinito. Il processo d’integrazione si è sviluppato in una direzione univoca, quella
del suo continuo consolidamento.
Nel TUE è altresì dato conto sia del sistema delle competenze dell’Unione e del loro
rapporto con quelle degli stati membri sia delle istituzioni che ne compongono il
quadro istituzionale; un’apposita norma descrive l’istituto delle cooperazioni
rafforzate. Vi sono inoltre una serie di disposizioni che riguardano l’acquisto e le
vicende dello status di membro dell’Ue e un lungo articolo che disciplina le modalità
di modifica dei trattati. Altri articoli sono dedicati all’azione esterna dell’Ue e in
particolare alla politica estera e di sicurezza comune. Per gran parte della materia il
TUE si limita alla sola enunciazione degli obiettivi da perseguire e delle
responsabilità generali del consiglio europeo, lasciando al TFUE il compito di fissare
i contenuti specifici e le modalità concrete dell’azione da svolgere, salvo la disciplina
della PESC che viene invece dettata in modo completo dal TUE anche per quanto
riguarda i dettagli operativi la scelta è legata alla volontà di marcare la specificità
della PESC.
A parte questa eccezione, si evince come sia il TFUE ad organizzare il
funzionamento dell’Ue e a determinare i settori, la delimitazione e le modalità di
esercizio delle sue competenze (secondo quanto prescritto all’art. 1 paragrafo 1) ed è
al suo interno che, dopo alcuni articoli introduttivi dedicati ai criteri di funzionamento
del sistema delle competenze dell’unione, ai principi cui si conformano le politiche e
le azioni di questa, e alla cittadinanza dell’unione, sono contenute le disposizioni che
individuano i contenuti dei diversi settori di competenza della stessa Unione e ne
disciplinano concretamente l’esercizio.
Completano il TFUE:
o un gruppo di articoli concernenti gli aspetti dell’azione esterna dell’Ue diversi
dalla PESC regolano aspetti specifici del funzionamento sia delle istituzioni
descritte nel TUE sia di taluni organi che compongono il quadro istituzionale
dell’Ue, disciplinando altresì gli atti attraverso i quali le istituzioni agiscono e
le procedure che presiedono alla loro adozione
o un gruppo di articoli concernenti le disposizioni istituzionali e finanziarie
riguardano in particolare il finanziamento dell’Ue e la disciplina di bilancio.
La diretta efficacia del diritto dell'Unione sulla situazione giuridica soggettiva dei
singoli si accompagna ad un'altra caratteristica di questo diritto, consistente nella
supremazia delle sue norme su quelle dei diritti nazionali. La norma statale
contrastante, sia essa successiva o anteriore, cede dinanzi alla norma europea e non
può essere quindi applicata dai giudici nazionali nell'ambito di una controversia
giudiziaria in cui una parte abbia invece ritenuto di invocarla.
Il privato non è il destinatario materiale di norme prodotte all'esterno dello stato, ma è
soggetto a pieno titolo dell'ordinamento cui quelle norme appartengono. L'individuo
partecipa alla formazione del diritto dell'Unione attraverso il canale istituzionale del
parlamento europeo, che ne esprime la rappresentanza a livello di processo
decisionale. L'individuo può essere protagonista in prima persona del controllo
giurisdizionale sul rispetto del diritto europeo. Grazie all'efficacia diretta, egli può far
valere dinanzi ai giudici nazionali norme di quel diritto; allo stesso tempo egli ha
accesso diretto ai meccanismi giurisdizionali previsti dai trattati quando i suoi diritti
siano lesi dalle istituzioni da questi create.
Il sistema giurisdizionale rappresenta l’ulteriore elemento distintivo della costruzione
europea rispetto alle classiche forme di cooperazione istituzionalizzata tra stati --- la
particolarità di quella costruzione sta nel fatto che le vere note distintive sono:
o da un lato le caratteristiche del sistema giurisdizionale: le istanze giudiziarie dell’Ue
non sono accessibili solo agli stati ma anche agli individui; esse non giudicano solo
del comportamento degli stati, ma anche di quello delle istituzioni; esse non si
limitano a constatare l'eventuale illegittimità degli atti delle istituzioni, ma ne
dichiarano anche la nullità;
o dall’altro lato la sua funzione nell’ordinamento: in particolare la funzione di garanzia
dell’uniforme interpretazione e applicazione del diritto che il giudice europeo è
chiamato ad assolvere, in particolare attraverso il meccanismo del rinvio
pregiudiziale da parte dei giudici nazionali ex art. 267 TFUE, meccanismo che
costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale dell’Ue (dialogo da giudice a
giudice); infatti l’uniformità di interpretazione e applicazione del diritto appare
indispensabile in un ordinamento che abbia come destinatari diretti anche gli
individui
La portata del diritto dell'Unione Non Può variare da uno stato all'altro, senza che sia
messa in pericolo la sua efficienza e l'applicazione uniforme che esso deve ricevere
nell'insieme degli Stati membri e nei confronti di tutti i destinatari delle norme.
Ulteriore elemento distintivo dell’ordinamento Ue rispetto ai tradizionali sistemi di
cooperazione tra stati è l’accentramento in capo alle istituzioni dell’Ue della reazione
alle violazioni del diritto: infatti di fronte ad una violazione degli obblighi derivanti
dal diritto Ue la reazione è affidata alle stesse istituzioni e ai meccanismi previsti dai
Trattati, o, quand'anche venga da un altro stato membro, quella reazione è comunque
canalizzata attraverso di essi.
In ogni caso è fatto divieto per gli stati membri, anche laddove una di quelle
istituzioni rimanga inerte, di porre unilateralmente in essere provvedimenti correttivi
o di difesa destinati ad ovviare alla trasgressione altrui.
Tantomeno essi possono giustificare il mancato adempimento da parte loro degli
obblighi imposti dai Trattati con la circostanza che altri Stati membri trasgrediscono
del pari i loro obblighi o abbiano provveduto con ritardo ad adempierli. Ma
nell'ordinamento dell'unione, del resto, non vi è interdipendenza tra gli obblighi
incombenti ai vari soggetti, per cui l'adempimento degli obblighi imposti dal Trattato
o dal diritto derivato agli Stati membri non può essere soggetto a condizione di
reciprocità.
Da un lato l'unione non può essere considerata come uno stato. Dall'altro lato, gli stati
membri rimangono al centro del sistema, cui partecipano come enti unitari, senza che
emergano con una propria autonomia a livello dell'ordinamento dell'unione le proprie
ripartizioni interne.
In ogni caso sono gli stati responsabili del corretto adempimento degli obblighi
imposti dal diritto dell'Unione ed è in capo ad essi che è sanzionato l'eventuale
inadempimento, anche se l’inadempimento risulti dall’azione o dall’inerzia delle
autorità di uno stato federato, di una regione o di una comunità autonoma dello stato
membro interessato. L'ordinamento dell'Unione non è dotato di strumenti diretti di
correzione delle possibile antinomie con l’ordinamento nazionale, dato che la corte
può sì sanzionare l'eventuale antinomia, ma non annullare la norma nazionale che ne
è causa. Dell'apparato degli Stati l’unione è costretta a servirsi per l'esercizio della
funzione coercitiva e di applicazione del diritto, mancando essa di strumenti propri a
questo fine.
-Il ruolo degli stati membri. L’acquisto e le vicende dello status di membro
Fin dalle origini il processo di integrazione nasce con la vocazione ad ampliarsi versi
tutti gli stati europei --- questo ha portato ad avere oggi un Ue composta da 28 stati
membri e altri paesi che hanno intenzione di entrare a farne parte. Questa vocazione
si riflette in una clausola che fissa la procedura di adesione di nuovi stati membri:
l’art. 49 TUE dispone infatti che ogni stato europeo che rispetti i valori di cui
all’art. 2 TUE e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro
dell’Ue: alla luce di questa disposizione le condizioni per aderire all’Ue sono le
seguenti:
essere uno stato nel senso del diritto internazionale
appartenenza all’Europa: questa condizione è essenzialmente geografica, nel
senso che l'appartenenza anche di una sola parte del territorio di uno stato al
continente europeo può essere sufficiente, se, quell’elemento geografico è
accompagnato da fattori storico-culturali che corroborano la natura
sostanzialmente o prevalentemente europea di quello stato e della sua società
rispondenza ad una serie di requisiti politici che si ricollegano a valori sui quali
la stessa Ue è fondata: si intende la necessità che lo stato aspirante a diventare
membro Ue risponda ai criteri di democrazia e di rispetto dei diritti
fondamentali della persona umana. Il consiglio ha affermato che questa
condizione può dirsi soddisfatta quando il paese candidato abbia raggiunto una
stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, il principio di legalità, i
diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze
L'elemento peculiare non sta solo nel fatto che attraverso questi organi gli
interessi e le istanze corrispondenti godono all'interno dell’Ue di una
rappresentanza in prima persona, non mediata cioè attraverso il canale
governativo. Ma si può notare come il compito degli organi in questione non si
esaurisce nella mera rappresentanza di quegli interessi e istanze a livello del
sistema istituzionale, in quanto, viceversa, contribuiscono al funzionamento di
quel sistema, talvolta arrivando ad assolvere a tale livello funzioni analoghe a
quelle proprie, sul piano nazionale, delle istanze da essi rappresentate. Un
esempio è rappresentato dalla Banca centrale europea, che è organo tecnico
sottratto al controllo o agli indirizzi delle altre istituzioni e degli stessi stati
membri, cui è affidata la funzione di governo della moneta all'interno
dell'Unione economica e monetaria, funzione che esercita in uno schema di
reciproca indipendenza dalle situazioni politiche, analogo a quello di regola
operante nei sistemi nazionali.
A tutto questo fa eccezione il settore della PESC, che mantiene anche nel quadro dei
nuovi Trattati le caratteristiche istituzionali che lo hanno contraddistinto fin dalle
origini e rispetto a questo l'apparato istituzionale dell'Ue interviene in misura
essenziale sia per quanto riguarda il punto di vista quantitativo sia per quello
qualitativo: ad esempio si evince come Parlamento europeo e Commissione risultano
relegati in ruoli marginali e allo stesso modo la Corte di giustizia non dispone, se non
limitatamente, di competenze rispetto al settore della PESC. Tutto ruota intorno al
ruolo delle istituzioni composte dai governi, il Consiglio europeo e il consiglio.
Ulteriori novità introdotte dal Trattato di Lisbona è quella per cui la Presidenza
del Consiglio europeo non è più assicurata dal capo di stato o di governo dello
stato membro cui spetta per rotazione la Presidenza del Consiglio, bensì da un
presidente eletto dallo stesso Consiglio europeo a maggioranza qualificata
che ha un mandato che dura 2 anni e 1/2 ed è rinnovabile 1 sola volta;
inoltre la nomina a presidente è incompatibile con un mandato nazionale
pertanto laddove il soggetto venisse scelto tra gli stessi membri del Consiglio
europeo deve dimettersi da capo di stato o di governo, tuttavia in astratto è
invece ipotizzabile che possa essere eletto alla presidenza del Consiglio
europeo il presidente della Commissione, senza che costui sia obbligato a
lasciare l'incarico ricoperto. Al presidente del Consiglio europeo in primo
luogo spettano le funzioni legate alla preparazione e gestione dei lavori
dell'istituzione in quanto costui assicura la preparazione e la continuità delle
riunioni, guida il dibattito e facilita il compromesso tra i membri, rappresenta
l'istituzione davanti al Parlamento europeo, al quale riferisce dopo ogni
riunione, e assicura la rappresentanza esterna dell'Unione per le materie
relative alla PESC. L'esercizio di queste funzioni da parte dei primi presidenti
eletti ha dato conto di una loro interpretazione estensiva rispetto a quanto
sembra trasparire dalla lettera della norma, in particolare talvolta il presidente
si è sostituito alla Commissione nei compiti di riflessione e preparazione di
iniziative legislative.
-B) Il Consiglio
Il Consiglio rappresenta il centro di gravità dell'equilibrio istituzionale dell'Unione e
a tal proposito l'art. 16 paragrafo 1 TUE sintetizza il suo ruolo sottolineando che il
Consiglio esercita la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita
funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite
nei trattati. Si può dire che esso concentra una serie di attribuzioni e funzioni che lo
caratterizzano come titolare del potere legislativo e di quello esecutivo. Si evince
quindi come il Consiglio sia lo snodo istituzionale attraverso cui passano tutte le
decisioni formali su cui si muovono la vita istituzionale e l'azione quotidiana
dell'Unione; altri organi o istituzioni lo affiancano talvolta nell'assunzione delle
decisioni e altre volte ne condividono la titolarità. In ogni caso è il Consiglio il
protagonista principale dell'esercizio del potere decisionale a livello dell'Unione, in
quanto:
è compito suo, in collegamento con il Consiglio Europeo di cui prepara i
lavori, fornire all'Unione gli indirizzi politici e definirne gli orientamenti
generali
spettano al Consiglio le decisioni istituzionali non riservate al Consiglio
europeo
è al Consiglio che, insieme al Parlamento europeo, fa capo l'attività
legislativa
è in seno al Consiglio che viene assicurato il coordinamento delle politiche
economiche generali degli stati membri
è il Consiglio che attraverso la funzione di conclusione degli accordi
internazionali dell'Unione e la gestione della politica estera comune
detiene la titolarità effettiva del potere estero
Il Consiglio è presieduto a turno dagli stati membri come previsto dall'art. 16, par.
9, TUE, sulla base di un sistema di rotazione che viene disciplinato da una decisione
del 2009 del Consiglio europeo che è stata adottata a maggioranza qualificata; altresì
per quanto riguarda i suoi meccanismi di dettaglio questi sono previsti da una
decisione del Consiglio del 2009, approvata a maggioranza qualificata:
la prima decisione prevede una presidenza per gruppi predeterminati di tre
stati, che salvo diverso accordo se ne ripartiscono l'esercizio per 18 mesi,
all'interno dei quali ciascuno stato esercita a turno la presidenza per 6 mesi con
l'assistenza degli altri 2 e sulla base di un programma comune; ciascun gruppo
è composto secondo un sistema di rotazione paritaria che tiene conto della
diversità degli stati membri e degli equilibri geografici dell'Unione.
la seconda decisione concerne la composizione dei gruppi e l'ordine di
successione tra loro, che ad oggi è stata fissata fino al 2020
La novità introdotta con il Trattato di Lisbona consiste nel fatto che al sistema
descritto fa eccezione la Presidenza del Consiglio Affari Esteri, che è sottratta agli
stati e spetta all’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica
di sicurezza; questa regola si estende anche alla fase preparatoria della formazione
del consiglio, in quanto la presidenza dei gruppi di lavoro o comitati coinvolti nella
preparazione delle decisioni del Consiglio in materia di politica estera e di sicurezza
comune è affidata ai rappresentanti dell'Alto rappresentante, fatta eccezione per il
COREPER, la cui presidenza rimane nella responsabilità del rappresentante
permanente dello stato membro che esercita la presidenza di turno del Consiglio
Affari Generali. Il consiglio è assistito da un apparato amministrativo, il segretariato
generale, al cui vertice è posto il segretario generale nominato a maggioranza
qualificata dallo stesso consiglio.
Prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, laddove una norma del trattato o
un atto delle istituzioni che affidavano al consiglio il compito di prendere una certa
decisione non indicassero una modalità di voto specifica e diversa, il Consiglio
deliberava a maggioranza semplice. Oggi la regola di voto è quella della
maggioranza qualificata, mentre la maggioranza semplice rimane la regola in linea
generale applicabile per l'adozione del regolamento interno e in generale per le
decisioni di procedura; per quanto riguarda l’unanimità questa è prevista per le
decisioni politicamente più sensibili: si tratta delle decisioni da prendere nel settore
della PESC, risultando anzi qui la regola di voto residuale in caso di mancata
previsione di una regola diversa; salvo i casi in cui il TUE consente al Consiglio di
votare a maggioranza qualificata decisioni da prendere nel quadro della PESC se un
membro del Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica
nazionale, intende opporsi all'adozione di una decisione che richiede la maggioranza
qualificata, non si procede alla votazione; anche laddove l'Alto rappresentante non
trovi una soluzione per lo stato accettabile, il Consiglio a maggioranza qualificata
potrà investire della questione il Consiglio europeo, che si pronuncerà all'unanimità.
L’astensione del rappresentante di uno stato in seno al Consiglio non è di ostacolo al
raggiungimento dell'unanimità, ma questo comporta che l'atto per il quale il
rappresentante si sia astenuto non possa essere applicato al relativo stato. Tuttavia
quando il Consiglio delibera all'unanimità nell'ambito della PESC è prevista
un'eccezione in quanto se uno stato accompagna la sua astensione con una
dichiarazione formale di non voler essere vincolato dalla decisione del Consiglio,
questo stato non sarà destinatario degli obblighi da questa posti ai sensi dell'art. 31,
par. 1, comma 2, TUE (si tratta della cd astensione costruttiva): questa previsione è
diretta ad evitare che gli stati non disponibili ad impegnarsi in un'azione dell'Unione
in quest'ambito si trovino necessariamente costretti ad impedire che questa agisca,
non avendo altra alternativa che il voto contrario. Va precisato che il TUE pone un
limite numerico alla possibilità di avvalersi dell'astensione costruttiva: quando gli
stati che vi fanno ricorso rappresentano almeno 1/3 dei membri del Consiglio
che totalizzano almeno 1/3 della popolazione dell'Unione, la decisione del
Consiglio non è comunque adottata.
L'art. 14 TUE stabilisce che il numero dei membri del Parlamento non può essere
superiore a 751 (750 più il presidente): i membri sono ripartiti tra gli Stati membri in
modo da far riflettere a livello di deliberazioni del Parlamento il diverso peso di
ciascuno stato. Il criterio di ripartizione è unicamente quello demografico, nel senso
che il numero dei parlamentari che spetta a ciascun paese membro è direttamente
commisurato alla popolazione dello stesso, anche se il TUE specifica che all’interno
del parlamento la rappresentanza dei cittadini è garantita in modo
degressivamente proporzionale, con una soglia minima di 6 membri e un tetto
massimo di 96; pertanto in base alla proporzionalità degressiva agli stati membri con
una popolazione più elevata vengono assegnati più seggi rispetto agli stati di minori
dimensioni, ma questi ultimi ottengono un numero di seggi superiore rispetto a quello
che avrebbero sotto il profilo puramente proporzionale, con la conseguenza che un
parlamentare europeo di un paese più popolato rappresenta più cittadini di quelli
rappresentati da un suo collega di un paese meno popolato.
La ripartizione dei seggi oggi viene lasciata a una decisione del Consiglio europeo
che deve essere presa all'unanimità, nel rispetto del principio di proporzionalità
degressiva, su iniziativa e approvazione del Parlamento europeo.
Il Parlamento europeo viene eletto per 5 anni e all'inizio di ogni legislatura provvede
a nominare tra i suoi membri il Presidente ed un certo numero di vicepresidenti che
rimangono in carica per 2 anni e 1/2 al fine di consentire un avvicendamento in
queste cariche dei diversi gruppi politici; infatti i membri del Parlamento, il cui
statuto è fissato con regolamenti adottati dallo stesso Parlamento, si accorpano per
gruppi politici, per la cui costituzione sono richiesti sia un numero minimo di
componenti sia la provenienza degli stessi da più di uno stato membro sia l'esistenza
tra loro di affinità politiche. I membri del Parlamento beneficiano di immunità ai
sensi del Protocollo n. 7 sui privilegi e sulle immunità dell’Ue: in forza di questo
protocollo i parlamentari non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo
dei voti o delle opinioni espressi nell'esercizio delle loro funzioni e nei limiti
dell'esistenza di un nesso tra le opinioni ovunque espresse e le funzioni parlamentari;
inoltre per la durata delle sessioni del Parlamento europeo i membri beneficiano sul
loro territorio nazionale delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento
nazionale e sul territorio di ogni altro stato membro dell'esenzione da ogni
provvedimento di detenzione o da ogni procedimento giudiziario e inoltre l’immunità
li copre anche quando si recano al luogo di riunione del Parlamento o ne ritornano.
