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DIRITTO

Diritto, nel lessico giuridico, è l'insieme delle norme giuridiche presenti in un ordinamento giuridico e/o


che regolamentino una determinata disciplina, ma anche un sinonimo di potere o facoltà. Per
estensione indica anche la scienza che studia le norme giuridiche e le fonti giuridiche; altri significati
ancora possono derivare da fraseologie di dettaglio. Una delle concezioni più antiche è la
cosiddetta teoria del diritto naturale, o giusnaturalismo, corrente filosofica condivisa da molti pensatori,
fra cui Cicerone nel De legibus, Ulpiano, Agostino d'Ippona, Tommaso d'Aquino e Ugo Grozio, padre
del giusnaturalismo moderno, che fonda il diritto naturale sul carattere razionale dell'uomo. Tale teoria
postula l'esistenza di una serie di princìpi eterni e immutabili, inscritti nella natura umana, cui si dà il
nome di diritto naturale. Il diritto positivo (cioè il diritto effettivamente vigente) non sarebbe altro che la
traduzione in norme di quei princìpi. Il metodo adottato dal legislatore è dunque un metodo deduttivo:
da princìpi universali si ricavano (per deduzione) le norme particolari. Il problema è che non sempre vi è
pieno accordo su quali siano i princìpi universali ispiratori delle norme giuridiche.
Nel medioevo le Chiese, principali assertrici del diritto naturale, tendono a identificarlo con i princìpi
dettati dai loro testi sacri (la Bibbia, il Corano, ecc.); gli studiosi laici con princìpi diversi
(di giustizia, equità, il popolo, lo stato etc.). Non essendoci accordo sui princìpi-base (a meno che essi
non siano imposti da un potere autoritario), viene a cadere il fondamento stesso della teoria del diritto
naturale.
Nell'età moderna l'origine del diritto è stata individuata in aspetti diversi della natura umana, fra cui la
morale (Leibniz, Thomasius, Kant) e la forza (Hegel, Savigny).
Verso la fine dell'XIX secolo, sull'onda delle teorie filosofiche positiviste, si afferma (e rimane a lungo
predominante) il cosiddetto positivismo giuridico o giuspositivismo che, contrapponendosi
al giusnaturalismo, asserisce tutto al contrario che il diritto è solo ed esclusivamente diritto positivo,
cioè diritto effettivamente posto, e non c'è alcuno spazio per alcun diritto naturale trascendente il diritto
positivo. Secondo la gran parte degli studiosi giuspositivisti (specie in Italia) il diritto si identifica con la
norma giuridica (giuspositivismo normativistico). Il diritto dunque non sarebbe altro che una serie
di norme che regolano la vita dei membri di una società, allo scopo di assicurarne la pacifica
convivenza. Il diritto (e i princìpi che ne stanno alla base) si sposta così dal campo del trascendente a
quello dell'immanente, dal dominio della natura a quello della cultura. Il metodo adottato dai
giuspositivisti è, al contrario di quello dei giusnaturalisti, un metodo induttivo: non esistendo princìpi
universali ed eterni, i princìpi su cui si basa il diritto vengono ricavati per induzione (cioè per astrazione)
dalle norme giuridiche particolari e contingenti.
I fautori del giuspositivismo hanno però qualcosa in comune con quelli del giusnaturalismo: essi
rientrano tutti nella categoria filosofica dei "realisti", ossia di coloro che pensano alla realtà come a un
"dato" oggettivo, esterno, e come tale indipendente dall'osservatore. Anche il diritto sarebbe, come tutta
la realtà, un dato oggettivo, che lo studioso si limita a indagare e il giudice ad applicare, senza
modificarlo in alcun modo. Una concezione statica del diritto, insomma.
Le tesi "realiste" sono contestate dai teorici che possono ascriversi alla corrente filosofica
del relativismo o scetticismo. Al contrario dei "realisti", gli "scettici" pensano (sulla scia delle moderne
teorie scientifiche e filosofiche del Novecento) che un'osservazione "oggettiva" e "distaccata" della
realtà non sia possibile, e che l'osservatore, interpretando la realtà, la influenzi necessariamente. Ogni
analisi dovrà per forza essere "soggettiva", poiché ineliminabile è la componente del soggetto
nell'analisi della realtà. Il soggetto non si limita a "osservare", bensì "(ri)crea" la realtà. Per chi
abbraccia le tesi scettiche, il diritto non può dunque essere un mero "dato", un insieme fisso e
immutabile di norme (giuspositivismo) o di princìpi eterni (giusnaturalismo). I teorici che studiano il
diritto (i giuristi, il cui insieme di scritti costituisce la cosiddetta "dottrina") e i pratici che lo applicano (i
giudici, il cui insieme di sentenze costituisce la cosiddetta giurisprudenza) non sono "indagatori" o
"applicatori" di una realtà già data ma, nello stesso momento in cui la interpretano, ne diventano veri e
propri "creatori". Il teorico, disquisendo sul diritto, "crea" diritto; il giudice, emanando una sentenza,
"crea" diritto. La concezione del diritto propria dello scetticismo è dunque dinamica, e non statica.

