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GIULIO BEDESCHI

CENTOMILA GAVETTE DI GHIACCIO


Testimonianze fra cronaca e storia

Ventitreesima edizione: ottobre 1964

Centomila gavette di ghiaccio è la rievocazione della ritirata di Russia durante la quale ben
centomila soldati italiani perirono o combattendo o soccombendo al freddo e alla fame. L'Autore,
sottotenente medico nell'ultima guerra, ha preso parte alle campagne di Grecia e di Russia,
partecipando a tutta la ritirata con la Divisione Julia. Attualmente vive e lavora a Milano.
La richiesta di quest'opera è in continuo crescendo, e il consenso dei lettori l'ha inserita in
primissima linea fra i bestsellers del 1963.
All'eccezionale consenso di pubblico fa riscontro il giudizio della critica: riviste e quotidiani di ogni
livello, orientamento e impegno, si sono manifestati concordi nel riconoscere al libro il suo
altissimo valore sul piano umano, morale, documentario e letterario, che lo pone di diritto fra i
capolavori della letteratura di guerra d'ogni paese.
Opera composita, originale sì da non essere facilmente riducibile a schemi, traduce mirabilmente in
termini di semplicità ciò che in effetti è essenzialità e verità.
Quanto più il lettore si addentra nel testo, tanto più avverte il richiamo degli universali toni di fondo
che costituiscono l'intimo tessuto del libro, vive di pagina in pagina la propria immedesimazione nei
personaggi e nella vicenda; quanto più sia provveduto, divide con gli alpini le sofferenze nella
tragica sacca e nel contempo subisce il fascino e il contagio degli eterni valori che vivono in quelle
vite; e al termine s'avvede che il significato e l'appello della narrazione sono perenni e fuori d'ogni
contingenza, sono validi anche per la vita d'oggi, per l'umanità attuale imprigionata anch'essa in una
enorme sacca: il conflitto d'idee armate che accerchia il mondo, e lo rinserra nella minaccia d'un
incombente conflitto atomico.
L'Autore ha affidato alle pagine del libro il suo appassionato messaggio: sull'esempio degli alpini,
superstiti invitti perfino in una allucinante disfatta, abbattere ogni folle strettoia e superarla
mediante il disperato voler mantenere in vita il senso della dignità individuale, il rafforzamento
della solidarietà umana, l'apertura alla speranza intesa come attivo anelito al bene; in una parola,
mediante una redentrice e più civile spinta d'amore fra gli uomini.

In memoria di mio Padre


A tutti i Caduti.
A Scudrèra, conducente di mulo.
A tutti gli Alpini, miei fratelli.
A quanti non vogliono essere oggi i futuri Caduti
Il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo
impedisce.
Tucidide

Le generazioni che hanno vissuto e sofferto la guerra e i giovani affacciatisi alla vita negli ultimi
anni respirano ancora ai giorni nostri un clima d'angosciosa tensione: da un capo all'altro della terra
odono ogni poco levarsi a minaccia l'antico urlo: guerra! Tacciono, implorando che l'ala nera sfiori
soltanto e non si posi sugli animi, sulle carni, sui figli, o gridano il loro diritto e la loro volontà di
non dovere ancora una volta morire a comando.
Nessuna voce sarà bastevole o superflua, se tende a respingere la dissennata minaccia, oggi più che
mai poi ché si delineano nei cieli gli spettri atomici. L'analisi degli errori compiuti nel passato e la
conoscenza d'ogni strazio sofferto impongono una civiltà finalmente monda dalla barbarie della
guerra.
Questa è una voce che si unisce al coro di quanti, col ricordo del recente passato, tendono a far
divenire realtà un avvenire privo di paura.
Questa è una storia di alpini e di fanti, poiché l'autore ha vissuto la guerra con essi sui fronti
d'Albania e di Russia, ma se anche i personaggi qui descritti si ritraessero nello sfondo e in loro
vece avanzassero al proscenio le madri, i padri, le spose e i figli, la tragedia urgerebbe con pari
violenza, perché l'intero popolo ne ha patito l'orrore e condiviso il dolore.
In questa storia la guerra è vista, per così dire, dalla parte dei morti, che non hanno conti da rendere
e posizioni da sostenere; perciò il libro, per quanto possibile, non rispecchia passioni o impegni
contingenti: il suo significato prorompe direttamente dai fatti vissuti e narrati.
Le vicende degli alpini nelle battaglie invernali sul Don, i combattimenti durante il ripiegamento
per aprirsi un varco nelle sacche sulla neve di Russia nell'inverno 1942-1943 attinsero tali vertici e
somme di patimenti da sfiorare l'indescrivibile; raggiunsero senz'altro, e spesso varcarono, i limiti
estremi della capacità di sopportazione umana oltre i quali s'affaccia, quasi a sollievo, la morte. Ne
risultava giorno per giorno un quadro allucinante, che a distanza di vent'anni si staglia per vita
propria, unico, tra le vicende della guerra.
La storia ormai ne ha delineato il disegno nella sua paurosa vastità, ne è tuttavia poco nota ancora
l'intera sottile trama di tragici eventi.
L'autore affida al lettore la storia vissuta da un esiguo reparto; omettendo gli autentici nomi ha
voluto deliberatamente trascendere le singole persone, perché questa è stata davvero la storia di tutti
gli alpini, e perché in essa tutte le madri possano intravvedere il volto dei loro figli e riviverne la
storia di dolore e di morte. L'affida, ancora, ai compagni sopravvissuti, a testimonianza del loro
inaudito patire; l'affida a quanti vogliano tenere vivo il ricordo di coloro che non tornarono.
G. B.
TEMPO PRIMO
Erano portatori d'armi, per ciò soffrivano

1.
La tradotta si avvicinava al mare. I soldati sedevano quieti e silenziosi, fumavano, guardavano dal
finestrino; molti stavano addentando con tranquilla costanza polli e ciambelle, metodici nel tributo
d'omaggio alla cucina materna; tenendo a mezz'aria una fetta d'arrosto o di salame casalingo,
masticavano lentamente guardando a occhi socchiusi la campagna placida.
Da qualche vagone veniva la voce di piccoli gruppi che s'ostinavano a cantare qualche vecchio
ritornello militare, ma senza entusiasmo.
Come ragazzi, i soldati ad un tratto s'accalcarono ai finestrini: il mare!
Nell'imminenza della sera l'Adriatico s'acquetava nella pace dell'ora, ondulando qua e là, respiro più
che moto; trapassava a tinte scure, acquistando grado a grado compattezza e immobilità.
I paesi rivieraschi passavano ad uno ad uno, salutati dal fischio della locomotiva; ad ogni successivo
incontro, nonostante gli ordini di oscuramento, le luci delle case apparivano infittite quanto più la
sera s'incupiva e rivelavano la tranquillità delle famiglie riunite attorno al lume e alla tavola.
Nel treno in corsa le voci allora diradavano e cadevano, da nessuno raccolte; ognuno, tranquillo al
proprio posto, affondava nel pensiero di casa sua.
Il sottotenente medico Italo Serri, seduto su un cumulo di zaini ammonticchiati nel corridoio del
vagone, fumava in silenzio, solo.
L'ordine di partenza della divisione era giunto improvviso, e per due giorni era stato tutto un
correre, apprestare, acquistare, affannarsi per racimolare un minimo d'equipaggiamento. Nell'ora
ultima aveva abbracciato Bruna, la sorella sedicenne; e la mamma, che si sforzava di reprimere ogni
manifestazione di dolore, e si limitava a ripetere — nel suo infinito amore — le ultime
raccomandazioni, semplici care uguali a quelle che gli faceva quando abbottonava il cappottino e
allacciava la sciarpa a lui scolaretto in procinto di uscire, d'inverno, per andare a scuola.
— E tienti sempre coperto, mi raccomando...
Scambiato il saluto con la sentinella, all'ingresso della caserma si era trovato in un mondo diverso.
In ogni direzione, fra porticati, cortili, uffici e stanzoni s'intersecava, si confondeva un affaccendarsi
frenetico.
Dovunque schiere di soldati correvano, litigavano, trasportavano le cose più eterogenee, intralciati
da gruppetti di altri soldati che sostavano a fumare e a chiacchierare nei punti di maggior passaggio.
Nello stanzino adibito ad infermeria l'aiutante di sanità e gli infermieri attendevano seduti sul tavolo
e sugli zaini. No, non era giunto ancora nessun ordine. Sì, il materiale sanitario era già stato
caricato. Dal magazzino avevano portato la maschera antigas e l'elmetto del signor tenente: eccoli.
Serri aveva soppesato l'elmetto e se l'era posto in testa: era più grande del necessario, gli ciondolava
sul capo.
— No, signor tenente, non si può cambiarlo; nel magazzino sono rimasti solo gli elmetti
grandissimi o piccolissimi; quando siete venuto voi al battaglione la distribuzione era già stata fatta
da una settimana.
— E la mia gavetta?
— Per gli ufficiali sono state spedite con il materiale di battaglione, assieme con le coperte.
In quel punto la tromba aveva suonato l'adunata.
Nello stambugio dell'infermeria, in un improvviso trepestio ciascuno si era addossato le armi e
l'equipaggiamento. Il soldato Prati, attendente di Italo, aveva aiutato l'ufficiale ad affibbiare lo
zaino, poi la maschera antigas che andava portata a tracolla, infine quel ridicolo elmetto traballante
ad ogni movimento; lo si sarebbe cambiato alla prima occasione propizia.
Era l'ora della partenza. Per ignota destinazione, diceva l'ordine; ma una voce corrente assicurava
che il reggimento sarebbe andato in Albania. Per la guerra, comunque, per il fronte: divisione di
linea. Il battaglione al completo, suddiviso in compagnie e plotoni, si era schierato nell'ampio
cortile. I soldati attendevano che il reparto di testa iniziasse la marcia per raggiungere la stazione
ferroviaria.
Ma ecco una schiera di ufficiali superiori che entra nel cortile con piglio marziale ben diverso dal
loro atteggiamento consueto; dinanzi a tutti sta un ufficiale ancor giovane, con i gradi di generale di
Corpo d'Armata. Passa in rivista rapidamente il battaglione, sale su una pedana e parla ai soldati,
subito attentissimi.
— Avete l'onore di far parte di una Divisione che fra breve tempo sarà in linea.
Sono certo che ciascuno di voi sente che la patria lo guarda... In questo momento combattere è un
privilegio cui tutti ambiscono... So che tutti voi compirete il vostro dovere... che siete pronti anche
all'estremo sacrificio...
Ho il rimpianto di dovervi dare qui il mio saluto... Le responsabilità che mi legano... compiti di alto
impegno... Ma il mio cuore...
Potrebbe smettere, i soldati non lo ascoltano più. Perché non lo capisce? Non sa che i soldati che
partono ascoltano soltanto chi va con loro, e non danno credito a chi resta? Non vede il viso dei
fanti?
— Ho la speranza... fra non molto tempo... scendere sul campo di battaglia...
Sarebbe il mio più alto desiderio... Condurre i soldati alla vittoria.
Finito. Ora è la volta della fanfara reggimentale giunta in punta di piedi mentre il generale parlava.
Quindi il generale se ne va, abbastanza in fretta.
Rimangono i soldati allineati, in assetto di guerra.
E a un comando partono davvero per la guerra, muovendo dalla compagnia di testa; con un «per fila
sinistr'», a tre a tre svoltano all'angolo del cortile, raggiungono l'ingresso della caserma ove la
sentinella è sul «presentat-arm» e guarda le terziglie a salutare con un'ultima immobile occhiata i
compagni che vanno al fronte.
Ecco, passano i fanti del battaglione, ragazzi dai venti ai venticinque anni, in prevalenza di media
statura, asciutti e non troppo marziali sotto il peso dello zaino, della coperta arrotolata e delle armi;
il passo è ritmato qua e là da rumore di chincaglieria, sono cucchiai che sbattono contro le gavette
mal fissate. L'uscita dalla caserma non si può dire che avvenga in perfetta simmetria, le file si
scompigliano un poco ma subito la formazione riprende ordine, che sulla strada s'è raccolta una
parte della popolazione e i soldati sono stimolati da quella presenza.
All'improvviso, come per una tacita parola d'ordine, sono tutti presi dalla volontà di sfilare in
perfetto stile. La fanfara imboccando il corso ha attaccato una marcia militare e sulla cadenza ben
ritmata s'adegua il passo di ognuno, solenne, preciso. I volti dei soldati acquistano un'espressione
seria, quasi dura; i corpi s'irrigidiscono un poco, procedono ben eretti mentre gli occhi, senza che il
capo si muova, sfiorano la folla immobile ai lati; ma gli sguardi dei soldati intenti a marciare non
indugiano su nessuno e pare non vedano nulla.
La musica lontana è sopraffatta dal rimbombo ferrigno degli scarponi sull'asfalto, unico rumore che
solca, ritmico, il silenzio che grava sulle migliaia di persone assiepate.
Sui marciapiedi sta il popolo; multiforme, composto, sospinto in alterno moto da entusiasmo e pena.
Sono donne grigie che sotto ogni elmetto vedono il volto del figlio già partito o dell'adolescente
che, se la guerra non termina presto, dovrà certamente partire; l'angoscia materna tempera di
tristezza e d'affetto lo sguardo che vorrebbe essere fiero e che si posa a carezzare tutti quei fanti,
tutti quei figli.
Sono uomini, maturi e vecchi, ai quali altri tempi e altre guerre hanno impresso un brivido che ora
risorge, suscitando un'infinità di ricordi di lotte, di entusiasmi e di pene; memorie di ore atroci ed
eroiche, mai potute narrare o rivivere perché legate soltanto all'ora di chi le visse, sacre a chi le patì;
per gli altri, ormai disperse da decenni nella sfocata immagine di lontane guerre patrie.
Infine, il reparto era entrato in stazione; i soldati avevano occupato i loro posti nel treno già in
attesa, ridiscendendo fra la calca dei parenti formicolanti sotto la pensilina. Le lacrime di qualche
mamma cadevano e scomparivano silenziose, disperse in un'atmosfera di continuo avvivata da voci,
canti, saluti traboccanti d'effusione, offerte di fiori, sigarette, dolciumi.
Cento gruppetti si formavano e si scioglievano per riformarsi tre passi più in là; e al centro era
sempre un giovanotto in grigioverde che riceveva ridendo baci, raccomandazioni, caramelle.
Nel frastuono, Serri stava in silenzio accanto a suo padre, felice di essere ancora una volta vicino al
gran cuore paterno. I due uomini non sentivano il bisogno di parlarsi; da lungo tempo li univa una
forte comprensione, una virile solidarietà di sentimenti e di pensieri, di cui quel distacco era una
conseguenza inevitabile perché logica, e bella perché disinteressata, anzi opposta a ogni egoismo.
Quel sentirsi ancora vicini offriva la gioia di far vibrare, potenziato dal momento, il perfetto vincolo
d'affetto. Entrambi in quella vicinanza estrema si scambiavano pegno di fiduciosa forza, pane per i
giorni venturi da distribuire alla famiglia quando il terrore di inspiegati silenzi immiserisse d'un
tratto la casa.
Ma la locomotiva aveva fischiato; e nello sguardo con cui si erano abbracciati si era trasfusa intera
la loro umanità, assai più che nella stretta in cui subito si erano uniti.
Bari. A una banchina del porto gli uomini del battaglione stavano a far la guardia ai loro zaini. I
soldati parlottavano a crocchi o sedevano isolati, volti a guardare l'acqua e le navi, intirizziti dal
vento marino.
La giornata era trascorsa nella noia, con l'unica variante di un mestolo di minestra. Era incerto se
sarebbero partiti per l'Albania o per la Libia. In Albania era un continuo macello, il fronte ingoiava
reggimenti su reggimenti, il mare era infestato da sottomarini nemici; si poteva navigare solo in
convogli scortati e ad ogni traversata qualche nave affondava.
All'improvviso giunse una colonna di autoambulanze che si allinearono sulla banchina a ridosso
d'una nave dalla quale vennero subito calati, in barelle, uomini giacenti.
È un lavoro monotono, meccanico. Dal piano inclinato vengono guidate a terra sagome umane
avvolte in coperte, subito sospinte nell'autoambulanza che riparte traballando, mentre avanza già la
macchina successiva pronta a gravarsi del doloroso carico.
I soldati a qualche passo di distanza osservano in silenzio quella processione di barelle che esce
dalla fiancata della nave. Passano uomini immobilizzati dal dolore, paiono salme. Sono i feriti, i
congelati, gli ammalati che vengono dal fronte greco-albanese. Sguardi vitrei, spenti, senza luce di
gioia nel rivedere la patria, tanto la sofferenza disamora e smemora. Tutti uguali, inerti nel bianco
avvolgimento di bende e coperte.
Ma sotto il velame, sconosciuto e segreto, innumerevole per forme e torture, brulica il dolore fra le
dita mozze, nei moncherini scarnati e cuciti a rinserrare ossa infrante.
I fanti osservavano silenziosi, nell'atteggiamento di chi per via s'imbatte in un corteo funebre; e
pensavano alla causa prima di quello spettacolo, al nastro fiammeggiante del fronte, verso il quale
erano diretti.
Su quello spettacolo, sul mare, sull'accolta d'uomini muti calava la sera.
A notte venne l'ordine d'imbarco; la nave di piccolo tonnellaggio in breve rigurgitò di grigioverde.
Salpò silenziosa e a lumi spenti, volgendo al mare illune. In un pulsare sordo di motori, in un
procedere lento tutto tonfi e vibrazioni, altre navi allacciarono le proprie scie e legate in un unico
nastro s'avventurarono sul mare.
A più riprese, nella notte, concitati ordini sferzarono gli equipaggi; le navi ansimanti arrancavano ad
allentare i contatti, a diradare la formazione per poi ricomporla serrata, si disperdevano a tutto
vapore per ritrovarsi più innanzi a sostare quasi immobili in un tempo di pausa; erravano a nord e a
sud, avanzavano, ritornavano, mosse da un giocatore invisibile su un'immane scacchiera distesa
sull'acqua per un giuoco mortale.
Spesso i fanti si svegliavano di soprassalto per' un'accostata violenta o per un improvviso più alto
ritmo impresso ai motori; sussurri inquieti formicolavano fra i branchi d'uomini giacenti nel freddo
intenso, allarmati dal marinaio che scavalcava i corpi per correre a eseguire un ordine e lasciava
cadere frettoloso e cupo la parola che fuga il sonno: «sottomarini...». Ombre e ricordi gravavano
sugli uomini distesi, precise parole di bollettini s'accavallavano e davano realtà a lugubri fantasie
d'affondamenti.
Il gelo non era il maggior tormento per i fanti accovacciati fra gli zaini, impotenti contro ogni
evento e sottomessi a un solo ordine: non muoversi. Ma all'indomani notte i fanti, in fila indiana,
scendevano dalla scaletta di bordo e raggiungevano, attraverso passerelle di legno gettate
trasversalmente su due barconi affiancati, il suolo d'Albania.
Due o tre militari comparsi nella solitudine del piccolo porto attendevano che il battaglione
sbarcasse al completo; si misero in testa al reparto, a guidarlo, quando questo si mosse.
Infreddoliti dalla sosta e dal vento marino, carichi e silenziosi i fanti camminavano guardandosi
attorno.
La luna rischiarava le vie, le case di Durazzo, lasciando distinguere ogni particolare. Casupole
silenziose, biancastre, muriccioli sgretolati, una moschea musulmana; un paese qualunque con
qualche abitazione sbrecciata da bombe d'aereo.
Presto la colonna superò l'abitato, procedendo lungo una strada campagnola bianca sotto la luna. Ad
ogni ronzio d'aeroplani le guide scrutavano il cielo e consigliavano attenzione, poiché altre volte si
erano verificati mitragliamenti notturni su colonne in marcia. Il movimento non dissipava il freddo
penetrante che intirizziva il volto e le mani dei soldati.
Le compagnie procedevano in silenzio. Indubbiamente tutto respingeva in quella terra che sembrava
disabitata. Dov'era la linea? Dov'erano le altre divisioni?
Perché quella solitudine? Dove si andava? Ad Italo Serri pareva di toccare i nervi a fior di pelle dei
suoi soldati.
All'una di notte venne ordinato l'alt in un punto qualsiasi. Quale altra novità?
Niente, dormire.
— Dormire, signor capitano? Va bene, ma dove?
— Dove? Per terra, no? Non siamo in guerra?
— Sì, ma... con questo freddo...!
In breve i teli da tenda issati su paletti di fortuna cominciarono a costellare il prato di piccole
piramidi. Ogni soldato aveva il suo telo, con quattro teli sorgeva la tenda per quattro soldati, stretta
sì, ma sufficiente.
Italo Serri, scaricato dalle spalle il proprio zaino, osservava in silenzio il fervore degli uomini che
affrontavano la novità di passare una gelida notte sotto tenda. L'aria diaccia tormentava l'ufficiale
mal riparato dal cappotto regolamentare di cattiva stoffa grigioverde. Serri pensava che ognuno si
preparava la propria tenda e che egli non aveva nulla da prepararsi, giacché non aveva il telo
necessario. All'atto del suo frettoloso inserimento nel reparto in partenza non esistevano da tempo
teli disponibili. Agli ufficiali non erano state distribuite coperte ed egli ne aveva scelta una, a casa
sua, piccola e brutta. La mamma aveva insistito perché ne prendesse almeno un'altra, ma egli aveva
risposto — le parole gli ritornavano ancora all'orecchio — che non voleva avere nulla più dei
semplici soldati. Sennonché, ora i soldati si disponevano a ricoverarsi e dormire, mentr'egli
guardava le stelle e quella copertina lisa.
Avrebbe potuto domandare ospitalità a quattro soldati, inducendoli a raggomitolarsi e a fargli posto,
ma sentiva che non lo avrebbe mai chiesto, preferendo attendere la mattina sotto un qualche albero
o camminando.
Prospettiva poco allegra dato che sul campo occhieggiavano qua e là, nel terreno duro, pozze
ghiacciate.
Una violenta manata sulla spalla lo distolse dai suoi pensieri e una voce cordiale e sonora lo fece
volgere: — Cosa stai qui a fare, come un palo sotto la luna? Una poesia forse? O reciti Leopardi ai
grilli morti di freddo?
Il sottotenente Faravelli, secondo medico del battaglione, gli rideva in faccia allungandogli tre o
quattro pugni scherzosi sul petto. Sotto la bustina a sghimbescio, due occhi vivi ammiccavano nel
chiarore lunare.
Non più alto di Serri, ma più membruto e atticciato portava quadratissime spalle su un torace
potente. Era un campione d'atletica, celebrato dai soldati che lo segnavano a dito indicandolo ai
commilitoni degli altri reparti.
— Tu sei senza telo — disse Faravelli — e senza coperte, no? Lo so, e m'immagino che avrai deciso
di dormire in piedi all'aperto, come i muli. Ti conosco ormai!
E sono sicuro che non ti sei portato nemmeno la brandina e neanche il materassino, per avere la
soddisfazione morale di dormire per terra, da quel vero fesso che sei, e dare il buon esempio ai
soldati, così che possano dire anche loro: «guarda che fesso, lui che potrebbe starsene un po'
comodo... guardate che roba...!».
Sempre ridendo, ma cessando di canzonare, aveva abbassato il tono di voce e avvicinandosi
all'amico gli sussurrava: — Fin qui è ancora niente; il male è che queste fesserie le ho fatte anch'io e
mi sbatterei la testa contro un muro, se non mi prendessero per autolesionista.
Per fortuna di tutti e due c'è qui Faravelli, che s'è già messo d'accordo coi soldati. Vedi là, sotto
quell'albero? Stanno facendo in dodici una tenda grande di dodici teli, così è più facile starci in due
di più. I soldati non ci badano, due fessi su quattordici persone li prendono volentieri. Andiamo, la
tenda è quasi pronta; tirati dietro il tuo zaino, o lo vuoi lasciare in beneficenza a chi lo trova, signor
idealista?
Mezz'ora dopo, la stanchezza premeva sulle palpebre dei quattordici uomini. Il mozzicone di
candela era stato spento e più nessuno parlava. I soldati, allineati a terra sotto la tenda lunga e
stretta, cercavano la posizione migliore. Ogni poco, dopo aver goduto per cinque minuti
l'impressione d'essere steso su un piano, ciascuno scopriva ancora sotto di sé un sasso, un ramo
contorto, un cardo spinoso, un nonnulla che non concedeva tregua. E quando, dopo lunghi sforzi,
anche l'ultimo ostacolo al riposo pareva rimosso, in breve veniva dal campo e attraversava le vesti,
come una nebbia che sale, il freddo della terra. I corpi rabbrividivano nell'oscurità, in silenzio,
mentre dalle ampie fessure delle tende fra terra e telo il vento alitava gelidamente su quegli uomini.
Ciascuno teneva il suo tormento per sé, senza lamentele, per non disturbare i vicini forse assopiti. Il
mostro della guerra che già alla prima zannata stende gli uomini sulla terra nuda, cominciava ormai
ad adoprare la sua unghia che ciascuno in silenzio sentiva affondare, presentendo ben altri supplizi e
lacerazioni.
Una sera, oltre Valona, i fanti furono fatti salire su autocarri che mossero verso est. Nelle prime
ombre serali, giunti all'imbocco di una valle, un ticchettio luminoso coronò i contorni d'una
montagna per ripetersi poco dopo sul monte vicino.
— Segnalazioni, signor tenente? — chiese un soldato a Serri.
— Granate, figliolo; là c'è la linea — disse la voce di un capitano anziano, reduce della guerra
1915-18.
Nonostante il fronte fosse ancora lontano, tutte le misure di sicurezza furono per incanto
scrupolosamente osservate, neppure una brace di sigaretta punteggiò più la colonna.
Ad aumentare la tensione, alcuni riflettori iniziarono a frugare il cielo, indicando presenza di aerei;
e poco dopo salivano veloci a perdersi nel nero notturno le faville rossigne delle mitragliere
contraeree. In breve l'oscurità pullulò di fiammelle e vampate.
Ad un tratto gli automezzi si arrestarono, gli autisti comunicarono allegramente che il reparto era
giunto a destinazione.
Ormai tranquilli, nel chiarore lunare i soldati montarono le tende e si sdraiarono a terra per dormire.
Giacendo in attesa del sonno, i più allungavano una mano ai teli da tenda per aprirsi uno spiraglio, e
vedevano ad intermittenza una serie di luminarie: si accendevano e si smorzavano, qui e là, vivide e
deboli, avvampanti o discrete..Prendevano vita dall'esplodere del ferro nel suo fulmineo cozzo sul
pietrame di una montagna vicina, chiamata Golik dagli albanesi; Golico dagli alpini che in
quell'inverno l'abitavano, ed era per essi baluardo, abitazione, giaciglio, ghiacciaia, calvario e anche
cimitero.
Ora il campo sorgeva sui declivi di colline che limitavano una vallata tutta arbusti e pietre. Sui
monti circostanti scintillava la neve; l'acqua del fiume, a fondo valle, scorreva rapida e gelida.
Le tende si aggrappavano qui e là alla terra e alla roccia, senza ordine, addossate agli arbusti per
l'occultamento, che gli aerei nemici scendevano volentieri a mitragliare la zona.
Fra quei sassi aveva sostato la divisione alpina Julia per un breve periodo di riposo; da qualche
giorno era ritornata in linea. Il suo nome era pronunciato dai fanti con un senso di reverenza, perché
attorno ad essa aleggiava ormai una fama leggendaria. Quegli alpini, combattenti indomabili e
semplici, avevano lasciato dovunque tracce della loro povera vita: vecchie corrose suole da scarpe
bruciate dal gelo, brandelli di maglie finalmente gettate, bende insanguinate, pezze da piedi fuori
uso; e si erano certo impegnati in quella fatica di Sisifo che nelle giornate di sole trova sempre dei
volontari fra i soldati in guerra: lo spidocchiamento. Dalla terra, nelle gelide notti, i pidocchi alpini
salivano ora a rintanarsi nelle tiepide maglie dei fanti, vagabondavano fra le pieghe e le cuciture
delle camicie, dei colletti, delle mutande.
Tutto il reggimento era concentrato nella zona e poco distante erano accampati gli altri due
reggimenti della divisione. I soldati affluivano sempre più numerosi; i materiali di equipaggiamento
e da guerra, invece, non giungevano.
— Non giungeranno mai — diceva il sottotenente Baldassari, un nobile di Parma — come non
giungono ai soldati in linea, lo sapete. Marciscono a Valona, a Durazzo, a Bari, in tutti i magazzini
d'Italia, ma ai soldati non arrivano.
Chissà poi se ce ne sono, in Italia. Io mi farò scannare, tutti noi ci faremo scannare, ma il risultato
sarà quello di sempre: avremo il danno e le beffe. C'è troppo marcio nell'esercito, ai ministeri, nel
partito. Non si può vincere una guerra in queste condizioni.
Altri ufficiali avevano pareri diversi, li esponevano, la conversazione prendeva altre pieghe.
Qualche soldato ascoltava, taceva, si allontanava in silenzio, strascinando le scarpe sul pietrisco. La
sola realtà indiscutibile balenava agli occhi di tutti, di notte, sulle vette, sottolineata da vampe e
boati.