Essa può essere revocata in taluni casi dallo stesso Parlamento Europeo.
L’attività dei parlamentari si divide tra le Commissioni parlamentari e la sessione
plenaria, alla quale spetta il potere deliberativo: l'esercizio del potere deliberativo
avviene a maggioranza dei voti espressi, salvo che non sia diversamente stabilito dai
Trattati (ad esempio regole differenti sono previste per l'approvazione di una mozione
di sfiducia nei confronti della Commissione in quanto è richiesta la maggioranza di
2/3 di voti espressi e la maggioranza dei membri che compongono il Parlamento
europeo, nonché per esprimere il parere su una domanda di adesione di un nuovo
membro in quanto in questo caso è richiesta la maggioranza assoluta dei membri).
I lavori parlamentari si ripartiscono tra Strasburgo, dove si tengono nell'arco dell'anno
le 12 sedute plenarie ordinare, e Bruxelles, dove si svolgono le riunioni delle
commissioni e dei gruppi politici e alcune brevi sedute plenarie supplementari. Il
segretariato è installato per la gran parte a Lussemburgo.
-D) La commissione
La Commissione costituisce un'istituzione che ha un ruolo essenziale, in quanto in
essa si sommano più competenze rispetto a tutti i settori di attività dell'UE eccezion
fatta per il settore della PESC, dove funzioni di sua spettanza nel quadro delle altre
attività sono invece assolte dall'alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza:
in primo luogo alla Commissione spetta un ruolo determinante nell'attività
normativa dell'Unione, che da un lato si esprime nella partecipazione alla
formazione degli atti del Consiglio e del Parlamento europeo e dall'altro lato
nell'adozione di atti normativi propri
per quanto riguarda la partecipazione alle decisioni altrui questa è
conseguenza diretta del potere di iniziativa legislativa che i trattati
riconoscono in via esclusiva alla Commissione; in particolare questo potere è
condizionante dell'avvio del procedimento di adozione di un atto, tranne rari
casi, il consiglio e il Parlamento non possono deliberare se non a partire da una
proposta della commissione, ma lo è anche del successivo svolgimento di quel
procedimento, in quanto in base all'art. 293 TFUE il Consiglio non può
discostarsi dalla proposta della Commissione se non votando all'unanimità,
anche laddove sia prevista la maggioranza qualificata per l'adozione di quel
determinato atto e inoltre l'art. 293 TFUE prevede che la Commissione può
modificare in ogni momento la propria proposta iniziale, in questo modo
comportando che essa svolge un ruolo attivo nello stesso negoziato in seno al
Consiglio in quanto contribuisce al formarsi di una maggioranza qualificata
la Commissione dispone di un potere normativo diretto; anche se i trattati
attribuiscono formalmente in casi estremamente limitati questo potere, in realtà
la Commissione finisce per disporne in maniera più ampia in virtù del ricorso
frequente che gli atti adottati dal Consiglio e del Parlamento europeo fanno alla
delega alla stessa Commissione dell'emanazione di successive misure generali
di integrazione o applicazione degli atti in questione.
i Trattati attribuiscono alla Commissione un potere generale di esecuzione del
diritto che la Commissione è chiamata a esercitare sia sul piano
dell'applicazione amministrativa degli atti dell'Ue, subordinata a una delega da
parte del consiglio e del parlamento, sia su quello della vigilanza rispetto alla
corretta osservanza delle norme dell'Ue da parte dei destinatari delle stesse ---
in particolare per quanto riguarda il secondo compito questo si concretizza da
un lato nel potere di portare davanti alla Corte di Giustizia uno stato membro
inadempiente agli obblighi posti da quelle norme e dall'altro lato consiste nel
potere di sanzionare direttamente i comportamenti contrari al diritto dell'Ue di
soggetti privati e degli stati stessi.
alla Commissione spetta in linea di massima la rappresentanza dell'Unione
sulla scena internazionale nei settori diversi dalla PESC, sia sotto il profilo
della negoziazione degli accordi con stati terzi sia quello della gestione
successiva degli stessi, in particolare per quanto riguarda la presenza
dell'Unione negli organismi da questi creati.
La somma delle competenze finisce per dare alla commissione una responsabilità
determinante nell’orientare l'azione legislativa dell'Unione. Si può constatare come la
Commissione sia a sua volta organo politico che cumula in sé poteri di iniziativa
normativa, di gestione di politiche, di vigilanza sul rispetto delle norme, di
programmazione delle attività, pertanto si pone come motore del processo di
integrazione europea, il cui interesse generale è chiamata a rappresentare e garantire.
E questa peculiarità ne fa uno degli elementi identificativi della cosiddetta
sovranazionalità di quel processo.
Il ruolo assolto dalla Commissione nel sistema istituzionale spiega perché essa venga
definita dai trattati come espressione e garante dell'interesse generale dell'Unione ----
infatti la Commissione è organo di individui in quanto, sebbene proposti dai governi
degli stati membri ed in funzione del possesso della cittadinanza di uno di questi, i
suoi membri dal punto di vista formale non sono rappresentanti dello stato membro di
cui hanno la cittadinanza e dal quale il loro nome è stato indicato, ma sono membri a
titolo personale dell’istituzione, infatti dal punto di vista formale costoro esercitano le
loro funzioni in piena indipendenza e non accettano istruzioni da alcun governo,
istituzione, organo o organismo e dovrebbero essere scelti in base alla loro
competenza generale e a loro impegno europeo e alle garanzie d’indipendenza
che offrono. L'effettivo possesso di questi requisiti da parte dei candidati rientra nella
piena valutazione politica delle istituzioni che presiedono alla nomina; tuttavia la
mancanza dell'uno o dell'altro di essi è stata eccepita dal presidente designato della
Commissione per opporsi a una determinata candidatura proposta da uno stato
membro. Sulla stessa base è avvenuto che il Parlamento europeo abbia espresso un
giudizio di inadeguatezza su un singolo commissario proposto dal Consiglio,
costringendo così quest'ultimo a sostituirlo prima della sottoposizione della
commissione, nella sua interezza, all'approvazione dello stesso parlamento. È anche
vero, però, che nelle valutazioni al riguardo del presidente della commissione e del
Parlamento Europeo sembrano aver giocato un ruolo più i primi due requisiti, che
quello relativo alle garanzie di indipendenza offerte dal singolo candidato.
In origine la procedura di nomina della commissione era articolata su 2 elementi
principali:
era identica per tutti i membri, tanto che il presidente era designato tra di essi
solo successivamente alla loro nomina, sulla base della stessa procedura
utilizzata per la nomina
la nomina era di spettanza esclusiva dei governi degli stati membri che
procedevano con una decisione presa di comune accordo.
L’attuale procedura infatti prevede un’articolazione in 3 fasi (art. 17, par. 7, TUE):
1. nella prima fase si procede alla designazione del Presidente, il cui nome deve
essere proposto a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo al Parlamento
europeo, che deve eleggerlo a maggioranza dei suoi membri; se il Parlamento
europeo non approva la proposta del Consiglio europeo, il Consiglio europeo
deve ripresentare una proposta entro 1 mese
2. nella seconda fase l'obiettivo è l'individuazione degli altri membri della
Commissione: spetta al Consiglio, in accordo con il presidente eletto, adottarne
l'elenco sulla base delle proposte presentate dagli stati membri, tenendo conto
dei requisiti di competenza e di indipendenza previsti dal Trattato
3. nella terza fase la Commissione nella sua interezza è sottoposta
all’approvazione del parlamento, per poi, in caso di voto positivo del
parlamento, essere formalmente nominata a maggioranza qualificata dal
Consiglio europeo.
Invece l’Alto rappresentante (membro della commissione e uno dei vicepresidenti),
viene nominato dal Consiglio europeo ed è soggetto solo al voto di approvazione che
il parlamento europeo è chiamato a dare sulla commissione nella sua interezza (nella
terza fase).
Il parlamento ha caricato di significati politici l’investitura parlamentare della
commissione: in particolare nel disciplinare nel suo regolamento interno la procedura
di elezione del Presidente designato e di approvazione della commissione è stata
formalizzata la prassi di procedere ad audizioni pubbliche dei singoli candidati: il
presidente designato vi viene invitato a fare una dichiarazione e a presentare i suoi
orientamenti politici al parlamento ai fini di una loro discussione in seduta plenaria ed
altresì i candidati commissari sono invitati a comparire innanzi alle commissioni
parlamentari secondo le loro prevedibili competenze per formulare una dichiarazione
e per rispondere alle domande. Quest'ultima previsione consente nei fatti al
parlamento un'approvazione anche individuale dei futuri commissari, permettendogli
di ottenere la sostituzione del o dei candidati rispetto ai quali la sua valutazione sia
risultata negativa. Laddove il presidente designato non procedesse, di concerto con il
consiglio e lo Stato o gli stati membri interessati, a tale sostituzione, l'approvazione
che il parlamento è chiamato a dare della commissione nel suo insieme sarebbe a
rischio. Ciò si è verificato nella prassi, costringendo al ritiro di alcune candidature o a
un cambiamento del portafoglio previsto per un determinato candidato.
Quanto agli altri membri, essi operano sulla base di una ripartizione di deleghe
conferite dal presidente, analoga a quella che si ha tra i portafogli di un esecutivo
nazionale. A ciascun commissario fanno poi capo, in funzione della delega ricevuta,
una o più direzioni generali a competenza settoriale.
Le decisioni imputabili alla Commissione devono essere comunque approvate dal
Collegio dei Commissari nella sua interezza, il quale delibera a maggioranza del
numero dei suoi membri; il funzionamento della Commissione è ispirato al principio
di collegialità, ossia i membri della Commissione sono tra loro uguali nella
partecipazione alla presa di decisione, le decisioni sono prese in comune e quindi tutti
i membri del Collegio sono collettivamente responsabili sul piano politico delle
decisioni che vengono prese.
La Corte dei Conti, con sede a Lussemburgo, nomina al suo interno un Presidente che
rimane in carica per tre anni eventualmente rinnovabili; inoltre la Corte dei Conti
adotta un proprio regolamento interno che è soggetto all'approvazione a maggioranza
qualificata da parte del Consiglio.
La Corte dei Conti svolge la sua missione sulla base di una duplice funzione:
funzione di controllo, con riguardo a questa funzione la Corte dei conti
compie un esame delle entrate e delle spese delle istituzioni e degli organi e
organismi dell'Unione, che ha ad oggetto sia la legittimità sia la regolarità delle
une e delle altre sia la sana gestione finanziaria; a questo fine può svolgere
indagini necessarie presso i locali delle altre istituzioni, di qualunque
organismo di gestione delle entrate e delle spese dell'Unione e di qualunque
persona fisica o giuridica che riceva contributi a carico del bilancio della stessa
e a loro volta questi soggetti sono tenuti a trasmettere alla stessa Corte ogni
documento o dato utile allo scopo. Al termine di ciascun esercizio la Corte
redige una relazione annuale sull'esecuzione del bilancio, che include una
dichiarazione di affidabilità che attiene alla affidabilità dei conti e alla
legittimità nonché regolarità delle operazioni sottostanti. Alla relazione
generale si aggiungono relazioni specifiche riguardanti taluni organismi
dell'unione, quali, in particolare, le agenzie. In ogni caso la Corte può in ogni
momento presentare le sue osservazioni sui problemi particolari sotto forma di
relazioni speciali
funzione consultiva, questa funzione si manifesta mediante pareri che la Corte
può produrre di propria iniziativa o su richiesta di una delle altre istituzioni
dell'Unione; in 2 casi questa richiesta è obbligatoria in quanto espressamente
previsto dai Trattati e questo comporta che la mancanza del parere rende
illegittimo l'atto per la cui adozione sia previsto (questa illegittimità può essere
fatta valere davanti alla Corte di giustizia dalla stessa Corte dei Conti)
Per quanto riguarda la Banca centrale europea, questa costituisce il nucleo centrale
del Sistema europeo di banche centrali (cd SEBC) che ha l'obiettivo di garantire la
stabilità dei prezzi e di sostenere le politiche economiche generali dell'Unione; il
sistema europeo di banche centrali, di cui fanno parte le banche centrali nazionali
della zona euro, è infatti diretto dagli organi decisionali della BCE, ai cui indirizzi ed
istruzioni le banche centrali devono attenersi; la composizione e il funzionamento
della BCE sono disciplinati dalle norme dei trattati e del protocollo sullo statuto del
SEBC e della Bce.
La Bce prevede i seguenti organi:
il Consiglio direttivo della Bce è l'organo al quale spettano la definizione
degli indirizzi generali del SEBC e della politica monetaria dell'Unione nonché
l'esercizio delle funzioni consultive che il trattato attribuisce alla banca;
comprende i membri del comitato esecutivo e i governatori delle banche
centrali degli Stati che aderiscono all'euro. Ogni membro del Consiglio dispone
di un voto e le decisioni sono prese a maggioranza semplice, salvo sia
diversamente disposto dallo statuto (tuttavia per alcune decisioni si applica ai
governatori delle banche centrali nazionali un sistema di voto ponderato
calcolato in base alle quote del capitale della Bce sottoscritte da ciascuna banca
centrale)
il Comitato esecutivo ha il compito della gestione corrente della banca e
dell'attuazione degli indirizzi di politica monetaria decisi dal Consiglio
Direttivo ed è organo permanente che è composto da un presidente (che è
anche il presidente della Bce e del Consiglio Direttivo), da un Vicepresidente
ed altri 4 membri che sono nominati di comune accordo, per 8 anni non
rinnovabili, dal Consiglio europeo che delibera a maggioranza qualificata su
raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo
e del Consiglio direttivo della Bce; di regola il Comitato decide a maggioranza
semplice con il voto decisivo del Presidente in caso di parità
fino a quando non tutti gli Stati membri faranno parte dell'euro il Consiglio
Direttivo e il comitato esecutivo saranno affiancati da un Consiglio generale
che è composto dal Presidente e dal vicepresidente della Bce e dai governatori
delle banche centrali di tutti gli stati membri, deputato ad essere l'istanza di
consultazione tra gli stati aderenti e non all'euro, in particolare con riguardo ai
tassi di cambio tra questo e le monete degli altri stati membri
Compiti essenziali sono assegnati anche al Consiglio (il quale, attraverso il proprio
presidente, può Partecipare alle riunioni del consiglio direttivo della banca, nonché
sottoporre emozioni alla delibera dello stesso) e alla commissione. In particolare
spetta al Consiglio il ruolo centrale per quanto riguarda il coordinamento delle
politiche economiche degli stati membri nell'ambito del quale detiene un potere
decisionale e di indirizzo sia un potere sanzionatorio nei confronti degli stati membri
per quanto riguarda eventuali situazioni di eccessivo disavanzo pubblico (potere che
esercita su impulso esclusivo e determinante della Commissione).
Per quanto riguarda l'uso delle lingue nelle e da parte delle istituzioni, i trattati nulla
dispongono e si limitano a rinviare per la sua definizione a un atto del consiglio da
prendere all'unanimità senza l'intervento di altre istituzioni; oggi il regolamento
1/1958 riconosce quali lingue ufficiali e di lavoro delle istituzioni tutte le 24 lingue,
anche se per l'uso delle lingue all'interno delle istituzioni si limita a rinviare ai
regolamenti interni delle istituzioni prevedendo che le istituzioni possano determinare
le rispettive modalità di applicazione del regime linguistico generale. Il ricorso
crescente a un regime linguistico semplificato rispetto a quello generale è dovuto
all'aumento del numero degli stati e delle lingue ufficiali, con il conseguente,
sproporzionato aumento dei costi amministrativi e delle difficoltà per assicurare
traduzioni e interpretazioni in tutte le lingue; anche se in ogni caso la giurisprudenza
Ue sembra aver circoscritto entro confini specifici il possibile ricorso a regimi
linguistici ridotti, infatti sulla base dei ricorsi presentati dall'Italia la Corte e il
tribunale hanno escluso che limitazioni delle lingue ufficiali possano risultare
giustificate quando applicate a rapporti esorbitanti la vita interna delle istituzioni, e
comunque, anche rispetto a questi ultimi, hanno subordinato a determinate condizioni
la libertà delle istituzioni in materia.
-Le finanze dell’Unione e in particolare l’adozione e l’esecuzione del bilancio e il
controllo sulle frodi
Le spese di funzionamento dell'apparato istituzionale dell'Ue, così come quelle per
l’attuazione delle sue attività e delle sue politiche, sono finanziate attraverso un
sistema di risorse proprie che è stato introdotto nel 1970 in sostituzione di un
precedente sistema basato su contributi finanziari obbligatori versati dagli stati
membri secondo una chiave di ripartizione stabilità nei trattati; il passaggio ad un
sistema di risorse proprie ha risposto a un'esigenza di maggiore autonomia finanziaria
delle stesse dagli Stati membri; il termine risorse proprie non significa che queste
scaturiscano da prelievi fiscali o da altro tipo percepiti direttamente dall'Unione, in
quanto restano imposte riscosse e prelievi operati dagli stati membri e da questi
trasferiti interamente o in una percentuale fissata al bilancio dell'Ue. Tuttavia il loro
ammontare preciso è frutto di un'imposta fissata direttamente a livello europeo e di
percentuali predeterminate di un’imposta armonizzata a quello stesso livello (Iva) o
di un parametro universalmente accettato di prosperità degli stati membri quale
quello del reddito nazionale lordo; circostanza che fa sì che la discussione in materia
tra gli stati membri verte ora sul volume complessivo delle risorse destinate
all'Unione.
Nel quadro di questo sistema di risorse proprie gli stati membri si sono comunque
mantenuti un potere esclusivo sulla definizione della natura e delle dimensioni
delle risorse proprie; ai sensi dell'art 311 comma 3 TFUE le disposizioni relative al
sistema delle risorse proprie dell'Unione, ivi comprese l'istituzione di nuove categorie
di queste e la soppressione di categorie esistenti, sono adottate dal Consiglio con
decisioni prese all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione
del Parlamento europeo, che entrano in vigore solo previa approvazione da parte di
tutti gli stati membri.
L'insieme delle entrate derivanti dalle risorse proprie confluisce unitamente alle spese
previste per ciascun esercizio finanziario nel bilancio annuale dell'Unione; si tratta
di un bilancio generale e unico per tutta l'Unione che deve essere finanziato
integralmente tramite risorse proprie e deve dar conto di tutte le entrate e le spese
previste per quel determinato anno facendo in modo che queste risultino in pareggio:
l'obbligo del pareggio comporta che il bilancio dell'Unione riguardi di fatto solo le
uscite, visto che il plafond delle entrate è prefissato attraverso il sistema delle risorse
proprie e in ogni caso questo bilancio corrisponde al 2% circa del totale dei bilanci
nazionali degli stati membri.
L’adozione del bilancio avviene all'interno di una procedura legislativa speciale che
parte dalla proposta della Commissione e vede il confronto del Consiglio e del
Parlamento con responsabilità finale del Parlamento europeo; questa procedura è
disciplinata dall'art. 314 TFUE che prevede tempi stretti su scadenze che se non
vengono rispettate comportano un’approvazione tacita da parte dell'istituzione inerte:
la finalità è quella di evitare l'avvio di un nuovo esercizio finanziario annuale senza
che ci sia un bilancio debitamente adottato in quanto questo comporterebbe che l'Ue
operi sulla base del sistema dei dodicesimi di cui all'art. 315 TFUE.
L’esecuzione del bilancio generale dell'Unione spetta alla Commissione, ferma
restando la responsabilità delle singole istituzioni o dei singoli organi organismi per
l'esecuzione delle singole sezioni di bilancio che li riguardano direttamente, La
commissione vi provvede conformemente alle procedure fissate nel regolamento
finanziario.