Il XX secolo e l'interpretazione marxista ed


il costruttivismo[modifica | modifica wikitesto]
Un'altra interpretazione, sostenuta da Kelsen, vedeva il diritto come una mera tecnica sociale,
valutandone solo l'efficienza e separandolo dalla natura umana; questo è il modo principale con cui si
studia e si cerca di capire il diritto.
Secondo la formulazione data dai giuristi sovietici al loro I congresso del 1938,
l'interpretazione marxista del fenomeno giuridico si compendia invece nella definizione seguente: "Il
diritto è l'insieme delle regole di condotta esprimenti la volontà della classe dominante, legislativamente
stabilite, nonché delle sue consuetudini e delle regole di convivenza sanzionate dal potere statuale, la
cui applicazione è garantita dalla forza coercitiva dello Stato al fine di tutelare, sanzionare e sviluppare i
rapporti sociali e gli ordinamenti vantaggiosi e convenienti alla classe dominante". [1]
Una concezione teorica più moderna - che emerse verso la fine del secolo - fu il costruttivismo
giuridico, soprattutto grazie ai teorici anglosassoni e secondo tale teoria l'essere umano osserva,
modifica, influenzia interpreta e crea simultaneamente; la realtà è allo stesso tempo scoperta e
inventata, osservata e costruita; noi non siamo completamente liberi, ma non siamo neanche
completamente vincolati; subiamo pesanti interferenze dalla realtà, ma interveniamo pesantemente a
modificarla. Per il costruttivismo, dunque, da una parte l'interprete (giurista o giudice) è ancorato alle
norme esistenti, in quanto non può prescindere da esse: egli non può essere interamente creativo,
come pretenderebbero gli scettici. D'altra parte è anche vero che egli, interpretando le norme giuridiche
a scopo teorico ovvero per applicarle al caso concreto, vi immette sempre qualcosa di suo: influisce su
di esse in quanto influisce sulla loro futura interpretazione e applicazione. Il ruolo dell'interprete non è
pertanto interamente notarile e passivo, come pretenderebbero i realisti. Il giurista (o il giudice) non si
limita solo a interpretare, né solo a creare. Egli interpreta e crea: crea mentre interpreta. E fa entrambe
le cose non in maniera arbitraria, ma sempre fortemente vincolato dall'ambiente storico, culturale e
giuridico in cui si pone. Il diritto, secondo il costruttivismo, è in conclusione un fatto dinamico, un
processo (Roberto Zaccaria), una pratica sociale di carattere interpretativo (Ronald Dworkin), in cui
norma giuridica e sua interpretazione interagiscono costantemente.

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