2.
— Signor dottore, è velenosa la tartaruga? — E il cuoco del battaglione, sudato, rosso nel freddo del
primo mattino, con aria interdetta aspettava il responso.
— Perché me lo chiedi?
— Sapete, avevamo scavato nella collina una buca per fare fuoco, e poco fa una tartaruga è caduta
nella marmitta e s'è bollita col caffè. È velenosa?
— Ma no, certe specie di tartaruga sono anzi prelibate. Hai assaggiato il caffè?
— Io no, signor tenente: è tutto pieno di bolle di un grasso giallo che fa schifo a vederlo. Il guaio è
che proprio oggi non abbiamo riserve, bisognerebbe far saltare la colazione al reparto; va a finire
che i soldati mi menano, con la fame che c'è in giro...
Dopo breve consiglio, i soldati decidono di bere quel caffè, e imprecando all'Albania spezzano il
pane nelle gavette, dalle quali sghignazzano gialli e molli occhi di grasso galleggiante.
Serri depose la maglia sugli altri indumenti, si assestò le mutandine da bagno e con un piede lambì
l'acqua della Vojussa.
Era fredda, più di quanto potesse far pensare la splendida giornata. Da tempo fra le massime
aspirazioni dell'ufficiale stava quella di un bagno. Si tuffò nel fiume, subito lottando contro la forte
corrente. La sensazione che la brusca carezza dell'acqua lo detergesse era deliziosa.
L'ampio fiume non tentava i soldati, era deserto: un solo uomo cento metri più a valle stava
nell'acqua dove la corrente era meno forte, presso riva, in un'ansa del fiume. Serri non riconobbe
quella testa emergente dall'acqua e pensò d'avvicinarsi lasciandosi portare dalla corrente, per
scambiare due parole con chi aveva avuto la sua stessa idea.
Nuotava con lentezza, quasi sdraiato sul fianco sinistro, guardando innanzi ogni tanto per mantenere
la direzione voluta, scivolando sull'acqua liscia verso il compagno. Con tanta esattezza si era
orientato che, sospinto dalla corrente con più velocità di quanto credesse, cozzò ad un tratto col
capo contro il petto del soldato; per un attimo ebbe la testa sott'acqua, portò le mani innanzi e
avvertì con sorpresa che l'uomo era vestito. Mentre la forza dell'acqua lo sospingeva contro quello,
sentì l'uomo sollevarsi lentamente, leggero. In brevi istanti l'ufficiale si portò in posizione verticale
nell'acqua, tentando di toccare fondo per scostarsi dall'uomo contro cui premeva. — Scusa — gli
disse ridendo, annaspando con i piedi. L'acqua del fiume gli irritava gli occhi, ma riuscì alfine ad
aprirli e vederlo, stando ancora con le mani appoggiate al petto dell'uomo, unico appiglio fermo nel
moto dell'acqua. L'altro emergeva con tutto il torace, ricoperto — con gran sorpresa del medico —
da una regolamentare giubba dell'esercito greco.
Serri, che spuntava appena col capo dall'acqua, guardò il volto di quell'uomo e con un sobbalzo
lasciò l'appoggio riprendendo i movimenti di nuoto per restare a galla. Resistette alla corrente, il suo
piede si ancorò alfine a un grosso ramo affondato che tratteneva anche il greco. Questi aveva gli
occhi sbarrati, come scoppianti, diversamente aperti in un viso turgido e chiazzato, giallo e
violaceo; la bocca e una parte del naso erano ricoperti da un ammasso di schiuma bianca e
compatta.
Allora quel cadavere d'annegato, col petto contro corrente, si levò un poco sulla superficie
dell'acqua come vivo, volse verso il cielo il volto sfigurato mentre ricadeva con estrema lentezza
all'indietro; toccò con le spalle l'acqua, il capo affondò mentre emergeva il gran ventre; si rovesciò
senza scosse, a faccia in giù nell'acqua, confuso ormai con il destino del fiume.
Serri lo vide andare, lento, semisommerso: ondulò, la schiena emerse per intero, massiccia sotto il
panno militare; a vederla così, non pareva forma umana ma era simile invece a una sella marcita, a
un inservibile basto da mulo di cui il conducente si fosse alfine disfatto.
Quali creature umane, in quale casa, avrebbero pianto per quella carne dispersa?
Sobbalzò, la rapida la ghermì e le diede abbrivo; insinuante all'inizio e subito violenta l'abbracciò in
corsa, la trascinò giù, più a fondo.
Intorno, l'acqua s'era fatta intollerabilmente gelida.
Una notte, Serri venne svegliato da un fante che richiedeva l'intervento medico per un compagno in
preda a dolori atroci.
L'ufficiale sì precipitò fuori della tenda. Indossava soltanto una canottiera e un paio di mutandine,
ma non volle perder tempo a rivestirsi. Di corsa s'inerpicò sulla collina, si infilò nella tenda dalla
quale uscivano fiochi lamenti.
Il comandante della compagnia, preoccupatissimo, stava già accanto Scialato. La fiammella di una
candela illuminava un uomo che si torceva su un pagliericcio.
Serri si rese rapidamente conto che il soldato era in preda a una violenta ma non preoccupante
colica addominale.
Somministrati i medicamenti e già certo della favorevole risoluzione del male, l'ufficiale tuttavia
rimase a lungo accanto al malato che ancora si lamentava, ben sapendo quanto i soldati fossero
sensibili alla presenza del medico e come tale presenza dovesse costituire, purtroppo, il nucleo
centrale della terapia consentita presso i reparti operanti.
La notte era fredda e in breve Serri, tolto all'improvviso dal tepore della coperta e accaldato per la
corsa in salita, sentì il freddo alitargli sul corpo seminudo.
Non era mai stato ammalato in vita sua e all'indomani si meravigliò nel sentire la testa e i muscoli
appesantiti da un senso di malessere. Gli dava fastidio la luce e verso sera fu colto da capogiri,
aveva la febbre alta, di probabile origine reumatica. Il colonnello Vezzi, comandante del battaglione,
insistette per il ricovero a un vicino ospedaletto, ma Serri riuscì a convincere il superiore a lasciarlo
in tenda, dove il dottor Faravelli lo curava con infiniti lazzi e con qualche pastiglia.
Due giorni dopo il termometro segnava ancora trentotto, quando Faravelli entrò nella tenda e
s'accucciò accanto a Serri, brontolando: — L'ho sempre sentito che avremmo dovuto separarci sul
più bello, accidenti!
— Cosa dici?
— Te ne accorgerai subito; fra qualche minuto questa tenda ti verrà sul naso. Si spianta il campo.
Fra poco saremo in ballo, capisci? Ma sul serio, questa volta!
— Si va? — disse Serri ponendosi a sedere.
— Si va, sì. Cioè, noi andiamo da una parte e tu vai dall'altra, all'ospedale, finché starai bene.
Ordine mio, che sono il tuo medico curante. Il colonnello ha già approvato.
E facendo un viso duro accarezzava con lo sguardo l'amico, contento di poter farlo sostare per un
poco in un angolo tranquillo.
Serri sollevò la coperta e s'infilò una scarpa.
— Non farti illusioni — disse allacciando il legaccio — io non vi lascio, lo sai già.
— Sei peggio di un mulo — rispose l'altro— vedrai dove andrai a finire col tuo spirito di dovere!
Serri alzò il capo, i due ufficiali incrociarono lo sguardo ed un secondo dopo esplosero in una risata
d'intesa.
— La partenza è alle tredici — concluse Faravelli.
Piovigginava, quando il battaglione si mosse.
Dopo qualche ora la pioggia crebbe d'intensità, rovesci d'acqua sospinti dal vento intridevano le
giubbe e i pantaloni sotto le mantelline che sventagliavano l'aria ad ogni folata. Il greve peso degli
zaini sulle spalle di ufficiali e soldati attardava il passo, facendo affondare le scarpe nel fango
rossiccio. I corpi dei fanti, nelle divise diacce, perdevano calore e con la stanchezza accumulavano
fame. Le gocce d'acqua battevano sull'elmetto, scendevano a rivoli lungo il collo e diffondendosi
sull'epidermide della schiena ne disperdevano il residuo tepore, traendo dal profondo dei corpi
brividi sottili e segreti, i muti lamenti della carne.
Gli acquazzoni si succedevano l'un l'altro, senza sosta; da ore il vento scagliava moleste punte
d'acqua sui volti madidi. La strada era simile ormai ad un fossato scarso d'acqua nel cui motoso
fondale uomini camminassero in un giuoco sciocco. Nel passo la scarpa affondava intera, il fango si
rinserrava attorno alla caviglia; quando il peso del corpo si equilibrava su un piede per consentire
movimento all'altro, il fango saliva al polpaccio abbracciando l'arto con una viscida e tenace
mollezza che richiedeva uno strappo violento, a volersi liberare. Spesso una suola restava infissa nel
fango e al soldato rimaneva la tomaia; o era l'intera scarpa che si sfilava dal piede e restava preda
del fango; più d'uno camminava pertanto scalzo, che l'inesorabile premere dei sopravvenienti
impediva il ricupero; altri, temendo di dover donare al fango le preziose scarpe, si scalzavano e le
legavano al collo, all'usanza contadina, per preservarle ai bisogni venturi. Qualcuno ancora,
incespicando in una pietra sprofondata nel fango e squilibrato dal peso dello zaino finiva col viso
nella mota, annaspava in questa con le braccia a trovare il fondo solido, si rialzava, grottesca
maschera imprecante, si riassettava la soma e riprendeva l'andare, sospinto dagli altri.
Su quel brulicare d'uomini e d'animali scendevano la pioggia e il tramonto.
Serri, dopo un'ora di marcia aveva sentito le gambe diventare estranee alla volontà, scoordinate nei
movimenti; aveva marciato per una seconda ora sentendo il cervello farsi pesante, mentre negli
occhi percepiva uno sconosciuto martellare. Brividi intensi gli squassavano le membra, si reggeva a
stento, certo aveva la febbre alta, ma poneva tutta la volontà nel portare a termine la marcia, come
aveva sempre fatto senza sforzo.
— Non vedi come dondoli, Serri? Non puoi proseguire, sei bianco come un lenzuolo!
Questa era la voce del tenente Fabrini, il comandante della compagnia Comando del battaglione.
Fabrini ora lo aveva preso a braccetto, amichevole.
— Perché ti sei intestato a voler fare la marcia? Adesso non puoi più continuare.
Sopraggiunsero due autocarrette vuote, annaspanti anch'esse nel fango, Fabrini parlò all'autista della
prima, Serri salì nel cassone ch'era ricoperto da un telo.
I veicoli procedevano a passo d'uomo, affondando spesso a mezza ruota, procedendo fra i soldati; il
medico sedeva all'estremità posteriore dell'autocarretta. La seconda arrancava a una decina di metri
addietro, e con i fari accesi illuminava il gruppo di fanti che marciava fra un veicolo e l'altro.
Era mezzanotte ormai. Le luminose lame dei fari parallele alla strada facevano brillare la pioggia
fittissima che pareva levarsi da terra in innumerevoli righe lucenti. Tratteggiavano, come in un
chiaroscuro a penna, le ombre degli uomini che emergevano dall'oscurità circostante.
Fra i sobbalzi dell'autocarretta, levato su quell'affollamento d'uomini, Serri vedeva come in una
allucinazione l'agitarsi incomposto della schiera taciturna.
I fanti si muovevano a tentoni sul terreno infido, curvi sotto il peso che da undici ore inarcava le
schiene; camminavano protesi in avanti, gli elmetti luccicavano nella cruda luce dei fari e
ondulavano secondo l'alterno moto del passo, in movimento lento, penoso. Il fango era salito dalle
scarpe alle gambe, ai pantaloni, alle mantelle impastate di mota, grevi d'acqua, ricoprenti in un
sudario gelido i corpi intirizziti.
Gemeva la carne percossa, raggelata, pungolata da infiniti assilli di tortura, come sospinta da un
crudele verdetto che forzasse ad arte i limiti dell'umana sopportazione per la voluttà di infierire,
attraverso la carne esasperata, sulle anime spoglie di quei condannati.
Volgevano essi il piede verso altro fango, altra acqua, altra stanchezza, con passo d'automa,
barcollanti, incuranti di schivare una pozza più profonda, una pietra emergente; da tergo i due coni
di luce radente rischiaravano tutto il fradiciume nel' quale sguazzavano. Intorno era solo buio
d'inferno e ululare di vento fra scrosci d'acqua. Non era più Albania, intorno a quegli uomini; non
era più vita umana nei loro cuori, ma sofferenza assurda come un incubo e vera come il dolore.
E innanzi e indietro alla luminosità oscillante altri uomini camminavano, vaganti nel buio, tutti volti
a una stessa sconosciuta meta, fantasmi ciechi brancolanti a plotoni, a compagnie, a battaglioni, a
reggimenti.
Erano portatori d'armi, per ciò soffrivano: sotto le mantelle ciascuno reggeva il ferro e il legno d'un
fucile, attorno alla vita portava sei caricatori con trentasei pallottole e sulla coscia penzolava, fra
giubba e pantaloni, un fodero di cuoio; dentro ad esso, unta e lucida, fatta per lotte primitive,
perfezionato coltello da selvaggi, stava la baionetta.
Col corpo sdraiato e inarcato, puntellandosi con spalle e piedi alle sponde dell'autocarretta per
attutire i sobbalzi, Serri delirando guardava la luce, gli uomini e l'immensa tenebra entro cui, sulle
montagne e nei valloni, altri uomini più mortalmente soffrivano.
— Temperatura quaranta e cinque — disse a Fabrini il medico di guardia all'ospedale di Sinanai.
— È una cosa grave, dottore?
— Non si può dire, vedremo domattina, bisogna visitarlo con cura. Per ora lo farò mettere in una
tenda per la truppa, in questo momento non abbiamo posto in quelle degli ufficiali.
All'indomani Serri venne visitato, la febbre permaneva altissima, la polmonite sovrastava come una
minaccia, ma non era in atto. Era evidente invece una forma reumatica acuta. Venne il colonnello
Vezzi, tranquillizzò Serri: il battaglione aveva piantato le tende a poche centinaia di metri, era stata
annunciata una sosta di vari giorni, si curasse senza preoccuparsi d'altro. Gli ufficiali sarebbero
venuti ogni giorno a fargli visita e a portargli le notizie del reparto.
Sotto il telone a campana stavano addossate le brande, una ventina; su ciascuna giaceva un soldato:
fanti, artiglieri, bersaglieri, alpini, camicie nere. Quasi tutti venivano dal fronte. Feriti, congelati,
malati. Capelli lunghi, barbe irsute, visi smunti. Bende, febbre, sete. Voci roche, esauste. Ricordi,
invettive, lamenti.
Serri ascoltava, guardava quelle labbra che pronunciavano con semplicità nomi paurosi, abituali a
quei soldati che fino a poco innanzi avevano calpestato la neve e le pietre del Còlico, del Tomòri,
del Trebescines, dello Scindèli; gli pareva quasi d'essere un intruso se ripensava al proprio reparto
sempre in attesa d'impiego, quando passavano sulle brande i nomi delle leggendarie divisioni.
— No le par vere, no le pare vere — brontolava un ispido alpinaccio della Julia; — In Italia non se
podarà contar 'sta roba, se no i dirà che se conta bàle... — Guardava a lungo verso l'avambraccio
destro ricoperto di bende, lo rigirava lentamente, con dolore, come per valutarne la futura efficienza
e concludeva, tra il pelame della barba immane: — Ma mi ghe spaco el muso...
— Con la man, sergente! — chiedeva un altro. L'alpino fissava ancora le bende, con sprezzo; un
sorriso pallido gli compariva tra barba e occhi, fuggevole, triste: — Con la destra no de sicuro, i me
la ga magna i grechi.
Durante la notte successiva gli infermieri avevano collocato nella tenda già stipata altre brande per
due feriti appena giunti e subito operati d'amputazione d'un braccio. Giacevano in due brande
vicine, il primo silenzioso e cupo; il secondo, nervoso e insonne, era un alpino della Julia.
All'indomani, quando l'alba filtrò un po' di luce sotto la tenda, alcuni soldati notarono che l'alpino
aveva cominciato a guardare in malo modo l'altro ferito, che se ne stava rinchiuso in sé e pareva
molto sofferente. Col passare del tempo i due si fissavano con maggiore insistenza, quasi si
tenessero d'occhio a vicenda. Per più di un'ora si scambiarono sguardi carichi di sempre più
evidente avversione; finirono col piantarsi addosso reciprocamente gli occhi sbarrati, a guisa di cane
e gatto pronti al balzo, fra lo spasso dei compagni stupiti. Con estrema lentezza si rizzarono a sedere
sul letto tenendosi avvinti con lo sguardo, e un secondo dopo si slanciarono davvero uno contro
l'altro, picchiandosi col braccio superstite, azzannandosi in qualche modo. I loro informi camiciotti
regolamentari di tela bianca ballonzolavano fra i due lettini, mentre la vuota manica sembrava
segnare il tempo alla danza grottesca, interrotta alle prime battute poiché i degenti più vicini, vinto
il primo sconcerto, provvidero a dividere i lottatori subito trasferiti in altre tende.
L'alpino poco dopo tornò, ma per quanto sollecitato dai compagni non disse parola.
Soltanto durante la visita medica, quando entrò il direttore dell'ospedaletto e l'alpino fu interrogato,
si conobbe il motivo della rissa: il giorno prima, durante un assalto, si era trovato corpo a corpo con
l'altro, che era un greco.
Mentre erano avvinghiati nella contesa mortale un colpo di mortaio esploso a pochi passi, forse
un'unica scheggia, li aveva divisi stroncando a uno il braccio destro e all'altro il sinistro. Raccolti
svenuti dai portaferiti, trasportati allo stesso ospedale, ricoverati per caso in due brande vicine, colla
prima luce si erano riconosciuti: ancora una volta di fronte, non avevano saputo fare altro che
riprendere come potevano, col braccio superstite, il combattimento interrotto...
La linea era tanto vicina, che nelle tende dell'ospedaletto se ne respirava l'aria.
La tragedia era nell'aria, non nel cuore degli uomini: questi accettavano la realtà senza
drammatizzarla, sminuzzandola anzi e limitandola ai singoli episodi riguardanti ciascuno. A un
occhio osservatore, non quel senso di morte avrebbe fatto impressione, ma quella giovinezza
vivente nel dominio della morte, perché era evidente che il potere della morte dilagava. Bastava
guardare certi ruolini di presenza nelle tende, irti di nomi cancellati, sovrascritti, nuovamente
cancellati: corrispondeva ad essi il movimento fra le brande e il cimitero da campo. Quando i
ricoverati uscivano dalla tenda e sguazzavano nel fango per raggiungere, ai limiti del recinto, due
pali e un'asse sopra una fossa chiamata gabinetto, bastava che volgessero lo sguardo oltre le tende
per vedere la distesa di croci bianche.
S'era cominciato con lo scavare le fosse lontano, al limite d'un ciglione; ma poi i morti, che pure
hanno diritto a un po' di posto, avevano respinto a poco a poco gli affossatori verso l'area dei
ricoveri, tanto che ora le ultime fosse aperte e ancor vuote aspettavano a pochi passi dalle tende; e
bisognava usare attenzione, di notte, per non cadervi dentro, anche perché il gran piovere le
riempiva di acqua. E invero, a osservare i poveri cristi dalle gambe gialle e nude che usciti dalle
tende s'arrabattavano nel fango, una mano a sostenere il camicione rimboccato e l'altra a trattenere
sul capo e sulle spalle una coperta, tremanti di febbre e lividi di freddo sotto la pioggia che frustava,
c'era da chiedersi verso quale fossa in realtà si dirigessero.
E non era raro il caso di vedere i loro occhi seguire come calamitati un infermiere che portava un
fastello di gambe e braccia alla fossa comune: il contributo della baracchetta operatoria alla terra
d'Albania.
Eppure quegli stessi, tornati alle proprie brande, non davano segno di sentirsi attori o almeno
comparse in una tragedia allucinante; contro il cielo fosco mai la loro immagine si sarebbe stagliata
a disegnare un controluce di tragedia; più semplicemente, nelle ventate e nel tenebrore d'un destino
impazzito ciascuno teneva accesa la fiammella della propria giovinezza. Ogni ferito, ogni malato
sembrava riparare con la mano la sua esigua fiammella vitale dalla parte da cui il vento più
impetuosamente soffiava, col gesto della vecchietta che nottetempo sale a lume di candela la scala
di casa.
Steso a fianco di quei soldati, pareva a Serri di vederli emergere come quel primo visto nella
Vojussa, ma aggrappati ciascuno a un proprio relitto galleggiante.
Nella gran pioggia sotto un'unica immane nuvola bassa, opprimente come una coltre stillante
sospesa a mezz'aria, l'arco del fronte ribolliva nella battaglia. Le armate italiane tentavano di
scardinare i pilastri della resistenza greca. Era venuto il Natale, stava per giungere la Pasqua; e
sempre gli uomini si uccidevano in duelli all'ultimo sangue. Ormai i greci, che da oltre cinque mesi
combattevano con accanimento feroce e con valore indomito, davano segni d'esaurimento di fronte
al rinnovarsi degli attacchi italiani.
Lungo le linee contrapposte infiniti episodi, disperate resistenze, inumane sofferenze, puntiglio
d'uomini, amor proprio di reparti, eroismi da emulare, tradizioni da sostenere, morti da vendicare, le
stesse pietre contese già bagnate di sangue, la necessità di porre fine ad una lotta di durata non
prevista, tutto contribuiva a rendere asperrima la battaglia.
Nel fango del retrofronte italiano le ambulanze e i carriaggi rotolavano verso gli ospedali,
trasportando i feriti già portati a braccia dai costoni e dalle trincee della linea. Era un deflusso
costante: i folgorati dalla battaglia terminavano la loro via crucis nella prima fossa libera, o più
fortunati la proseguivano fino alle infermerie di smistamento e agli ospedaletti avanzati, quindi agli
ospedali arretrati e spesso sulle navi ospedale; infine in Italia, negli ospedali territoriali. L'onda
sanguigna si diffondeva a rivoli su tutta l'Italia, sgorgando dal pietrame, dalla neve, dal fango
d'Albania.
— Serri — disse il medico di guardia, chino sulla branda nella penombra della tenda.
L'ufficiale si svegliò, sentì la mano del collega che gli scuoteva il braccio, aprì gli occhi.
— Sì; cosa c'è? Che ora è?
— È quasi mezzanotte. Senti: tu sei malato, bisognerebbe lasciarti in pace. Ma il capitano medico
mi ha detto di svegliarti. Senti: da più di un'ora continuano a venire soldati in condizioni tremende,
lassù c'è un massacro. L'ospedale di Turano è sovrasaturo, li avviano tutti qui. Quelli che arrivano
dicono che i più sono ancora per la strada; i medici dell'ospedale non bastano, sono tutti interventi
d'urgenza. Il capitano medico chiede se ti senti di venire a dare una mano in sala d'operazione.
— Un minuto... di' che fra un minuto sarò là.
Senza aggiungere parola il collega corse via.
Nel rialzarsi, un capogiro costrinse Serri a sedersi per qualche secondo sulla branda. A occhi chiusi
calzò le scarpe e il lieve sforzo di vincere l'attrito del cuoio bagnato contro i piedi nudi gl'imperlò di
sudore la fronte.
Dinanzi alla baracca che accoglieva i feriti in arrivo, una luce rossigna illuminava l'andirivieni.
Mentre gli ultimi arrivati si trascinavano dentro, l'autocarro vuoto ripartiva e si faceva avanti il
successivo, stracarico di dolore. Quando Serri si avvicinò, due infermieri stavano appunto
ribaltando la fiancata posteriore del cassone e tendevano poi le braccia ad aiutare i primi due feriti a
scendere. Gli altri seguivano, muti, o urlanti, ciascuno proteggendo nella ressa e nel movimento la
parte del corpo colpita. Qualcuno rimaneva sdraiato sul piano dell'autocarro, incapace a muoversi, o
morto. Un soldato con i piedi congelati, sospinto dai compagni da retro fu costretto a saltare giù:
toccò terra con un gemito, cadde prono nel fango e là giacque in silenzio finché mani pietose lo
risollevarono.
Erano tutti stracciati, fradici; le divise a brandelli, le camicie strappate, le fasce penzolanti e disfatte
li facevano sembrare mendicanti, vagabondi cenciosi.
Quasi nessuno aveva scarpe, i piedi erano avvolti in stracci tenuti insieme con spaghi, con ritagli di
coperte, con brandelli di maglie. Qualcuno aveva infilato i piedi in maniche di cappotto serrate
anch'esse oltre le dita e all'altezza della caviglia con cordelline, cinghiette, lembi di camicia; un
soldato aveva un piede chiuso in un tascapane e l'altro piede nudo. S'avvicinavano alla baracca
zoppicando, gemendo, o trasportati a braccia dagli infermieri; o saltellando sul piede ancor sano,
agitavano l'altro a mezz'aria, violaceo e nudo o ferito o già morto. Entravano nella baracca, giunti
alla prima stazione del loro calvario.
Serri affrettò il passo verso la baracchetta operatoria. Nell'angusto spazio di questa, sotto la cruda
luce non c'erano né la calma né l'ordine necessari.
Troppe persone s'avvicendavano, feriti infermieri medici, troppo lavoro ferveva sotto l'imperativo
del dover fare presto, che da troppe ferite fluiva sangue.
Serri indossò un càmice, immerse le mani nell'alcool e si chinò sul rosso d'uno squarcio.
Si fece innanzi, al proprio turno, un soldato dal torace racchiuso in un enorme viluppo di cenci
multicolori, dal quale la testa emergeva come da una balla di stracci. Solo il braccio destro era
libero. L'insieme suggeriva l'idea di una statua a metà imballata per il trasporto.
— Dove sei ferito? — chiese il medico, mentre l'infermiere tagliava il viluppo.
— Braccio sinistro.
— Chi ti ha fasciato così?
— I portaferiti. Il nostro medico è morto.
— Guarda, hanno adoperato anche una calza.
— Sì, c'erano anche delle calze. Dicevano che bisognava tener fissato il braccio al corpo. Per
impacchettarmi hanno adoperato tutto quello che c'era nello zaino di due nostri compagni.
— Sono rimasti senza niente?
— Sì.
— Generosi.
— Erano morti.
Caduto un ultimo straccio di tela grigioverde, apparve il torso nudo. Qualcosa nel cuore di Serri
trasalì nel vedere ciò che la serenità del soldato non aveva fatto supporre. Alcune cordicelle
tenevano aderente al torace l'avambraccio sinistro, violaceo sino al polso ed enfiato fino ad essere
difforme; la mano invece, cerea, stranamente piccola al confronto della tumefazione sovrastante,
pareva aggiunta al suo naturale sostegno per uno scherzo disgustoso. Sopra al gomito il braccio
s'espandeva, come se da un orrido stelo si fosse dischiuso un putrido fiore; s'espandeva carnoso
ancora e con qualche rimembranza d'umano, ma più simile ormai a un velluto gettato e ricoperto di
muffe. Era quasi completamente reciso, il braccio dilacerato; solo qualche lacerto di muscolo e pelle
— una fettuccia — lo congiungeva alla spalla: due centimetri di tessuto cutaneo e una cordicella
tenevano innaturalmente avvinto l'arto al corpo.
Attorno al moncherino girava un laccio emostatico approfondito in un solco, i tessuti circostanti
erano tumefatti e tesi; dal moncherino, come una canna di bambù spezzata, ma bianco, lucido,
fuoriusciva l'osso.
Serri guardò quello sfacelo, attento a rilevare dalla devastazione le indicazioni per l'intervento.
Anche il soldato osservava la propria carne. Il medico sentì quello sguardo sul tritume
sanguinolento e pensò al cuore del soldato, ai suoi occhi che avevano, sotto la crudissima luce, la
rivelazione di tanta rovina, definitiva, soggiogatrice di un'intera esistenza. Volle vedere quegli
occhi, esprimere in quell'unico modo al soldato una fraternità che soffriva con lui; sollevò lo
sguardo dalla ferita al volto del giovane, lo fissò nelle pupille. Erano serene, grandi. Parevano quasi
inconsapevoli, tanto lo sguardo era fermo e forte. Ma proprio allora un nulla si mosse in quegli
occhi fermi, un nulla che accennava a un'angoscia muta, sepolta nell'anima; lo sguardo si addolcì,
infantile ora, di persona che supplica o teme; qualcosa esitò, palpitò, perse luce nel nero delle
pupille; e subito fu chiara, da quei trapassi, la nota finale e dominante: un'umiltà che si discopriva a
se stessa e inginocchiava la forza, ogni forza, al rivelarsi d'una inferiorità da allora in poi perenne.
Quel palpito era accorato e struggente come ogni debolezza che langue sino a morire, come il
battito ultimo di un'ala un tempo possente. E già gli occhi del soldato imploravano, smarriti alla
vista della carne percossa: un tenebrore nuovo si distendeva su un'intera vita, un legame
d'impotenza s'attorceva nelle membra a vincolarle per sempre; l'uomo s'irrigidì nello sguardo, nel
torace, nei muscoli, come a resistere ancora per istinto a una spinta verso l'abisso nel quale sapeva
ormai di dover fatalmente cadere; infine, a palpebre abbassate, disse in un soffio le prime parole
umili della sua rinuncia: — Dottore... Si può sperare...?
Serri portò una mano al braccio incolume, glielo strinse come altre volte suo padre aveva fatto
quando voleva infondergli forza o fargli intendere un consenso profondo; sorrise al mutilato diritto,
aperto, fratello; strinse ancor più forte il braccio, sentì fra le dita il bicipite rispondere con un
guizzo; il soldato si rinfrancò, respirò profondamente, si raddrizzò sul solido tronco, rispose al
sorriso con un ampio sorriso.
— Ho ancora quest'altro — disse. — È il destro, per fortuna.
Al sesto giorno di degenza all'ospedale da campo, nessun amico venne a dare un saluto a Serri,
neppure l'attendente si fece vivo. Era successo indubbiamente qualcosa di nuovo. L'ufficiale si
rigirava sulla branda, inquieto. Le levate notturne e le prolungate fatiche nella baracca operatoria
avevano impedito che la temperatura gli scendesse al di sotto dei trentotto gradi.
Venne alla sua tenda un ufficiale di commissariato, appartenente alla Divisione di Serri.
— Hai sentito la notizia, Serri? La nostra Divisione è partita improvvisamente.
— Quando?
— Ieri notte. Il tuo comandante di compagnia ti manda a dire di curarti e stare tranquillo. Si chiama
Fabrini, mi pare.
— Sai dov'era diretto il reggimento?
— Verso Tepeleni. S'è incamminato per la strada alta, sopra il paese; non porta che là.
— In linea, allora.
— Già.
— Neppure mezzo minuto... — Serri masticò la frase fra i denti respingendo le coperte e cominciò a
vestirsi, infilò poi il cappotto. Non aveva altro con sé: chissà se il suo zaino aveva seguito il
battaglione o era stato rinviato alla base. Avere almeno un paio di fazzoletti, un paio di calze, una
gavetta, un cucchiaio! Uscì dalla tenda. Pioveva. Gli venne a mente l'impermeabile dimenticato
sotto il ripiano del comodino. Rientrò a prenderlo. Era una ricchezza, assieme al grosso coltello da
caccia che gli pendeva alla cintola.
— Bisogna che mi metta d'accordo col medico. Lo rintracciò, gli parlò.
— Non posso — diceva quello. — Mi devi capire anche tu, non posso rinviarti al tuo battaglione
mentre hai ancora la febbre. Pensa alla mia responsabilità se ti sopraggiungessero delle
complicazioni...
— Maggiore complicazione dell'entrata in linea del mio reparto...
— Sì, ma anch'io ho i miei doveri.
— Allora tieni presente che me ne vado, anche se ufficialmente fai conto di ignorarlo. Quando si
accorgeranno che non ci sono più, potresti segnalare che avevo espresso l'intenzione di tornarmene
al battaglione. Questo puoi farlo, per evitarmi complicazioni ridicole. Farò regolare ufficialmente la
mia posizione con le scartoffie fra il mio reparto e l'ospedale. Va bene così?
— E va be', fino a questo ci arrivo. Ti capisco, sai? Vorrei poter venire anch'io con te. Hai qualcosa
da mangiare?
— Ho cinque pastiglie di menta.
— Cercherò di procurarti qualcosa. Aspettami dietro quel capannone.
— Ho potuto avere solo questa — diceva poco dopo, ritornando e levando di tasca una scatoletta di
latte condensato. — Speravo di darti qualcosa di più, c'è modo che tu faccia la fame se non
raggiungi in fretta il battaglione. Guarda, quella è la strada per Tepeleni, si va sempre diritto.
Serri aveva sorpassato, come bighellonando, l'ingresso del campo ospedaliero, e poco dopo
camminava sulla strada per Tepeleni. Erano le nove di mattina. Non un uomo, non un animale.
Piovigginava ancora sulla valle, ma le nuvole alleggerite e bizzarre si abbandonavano ormai agli
estri del vento.
Serri camminava di buon passo, ma le gambe accusavano una stanchezza profonda, le giunture
dolevano.
Un'ora dopo un autocarro in transito lo accolse. A bordo, oltre l'autista c'era un tenente dei
radiotelegrafisti. Quella mattina stessa aveva lasciato Tepeleni, ora vi ritornava. Sì, aveva notizie
della Divisione di Serri: poteva anche darsi che ormai fosse stata impiegata in combattimento, non
sapeva precisare.
— In ogni modo, fra non molto saremo a Tepeleni — diceva — e là avrai notizie precise. Ci
fermeremo qualche chilometro prima, all'ospedale di Turano: deve salire con noi un ufficiale mio
amico che è disceso stamattina in quei pressi, ci siamo dati appuntamento all'ospedale.
A Turano scesero.
— Vieni anche tu — disse il tenente — è possibile che ci sia una tazza di caffè, tu sei medico e
forse ce la danno più facilmente.
Entrarono nel recinto ospedaliero, il tenente domandò dell'amico all'aiutante di sanità.
— Sì, signor tenente, in quella baracca di fronte, la porta di destra.
— Vedrai che tipo — diceva a Serri il tenente attraversando i trenta metri di prato — un originale,
ma in gamba come pochi. Ce ne vorrebbero.
I due ufficiali entrarono, ma non trovarono nessuno: una squallida stanzona con due o tre barelle a
terra, qualche coperta e null'altro.
— Caporale, non c'è — gridò il tenente riaffacciandosi all'uscio.
— Ma sì, — rispose l'aiutante sopraggiungendo; — sono sicuro.
Si chinò su una barella, sollevò una coperta scoprendo un viso.
Il tenente fece un balzo indietro.
— Dio...! Ma cos'è stato?
— Una granata, due ore fa, sulla strada. Mi scusi, signor tenente, io credevo che lo sapeste.
Il tenente si mise a bestemmiare. A bassa voce, a fior di labbra, con fervore accorato; immobile, un
po' chino e a mani giunte come stava, anche a osservargli lo sguardo dolce e implorante pareva
invece che pregasse.