L’esecuzione data al bilancio dell’Ue è oggetto di un doppio controllo esterno:
controllo contabile, il quale spetta alla Corte dei Conti che lo esercita a
posteriori secondo quanto previsto dall'art. 287 TFUE; è un controllo che
concerne la legalità e la regolarità delle entrate e delle uscite nonché il rispetto
del principio di sana gestione finanziaria
controllo politico, esercitato dal Parlamento europeo, che è chiamato a dare
atto alla Commissione dell'esecuzione del bilancio e a deliberare lo scarico di
bilancio, dopo che la Commissione abbia presentato al Parlamento e al
Consiglio i conti annuali dell'esercizio trascorso; il Parlamento ha interpretato
la procedura di scarico di bilancio sia come un adempimento tecnico di
chiusura dei conti sia in chiave di giudizio politico sull'operato della
Commissione (a riguardo si può ricordare che il Parlamento ha rifiutato di
concedere lo scarico con motivazioni più politiche che di bilancio. Benché una
decisione del genere esprima una critica politica forte nei confronti della
commissione, da essa non discendono le stesse conseguenze di una mozione di
censura).
A tutela delle finanze dell'Ue il Trattato prevede l'obbligo sia dell'Ue sia degli
stati membri, in quanto beneficiari diretti o indiretti di fondi europei, di
contrastare la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari
dell'Ue; a questo fine l'Unione ha creato l'Ufficio per la lotta antifrode che, pur
avendo la veste formale di servizio della commissione, opera come organismo
indipendente incaricato di indagare e contrastare ogni attività illegale che rechi
pregiudizio alle finanze dell'Ue, sia che la stessa si realizzi all'interno dell'apparato
istituzionale dell'Unione sia che si produca a livello nazionale; nel caso di indagini
all'interno di uno stato membro questo ufficio agisce mediante coordinamento con le
autorità nazionali e le informazioni ottenute possono essere trasmesse alle autorità
giudiziarie dello stato. Gli stati membri sono destinatari di un obbligo di contrastare
qualsiasi frode o attività illegale che rechi pregiudizio agli interessi finanziari
dell'unione. L'art. 325 TFUE, integra questi due obblighi simmetrici con un obbligo
comune di coordinamento e cooperazione delle rispettive attività.
Indipendentemente dall'obbligo di coordinamento con l'Unione l’art. 325 TFUE
impone agli stati membri di adottare nella loro attività di contrasto le stesse misure
previste per combattere le frodi ai danni dei propri interessi finanziari; si tratta del
principio di assimilazione nella tutela degli interessi finanziari europei e
nazionali, che la Corte di Giustizia ha ricavato dal principio di leale collaborazione
con le istituzioni imposto agli stati membri dall'art. 4, par. 3, TUE: questo principio
comporta che le autorità nazionali devono procedere nei confronti delle frodi contro
le finanze dell'Unione con la stessa diligenza usata nell'esecuzione delle rispettive
legislazioni nazionali e in particolare applicando a quelle frodi sanzioni che sotto il
profilo sostanziale e procedurale siano analoghe a quelle previste per condotte
meramente interne ma simili per natura e importanza, purché tali sanzioni abbiano un
carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva.
Inoltre l’art. 325 TFUE prevede anche la possibilità del consiglio di adottare misure
specifiche (anche aventi carattere penale) al fine di pervenire a una protezione
efficace ed equivalente degli interessi finanziari dell'Unione in tutti gli stati membri.
Inoltre, l'art. 86 TFUE stabilisce che per combattere i reati che ledono gli interessi
finanziari dell'Unione il consiglio possa istituire una procura europea, competente per
individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati che ledono tali interessi.
CAPITOLO 3: LE FONTI
-Profili introduttivi. Il diritto primario e il diritto derivato
L'ordinamento giuridico creato dai Trattati istitutivi è organizzato intorno a un
sistema di fonti e questo sistema risulta più ampio di quello della coppia diritto
primario-diritto derivato:
in primo luogo questi 2 termini sono espressione di una realtà complessa in
quanto il diritto primario non si esaurisce nei Trattati istitutivi in quanto tali e il
diritto derivato, pur quando inteso con riferimento esclusivo alla produzione
normativa basata su previsioni espresse dei trattati, si identifica comunque con
un complesso di atti vari per caratteristiche ed effetti
in secondo luogo il sistema creato dai Trattati annovera altre categorie di fonti
che arricchiscono quel sistema in un modo che appare più consono alla
complessità dell'azione di governo che l'Unione è chiamata a svolgere.
Alcune di queste ulteriori fonti erano previste fin dall'inizio nel testo dei Trattati,
come ad esempio gli accordi internazionali che possono essere conclusi con stati terzi
che i Trattati istitutivi affermavano essere vincolanti per le istituzioni e per gli stati
membri. Altre scaturiscono da un processo di graduale arricchimento
dell'ordinamento, frutto da un lato delle successive modifiche dei trattati originari,
dall'altro lato dell’elaborazione giurisprudenziale della corte di giustizia, come nel
caso dei principi generali del diritto dell'Unione, inizialmente evocati da sentenze
della corte, hanno poi trovato consacrazione formale nell'art. 6 TUE.
Quanto poi alle suddette limitazioni che incontra il potere di emendamento dei
trattati, anche qui l’affermazione del carattere costituzionale degli stessi esprime una
parte di verità. E’ vero che, a differenza di ciò che normalmente avviene nel diritto
internazionale, gli stati non sono liberi circa il procedimento da seguire per arrivare a
quelle modifiche; la Corte di Giustizia ha affermato che il trattato CEE non può
essere modificato se non mediante una revisione da effettuarsi ai sensi dell'art. 236
TCEE, ora art. 48 TUE. La Corte quindi può essere chiamata a pronunciarsi sulla
correttezza o meno del modo con cui sono stati utilizzati i procedimenti di revisione
dei trattati nell’approvare una modifica degli stessi, ma può anche comportare che,
laddove le se ne offre l'occasione, essa potrebbe trovarsi nella condizione di non poter
riconoscere come validamente attenuate, dal punto di vista dei trattati, eventuali
modifiche decise dagli Stati membri attraverso i normali metodi di ricambio del
diritto internazionale. La corte ha già escluso la possibilità di riconoscere effetti
nell'ordinamento comunitario a prassi pur unanimemente e costantemente seguite
dagli Stati membri in deroga a norme del TCE.
Con riguardo al procedimento attraverso cui si può realizzare una modifica dei
Trattati, l'art. 48 TUE in primo luogo prevede una procedura di revisione
ordinaria, in base alla quale quando uno stato membro, il Parlamento europeo o la
Commissione presentino una proposta di revisione dei trattati e il Consiglio europeo,
previa consultazione del Parlamento europeo e se del caso della Commissione (e
della BCE, quando la proposta riguardi modifiche istituzionali nel settore monetario),
esprima a maggioranza semplice il proprio parere favorevole, è convocata una
convenzione composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di stato o
di governo degli stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione salvo
che ciò appaia inutile in ragione dell’entità ridotta delle modifiche proposte; in caso
di modifica ridotte infatti è prevista la convocazione direttamente di una conferenza
intergovernativa tra gli stati membri sulla base di un mandato fissato dallo stesso
Consiglio europeo; altrimenti spetterà alla convenzione elaborare quel mandato nella
veste di un progetto, sulla base del quale la conferenza intergovernativa predisporrà
l’accordo di modifica dei trattati, che entrerà in vigore una volta ratificato da tutti gli
stati secondo le rispettive procedure costituzionali.
Accanto a questa procedura ordinaria l’art, 48 TUE disciplina anche 2 procedure di
revisione semplificate:
la prima procedura riguarda proposte di modifica di disposizione della parte III
del TFUE che non comportino un’estensione delle competenze dell'Unione
la seconda procedura riguarda l'eventuale passaggio dall'unanimità alla
maggioranza qualificata di decisioni del Consiglio nel quadro del TFUE e del
titolo V del TUE o dalla procedura legislativa speciale a quella ordinaria per
l'adozione di atti legislativi nel quadro del TFUE
Spetta al Consiglio Europeo decidere all'unanimità su tali modifiche su consultazione
del parlamento europeo, della commissione ed eventualmente della BCE, nel primo
caso, previa approvazione del Parlamento Europeo nel secondo. E nel primo caso la
decisione del consiglio dovrà ricevere l'approvazione degli Stati membri secondo le
rispettive procedure costituzionali per entrare in vigore, mentre nel secondo essa
entrerà direttamente in vigore a meno che il parlamento di uno Stato membro non si
opponga entro sei mesi. Rispetto alle procedure di revisione semplificata è facile
immaginare un controllo della Corte di giustizia in ordine al modo in cui si sia
proceduto a una modifica dei Trattati e rispetto allo stesso contenuto della modifica;
la Corte deve poter esaminare la validità della decisione presa dal Consiglio europeo
sulla base dell'art. 48 e la stessa Corte ha avuto modo di precisarlo con riferimento
alla procedura di cui al paragrafo 6, sottolineando che nel suo ambito la Corte è
tenuta a verificare da un lato che siano state seguite le regole procedurali previste dal
paragrafo 6 e dall'altro lato che le modifiche decise riguardino solo la parte terza del
TFUE.
La diretta riconducibilità a una volontà formale espressa dagli stati quali soggetti
sovrani comporta che vadano riportate alla nozione di trattati anche quelle
integrazioni degli stessi che sono avvenute sulla base di procedure semplificate, che
sfociano in una manifestazione di volontà degli stati in quanto tali; in particolare ci si
riferisce all'istituzione del sistema delle risorse proprie comunitarie o all'introduzione
dell’elezione a suffragio diretto del Parlamento europeo; mentre in passato questo
tipo di procedura aveva un’applicazione diffusa nei trattati, con il Trattato di Lisbona
è rimasta confinata solo all'art. 42 paragrafo 2 TUE che dispone che laddove il
Consiglio europeo decida all'unanimità il passaggio a una difesa comune europea,
esso raccomanderà agli stati membri di adottare una decisione in tal senso
conformemente alle rispettive norme costituzionali; in tutti gli altri casi la procedura
risulta basata su una impostazione diversa, ad esempio l'art. 311 TFUE stabilisce che
il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa speciale, all'unanimità e
previa consultazione del Parlamento europeo, adotta una decisione che stabilisce le
disposizioni relative al sistema delle risorse proprie dell'Unione. Tale decisione entra
in vigore solo previa approvazione degli stati membri conformemente alle rispettive
norme costituzionali. Il fatto che, pur rimanendo la necessità di un’espressione
favorevole di volontà da parte dei parlamenti nazionali, l'atto finale della procedura
sia qui la decisione del consiglio, porta a inquadrare la stessa più come una misura di
attuazione dei trattati, che come un procedimento semplificato di integrazione o
modifica del diritto primario.
Infine si deve considerare che quando ci si riferisce ai Trattati, questi sono
accompagnati da una serie di dichiarazioni che riguardano specifiche parti o
norme degli stessi o aspetti ad essi connessi; queste dichiarazioni non hanno valore
normativo ma secondo quanto affermato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati fanno pur sempre parte del contesto del trattato in occasione della cui
adozione sono state formulate, pertanto nei limiti in cui siano riferibili all'insieme
degli stati membri costituiscono strumenti di interpretazione delle norme a cui
direttamente si riferiscono: la Corte di Giustizia ha riconosciuto questa possibilità
anche in riferimento a una dichiarazione unilaterale di uno stato membro nel caso in
cui la stessa sia servita a chiarire da parte del suo autore una questione
particolarmente importante per gli altri stati membri ai fini del formarsi del loro
consenso alla conclusione del trattato ui la dichiarazione si accompagna.
Discorso a parte va fatto per la carta dei diritti fondamentali dell'unione, proclamata
congiuntamente da parlamento, consiglio e commissione il 7 dicembre 2000 a
margine del Consiglio Europeo di Nizza. Nata con un intento ricognitivo dei diritti
fondamentali il cui rispetto era imposto dall'Unione da una norma del TUE l'art. 6, e
quindi destinata a fungere, alla stregua di una dichiarazione allegata ai trattati, da
mero strumento di ausilio in sede di interpretazione e di applicazione di quella
disposizione, con il Trattato di Lisbona essa ha acquistato, alla stregua di un
protocollo, valore formale di diritto primario. Il nuovo testo del par. 1 dell’art 6 TUE
dispone che essa ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
-Segue: gli effetti delle norme di diritto primario sui soggetti dell’ordinamento
La collocazione dei trattati e delle altre norme di diritto primario al vertice
dell'ordinamento dell'Unione comporta che essi abbiano come destinatari tutti i
soggetti di questo. La Corte di giustizia ha affermato che in un ordinamento che
riconosce come soggetti non solo gli stati membri ma anche i loro cittadini è del tutto
concepibile che dal Trattato derivino diritti soggettivi per i singoli, e ciò non soltanto
nei casi in cui il trattato espressamente li menziona ma anche come contropartita di
precisi obblighi imposti dal trattato ai singoli, agli stati membri o alle istituzioni
comunitarie; questo non significa che tutte le norme dei trattati siano suscettibili di
produrre effetti direttamente in capo a persone fisiche o giuridiche, in quanto l'origine
internazionalistica di queste norme implica che le stesse siano per lo più strutturate
avendo come modello destinatari di natura statuale. La possibilità di ricavarne diritti
direttamente in capo ai privati dipenderà dalla rispondenza della norma considerata a
determinate caratteristiche che ne evidenzino la capacità di esplicare in concreto
quegli effetti, nel senso di creare per i singoli situazioni giuridiche soggettive che
possano essere invocate davanti ad un giudice nazionale.
Fin dalla citata sentenza la Corte di Giustizia ha indicato le caratteristiche di questi
diritti nella chiarezza, precisione, completezza e carattere incondizionato della norma
invocata e in particolare si faceva riferimento all'odierno art. 30 TFUE che riguarda i
dazi doganali e le tasse di effetto equivalente, che poneva un divieto chiaro e
incondizionato che si concreta in un obbligo per gli stati di non fare, al quale non si
ricollegava alcuna facoltà degli stati di subordinare l'efficacia all'emanazione di un
provvedimento di diritto interno; in altri casi il carattere incondizionato di norme di
quel trattato è stato riconosciuto dalla Corte in relazione all’avvenuta scadenza del
periodo transitorio che quelle norme avevano concesso agli stati membri per
liberalizzare un certo settore, nel senso che solo a partire da quel momento i relativi
divieti imposti agli stati da tali norme sono divenuti invocabili dai singoli davanti ai
giudici e agli organi nazionali.
Ma le norme dei trattati, come possono attribuire loro diritti, possono anche
prevedere nei confronti dei privati degli obbligh: è il caso ad esempio dell'odierno
art. 157 TFUE che prevede il principio della parità di retribuzione tra uomo e donna
per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore: questo principio si deve ritenere
applicabile non solo alle pubbliche autorità, ma anche a tutte le convenzioni che
disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato così come nei contratti tra
singoli. Analogo effetto diretto orizzontale è previsto per il divieto di discriminazione
per motivi di nazionalità in materia di lavoro subordinato e di prestazione di servizi
che la Corte di Giustizia ha ritenuto operare anche nei confronti di associazioni od
organismi non di diritto pubblico.
c) non sono parte integrante dell'ordinamento giuridico dell'Unione, nel senso che
non costituiscono diritto dell’unione, gli accordi internazionali conclusi tra gli
stati membri o tra stati membri e stati terzi:
Ø con riguardo agli accordi conclusi tra gli stati membri l’ipotesi si pone
solo per quelli successivi all’acquisto dello status di membro visto che
gli accordi precedenti che riguardano materie per la cui disciplina sono
successivamente intervenuti i Trattati devono considerarsi
implicitamente abrogati in toto o in parte in virtù del principio della
successione nel tempo tra accordi incompatibili conclusi tra le stesse
parti contraenti; tuttavia anche per gli accordi successivi questi
rimangono formalmente estranei al diritto dell’Ue anche se
eventualmente stipulati sulla base di una disposizione dei Trattati come è
accaduto in passato per le cd convenzioni comunitarie previste dall’art.
293 Tce con riguardo a una serie di materie concernenti la cooperazione
giudiziaria civile, nonché con riguardo al Trattato del 2012 che ha
istituito un meccanismo europeo di stabilità. La corte ha escluso la
natura di diritto dell'Unione anche per accordi conclusi tra gli stati
membri in una sede istituzionale come quella del consiglio e riguardanti
materie strettamente connesse con il funzionamento dell'Unione.
Ø con riguardo agli accordi stipulati tra gli stati membri e paesi terzi, questi
possono trovarsi comunque ad incidere indirettamente sul diritto Ue se
sono conclusi da uno stato membro PRIMA dell’ingresso nell’Unione; a
riguardo la Corte di Giustizia ha affermato che alla luce delle regole del
diritto internazionale generale l'applicazione del Trattato non pregiudica
l'impegno dello stato membro interessato di rispettare i diritti degli stati
terzi derivanti da una convenzione anteriore e di adempiere gli obblighi
corrispondenti; fin dalla sua versione originaria, l'art. 351 TFUE dispone
in conformità a quelle regole che le disposizioni dei trattati non
pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse,
anteriormente al 1° gennaio 1958 o, per gli stati aderenti, anteriormente
alla data della loro adesione, tra uno o più stati membri da una parte e
uno o più stati terzi dell'altra. Ciò comporta che una norma dell'Unione
possa essere resa inoperante da una convenzione internazionale che
imponga allo stato membro che l'ha conclusa obblighi, il cui
adempimento può essere ancora preteso dagli stati terzi che ne sono parti
contraenti, anche se va precisato che questa conseguenza si produce solo
se e nei limiti in cui il rispetto degli obblighi dell'Unione interferisca con
il puntuale adempimento di questi ultimi.
Pur salvaguardando gli impegni internazionale in precedenza assunti con paesi terzi
da uno stato membro, l'art. 351 TFUE impone allo stato membro di eliminare nei
modi possibili le incompatibilità che esistono tra gli impegni e i trattati;
l'individuazione di questi modi spetta allo stato membro interessato, ma ad esempio
quando la via negoziale non riesca a portare alla modifica dell'accordo con il paese
terzo lo stato membro è tenuto a procedere alla denuncia di questo accordo.
A determinate condizioni da accordi precedentemente conclusi da tutti gli stati
membri con paesi terzi può derivare un vincolo diretto in capo all'Unione o perché è
lo stesso trattato a porre un obbligo di rispetto dei principi perseguiti da tali accordi, o
per un effetto di sostituzione dell'Unione nei diritti e negli obblighi che spettano agli
stati membri ai sensi di quegli accordi.
un rapporto gerarchico quale quello che si stabilisce tra un atto di base e l'atto
preso in sua attuazione si presenta anche al di fuori delle ipotesi di cui all'art.
290 e 291 TFUE; ci sono casi in cui gli stessi trattati configurano l'esistenza di
un rapporto di quel tipo tra 2 atti, indipendentemente dal conferimento
puntuale da parte del primo di una competenza ad emanare il secondo in sua
attuazione; ipotesi di questo tipo si riscontra nella previsione di cui all'art. 75
comma 2 TFUE che stabilisce che il Consiglio su proposta della Commissione
adotta misure per attuare l'insieme di misure di contrasto al terrorismo, che
l'Unione può prendere conformemente a una procedura legislativa ordinaria;
nonché nel settore della PESC, ove all’art. 31 paragrafo 2 TUE è stabilito che il
consiglio può adottare a maggioranza qualificata decisioni relative
all'attuazione di una decisione che definisce un’azione o una posizione
dell'Unione approvata da lui stesso all'unanimità. Il ricorso a una procedura
non legislativa per l'adozione dell'atto di esecuzione in tanto si giustifica, in
quanto lo stesso rimanga nei limiti di quanto previsto dall'atto da attuare.
E’ stato affermato dalla corte che un atto particolare o individuale non potrebbe
restringere o limitare gli effetti di un atto normativo di carattere generale, senza
perturbare il sistema legislativo dell'Unione e rompere l'uguaglianza dei privati
dinanzi alla legge.
-A) I regolamenti
Ai sensi dell'art. 288 comma 2 TFUE il regolamento ha portata generale, è
obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile in ciascuno degli
stati membri--> pertanto si tratta di un atto che ha natura essenzialmente normativa; si
tratta dell’atto che meglio concretizza il trasferimento di competenze dagli stati
membri alle istituzioni dell'Unione in quanto attraverso il regolamento la normativa
adottata viene a sostituirsi integralmente, nel settore da essa regolato, alle norme
nazionali; e dal momento in cui l'unione emana regolamenti in quel settore, gli stati
membri sono tenuti ad astenersi da qualsiasi provvedimento che deroghi a tali
regolamenti o ne pregiudichi l'efficacia.