3.
Nessuno che in quei tempi sia passato per la valle angusta sovrastata dal Colico dimenticherà mai
Tepeleni. Il Colico incombeva, nudo e feroce, con i soldati morti e distesi a macerarsi sui costoni,
poiché la montagna tutta sasso rifiutava anche la sepoltura.
Il paese, in posizione-chiave dalla quale dipendeva la stabilità di tutto il settore, era stato martoriato
dai tentativi greci di sfondamento. Ma la serratura, da mesi sforzata, non era mai stata aperta.
Prezzo della resistenza, le sentinelle italiane a quella porta costituivano montagne di cadaveri.
Quando Serri raggiunse il battaglione, questo era fermo a qualche chilometro oltre Tepeleni, sulla
strada che portava ad Àrgirocastro. I greci avevano fatto saltare un ponte, non si poteva proseguire.
I soldati salutavano il loro medico con cordiale effusione.
— Lo sapevamo, signor tenente, che sareste venuto! — esclamavano compiaciuti; ma lo
guardavano preoccupati, trovandolo pallidissimo.
Il tenente colonnello Vezzi, raggrinzando il viso in cento sottilissime rughe per distendere le labbra
in un paterno sorriso luccicante da ogni dente d'oro, rimbrottò il medico per la fuga dall'ospedale e
gli battè sulle spalle con le grandi mani, bonario e soddisfatto. Erano diventati silenziosamente
amici dal giorno in cui, a sedere su un prato e parlando dell'Italia il colonnello aveva tolto dal
portafogli una fotografia, guardandola a lungo. L'aveva porta infine al medico.
— La mia bambina — aveva detto. — Ha quasi tre anni. E poi, più sommesso: — Si chiama Maria.
— Abbiamo un compito duro — diceva in quel momento, guardando l'acqua del Drin che scorreva
nella strettissima valle — saranno giorni aspri, dottore. I greci sono costretti a cedere terreno sotto il
nostro urto, ma arretrano passo per passo. Noi avanziamo nel fondo valle, loro impegnano battaglia
dove il terreno è favorevole. Lasciano nei punti più adatti schieramenti di artiglierie mobili che ci
contrastano l'avanzata per tutto il giorno successivo. Si ritirano bene, fanno saltare i ponti, ci
troviamo in crisi di viveri e rifornimenti, temo che dovremo procedere senza appoggio di artiglierie.
Dovremo ballare. Adesso però facciamo sosta qui sulla strada. Tu sembri un cadavere, sono sicuro
che hai ancora la febbre: riposati un po', devi guarire al più presto. È un ordine.
Capito?
— Signorsì.
Serri sentiva ora la stanchezza e il sonno. Si stese a terra vicino a Fabrini.
Sotto il firmamento di stelle chiuse gli occhi, rilassò le membra, affondò in ombre informi, pesanti
di sonno, mentre dal capo poggiato sull'erba gli penetrava nel cervello la cadenza del passo dei
soldati che a un metro da lui, sulla strada, avanzavano.
In capo a forse mezz'ora, la voce del colonnello Vezzi si levava alta nel buio, irosa e cordiale.
Minacciava fulmini all'aiutante maggiore del battaglione, accusato in quel momento di aver sottratto
la bustina del colonnello per costringerlo a portare l'elmetto. Non aveva mai portato quell'arnese —
diceva Vezzi • era inutile che insistessero, non l'avrebbe portato mai; le pallottole, poi, era evidente
che passavano alte. Venisse trasmesso piuttosto l'ordine di marcia, bisognava agganciarsi al
battaglione che stava sfilando. Accendendo una sigaretta, riconobbe Serri che si levava dalla proda
del fossato.
— Come stiamo a materiale sanitario, dottore?
— Abbiamo solo gli zaini e le tasche di sanità, poche cose. Il più, il materiale someggiato, è rimasto
con le salmerie dietro ai ponti interrotti.
— Naturalmente, al solito. Non ci sarà pane, non ci saranno bende. E dovremo combattere come se
avessimo tutto.
Quando aspirava una boccata di fumo, nel piccolo alone rossastro diffuso dalla brace della sigaretta
gli occhi chiari riflettevano uno sguardo intenso che concitava l'espressione dei fermi lineamenti del
viso; imperioso, lo sguardo indugiava sugli uomini che si scrollavano dal sonno sul ciglio della
strada, ma nell'atto di passare dall'uno all'altro quei lampi si smorzavano per un istante nei toni caldi
di una paternità trepida.
Le compagnie ripresero la marcia. Era necessario procedere in silenzio e ciò rendeva più lungo il
cammino. Ormai il sonno gravava sugli uomini come una malattia cronica, un malessere che
appesantiva le membra e intrideva ogni pensiero. Anche le gambe erano infiacchite dal lungo
andare e dalla mancanza di cibo. Non si udiva tuttavia un lamento.
Chilometri.
Venne l'aurora, fredda, a indicare con i suoi tenui richiami di luce il cammino: la strada, poi la valle,
larga, coi monti a lato;: qui e là piccoli gruppi di case, un pozzo. Su i campi, nessuno.
Da un campanile minimo, una piccola campana tintinnava. Il suono era acuto, querulo, ma i
rintocchi tuttavia erano lenti, mesti: nell'abbandono, nella mancanza di vita di quella zona:
ricordavano qualcosa di vivo, ma morente.
Ormai stava spuntando il sole, il sereno giorno di un venti aprile.
Il sottotenente medico Serri guardava in viso i compagni, come ogni mattina, a tacita visita medica.
Erano volti segnati: l'espressione immobile, dura, tradiva lo sforzo. In due giorni non erano state
concesse due ore di sonno, i soldati avevano sempre camminato, anche Argirocastro era stata
superata. I fanti parlavano di acqua, di pane, di minestroni, di polli arrosto, di bei prosciutti
casalinghi, sapide e vacue larve con cui amavano combattere il fantasma della fame. Qualche
parsimonioso era riuscito a serbare un tozzo di pane secco, residuo di lontane distribuzioni, ma la
gran maggioranza non aveva più nulla. Milleduecento uomini da quattro giorni pativano la fame.
Poco dopo il battaglione si mosse, ma appena superò una curva fu avvertito un sibilo alto: una
granata esplose a lato della strada. Passò un comando: giù dalla strada, in ordine sparso avanzare
ancora. I fanti procedevano carponi fra l'erba bassa. Si trovavano in una valle larga quattro o cinque
chilometri, la strada in quel tratto procedeva sul limite destro della valle, a ridosso dei primi salienti
delle colline pietrose.
In breve il battaglione si trovò sotto un fuoco nutrito: varie batterie sparavano contemporaneamente
dall'altro lato della valle, evidentemente ancora tenuto dai greci. Le granate cadevano qua e là,
disordinatamente; il battaglione non appoggiato dall'artiglieria divisionale, rimasta addietro, non
poteva rispondere. I pochi reparti che lo precedevano erano stati sparsi sulla collina, mimetizzati fra
le pietre. Il battaglione ricevette l'ordine di fare altrettanto, ma il colonnello Vezzi ottenne dal
Comando divisionale, dislocato nei pressi, di poter stendere gli uomini non sulla destra della strada,
fra i cespugli e le pietre, ma sulla sinistra, sui campi a lato della strada.
Cinque minuti dopo i fanti erano stesi a terra, sotto il sole, completamente allo scoperto.
Lassù, alle batterie nemiche invisibili, un ufficiale doveva aver trasmesso a qualche pezzo nuovi
dati per accorciare il tiro, e subito le prime granate caddero sul battaglione così bene esposto al tiro
e del tutto indifeso.
Gli uomini avevano sentito i sibili scendere su loro, precipitosi: avevano calcato l'elmetto sul capo,
e abbassato il viso fino a toccare la terra.
Serri pensò al suo elmetto che a quell'ora penzolava inutile sul basto di un mulo, dietro chissà quale
ponte interrotto. Strano, era ancora possibile pensare a qualcosa, in quelle frazioni di secondo
durante le quali pendeva sul capo la minaccia fischiante: anzi, sembrava che la granata non
giungesse mai a terra.
Venga, se deve venire, ma si sbrighi... Viene, questa è proprio per loro, il sibilo scende, l'aria vibra
come frustata, si presenta la vicinanza, l'immediatezza dell'esplosione: il bolide giunge, sono tre,
quattro, si avverte lo scuotimento dell'aria e del terreno. Serri ode un rumore strano, come se
qualcosa cominciasse a friggergli vicino; lo sfrigolio dura un secondo, poi si smorza. E l'esplosione?
L'ufficiale si accorge d'aver gli occhi chiusi, li riapre. Vede, cinque metri innanzi, una granata; è
lucida, per niente sporca di terra, non pare possa ferire e uccidere, pare una cosa morta. S'accorge
però che sta fissandola da forse un minuto, non riesce a distoglierne lo sguardo. Non esplode? Ora
fa ribrezzo, a guardarla.
Altri quattro colpi in partenza, e quattro granate cadono fra gli uomini. I compagni intorno tentano
di farsi più piccoli, in un gesto convulso, fissano ipnotizzati gli orridi arnesi che friggono. Una è
qui, l'altra là; ma non scoppiano, neppure una è scoppiata. E a cento metri, sulla collina pietrosa, ad
ogni sibilo fa eco il dirompere dello schianto. Si intendono ora le parole del colonnello Vezzi:
«Chiedo di poter disseminare gli uomini sui campi». Aveva notato il terreno molle, sul quale le
granate forse esplodevano raramente.
Dov'è il colonnello? Eccolo, è a trenta metri, presso un albero sul bordo della strada. Se le granate
cadono sulla strada esplodono indubbiamente, egli lo sa meglio di tutti, e resta.
Serri gira per i campi accostando i soldati sparsi fra i solchi. Pare impossibile, ma non c'è un ferito.
Non una granata è scoppiata, mentre è continua la serie di esplosioni al di là della strada. I fanti
sono tranquillizzati, qualcuno dorme folgorato dal sonno; altri tengono l'occhio sospettoso sulle
granate sparse sul terreno; c'è chi già scherza su quegli arnesi in apparenza innocui. Purché
qualcuna non cada direttamente su qualche uomo...
Il bombardamento continua ancora, implacabile. Dopo aver picchiato a lungo, l'artiglieria nemica
desiste dal battere quel terreno molliccio su cui le granate non esplodono, tutti i pezzi riprendono a
sparare oltre la strada.
Serri va a fare rapporto, come d'uso, al colonnello Vezzi che in azione vuol essere sempre informato
sulla situazione sanitaria del battaglione. Il medico passa tra i soldati sempre stesi a terra. Sono
calmi, duri; ragazzi in gamba.
Il comandante è sempre là, sul ciglio della strada.
— Non abbiamo avuto neppure un ferito, signor colonnello — dice l'ufficiale medico.
— Vedi? — risponde; e gli occhi gli ridono, la bocca dai denti d'oro gli ride, le mille sottili rughe
del viso gli ridono.
È giusto dare una soddisfazione a quell'uomo rude, semplice, che a più di quarant'anni fa la vita di
un fantaccino di venti. Perciò il medico aggiunge: — I soldati lo sanno.
Diventa serio d'improvviso, il colonnello, e fissa Serri con uno sguardo impossibile a dimenticare;
quell'uomo si sente davvero padre dei suoi soldati, freme al pensiero d'avere bene vigilato su di
loro. In questo momento, a continuare il discorso o s'arrabbierebbe o nei suoi occhi azzurri
s'addenserebbe l'inammissibile pericolo d'un umidore per nulla soldatesco.
Il medico distoglie lo sguardo dal comandante. A percorrere cento metri sulla strada si può
raggiungere una casupola che, col suo pozzo, sorge al margine della strada verso la collina. Si vede
una piccola bandiera della croce rossa penzolare a ridosso del muro: è un posto di medicazione di
qualche altro reparto.
— Vado a vedere se c'è qualcosa da fare, là dentro, signor colonnello?
— Te lo volevo dire, ma non è compito tuo: è un posto di soccorso dell'altro reggimento. Però se ci
vai fai bene, hanno portato diversi feriti. Sta' attento anche tu, è un brutto posto e io non posso
restare privo di un medico. Capito?
— Signorsì.
In quel momento non tirano, l'ufficiale medico raggiunge la casupola. È costruita con fango, assi e
sassi. Entra, per qualche momento non vede, tanto è buia. Gli vengono incontro due medici, sono
esausti e sconvolti. Serri si offre di sostituirli, quelli ringraziano e se ne vanno.
S'intravedono i contorni di due stanzette comunicanti, in una ci sono due banconi di vendita, l'altra è
vuota: una osteriola di campagna. Ma in terra... sì, ci sono degli uomini. Serri ormai s'è abituato alla
penombra. Si china su un soldato: è senza giacca, ha un braccio stroncato, gli occhi chiusi. Un
secondo accovacciato contro la parete, ha un triangolo di tela sul capo. Il medico solleva la tela
arrossata di sangue: una scheggia ha aperto la cute e il cranio dalla fronte all'occipite, un liquido
grigiastro misto a sangue cola a gocce sul collo, scende a inzuppare la camicia. L'uomo, dagli occhi
semiaperti e spenti, respira gemendo.
Serri guarda ad uno ad uno i feriti; no, nessuno è del suo battaglione. Ogni poco giunge qualche
altro ferito, il da fare aumenta. Sono le tredici, i greci sparano da quattro ore e ne hanno almeno
altre sei da utilizzare prima di intraprendere il consueto ripiegamento notturno. Le batterie battono
sempre la collina; la pioggia di granate si avvicina gradualmente, poi sovrasta, più tardi si allontana
di qualche centinaio di metri per riavvicinarsi poco dopo. È un lavoro metodico, tranquillo quello
che i greci ai pezzi svolgono dai colli opposti, un lavoro simile a quello del giardiniere che con la
pipa in bocca e il tubo in mano innaffia l'aiuola.
Nella casupola ferve il lavoro fra il rintronare dei colpi; intorno c'è tutta pietra, dietro prende subito
attacco la collina tutta rupi, ed ogni granata esplode.
Già da un'ora Serri fa del suo meglio per essere d'aiuto a quei poveri ragazzi.
Tutti hanno sete, le ghirbe e le borracce sono vuote da un pezzo, ma i feriti chiedono l'acqua come
se invocassero la Madonna. Fuori c'è un pozzo, chissà che non sia asciutto. Il medico esce, al pozzo
c'è una latta da benzina mezzo sfondata congiunta a una cordicella, la cala nel pozzo. Il bidone
rugginoso risale, Serri riempie la borraccia, rientra nella casa. È putrida quell'acqua, limacciosa; si
può darla ai feriti? L'assaggia: è disgustosa. Ci si può arrischiare a berla? E il tifo? E le circolari?
Ha un po' di steridrolo, ne versa nella borraccia; però non c'è anasteridrolo, sarà imbevibile. Il
medico riassaggia: ora è nauseante, letteralmente schifosa con quel sapore di doro.
— Acqua... acqua...! — dicono, gridano, gemono i feriti. Il ferito alla testa, che delira, canticchia
quella parola di continuo, in modo macabro. Serri ha ancora la scatoletta di latte condensato che
forse può correggere un poco quel sapore. Versa il latte nell'acqua, agita, sperando, mentre agli
occhi dei feriti non sfugge un movimento.
— Dottore, muoio, datemi da bere... — dice in un soffio un fante, ai piedi di Serri.
L'ufficiale prende la borraccia, si china sul ferito, gli solleva la testa.
L'assetato beve avidamente qualche sorso, ma improvvisamente ritrae il capo e lascia uscire dalla
bocca l'ultima sorsata, disgustato. Il rivolo di latte gli scende sul petto, scorre più rapido sul sangue
rappreso che intride la camicia — latte sul sangue è uno spettacolo orrendo — cade sul pavimento
argilloso.
— Anche a me! Anche a me! — invoca qualcuno che ha visto il gesto del medico. Egli passa fra
quei poveri corpi, offrendo il miserabile dono. Qualcuno beve ingordo, quasi tutti lo respingono alla
prima sorsata, ma prima vogliono provare.
— Non ho altro, ragazzi; non c'è altro.
Si avvertono all'improvviso due sibili vicini, due schianti di là dal muro, dal lato della collina;
l'atmosfera nell'interno della casupola vibra, la capanna sembra crollare, qualcosa cade dal soffitto,
l'aria s'imbianca di polvere. La porta si spalanca e un gruppo urlante irrompe nella stanza
schizzando attorno sangue e terrore. Un fante sostiene con un braccio l'altro braccio del tutto aperto;
dalle vene recise il sangue fluisce continuo, nero, dall'arteria beante fuoriesce a fiotti e il ragazzo
alla vista impazzisce. Non ci sono lacci emostatici, il medico gli strappa la cinghia delle giberne e
con quella frena l'emorragia, più tardi interverrà più accuratamente; fa inginocchiare il ferito
dinanzi al banco di vendita, gli stende il braccio sul piano, il braccio è una poltiglia.
— Sta' fermissimo, non aver paura, non ti faccio più male di quanto già senti, ti fascio.
Corre da un secondo: è a terra, con una coscia sfracellata, la rotula arrovesciata pende fra una
gamba e l'altra, tutta l'articolazione del ginocchio è in pezzi, una scheggia grossa come un pugno è
piantata nella carne, il sangue fluisce.
— Faccio bene a levare la scheggia senza poi disporre di mezzi adatti? Non aprirò una nuova porta
all'emorragia? — Il medico deve decidere subito, ma sa che dalle sue decisioni dipende la sorte
degli uomini che lo invocano. Divarica la ferita, con l'occhio ne fruga i recessi.
— Meno male, la femorale è salva, quasi del tutto scoperta, eccola lì; posso levare la scheggia.
La scheggia rotola sul pavimento. Bene, l'emorragia non aumenta; ma l'estremità del troncone
inferiore del femore spezzato preme sulla safèna ancora intatta, se il ferito muove il bacino
probabilmente la lede, bisogna scongiurare quel pericolo. Perché i portaferiti che hanno trasportato
questo poveretto restano impalati?
— Portaferiti aiutatemi un poco, slacciate almeno le vesti a quell'altro ragazzo, non vedete che
soffoca? Fra un minuto vengo io.
— Così, da bravi! Sollevategli intanto la camicia, adagio, guardate dove è ferito, se gli esce sangue.
— Che? la ferita soffia?
Il medico si precipita sul ferito, guarda: è vero, la ferita «soffia», le pleure evidentemente sono
perforate, la scheggia è penetrata nel polmone ed ha aperto un tragitto fino ai bronchi: quando il
ferito inspira, l'aria entra anche dalla ferita: enfisema traumatico.
— Dio Madonna! respira con la ferita.. — mormora un portaferiti; un sorriso ebete stira le sue
labbra esangui.
— Là, sul banco! — dice concitato il medico. — Trovato? Si, un rotolo rosa, cerotto, cerotto, non lo
conoscete? Oh, finalmente! Date qui. — Riavvicina i bordi della ferita toracica, stende su questa
uno strato di cerotto, un secondo, un terzo, bisogna che ne risulti un tampone impermeabile. Quella
volta in clinica il chirurgo... — Portaferiti, mentre finisco qui, fate un'iniezione di canfora a questo...
a questo... e a questo. Là sopra c'è ago, siringa e fiale.
— Ma noi... non siamo portaferiti.
— Come? Anche questa... Correte allora, andate a dire ai vostri ufficiali che mandino a darmi una
mano, se no qui qualcuno mi muore. Fate presto...
Corrono fuori, tutt'e quattro, non vedevano l'ora di andarsene.
Il ferito al torace, che sembrava morisse, ha ripreso a respirare con una certa regolarità; il medico
può occuparsi di altri due fanti.
— Ora a voi due, scusate, non vi avevo visto. Niente di grave spero, se state in piedi. Siete amiconi
sembra, anche qui vi tenete per mano.
È forzato però questo tono scherzoso, nell'aspetto dei due c'è qualcosa che non lo convince. Poggia
una mano sul braccio di uno. — Cos'hai che non va, tu?
— Signor dottore io sono... sono... cieco — balbetta quello.
— Ma no, ma no, non dire parole grosse. E a te invece cosa è successo? — il secondo non risponde,
trema tutto.
— Vieni qui da me, avvicinati.
Fa un passo, due passi incerti; se il medico non lo ferma calpesta un ferito.
Non vede, non vedono. Li guida in un angolo, li fa sedere a terra.
— Non muovetevi, state tranquilli, lo scoppio vi ha fatto uno scherzo, ma presto vedrete di nuovo.
Ora che ha constatato la gravità di ciascun ferito ed è ricorso agli immediati ripari, bisogna
medicarli tutti questi figlioli, fissare opportunamente i lacci, scongiurare il dissanguamento senza
avviarli al pericolo della cancrena.
Il colpito al polmone non presenta forame d'uscita, i cerotti hanno servito e servono, la respirazione
è riattivata; ma la vita viene meno, a poco a poco.
Basta un nonnulla per spegnerla, una complicazione minima, un colpo di tosse, forse meno. Il polso
è filiforme. Potrà davvero giovare il cardiocinetico che il dottore gli sta iniettando?
La siringa non è svuotata e già Serri tende l'orecchio per individuare l'origine del nuovo rumore che
da vari secondi si è inserito fra gli altri: un brusio che gradualmente s'è trasformato in un rumore di
ferraglia smossa. Carri armati, non c'è più dubbio; sono due, ora procedono sulla strada, passano
dinanzi alla casa... Ma no, hanno girato attorno all'angolo della casa, si sono fermati...
Nell'istante stesso, due tre cinque granate scendono fischiando sui carri, sulla casa, tutto si scuote
intorno, una parte del soffitto crolla, il tugurio sembra sprofondare. Gli urli attorno alla casa si
rinnovano moltiplicati, il polverone è tanto che il medico non vede più nulla. La porta viene aperta
d'impeto e una decina di soldati urlanti irrompono calpestando i giacenti che iniziano a urlare
anch'essi; i sopravvenuti invocano aiuto ad altissima voce, resi folli dal gridare collettivo, inorriditi
nel vedere le proprie membra squarciate; chi li sorregge urla di terrore. Altre granate su
quell'inferno esplodono, una sembra sfondare il muro, nella violenza della deflagrazione la porta
richiusa viene scardinata di schianto, si fa più luce nelle stanzette dannate; e più alte d'ogni rumore,
d'ogni fragore, più disperate di quel destino stesso sono le grida dei feriti, appelli inferociti
singhiozzanti di chi vede la morte frugare tra le carni aperte.
Il medico riesce a far tacere il folle coro; fra il pianto sommesso, contagioso, in cui si è disciolto il
collettivo farneticare, s'accosta a ciascuno e lavora con fervore, sospinto dalla tragica necessità di
far presto, di vincere in rapidità il flusso del sangue che da tutte quelle creature fuoriesce a fiotti.
Ancora granate sul suo lavoro, le conta, sono sei tutte a ridosso di quella «sua» casa; hanno puntato
ormai maledettamente bene su quel bersaglio. Nuovi calcinacci precipitano, nuovi urli rintronano.
Ancora tre fanti ne portano un quarto, lo depongono, guardano, fuggono. Il fante ha una gamba
sfracellata sopra il ginocchio, mostruoso impasto di muscoli dilaniati, filacci di panno grigioverde,
frammenti d'osso, lembi di tela, coaguli di sangue, pietrisco e terra; tutti i grossi vasi sono recisi, il
sangue affiora dallo sfacelo come acqua da una polla sorgiva.
Con la cinghia dei pantaloni il medico gli frena l'emorragia, la gamba è attaccata al corpo con brani
di pelle.
— Non muoverti così, figliolo, che sfreghi l'osso per terra, ti fascio subito.
— Ma bisogna liberare il corpo da questa gamba ormai perduta — pensa; — non ho un bisturi, una
forbice, nulla. Adoprerò il mio coltello da caccia, perdonami.
Leva dalla cintola il coltellaccio.
— Macellaio! — La parola che gli attraversa la mente sibila come una frusta.
La cadenza di fuoco è un po' rallentata, ora.
Il medico lavora rapido, appassionato. Ha senso comune il suo lavoro, servirà a qualcosa, o una
granata particolarmente precisa risolverà ogni ulteriore problema travolgendo e seppellendo tutti in
quella bicocca? Disinfetta, sbriglia, ricompone, taglia, fascia. Iniezioni, garze; il coltello da caccia
dalla larga lama che finora serviva ottimamente per tagliare a fette la pagnotta e ad aprire le
scatolette, ora sprofonda nella carne, perdonino Iddio e queste creature! Muscoli squarciati, ossa
infrante. Bisogna tener d'occhio i lacci, i cuori, il respiro. Il medico lavora febbrile. Mai la vita di
tanti uomini si è abbarbicata così disperatamente alle sue mani, né queste sono state più spoglie.
S'accorge di non aver mai pensato a sé, fino a quel momento. Ha nel cuore una calma meravigliosa,
una serenità assoluta.
— Questa arriva qui, eccola... — pensa il medico. Il tetto sembra rovinare, con gran fracasso un
angolo del soffitto precipita, nel polverone che si diffonde s'intravede l'apertura che s'è formata,
ampia come una botola; il materiale crollato è caduto tra il banco di vendita e il muro, dove non era
stato posto nessun ferito. Il medico ha un sospetto, si porta dietro il banco, guarda fra le macerie,
vede ciò che temeva: la granata si è infissa a metà nel pavimento senza esplodere. È di medio
calibro, se esplode in quel piccolo ambiente chiuso è in grado di finire tutti col solo spostamento
d'aria. Permetterai anche questo, Signore, in una simile fossa di dolore?
Il medico passa fra i feriti. Sono molti ormai, una trentina, addossati uno all'altro nello spazio
ristretto. Bisogna scavalcarli per raggiungere gli altri. Qui e là c'è qualche spazio libero, nei punti
declivi del pavimento ove sono raccolte pozze nerastre: il terreno argilloso non assorbe il sangue
che ristagna perciò a grandi chiazze, come olio denso. Nell'aria c'è l'odore graveolente, grasso,
dolciastro, nauseabondo del sangue umano.
Muovendosi bisogna stare attenti a non scivolare su questo sangue sparso a pozze sull'argilla. È lì
per terra, nero, sta coagulando lentamente, gli uomini che lo hanno perduto sono intorno, ogni tanto
il medico è costretto ad allentare qualche laccio e farne perdere ancora, per evitare la cancrena.
— Dottore, non vedo... — geme un fante, tendendo la mano in aria; nel gesto ha già il tratto del
cieco.
— Davvero non vedi ancora? È uno choc nervoso, passerà presto. — Sarà così davvero?
Il medico volge l'occhio al più vicino, in tempo a vedere che sta strappandosi la benda che gli copre
la testa. È il fratturato cranico. — Fermo tu! — Ma quello non ascolta, non può, è in delirio. Non si
può fissare saldamente la fascia perché comprimerebbe il cervello. Il medico gli lega le braccia, non
può fare di meglio. Anche un altro bendaggio si è allentato, sulla coscia del ragazzo al quale ha
amputato la gamba sfracellata: smaniando e torcendosi, a poco a poco il ferito ha messo a nudo lo
squarcio e nell'incoscienza della febbre inarca il corpo poggiando a terra con le spalle, con un piede
e col residuo del femore che è fuoriuscito nuovamente dai muscoli della coscia. Il troncone d'osso,
puntato contro la terra, fruga orrendamente nell'argilla e va scavandola ad ogni movimento che il
ferito imprime al bacino. Il medico si è precipitato a impedire quello strazio.
Il sole sta tramontando, le artiglierie nemiche tacciono, fra poco dovranno arretrare.
Una granata, solitaria, alta nel cielo passa sibilando in una nuova traiettoria.
Qualche attimo, e nella zona delle batterie nemiche si avverte una modesta, nitida esplosione. La
granata proviene dalle linee italiane, è evidente.
— È un pezzo di piccolo calibro — pensa Serri; — per sparare su un obiettivo a cinque chilometri,
il cannone è stato spinto quasi alle nostre spalle. La strada è perciò praticabile, potrà giungere un
automezzo. — Il medico sente che i suoi feriti saranno posti in salvo, non moriranno in quella tana
sanguinolenta.
— Ragazzi, coraggio! — Egli stesso ascolta la propria voce fatta gioiosa; — presto verrà
l'autolettiga, dovrà fare due o tre viaggi. Stabilisco io i turni, non ammetto proteste sulle precedenze
di partenza. Comando io, intesi?
I soldati annuiscono, rianimati. Il medico sa che con la speranza si acuiscono gli egoismi e l'istinto
di salvezza, non vorrebbe dover essere duro quando starà per separarsi dai suoi feriti.
— Sento un motore! — grida uno.
— È vero! — gridano altri.
— Ferma! Ferma! — gridano tutti. I più vicini all'ingresso si trascinano verso l'uscita.
Come nelle favole, quando lo spasimo pare spezzi l'ultima resistenza, s'avvera il miracolo. Dinanzi
alla porta s'arresta una brutta, tozza, tarda autolettiga dell'esercito italiano. Cessati per incanto gli
urli dei feriti, s'ode la voce dell'autista: — Feriti, qui?
— Eh, sì. Quanti ne puoi caricare? Ne ho otto che devono assolutamente stare sdraiati. Parti tu...
tu... tu... e questi. Basta, ho detto basta.
I portaferiti dell'ambulanza vanno e vengono con la barella, i feriti passano dinanzi a Serri
nell'uscire dalla catapecchia, gli tendono la mano fatti ridenti e ciarlieri.
— Grazie, signor dottore...
— Veniteci a trovare all'ospedale.
Uno dei partenti, il fante della gamba fracassata dice passando: — Dottore, voi non avete l'elmetto,
il mio vi deve andar bene, io non lo porterò più, prendetelo, vi potrà servire. — E glielo tende dalla
barella in movimento, volgendosi penosamente col capo per vedere se il dono è gradito.
L'elmetto è stillante di sangue, lurido: Serri vi aveva infilato la coscia monca, quando il fante in
delirio la premeva in terra.
— Grazie, mi va benissimo, mi ricorderò di te... — E come il fante guarda ancora in attesa di un
gesto, Serri mette in capo l'elmetto. Qualche goccia gli scende subito lungo il collo: sangue di quel
poveretto, che sorride.
Poco dopo torna l'autolettiga: i feriti partono tutti in un unico viaggio, la casupola si vuota.
Il medico ora da un'occhiata in giro, è ormai tutta buia; gli uomini hanno concluso il loro episodio e
cedono il campo ad altre vite: questa notte i topi nelle loro scorribande sul pavimento si tingeranno
le zampette di rosso; altri animali di campagna entreranno, e nell'oscurità lambiranno con le avide
lingue quelle pozze così bene odoranti e gustose.