In primo luogo il regolamento ha portata generale nel senso che questo si
rivolge a una o più categorie di destinatari determinate astrattamente e nel loro
complesso. Ciò non significa che non debba essere possibile determinare, con
maggiore o minore precisione, il numero o addirittura l'identità dei destinatari
ultimi dell'atto, purché la qualità di destinatario dipenda da una situazione
obiettiva di diritto o di fatto, definita dall'atto in relazione con la sua finalità.
La portata generale dei regolamenti non sta nemmeno a significare che questo
tipo di atto debba necessariamente applicarsi a tutto il territorio dell'unione.
Non mancano esempi di regolamenti espressamente riguardanti solo uno Stato
membro o comunque diretti a regolare fattispecie territorialmente circoscritte.
In secondo luogo il regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi;
questo significa che uno stato non può applicare in modo incompleto o
selettivo un regolamento e inoltre lo stato membro si deve conformare al
regolamento in maniera rigorosa in quanto questo tipo di atto non lascia ai suoi
destinatari alcuna discrezionalità in ordine al modo di applicare le sue norme;
tuttavia tale caratteristica non implica necessariamente una completezza di
contenuto normativo del regolamento. Nulla esclude che, affinché la disciplina
da esso dettata possa concretamente operare, la stessa debba essere oggetto di
integrazione mediante atti ulteriori. Ciò può essere esplicitamente previsto
dallo stesso regolamento prevedendo la successiva emanazione di una
normativa specifica di dettaglio di un regolamento di base oppure stabilendo
che gli stati membri debbano integrare la disciplina del regolamento con
provvedimenti di loro competenza. Laddove il regolamento nulla dica,
potrebbe porsi la necessità di una tale integrazione e questa sarà comunque
oggetto di un obbligo per gli stati membri in quanto ai sensi dell'art. 4
paragrafo 3 comma 2 TUE viene imposto agli stati di adottare ogni misura di
carattere generale o particolare volta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi
conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. La corte ha esplicitamente
sottolineato come la facoltà di cui godono i cittadini di far valere le
disposizioni del regolamento dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli stati
membri dell’adottare le misure interne che permettono di assicurarne la piena e
completa applicazione qualora ciò si renda necessario.
Va tuttavia precisato che un intervento normativo degli stati membri si giustifica
esclusivamente solo per quanto sia necessario all'attuazione dei regolamenti senza
che le misure prese a livello nazionale possano in alcun caso sostituirsi alle norme dei
regolamenti.
In terzo luogo il regolamento è direttamente applicabile in ciascuno degli
stati membri; questo significa che l'entrata in vigore del regolamento e la sua
applicazione nei confronti degli amministrati non necessita di nessun atto di
ricezione nel diritto interno, anzi l’eventuale recezione nel diritto interno è
incompatibile con il diritto dell'Unione in quanto contrasta con i trattati ogni
forma di attuazione che possa avere la conseguenza di ostacolare l'efficacia
diretta dei regolamenti e di comprometterne la simultanea ed uniforme
applicazione nell’intera ue. Questo sarebbe l'effetto anche di una legge
meramente riproduttiva di un regolamento dell'unione, la quale potrebbe finire
per condizionare o differire l'entrata in vigore del regolamento che riproduce, e
comunque potrebbe nascondere la natura comunitaria delle relative norme agli
occhi degli amministrati e degli operatori interni, ostacolando le possibilità di
ricorso ai meccanismi giurisdizionali dell'Unione.
L’applicabilità diretta dei regolamenti comporta che questi per loro stessa natura sono
suscettibili di porre situazioni giuridiche soggettive in capo ai privati sia per quanto
riguarda i loro rapporti con altri privati sia per quanto riguarda i rapporti con gli stati
o le istituzioni dell'Unione; questi effetti non possono essere messi in causa nemmeno
dal fatto che per l'ordinamento dello stato sarebbe necessario un ulteriore intervento
normativo per permettere il pieno operare della disciplina regolamentare, infatti la
Corte ha affermato che i regolamenti entrano a far parte dell'ordinamento giuridico
nazionale e questo ordinamento deve rendere possibile l'efficacia diretta e di
conseguenza i singoli possono far valere questi effetti senza vedersi opporre delle
disposizioni o prassi di carattere nazionale.
Rispetto all'eventualità che sia lo stesso regolamento a richiedere, per l'applicazione
di talune sue disposizioni, l'adozione di misure di esecuzione da parte degli Stati
membri, la stessa Corte ha ammesso che il margine di valutazione lasciato a questi
ultimi può essere tale da far escludere che i privati possano far valere diritti sulla base
di tali disposizioni in assenza di misure di esecuzione adottate dagli Stati membri.
-B) Le direttive
Lo strumento della direttiva esprime un modo di funzionamento delle competenze
dell'Unione articolato su una ripartizione del potere tra l'Unione e gli stati membri;
infatti la direttiva opera sulla base di una riserva di competenza a favore degli stati
membri, nel senso che la direttiva implica la permanenza di normative nazionali e
una parziale varietà di queste; ai sensi dell’art. 288 comma 3 TFUE la direttiva
vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla
forma e ai mezzi, pertanto la direttiva necessita dell’intervento delle autorità
nazionali cui spetta il compito di tradurre in norme interne le sue disposizioni.
In molti casi la riserva di competenza a favore degli stati può risultare ridotta sul
piano sostanziale; infatti non di rado le direttive presentano un contenuto tanto
dettagliato da fare apparire esigui i margini di discrezionalità degli stati nella
traduzione delle direttive in disposizione di diritto nazionale: a riguardo la Corte
di giustizia non considera questa prassi in contrasto con quanto previsto dall'art. 288
almeno nella misura in cui la direttiva dettagliata intervenga in un settore in cui la
realizzazione di una rigorosa identità tra le disposizioni nazionali si riveli
indispensabile al risultato da raggiungere, come ad esempio nella materia della tutela
dell'ambiente ove è imposta una riproduzione formale e letterale delle norme
nell'ordinamento nazionale. In ogni caso non c'è dubbio che la direttiva debba essere
costruita in modo da dar luogo a un armonizzazione e la sua trasposizione nel diritto
interno non dovrebbe necessariamente riguardare anche quelle tra le sue norme che
riguardano solamente i rapporti tra lo stato e le istituzioni dell'Unione.
Pertanto l'attuazione delle direttive nell'ordinamento interno è oggetto di un preciso
obbligo che gli stati membri sono tenuti ad adempiere mediante l’emanazione e la
comunicazione alla Commissione entro il termine previsto da ciascuna direttiva, di un
atto di recepimento della direttiva stessa; in particolare per quanto riguarda la scelta
delle modalità formali volte a soddisfare quest'obbligo l'art. 288 TFUE sembra
lasciare margine discrezionale agli stati membri; tuttavia la Corte di Giustizia ha
precisato che l’attuazione di una direttiva nell'ordinamento nazionale non solo
deve avvenire con le forme e i mezzi più idonei a garantire l'efficacia reale delle
disposizioni della direttiva ma deve anche corrispondere pienamente alle
esigenze di chiarezza e di certezza delle situazioni giuridiche volute dall'atto,
pertanto la Corte di Giustizia ha indicato nell' emanazione da parte dell'autorità
nazionale competente di un atto vincolante a carattere normativo equivalente a quello
che sarebbe stato preso nel diritto interno per realizzare spontaneamente un obiettivo
analogo a quello voluto dalla direttiva, la via più corretta per la trasposizione di
questa nell'ordinamento degli Stati membri; ad esempio escludendo l'idoneità a
questo scopo di circolari o prassi amministrative che per loro natura sono
modificabili a piacimento dell'amministrazione e prive di una adeguata pubblicità.
Mancherebbe una situazione sufficientemente precisa, chiara e trasparente che
permetta ai cittadini degli altri Stati membri di sapere quali siano i loro diritti e di
avvalersene.
Le esigenze di chiarezza e di certezza sono state prospettate anche con riferimento
all'eventualità che l'ordinamento nazionale sia già di per sé conforme a una
determinata direttiva o comunque consenta il risultato da questa voluto; la Corte ha
ammesso che una situazione del genere possa far ritenere in linea di principio
soddisfatto l'obbligo di attuazione che grava sullo stato senza bisogno che lo stato
debba procedere all'emanazione di un provvedimento di trasposizione formale della
direttiva ma al contempo la Corte ha subordinato la valutazione di superfluità
della trasposizione alla condizione che le norme interne in precedenza già in
vigore garantiscano effettivamente la piena applicazione della direttiva ad opera
dell'amministrazione nazionale e che, qualora la direttiva miri ad attribuire
diritti ai singoli, la situazione giuridica che scaturisce da questi principi sia
sufficientemente chiara e precisa e che i destinatari siano posti in grado di
conoscere la piena portata dei loro diritti ed eventualmente di avvalersene
dinanzi ai giudici nazionali.
-C) Le decisioni
L'art. 288 comma 4 TFUE definisce la decisione come obbligatoria in tutti i suoi
elementi; fino al Trattato di Lisbona, l’art. 249 TCE specificava che tale
obbligatorietà sussisteva solo per i destinatari da essa designati; l’art. 288 TFUE ora
dispone che la decisione qualora designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei
confronti di questi pertanto si evince come questa possa avere portata individuale
oppure generale; si può constatare come la decisione sia lo strumento per mezzo
del quale le istituzioni provvedono ad applicare al caso concreto le previsioni
normative astratte contenute nei trattati o in altri atti dell'Unione, e ciò sia
quando questa applicazione concreta debba aver luogo nei confronti di soggetti
privati sia quando i suoi destinatari siano gli stessi stati membri.
Si tratta di atto a portata individuale ma a differenza della direttiva, che si rivolge ai
soli stati membri, la decisione non ha destinatari predeterminati, pertanto può
indirizzarsi a tutte le categorie di soggetti del diritto dell'Unione e inoltre la decisione
appare dotata dell’efficacia necessaria a raggiungere i suoi destinatari:
vincolando questi pur quando essi siano soggetti interni agli stati membri, essa risulta
direttamente applicabile negli ordinamenti giuridici nazionali al pari dei
regolamenti, fino al punto di costituire, nel caso in cui essa imponga ai singoli
obblighi pecuniari, titolo esecutivo da far valere negli Stati membri attraverso le
procedure nazionali.
Anche le decisioni indirizzate agli stati membri possono esplicare effetti diretti
nell'ordinamento nazionale, infatti la Corte di giustizia lo ha affermato osservando il
carattere obbligatorio dello strumento della decisione la quale si impone a tutti gli
organi dello stato destinatario e prevedendo che le giurisdizioni nazionali devono
astenersi dall’applicare ogni disposizione interna la cui attuazione comporterebbe un
ostacolo all'esecuzione di una decisione.
Le disposizioni di una decisione del consiglio hanno efficacia immediata nei rapporti
tra gli stati membri ed i singoli, in quanto esse producono, nei confronti di questi
ultimi, diritti che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare, allorché dette
disposizioni impongono agli stati membri un obbligo assoluto e sufficientemente
chiaro e preciso.
Si tratta tuttavia di una distinzione approssimativa, infatti nella categoria dei pareri ce
ne sono alcuni che in conseguenza della loro funzione all'interno di un determinato
procedimento o in ragione dell’espressa previsione di un articolo del trattato appaiono
produttivi di effetti giuridici assai significativi (come ad esempio i pareri motivati
previsti nel quadro delle procedure di infrazione); per quanto riguarda le
raccomandazioni, a parte taluni effetti particolari riconosciuti ad alcune di esse da
specifiche norme dei trattati, la Corte di Giustizia ha ammesso in via generale che i
giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini
della soluzione delle controversie loro sottoposte e in particolare quando queste sono
di aiuto nell'interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro
attuazione, o mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante.
Il Consiglio e la Commissione poi fanno spesso ricorso per far conoscere la loro
posizione su una determinata questione anche ad ulteriori tipi di atti non
espressamente menzionati nei Trattati, è frequente l’adozione di:
conclusioni o risoluzioni, con cui l'istituzione preannuncia le possibili linee di
sviluppo di una successiva attività normativa dell'Unione oppure fissa la sua
posizione rispetto a una questione particolarmente delicata o controversa di
interpretazione del diritto dell'Unione; spesso si può osservare che le
conclusioni del Consiglio sono adottate per consacrare un accordo politico tra i
membri di questo su sviluppi successivi del negoziato al suo interno su di una
determinata proposta della commissione. Non meno frequente è il ricorso da
parte della commissione a comunicazioni, orientamenti o linee direttrici, tutti
atti che la commissione utilizza soprattutto per esplicitare all'indirizzo dei
soggetti interessati (stati membri o privati) il proprio modo di interpretare una
sua competenza, ovvero le modalità con le quali essa intende esercitarla.
Si deve osservare che il ricorso a delle conclusioni all'interno dell'iter legislativo può
determinare uno sviamento della procedura nella misura in cui attraverso
l'approvazione delle stesse per consensus si voglia vincolare politicamente i membri
del Consiglio al contenuto finale di un atto per il quale i trattati invece prevedano
l'adozione a maggioranza qualificata.
Non a caso, il nuovo art. 296, comma 3, TFUE cerca di porre un freno a tale pratica,
prevedendo formalmente che, nel corso della discussione in una proposta legislativa,
il consiglio e il Parlamento Europeo devono astenersi dall’adottare atti non previsti
dalla procedura applicabile alla materia di cui si tratta.
Nel caso degli atti atipici della Commissione è stato ritenuto legittimo il dubbio che
attraverso la veste innocua di strumenti privi di portata normativa, se non addirittura
di istruzioni formalmente dirette all'interno della commissione, questa finisca per
porre a carico dei soggetti direttamente interessati obblighi ulteriori rispetto a quelli
derivanti dai trattati o dagli atti da questi previsti o per attribuirsi ulteriori poteri di
intervento nei confronti di quegli stessi soggetti; la Corte di Giustizia ha confermato
la legittimità di questi dubbi ammettendo la ricevibilità di un ricorso diretto contro
delle istruzioni interne della Commissione volte a definire le competenze dei suoi
agenti nei confronti dei terzi nel quadro dei controlli sul rispetto della
regolamentazione dell'Unione sui finanziamenti nel settore agricolo; recentemente la
Corte ha osservato con riguardo alle comunicazioni o agli orientamenti adottati dalla
Commissione in materia di aiuti di stato che nell'esercizio del potere discrezionale
che il trattato riconosce alla Commissione, la Commissione può autolimitarsi
definendo e pubblicizzando in anticipo le regole di comportamento alla quale questa
intende attenersi nei confronti degli Stati membri; queste regole avranno un effetto
circoscritto all’autolimitazione della commissione nell'esercizio del proprio potere
discrezionale, ma non possono creare obblighi autonomi in capo agli Stati membri i
quali manterranno la facoltà di notificare i progetti di aiuti di stato che non soddisfino
i criteri previsti da detta comunicazione che la commissione dovrà poter autorizzare
quando ricorrano le circostanze eccezionali previste dalle norme pertinenti del
trattato.
Per quanto riguarda gli accordi interistituzionali, ai sensi dell'art. 295 TFUE il
Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione possono concludere, al fine di
definire di comune accordo le modalità di una reciproca collaborazione in settori
delle loro relazioni, accordi interistituzionali; questa categoria è più ampia rispetto a
quanto risulta dalla disposizione, in quanto ad essa possono essere ricondotte una
serie di atti che sono frutto non solo della volontà congiunta di 2 o più istituzioni in
vista della disciplina di un determinato aspetto delle loro relazioni ma anche delle
esternazioni di una comune posizione su una determinata questione di rilievo politico
o su determinati principi generali.
Mentre in questo secondo caso la rilevanza dell'atto è anch'essa di carattere
esclusivamente politico, o tutt'al più interpretativo di principi o norme
dell'ordinamento dell'unione, nel primo si tratta invece di atti che linea di principio
impegnano giuridicamente le istituzioni che li concludono; tuttavia questa efficacia
non derivava in passato da un’apposita previsione dei trattati, né deriva oggi dall'art.
295 TFUE, che si limita a constatare che gli accordi interistituzionali possono
assumere carattere vincolante: questa efficacia infatti è frutto dell’essere questi atti
espressione dell'obbligo di cooperazione tra le istituzioni che si ricava dall'art. 4
paragrafo 3 TUE.
Questo cammino arriva poi a definitivo compimento con l'entrata in vigore del
Trattato di Lisbona. La partecipazione a qualsiasi titolo del Parlamento europeo
accanto al Consiglio nella procedura di adozione di un atto dell'Unione fa in linea di
principio della relativa procedura una procedura legislativa e dell'atto che ne deriva
un atto legislativo, ossia la procedura di codecisione diventa la procedura legislativa
ordinaria; invece l'adozione di un atto da parte del Parlamento europeo con la
partecipazione del Consiglio o da parte di quest'ultimo con la partecipazione del
Parlamento europeo costituisce una procedura legislativa speciale.
Se si escludono alcune modifiche apportate alla procedura di codecisione nella sua
nuova veste di procedura legislativa ordinaria, la novità consiste nell'attribuzione a
preesistenti procedure di una nuova caratterizzazione, quella di procedure legislative.
Mentre tale caratterizzazione è assoluta nel caso della procedura legislativa ordinaria,
nel senso che vi è piena identificazione tra quest'ultima e la preesistente procedura di
codecisione, sicché tutte le volte in cui è previsto il ricorso alla procedura legislativa
ordinaria l'atto è adottato sulla base di questa sorta di nuova procedura di codecisione,
diversamente avviene per la procedura legislativa speciale. Questa non solo identifica
più tipi di procedura decisionale, ma soprattutto questi non assumono tutti la
caratterizzazione di procedura legislativa speciale. Il loro comune denominatore sta
invece nel fatto di prevedere la partecipazione sia del Parlamento Europeo che del
consiglio, benché quella partecipazione assuma forme anche assai diverse a seconda
dei casi. Il più delle volte l'adozione dell'atto spetta al consiglio all'unanimità o a
maggioranza qualificata e il Parlamento Europeo è chiamato o a dare la sua previa
approvazione, ovvero a formulare, in linea con la tradizionale procedura di
consultazione, un parere non vincolante sulla proposta di atto eventualmente insieme
ad altre istituzioni o organi.
In alcuni casi è previsto che l'atto sia adottato dal Parlamento europeo, e qui
l'intervento del consiglio riveste sempre la forma di una sua previa approvazione
della delibera del parlamento. Vi è anche un’ipotesi in cui benché l'atto sia adottato
sulla base di un'azione congiunta del Parlamento Europeo e del consiglio assimilabile
a quella che caratterizza la procedura legislativa ordinaria, si è in presenza di una
procedura legislativa speciale, perché l'atto conclusivo della procedura che dà forza
vincolante all'oggetto della stessa è previsto che debba essere adottato dal solo
parlamento.
Non in tutti i casi in cui si ha partecipazione del Parlamento e del consiglio al di fuori
della procedura legislativa ordinaria, la relativa procedura costituisce una procedura
legislativa speciale. L'art. 289, par. 2, TFUE precisa che ciò avviene solo nei casi
specifici previsti dai trattati. Solo nel caso in cui lo stesso articolo dei trattati che
prevede la competenza a farlo specifichi che l'adozione dell'atto avviene
conformemente ad una procedura legislativa speciale.
Laddove esista nel trattato una disposizione specifica che possa costituire il
fondamento giuridico dell'atto da adottare, quest'ultimo deve fondarsi su tale
disposizione a preferenza di altre eventuali disposizioni di portata più generale alle
quali possono comunque essere ricondotti lo scopo e il contenuto dell'atto.
Quando ad un atto siano applicabili più basi giuridiche che prevedono a loro volta
differenti procedure per la sua adozione ci si può chiedere se si debba scegliere tra
una di queste o se l'atto possa richiamarsi a tutte le basi giuridiche astrattamente
applicabili: con riguardo alla seconda ipotesi la Corte ha risposto in modo negativo,
in quanto anche quando un atto persegue più di una finalità o ha più di una
componente l'atto deve essere fondato unicamente sulla base giuridica richiesta dalla
finalità o componente che appaia principale o preponderante rispetto alle altre; si
deve tuttavia osservare che la Corte non ha escluso del tutto l'ipotesi che si possano
cumulare più basi giuridiche ammettendo in via eccezionale questa possibilità
laddove si tratti di un atto che persegue contemporaneamente più scopi o che ha più
componenti tra loro inscindibili senza che l’uno sia accessorio all’altro, o senza che
l’uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all'altro.
Ciò non significa che al di fuori dell'ipotesi eccezionale di cui sopra il ricorso
contemporaneo a più basi giuridiche sia di per sé motivo di illegittimità dell'atto che
ne deriva, né, viceversa, che ogniqualvolta questo cumulo sia eccezionalmente
ammissibile alla luce della giurisprudenza della corte, esso sia anche possibile. La
stessa corte ha precisato che quando le procedure decisionali previste relativamente
all'uno o all'altro fondamento normativo siano incompatibili, perché la loro
applicazione combinata determina un'alterazione della posizione delle istituzioni
coinvolte nel processo decisionale, non si potrà comunque fondare l’atto su quelle
basi giuridiche anche laddove l'atto persegua finalità o presenti componenti ad esse
inscindibilmente riconducibili, e d'altro canto se l’applicazione congiunta di più basi
giuridiche non produce quell’alterazione della posizione rispettiva delle istituzioni, il
vizio dell'atto sarà da ritenere comunque solo formale e quindi non suscettibile di
determinare di per sé l'illegittimità dello stesso.
Tuttavia quando non fosse possibile rintracciare un carattere di prevalenza in nessuno
degli obiettivi o delle componenti di un atto riconducibile a più basi giuridiche che
prevedano procedure decisionali tra loro incompatibili, l'unica alternativa sarebbe
l'adozione di 2 atti separati oppure l’inazione (con riguardo all'eventualità
dell'adozione di 2 atti separati non sempre questa soluzione è facile da realizzare ma
eviterebbe le conseguenze dell'incompatibilità tra procedure dal punto di vista
formale).
Laddove in ogni caso tra le basi giuridiche astrattamente utilizzabili per
l'adozione di un atto dell'Unione ce ne sia una che riguarda l'esercizio di una
competenza riconducibile al settore della PESC, il cumulo non è immaginabile.
Nel quadro dei precedenti trattati la Corte aveva escluso il cumulo ai sensi dell'art. 47
TUE poiché questo articolo ostava all'adozione sulla base di quel trattato di una
misura suscettibile di essere validamente presa ai sensi del Trattato della Comunità
Europea e quindi l'Unione non avrebbe potuto ricorrere a un fondamento normativo
rientrante nella PESC per adottare un atto contenente disposizioni riconducibili a una
competenza ugualmente attribuita alla Comunità Europea; oggi la specificità della
PESC trova salvaguardia nei nuovi trattati attraverso il divieto di cui all'art. 40 TUE
di reciproche invasioni di campo tra le disposizioni che regolano questa competenza
dell'Unione e quelle relative a tutte le altre competenze, infatti l'azione delle
istituzioni ai sensi degli altri settori del trattato deve lasciare impregiudicata
l'applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni previste per
l'esercizio delle competenze dell'Unione nel quadro della PESC, e viceversa. E in
ogni caso quel cumulo sembra prospettarsi in termini di incompatibilità procedurale
in considerazione delle specificità che caratterizzano il processo decisionale della
PESC, come l'assenza di un ruolo del Parlamento e della Commissione: di
conseguenza la Corte esclude la cumulabilità di 2 basi giuridiche anche se hanno
oggetto analogo dell'adozione di misure restrittive individuali, l’una a fini di lotta al
terrorismo e l'altra nel quadro della pesc, anche sulla base della considerazione che
l'implicazione del Parlamento Europeo nella procedura decisionale dell'art. 215
TFUE rispetto a quella dell'art. 75 TFUE è frutto della scelta di conferire un ruolo più
limitato al Parlamento riguardo all'azione dell'Unione nel contesto della PESC.
.
-Segue: il potere di iniziativa. In particolare il potere di proposta della Commissione
Il potere di iniziativa di regola spetta alla Commissione, mentre per quanto riguarda il
settore della PESC spetta invece all’Alto rappresentante per la politica estera e la
sicurezza; il potere di iniziativa di cui la Commissione è titolare non è in ogni caso
esclusivo in quanto ai sensi dell'art. 17 par. 2 TUE viene sottolineato che un atto
legislativo dell'Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione ma
ciò avviene salvo che i trattati non dispongano diversamente. Quanto agli altri atti
dell'Unione essi sono adottati su proposta della Commissione se i trattati lo
prevedono.
In relazione agli atti legislativi il potere di iniziativa della Commissione appare
connaturato alla procedura legislativa che porta alla loro adozione tanto che se in una
base giuridica che prevede il ricorso a tale procedura nulla è specificato riguardo
all'autore della proposta, spetterà alla Commissione presentarla; l'art. 289 paragrafo
4 TFUE elenca i soggetti o le istituzioni da cui può venire l’iniziativa legislativa
prevedendo che gli atti legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo
di stati membri o del Parlamento europeo, su raccomandazione della Banca centrale
europea o su richiesta della Corte di Giustizia o della Banca europea per gli
investimenti; questa possibilità dipenderà dalla specifica designazione di uno di questi
come titolare del potere di iniziativa legislativa all'interno dell'articolo dei trattati che
fornirà la base giuridica all'atto da adottare; nel caso degli atti non legislativi l'autore
della proposta, quand’anche fosse la commissione, deve essere puntualmente indicato
nella base giuridica dell'atto in quanto il silenzio di quest'ultima comporta che l'atto
debba essere adottato su iniziativa della stessa istituzione competente ad adottarlo.
L’art. 290 TFUE stabilisce che l'atto di base deve delimitare esplicitamente gli
obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega e inoltre deve indicare alcune
condizioni a cui può essere soggetta l'attribuzione della delega stessa: in particolare è
previsto che l'atto legislativo possa stabilire che il Parlamento europeo o il consiglio
possano decidere di revocare la delega o che l'atto delegato possa entrare in vigore
solo se entro un certo termine, da fissare nell’atto di base, nessuna delle 2 istituzioni
ha sollevato obiezioni.
A questi fini, il Parlamento e il consiglio deliberando a maggioranza dei propri
membri, l'uno, a maggioranza qualificata, l'altro.
Non è previsto un atto che debba predeterminare con valore vincolante per il
legislatore le condizioni e modalità di funzionamento di questi due meccanismi di
controllo. La loro definizione è affidata al negoziato tra le istituzioni che porta
all'adozione dell'atto, il quale dovrà anche stabilire a quale dei due meccanismi
ricorrere nel caso concreto o se applicarli entrambi. Per assicurare un'applicazione
coerente degli stessi, così come degli altri aspetti della disciplina di cui all'art. 290
TFUE il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione nel 2016 hanno concluso
una Convenzione di intesa sugli atti delegati volta a specificare nel dettaglio il
modo in cui le istituzioni intendono dare applicazione all'art. 290:
in primo luogo la Convenzione ha precisato che la delega alla Commissione
per l'adozione di atti delegati in una certa materia può essere disposta dall’atto
legislativo sia a tempo indeterminato sia per una scadenza prefissata; in questa
seconda ipotesi è stabilito che in linea di principio dovrebbe essere previsto un
rinnovo automatico di quel termine per periodi di identica durata, fatta salva la
possibilità del parlamento e del consiglio di opporsi al rinnovo fino a 3 mesi
prima di quella scadenza
in secondo luogo con riguardo all'esercizio della delega una volta concessa è
previsto il potere di obiezione che il legislatore può riservarsi sugli atti delegati
adottati dalla Commissione--> infatti è previsto che salvo diversa previsione
dell'atto di base questo potere dovrebbe essere in linea generale esercitabile
entro 2 mesi dalla notifica dell'atto delegato a Parlamento europeo e Consiglio;
inoltre la convenzione consente che a fronte di ragioni di urgenza legate alla
protezione della salute o a crisi umanitarie la Commissione in via eccezionale
possa adottare l'atto delegato immediatamente, salvo revocarlo a seguito di una
successiva obiezione del parlamento o del consiglio
tuttavia l’art. 290 non prospetta alcuna differenza nel funzionamento dei
meccanismi di revoca della delega e di obiezione all'atto delegato ricollegabile
al tipo di atto legislativo che conferisce la delega alla Commissione; in
particolare l'articolo non distingue se l'atto legislativo è stato adottato sulla
base della procedura legislativa ordinaria o di quella speciale, anche se
l'articolo andrebbe interpretato nel senso che in questo secondo caso quei
meccanismi devono adattarsi al tipo di procedura legislativa applicabile,
diventando utilizzabili solo dall'istituzione che ha adottato l'atto legislativo di
base. In caso contrario ne deriverebbe un’asimmetria tra la posizione del
Parlamento Europeo e del consiglio nella fase di adozione dell'atto legislativo e
in quella di controllo sull'esercizio della delega da parte della commissione.
PARTE SECONDA
LA TUTELA DEI DIRITTI
L'azione che l'unione si svolge nel quadro del complesso sistema normativo ed
istituzionale si presta a determinare una pluralità di situazioni giuridiche che,
trovando il proprio fondamento nel diritto dell'unione, non possono non ricevere da
questo, o grazie a questo, un'apposita ed adeguata tutela. Il sistema dell'Unione può
contare non solo su un apparato giudiziario che non ha uguali in un alcun altro ente
internazionale, ma altresì su un'ampia gamma di strumenti destinati a soddisfare le
esigenze di un ordinamento che vuole e deve essere improntato al principio di legalità
e quindi anche assicurare la pienezza della tutela giurisdizionale dei diritti.
E’ stata del resto proprio la corte ad esaltare l'importanza di tale tutela, elevandola a
principio generale, anzi a fondamento e a garanzia costituzionale, del sistema
ordinamentale dell'unione, in termini che sono stati poi ripresi anche dalla carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea, il cui art. 47 include tra gli stessi il diritto a
un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. La corte ha sancito che il principio di
tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale di diritto dell'Unione
che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che è stato sancito
dagli articoli 6 e 13 della convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali. Con questo non si intende dire che la
situazione possa considerarsi pienamente appagante, soprattutto con riferimento alla
posizione delle persone fisiche e giuridiche. Talune limitazioni persistono a questo
riguardo.
Va peraltro tenuto presente che la valutazione delle garanzie apprestate nell'ambito
dell'unione non va operata solo con riguardo a quelle previste direttamente dai
trattati, ma anche tenendo conto di quelle accordate nell'ambito degli Stati membri.
Tale configurazione è stata oggi finalmente sancita dallo stesso trattato di lisbona, il
cui art. 19 TUE, dopo aver definito ruolo e competenze dei giudici dell'unione,
dispone per l'appunto che gli stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali
necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati
dall’unione.
Agli Stati membri incombe prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di
procedimenti inteso a garantire il rispetto del diritto fondamentale ad una tutela
giurisdizionale effettiva, in particolare designando i giudici competenti e stabilire le
modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai
singoli in forza del diritto dell'unione; così come, è compito dei giudici degli stati
membri, in applicazione del principio di leale collaborazione enunciato dall'art. 4
TUE, garantire la tutela giurisdizionale dei diritti di cui i soggetti dell'ordinamento
sono titolari in forza del diritto dell'unione.
Le situazioni giuridiche di cui si discute possono essere lese non sono direttamente
dalle norme dell'Unione e nell'ambito del relativo ordinamento, ma anche nell'ambito
degli ordinamenti nazionali.
Sarà negli ordinamenti interni che i privati dovranno chiedere adeguata tutela delle
situazioni giuridiche in parola, investendone il giudice nazionale, che opera come
giudice comune del diritto dell'unione.
Vi è un rapporto di complementarietà che lega gli strumenti giurisdizionali
dell'Unione e quelli nazionali nella tutela delle situazioni giuridiche soggettive di
origine comunitaria.
-Segue: il ruolo svolto dalla Corte per il rafforzamento del sistema e delle sue
garanzie. La tutela dei diritti fondamentali
La Corte di Giustizia ha svolto un ruolo importante per lo sviluppo dell'integrazione
europea ed è stata in particolare determinante nel connotare le caratteristiche del
sistema giuridico dell'Unione, nell’imprimere una straordinaria accelerazione alla sua
evoluzione e nell’indirizzarla nel senso del rafforzamento del processo
d’integrazione; infatti è proprio sulla configurazione complessiva del sistema dell'Ue
che la Corte di Giustizia ha inciso in modo profondo facendo del diritto un fattore
decisivo e costruttivo della costruzione europea: pertanto si può dire che il ruolo
svolto dalla Corte non è meramente giurisdizionale ma ha avuto anche carattere
strutturale in quanto ha influito sullo stesso modo di essere dell'ordinamento
dell'Unione; questo è avvenuto in varie forme e direzioni:
in primo luogo il suo contributo al processo di integrazione si è espresso con
riguardo alla ricostruzione del sistema giuridico dell'Unione come
ordinamento giuridico omogeneo e tendenzialmente compiuto in quanto la
stessa Corte ha dato a questo organicità, coerenza e sistematicità, rilevandone i
principi qualificanti e definendone in modo autonomo le nozioni nonché
caratterizzandolo rispetto agli altri ordini giuridici. Il suo lavoro sulle
disposizioni dei trattati ha valorizzato tali disposizioni, specie quelle
fondamentali, elevandole al livello di principi di struttura o materiali, in un
quadro di insieme che ha permesso alla stessa corte di definire il trattato come
la Carta Costituzionale di una comunità di diritto, nella quale trovano posto
principi fondamentali, quale quello di libertà, democrazia, legalità,
uguaglianza, di rispetto dei diritti fondamentali e così via. Inoltre la corte ha
imposto rigorosamente a istituzioni e stati membri l'osservanza delle regole
comuni, ma anche precisando e rafforzando la portata di queste ultime in
funzione delle finalità del processo.
in secondo luogo ha contribuito con riguardo al profilo che riguarda il riparto
di competenze tra l'Unione e gli stati membri; riparto salvaguardato dalla
Corte ma anche interpretato in una prospettiva dinamica, ossia orientata nel
senso dello sviluppo del sistema e delle competenze dell'Unione; inoltre ha
contribuito con riguardo alla salvaguardia del riparto di competenze interne
all'Unione che ha permesso a ciascuna istituzione di far salve le proprie
prerogative, ma anche di recuperare ruolo e responsabilità più conformi alla
missione loro conferita dai trattati
Ha fornito il proprio contributo con riguardo all'affermazione di alcuni principi
qualificanti della costruzione europea, che hanno permesso a quest'ultima di
diventare quel sistema assolutamente originale che tutti conoscono
in terzo luogo ha contribuito alla tutela dei diritti fondamentali, che sono
stati elevati dalla Corte al livello di principi generali dell'ordinamento
giuridico dell'Unione; a partire dal Trattato di Maastricht (ex art. 6 TUE) i
diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli stati membri fanno parte del diritto dell'Unione in
quanto principi generali. Con particolare riguardo alla tutela dei diritti
fondamentali la Corte ha dato al principio della protezione giudiziaria
particolare rilievo soprattutto al fine di garantire le situazioni giuridiche
individuali fondate sul diritto dell'Unione e in particolare dei diritti dei cittadini
dell'Unione stessa; questa tutela è stata garantita nei confronti delle istituzioni
dell'Unione attraverso il riconoscimento del diritto dei privati di ricorrere
contro ogni atto produttivo di effetti giuridici nei loro confronti, quale che sia
l'organo comunitario che lo ha adottato o la veste formale che esso assume; ed
inoltre è stata garantita ai privati anche nei confronti degli stati membri e
perfino nei confronti dello stato nazionale, con la conseguenza che a tali
soggetti è stato reso possibile invocare i diritti fondati su quelle norme anche
direttamente nei giudizi interni; in questo modo, grazie anche alla
collaborazione che la corte è riuscita a sviluppare con i giudici nazionali, Il
sistema dell'Unione ha potuto acquisire maggiore concretezza ed effettività
negli ordinamenti degli Stati membri, e quindi vivere ed incidere in essi.
Grazie alla sua autorità di interprete supremo del diritto dell'Unione e di garante del
rispetto di tale diritto e della sua applicazione negli Stati membri, la corte ha potuto
fin dall'inizio esercitare un ruolo determinante non solo per assicurare lo sviluppo
complessivo del sistema comunitario, ma anche per conformare tale sistema in
coerenza con le finalità perseguite dalle comunità prima e dall'unione dopo. La Corte
non poteva non ispirarsi a un intento ben preciso, ossia quello di valorizzare il
processo di integrazione. La Corte si è conformata alla propria missione, rispettando
e valorizzando gli obiettivi del processo di integrazione quali sono proclamati in quei
trattati dei quali proprio la corte è chiamata ad assicurare l'osservanza.
i giudici e gli Avvocati generali sono nominati per 6 anni dai governi degli stati
membri, di comune accordo, tra personalità che offrano tutte le garanzie di
indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste per l'esercizio, nei rispettivi
paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali o che siano giureconsulti di notoria
competenza; dalla prassi del comitato emerge particolare attenzione alla
trasparenza delle procedure di selezione delle candidature da parte degli stati
membri prima della loro presentazione agli altri partners e al Comitato; in molti
stati membri sono previste apposite procedure, ad esempio in Italia la l. 234/2012
prevede che il presidente del consiglio dei ministri o il ministro per gli affari
europei informino le camere all’atto della proposta o della designazione da parte
del governo dei membri italiani di una serie di istituzioni dell’unione, indicando la
procedura seguita e le motivazioni della scelta. Con il Trattato di Lisbona la
nomina è stata subordinata alla previa consultazione di un comitato ad hoc
composto di 7 personalità scelte tra ex membri della corte e tra giuristi di
competenza, nominati dal Consiglio su proposta del Presidente della Corte.
La nomina interviene con un sistema di rinnovo parziale triennale che interessa a
turno 14 giudici e alternativamente 6 e 5 avvocati generali; per entrambe le
categorie il mandato può essere rinnovato (salvo per gli avvocati generali non
permanenti); il mandato può cessare sia per scadenza temporale o per cause
naturali sia a seguito di volontarie dimissioni dell'interessato o dimissioni d'ufficio
decise dalla Corte all'unanimità dei suoi membri; prima di assumere le funzioni i
membri della Corte prestano giuramento in seduta pubblica e con riguardo alla
loro indipendenza e correttezza nell'esercizio delle funzioni queste sono assicurate
da un'apposita disciplina contenuta nello statuto e nel regolamento di procedura
nonché dal codice di condotta
il presidente della Corte è eletto tra e dai soli giudici che compongono la stessa;
egli rappresenta la corte e ne presiede le riunioni generali nonché le udienze e le
deliberazioni della seduta plenaria e della grande sezione, oltre a vigilare sul
corretto funzionamento dei servizi dell'istituzione e distribuisce le cause tra i
giudici; di recente è stata introdotta la figura del Vicepresidente, che ha il compito
di coadiuvare il presidente nell'esercizio delle sue funzioni: costui viene eletto per
un mandato triennale eventualmente rinnovabile, fra e dai soli giudici. Spetta a lui
decidere circa l’adozione delle misure provvisorie e di urgenza previste dal
trattato.
ai sensi dell’art. 251 TFUE la Corte si riunisce in sezioni composte da 3 o 5
giudici; tuttavia può anche decidere di riunirsi in grande sezione (15 giudici) ed
anzi è tenuta a farlo quando lo richiedano uno stato membro o un’istituzione
dell’Ue che siano parti in causa. Si riunisce invece in assemblea plenaria nei casi
indicati dall’art. 16 dello statuto (giudizi sul comportamento dei membri di alcuni
organi dell’unione) e sentito, l’AG, ogniqualvolta reputi che un giudizio pendente
dinanzi ad essa rivesta un’importanza eccezionale.