4.
Dopo mezz'ora di marcia i fanti raggiungono un punto della strada ove il generale Ferazzini,
comandante la divisione, fra qualche sacco e qualche aiutante procede personalmente alla
distribuzione di viveri gettati da un aereo.
I soldati passando tendono la mano verso il generale e ricevono una scatoletta di carne. Nulla più;
ma è già qualcosa per gente affamata e digiuna da vari giorni. Il colonnello Vezzi, gli ufficiali, i
soldati aprono alla bell'e meglio la scatoletta marciando nel buio pesto, attenti a non lasciarsi
sfuggire dalle dita i pezzettini di carne che riescono ad estrarre.
Non è agevole aprire una scatoletta di latta con una baionetta camminando nella notte; Serri è
costretto ad adoperare il suo coltello da caccia, non ancora lavato dal sangue. Non ha avuto fortuna,
la sua razione di carne è immangiabile.
Il battaglione è il reparto di testa, secondo il turno; per ventiquattro ore sarà il reparto italiano più
avanzato nella valle del Drin, lungo la strada che da Argirocastro porta a Kakavija, raggiunge il
Kalibàki su cui si snoda la linea Metaxas e scende alfine direttamente a Gianina, nel cuore
dell'Epiro.
Avanzare per quest'arteria significa aprirsi le porte della Grecia non solo, ma bloccare la migliore
via di deflusso dello schieramento greco fra il mare e il lago di Ochrida.
I reparti italiani in avanzata stanno per entrare in territorio greco, la stabilità del fronte greco è stata
scardinata, è imminente il crollo di tutto lo schieramento. La resistenza nemica è tuttavia
tenacissima, ogni appiglio di terreno è sfruttato fino all'estrema possibilità, concentramenti di
artiglieria interdicono il passo agli italiani durante il giorno. Sono poderose formazioni di
retroguardia che si avvicendano nello sforzo di attardare l'avanzata italiana: ma il grosso
dell'esercito greco ripiega sistematicamente, celermente nel continuo sforzo di non farsi travolgere
dalle divisioni italiane incalzanti e trasformare la ritirata in rotta.
Il soldato italiano durante questa campagna ha valutato esattamente le eccellenti doti del
combattente greco; avverte però che la macchina bellica nemica ora sta per sfasciarsi. Da qualche
giorno corre anche voce che i tedeschi abbiano attaccato dal nord le truppe greche di copertura che
presidiano i confini settentrionali.
Il battaglione del colonnello Vezzi sta avanzando nel fondo valle ed è prossimo al confine; la
borgata di Kakavija che lo delimita è a tre o quattro chilometri.
Gli abitanti di Argirocastro sono stati concordi nell'affermare che i greci abbandonando la città
hanno lasciato incarico di annunciare agli italiani che al confine avrebbero trovato filo da torcere e
pane per i loro denti.
Ogni tanto qualche colpo d'artiglieria in partenza dalle colline verso cui il reparto è diretto indica
che il nemico, contrariamente al solito, questa sera s'è fermato ed attende.
Faravelli e Serri, nuovamente ricongiunti, forse meglio di ogni altro percepiscono la tensione di
volontà che sostiene il reparto: loro perpetuo compito è infatti quello di riassestare, talvolta con un
medicamento ma assai più spesso con la parola, il bagaglio di piccoli e grandi dolori che il reparto
trascina con sé.
Zoppicando, il tenente Fabrini cammina dinanzi a Serri. Si appoggia a un bastone e incede
faticosamente; da Sinanai in poi ha marciato poggiando ad ogni passo su una caviglia distorta, si
che questa s'è tumefatta fino a diventare più grossa del polpaccio: il dolore infierisce da una
settimana.
Fabrini cammina in silenzio, solitario. Serri da tempo lo tiene d'occhio, poiché l'amico nell'ombra
sembra spesso sul punto di perdere l'equilibrio; lo avvicina e sostiene d'un tratto mentre sta per
cadere sul ciglio della strada.
— Hai... hai un po' d'acqua? — chiede Fabrini.
— Ho un intruglio d'acqua latte e doro, non riuscirai a bere, lo respingevano perfino i feriti, oggi.
Vuoi assaggiarlo?
— Sì.
Beve, vuota la borraccia fino all'ultima goccia con un'avidità animalesca. Il medico torce la bocca,
nel buio.
Il tenente si riattacca al braccio di Serri e la coppia riprende il cammino fino a che il medico è
costretto ad arrestarsi dinanzi a un uomo afflosciato a terra.
Molti ormai sono gli sfiniti dalla fame e dalla stanchezza.
A un tratto la colonna si ferma.
Avanza da tergo un carro armato, dall'orlo della torretta spunta la testa del colonnello Rebellin, lo si
riconosce dalla voce arrochita con cui chiede ai soldati in marcia, superandoli, se c'è fra loro il
colonnello Vezzi.
— È in testa. Sempre in testa, signor colonnello...! — rispondono i soldati.
Serri, ponendosi nella scia del carro che fende la calca raggiunge agevolmente la testa del
battaglione. Qualcosa di grave evidentemente matura. I primi uomini del reparto sono fermi dinanzi
a un massiccio ponte; un'arcata è stata fatta saltare, ma il cemento armato caduto in blocco
nell'acqua ne emerge e consente il passaggio.
Il tenente colonnello Vezzi si avvicina al carro armato; dalla torretta il comandante del reggimento
gli dice con voce eccitata: — Vezzi, ti porto personalmente un ordine importantissimo giunto poco
fa: sorpassare il confine entro domani, a qualunque costo. Obiettivo: Kakavija. Il fonogramma dice
testualmente «a prezzo di qualunque sacrificio». Il tuo battaglione è di testa fino a domani. Sono
contento che tocchi a voi perché so quanto valete tu e il tuo battaglione. Mi raccomando, è un
compito eccezionalmente importante quello che ti affido — conclude agitatissimo Rebellin — conto
su di te, mi raccomando; si prevede che incontrerete resistenza accanita.
— Andremo di là del confine, comandante — risponde tranquillo e sommesso Vezzi.
— Ma è bene che tu non lo preannunci ai greci — aggiunge, evidentemente seccato che il
comandante di reggimento abbia trasmesso un così duro ordine senza alcuna riservatezza.
Col perdersi del rumore del carro armato, Vezzi rimane con nelle mani la sorte del suo battaglione.
Socchiude le palpebre per acuire lo sguardo puntato al di là del fiume, nelle tenebre. Non si vede
nulla, non si sente niente, salvo il consueto gracidare delle rane.
Mille duecento soldati.
— Avanti, attenti — dice dopo un minuto di silenzio, facendo il primo passo sulle macerie del
ponte.
Appena superato il ponte, una mitragliatrice nemica spara, ritmica.
— Giù dalla strada; avanti.
Il colonnello cammina ora su un secondo ponte, il battaglione segue. Perché il comandante precede
tutti? Non fa male, in un momento in cui tutto dipende dai suoi comandi?
Un'altra mitragliatrice spara, più precisa, più vicina.
— Avanti svelti, senza rumore. Nessuno spari.
Quando il battaglione ha superato i ponti e procede sui campi parallelo alla strada, diverse
mitragliatrici greche aprono il fuoco. Il reparto è stato avvistato, le pallottole passano fischiando
sopra gli uomini subito distesi a terra.
— Qui due mitragliatrici, rispondiamo. Il tiro delle armi ora s'incrocia, una scarica coglie un fante
che s'era alzato per spostarsi.
— Guardalo, dottore, ma non far luce.
Il soldato è ferito alle due gambe e al braccio destro, ulna e radio sono fratturati. Serri taglia la
manica della giubba. Vene e arterie per fortuna sono illese, il ferito perde poco sangue. Con due
baionette il medico fissa l'avambraccio. Giù i calzoni, adesso. Il buio è quasi completo. Cerca le
lesioni a caso, strisciando le dita sulle cosce denudate, risalendo i rivoletti di sangue fino alle loro
sorgenti, le ferite. Sono tre, una ampia e due più piccole. Non sembrano ferite gravi. Le tampona
con i pacchetti di medicazione che i due portaferiti gli porgono. C'è anche una barella.
— Portatelo indietro, appena cessano di sparare qui. Io vado avanti.
Avanza nuovamente solo, il battaglione nel frattempo ha proceduto. Rompono il silenzio due colpi
in partenza di mortaio da 45. Attende gli scoppi: esplodono più lontano, verso il nemico: ha sparato
il battaglione. Avanti in quella direzione, allora. Ecco un colpo di cannone greco, tiro alto, il
cannone ha sparato da vicino.
Serri dopo un quarto d'ora di cammino a casaccio raggiunge il battaglione.
Il colonnello studia ora una carta topografica chino in una fossa, al lume di una pila. I due ufficiali
guardano l'ora: le due e venticinque.
Serri viene avvertito che due soldati sono stati feriti, nel prato sotto la strada. Quando risale, gli
uomini hanno ripreso ad avanzare. L'ottava e la quinta compagnia sono già passate, guidate dal
colonnello, il medico si unisce alla compagnia Comando che sta sfilando. Per uno, massimo
silenzio.
La strada si snoda in salita tra le ultime balze del colle assai scosceso che sta sulla sinistra. A destra
il pendio digrada più dolcemente per un centinaio di metri perdendosi infine nel pianeggiare della
valle solcata dal fiume.
— Serri, siamo nella zona di Kakavija, fra due minuti passiamo il confine — sussurra Fabrini.
Le mitragliatrici greche frugano la notte, incessanti. La strada è del tutto scoperta, gli uomini
procedono curvi sul ciglio della via, addossati al monte.
Il fuoco nemico si intensifica, si fa più preciso, la fila d'uomini s'arresta.
L'artiglieria greca batte la strada; i cannoni sono vicinissimi, forse neppure a un chilometro innanzi,
piazzati all'altezza della strada che ora continua diritta e pianeggiante. Tirano a zero, si sente lo
scoppio di partenza, subito dopo il proietto passa fischiando parallelo alla strada — se ne avverte lo
spostamento d'aria — ed esplode poco addietro, sui roccioni sovrastanti il percorso già fatto. Ancora
avanti, lenti, fanteria contro artiglieria. Davanti agli uomini, ad est, l'aurora segna l'orizzonte
staccando il colore del cielo da quello della terra. Fra poco sarà chiaro, la situazione diventerà
durissima. Il nemico sfrutta subito i primi albori, intensifica il fuoco; tre, quattro granate al minuto
frustano l'aria e s'infrangono contro il monte.
Dinanzi alla compagnia Comando la strada è ancora rettilinea per una cinquantina di metri, poi
forma una lieve curva verso valle: dev'essere un punto terribilmente esposto. L'ottava e la quinta
compagnia col colonnello Vezzi sono passate al buio, la compagnia Comando dovrà passare col
chiaro. La curva è raggiunta; i cannoni la spazzano d'infilata, le mitragliatrici la dominano; si
sentono le pallottole sibilare e le granate sfrecciare sonore. Il tiro è perfetto, i proietti creano un
vortice d'aria al centro della strada sfiorandone il piano a due metri dai soldati che avanzano curvi
lungo il ciglio a ridosso del monte.
Altri cannoni greci fanno un tiro più lungo, battono tutta la valle, in ogni senso, a un chilometro, a
due, a cinque, dietro il battaglione per sbarrare la strada agli altri reparti avanzanti. Dovunque la
valle è punteggiata dalle vampe delle esplosioni. Il battaglione ha superato il confine, il colonnello
Vezzi ha eseguito l'ordine ricevuto; ma anche i greci hanno fatto una promessa: mantengono la
parola, sparano con decine di cannoni, circa sessanta si saprà poi.
I primi fanti della compagnia Comando, fra i quali è Serri, strisciano ventre a terra. Essendo proni è
possibile vedere qualcosa della valle sulla destra; davanti, nulla. Gli uomini procedono silenziosi,
intenti, sotto un discontinuo tetto di invisibili fili mortali che sovrastano la strada.
Il fante che precede Serri ha raggiunto la curva. È sdraiato a terra, solleva il capo, indeciso; lo
abbassa.
— Forza! — gli dice il medico.
— Non si vede nessuno; non si capisce dove andare... — borbotta l'altro.
I greci tirano maledettamente. Il medico guarda indietro verso i roccioni contro i quali le granate
esplodono. Eccone una che passa, l'ufficiale quasi non crede a se stesso; è un disco infuocato quello
che vede. Eccone un'altra; non cè dubbio, è un disco rosso che a velocità incredibile sorvola i fanti
stagliandosi netto nel chiarore incerto. Il segno luminoso del proietto che svela la traiettoria rende
percepibile anche agli occhi la presenza del ferro rovente.
— Ti decidi? Bisogna sbrigarsi.
— Vado.
Il fante si alza scattando, corre avanti, oltrepassa la curva, scompare.
Ora è il turno del medico. Striscia, raggiunge la curva, guarda. Avanti c'è un rettilineo, saranno
cento metri, al termine di questo stanno due casette sulla strada. Di fianco alle case, sulla destra,
termina il prato e s'eleva una serie di collinette. I cannoni sono nascosti fra gli alberi di quelle
colline, ecco una vampa di colpo in partenza, ecco la granata; stando sulla curva pare che il bolide
strisci vicino al corpo. Sulla sinistra della strada la collina s'innalza petrosa, scoscesa. I sibili delle
pallottole di mitragliatrice, al confronto della violenza strapotente delle granate non fanno quasi
impressione.
Bisogna muoversi. È evidente la necessità di lasciar passare una granata e subito dopo scattare, nei
secondi d'intervallo fra una granata e l'altra. Ma dove sono andati quelli che sono passati? Non si
vede nessuno, è chiaro che soltanto quando si è in piedi in corsa potrà apparire la via di scampo.
Sui sensi del medico passano ondate di concitazione: a scattare nella corsa in un tempo sbagliato c'è
da saltare per aria in pezzi, centrati da una granata.
— Devo andare a caso, deciderò correndo — pensa il medico.
È già in piedi, si slancia in corsa allo sbaraglio, le sue carni gli urlano il terrore di venire dilaniate;
ma finalmente vede una cinquantina di uomini sdraiati a terra sul prato in prossimità della strada; un
ultimo balzo a capofitto ed è fra quelli, illeso.
Ora può guardarsi intorno: Iddio ha posto in quel punto una gibbosità del terreno, un lieve rialzo a
semicerchio, pochi metri cubi di terra in rilievo sulla conca del prato: è la vita per tanti uomini,
defilati al tiro nemico e pigiati dietro la difesa naturale.
— Ci sono feriti? — chiede.
Sì, no, nessuno lo sa, ma nessuno si lamenta.
Fra granata e granata scendono ancora un soldato, un secondo e infine un ufficiale; poi più nessuno,
è giorno fatto. La visibilità consente ormai ai greci un controllo perfetto, non avanzerà più nessuno
per tutto il giorno.
Nel gruppo di gente ammucchiata c'è qualche ufficiale, il tenente Fabrini, vari soldati della
compagnia Comando.
— E il colonnello Vezzi? Gli uomini dell'ottava?
— C'era ancor buio, hanno potuto avanzare, portarsi sul lato sinistro della strada e salire in
diagonale per qualche centinaio di metri sulla collina. Sono bloccati là.
Nessuna illusione su un intervento dell'artiglieria italiana che controbatta il tiro nemico: pezzi e
munizioni sono certamente addietro di troppi chilometri. I greci sparano da cento metri con le armi
automatiche e addirittura con i pezzi contro le due prime compagnie del battaglione che si sono
spinte presso i cannoni ellenici, ma sono inchiodate al terreno. Il nemico li ha visti giungere e al
riparo da ogni sorpresa può concedersi la soddisfazione di far subire la propria iniziativa, pur
essendo in ritirata, all'esercito avanzante.
I soldati addossati con Serri dietro l'esiguo cercine di terra sentono le granate esplodere senza tregua
contro il bastione: sembra quasi che il nemico lo voglia sgretolare metro per metro per togliere
l'ultimo riparo agli uomini retrostanti; le mitragliatrici ne mordono la cresta smangiandola con un
lavorio simile al rosicare del topo. Sul punto più alto, quasi a livello della strada, s'innalza un
capitello rustico, una colonnina tozza portante un'immagine sacra.
Quanto resisterai, povera madonnina? E i fanti, ai tuoi piedi? Se i greci sono in grado di iniziare il
tiro curvo facendo entrare in funzione qualche mortaio, con pochi colpi massacrano tutti.
— Fabrini, senti come sparano contro la quota del colonnello... — dice Serri; — là stanno peggio di
noi.
— Non hanno sospeso per un istante il tiro. Qui siamo troppo ammucchiati, bisogna diradarsi. Sotto
la strada c'è un'opera in muratura, forse un imbocco d'uno scolo d'acqua.
— Pare anche a me, ma bisogna passare allo scoperto.
— Vengo con voi, signor dottore — dice Prati, l'attendente fedelissimo.
Una breve corsa allo scoperto, a sbalzi successivi, e raggiungono il punto voluto. Il piano stradale
della curva è sostenuto da blocchi squadrati di cemento e ghiaia; sotto la curva si apre veramente
uno scolo per l'acqua piovana, una specie di fognatura con un metro di lato, lunga quanto è larga la
strada, sette o otto metri: a stare seduti e rannicchiati, molti uomini possono trovarvi riparo almeno
fino a quando i greci non piazzino mitragliatrici di lato, dalla parte del fiume.
Ai cenni di richiamo altri soldati azzardano la corsa allo scoperto e s'infilano nel condotto; altri
ancora giungono alla spicciolata e vi si stipano.
Con tiro a zero le granate scoppiano contro il bastione della madonnina, con tiro allungato battono
tutto il terreno nelle posizioni retrostanti, nella zona dei tre ponti interrotti superati nella notte,
esplodono più lontano, più di lato, fra gli alberi dei boschi, sulle pietre, sui prati; tutta la valle è
rigata dalle traiettorie infuocate. Nel grande ordito dei cannoni le mitragliatrici lavorano più
minutamente, assidue; ricamano, collegano i grossi punti dell'opera con refe sottile, dipanato in
fretta dai nastri saltellanti attorno ai castelli delle mitragliatrici.
Ore di fuoco passano rapide nel cielo, eterne nel cuore dei soldati. I fanti hanno sonno, nonostante
tutto. Nella conduttura rigurgitante di corpi l'aria è irrespirabile, molti si lamentano. Serri,
accosciato all'imbocco, per non cedere al sonno decide di muoversi. Salta a sbalzi verso gli altri
uomini sul prato dietro al ciglione.
— Da soli non si può far niente, siamo troppo pochi, qualche decina, non abbiamo armi adeguate,
non possiamo prendere iniziative, non ci sono ordini, siamo isolati; finché dura questo fuoco è
impossibile inviare una sola staffetta, sarebbe uccisa dopo trenta passi — dicono gli ufficiali.
— Venissero almeno le nostre artiglierie... Chissà dove saranno, con tutte le interruzioni...
— Sulla quota del colonnello i greci hanno smesso di tirare, crederanno inutile continuare, chissà
che sconquasso hanno fatto...
Il tempo passa lento, scandito dagli scoppi.
A un tratto una voce si diffonde: i greci tentano d'avanzare. Gli ufficiali guardano oltre il piccolo
bastione: si, divise kaki strisciano sull'erba venendo verso il rilievo della madonnina.
— Inastare le baionette, pronte le bombe a mano — è l'ordine. Non c'è una mitragliatrice per tentare
di fermarli.
Nel silenzio che s'è steso sulle primissime linee s'ode un crepitio di mitragliatrici dalla quota del
colonnello Vezzi; sì, sono proprio le due «Breda»: scopre se stesso al nemico per difendere gli altri.
Momenti di ansia. Subito riprendono le raffiche rabbiose delle armi automatiche greche; ma sotto il
tiro delle mitragliatrici aperto dalla quota del colonnello neppure i greci possono avanzare né restare
dove sono: ripiegano infatti veloci sulle posizioni di partenza. Ora purtroppo pongono ogni impegno
nel far tacere per sempre la quota di Vezzi.
Serri ritorna all'imboccatura del condotto, richiamato dai soldati. Ci sono due feriti, colpiti da una
scheggia. Per chissà quale miracolo, non c'è ancora nessun morto.
Il sole è alto nel cielo, s'avvicina il mezzogiorno, la situazione è immutata, non è possibile fare altro
che aspettare.
Un grosso cane nero corre ora a perdifiato sulla strada, proveniente dalle linee greche. È un cane da
pastore, impazzito dalla paura. S'avvicina abbaiando alla curva, i mitraglieri greci sospendono per
pietà il tiro. All'improvviso un soldato sfruttando la sosta e l'imprevisto di quella apparizione, dopo
un disperato balzo si precipita sul prato letteralmente rotolando dalla strada.
Viene dalla quota del colonnello. È ferito, stravolto, balbetta. Lassù la situazione è infernale.
Moltissimi i morti, molti i feriti: il colonnello Vezzi è morto, un capitano e un tenente morti, un
macello. I greci hanno cessato di sparare sulla quota, forse credendo morti tutti. Il soldato non parla
più, soffocato da un convulso di pianto s'accascia a terra.
Sono quasi le tredici. Ormai soltanto il sole, tramontando, può mutare la situazione.
La sete è tormentosa, i soldati cercano di far scolare qualche goccia d'acqua dalle borracce vuote, ne
leccano l'orlo all'ingiro, in silenzio.
Dopo un quarto d'ora di bombardamento furioso i greci si concedono una sosta.
S'ode allora un sibilo alto provenire dalla zona italiana.
— I nostri! — grida un soldato.
Ma la granata scoppia sulla strada a dieci metri dal condotto. Da dove è venuta?
Ma sì, è l'artiglieria italiana, questo che s'ode è un secondo colpo in partenza dai tre ponti interrotti:
ancora un attimo d'attesa e la granata esplode sulla strada, esattamente sopra il rifugio dei fanti. E
allora? La risposta è semplice: l'artiglieria italiana è entrata finalmente in azione, ma purtroppo il
tiro è corto e batte l'estremo schieramento italiano. A giudicare dall'esplosione sono pezzi di piccolo
calibro, a fondo valle se ne vede la vampa. I soldati si guardano l'un l'altro, ammutoliti, per la prima
volta si legge lo scoramento sui loro volti.
Le granate ora si succedono frequenti, laggiù credono di aver aggiustato il tiro, solo qualche colpo
più lungo giunge sulle linee greche. Il nemico individua subito la batteria italiana del tutto esposta
nella pianura e apre un violentissimo fuoco di controbatteria.
In breve nella zona dei pezzi italiani s'elevano alte colonne di fumo, salta una riservetta di
munizioni, la batteria è annientata e ridotta al silenzio.
— Per fortuna! — esclama sospirando un fante.
— Come, per fortuna? — rimbecca un secondo.
— Cosa vuoi che dica, mondo cane! — grida il primo agitando le braccia; — cosa vuoi che dica?
I quarti d'ora si succedono estenuanti fino a quando un rombo di motori viene dalle linee italiane.
Alla nuova voce che entra di prepotenza nella battaglia, tutte le armi greche tacciono
istantaneamente. Spuntano sopra i monti le sagome degli aerei e avanzano basse, dominatrici. Sotto
il galleggiare delle carlinghe la valle è in silenzio, migliaia di uomini abbarbicati al terreno fissano
quel volo lento.
Quattro, cinque, sei aerei passano al centro della valle, descrivono un largo cerchio spingendosi
sulle linee greche, bellissimi. Sulla carlinga spiccano i segni dell'Italia, un senso d'orgoglio e di
speranza anima i soldati.
Ora gli aeroplani ritornano, sono in fila, sorvolano ancora una volta i fanti, oltrepassano i tre ponti
saltati, scaricano ad uno ad uno le proprie bombe sulle seconde linee italiane, s'allontanano.
— Mondo cane, mondo cane! — urla mordendosi i pugni chiusi il fante, unica voce nello sgomento
silenzio degli altri.
Un altro soldato, quasi a compimento dei propri pensieri dice a voce alta, secca: — La nostra
artiglieria spara su di noi, la nostra aviazione sgancia bombe sull'artiglieria. E noi disgraziati su chi
dovremmo sparare?
Le armi greche, che in presenza degli aerei hanno taciuto riprendono ora il bombardamento con
furore rinnovato, che agli italiani sembra irridente.
— È qui il tenente Serri? — chiede Prati sbucando carponi da un cespuglio.
— Sono qui, cosa vuoi?
L'attendente supera strisciando i pochi metri che lo dividono dall'ufficiale e gli si sdraia accanto,
trafelato.
— Cosa succede, Prati?
— Niente, volevo darvi una cosa. — Si solleva poggiando sui gomiti, sfila da tracolla una borraccia,
la stappa e la porge con finta indifferenza al suo ufficiale. È piena d'acqua.
— Dove hai trovato l'acqua?
— Al fiume.
— Disgraziato! Sei andato... — Il fiume è a fondo valle, per raggiungerlo bisogna percorrere
almeno mezzo chilometro di terreno scoperto e battutissimo.
— Signorsì. — Guarda di sottecchi l'ufficiale e gli dice: — Per la prima volta mi avete parlato
d'acqua, oggi. Ho pensato che finalmente dovevate essere morto di sete, e...
Non sa dire altro, ma guarda l'ufficiale come se questi fosse suo figlio.
Serri finge un'indignazione che non ha.
— Da chi hai avuto il permesso? Non sai che potevi farti uccidere cento volte?
Bella figura avresti fatto a startene adesso a gambe all'aria in mezzo al prato, per una borraccia
d'acqua. Bel soldato! Fatica sprecata, perché io l'acqua presa a quel modo non la voglio, dalla a chi
vuoi.
Il fante fissa l'ufficiale con sguardo serio, quasi di rimprovero. Dice con accento deciso, quale mai il
medico ha sentito nella voce dell'attendente: — Dovete berla, perché io ho sete.
— Bevila tu, allora, se non ti sei riempito abbastanza al fiume.
— Al fiume stavo per bere, ma i greci mi hanno scoperto e hanno cominciato a tirare. Avevo tanta
sete, al ritorno, ma ho voluto portarvi la borraccia piena. Eccola — dice tendendola al medico —
adesso dovete bere voi per primo, poi tocca a me. Fate presto signor tenente, muoio di sete.
L'ufficiale sorride all'uomo che in quel punto vorrebbe abbracciare, e mentre l'acqua gli scende nella
gola lo guarda senza staccare mai gli occhi da quel viso sul quale una gioia profonda, fanciullesca,
dissipa per un momento i segni della fatica.
— Buona — dice il medico porgendo l'acqua a Prati. — La migliore della mia vita.
La felicità ride dal volto del soldato.
La situazione è peggiorata: al fiume, sulla destra, i greci sono riusciti a piazzare anche le
mitragliatrici; da quel lato i fanti non hanno il più piccolo riparo dalle pallottole delle armi
automatiche. Raffiche di mitraglia vengono a intaccare i blocchi di cemento un metro sopra il
condotto; Serri, seduto all'imboccatura di questo è costretto a stare curvo contro terra.
All'improvviso il prato è tempestato di esplosioni, il terreno si sconvolge, le schegge fischiano in
ogni direzione, l'aria vibra, è densa di fumo. Nella luce del tramonto le vampe degli scoppi fanno
livida la scena. Terribili urli vengono dal prato fra scoppio e scoppio.
Dai cespugli più vicini un gruppetto di soldati si leva e corre verso il condotto, raggiunge
l'imboccatura; sospinti dall'istinto di conservazione quegli uomini si gettano a furia su Prati e su
Serri che, seduti, ostruiscono l'ingresso. Li calpestano, s'inoltrano nell'interno sui corpi degli altri,
sospinti da quelli che ancora fanno ressa all'imbocco. La tempesta di granate s'infittisce, gli uomini
ancora all'aperto premono urlando, s'insinuano a lor volta, procedono carponi sui già rannicchiati, si
stendono a strati.
Il bombardamento continua, feroce, centrando la quota. Le ripercussioni degli scoppi rintronano nel
condotto, ove il groviglio di corpi sussulta e si contorce come un ammasso di vermi pungolati dalla
estremità d'un fuscello; ma dalla verminaia voci d'uomini disumane e forsennate si levano a
chiedere aria e respiro.
L'impeto degli uomini che si sono slanciati al riparo è stato così rapido che Serri non ha neppure
avuto il tempo d'alzarsi. Al pari degli altri giacenti nello strato inferiore il medico è sopraffatto dal
cumulo di uomini sovrastanti; sente che ogni energia s'affievolisce, la costrizione che s'oppone al
respiro lo riduce a un essere boccheggiante dal torace compresso in una morsa d'uomini saldati l'uno
all'altro.
A questo punto quattro, cinque colpi secchi e potenti esplodono sulla curva, pare che il condotto
sottostante crolli; nello stesso istante, nel pozzetto che separa il condotto dalla montagna s'infila una
grossa bomba da mortaio ed esplode. Infinite scintille turbinano negli occhi serrati dei fanti, la cui
prima sensazione è quella che il cervello esploda e s'annienti.
Una mazzata d'inaudita violenza percuote i crani, gli occhi, i timpani, forza le gole e i petti degli
uomini, in blocco scossi e sbattuti contro le pareti. Serri sente una forza implacabile che tenta di
proiettarlo fuori, come un'onda. Un fumo attossicante gli penetra nei polmoni, si sente mancare,
perde il controllo del proprio corpo; solo la mente avverte sprazzi di vita, del tutto sfocati e irreali.
Ma tutti soffocano, le voci si sono affievolite, spente.
— I gas asfissianti...! — sono le inconsulte parole che uno pronuncia, e che rintronano ingigantite
nei cervelli.
Nel groviglio, i corpi si smuovono tentando di slacciare le membra attorte alle membra altrui.
L'ansare affannoso, bestiale degli uomini che s'inarcano sugli altri s'unisce ai colpi di tosse, agli urli,
alle bestemmie di quanti cercano di svincolarsi da una sorte che li ingabbia fra le pareti di cemento.
I primi uomini riescono a sfilarsi, i sottostanti possono alfine muoversi, strisciare sui corpi degli
ancora giacenti e uscire.
Serri tenta di sollevarsi ma le gambe non si muovono, non ne avverte addirittura la dipendenza dal
corpo; si trascina all'aria del prato, raggiunge il capitello della madonnina e guarda.
Intorno non ci sono che cadaveri ancora abbrancati ai cespugli, all'erba, o riversi, con gli occhi
aperti.
Alcuni razzi salgono al cielo, si sente una trombetta che suona, la famosa trombetta dei greci. Che
stiano per ritirarsi, i greci?
Incerto, il medico oltrepassa il capitello della madonna, percorre tutto il prato e giunge fin sotto il
colle da dove i cannoni greci hanno sparato durante il giorno. Ora tutto è silenzio, non c'è segno di
vita, anche più innanzi non si ode alcun rumore, nemmeno il crepitio delle mitragliatrici; sale sulla
strada, la dannata strada. C'è qualche soldato a sedere per terra, esausto.
— Avete visto passare reparti nostri? — chiede il medico.
— No, non è venuto avanti ancora nessuno.
— È sceso qualcuno dalla quota del colonnello Vezzi?
— No, ancora no.
— Andrò su io.
— Non fatelo signor dottore, due hanno provato pochi minuti fa, uno è morto, ha calpestato una
bomba a mano; la collina è seminata di bombe a mano senza sicura, sono quelle dell'ottava che
credeva di dover sostenere un attacco. Invece li hanno macellati da lontano con i mortai, e le bombe
sono sparse dappertutto.
— Avete visto feriti?
— Sì, indietro ce ne sono.
Il medico percorre a ritroso un centinaio di metri sulla strada, raggiunge il capitello, la maledetta
curva. Non c'è nessuno, ma poco addietro ode un lamento.
5.
Passa finalmente qualche compagnia sulla strada, va a saggiare il terreno più avanti. C'è molta
confusione, non si sa da quali cause derivi. Una compagnia del battaglione Vezzi marcerà ancora in
testa, nonostante il turno sia scaduto.
Per due ore Serri passa da ferito a ferito, nella notte. Ha ripreso collegamento con Faravelli che,
vivo per un caso, lavora accanitamente a qualche centinaio di metri.
La zona su cui era spiegato il battaglione viene rastrellata con l'aiuto degli infermieri. I medici
fanno portare i feriti dai prati alla strada e appena giungono le prime barelle i trasportabili sono
avviati indietro. Stabiliti i collegamenti, i servizi sanitari man mano si riorganizzano e nella valle
l'incubo mortale si attenua nell'ordinato lavoro degli uomini.
Disparate voci corrono fra i soldati e prendono sempre maggiore consistenza: a nord, sul fronte di
Klisura e Coritza i greci sarebbero in rotta, le armate sgretolate e in fuga; il governo greco avrebbe
fatto passi per offrire la resa.
Una colonna motorizzata tedesca sarebbe a poca distanza.
Tutto ciò, ancora sotto l'impressione della tempesta di fuoco scatenata dai greci, appare
inverosimile; tuttavia le voci si fanno sempre più insistenti.
Sul ciglio della strada Serri intravvede un gruppetto, c'è un uomo a terra.
S'avvicina.
— C'è un ferito?
— Sì, signor dottore: il colonnello.
Quale colonnello? Serri sente il cuore battere precipitoso, mentre s'inginocchia a terra. Nel buio,
chinandosi fino a venti centimetri dal viso, riesce a scorgere i lineamenti del colonnello Vezzi.
Vorrebbe chinarsi ancora e baciare la fronte al suo colonnello. Ma il soldato ha parlato chiaro; Serri
ha chiesto: — C'è un ferito? — e quello ha risposto: — Sì, signor dottore. — Vincendo l'ultima
esitazione, avanza una mano e tocca la fronte dell'uomo disteso: brucia!
Qualcuno accende una pila e rivolge il fascio di luce sul viso del comandante che apre
stentatamente gli occhi: ha lo sguardo sbarrato, pare non veda; afferra tuttavia con ambo le mani la
testa del medico, se l'avvicina al viso e lo fissa in volto con una intensità d'allucinato. Serri lo
chiama per nome, sperando invano che l'ufficiale dia segno d'intendere. Pare piuttosto che il
colonnello con uno sforzo d'intensità inaudita tenti di richiamare i ricordi che il viso del medico
forse gli rinnovano. Il dottore allora pronuncia il proprio cognome, scandendolo. Il colonnello fa
cenni convulsi col capo, quindi con visibile sforzo ripete sillabando il cognome del medico. Alla
luce della pila Serri lo visita rapidamente, con attenzione febbrile.
— È tutto inutile, signor dottore — mormora un sergente con tristissima voce all'orecchio del
medico; — gli sono scoppiate una dopo l'altra tre granate tanto vicine che la vampa gli ha bruciato i
capelli e il cappotto. È rimasto quattro ore morto, morto vi dico. Gli avevano ordinato d'entrare in
Grecia entro oggi ad ogni costo... Accidenti se ce l'ha fatta, anche se ha dovuto buttarsi contro le
mitragliatrici e i cannoni...! S'è comportato come un Icone, ma ora se ne va...; dovevate vederlo già
colpito la prima volta, non stava più in piedi e da terra dava ancora gli ordini con una voce che noi...
— Taci! — lo interruppe Serri. Il comandante, premendo con forza smaniosa l'occipite contro la
palma del medico che gli regge la testa, muove la mandibola e le labbra come in preda a un sogno
tormentoso, dal quale tenti di svincolarsi gridando. Compie qualche movimento scomposto; poi, a
frammenti, roche, gli escono dalle labbra le parole: — Dottore... dottore... non badare... a me...
cura... Piombi...
Come illuminando quelle parole, il fante che regge la pila dirige a lato il tenue fascio luminoso e
Serri scorge a terra un altro uomo.
Ha il capo e il viso malamente fasciati con strisce di camicia grigioverde e dallo sconnesso
bendaggio esce il sangue e un largo lembo della guancia destra.
Il medico leva la primitiva protezione per applicare un bendaggio migliore, ma sfasciando
s'arrovescia e gli s'affloscia sulla mano la metà destra del viso del ferito. Dall'orecchio all'orbita,
lungo il naso spappolato e la mandibola, un'unica ferita ha fessurato quel volto scollando
completamente la guancia, sicché la zona mostra il biancore del teschio; i soprastanti piani
muscolari e cutanei, ridotti a una cotenna sanguinolenta unita al corpo solamente nella regione del
collo, penzolano verso la spalla dell'uomo disteso e poggiano sulla palma del medico. Il globo
oculare, senza più protezione di palpebre e nudo nell'occhiaia, le ossa del naso emergenti dal sangue
raggrumato fra cui scoppiettano orrendamente bollicine d'aria, la metà del labbro superiore e
inferiore spaccati e l'intera guancia avulsa dalla sua sede naturale, l'altra metà del viso
abbruciacchiata e contratta offrono nell'insieme la visione d'una agghiacciante maschera uscita da
una fantasia demoniaca.
L'anatomia distrutta, i rilievi spettrali sembrano palpitare per disumana vita sotto il tremolante
fascio di luce che la mano del soldato non riesce più a dirigere con fermezza.
— Dite che è il sergente Piombi, questo...? — chiede il medico stendendo attorno alla distruzione
un primo giro di benda.
— Si, dottore — risponde l'altro sergente ritrovando fermezza man mano che parla. — Era alla
mitragliatrice, è stato ferito in questo modo e non c'è stato verso di toglierlo dall'arma per dieci ore,
in quel finimondo. Gli pendeva la guancia sul bavero del cappotto ed è stato impossibile togliergli
di mano la mitragliatrice; non ha fatto altro che sparare, perdere sangue, rialzarsi verso il naso la
mezza faccia che gli penzolava dal collo come un tovagliolo; e gridava a noi di tener duro, di non
ritirarci di un metro, di resistere sotto le granate...!
Piombi. Sergente Piombi. Mentre il medico, attraverso i buchi lasciati dai denti spezzati osserva il
nero cavo orale, vede schiudersi la doppia fila di denti e da quella protendersi con un rigurgito di
sangue la lingua, tumefatta e ingrommata, che in uno sberleffo sporge penzolando fuori dalla
chiostra dei molari infranti. Il ferito la muove con torpidi moti inconsci, come oppresso dalla
molestia del dolore, o dalla sete. Il medico pensa già di fissarla all'esterno per impedirne la
retroversione ed evitare il soffocamento, quando la lingua accentua il moto e dall'antro
sanguinolento, dalla ferita mostruosa esce una voce calma, sommessa che biascica parole che il
medico ode, che tutti attoniti odono: — Dottore... non è niente... curate... i feriti...
E come nel timore che il borbottìo non possa essere inteso, la voce ripete fra lo sbigottimento degli
uomini ai quali sembra d'ascoltare un morto: — Dottore... curate... feriti...
Nessuno del gruppo ha coraggio bastevole per far udire la propria voce, troncando la sovrumana eco
di quella voce. A lungo il medico lavora in silenzio mentre gli sembra di sentire poggiarsi sulle
mani, nel breve cerchio luminoso, il magnetico sguardo dei presenti che in un amoroso sforzo di
volontà cerchi di guidarle e aiutarle ad esser lievi, più lievi, a non dar dolore al compagno morente.
— Chi sono questi imbecilli che tengono la luce accesa? Dio li maledica...! — grida da dieci passi
la voce roca del colonnello Rebellin.
Nessuno risponde.
Il colonnello si avvicina, s'abbassa, vede sangue, si ritrae.
— Chi è questo ferito? — chiede, ancora burbanzoso.
— Il sergente Piombi — risponde Serri riadagiando la testa del sottufficiale ormai fasciata. — Gli è
rimasto mezzo viso e un filo di vita. Era sulla quota del colonnello Vezzi.
— Già, anche quello...! Un bel pasticcio, andarsene così. Avete ritrovato il corpo, almeno?
— È vivo, è qui — dice il sergente.
Il fascio di luce ritorna sul colonnello Vezzi.
— Vezzi! Vezzi! — grida Rebellin. Improvvisamente fatto pietoso s'inginocchia accanto al
comandante di battaglione, l'abbraccia, lo bacia, lo chiama ancora.
— Dottore! — urla Rebellin — io ti ordino di accompagnare all'ospedale il colonnello Vezzi e di
lasciarlo soltanto quando sei sicuro che sia in buone mani e che abbia tutte le cure necessarie. Non
abbandonarlo un minuto.
Il gruppetto s'incammina verso la retrovia: tre uomini s'alternano nel sostenere a braccia il
colonnello che opponendosi a farsi portare di peso annaspa con i piedi sulla strada, sorretto ai
fianchi dai soldati; Serri è riuscito a trovare una barella per Piombi, il drappello procede fra le buche
della strada verso i tre ponti, raggiunge faticosamente il primo ponte interrotto, un fossato dalle rive
fangose e scoscese tra le cui sponde scorrono cinque o sei metri d'acqua bassa. Difficoltoso far
passare i feriti. Il medico ferma un gruppo d'uomini che stanno avanzando in senso opposto, li
dispone a catena sulle ripe e nell'acqua; l'un l'altro si passano il doloroso carico, a catena. Serri è
nell'acqua che gli giunge quasi al ginocchio, la sente frusciare attorno ai pantaloni, non sa resistere
all'istintivo richiamo, immerge anche le braccia appoggiando le mani al fondo e così prono sul
liquido, a quattro zampe, rabbrividendo, fra lo sciacquio delle gambe dei soldati con umiliazione
beve, beve a lungo, animalesco, come tante volte ha visto fare i cavalli sul greto dei fiumi.
Raggiunge il gruppo, in tempo a litigare per farsi consegnare da qualcuno che passa una barella
vuota su cui fa distendere il colonnello. Il drappello procede più speditamente, Serri incontra con
gran sollievo due medici del reggimento che avanza e dai quali viene a sapere che il battaglione
Vezzi, troppo provato, pernotterà poco innanzi a Kakavija. I barellieri superano con grande stento il
terzo ponte, su passaggi improvvisati. Oltre a quello la strada è ingombra di soldati contro cui si
cozza nel buio; il piccolo gruppo non riesce a stare unito, il caotico movimento d'uomini da le
vertigini a Serri che cammina senza sapere esattamente cosa fare; perde, ritrova, riperde le barelle
con i feriti, i soldati che camminano in direzione opposta gli vengono addosso e lo spingono a lato
imprecando, ad ogni passo gli sembra di dover stramazzare a terra, non riesce più a tener aperti gli
occhi. Nelle orecchie, assordate per dodici ore da fragori ininterrotti, gli rintronano senza tregua gli
scoppi di un bombardamento inesistente. Da quanto non dorme, non mangia? E il colonnello, e
Piombi? Perduti di vista, ancora una volta. Si mette a correre, dopo venti metri ha il cuore in gola,
teme di non poter più camminare a lungo, chissà dove avranno impiantato un ospedale. A buon
punto ode venire da una carretta ferma una voce che conosce. Grida, per vincere il frastuono che gli
ronza nel cervello: — Sei tu, Parrelli?
— Olà, sei tu Serri? Sei vivo?
È il tenente Parrelli, l'ufficiale di vettovagliamento del battaglione.
— Hai visto due barelle portate verso le retrovie?
— Sì, hanno caricato i feriti su una carretta che tornava indietro, qualche minuto fa.
— Ti saluto, devo raggiungerli.
— Aspetta, ti accompagno io. Sto caricando i viveri per il battaglione, tentiamo di farli arrivare con
i muli imbastati, io devo tornare indietro con questa carretta; sali subito, se no vai a finire sotto le
zampe dei muli, rincitrullito come sei — dice l'allegro toscano.
Tre minuti dopo la carretta sta rotolando dietro il trotto bizzoso di un mulo, mentre Serri ha
l'impressione che il proprio cervello, divenuto liquido, ondeggi nella scatola cranica come l'acqua in
un fiasco.
— Sai dov'è il primo ospedale, Parrelli?
— Sì, a trenta metri dal nostro magazzino.
— Bene. Devo condurre all'ospedale il nostro colonnello, era su una barella, fammi raggiungere
l'altra carretta.
L'ufficiale prende di mano le redini al conducente, spinge il mulo a gran carriera sulla strada
sconnessa, in breve i feriti sono raggiunti e più tardi consegnati da Serri al direttore della sezione di
sanità.
— Saranno inviati senza dubbio in Italia — dice questi.
— Vieni con me, adesso, dottore illustre — ordina Parrelli uscendo dall'ospedaletto — devi riposarti
e dormire, penso io a te.
Nel magazzino Serri chiede da mangiare, gli danno pagnotte e scatolette di carne.
Il medico intasca quanto può, chiede ancora una borraccia di anice pensando agli occhi tondi che
farà Prati, prende altre tre pagnotte da reggere fra le braccia e masticando s'avvia all'uscita.
— Dove vai? — grida Parrelli.
— Al battaglione — risponde Serri aprendo l'uscio.
— Sei matto? Non arriverai mai, col fiato che ti resta. Domani devo tornare su con la carretta, ti
porto io. Ma dove vai? — gli grida ancora Parrelli vedendo che il medico è uscito.
— A Kakavija. Grazie di tutto, ci vediamo domani — dice Serri avviandosi per il sentiero che dal
magazzino conduce alla strada.
— Sei il peggiore testardo che io abbia visto in vita mia, santa la Madonna. Ma questa asinata la
paghi, te lo dice Parrelli. Arrangiati, ma ricordati che a questo mondo c'è remissione per tutti
fuorché per i...
Lo sbattere della porta che Parrelli irosamente richiude, copre l'ultima invettiva toscana e lascia
ancora una volta Serri solo, a camminare nel buio.
— Quando finiremo di camminare...? — si chiede il medico provando grande difficoltà a mettere un
piede innanzi all'altro.
Il viottolo è in discesa, ma gli pare che salga. Non ha bevuto una goccia d'alcool e gli sembra
d'essere ubriaco. Forse fa male a mangiare ancora quella carne in scatola e il pane duro dopo essersi
rimpinzato d'acqua. O sarà il sonno, la fatica senza riposo...? Quanto avrà dormito in una settimana?
Tre, quattro ore...? Ma non aveva tre pagnotte fra le mani? Ora ne ha due. Dov'è andata la terza...? Il
viottolo pare più lungo di quanto sembrava, non si riesce mai a raggiungere la strada... Toh, gli è
caduta un'altra pagnotta; rotonda com'è non si ferma più, continua a rotolare sull'erba... Bisogna
raccoglierla, perché al battaglione la fame è tanta. Dove si è fermata, che non si vede più, con
questo buio...? Sciocco, l'ha già in mano. No, questa è la sola che non gli è mai caduta; bisogna
cercare l'altra... Si china, scruta fra l'erba, la trova.
Brutta idea aver appoggiato un ginocchio a terra, ora fa tanta fatica a rialzarsi. Troppa, per un gesto
così semplice. Forse la colpa è di tutti quei viveri di cui s'è caricato; pesano, le scatolette. Ma che
manna, quando arriverà fra i compagni! Adesso però si rialzerà subito, che il tempo passa. Chissà
come riderebbe Faravelli se lo vedesse inginocchiato in quelle condizioni sul prato!
Forza, dunque, su!
Ha ripreso finalmente a camminare; almeno gli sembra, se vuoi badare all'ansito e allo sforzo dei
muscoli.
Ma in realtà s'è afflosciato bocconi sul prato e scalcia, in vani movimenti nervosi.
Ora poi è addirittura immobile, folgorato dalla stanchezza: la resistenza di ogni uomo ha un limite.
Del resto, a vederlo rannicchiato a quel modo per terra non sembra neppure un uomo; con
l'impermeabile gialliccio addosso, pare piuttosto un sacco di pagnotte caduto da una carretta in
transito.
Due pagnotte anzi sono rotolate fuori, e giacciono tonde sull'erba, a mezzo metro.
Si intrideranno di guazza tutta la notte; domattina all'alba, poi, qualcuno le raccatterà.
— Lo sapevo benissimo che saresti finito come un ubriaco che scivola nel fosso, mulo testardo! —
esclamò il tenente Parrelli, rotolando su Serri assieme a una pila di sacchi sulla quale era salito.
Caduto addosso al medico, l'aveva preso per il bavero e lo scuoteva rudemente, deciso ormai a
svegliarlo del tutto.
Serri aprì gli occhi, semisommerso dai sacchi caduti, dall'alto dei quali l'amico ridanciano lo teneva
abbrancato e lo scrollava senza tregua.
— Cosa succede...? — chiese Serri trasognato, guardando dal basso in alto le cataste di materiali
che ingombravano la baracca nella quale si trovava.
— Cosa succede, eh? — proseguì l'altro, scherzoso; — succede che se non c'ero io questa notte a
vegliare sull'illustre medico, prima dell'alba vossignoria finiva i suoi giorni sotto le ruote delle
carrette partite a fare la spesa viveri!
— Cosa, cosa? — ripeteva il medico incapace a raccapezzarsi nell'improvviso risveglio. — Ti
ringrazio per quello che hai fatto, ma dimmi: sei stato a sentire notizie del colonnello e di Piombi?
— Certo, due ore fa — rispose Parrelli; — Piombi è già stato avviato indietro, il colonnello ha
passato la notte delirando, ora riposa; il direttore della sezione di sanità mi ha detto di sperare che
dopo il sonno riprenda conoscenza.
— Lo spero anch'io, voglio salutarlo prima di ritornare su — disse il medico alzandosi. — Quando
parte la tua carretta?
— Fra un'ora — rispose Parrelli.
Erano le nove di una splendente mattina, Serri si sentiva bene dopo quel riposo.
Gli fu concessa la gioia di lavarsi con sapone in un autentico catino, pensò lietamente che se la
guerra finiva presto si sarebbe liberato perfino dai pidocchi; mangiò, si recò alla sezione di sanità.
Il colonnello aveva ripreso conoscenza.
— Riesce a dire qualche parola — disse il direttore accompagnando il medico verso una brandina
da campo. — Ti do un minuto.
Il colonnello Vezzi guardava con occhi sbarrati il soffitto di tela, aveva ancora un'espressione
stravolta, non riusciva ad alzare la testa dal cuscino, ma il suo volto s'increspò nelle sue mille
piccole rughe quando vide Serri. In altri tempi un balenio d'occhi e denti d'oro avrebbe trasformato
la contrazione in sorriso; in quel momento, a occhi fissi e bocca rigida, era una smorfia. Serri gli
toccò la fronte, lo guardò a lungo.
— State bene, colonnello, curatevi; non datevi pena per noi, vi aspetteremo sempre. Vi lascio, ora
torno al battaglione...
Il medico non aggiunse altro, non gli riusciva.
Il colonnello levò dalle coltri le mani tremanti, cercò e serrò quelle del suo ufficiale; con voce rotta,
esitante, tutta affanno disse: — Serri, non ti dimenticherò mai più... Non posso parlare, ma tu mi
capisci...
Grazie per quello che hai fatto per il battaglione e per me. Di' a tutti che io so quello che ciascuno
ha fatto... e che tornerò appena posso al mio battaglione... In cinque guerre non ho mai lasciato il
mio reparto... ma il colonnello deve poter stare in piedi dinanzi ai suoi uomini... sempre. E io...
E lui, che davvero era di ferro, piangeva abbracciando l'ufficiale.
— Comandate, signor colonnello — disse Serri.
— Serri... — disse ancora il colonnello all'ufficiale che stava per partire — passando, da' un saluto
per me ai morti di Kakavija.