La Corte delibera in camera di consiglio in presenza dei soli giudici membri del
collegio giudicante e sulla base dei voti espressi dalla maggioranza degli stessi; le
deliberazioni sono e restano segrete e le opinioni dissidenti o individuali dei
giudici non sono rese note.
la Corte ha sede a Lussemburgo ed è assistita da un cancelliere, da essa stessa
nominato per un periodo di 6 anni (rinnovabile) e ne fissa lo statuto
il regime linguistico della Corte è disciplinato in modo autonomo rispetto a quello
generale dell’Ue in quanto è rimesso ad una disciplina ad hoc da definire secondo
la procedura indicata dallo statuto; nell’attesa si applicano le norme dei
regolamenti della Corte e del Tribunale; viene previsto che tutte le lingue ufficiali
dell’Ue sono lingue processuali e che in linea di principio la lingua processuale
nei ricorsi diretti è quella del ricorrente mentre nelle impugnazioni e nel riesame è
quella della decisione impugnata o oggetto di riesame, nei procedimenti
pregiudiziali quella del giudice del rinvio. Deroghe a tali regole sono previste, o
possono essere concesse dal presidente della corte, per casi specifici.
-Segue: il Tribunale
La corte è affiancata dal tribunale:
il Tribunale è stato istituito con l’intento di assicurare anche nell’ambito del
sistema dell’Ue il principio del doppio grado di giudizio, ma l’allora Tribunale
di primo grado fu autorizzato a giudicare in primo grado (e quindi con riserva
di imputazione alla corte per i soli motivi di diritto) solamente le controversie
d’impiego ed i ricorsi in tema di concorrenza; tuttavia con il passare del tempo
le sue competenze sono state man mano estese (sempre in primo grado) a tutti i
ricorsi introdotti da persone fisiche o giuridiche, e poi anche ad alcuni tipi di
ricorso che coinvolgono stati membri ed istituzioni. Siffatta elencazione di
competenze non è tassativa in quanto l’art. 256 TFUE prevede che lo stesso
Statuto (senza che occorra una modifica dei trattati) possa includervi altre
categorie di ricorsi ed inoltre la competenza del tribunale può essere estesa, per
materie specifiche anche ai procedimenti in via pregiudiziale, ferma restando la
possibilità di sottoporre al riesame della corte le relative decisioni al fine di
garantire l’unica e la coerenza del diritto dell’unione;
il tribunale si caratterizza sul piano organizzativo e strutturale per essere
composto di soli giudici, essendo la nomina di avvocati generali solo eventuale
e decisa volta per volta per singole cause; il tribunale presenta una
composizione tendenzialmente variabile, nel senso che il n° dei giudici è
fissato dallo Statuto, pertanto è modificabile, ma in ogni caso deve esserci
almeno 1 giudice per ogni stato membro; al fine di far fronte al carico di lavoro
e per accelerare i tempi dei relativi processi, il Consiglio ha deciso di portare a
56 il numero dei membri del tribunale entro il 2019, ma stabilendo a partire dal
31-8-2016 la soppressione del Tribunale della funzione pubblica; per il resto lo
statuto ed il regime dei membri del tribunale è pressoché identico a quello dei
membri della Corte, anche se ai fini della loro nomina si richiede solo la
capacità per l’esercizio di alte funzioni giurisdizionali;
anche il tribunale elegge nel proprio corpo un presidente e un vicepresidente; è
organizzato in sezioni composte da 3 o 5 giudici, ma in determinati casi,
individuati dal regolamento di procedura, devono però essere decisi dalla
grande sezione o in seduta plenaria; tuttavia il Consiglio ha autorizzato il
tribunale in casi tassativamente indicati a statuire nella persona del giudice
unico.
-La procedura
La procedura davanti alla Corte e al tribunale si svolge secondo regole comuni,
eccezion fatta per le peculiarità legate alla specifica natura del rispettivo contenzioso:
la procedura (della Corte) è la seguente:
normalmente essa si articola in una fase scritta e in una fase orale; ove sia
necessaria una fase istruttoria la corte o il giudice relatore (o l’AG) possono
disporre l'esperimento di misure di organizzazione della procedura come ad
esempio la produzione di documenti o domande di chiarimenti ovvero di mezzi
istruttori quali perizie oppure assunzione di prove testimoniali. Per quanto
riguarda la fase orale (udienza pubblica) questa è simile in tutti i tipi di
ricorso e si tratta di una fase eventuale ed aperta, che si ha d'ufficio o su istanza
di parte solo qualora la corte non si ritenga sufficientemente edotta sulla base
delle memorie scritte. In una successiva udienza vengono presentate le
conclusioni dell'avvocato generale, la cui lettura segna la conclusione della
fase orale e il passaggio alla fase di deliberazione della causa;
regole procedurali specifiche sono previste per il rinvio pregiudiziale; l'atto
che introduce il rinvio pregiudiziale è costituito dalla domanda del giudice
nazionale che deve rispondere a precisi requisiti di chiarezza e completezza di
informazioni, pena la sua irricevibilità; la domanda di rinvio viene notificata a
tutti i soggetti legittimati a depositare entro 2 mesi le proprie osservazioni,
ossia le parti del giudizio a quo, gli stati membri, la Commissione nonché,
quando sono in causa atti da esse adottati, le altre istituzioni.
Viene dettata una disciplina specifica dal regolamento di procedura per quanto
riguarda l'impugnazione delle sentenze del Tribunale davanti alla Corte;
l'impugnazione è consentita alle parti principali o intervenute (stati membri ed
istituzioni possono farlo anche se non presenti nel giudizio di primo grado) nel
termine di 2 mesi a decorrere dalla data di notifica della decisione impugnata e
l'impugnazione può essere fatta per soli motivi di diritto, pertanto la Corte non
potrà riesaminare la valutazione dei fatti operata dal tribunale salvo che non si imputi
al tribunale uno snaturamento degli elementi di prova. Trattandosi di giudizio di
cassazione le parti non possono sollevare nuovi motivi e non possono riproporre le
questioni già decise dal tribunale e non per denunciarne presunti errori di diritto nella
relativa valutazione. L’accoglimento del gravame comporta l'annullamento del
provvedimento di primo grado e in questo caso la Corte può statuire definitivamente
sulla controversia qualora lo stato degli atti lo consenta o può rinviare la causa al
Tribunale, che sarà vincolato nei punti di diritto contenuti nella pronuncia della Corte
Nel caso in cui la Corte sia investita di un ricorso contro sentenze emesse dal
tribunale in sede di impugnazione di decisioni dei tribunali specializzati o in sede di
procedimenti pregiudiziali la Corte procede al solo riesame del provvedimento
impugnato; l'art. 62 Statuto ha previsto che il primo avvocato generale quando
ritiene che esista un grave rischio per l'unità o la coerenza del diritto dell'Unione
può proporre alla corte di riesaminare la decisione del tribunale; la proposta deve
essere presentata entro 1 mese a decorrere dalla pronuncia della decisione del
tribunale e la Corte decide entro 1 mese a decorrere dalla proposta che le è stata
presentata dal primo avvocato generale, sull’opportunità o meno di riesaminare la
decisione. La procedura di riesame comporta un controllo diverso e più limitato
dei normali mezzi di impugnazione infatti ha un carattere eccezionale poiché il
riesame è destinato unicamente ad assicurare che la decisione impugnata non
pregiudichi l'unità e la coerenza del diritto dell'Unione
Apposite disposizioni sono poi state dettate per le procedure relative ai pareri
consultivi richiesti alla corte circa la conclusione degli accordi dell'Unione.
-I ricorsi della Commissione nei casi di infrazioni del stati membri. I presupposti
generali
Fra le ipotesi accennate quella di maggior rilievo riguarda le azioni promosse dalla
Commissione europea contro uno stato membro per inadempimento degli
obblighi derivanti dal diritto Ue; le medesime azioni possono essere promosse
anche da un altro stato membro; questa procedura è attivata soprattutto grazie
all'iniziativa dell’esecutivo, cui spetta la funzione di controllo sul rispetto dei Trattati,
anche da parte degli stati membri, e che riceve le sollecitazioni da parte dei soggetti
privati interessati ad agire contro le eventuali infrazioni; più rari i casi in cui
l'iniziativa è assunta dagli stessi stati membri. Oggetto delle procedure in esame è
l'accertamento della sussistenza di un inadempimento da parte degli stati
membri degli obblighi derivanti dal diritto Ue; questi obblighi sono quelli
enunciati dai Trattati istitutivi nonché dagli atti vincolanti adottati dalle istituzioni e
dagli accordi internazionali da queste stipulati, nonché il rispetto dei diritti
fondamentali proclamati dalla Carta di Nizza e di quelli garantiti dalla Convenzione
di Roma sulla salvaguardia di quei diritti e di quelli risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni degli stati membri, in quanto principi generali dell'ordinamento
dell'Unione.
Non può ritenersi esclusa l'eventualità che venga in rilievo il comportamento di uno
Stato membro che, pur non contrastando con una specifica disposizione, possa
pregiudicare la funzionalità degli organi dell'unione.
La corte ha tratto dal principio di leale collaborazione deduzioni molto ampie e
rigorose per dichiarare l'incompatibilità di comportamenti degli stati e dei loro organi
che non contrastavano direttamente con specifiche disposizioni e tuttavia si
prestavano ad indebolire l'efficacia del diritto dell'Unione e la realizzazione delle
finalità comuni.
La responsabilità per l’inadempimento incombe allo stato nella sua unità e
complessità; l’inadempimento può concretizzarsi tanto in un’azione quanto in
un’omissione: per quanto riguarda le omissioni in particolare si tratta dei casi che
concernono la mancata trasposizione delle direttive comunitarie o anche l’omessa
comunicazione alla Commissione delle misure adottate ai fini della trasposizione
(come pure le ipotesi in cui quest'ultima sia tardiva o non corretta).
La responsabilità che incombe allo stato ha carattere assoluto ed oggettivo, infatti non
rilevano l'eventuale insussistenza di una colpa dello stato agente e nemmeno la natura
o la gravità dell'inadempimento, né l’assenza di un pregiudizio da questo provocato;
lo stato può sottrarsi a siffatta responsabilità solo in caso di difficoltà insormontabili
provocate da cause di forza maggiore e per il periodo strettamente necessario ad
un'amministrazione dirigente che possa porvi rimedio; lo stato non può invocare
norme e prassi del proprio ordinamento interno o circostanze o difficoltà che si
verifichino in quell’ordinamento per giustificare un eventuale inadempimento e
nemmeno può farlo invocando un’eventuale infrazione compiuta da un altro stato
membro al quale abbia reagito con misure unilaterali e incompatibili, poiché
l'ordinamento dell'Ue esclude ogni forma di reciprocità o di ritorsione, avendo per
l'appunto apprestato apposite procedure per reagire in via istituzionale in simili
ipotesi. E lo stesso dicasi ove lo Stato intendesse reagire unilateralmente al
comportamento illegittimo di un’istituzione, visto che anche per questi casi
sussistono specifici rimedi giurisdizionali. Nell'ordinamento dell'Unione gli stati non
possono farsi giustizia da sé.
Perché si possa escludere l'inadempimento occorre che il rispetto degli obblighi a
questi incombenti sia assicurato dagli stati in termini di effettività, pertanto per
adempiere ad esempio all'obbligo di trasposizione di una direttiva non occorre
necessariamente adottare una legge ad hoc se i principi o il contesto giuridico
generale dell'ordinamento assicurano comunque la conformità dell'ordinamento alle
disposizioni della direttiva ma occorre che questo risulti in modo sufficientemente
chiaro e preciso e che i titolari dei diritti conferiti dalla normativa europea siano
messi in grado di conoscere pienamente i loro diritti; una prassi amministrativa che si
ponga in contrasto con le esigenze del diritto dell'Unione può essere di per sé idonea
a costituire un inadempimento, anche se la legislazione dello Stato sia formalmente
conforme alle pertinenti norme dell'unione. Disposizioni legislative, regolamentari o
amministrative nazionali non vanno valutate solo per sé, ma tenendo conto anche
della prassi di applicazione delle stesse, come pure dell’interpretazione che ne danno
i giudici nazionali. Un filone giurisprudenziale può giustificare una procedura di
infrazione a carico dello Stato ove ad esso consegua l'applicazione di una norma
interna in termini incompatibili con il diritto dell'unione. Ciò in ragione non già
dell'errata prassi giurisprudenziale, ma per la permanenza nell'ordinamento interno
della normativa su cui tale prassi si fonda e quindi per responsabilità non già del
giudice, ma del legislatore.
Oltre che la sostanza del risultato si deve anche guardare alla chiarezza delle
situazioni; di regola una normativa nazionale in contrasto con il diritto dell'Ue non
solo non deve essere applicata ma va anche formalmente rimossa perché non si
possono tollerare situazioni di incertezza e ambiguità che rischiano di compromettere
la piena osservanza di quel diritto. Uno stato non può difendere una disciplina
nazionale confliggente limitandosi ad invocare l'esistenza di indirizzi
giurisprudenziali conformi al diritto dell'Unione o prassi amministrative che, di fatto,
ne assicurerebbe ugualmente il rispetto. L’inadempimento può essere contestato
anche se è parziale, purché però sia attuale, ossia deve sussistere nel momento in
cui è contestato perciò non rileva che lo stato in un momento successivo vi ponga
fine; la Corte ha ritenuto irrilevante il fatto che nelle more del giudizio lo stato
accusato di inadempimento abbia posto termine a questo in quanto permane
l'interesse delle istituzioni dell'Unione a vedere accertato in diritto se sia stata
effettivamente commessa una violazione del Trattato. Senza contare che tale
accertamento giudiziale può costituire il fondamento dell’eventuale responsabilità
dello Stato membro nei confronti di altri soggetti.
-La procedura di infrazione: la fase precontenziosa
Il trattato definisce una disciplina dettagliata delle varie fasi della procedura di
accertamento della violazione commessa dagli stati membri; in particolare la
procedura di infrazione si articola in 2 passaggi:
una fase precontenziosa che è interamente nelle mani della Commissione, la
quale può contestare l'inadempimento prima direttamente allo stato membro e
poi ricorrendo alla corte in caso di persistenza dell'infrazione
una fase di natura giudiziaria nella quale spetterà alla corte accertare
l'effettiva sussistenza dell'illecito e pronunciarsi sul comportamento dello stato
ed eventualmente imporgli delle sanzioni
I: I RICORSI DI ANNULLAMENTO
-Premessa
Trova rilievo l'art. 263 TFUE, che costituisce la disposizione centrale della materia ed
è oggetto di ampia elaborazione dottrinale e giurisprudenziale; questa disposizione
attribuisce agli stati membri e alle istituzioni dell'Unione e ai soggetti privati il diritto
di ricorrere alla corte per motivi di legittimità contro gli atti delle istituzioni
medesime al fine di chiederne l’annullamento.
-La legittimazione passiva
Oggetto del giudizio sono i comportamenti delle istituzioni, in quanto solo queste
ultime possono essere convenute davanti al giudice dell'Unione, mentre non
possono esserlo le autorità nazionali; si deve osservare che sul fronte delle
istituzioni la disciplina dei trattati ha subito un’evoluzione: mentre in passato la
legittimazione passiva era limitata al Consiglio e alla Commissione oggi la
legittimazione passiva è stata ampliata sia per quanto riguarda l'evoluzione che ha
subito l'articolazione dei poteri all'interno dell'Unione sia per gli indirizzi
giurisprudenziali volti ad assicurare la più ampia tutela giurisdizionale dei soggetti a
fronte dell'azione comunitaria. Per questi motivi sono stati sottoposti al controllo
della Corte anche gli atti emanati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal
Consiglio con la procedura legislativa e quelli autonomamente adottati dal Consiglio,
dalla commissione o dalla Banca centrale europea, nonché gli atti del Parlamento
europeo e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei
terzi.
Perfino l’elencazione che precede non poteva ritenersi esaustiva, la Corte aveva col
tempo precisato che anche gli altri provenienti da altri organismi dell'Unione possono
essere impugnati, se suscettibili di produrre effetti giuridici in capo al ricorrente. Il
Trattato di Lisbona ha ora esteso esplicitamente la legittimazione passiva al consiglio
europeo, nonché a tutti gli organi ed organismi dell'unione, inclusa la stessa Corte
quando non opera in sede giurisdizionale.
La prassi della Corte ha privilegiato una valutazione dei vari vizi alla luce dei
caratteri propri del sistema dell'Unione, limitandosi a un richiamo solo indiretto ed
implicito ai diritti nazionali ed evitando ogni tentativo di selezione e confronto tra gli
stessi. La Corte sembra avere eliminato la necessità di tali riferimenti, perché ha
evitato di procedere ad una diretta e completa definizione di quei motivi di ricorso,
risolvendo con pronunce di specie le questioni ad essa prospettate. E’ anche vero che
i vari motivi di ricorso determinano sostanzialmente le medesime conseguenze ai fini
dell'annullamento di un atto.
L’art. 230 Tce imponeva un limite per quanto riguarda l'individuazione degli atti
impugnabili, infatti la disposizione conferiva ai privati un'ampia tutela giurisdizionale
solo contro quegli atti aventi natura di decisioni mentre invece la tutela appariva
limitata per quanto riguarda l'impugnazione dei regolamenti ed è del tutto assente
rispetto alle direttive e anche alle raccomandazioni e ai pareri; a riguardo si
sottolineava il carattere quasi legislativo dei regolamenti pertanto la riluttanza ad
ammettere ricorsi dei privati volti all'annullamento di questi atti; tuttavia anche
rispetto agli atti impugnabili il ricorso era ammesso solo se il soggetto ne fosse
direttamente ed individualmente colpito. Con l'intervento della giurisprudenza della
Corte di giustizia si può affermare che un atto è riferibile individualmente ad un
soggetto quando lo riguarda come singolo perciò chi non sia destinatario di una
decisione può sostenere che questa lo riguarda individualmente solo quando il
provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali o di particolari
circostanze volte a distinguerlo dalla generalità; occorre che la posizione del
ricorrente sia specificamente qualificata; invece un atto riguarda direttamente il
ricorrente quando i suoi effetti in capo a quest'ultimo si realizzano in conseguenza
diretta dell'emanazione dell'atto stesso, pertanto indipendentemente dall'intervento di
altri soggetti o di altri provvedimenti.
Maggiori difficoltà si riscontrano nelle ipotesi di ricorso contro le decisioni aventi un
destinatario diverso dal ricorrente, in particolare uno stato membro. La corte ha
precisato che in questi casi un atto dell'Unione rivolto ad uno Stato membro può
colpire direttamente un soggetto di diritto interno quando alcun ulteriore intervento
dello Stato è necessario perché l’atto produca i suoi effetti in capo al ricorrente. Il che
può verificarsi quando l'atto impugnato imponga obblighi di non fare ovvero anche
obblighi di fare, senza però nulla concedere alla discrezionalità dello stato.
Le limitazioni poste ai ricorsi dei privati hanno scatenato un dibattito nella dottrina e
nella giurisprudenza per poi trovare ulteriore alimento con l'approvazione della Carta
dei diritti fondamentali ove all'art. 47 si prevede il diritto a un ricorso effettivo e
questa disposizione sembra prestarsi a fornire altri argomenti ai critici di questo
sistema anche se la vigenza di un simile principio nell'ordinamento dell'Unione era
stata da tempo affermato dalla stessa giurisprudenza della Corte.
Secondo la nuova disciplina una persona fisica o giuridica può ora proporre un
ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e
individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che
non comportano alcuna misura di esecuzione.
Oggi l’art. 263 comma 4 TFUE abbandona il sistema dell'indicazione limitativa degli
atti tipici impugnabili allargandone la gamma al di là delle decisioni e dei
regolamenti; questi atti però sono impugnabili solo se presi nei confronti del
ricorrente o se lo riguardino direttamente ed individualmente a qualsiasi titolo;
l'innovazione più importante è quella che riguarda i ricorsi contro gli atti
regolamentari in quanto per impugnare questi atti si esige solamente che quest'atto
riguardi direttamente il ricorrente e che non comporti misure di esecuzione; se sono
previste misure di esecuzione il soggetto privato potrà tutelarsi impugnandole
direttamente, secondo che esse competano all'unione o agli stati membri, innanzi ai
giudici dell'una o degli altri, e per questa via potrà mettere in causa anche l’atto
regolamentare: nel primo caso attraverso l’eccezione di illegalità ex art. 277 TFUE,
mentre nel secondo caso sollecitando il giudice nazionale a sottoporne la validità alla
corte della giustizia attraverso la procedura pregiudiziale; se invece non occorrono
misure di esecuzione il ricorrente non dovrà più dimostrare anche di esserne stato
colpito in modo individuale.