TEMPO SECONDO
Portavano uno strano cappello ornato di una penna nera appiccicata a punta in su

1.
Risultò vero: un'automobile dell'esercito greco scortata da una macchina italiana era passata, diretta
a un alto Comando per chiedere la resa. Dai sentieri della montagna scendevano sulla strada e
deponevano le armi interi reggimenti greci che l'avanzata italiana aveva bloccato sulle montagne,
isolandoli dai loro Comandi.
Le strade dell'Epiro erano aperte, il fronte greco-albanese era crollato.
Tra i fanti del battaglione un'allegria semplice e primitiva di gente sopravvissuta spumeggiava
ritrovando vie e vene che fino a quel punto parevano inaridite dalla sofferenza.
Folate d'aria fresca alitavano tra il frondame; era placida e bella primavera in quel fondo valle, ricca
di pace di luce e di vento; e tutta nuova agli occhi, ai cuori, ai sensi dei giovani soldati.
Era per essi, la vittoria, un infinito variare di sensazioni appena percettibili, un placarsi di
sofferenze, una distensione di nervi esasperati; non era ancora una clamorosa notizia, ma solo un
presagio aleggiante fra le voci rese sonore, e più ancora tra i silenzi dai quali si sentiva ormai
stanata ogni insidia.
Saporito era nuovamente il pane, dolce il riposo, buona a bere l'acqua, privo d'incubi il sonno; bello,
bellissimo era vivere ancora, poter passare le mani sui polpacci, aderire col cavo delle palme alle
ossute rotondità dei ginocchi, tentare con le dita i muscoli delle cosce ben saldi, premere a piene
mani sul torace a misurarne il vigore e il respiro, sentire entro di sé tutta viva e intatta la vita.
Al battaglione correva già voce che erano in arrivo colonne di automezzi per il trasporto verso il
cuore della Grecia; fu dato invece l'ordine di addentrarsi in un boschetto a margine della strada per
lasciare sgombro il passaggio ad altri reparti.
Nuovamente senza viveri, senza teli per innalzare le tende, in una località priva d'acqua i fanti
furono lasciati nell'abbandono a gustare il sapore della vittoria.
— Non immaginavo così il giorno della vittoria, senza poter neppure levarmi la sete — diceva Prati
ai compagni seduti sul margine d'un fossato fangoso; s'era chinato sulla melma del fondo e avendo
immerso nella mota il gavettino fino all'orlo attendeva che dalla fanghiglia scolasse nel recipiente
qualche goccia d'acqua. Come n'ebbe raccolta estrasse il gavettino, guardò il liquido torbido e bevve
facendo subito una smorfia di ribrezzo.
— Devono aver fatto sostare dei cavalli, da queste parti... — disse ai compagni che lo guardavano
indecisi se seguirne l'esempio.
Altri dormivano sulla terra; altri scrivevano alle famiglie annunciando d'essere ancora vivi.
Nei pressi del Kalibaki e della linea Metaxas, attorno al fiume Kalamas l'acqua pullulava da ogni
roccia. Piccole polle o getti impetuosi sgorgavano fra l'erba dei prati, nelle anfrattuosità del
pietrame. Le valli verdi si allargavano preannunciando la pianura. Vecchi conventi abbandonati,
dalle mura ricoperte d'edera, solitari e tristi come vegliardi al sole emergevano tra corone d'alberi.
— Vogliamo visitarne uno, Faravelli? — disse Serri al collega. — Probabilmente sono stati adibiti
dai greci a ospedali di retro via.
I due ufficiali si staccarono dalla colonna in marcia e superarono il diroccato recinto di un convento.
In alcune sale erano allineate ancora le brande, in altre v'erano residui di materiali di medicazione;
dovunque il disordine degli ambienti abbandonati in tutta fretta.
Serri socchiuse una porta e udì un mormorio sommesso, concitato. Incuriosito guardò attentamente
nella sala semibuia e vide un gruppo di persone inginocchiate sul pavimento.
Erano donne dalle voci acute e dalle ampie sottane che s'allargavano sul pavimento celando i corpi
genuflessi. Sul capo avevano un velo nero; voltavano le spalle a Serri in modo che l'ufficiale poteva
distinguere soltanto i contorni delle figure. Pregavano fervidamente, flettendosi ogni poco secondo
un loro ritmo fino a toccare la terra con la fronte. Alcune si mantenevano sempre chinate, altre
avevano un atteggiamento di maggior abbandono, quasi accosciate.
Dal gruppo salmodiante e raccolto emanava un qualcosa d'indistinto che tuttavia incrinava le voci,
le rendeva esitanti e affannate, dando agli atteggiamenti e alla preghiera un'unica intonazione
dolorosa.
Evidentemente erano suore che non avevano lasciato il convento all'allontanarsi delle truppe greche.
Serri stava per ritirarsi, quando una delle genuflesse volse il capo, vide l'ufficiale e alzando le mani
congiunte al cielo levò un altissimo grido.
Allora, come a un comando, il gruppo delle monachelle si rigirò, la preghiera s'interruppe all'istante:
una ventata di follia parve sconvolgere l'armoniosità del gruppo di oranti che s'accasciarono a terra
nascondendo il viso tra le mani o torcendole in un gesto di muto spasimo. Una seconda gridò; e un
coro di strilli e di pianti, uno stridio implorante e frenetico, una concitazione lamentosa e querula
s'intrecciarono sui corpi in sussulto.
— Soltanto a vedermi... — si disse Serri. Provava un'umiliazione bruciante, come se si sentisse
tramutato in oggetto di orrore e venisse accusato per una colpa non commessa.
Un'angoscia nuova gli incupì i pensieri; guardò con tristezza la propria divisa, che per le sofferenze
venute dalla guerra era indotto ad amare.
Si rigirò lentamente, traendo la porta.
Uscì, respinto.
Dai colli, dalle forre, dai boschi la Grecia rivelava gli antichi volti.
Immutabili forse, certo estranei alle vicende umane. Una corona di monti cingeva Gianina,
occultando il lago alla vista dei soldati; lo spirito d'una diversa terra emanava dalle zolle, dai prati,
dalle pietre, dal variato armonizzare di linee, di colori, d'ondulazioni nel paesaggio.
Più in alto, verso la sommità del colle su cui saliva, Serri vide l'armento al pascolo, gli animali tutti
queti a brucar l'erba. Come fu più vicino scorse anche una figura umana: seduto su un sasso,
badando alle bestie il pastore andava intessendo un cestello di giunchi.
Era un vecchio dalla barba fluente sul petto; vide l'ufficiale di lontano e continuò il lavoro; quando
Serri gli fu da presso depose il cestello e lentamente s'alzò.
Era altissimo, asciutto, ancora diritto; la barba gialliccia contrastava col color nero delle vesti. Il
tepore della primavera non l'aveva ancora indotto a levare dalle spalle il saio di lana grezza che gli
scendeva alle caviglie, trattenuto alla vita da un cordone e orlato con una striscia di tessuto bianco.
Dalla piccola calotta nera sfuggivano ampie ciocche di capelli bianchi a incorniciare il viso pallido,
austero. Non pareva un mandriano, ma emanava piuttosto dalla sua figura un'aura ieratica,
patriarcale. Per nulla turbato dalla presenza dello straniero s'era alzato con mosse lente, misurate e
ricche di dignità; con sguardo pacato fissava Serri, una assoluta serenità trapelava dal suo
sembiante. Come il medico, giunto a pochi passi dal vecchio, fece un cenno di saluto, il pastore
rispose chinando il capo in un gesto del tutto privo d'umiltà, ma più simile invece a un'espressione
di benvenuto da non far mancare al forestiero, in obbedienza a felici leggi d'ospitalità. Pareva che,
adusato alla perenne pace dei monti, non fosse tocco dalle contese e dalle passioni degli uomini.
Sorrise anzi, e tra le labbra dischiuse s'intravvedevano i forti denti.
Non conoscendo il medico la lingua greca moderna, fra i due uomini non corse parola.
E forse ancora per questo parve a Serri d'avere dinanzi un'immagine di più antichi tempi, testimone
d'altre epoche e d'altri costumi, dispersa epigone d'antico mito ellenico.
Forse il vecchio sdegnava una diversa vita, ignaro d'ogni sorte estranea alle cure del pastore; forse
dai più remoti tempi gli erano venuti intatti gli usi e i modi d'altri pastori, vissuti su quella terra
allorché Odissee navigava, quando ancora il nemico brandiva l'arma in campo aperto e l'amico
giammai tradiva; forse il vecchio intendeva le antiche voci sepolte, l'originario linguaggio degli eroi
d'Omero...
Tentato, Italo Serri richiamò dal buio della memoria primordiali parole; affascinato dal magico
incanto esitando disse: — Hai del latte? "Exeis gala?
Il vegliardo rimase immobile per qualche attimo, sorpreso: parve intento a condensare in un
concetto incerte parole presenti e risonanze disperse nei tempi; sorrise infine, trasse una ciotola,
s'abbassò a un vicino animale e la ritrasse pesante e spumosa, offrendola.
Fu allora che il giovane portò alle labbra la conca di legno; e si sentì esultare, come se per prodigio
d'antichi iddii pagani bevesse in quel punto il latte degli armenti d'Ulisse.
I fanti constatavano, marciando, che la famosa Gianina, oggetto di tanta aspettativa nei mesi di
guerra, più che città era un grosso paese; e grosso stagno pareva il lago. Notavano anche come al
loro passaggio la popolazione guardasse innanzi a sé e sbrigasse le proprie faccende quasi che non
s'avvedesse dei reparti sulla strada.
Dalla conca di Gianina veniva indicata sui monti circostanti la zona di Metzovo, ove gli alpini della
Julia s'erano spinti nei primi giorni di guerra, per ritirarsi tosto essendo venuti meno i rifornimenti e
i rincalzi.
— Com'è stato possibile — si chiedevano i fanti da terziglia a terziglia — far penetrare gli alpini
tanto profondamente in territorio greco in pochi giorni, senza riuscire poi a mandare altre truppe?
— O è stato un errore spingerli fin lassù, o è stato un delitto metterli in condizione di doversi
ritirare.
— L'unica cosa certa è che per tornare da queste parti ci sono voluti sei mesi di massacri —
concludevano i soldati.
Era nuovamente in marcia, il battaglione; ordini frettolosi e incalzanti lo sospingevano verso il sud.
Assai prima del previsto giunse a Missolungi, sul canale di Patrasso.
La situazione della Grecia meridionale risultava oscura, in vaste zone del Peloponneso era ancora
segnalata la presenza di truppe inglesi in affannosa attesa d'imbarco; i soldati dell'esercito greco che
avevano evitato la cattura indossando abito borghese s'erano frammischiati alle popolazioni. L'ovest
del Peloponneso risultava sguarnito di forze. Fu comunicato al battaglione di tenersi pronto per la
traversata dello stretto e lo sbarco a Patrasso: sarebbe stato il primo reparto che avrebbe preso
possesso della città.
La prospettiva piaceva oltremodo al capitano Penàsa, che in attesa di un nuovo tenente colonnello
fungeva da comandante interinale del battaglione.
— Allora sarete voi il Governatore di Patrasso... — gli aveva detto scherzosamente Faravelli.
— Non voglio darmi delle arie, ma credo di si — aveva risposto con tutta serietà Penàsa, dopo
breve riflessione.
— Vi spetterà senz'altro il titolo di Eccellenza... — e l'insinuazione detta con aria candida dal
perfido Parrelli aveva fatto abbassare pudicamente le palpebre al capitano.
— Non so — aveva concluso modestamente questi; — lo sapremo a suo tempo; per ora desidero
che la cosa resti fra noi.
Giunse l'ordine di partenza, gli uomini del battaglione furono imbarcati su alcuni pescherecci greci.
Una breve traversata portò i fanti dinnanzi a un ammasso di bianche case che dalla collina
sembravano slittare in blocco verso il mare, infrenate all'estremo margine dalle massicce banchine
del porto.
— Patrasso — dicevano nei barconi, indicando, i pescatori.
— Ciascuno stia fermo al proprio posto, lo sbarco deve avvenire con ordine — comandò l'ufficiale
di marina che guidava il piccolo convoglio. — Armate i fucili! Appena a terra, ogni ufficiale
inquadri i propri uomini. La situazione è difficile, bisogna essere pronti ad affrontare qualunque
evenienza! Trasmettete l'ordine da imbarcazione a imbarcazione! — ripeteva eccitatissimo il
capitano Penàsa.
Nella rada si notavano alla fonda alcune unità da guerra italiane.
— I marinai sorvegliano la città dal mare, ma non esistono a terra forze che possano proteggere un
loro sbarco — spiegava il capitano Penàsa. — Ora andremo noi.
— E noi, chi ci protegge? — chiedevano i soldati.
— Loro!
— Loro? Sarà...
I soldati guardavano perplessi l'acqua, le assi del barcone e la terra che si avvicinava.
Quando i pescherecci entrarono in porto e s'accostarono all'approdo, due o tre uomini che in
calzoncini corti e a torso nudo ristavano sulle pietre della banchina, si avvicinarono incuriositi e con
accento esotico chiesero ai soldati che ancora stipavano i piccoli natanti: — Italiani?
— Si — esclamò fieramente il capitano Penàsa.
— Heil Hitler! — dissero quelli sorridendo; e con un cenno di saluto tornarono sui loro passi.
— Signor capitano, sembrano tedeschi anche a voi...? — domandò Parrelli più candido che mai.
— Sbarcare! — ordinò Penàsa ai soldati, che già sbarcavano.
Mentre i fanti si inquadravano, giunse un ufficiale di marina con una busta gialla per il comandante
di battaglione.
— Da parte dell'ammiraglio comandante della piazza — disse. — Io ho l'incarico di guidarvi alla
località che l'Eccellenza ha destinato per il vostro accampamento.
Penàsa lesse, turbato.
— Dovremo stare sotto tenda? — chiese al guardiamarina.
— Sì, signor capitano.
— Anch'io?
— Si, signor capitano.
— Andiamo pure... — disse costui assai malinconico, rigirando il foglietto; poi, volgendosi
all'aiutante maggiore: — Al campo sportivo — mormorò. — Puoi dare l'ordine. Zaini in spalla...
Col passare dei giorni e con l'afflusso di altre truppe la situazione si era distesa, i soldati nelle ore di
libera uscita visitavano la città prendendo contatto con la popolazione. Per infinite vie una corrente
di simpatia si stabiliva fra gli abitanti della città e il soldato italiano. La bonomia con la quale questi
si soffermava volentieri a parlare, ad acquistare, a interessarsi di sofferenze e di piccole cose locali;
il sorriso con cui offriva una sigaretta a un uomo, salutava una donna, accarezzava un bimbo; il
linguaggio dolce, lo stesso incedere privo di rigidezze superbe, tutto contribuiva a sciogliere negli
animi greci l'avversione che gli eventi bellici e la propaganda avevano montato.
In breve le finestre non si serrarono più al passaggio dei reparti italiani, ma s'affacciavano le donne
a guardare curiose; per la strada gli uomini si fermavano volentieri, senza preoccuparsi d'essere
notati dai compatrioti in compagnia d'un soldato italiano; questi cominciò anzi ad essere invitato
nelle case, a ricevere cordiale accoglienza, a stabilire rapporti di simpatia attraverso i quali sfumava,
dissolvendosi, la primitiva figura dell'invasore.
Venne allora l'ordine tassativo: vietato ogni contatto con la popolazione civile, vietato accostare i
greci, vietato persino sedere nei caffè.
La conseguente contrazione dei naturali rapporti produsse subito i suoi frutti: in avanguardia si fece
innanzi la parte deteriore del mondo levantino, quella che non disdegnava i rapporti negati ed
oscuri; dalla suburra e dagli angiporti sbucarono a coorti le milizie dell'illecito, offerenti i doni della
resa al vincitore; s'aggrapparono al grigioverde attendendo a tutti gli angoli e in ogni ombra,
supplicando, piangendo, ridendo, rinnegando, proponendo tutti i mercimoni, i baratti e le sozzure;
allettando, contaminando, tradendo; e levando alta, a propria discolpa e sopra ogni pianto di dolore
e ogni sorriso di voluttà una parola sola, veritiera e mendace, terribile e divina: psomi, pane.
La vittoria invano attesa all'inizio della campagna italo-greca, giunta all'improvviso quando
l'opinione generale non l'attendeva più, caduta sul terreno greco e da nessuno raccolta, marciva
come un dimenticato frutto maturato fuori stagione.
Grottescamente, pareva che sconosciuti avessero atterrato la vittoria alata e degradandola a pennuto
da cortile ne andassero spennando le ali auguste; i soldati ne raccattavano le penne e le sparse
piume; ma che farne, come ricomporle?
— Sono gli stessi che facevano andar male le cose al fronte — dicevano i soldati; — allora non
distribuivano le munizioni ammucchiate nei depositi, adesso fanno andare a male i viveri; basta fare
un giro al porto per convincersi.
Effettivamente, i piroscafi avevano scaricato ingenti quantitativi di farina che era stata man mano
ammucchiata sulle banchine; col trascorrere delle settimane i sacchi ricolmi accatastati all'aria
aperta avevano costituito un enorme ammasso alto e largo parecchi metri, lungo centinaia; col
passare del tempo le piogge avevano favorito la fermentazione della farina e l'odore acre che si
sprigionava da quella grazia di Dio in decomposizione era talmente repellente che erano state tolte
le inutili sentinelle: anche l'avidità e la fame greche si tenevano distanti per quel puzzo.
— Cosa devono dire di noi i greci? C'è da vergognarsi a girare per le strade! — gridavano i soldati.
— Il più bello è che noi facciamo il gesto di privarci di metà della nostra razione di pane per darla
alla popolazione!
Era vero.
Succedevano strani fatti, in quel tempo.
La benzina giungeva dall'Italia, veniva distribuita; ma quando gli autisti aprivano i fusti ben spesso
estraevano acqua.
— Gli aviatori dicono che succede la stessa cosa anche in Africa settentrionale, come accadeva sul
nostro fronte — diceva Baldassari. — C'è gente che tradisce, è chiaro; e chi ci va di mezzo sono i
soldati in linea.
—...E l' Italia, pare — aggiungeva Fabrini.
Succedeva pure che i ragazzini greci che giocavano e rubacchiavano da mattina a sera al porto,
indicando ai soldati la nave italiana pronta a salpare dicevano: — Se parte stanotte come dicono,
non arriva in mare aperto perché davanti alle isole stanno due sottomarini inglesi ad aspettare.
— Come lo sapete?
— Lo sanno tutti...! — esclamavano con aria furba i ragazzini.
Durante la notte la nave levava l'ancora e all'indomani il mare gettava alle isole i primi cadaveri.
Altre volte i monelli ripetevano il pronostico e i militari allarmati correvano a riferire agli uffici
competenti.
— Sì, sappiamo, sappiamo... — era la risposta tinta d'ironia per l'ingenuo zelo — sono voci
allarmistiche poste in circolazione ad arte per intralciare la navigazione.
— Ma l'altra volta però...
— Una coincidenza senza costrutto.
Dopo di che le navi, con buona pace dei soldati che si trovavano a bordo, affondavano
regolarmente.
Succedeva infine che i soldati dicevano, quando uno sdegno disperato azzannava la gola: — Di
questo passo, la guerra è perduta.
Venne presto un giorno in cui Serri si soffermò vedendo numerosi soldati italiani che facevano ressa
innanzi a un'osteria del suburbio. L'ufficiale s'avvicinò e udì una gutturale voce appena percettibile
che a tratti scompariva del tutto.
— Cosa c'è? — chiese al soldato più vicino.
— Hitler, alla radio — rispose quello.
— È molto che parla?
— Io sono qui da un'ora, aspettiamo che finisca per sentire la traduzione.
Quelli che sono dentro dicono che sembra molto arrabbiato con la Russia.
— Se parla solamente da un'ora — pensò Serri — faccio a tempo a tornare con comodo al campo e
ascoltare alla mensa la traduzione.
Mentre camminava tranquillamente verso l'accampamento, a tutto poteva pensare meno che il soffio
delle parole di quell'uomo stesse voltando una pagina nel libro del suo destino.
— È il doppio fronte!
— È una pazzia!
— Chi se l'aspettava?
— Colpo maestro!
— Cosa dicono gli ufficiali tedeschi?
— Era inevitabile, io l'ho sempre detto...
— La guerra comincia soltanto adesso.
—...Se l'esercito finlandese ha potuto resistere per tanto tempo...
— Senza questa decisione, niente si poteva risolvere.
— Saranno la nostra rovina, questi tedeschi!
—... Nessuno mai è riuscito ad invadere la Russia...
— Tuo mesi, trei mesi Russia kaputt I — Un accidenti che li spacchi!
—...il soldato italiano non può resistere al clima...
— Ricordatevi che ai laghi Masuri, Hindenburg... ~ — E a Tsushima i giapponesi...
— Ho parlato con i tedeschi: sono impassibili.
—... Churchili... Roosevelt... Stalin...
— Heil Hitler.
— È la fine del bolscevismo.
—...Blitzkrieg...
— Faremo a tempo ad andare anche noi?
— L'Asse non reggerà.
— È impazzito, quell'Hitler!
— È sempre stato matto!
— È un genio!
— Il Giappone attaccherà da oriente.
—... ma Napoleone non aveva i carri armati, mio caro.
— La Russia ha risorse inesauribili...
— I tedeschi sono già in piena avanzata!
— Mussolini... Hitler...
— Venti, trenta milioni di russi sotto le armi!
— Io non potrei andare, morirei di freddo.
— Se Fuhrer comandato noi vincerei — Quanti chilometri da Varsavia a Mosca?
— Staremo a vedere, ma ho i miei dubbi.
(edizioni più recenti, da questo punto fino all'inizio del capitolo successivo,aggiungono alcune pagine che qui non
sono presenti:vedi “variante”)
2.
L'inizio della campagna contro la Russia apportò le inevitabili ripercussioni in territorio greco. I
servizi d'informazioni segnalarono il riaccendersi di attività clandestine antitaliane tra le
popolazioni; i comandanti trasmisero ordini atti ad assicurare maggior disciplina nei reparti, i
soldati compresero che la situazione mutava e si profilavano di nuovo per essi all'orizzonte i tempi
del sangue.
A Patrasso, dopo un mese giunse al battaglione l'ordine di ricongiungersi agli altri reparti del
reggimento e della divisione rimasti a Missolungi.
— Ci riuniscono. La divisione è decimata dalla malaria. Si rimpatria — assicuravano i fanti addetti
al Comando del battaglione.
— Pare che si rimpatri davvero — confermarono al Comando del reggimento quando il battaglione
ebbe oltrepassato lo stretto. Fra una settimana inizieremo le marce per ritornare in Albania e in
Italia.
Missolungi. Dalle plaghe lagunari, dal terreno saliva a saturare l'aria un umidore nebbioso che
intorbidiva l'azzurro del cielo; in piena estate il sole appariva, oltre le diffuse cortine grigiastre,
come un disco scialbo in un paesaggio invernale. Ma sulla terra gli uomini boccheggiando traevano
a fatica nell'aria ferma il respiro per proseguire a vivere nella calura soffocante.
I fanti del battaglione trascinavano la propria stanchezza fra i cortili infuocati e le asfissianti
camerate della caserma. Già al risveglio il solo portarsi dalla branda ai lavatoi imperlava le fronti di
sudore, che giorno e notte si diffondeva sulla cute attirando senza scampo il volo di sciami di
zanzare.
Lo stordimento dato dall'uso obbligatorio del chinino aggravava l'apatia profonda che disgregava la
volontà degli uomini.
Fra i soldati serpeggiava una insofferenza crescente. Sfumata da tempo l'eventualità del rimpatrio,
erano da un mese ininterrottamente rinchiusi nella caserma. Confinati nell'angusto recinto ne
uscivano soltanto per essere trasportati all'ospedale. Ogni mattina decine di uomini facevano ressa
attorno a Faravelli e a Serri recando i segni dell'insorgere del male: malaria.
Di notte, sui visi sudati, sulle braccia, sulle gambe nude dei fanti addormentati le zanzare calavano
lievemente interrompendo il tenue ronzio.
Puntavano sulla pelle madida il sottile pungiglione e lo configgevano, suggendo avide il sangue. Si
levavano, passavano alla branda vicina, ingorde, infaticabili. Visitavano i plotoni, le compagnie; nel
sonno, i soldati avvertivano un leggero prurito che la mano inconsciamente leniva; nulla più.
Ma giorno per giorno i fanti venivano trasportati via, deliranti per l'altissima febbre; ed erano ormai
più numerosi gli uomini sparsi negli ospedali che quelli in attesa, nelle camerate semivuote, della
puntura maledetta.
Il trenino, fatte le ultime violente sbuffate s'impuntò a metà salita né volle più saperne di proseguire.
I ferrovieri si provarono a rabbonirlo scendendo a tagliare rami e alberelli che gli venivano dati in
pasto ogni qual volta si fermava sulle salite, voglioso di quel carbone che da tempo gli mancava.
Serri guardava i compagni di viaggio, la vettura sgangherata, il boschetto brullo e sentiva un gran
desiderio di tornare indietro.
Aveva lasciato il battaglione qualche ora prima.
— È venuto un ordine, mi dispiace — gli aveva detto il comandante: — devi raggiungere
immediatamente l'Ospedale da Campo 490, ad Agrinion. Gli ospedali sono rigurgitanti di malati,
siamo a fine estate ed è previsto che in autunno la malaria farà una strage ancor maggiore; c'è
bisogno di medici più negli ospedali che presso i reparti. Sei stato aggregato al 490 per due o tre
mesi, farai ritorno fra noi all'inizio dell'inverno, te lo assicuro — aveva aggiunto notando una
espressione di contrarietà sul viso del medico. — La forza del battaglione è quasi dimezzata,
Faravelli se la sbrigherà bene anche da solo. È una lontananza temporanea, ti aspettiamo presto.
Era stato gentile, il comandante di battaglione; ma era nuovo, il quarto, non poteva sapere. Si fa
presto a dire tornerai; ma come si fa a sostenere lo sguardo dei soldati che si avvicinano facendo
conto di nulla e poi dicono parole accorate, con occhi tristi: — È vero che ve ne andate anche voi,
signor tenente?
— E poi tacciono mantenendo nello sguardo l'interrogazione desolata, poiché sentono che ancora
un altro se ne va.
— Pare che lo facciano apposta... — dicono ancora quelli; — quando si è fatta la vitaccia insieme e
si è diventati come... come fratelli; allora via, uno di qua e l'altro di là, arrangiatevi!
— Ma questa volta non ce la fanno — era la conclusione sottolineata da uno smorto sorriso — di
questo passo uno per uno arriviamo all'ospedale con la malaria. Abbiamo detto fra noi che dovete
prepararci un padiglione speciale, sarà un bello spettacolo vedere il battaglione a letto...
Faravelli si era fatto pensieroso per un istante passandosi lentamente una mano sul cranio rapato di
fresco, e fra i più affettuosi improperi aveva esclamato: — Però, se all'ospedale fanno servizio
crocerossine giovani, ricordati che pretendo il turno! — Ma l'allegra forza di cui era impastato quel
viso s'intristiva, verso gli occhi, in un'ombra d'amarezza. — No, non ci sono crocerossine, lo so
bene — aveva concluso appoggiando affettuosamente la mano sulla spalla di Serri — non vorrei
vederti partire, ecco tutto. L'amicizia è l'unica cosa che ci resta in questa sciagurata vita.
E Fabrini, stecchito e verdognolo come un olivo, da due mesi divorato da una febbre inspiegabile,
gli aveva stretto a lungo la mano con mani fredde.
— Dovresti andare tu all'ospedale, Fabrini; deciditi, ti rovini!
— Ho paura che dovrò rassegnarmi, un giorno o l'altro; ma sai com'è.
E i soldati, fermi al sole e all'ombra, girovaganti qua e là ad attendere la sera od intenti alle umili
fatiche, pareva di tradirli.
— Questo è un buon soldato... quello poveretto non mi sta più in piedi... quello durante l'avanzata
ha fatto cose incredibili, non gli hanno neppure detto bravo... — Sembrava impossibile che la vita
travagliata avesse legato tanto, uno all'altro, quegli uomini stanchi.
— E io, signor tenente? — aveva chiesto Prati, impalato inopinatamente sull'attenti.
— Tu? Tu resti, hanno chiesto me, non te. Cosa preferiresti, venire o restare?
— Quello che comandate voi.
— Allora va' in fureria a prendere il tuo foglio di aggregazione all'ospedale, sono già d'accordo col
comandante.
— Così va bene, signor tenente — aveva risposto Prati, ammiccando con gli occhi furbi; — ho già
portato la mia roba alla stazione, con la vostra...
I sobbalzi del trenino, rimesso in moto, scuotevano nel cervello i pensieri e le nostalgie.
L'Ospedale da Campo 490 era allogato in un grande caseggiato già adibito ad essiccatoio per il
tabacco.
— Meno male — disse giovialmente il capitano medico direttore dell'ospedale, quando si trovò
dinanzi Serri; — avrei bisogno di altri dieci medici, me ne mandano soltanto uno, ma è meglio che
niente.
— Non ti ho fatto un buon servizio a farti venire qui, te ne accorgerai subito.
Ti affido il secondo e il terzo reparto; anzi, prendi anche il quarto, è sullo stesso piano. Se ci
manderanno altri medici ti alleggerirò un poco. Ti accompagno a vedere il tuo regno, vieni.
Quattrocento malati, quattro medici. Anche per Serri il lavoro s'era fatto subito estenuante; in
prevalenza malarici, i degenti richiedevano cure assidue, intense.
Venendo la sera, giungevano sempre nuovi malati deliranti di febbre, bisognevoli di immediata
visita e di pronte cure; una ridda di necessità si accavallavano nella giornata dei medici: uomini su
cui non avevano fatto presa i morsi del gelo, della fame, della spaventosa guerra, abbattuti da una
punzecchiatura giacevano nelle corsie, miserevoli come vecchietti moribondi.
Solamente vivendo nell'ospedale era possibile valutare la vastità del disastro.
Ad ogni giorno il rigurgito di malati dava la misura del crescente diffondersi del male, era visibile e
impressionante il progressivo arrendersi dei reggimenti al grottesco assalto delle zanzare; i
battaglioni, le compagnie si sfacevano notte per notte.
Serri assisteva a un incessante avvicendarsi di fanti sui lettini allineati: dopo un periodo di degenza
molti venivano avviati ai convalescenziari in montagna, i più erano rimpatriati perché costretti ad
ancor lunghe cure; ma ai partenti si sostituivano in sempre maggior numero i malati sopravvenuti,
tanto che le presenze giornaliere salirono nell'autunno a cinquecento, a seicento, sottoponendo i
medici a un ritmo di lavoro pressoché insostenibile.
Tristi notizie giungevano a Serri, recate dai suoi soldati che arrivavano all'ospedale in preda alla
febbre: il battaglione portava ancora il vecchio nome, ma non ne aveva più il volto; i superstiti
erano ridotti a poche decine; erano giunti i complementi, centinaia fra ufficiali e soldati arrivati
dall'Italia, fra i quali i pochi anziani del reparto s'aggiravano malinconici e spaesati.
La malaria aveva aggredito e disfatto in pochi mesi il battaglione, partito con tante speranze
dall'Italia e dissolto miseramente nella fanghiglia di quell'autunno in terra greca: il vecchio
battaglione non sarebbe risorto più.

3.
— Se quest'ordine fosse venuto un mese fa — disse a Serri il direttore dell'ospedale — avrei fatto
conto di non averlo ricevuto, non avrei mai consentito di privarmi di un medico; ma col novembre
per fortuna il lavoro è molto diminuito, posso darti la comunicazione: c'è un ordine per te.
— Devo rientrare al mio battaglione? — chiese Serri.
— No, sei trasferito a un reggimento di un'altra divisione. Ma voglio dirti una cosa: nell'organico di
questo ospedale è vacante il posto per un medico. Abbiamo fatto un duro lavoro insieme, qui ti
vogliamo bene e ti stimiamo. Se vuoi, mi è facile far revocare il trasferimento e farti assegnare
definitivamente a questo ospedale; ho amici influenti ai comandi militari ad Atene. In un ospedale
nel complesso si sta bene, avresti finito di marciare e fare una vita disperata, andiamo incontro a
tempi ancor più duri di quelli passati. Al tuo battaglione in ogni caso non potrai ritornare, trasferito
come sei. Sta a te decidere.
Nell'animo del medico s'alternavano due tendenze: la vita d'ospedale liberava dal freddo, dal
marciare, dal combattimento, dalla linea, da infiniti tormenti e privazioni; ma staccava dai soldati in
armi, allontanava dalla strada percorsa ramingando con i compagni che facevano la guerra.
— Che reggimento è? — chiese Serri.
— D'alpini — disse il capitano cercando un foglio tra le carte sul tavolo; — ecco: terzo reggimento
d'artiglieria alpina.
— Di quale divisione?
— Julia.
— Julia. — ripetè Serri quasi in un grido.
Il nome enorme gli calò sulle spalle, gli prese il cuore scuotendoglielo in cento battiti.
— Ho capito; mi dispiace perderti — concluse il capitano medico. Ma lasciandosi sfuggire un
sorriso aggiunse: — Però ti dico che se fossi giovane farei come hai deciso tu: la Julia è la Julia,
sangue di Dio! E che Dio te la mandi buona, figliolo.
— Prati! Prati! — urlava un minuto dopo Serri, affacciandosi alla stanza degli attendenti — i
bagagli, presto! Facciamo i bagagli!
Nel piazzaletto antistante alla piccola stazione di Argos, sotto una freccia un cartello diceva: «3°
Regg. Art. Alp. Julia».
— Tu resta qui a custodire i nostri bagagli — disse Serri a Prati. — Io vado al Comando di
reggimento, cercherò di mandare qualcuno ad aiutarti per il trasporto.
Seguendo la direzione indicata dalla freccia, s'incamminò verso gli uomini della leggenda.
Erano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della Julia; solamente, come tutti gli alpini, portavano
uno strano cappello di feltro a larga tesa, all'indietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una
penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d'aquila; ma in effetto gli
alpini, ignari d'ogni complicazione e spregiatori d'ogni retorica, collocavano sopra l'ala penne di
corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio facesse imbattere lungo
le vie della guerra, nere o d'altro colore purché fossero penne lunghe e diritte e stessero a indicare
da lontano che s'avanzava un alpino.
In pratica, la penna sul cappello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si riduceva a un
mozzicone malconcio; e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano la guerra: perché, a
osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto
meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse: anzi!
È un tutt'uno con l'uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il cappello
resta al posto d'onore nelle baite alpestri come nelle case di città, distaccato dal chiodo o levato dal
cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio per ritrovarsi tra alpini o per
imperlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o addirittura dell'ultimo nipote, per
vedere quanto gli manca da crescere e se sarà un bell'alpino; bello poi, a questo punto, significa
somigliante al padre o al nonno, che è il padrone del cappello.
C'è una ragione, naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal momento in cui il
magazziniere lo sbatte in testa al bacia giunto dalla sua valle alla caserma, il cappello fa la vita
dell'alpino; sembra una cosa da niente, a dirlo, ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a
fare la guerra, e poi saprete. Vi succede allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro
d'Africa, l'alpino non conosce caschi di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo
bravo cappello di feltro bollente, rivoltandolo tutt'al più all'indietro affinchè l'ala ripari la nuca, e
l'ampia tesa dinanzi agli occhi non dia l'impressione di soffocare; e con la pioggia serve da ombrello
e da grondaia; con la neve, da tetto unico e solo per l'alpino che va su i monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando l'alpino è sdraiato a dormire al sole e all'aria ed ha per letto
le pietre o il fango, con la piccola striscia d'ombra che fa schermo sugli occhi è quanto resta dei
ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col raccolto tepore fa
chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza riparata e delle imposte
serrate a far più fondo il sonno.
E se l'alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per attingere acqua
quando c'è ressa attorno al pozzo o si balza un istante fuori dei ranghi, durante le marce, verso il
vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che vogliono il capitano e il medico, la
pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo — non si scandalizzi nessuno, succede, succede! —
nei casi in cui l'ultima latta finisce i suoi servigi sotto una raffica di mitraglia.
È tanto amico e compagno, il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l'elmetto, in
trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l'acciaio, siamo d'accordo, ma è
proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più alpini, e pare che il fischio
rabbioso debba passare sempre due dita più in là, per non bucarlo; è così che dall'altra» parte il
nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal ridotta che, a vederla
riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra che venga a fare il solletico
sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l'inferno e farla finita una buona volta, ma fa
anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai, questi maledetti alpini!
È tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di
alpini e di cappelli come il loro ce n'è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai monti
d'Italia. Ci vuole pazienza, bisogna prenderli come sono, come il buon Dio li ha voluti, l'uno e
l'altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po' troppe arie per via di quella penna, bisogna
concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere
per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta
della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più
perché la testa del padrone, sotto, s'è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e
a calcarselo di nuovo un po' di traverso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano
che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla testa, vuoi dire che
l'alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora
mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c'è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba,
con un fegato sano e un cuore così; sta a dire che, morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma
invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l'alpino
disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo
risveglia e lo scuote più nessuno: c'è un alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che, polpacciuto e tracagnotto, brontolone e testardo com'è, vien su tal
quale il suo padre buonanima; e già al passo si vede che sta crescendo giorno per giorno «penna
nera» senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei conti; tutti alpini
spaccati, figli della montagna dura e selvosa che da la vita e la toglie a suo piacimento, o la regala al
piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini di
durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le «penne nere»; che per la loro terra e
l'intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d'Italia.
Dalla porta semiaperta che dall'ufficio Comando introduceva a quello del comandante di
reggimento uscì una voce robusta: — Voglio vedere in faccia il nuovo acquisto!
— Chiede di te, va' avanti — fece l'aiutante maggiore. Come Serri oltrepassò la soglia, il colonnello
si levò in piedi.
— Vieni, vieni — disse giovialmente al medico squadrandolo con sveltezza da capo a piedi e
fermando lo sguardo diritto nelle pupille. — Ti ho fatto attendere un poco, a volte bisogna dare la
precedenza alle scartoffie sugli uomini, anche se ciò non è lusinghiero per noi. Come ti chiami?
— Sottotenente medico Serri.
— Colonnello Garrì. — E stese la mano. Era ampia, solida, forte come il viso e tutta la struttura
dell'uomo. Alto, massiccio, a guardarlo dava subito la sensazione di poter disporre di una volontà
ben difficilmente flettibile. Alla carnosa plasticità delle labbra s'opponeva negli occhi, in una luce di
bonaria cordialità, un sottinteso di possenti energie e di svelti pensieri. Poteva avere quarantacinque
anni, nonostante dominasse sovra le sopracciglia nere la specchiante lucentezza del cranio.
— Non startene impalato sull'attenti — proseguì sedendo — qui da noi si usa poco, serve tutt'al più
per tener ben fermo qualcuno quando gli si vuole levare la pelle con un cicchetto, ma succede di
rado. Per il resto, meglio lasciare agli uomini la loro naturalezza, ci si intende più in fretta. Quanti
anni hai?
— Ventisei.
— Vieni dalla fanteria: bene, è un buon allenamento, da noi si va a piedi ugualmente e con più
grossi pesi sulle spalle, per giunta. Hai malattie?
— Nessuna.
— Meglio così, malati non si resiste. Ti avverto che non ti aspetta un lavoro da poco, se vorrai
metterti all'altezza dei colleghi che ti hanno preceduto. Hai fatto l'avanzata con la tua divisione? Eri
a Kakavija?
— Signorsì.
— Bene, ti sei fatto le ossa e ti sei reso conto del significato dell'artiglieria. Ma l'artiglieria alpina è
una cosa diversa, i pezzi spesso si schierano in prima linea, a volte vanno difesi con la baionetta.
Hai pratica di neve?
— Sono sciatore da diversi anni, conosco bene le Alpi.
— Ti chiedo questo perché non è improbabile che andiamo a finire sulle montagne della Russia, a
quanto pare; e sulla neve bisogna saperci vivere, per durare.
Sai cavalcare?
— No.
— In questo tempo d'attesa farai bene a imparare, i soldati apprezzano un ufficiale che sappia stare
in sella; ti potrà anche servire, almeno per andare a piedi con una nostalgia di più. Ti assegno a una
batteria difficile, la tredici.
È stata provatissima durante la campagna; sono state richieste a quel reparto, come agli altri del
resto, cose inaudite. Gli uomini sono in grande maggioranza friulani, soldati che reggono a
qualunque confronto. Oh, t'avverto: se fai tanto da dare a loro l'impressione d'essere un medico
condiscendente e credulone, in una settimana mi trasformi la batteria in un ospedale, perché i
soldati se la spassano a far fesso un ufficiale a cui non riconoscano polso ed esperienza. Ma bisogna
però che il medico li tenga d'occhio, che scovi i loro mali guardandoli vivere; perché loro sono fatti
in modo che, quando hanno capito d'aver a che fare con un autentico uomo, se chiedi come stanno ti
rispondono d'essere in salute anche se sono moribondi. Bisogna guardarli — disse scendendo a un
tono di voce basso, quasi sommesso — con occhio un po'... un po' materno, ecco, non meravigliarti
se un colonnello alpino è costretto una volta tanto a esprimersi così; ma in fondo per noi sono
giovani figli, anche se hanno una statura gigantesca. Oh, intendiamoci: sono uomini di ferro, ma
qualcuno mi ha fatto un po' di ruggine stando sulla neve quest'inverno; e devi fare in modo di
raschiarla via prima che si ritorni in linea. Insomma, mi hai capito e capirai meglio vivendo con
loro. Dividendo la loro vita ti renderai conto di tante cose che costituiscono lo spirito di queste
nostre truppe, saprai un po' alla volta quello che hanno fatto, come sono. Esistono uomini e vite che
non si possono descrivere: si resta presi, ecco tutto, e ci si trova a condividerne la passione; vivrai
sempre più a tuo agio in un mondo inimitabile, finché qualcuno ti dirà che ormai sei diventato un
vero alpino anche tu; e tu che te lo sentivi dentro da un pezzo avrai la sensazione d'essere
raddoppiato di statura, senza badare se chi t'ha detto quelle parole è magari un semplice conducente
di mulo.
E allora, e fino a quando porterai la penna nera sentirai e farai cose che mai t'erano passate per il
cervello, umili o grandi che siano, ma dense d'un segreto ch'è tutto nostro, d'alpini.
Il colonnello si trattenne dal proseguire, quasi pensasse d'aver parlato troppo.
Aveva una voce risonante, imperativa, evidentemente avvezza ai comandi che non ammettevano
repliche, sostenuti da un costante sentore di forza che emanava dalla intera persona; ma un qualcosa
di indefinito tradiva ogni poco l'agitarsi d'un fremito umano e commosso inutilmente mascherato di
ruvidità militaresca.
— Ora — disse il colonnello spiccando la parola e fissando intenzionalmente il medico come a
dirgli: «ci siamo intesi bene, amico, una volta per tutte?» — ora ti presenterai al colonnello Verdotti,
comandante del Gruppo Conegliano dal quale la tredici dipende; è già avvertito del tuo arrivo, ti
metterà a contatto con la tua batteria. Sei fortunato, è un ufficiale in gambissima, è un padre.
— Ti do il benvenuto fra noi — diceva poco dopo a Serri il comandante del Gruppo a conclusione
di un cordiale colloquio.
Era un bell'uomo dal volto abbronzato, maschio. Indossava una divisa irreprensibile, elegante, in
contrasto a quante se ne vedevano attorno. — Il tuo comandante di batteria deve essere ancora qui,
ho tenuto rapporto poco fa; voglio presentarvi, non è un tipo comune, bisogna capirlo.
Entrò infatti un ufficiale, quasi subito.
— Tenente — disse il colonnello — ti presento il nuovo medico della tua batteria.
I due ufficiali si guardarono negli occhi. Serri vide un volto pallido, uno sguardo dolce, due occhi
nerissimi, due sopracciglia nere, sottili e lunghe. Un naso finemente modellato e due labbra serrate e
ferme completavano il delicato viso concluso dal nobilissimo ovale della mandibola. Il corpo alto e
snello era rigido sull'attenti.
— Tenente Reitani — disse l'ufficiale tendendo la mano, serissimo. Aveva una mano sottile e
nervosa.
— Potete andare insieme in batteria, ora che vi siete conosciuti — disse il colonnello. — Io credo
che vi intenderete bene.
Era buio, sulla strada. I due ufficiali camminarono a fianco per lungo tratto scambiandosi ogni tanto
qualche rara parola. Il comandante di batteria per lo più taceva. Ma giunto all'ingresso
dell'accampamento si soffermò al limite della zona illuminata, esitò un istante e disse al medico: —
Non ti ho fatto l'accoglienza che forse ti attendevi, mi devi scusare, ho un carattere poco espansivo.
Ma io spero sinceramente che col tempo diverremo amici, come già vorrei.
All'incerta luce, gli si accennava fra labbra e occhi un barlume di sorriso: timido, di fanciullo che
vorrebbe osare di più, ma non s'azzarda.
Nel profondo dell'anima, ancor oggi certi uomini appaiono vincolati alle leggende, ai fiumi, al sole
e al vento, alle foreste, alla vita delle stagioni, ai significati delle cose; dalla fanciullezza li
accompagna per la restante vita un residuo di sogni, di fantasiosi mondi con primordiale gioia
discoperti in giovinezza, sulle rive di un fossato o nel folto di una macchia; resi adulti, con intima
voluttà ritornano alla natura ogni qual volta sappiano disancorarsi dalle strettoie civili; insofferenti
del perfettamente noto, tentano ancor sempre l'ignoto cedendo al richiamo d'un orizzonte, d'una
terra, d'una vita che sia vergine.
Non diversamente, gli alpini vivono con la montagna. Inconsci poeti, puri uomini, gigantesca forza.
Figli della terra.
Guai a chi li avvicina con l'intento di approfittarne: è come voler tradire un fanciullo. Ma, ad
accostarli, si avverte come l'ambiente che li circonda freme del loro palpito in eguai modo e ragione
per cui la cascata vive nel suo rombo, e la montagna nel suo silenzio: semplici, infrenabili forze di
natura.
In un mondo scatenato e ruggente nella frenesia degli onnipotenti motori, gli alpini andavano
ancora tranquilli a fianco del tardo mulo per le strade del basso Peloponneso, alla maniera antica.
Nessuno più calmo, più benevolo, più sereno di loro. Andavano a prendere l'acqua, la legna,
tenevano pulite le bestie, si facevano il rancio, imbullettavano le loro scarpe che avevano perduto i
chiodi nel lungo andare, erano sempre seguiti da frotte di ragazzini, naturali compagni coi quali
dividere il pasto e il giuoco.
Gli adulti del luogo avevano anche riso, quando gli alpini erano giunti sulla piana argolica; con
cautela, si capisce, senza farsi troppo notare, ma avevano anche riso specie per quella buffa penna
ritta sul cappello; ma avevano ben presto smesso allorché erano giunti, reduci dalla guerra, gli
uomini giovani del paese che già avevano conosciuto al fronte quella penna e chi la portava.
Dovevano aver detto qualcosa ai compaesani, perché in breve il più scalcagnato alpino s'era visto
attorniare da lunghe occhiate dalle quali traspariva una nota di esitante ammirazione, di tacito
rispetto, di muta interrogazione, come se chi guardava tentasse di spiegare a se stesso, osservandoli
da vicino, come fossero veramente fatti questi alpini. Soltanto le ragazze sorridevano ancora, ma di
quel sorriso che vale quanto il sornione strisciare del loro braccio contro il braccio, quando passano
vicino; e anche più.
Nessuno aveva bandito proclami o fatto discorsi, ma le cose erano andate così: la gente greca in
breve tempo aveva finito col nutrire una radicata considerazione per gli alpini, li guardava volentieri
senza nascondere una ammirazione che trapelava da mille segni.
E tutto ciò, forse, era dovuto a una sola ragione, ed è che il coraggio e il valore degli uomini,
quando non puoi più negarlo per partito preso, e nemmeno per scherzo o per rabbia, qualunque sia
la tua prevenzione o la tua razza alla fine ti conquista e t'incanta.
Andavano quindi con i loro muli per le vie di Argos, silenziosi e industri, pacifici e infaticabili, lenti
anche, per quel loro passo lungo e pesante. Solo una parte d'essi aveva vissuto tutta la campagna
dall'entrata in guerra alla resa dei greci, gli altri erano morti strada facendo, sostituiti man mano dai
soldati che ora completavano i reparti, giunti a rimpiazzare i caduti e diventati veci a loro volta
conquistandosi i galloni di anzianità tra i pidocchi e il marciume delle trincee.
Non c'era verso di indurli a parlare di sé, pareva non sapessero farlo. A dare loro ascolto, sembrava
che i muli avessero storie incomparabilmente più interessanti.
— Ciao, Scudrèra! È il tuo mulo, questo? Come si chiama? — domandava Serri, accostandosi a un
conducente gigantesco che aveva notato fra i tanti della tredici; irsuto d'aspetto e con cipiglio
sdegnoso costui stava curvo a raspare coscienziosamente la pancia dell'animale con la spazzola da
brusca-e-striglia.
— La xe una mula, signor tenente.
— Già. E come si chiama?
— Serapide, ma mi la ciamo Gigia.
— Ha fatto la guerra con te?
— L'ultimo tòco. I primi tre mesi li go fati con Roverso.
— Chi è Roverso?
— El me mulo.
— Ah! E perché l'hai cambiato?
— El xe crepà, pòro can. Morto de fame.
— Di fame? Com'è andata?
— È andata, signor tenente, — proseguiva l'alpino drizzandosi a lisciare il pelame della groppa —
che il fieno marciva non si sa dove e paglia in giro ce n'era poca e presto è sparita, e noi cerca di
qua e di là ma la musetta restava vuota. Lo sapete anche voi come sono quelle montagne albanesi,
che Dio le maledìssa. A leccar neve non stava in piedi neanche Roverso, che non faccio per
vantarmi ma l'era un bel mulo. Andava sempre in giro di giorno e di notte, dalla valle su alla
montagna, in linea, con dei basti da non credere.
— E tu?
— Con lui, per forza; ma avrei potuto anche star sdraiato ad aspettare che tornasse, sapeva la strada
come un cristiano. Poi ha cominciato a metter fuori le ossa, per il gran camminare senza mangiare e
dormire. C'era da star male a vederlo, pareva Antonio prima che morisse.
— Chi era Antonio?
— Il mulo di Pilòn, l'altro alpino del mio paese, nàto de con più de mi.
— Ho capito. E poi?
— Poi il colonnello Garrì ha detto che dovevo andare per foglie, perché le munizioni e i viveri
dovevano arrivare in linea a tutti i costi. Allora sono andato sugli alberi.
— Sugli alberi?
— Sì; andavamo tutti, con i sacchi, a raccogliere le foglie, se no i muli non avevano da mangiare,
morivano e la linea veniva indietro. Invece è rimasta al suo posto e i muli sono restati in piedi
ancora un bel po' anche se per terra c'era solo il fango e la neve. Roverso però è morto, era troppo
grande per vivere di foglie. Ma non c'era altro, aveva sempre freddo, faceva una vita da cani.
— E tu?
— Io? Io, che cosa? — chiedeva Scudrèra, tendendo lo sguardo a inseguire lo sfuggente senso della
domanda.
— Come te la sei cavata, voglio dire.
— Oh..., io allora ho dovuto prendere la Gigia, 'sta mula qui.
Era tutto. Non si riusciva a spremere qualcosa di più circa le loro vicende personali. Parlando dei
compagni, invece, fiorivano i ricordi sulle labbra semplici. Serri scoperse allora che tra i compagni i
soldati includevano anche i loro ufficiali, fossero sottotenenti o colonnelli.
— Non fanno brusca-e-striglia, ma lavorano con noi peggio dei muli — dicevano. — ortano lo
zaino a spalla come noi, no ghe xe santi.
— La guerra, qui negli alpini la facciamo tutti allo stesso modo — dicevano.
Mentre nei reparti di ogni arma era illimitata la fama delle imprese compiute dalla divisione, in seno
a questa nessuno ne faceva vanto. Non nelle conversazioni, ma soltanto qualche volta nei lenti canti
corali, a sera, passavano le ombre e gli echi delle battaglie e delle gesta.
Era spesso soltanto un attimo a evocarle, un brivido, una cadenza prolungata in un incrociarsi di
sguardi su cui pareva prendere sostegno e guida lo stesso ritmo. Ciò succedeva in momenti
particolari, che gli alpini sapevano scegliere senza alcun accordo poiché soltanto l'ora e il luogo,
non la volontà e l'intesa, suggerivano il tono e l'avvio. Imperscrutabili sensibilità, oscuri richiami
presiedevano al canto.
Accadeva, per dire le cose come succedevano a quel tempo, che gli alpini marciavano per giorni
interi con gli zaini e i muli attraverso le illustri terre montuose che fanno cerchio intorno al golfo
Argolico. Si poteva garantire senza ombra di dubbio che nulla essi sapevano di Giasone, del Vello
d'Oro e d'altre trovate antiche; né Èrcole aggirantesi nella foresta Nemèa era personaggio da
scomporli; come anche, ad affacciarsi sulle balconate montane e a indicare con un dito giù nella
valle dell'Inaco dicendo Micene o Atridi o parlando di tombe, essi guardavano l'asciutto greto del
fiume calcinato dal sole e, senza intendere altro, tutt'al più concludevano: «Si capisce, in un posto
come quello non si dura, non c'è acqua né erba per i muli», e con frasi simili seppellivano per sé e
per i loro posteri i grandi nomi e l'intera storia d'Argos, la Sitibonda.
Erano incorreggibili negatori perfino di onorate memorie come d'ogni altra astruseria, a quanto si
vede.
Ma quegli stessi, girovagando attraverso i boschi e i monti della Nemèa si guardavano attorno, e
all'insaputa coglievano qui e là non il senso delle leggende eroiche gravitanti su quella terra, ma
addirittura assorbivano i motivi naturali che millenni addietro avevano generato le leggende. Con
prodigiose facoltà di ignara rielaborazione, sospingendo il mulo per le asperità del cammino, in
beatissima ignoranza andavano a ritroso nel corso dei secoli. Pastori, mandriani, guerrieri e uomini
dell'alpe ad un tempo, con semplicità respiravano i fluidi della terra prestigiosa serbandone in cuore,
silenziosi, l'occulta essenza.
Non dissimili per natura dagli antichissimi abitatori, su quella terra senza tempo cercavano quindi, a
sera, secondo usanze immutabili, l'angolo adatto al bivacco che offrisse riparo alle bestie e agli
uomini. Contro i primi freddi invernali, contro i venti marini era prezioso il bosco, anche stillante,
soffice di foglie cadute. Sorgevano il filare per i muli, le tende per gli uomini, al centro del bivacco
il fuoco all'aperto dall'alta colonna fumosa che si disperdeva fra i rami. Era appunto dopo il rancio
serale che gli alpini, assestato il giaciglio per la notte lasciavano le tende e, magari con la coperta
sulle spalle, si facevano verso la luce fumigante a sedere intorno al fuoco.
Parlavano tranquilli del più e del meno, del cammino da farsi all'indomani, del mulo che sta
perdendo un ferro, guardavano in silenzio il fuoco, le bizzarrie della vampa, gli arbusti gocciolanti,
la nebbiosa cupola arborea; i pensieri abbandonati a se stessi riandavano ai passi compiuti durante il
giorno, alle cose viste, alle sensazioni donate da quella vita randagia e mai conclusa, cominciata
tanto prima e per quel giorno finita lì; senza scopo quasi, ma vita loro; e meno dura, per fortuna, di
quella trascorsa con i vecchi compagni.
Morti, quelli. Morti... là. Tra fiamma e fumo si vedevano tante cose, a guardare con i loro occhi.
Il bosco però era umido e freddo, a quell'ora; venivano i brividi, anche la coperta s'era intrisa di
brina. Mancava ancora qualcosa in quel bosco perché divenisse veramente ospitale. Troppo
silenzioso, forse; pareva d'essere sepolti sotto la nebbia e i rami. Era in quei momenti che gli alpini
s'accorgevano che tra fuoco e tenebre in mezzo a tanti alberi dalla corteccia fradicia la cosa che
mancava al bosco era la voce, la voce del bosco; e allora gli alpini gli prestavano la loro, come se
fosse una vecchia intesa, una cosa da nulla scambiata fra amici.
Così nasceva il canto.
Mormorato all'inizio, quasi séguito di pensieri accorati, gonfio di contenuto respiro, lamento più che
grido poiché mai dissociato dal rimpianto per coloro che non cantano più attorno ai fuochi.
Un'infinita nostalgia di cose perdute piangeva fra gli alpini immobili e gravi; pareva allora
veramente, nel tenebroso silenzio del bosco, che innanzi alle rosse lingue guizzanti le parole e le
voci venissero a sciogliersi grondando sangue e lacrime. Ma non importava, si sentiva che il bosco
era diventato la casa, per gli alpini; c'era qualcosa di loro, ormai, che s'era posato su ogni foglia e
aveva reso accogliente la coltre muscosa.
La canzone si spegneva poi più tardi, nel silenzio, mentre i volti palpitavano d'ombre per la mobilità
della fiamma, smemorati e intenti; ma una voce intonava una seconda canzone, allegra questa, e gli
alpini cantando caricavano le pipe perché sapevano che la canzone, alla fine, lasciava fumare e
ridere, del queto e saggio riso di gente che si contenta. Potevano ragliare allegri anche i muli se
erano in vena, non avrebbero dato fastidio: nel bosco ormai si stava benone, si poteva lasciar
spegnere tranquillamente il fuoco e infilarsi sotto la tenda, restarsene sdraiati in pace fino all'alba.