Tuttavia non è chiaro se tra gli atti regolamentari rientrino tutti gli atti di portata
generale o debbano ritenersi esclusi quelli che i trattati identificano come atti
legislativi; la questione è stata sottoposta ai giudici dell'Unione ed è stata risolta
ritenendo che nell'ambito degli atti dell'Unione che possono formare oggetto di un
controllo di legittimità l'art. 263 comma 1 TFUE menziona separatamente gli atti
legislativi e gli atti oggetto di quel controllo e a sua volta il comma 4 delinea gli atti
regolamentari come una categoria più ristretta rispetto a quella degli atti a portata
generale, pertanto se ne deduce che la nozione di atto regolamentare deve essere
interpretata nel senso che include qualsiasi atto di portata generale fatta eccezione per
gli atti legislativi.
Quanto poi alla questione consistente nel verificare se l'atto regolamentare impugnato
comporti o meno misure di esecuzione ai sensi di tale disposizione, la corte ha avuto
di recente occasione di precisare che a tal fine occorre fare riferimento unicamente
alla posizione del soggetto ricorrente e quindi all'incidenza della misura nei confronti
di quest'ultimo, a nulla rilevando che esso possa comportare misure nei confronti di
altri soggetti.
In conclusione si può evincere che per valutare la ricevibilità di un ricorso di una
persona fisica e giuridica contro un atto dell'Unione che non sia stato adottato nei
suoi confronti la Corte deve accertare se si è in presenza di un atto regolamentare: nel
caso in cui si sia invece in presenza di atto legislativo o di atto a portata individuale il
ricorrente dovrà dimostrare di essere stato colpito dall'atto direttamente ed
individualmente mentre invece se ci si trova di fronte a un atto regolamentare la
Corte deve ulteriormente verificare se l'atto si indirizza direttamente al ricorrente e
non comporta misure di esecuzione. Se così è, il ricorso sarà ricevibile; se invece
quelle misure sono previste e riguardano il ricorrente, questi, ove non voglia o non
possa impugnare tali misure, potrà attaccare direttamente l’atto regolamentare solo se
dimostra di esserne stato colpito non solo direttamente, ma anche individualmente.
Legittimate a proporre ricorso sono le persone fisiche o giuridiche nonché gli stati
membri mentre invece si deve escludere che questa azione possa essere promossa
dalle stesse istituzioni dell'Unione in virtù del rapporto di immedesimazione le une e
l’altra; per quanto riguarda la legittimazione passiva questa spetta a tutte le
istituzioni e organi cui possa essere imputato il comportamento illecito che ha
provocato il danno e sarà ciascuna di queste a rispondere e a stare in giudizio in
questi casi (perlomeno dinanzi al giudice dell'unione, ferma restando la regola
secondo la quale, in giudizi promossi di fronte a giudici di stati membri o di stati
terzi, l'unione è rappresentata dalla Commissione) e questo anche quando l'azione è
promossa per i danni cagionati dagli agenti delle istituzioni nell'esercizio delle loro
funzioni, poiché in questo caso starà in giudizio l'istituzione di appartenenza
dell’agente. Con l'avvertenza che in una simile eventualità intanto sussiste la
responsabilità dell'istituzione in quanto vi sia nella specie un rapporto di lavoro ed il
comportamento illecito sia stato posto in essere dall’agente nell'esercizio delle sue
funzioni, e restando comunque inteso che, in caso di condanna, l'iscrizione potrà
rivalersi nei confronti dell’agente.
Legittimati ad operare il rinvio pregiudiziale sono gli organi giurisdizionali degli stati
membri di ogni ordine e grado; a riguardo la Corte ha elaborato una definizione
comunitaria della nozione di organo giurisdizionale riconducendovi tutti gli organi
che presentino una serie di requisiti che sono i seguenti:
origine legale dell'organo
carattere permanente dell'organo
obbligatorietà della sua giurisdizione
natura contraddittoria del procedimento
il fatto che l'organo applichi norme giuridiche e non si pronunci secondo equità
imparzialità e indipendenza dell’organo
carattere giurisdizionale della pronuncia
Per quanto riguarda gli effetti delle sentenze della Corte le sentenze sono
obbligatorie per il giudice a quo, che non può discostarsene neppure se decidesse di
operare un nuovo rinvio per chiedere ulteriori chiarimenti sulla questione; per il resto
si deve distinguere a seconda che la corte si sia pronunciata su questioni di
interpretazione di norme dell'Unione o di validità degli atti delle istituzioni:
se la Corte si è pronunciata su questioni di interpretazione di norme dell'Unione la
decisione, pur essendo dichiarativa, produce effetti obbligatori per il giudice di
rinvio, pertanto se costui decide di fare applicazione nel caso di specie della
disposizione di diritto Ue di cui ha chiesto l'interpretazione deve attenersi alla
pronuncia della Corte; tuttavia il principio di diritto contenuto nella decisione non
vincola solo il giudice del rinvio ma si impone con effetti erga omnes poiché
l'interpretazione di una norma di diritto comunitario fornita dalla corte chiarisce e
precisa il significato e la portata della norma stessa come deve essere intesa ed
applicata già dal momento della sua entrata in vigore; in particolare nel caso che dalla
decisione risulti l'incompatibilità di una legislazione nazionale con il diritto
dell'Unione lo stato membro ha gli stessi obblighi di quelli previsti dalla procedura di
infrazione pertanto deve adottare tutte le misure necessarie a conformare il proprio
ordinamento alla decisione, nonché all’occorrenza, a risarcire gli eventuali danni.
Se la Corte si è pronunciata sulla validità di un atto dell’Unione si deve distinguere a
seconda che la Corte abbia o meno concluso per la validità dell'atto:
§ nel caso concluda per la validità dell'atto l'efficacia della sentenza sarà limitata alla
controversia dedotta nel giudizio a quo, fatta salva la facoltà per i giudici nazionali di
riproporre la medesima questione di validità
§ nel caso concluda per l’invalidità dell’atto la sentenza della Corte produce gli stessi
effetti previsti dal giudizio di annullamento (atto nullo e non avvenuto), in quanto
costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto
non valido ai fini di una decisione che esso debba emettere; le autorità nazionali sono
obbligate a non applicare l’atto dichiarato invalido; ed inoltre perché le istituzioni Ue
sono tenute ad adottare tutti i provvedimenti che la statuizione contenuta nella
sentenza comporta. Tuttavia la Corte ha ritenuto all’occorrenza di poter limitare in
tutto/in parte gli effetti nel tempo facendo applicazione del potere previsto per le
sentenze di annullamento di un atto.
Fermo restando che la retroattività è la regola, mentre la limitazione degli effetti nel
tempo può essere solo eccezionale, una siffatta limitazione è stata posta dalla corte
anche agli effetti delle proprie pronunce interpretative. La corte può limitare l'effetto
retroattivo, consentendo così agli interessati di far valere la disposizione come da essa
interpretata al fine di mettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede.
Ciò però a patto che ricorrano alcune precise condizioni, ed in particolare che la
decisione pregiudiziale implichi il rischio di gravi ripercussioni economiche e che i
soggetti interessati siano stati indotti ai comportamenti difformi da una obiettiva e
rilevante incertezza circa l'interpretazione della norma in causa. La limitazione degli
effetti deve far salvi i diritti dei soggetti che abbiano già proposto un'azione
giudiziaria o un reclamo equivalente prima della sentenza.
E ampio è anche l'ambito oggettivo della giurisdizione della corte, perché essa può
giudicare non solo dei ricorsi per l'annullamento di un atto delle AIPN o per
l’illegittima carenza delle stesse, ma anche delle azioni per i danni da essere
eventualmente procurati, e può essere investita di tutti gli aspetti attinenti al rapporto
di impiego.
-La questione del riesame delle sentenze e delle decisioni nazionali definitive
Ampio dibattito ha stimolato l'orientamento della Corte relativo all'incidenza del
diritto dell'Ue sugli atti nazionali definitivi, sia di natura amministrativa sia di
natura giudiziaria--> in una serie di sentenze la Corte aveva stabilito che i principi
generali del diritto dell'Unione e in particolare il principio di leale cooperazione a
determinate condizioni impongono di riesaminare una decisione nazionale definitiva
che si rivela contraria al diritto dell'Unione a seguito di una pronuncia successiva
della Corte, pertanto si era dedotto che questo orientamento giurisprudenziale
implicasse un superamento dei principi di intangibilità delle decisioni divenute
definitive alla scadenza dei termini del ricorso o in seguito all'esaurimento dei rimedi
giurisdizionali interni.
Si deve osservare quanto segue:
o per quanto riguarda gli atti amministrativi si deve sottolineare che tra le condizioni a
cui la Corte subordinava l'obbligo di riesame di questi atti era importante il fatto che
l'organo nazionale adito disponesse del potere di revisione di una decisione definitiva
per violazione di una norma di diritto: se così è il diritto dell'Unione deve anche lui
beneficiare dei medesimi strumenti procedurali applicabili in circostanze analoghe a
controversie di natura puramente interna (principio di equivalenza)
o quanto detto sopra vale anche per quanto riguarda il principio dell'intangibilità del
giudicato interno e dell'autorità della cosa giudicata; va ricordato che la Corte
sottolinea l'importanza che questo principio riveste sia nell'ordinamento dell'Ue sia
negli ordinamenti nazionali ribadendo che il diritto dell'Unione non impone a un
giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza
di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di
porre rimedio a una situazione nazionale che contrasta con il diritto europeo; tuttavia
la Corte ha precisato che la competenza degli stati membri a disciplinare le modalità
di attuazione del giudicato interno e resta pur sempre vincolata ai principi di
equivalenza e di effettività; di conseguenza a fronte di una sentenza italiana che era
passata in giudicato e aveva avallato un’alterazione dei principi sulla ripartizione
delle competenze tra stati membri e Unione in materia di aiuti di stato, la Corte ha
rimesso in questione la sentenza affermando che il diritto dell'Unione osta
all'applicazione di una disposizione nazionale che mira a consacrare il principio
della intangibilità del giudicato qualora questo impedisca il recupero di un aiuto di
stato concesso in violazione del diritto dell'Unione e dichiarato incompatibile da una
decisione della Commissione. A fronte della pretesa di estendere la portata di quella
stessa sentenza in nome della teoria del giudicato esterno (l'estensione del principio
affermato dalla sentenza a tutti i casi che vertano sul medesimo principio) la Corte ha
ritenuto che una simile conclusione sarebbe stata suscettibile di pregiudicare in modo
irrimediabile il rispetto del diritto dell'Unione in quanto l’automatica ed illimitata
estensione della portata di quella sentenza avrebbe impedito di rimettere in questione
sia le situazioni eventualmente contrarie al diritto dell'Unione direttamente coperte da
giudicato sia tutte le altre ugualmente contrarie a questo diritto, perpetuando così
l'applicazione scorretta delle regole europee.
-Gli obiettivi
I trattati non lasciano all'Unione la libertà di definire i propri obiettivi ma sono loro
stessi a elencarli e delimitarli (Principio delle competenze di attribuzione); questo è
quanto prevede l'art. 3 TUE che ha sostituito analoghe disposizioni dei testi
precedenti all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in particolare ha abbandonato
la struttura a pilastri in favore di una struttura formalmente unitaria: infatti la norma
enuncia tutti gli obiettivi dell'Unione, anche se poi a svolgerli e a specificarli
provvedono le disposizioni del Trattato sull'Unione europea e anche quelle del TFUE.
Pertanto c'è una vasta gamma di obiettivi che restano eterogenei, anche se questi
devono essere perseguiti con coerenza ma che oggi vengono elencati in termini meno
approssimativi e disordinati rispetto al passato e in ogni caso sono più ampi di quelli
meramente economici che caratterizzavano le Comunità europee; tuttavia non è
fissata alcuna gerarchia tra questi obiettivi anche se non è sempre facile conciliarli; a
riguardo spetta al legislatore europeo e alla Corte di Giustizia trovare l'appropriato
equilibrio.
Gli obiettivi sanciti all’art. 3 TUE riguardano:
la promozione della pace, dei valori dell'Unione e del benessere dei suoi
popoli
la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere
interne, in cui venga assicurata la libera circolazione delle persone e
l'adozione di misure appropriate in relazione ai controlli alle frontiere
esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta
contro quest'ultima
l'instaurazione di un mercato interno nel quale sia assicurato uno sviluppo
sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità
dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva che
mira alla piena occupazione e al progresso sociale e su un elevato livello di
tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente, senza dimenticare la
promozione del progresso scientifico e tecnologico; in questo contesto l'Ue
deve poi combattere le esclusioni sociali e le discriminazioni nonché
promuovere la giustizia e la protezione sociali, la parità tra uomini e donne, la
solidarietà tra generazioni e la tutela dei diritti dei minori ma altresì
promuovere anche la coesione economica, sociale e territoriale nonché la
solidarietà tra gli stati membri oltre che rispettare la ricchezza della sua
diversità culturale e linguistica e vigilare sulla salvaguardia e sullo sviluppo del
patrimonio culturale europeo
l'istituzione di un’unione economica e monetaria che abbia come moneta
unica l'euro
nelle relazioni internazionali, l'affermazione e la promozione dei propri
valori e interessi, contribuendo alla protezione dei cittadini europei anche
al di fuori dei suoi confini
L'unione contribuisce a promuovere e garantire la pace e la sicurezza internazionale,
come tutti gli altri principi ormai sempre più diffusi nell'ordinamento internazionale,
così come garantisce l'osservanza e lo sviluppo del diritto internazionale, a
cominciare dalla carta delle Nazioni unite.
L’enunciazione di questi obiettivi non implica che l'unione sia libera di adottare
qualsiasi misura al fine di perseguirli in quanto è nelle disposizioni materiali dei
trattati che andranno di volta in volta ricercate le coordinate degli effettivi poteri di
cui le istituzioni dispongono per il perseguimento concreto di questi obiettivi.
Al tempo stesso quella enunciazione assume rilievo per quanto attiene alla verifica
della competenza delle istituzioni europee, perché queste possono agire solo ai fini
del perseguimento di detti obiettivi, così come è solo a questi fini che si può fare
ricorso alla clausola di flessibilità. La specifica indicazione degli obiettivi dell'Unione
non può far nascere in capo ai singoli un diritto alla loro realizzazione, direttamente
invocabile dinanzi ad un giudice nazionale. Così come essa non si presta a produrre,
di per sé obblighi giuridici a carico degli Stati membri, anche se può costituire un
limite alla loro azione, dal momento che detti stati sono obbligati ad astenersi da
qualsiasi misura che possa mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi
dell'unione.
L'elenco dei diritti del cittadino dell'Ue è poi completato da alcuni diritti che
presentano la caratteristica comune di operare nei confronti della stessa Ue e
non degli stati membri e dall'altro lato di essere non esclusivi del cittadino
dell'Ue ma condivisi con qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia
la sede sociale in uno stato membro; si tratta del diritto di petizione al
Parlamento europeo e di denuncia al Mediatore europeo nonché del diritto
di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle
lingue ufficiali dell'Unione e di vedersi rispondere in quella lingua:
§ il diritto di petizione e di denuncia al Mediatore europeo rappresentano strumenti di
tutela non giudiziaria del cittadino dell'Unione in quanto attraverso il diritto di
petizione il cittadino può sottoporre al Parlamento europeo una questione che rientri
nel campo di attività dell'Unione e che lo riguardi direttamente; invece il cittadino
dell'Unione può rivolgersi al Mediatore per denunciare casi di cattiva
amministrazione nell'azione delle istituzioni, degli organi e degli organismi
dell'Unione (con l'esclusione della Corte di Giustizia nell'esercizio delle sue funzioni
giurisdizionali) e il mediatore potrà quindi avviare un'indagine.
§ il diritto di scrivere alle istituzioni e agli organismi consultivi dell’unione e al
mediatore in una delle lingue ufficiali ricevendone la risposta nella stessa lingua è
volto a favorire un senso di prossimità delle istituzioni al cittadino, facendo del
diritto all'uso della propria lingua nei rapporti con le istituzioni un diritto
costituzionalmente garantito.
Al di fuori di questi casi, per le situazioni cioè pur simili o addirittura identiche, ma
che si risolvono interamente all'interno di un solo stato, le cosiddette situazioni
puramente interne, le disposizioni liberalizzatrici del trattato non possono essere
invocate dagli interessati e restano invece di applicazione le normative nazionali.
La libera circolazione delle merci comprende 2 aspetti, uno interno ed uno esterno:
il fronte interno della liberalizzazione in esame è rappresentato dal divieto dei dazi
doganali alle importazioni e alle esportazioni e delle misure di effetto ad essi
equivalente gravanti sui prodotti che provengono dagli altri stati membri e questo
divieto si applica ai prodotti originari degli stati membri e ai prodotti che provengono
da paesi terzi che si trovano in libera pratica negli stati membri;
quanto al fronte esterno, il trattato prevede l'adozione di una tariffa doganale
comune (TDC) nei rapporti con i paesi terzi, al fine di realizzare la parificazione degli
oneri doganali che gravano sulle merci importate nell'Unione da paesi terzi e quindi
evitare sviamenti di traffico nei rapporti con questi paesi ed evitare altresì distorsioni
nella libera circolazione interna dei prodotti o nella concorrenza tra gli stessi. Una
volta adottata la tariffa doganale comune, gli stati membri non possono più istituire e
mantenere in vigore unilateralmente dazi o tasse di effetto equivalente per i prodotti
importati dai paesi terzi.
Al divieto dei dazi doganali gli artt. 34-36 TFUE affiancano il divieto delle
restrizioni quantitative all'esportazione o all'importazione e di qualsiasi misura di
effetto ad esse equivalente; le misure che formano oggetto di questo divieto sono di
difficile definizione, e ciò non tanto per quanto riguarda la nozione di restrizioni
quantitative, cioè delle restrizioni che incidono sulla libertà di importare o esportare
un prodotto o una determinata quantità dello stesso, quanto per l'adozione di misure
di effetto equivalente alle restrizioni quantitative, che costituiscono ostacoli per così
dire occulti agli scambi comunitari, e quindi sono di più difficile individuazione.
Queste misure restrittive secondo la Corte includono ogni normativa commerciale
degli stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente gli scambi
intracomunitari e a riguardo si distingue tra misure distintamente applicabili, nel
senso che si applicano ai soli prodotti importati e sono rigorosamente vietate in
quanto producono effetti restrittivi direttamente discriminatori ai danni dei prodotti
non nazionali, e misure indistintamente applicabili, in apparenza neutrali, in quanto
sono destinate ad applicarsi allo stesso modo sia ai prodotti nazionali sia ai prodotti
esteri, ma in realtà finiscono con l'essere più pregiudizievoli per i prodotti esteri che
per i prodotti nazionali.
La legittimità di queste restrizioni e le relative condizioni sono controverse ma a
riguardo un contributo viene da parte della giurisprudenza della Corte di giustizia, la
quale ritiene che i prodotti legittimamente fabbricati e commercializzati in uno stato
membro devono poter liberamente circolare negli altri stati membri, ma alcune
restrizioni restano possibili se giustificate da esigenze imperative (che la
giurisprudenza della Corte ha via via definito), a condizione che queste al tempo
stesso siano necessarie ed idonee ai fini del perseguimento dello scopo che è stato
loro assegnato e se non sia possibile conseguire lo stesso risultato con misure meno
restrittive.
La Corte svolge un esame al fine di verificare la compatibilità comunitaria delle
misure in parola. Dopo aver accertato che non vi sia in materia un’armonizzazione
normativa a livello europeo, essa verifica se la misura controversa, ancorché
indistintamente applicabili, produca effetti restrittivi. Se così è, la corte passa allora a
controllare l'eventuale sussistenza di una delle giustificazioni sopra richiamate, e
finalmente, se conclude in senso positivo, essa valuta la conformità di tali
giustificazioni ai criteri di necessarietà, adeguatezza e proporzionalità.
La disciplina relativa alla libertà di circolazione delle merci prevede all'art. 37 TFUE
l'obbligo per gli stati membri di riordinare i propri monopoli commerciali in
modo da escludere qualsiasi discriminazione tra i cittadini degli stati membri
per quanto riguarda le condizioni relative all'approvvigionamento e allo sbocco
dei prodotti, nonché di adottare nuove misure di segno contrario a questo obiettivo.
La libera circolazione delle merci sarebbe ostacolata se non si garantisse in uno Stato
membro in cui esista un monopolio commerciale la libera circolazione, in
provenienza da altri Stati membri, di merci simili a quelle per cui vige il monopolio.
Il Trattato non chiede la soppressione dei monopoli, ma solo il loro riassetto in
funzione delle esigenze dell'instaurazione e del funzionamento del mercato comune.
a) La politica agricola comune dell'Ue (PAC) ha fin dalle origini perseguito la finalità
di assicurare l'autosufficienza alimentare in Europa ed il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro della popolazione contadina, perseguendo a tal fine gli
obiettivi elencati nell'art. 39, par. 1, TFUE. Per realizzare questi obiettivi l'art. 40
TFUE abilita il legislatore europeo ad istituire delle organizzazioni comuni di
mercato, che possono assumere forme diverse a seconda della specificità del settore
o del prodotto considerato e secondo l'apprezzamento dello stesso legislatore: nella
prassi si è operato con la sostituzione delle organizzazioni nazionali di mercato con
un’organizzazione unica a livello europeo, con cui si indica un insieme di norme e
meccanismi volti a garantire la regolazione del mercato di un prodotto o di un gruppo
di prodotti con un sistema di prezzi garantiti all'interno per i prodotti dell'Unione e di
barriere daziarie all'esterno per consentire alle produzioni degli Stati membri di
mantenere adeguati livelli di redditività. È stato definito nel 2007 un regolamento
unico delle organizzazioni comuni di mercato per tutti o quasi i prodotti agricoli. Per
realizzare gli obiettivi delle organizzazioni comuni di mercato l'art. 40, par. 3, TFUE
autorizza anche la creazione di uno o più fondi agricoli di orientamento e di garanzia
per organizzare il finanziamento degli interventi in agricoltura; a tal fine è stato
istituito il Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia che è articolato in 2
sezioni, destinate a finanziare le spese legate al funzionamento delle organizzazioni
comuni di mercato e le spese relative alle strutture agricole: oggi questo fondo è stato
sostituito dai fondi strutturali, quali il Fondo europeo agricolo di garanzia e il
Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale.
b) Per quanto riguarda la pesca la formazione di una politica ad hoc separata da quella
generale dell'agricoltura è avvenuta solo con il Trattato di Lisbona, che ha dichiarato
che la conservazione delle risorse biologiche marine nell'ambito di questa politica è
materia di competenza esclusiva dell'Unione e altresì evocando la pesca all'art. 38,
par. 1, TFUE; inoltre è stata istituita un’apposita organizzazione comune di mercato
dei prodotti della pesca unitamente con un Fondo europeo per gli affari marittimi e
la pesca al fine di sostenere gli interventi strutturali nel settore. Netta specificità
presenta la disciplina della conservazione e gestione delle risorse alieutiche che è
regolata da un regolamento del 2013 che organizza lo sfruttamento delle risorse in
parola, nel rispetto del principio di non discriminazione nell'accesso alle acque e alle
risorse, che viene garantito nelle acque comunitarie a tutte le flotte pescherecce degli
stati membri, salvo che per la fascia costiera, per la quale sono ammesse alcune
limitazioni.
Per quanto riguarda il filone dello spazio di libertà questo si articola su 3 assi che
sono relativi al controllo alle frontiere, all'asilo e all'immigrazione, ciascuno oggetto
di specifica e separata normativa:
con riguardo ai controlli alle frontiere, l'art. 77 TFUE abilita il
legislatore europeo ad adottare le misure necessarie per: 1) garantire
l’abolizione dei controlli sulle persone (quale che ne sia la nazionalità)
all’atto dell’attraversamento delle frontiere tra i territori degli stati
membri (frontiere interne); 2) assicurare l’efficace sorveglianza
sull’attraversamento delle frontiere esterne e la progressiva istituzione di
un sistema integrato di gestione delle stesse; ai controlli provvedono le
guardie di frontiera nazionali, all’occorrenza con l'assistenza e la
cooperazione degli altri Stati membri, cioè con una gestione integrata di
dette frontiere, attraverso l’Agenzia europea per la gestione della
cooperazione operativa alle frontiere esterne dell’Ue; 3) ad organizzare
il controllo delle persone, fissando le condizioni cui i cittadini dei paesi
terzi possono liberamente circolare nell’Ue per un breve periodo,
segnatamente quanto alla disciplina dei visti;
la politica generale dell'Unione rispetto all'ingresso e al soggiorno dei
cittadini degli stati terzi deve fare i conti, oltre che con l'intensificarsi
dell'immigrazione verso gli Stati membri, con gli obblighi internazionali
imposti agli stessi stati membri e all'Ue in materia di asilo, protezione
sussidiaria e protezione temporanea; l'art. 78, par. 1, TFUE impone
all'Ue di definire una politica comune volta ad offrire uno status
appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di
protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non
respingimento in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al
protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati
pertinenti; la Convenzione di Ginevra, di cui sono parti tutti gli stati
membri (ma non l’unione) infatti impone il divieto di espellere o di
respingere i rifugiati e i richiedenti asilo verso luoghi in cui la loro
vita o la loro libertà sarebbero in pericolo per motivi di razza,
religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale
o per la loro opinione politica (cd principio non refoulement). L’art.
78 TFUE abilita il legislatore europeo ad adottare tutte le misure
necessarie ad istituire un sistema europeo comune di asilo precisando
che queste misure devono includere uno status uniforme in materia di
asilo a favore di cittadini di paesi terzi che sia valido in tutta l'Unione;
nonché uno status uniforme in materia di protezione sussidiaria per i
cittadini di paesi terzi che pur non possedendo i requisiti per chiedere
l’asilo europeo, necessitano di protezione internazionale; un sistema
comune volto alla protezione temporanea degli sfollati in caso di
afflusso massiccio; procedure comuni per l'ottenimento e la perdita dello
status uniforme in materia di asilo o di protezione sussidiaria; criteri e
meccanismi di determinazione dello stato membro competente per
l'esame di una domanda d’asilo o di protezione sussidiaria; norme
concernenti le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o
protezione sussidiaria; il partenariato e la cooperazione con paesi terzi
per gestire i flussi di richiedenti asilo o protezione sussidiaria o
temporanea;
quanto all'immigrazione il trattato impone all'Ue di sviluppare una
politica comune intesa ad assicurare la gestione efficace dei flussi
migratori, l'equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano
regolarmente negli stati membri e la prevenzione nonché il contrasto
rafforzato dell'immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani; il
par. 2 definisce due assi di intervento dell’unione sia con riguardo
all'immigrazione legale sia riguardo all'immigrazione illegale: per gli
immigrati in situazione regolare è stata prevista una procedura per il
rilascio di un permesso unico di soggiorno e di lavoro nonché un insieme
comune di diritti per i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente
in uno stato membro e questi diritti sono riconosciuti in termini più
estesi per gli immigrati che soggiornano per un lungo periodo in uno
stato membro (5 anni di soggiorno legale e ininterrotto oltre al reddito
sufficiente e assicurazione malattie); per l’immigrazione clandestina e il
soggiorno irregolare, l'Unione si è dotata di norme e procedure comuni
applicabili negli stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi che si
trovino in tale situazione (direttiva rimpatri).
Per quanto riguarda lo spazio di giustizia, con esso l’Ue tende a realizzare e
rafforzare tra gli stati membri una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con
implicazioni transnazionali; questa cooperazione, che può tradursi anche
nell'adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari
degli Stati membri, si base però sul principio del riconoscimento reciproco delle
decisioni giudiziarie ed extragiudiziali di quegli stati, ossia un principio che si
fonda sulla fiducia reciproca tra gli ordinamenti degli stati stessi.
Per conseguire questo risultato l'art. 81, par. 2, TFUE attribuisce al legislatore
europeo la competenza ad adottare misure volte a garantire: il riconoscimento
reciproco tra gli stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro
esecuzione; la notificazione e la comunicazione transnazionale degli atti giudiziari ed
extragiudiziali; la compatibilità delle regole applicabili negli stati membri ai conflitti
di leggi e di giurisdizione; la cooperazione nell’assunzione dei mezzi di prova; un
accesso effettivo alla giustizia; l’eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento
dei procedimenti civili; lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle
controversie; un sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari.
Gli stati membri devono astenersi, salvo casi eccezionali, dall’alterare o falsare il
gioco competitivo mediante il conferimento di aiuti di stato ad alcune imprese o
produzioni; l'art. 107 TFUE stabilisce che sono incompatibili con il mercato interno,
nella misura in cui incidano sugli scambi tra stati membri, gli aiuti concessi dagli stati
ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o
talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza; tuttavia questo
divieto non è assoluto ed incondizionato: l’art. 107, par. 2 e 3, TFUE prevedono
deroghe allo stesso, in quanto la compatibilità degli aiuti discende in primo luogo
direttamente dal Trattato, altre rimesse in via esclusiva all'apprezzamento
discrezionale della Commissione che decide al termine di una procedura conseguente
alle notifiche che gli stati membri sono tenuti ad effettuare prima di istituire un nuovo
aiuto o di modificarne Uno esistente.
Con riguardo alla fiscalità i divieti imposti dal Trattato ai fini della liberalizzazione
della circolazione delle merci vengono completati con analoghi divieti di restringere
gli scambi intracomunitari attraverso lo strumento fiscale; si tratta di evitare che
gli stati membri utilizzino questo strumento a fini protezionistici creando illegittime
barriere alla circolazione dei prodotti che provengono da altri stati membri, falsando
la concorrenza tra gli stessi; il trattato impone il divieto agli stati di applicare ai
prodotti degli altri stati membri imposizioni interne superiori a quelle applicate ai
prodotti nazionali similari oppure intese volte a proteggere indirettamente altre
produzioni ma al contempo vieta i ristorni di quelle imposizioni a vantaggio dei
prodotti nazionali esportati in un altro stato membro.
Tuttavia questi divieti non possono compensare la diversità dei sistemi fiscali degli
stati membri e i riflessi negativi che questa diversità già di per sé comporta ai fini
della realizzazione di un autentico mercato unico. Infatti il trattato limita ma non
sopprime la sovranità nazionale in materia fiscale, di conseguenza l'esercizio della
stessa determina difformità nei relativi sistemi e quindi rischi di alterazione delle
condizioni di concorrenza del mercato unico: per superare o almeno contenere tali
rischi, il trattato detta delle previsioni volte ad assicurare una armonizzazione delle
legislazioni fiscali nazionali in materia di imposte dirette, infatti l'art. 113 TFUE
prevede l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d'affari,
alle imposte di consumo e alle imposte indirette, nella misura in cui questa
armonizzazione sia necessaria per assicurare l'instaurazione e il funzionamento del
mercato interno ed evitare distorsioni di concorrenza. Ed è in attuazione di tali
disposizioni che sono state armonizzate varie normative nazionali in materia, tra cui
quelle relative all'imposta sul valore aggiunto.
Ma nulla è previsto per l'armonizzazione legislativa relativa alle imposte dirette
(quelle che colpiscono le manifestazioni immediate della capacità contributiva del
soggetto passivo): la ricchezza posseduta (patrimonio) ovvero il frutto di una
prestazione o di un servizio (reddito). Per queste imposte l'armonizzazione potrà
realizzarsi solo attraverso lo strumento del ravvicinamento delle legislazioni e si può
constatare che sono state adottate alcune direttive di armonizzazione o
raccomandazioni.
È stata soprattutto la Corte di Giustizia ad attenuare le conseguenze negative
dell'indicata situazione e perfino a stimolare specifici interventi normativi; la quale
facendo leva sui principi generali e sulla libertà fondamentali, in particolare sul
principio della parità di trattamento e sul divieto di qualsiasi discriminazione che
possa impedire, ostacolare o rendere più oneroso l'esercizio delle libertà
fondamentali, ha colpito le legislazioni nazionali incompatibili con questi principi
censurando non solo le discriminazioni dirette, in primis quelle fondate sulla
nazionalità, ma anche le discriminazioni indirette o dissimulate, purché si tratti di
situazioni comparabili e sempre che esse non possano essere giustificate in nome di
esigenze imperative di interesse generale.
La politica sociale (ad essa è dedicato il titolo X del TFUE, cui fanno da
complemento i titoli XI e XII, rispettivamente dedicati al fondo sociale europeo e
all'istruzione, formazione professionale, gioventù e sport) dell'Ue si realizza
attraverso l'azione coordinata dell'Unione e degli stati membri, che però mantengono
un decisivo controllo in materia; questo controllo si riflette sia per quanto riguarda la
ripartizione delle competenze in campo sia per quanto riguarda le modalità del loro
esercizio, la natura e l'efficacia degli strumenti di volta in volta utilizzabili: in ogni
caso si deve tener conto non solo dell'Ue e dei governi nazionali ma anche degli enti
territoriali e anche delle parti sociali che svolgono un ruolo significativo:
si deve sottolineare che gli obiettivi della politica sociale Ue sono definiti con
particolare ampiezza in quanto comprende la promozione dell'occupazione, il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro
parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo
sociale, lo sviluppo delle risorse umane volto a consentire un livello
occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione; l'art. 153,
par. 1, TFUE per conseguire questi obiettivi elenca una serie di materie in cui
l'Unione è abilitata a sostenere e completare l'azione degli stati membri: si
tratta di materie rilevanti e varie che si sono progressivamente allargate con il
tempo e sono state interpretate in modo estensivo dalla Corte di giustizia.
Rispetto a queste materie il legislatore europeo può adottare misure per
incoraggiare la cooperazione tra gli stati membri, in particolare migliorando le
conoscenze e sviluppando lo scambio di informazioni e delle prassi nonché
adottando direttive recanti prescrizioni minime applicabili progressivamente
ma sempre tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche che
esistono in ciascuno stato membro ed evitando comunque di imporre vincoli
amministrativi, finanziari e giuridici che ostacolerebbero la creazione e lo
sviluppo delle piccole e medie imprese; inoltre queste misure non possono
compromettere la libertà degli stati membri di definire i principi fondamentali
del loro sistema di sicurezza sociale e non possono incidere sull'equilibrio
finanziario dello stesso e inoltre non possono precludere agli stati la possibilità
di mantenere o adottare disposizioni che prevedono una maggiore protezione.
ai fini della realizzazione della politica sociale particolare rilievo assumono le
parti sociali a cui l'Ue riconosce e promuove il ruolo e tra le quali facilita il
dialogo: questo dialogo viene stimolato soprattutto dalla Commissione e si
svolge attraverso il Comitato per la protezione sociale e il Vertice sociale
trilaterale per la crescita e l'occupazione che trova sua disciplina nell'art. 152
TFUE e può condurre, se le parti lo desiderano, anche a relazioni contrattuali,
compresi eventuali accordi. Questi accordi sono attuati nel termine di 9 mesi
secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli stati membri
o in base a una decisione adottata dal Consiglio, su proposta della
commissione;
il Trattato enuncia 2 principi materiali di notevole importanza: il primo
principio è quello della parità tra uomini e donne per quanto riguarda la
retribuzione percepita per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore,
che rappresenta la specificazione del principio generale che vieta ogni
discriminazione fondata sul sesso, fermo restando che gli stati membri sono
autorizzati ad adottare tutte le misure che aiutino in concreto a compensare
eventuali svantaggi che il sesso sottorappresentato sopporta nelle carriere
professionali; il secondo principio è quello che riguarda il diritto alle ferie
retribuite, che trova disciplina nell'art. 158 TFUE al fine di impegnare gli stati
membri ad adoperarsi per mantenere l'equivalenza dei regimi di congedo
retribuito;
per migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori nell’ambito del
mercato interno e contribuire al miglioramento del tenore di vita l'art. 162
TFUE ha istituito il Fondo Sociale Europeo, con l'obiettivo di promuovere le
possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei
lavoratori, nonché di facilitare l'adeguamento alle trasformazioni industriali e
ai cambiamenti dei sistemi di produzione in particolare attraverso la
formazione e la riconversione professionale;
l'Ue si vede attribuire competenza in materia di istruzione, gioventù e sport
nonché di formazione professionale; mentre la formazione professionale da
sempre è inclusa nei settori di competenza dell'Unione gli altri settori sono stati
ricondotti sotto l'Unione solo successivamente: in ogni caso si tratta di una
competenza parallela pertanto può essere esercitata solo per sostenere,
coordinare o completare quella degli stati membri, ad esclusione di qualsiasi
armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli stessi.
-Principi e obiettivi
Le diverse attività riconducibili all’azione esterna dell'unione sono chiamate oggi a
svolgersi nel quadro di principi e obiettivi generali e comuni. Il paragrafo 3 art. 21
TUE dispone che nell'elaborazione e attuazione di questa azione nelle sue diverse
componenti l'Unione rispetta i principi e persegue gli obiettivi di cui ai paragrafi 1 e
2; questi paragrafi elencano i diversi principi e obiettivi a cui deve uniformarsi la
conduzione dell'azione esterna dell'Unione:
§ i primi coincidono con i valori fondanti dell'Unione, come ad esempio la democrazia,
stato di diritto, diritti dell’uomo, il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni
Unite e del diritto internazionale
§ i secondi comprendono finalità generali che vanno dall'affermazione di questi valori
fino alla tutela della sicurezza e dell’indipendenza ed integrità dell'Unione, dalla
salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale, alla promozione dello
sviluppo sostenibile e della liberalizzazione degli scambi commerciali.
La funzione di questi principi ed obiettivi è quella di assicurare la coerenza generale
della partecipazione dell’Ue alla vita di relazione internazionale, inquadrando la
stessa all'interno di una cornice di politica estera unitaria; l'esigenza di coerenza è
sottolineata nel Trattato trovando ragion d'essere nella pluralità di competenze che
contribuiscono a questa azione e nelle diverse modalità e procedure di funzionamento
che caratterizzano ancora adesso la PESC rispetto agli altri settori dell’azione esterna;
tuttavia l'azione esterna non viene soddisfatta solo con il rispetto dei principi e degli
obiettivi generali indicati direttamente dal trattato, in quanto il TUE impone alle
istituzioni di assicurare la coerenza tra i vari settori dell'azione esterna e tra questi e le
altre politiche dell'Unione, in particolare chiedendo al Consiglio e alla Commissione
di provvedere in cooperazione tra loro e con l'aiuto dell'Alto rappresentante; evidenza
la sua importanza il settore della trasposizione dei principi e degli obiettivi generali
dell'azione esterna. L'art. 22 TUE chiede al Consiglio europeo di individuare, a
partire da quei principi e obiettivi generali, gli interessi e gli obiettivi strategici
relativi a un determinato Paese o regione ovvero a una determinata questione, cui
l'unione deve attenersi nell'esercizio delle sue competenze in materia di azione
esterna.
Il Consiglio Europeo deve provvedere con decisioni da prendere all'unanimità ma
decide sulla base di raccomandazioni del Consiglio, che invece sono adottate secondo
modalità procedurali e di voto previste per ciascun settore interessato, pertanto nel
settore della PESC le raccomandazioni devono essere prese all'unanimità su iniziativa
dell'Alto rappresentante, mentre per quelle relative agli altri settori dell'azione
esterna, il consiglio si troverà a pronunciarsi il più delle volte a maggioranza
qualificata e su proposta della commissione. Il Trattato infatti prevede che l'alto
rappresentante e la commissione possano eventualmente presentare, ciascuno in
relazione al proprio settore di competenza, proposte congiunte al consiglio.