4.
— Ugo Reitani è uno di quegli uomini che rivelano le proprie qualità quanto più i tempi si fanno
duri — disse a Serri il tenente Brogli; — è imminente il suo avanzamento a capitano, anche per
questo motivo è stato nominato comandante di batteria; al fronte aveva il posto che ora è affidato a
me, era il sottocomandante della tredici. Puoi credermi se ti dico che si è comportato in modo raro;
gli hanno affidato compiti che sembravano assurdi tanto erano rischiosi, li ha portati a termine senza
batter ciglio. I soldati gli vogliono un bene dell'anima, te ne sarai accorto; ha ottenuto da loro
sacrifici enormi solamente con l'esempio che dava: restavano trascinati. È riuscito a salvare più di
una volta i pezzi allorché già sembravano in mano ai greci; e faceva impazzire i tiratori avversari
quando gli è riuscito d'issare in vetta al Colico un pezzo ardito col quale sparava a perdifiato sul
nemico che era a quattro passi e gli tirava le fucilate sullo scudo del pezzo. Non finirebbe più se
dovesse elencarti le sue imprese, ma è difficile che tu sappia qualcosa da lui, non sembra neppure
un siciliano tanto parla poco, ma se si decide a farlo ti apre il cuore e lo vedi fino in fondo. Senti
allora che è un amico che non ti mancherà mai, qualunque cosa succeda. Ha un senso quasi
religioso del dovere e della responsabilità, ha certe delicatezze che non ti immagini neppure. Ti
faccio un esempio che ti riguarda: sai che giorni fa il comando di Gruppo ha passato alla nostra
batteria una decina di cavalli e ciascun ufficiale ha scelto quello che preferiva; Reitani già da tempo
aveva posto l'occhio su un cavallo che gli piaceva moltissimo, il colonnello Verdetti gliel'ha incluso
tra quelli mandati a noi e Reitani era felice. Ma al momento della assegnazione, quando io ho detto
a Reitani «questo naturalmente è per te», mi ha risposto: «no, assegnalo a Serri».
«Ma come» gli ho chiesto «non piace a te?». «Sì» mi ha risposto «ma piace anche a Serri; è con noi
da poco tempo, ha passione per i cavalli, bisogna fargli sentire che gli vogliamo bene».
— Comincio a conoscerlo — disse Serri; — grazie d'avermi informato. Ma come avrà saputo...?
— Mah? — rispose Brogli. — È una sua specialità, conosce tutta la vita della batteria, forse avrà
afferrato al volo una frase di qualche soldato.
— Non credergli, Serri — esclamò il sottotenente Perbellini, interrompendo di scrivere la lettera a
casa; — come tutti gli avvocati, Brogli ti racconta delle storie: è stato lui a mettere la pulce
nell'orecchio al comandante, ero presente io!
Era felice, Serri, di vivere fra gli uomini della tredici; dopo un rapido ambientamento s'era trovato
perfettamente a proprio agio tra i nuovi compagni; correnti di simpatia reciproca univano in una vita
concorde i componenti della batteria, dal comandante al più ispido artigliere, tutti affratellati da un
unico legame. Ben presto la sensibilità del medico si era affiancata a quella degli altri,
amalgamandolo alla vita del reparto.
La batteria alpina con altre due costituiva il gruppo d'artiglieria, tre gruppi riuniti formavano il
reggimento: questa era l'inquadratura dell'insieme di forze che al comando del colonnello Carri
operavano instancabili. Il lavoro era poco appariscente, ma il complesso organismo ferveva come
un corpo umano, perfetto di armonia nel perenne lavorio d'ogni suo organo. Un'operosità senza fine
impegnava gli artiglieri, gli ufficiali, il comandante che tutto coordinava. Dal colonnello Carri il
flusso d'una energia inflessibile scendeva a rivoli tra le schiere dei suoi uomini, tremila artiglieri
alpini, blocco di roccia dell'Alpe.
— «Ordine del colonnello» — dicevano i soldati, e pareva ogni volta che un undicesimo versetto
fosse aggiunto per l'occasione ai Dieci Comandamenti, e il Signore dall'alto dicesse di sì.
Troppi legami infatti esistevano tra il comandante di reggimento e i suoi soldati, e troppe situazioni
tragiche in cui il reparto era parso senza scampo travolto egli aveva personalmente risolto, perché
gli artiglieri non lo riconoscessero loro inarrivabile capo.
Da due mesi Serri, collegando le sparse confidenze dei soldati, andava ricostruendo nell'animo la
storia del reggimento e dell'intera Julia, quale nessuno scritto mai avrebbe potuto narrare, poiché le
relazioni ufficiali, come trasformano in schemi le battaglie e in consuntivi il patimento e la morte,
come chiamano servizio ciò ch'è offerta e passione, così annichiliscono spesso l'intero senso dei
fatti; talché i protagonisti autentici — a voler dare ascolto agli altri — non riconoscono più se stessi
né l'opera propria.
Ma quelli invece erano, fra Argos e Nauplia, gli uomini della Julia, ancor segnati e smagriti dal
lungo combattere.
Fu nella notte di Natale che Serri saldò tacito patto di fratellanza col tenente Reitani.
Un ordine d'allarme aveva fatto intensificare la vigilanza sulle coste del golfo argolico e la tredici
improvvisamente aveva dovuto spostarsi e schierare i pezzi sulla spiaggia in un tratto lontano da
ogni abitato. Il vento freddo che da due giorni spazzava la landa costiera ghiacciando le
pozzanghere e il fango aveva ceduto a una completa tranquillità d'elementi: mare, cielo, terra
stagnavano in un immoto silenzio; e neppure si percepiva voce o traccia degli uomini della batteria,
frazionati e spersi su oltre due chilometri di costa.
Nelle prime ore del pomeriggio del ventiquattro dicembre il medico aveva percorso lo
schieramento, soffermandosi ad ogni piccolo gruppo di artiglieri che, attendati, presidiavano lungo
la costa il cannone o la postazione d'arma automatica. Era ritornato al Comando di batteria quando
il giorno declinava sulla notte di Natale; già da qualche ora la neve scendeva a imbiancare i teli
delle tende.
La tenda di Reitani sorgeva a pochi metri dal mare, isolata dalle tre o quattro del Comando. Quando
Serri s'avvicinò il comandante era solo, a un passo dal mare calmissimo. Sembrava guardare il buio
sull'acqua, era fermo senza dubbio da tempo poiché le orme impresse sulla neve erano quasi
ricolmate.
— Siamo in Sicilia, Reitani? — chiese Serri.
— Già — rispose questi, volgendosi lentamente e un po' trasognato — stavo appunto pensando alla
mia Catania. Là la neve cade di rado, ma una volta a Natale è venuta, e quella sera io stavo in riva al
mare come adesso a vederla scendere. Bisogna essere molto soli per goderla.
— Hai ragione. Ho fatto male a venire qui, ora me ne vado.
— No, ti prego, mi fai piacere se rimani. — Tacque, ma era evidente che pensava a qualcosa. Disse
infatti: — Hai deciso in quale tenda dormirai stanotte?
— Non ancora, ma probabilmente in quella dell'infermeria, al solito.
— Cosa ne diresti, invece, se passiamo insieme la notte di Natale, sotto la mia tenda? Ho molta
paglia, ce n'è anche per te.
— Volentieri, Reitani.
Si parlava bene nel silenzio che la neve offriva: era sufficiente mormorare le parole e queste si
diffondevano armoniose e ovattate al pari dei bianchi bioccoli.
I due ufficiali entrarono sotto la piccola tenda, Reitani accese il lume a olio, la paglia venne divisa
in due mucchi sui quali i due giovani sedettero.
L'attendente portò il rancio nelle gavette d'alluminio: minestrone e manzo lesso.
— Come cena di Natale è un po' magra, mi dispiace di non poter dare qualcosa di meglio ai soldati
— disse Reitani mangiando. — Abbiamo dovuto partire troppo in fretta e non è stato possibile fare
migliori provviste. Però saranno distribuiti i pacchi che il colonnello Garrì ci ha inviato come dono
di Natale. Meno male che c'è lui a pensare ai suoi soldati: se dovessero aspettare che si ricordino di
loro in alto, starebbero freschi.
— È davvero un gran comandante, come lo dipingono i soldati? — chiese Serri.
— Il colonnello? Lo saprai solo quando lo vedrai all'opera. Un giorno o l'altro ti spiegherò ciò che
ha fatto il colonnello. — E tacque.
— Non c'è un filo di vento — disse più tardi; — se alziamo un telo della tenda possiamo veder
nevicare. Vuoi?
Sollevarono un lembo di tela, tornarono a sdraiarsi sulla paglia avvolgendosi nelle coperte. Era
notte calma, non si udiva neppure lo sciabordio dell'acqua a riva. Nell'oscurità circostante il fioco
lume a olio diffondeva una mite striscia di luce fino a qualche metro oltre la tenda; la neve fitta
volteggiava un poco nel chiarore.
Discontinuo velo sempre cadente e sempre sospeso, isolava in modo tale i due uomini da dare la
sensazione che oltre i limiti della debole luminosità non esistesse più nulla.
Ma Reitani chiese sottovoce, dopo un lungo ascolto: — Hai il papà e la mamma?
— Si. E tre fratelli.
— Anch'io: il papà, la mamma e tre fratelli. Uno è ufficiale pilota. In famiglia lo chiamiamo Uccio.
— Mio fratello Beppe invece è ufficiale del genio radiotelegrafisti. Voleva sposarsi con Anna, la sua
fidanzata, e invece è andato col C.S.I.R.(C.S.I.R.: Corpo Spedizione Italiana in Russia) sul fronte
russo. Fa il Natale lassù.
— Certo noi stiamo meglio di loro, questa notte. Volare o trovarsi in Russia non deve essere
piacevole, con questa neve.
— Pensa ai nostri genitori, poveretti, a non sapere dove siamo.
— È quello che stavo pensando anch'io.
Erano due ragazzi lontani da casa, in fondo. Rimembranze e nostalgie intercalavano silenziosi
pensieri fra le parole. Queste cadevano ad una ad una e parevano battere e spiaccicarsi nel silenzio,
simili a rade gocce d'acqua che nella notte cadono da una grondaia.
La neve s'affacciava alla zona luminosa, frullava un poco, s'abbandonava infine come stanca di
giocare.
— Non la detestate, voi, dopo l'inverno che avete passato? chiese Serri.
— Che cosa?
— La neve.
— No, almeno io no. Questa è una neve diversa, tiene compagnia. Quella invece...
— Invece?
— Uccideva.
Le montagne dell'Albania s'erano misteriosamente avvicinate, ora; parevano sorgere, immani
bianchi fantasmi, subito al di là della luce rossigna.
— Mi dici qualcosa dell'inverno della Julia? — domandò Serri.
— È da quando ha cominciato a nevicare che penso ai nostri compagni dell'inverno scorso — disse
con emozione Reitani; — non so dirmi se è bene o male... che nevichi su di loro, adesso.
Sulla terra che li ricopre, voglio dire. Per questo non riesco a staccare gli occhi dalla neve. Se li
immagino tutti insieme, caduti del reggimento, dico di si; se mi ricordo i loro nomi, i loro volti dico
di no, vorrei subito gridare di no.
— Sono stati molti?
Reitani, il taciturno, cominciò a narrare. Supino sulla paglia, con ambo le mani intrecciate a conca
in sostegno della testa, guardava fuori. Intraprese a parlare con lentezza, con un filo di voce, uno
spiraglio di voce nel silenzio.
— Hanno cominciato a morire subito, nei primi giorni di guerra; non numerosi, in principio, perché
i greci si ritiravano in fretta e noi marciavamo sul loro territorio come se stessimo vincendo; siamo
infatti penetrati per decine di chilometri nella catena del Pindo, sospinti da ordini squillanti.
Eravamo una sola divisione incuneata nel territorio nemico, ci si chiedeva dove andavamo a finire,
ma i Comandi superiori rispondevano che stavano per giungere potenti rincalzi. A un certo
momento però, dopo otto giorni di avanzata, venne l'ordine di fermarci. Avevamo ormai pochi
viveri, poche munizioni. I rinforzi non giunsero. I greci stavano a guardarci, non capivano perché
non riprendevamo ad avanzare. Cominciarono poi ad attaccarci, guardinghi, increduli. Reagivamo,
sconcertati, soli, non sapendo più cosa pensare, pareva che ci avessero dimenticati. I greci
cominciarono ad avanzare ai nostri fianchi, attaccandoci alle ali dello schieramento, prossimi a
circondarci. Venne allora l'ordine di sganciarci immediatamente dal nemico e rientrare con i nostri
soli mezzi al confine albanese, senza contare su alcun aiuto. Era un ordine di ritirata, l'ultima cosa
cui pensavamo. Ci muovemmo avviliti, disperati, ma decisi a vendere cara la pelle. I greci presero
baldanza, si scagliarono in massa contro di noi con l'intento di sterminarci. Non ti so descrivere la
nostra vita di allora, braccati giorno e notte, fatti segno a continue insidie, appesantiti dalla
determinazione di trascinarci al seguito i pezzi e le munizioni, affamati, ben presto stracciati e
indifesi contro il freddo. I muli morivano, ci distribuivamo le loro some e le portavamo a spalla.
Sfuggivamo i greci per vederceli ripiombare addosso qualche ora dopo, ci disperdevamo, ci
ritrovavamo, riperdevamo i collegamenti, colonne greche s'infiltravano fra i nostri reparti.
Non dormivamo, procedevamo a marce forzate, vincendo i greci in resistenza, tanto che a volte
quelli ci raggiungevano e non potevano impegnare combattimento perché non avevano più forza per
stare in piedi. È successo perfino che dopo un inseguimento accanito riuscissero a prendere contatto
con nostri reparti, ma la stanchezza era tale che italiani e greci cadevano fulminati dal sonno,
frammischiati nello stesso bosco e solo ai primi risvegli s'accendeva la lotta.
Ci attendevano ai valichi, costringendoci a deviazioni che allungavano il nostro cammino. I feriti
continuavano la marcia con noi, incuranti delle piaghe, nessuno si rassegnava a rimanere in mano al
nemico. La regione era sconosciuta, avevamo imprecise carte topografiche, ci aprivamo la via fra
infinite difficoltà, sotto la pioggia e nel fango, senza vedere dove andavamo. Ma era con noi il
colonnello Garrì, sapevamo che ci avrebbe portato fuori da quell'inferno, salvava ogni giorno il suo
reggimento, ecco tutto, e a volte ha salvato l'intera divisione. Allora s'è visto che uomo era, i soldati
si sentivano vivi per la sua immensa forza. Qualche ora fa ti parlavo di lui e ho smesso subito per
non darti l'impressione di lustrare un superiore, ma ormai sono sicuro che mi capisci. Sai com'è
quando vedi un uomo e senti che fino a quando c'è lui con te non sei perduto; così era il colonnello
per noi. Sempre, allorché la situazione ti sembrava disperata, ti arrivava col suo cappotto corto, i
suoi guanti, il suo bastone dal puntale d'acciaio e quella sua gran voce che ti drizzava subito le
spalle. Potevi essere fradicio, estenuato, senza speranze, ma dopo cinque minuti la muraglia
insormontabile che ti sentivi dinanzi agli occhi cadeva, e capivi che era ancora lui che col suo
bastone ti indicava la via di salvezza che avevi perduto di vista. E ti buttavi avanti rinfrancato, di
nuovo deciso a non mollare finché lui non avesse detto: «alt, ragazzi». Teneva in pugno il
reggimento, impediva ogni debolezza, se ci fosse stato un vigliacco fra noi si sarebbe vergognato di
farlo intendere e avrebbe compiuto ugualmente il suo dovere. Il colonnello era instancabile,
presente dovunque, preveggente, sicuro, deciso come se avendo a disposizione un sesto senso
sapesse sempre quello che si doveva fare. Più i greci imperversavano e la situazione si faceva
insostenibile, più lui induriva la volontà e il coraggio.
Una voce s'avvicinava dall'esterno, accennando una cantilena natalizia assai diffusa tra i ragazzetti
dei paesi, cavallo di battaglia di quanti zampognari e cantori ambulanti Gesù Bambino lascia andare
in giro a intonare le sue lodi attraverso le contrade italiane. La voce annunciava al golfo argolico
nella notte di Natale: Tu scendi dalle stelle o Re-e del Cie-e-elo sei nato in una grotta al fre-e-ddo e
al ge-e-elo...
— È il sergente Bartolan — disse Reitani sorridendo nel riconoscere la voce.
Poco dopo infatti l'altissimo «capo-pezzo» del primo pezzo s'affacciò all'ingresso della tenda. Aveva
occhi chiari, lucenti su un fresco viso di fanciullo; ma il torace possente, l'eccezionale larghezza
delle spalle issate sul perfetto a piombo della gigantesca statura qualificavano l'uomo.
— Ecco, signor tenente — cominciò impacciato — sono venuto a ringraziare per il pacco vostro e
del tenente Serri che ci avete regalato. Non importava che vi disturbaste, avevamo già il nostro. Gli
artiglieri del primo pezzo ringraziano — disse solennemente, tentando di rizzarsi per quel poco che
il basso tetto consentiva. — Presento gli auguri della batteria. Abbiamo già mangiato tutto, ma nei
pacchi c'era anche del cognac e abbiamo pensato che un dito di cognac fa bene anche a voi e allora
sono qui con la vostra parte, ho portato anche il gavettino.
— Bravo Bartolan, grazie, siediti, facciamo un brindisi insieme — esclamarono gli ufficiali.
Il capo-pezzo s'accoccolò sulla paglia, il gavettino girò da mano a mano in rustico silenzioso
brindisi.
— L'anno scorso faceva più freddo — disse Bartolan infilandosi le mani in tasca e guardando
nevicare; — vi ricordate, signor tenente?
— Mi ricordo, mi ricordo. Stavo appunto raccontando al dottore qualcosa del reggimento e del
colonnello Garrì, durante la ritirata.
— Ah, si — annuì il sergente; — io dicevo dei giorni di Natale. La ritirata è stata prima, in
novembre. Freddo anche allora, si sa. Tempo da cani. Vita da cani, anche. Eh, se non era per il
colonnello a quest'ora eravamo tutti terra da pipe.
— Senti? — disse Reitani a Serri.
— Per forza! — esclamò il sergente. — Certe cose sono vere una volta per sempre e per tutti. Basta
dire Briaza, per esempio, e chi c'era non ha bisogno d'altro per sapere che cosa deve pensare di un
uomo per tutta la vita.
— Briaza? — chiese il medico interrogando con lo sguardo il tenente.
— Briaza... — rievocò Reitani. — Figurati, Serri, che nella zona di Briaza, sotto lo Smolika, dopo
giornate tremende i greci stavano per avere il sopravvento; a un certo punto, in quella situazione
infernale il comando di divisione, uno dei due reggimenti d'alpini e noi del nostro gruppo che
marciavamo con quelli ci siamo trovati isolati tra i monti senza più collegamenti; la divisione era
perciò tagliata a metà, in balìa dei greci; sembrava la fine, il nemico ci stringeva già da vicino. Il
comando del reggimento alpini mandò una pattuglia con qualche ufficiale per tentare di ristabilire il
collegamento, per trovare una via di salvezza. Ritornarono senza speranze, dovunque i passaggi
erano ormai sbarrati dai greci, non avevamo più via d'uscita. Il colonnello taceva, guardava serio
quella zona in cui cinquemila soldati si dibattevano. Sperare nell'esito favorevole di un
combattimento era nemmeno da pensarlo. L'ansia di tutti cresceva, diveniva spasimo, ma il
colonnello non poteva ancora darsi per vinto. Diede infatti tutte le istruzioni possibili a due tra gli
ufficiali più in gamba, li mandò per la montagna col compito di seguire uno strano itinerario
attraverso il quale pensava che si potesse ancora defluire e porci in salvo. Ma anche quegli ufficiali,
dopo una giornata di peripezie rientrarono sfiniti al Comando, facendo cadere le ultime speranze:
non avevano potuto prendere contatto col resto della divisione, era inutile insistere, i greci
controllavano tutta la zona, non restava che riconoscere d'essere sopraffatti. Il colonnello non disse
più nulla, mandò a riposare i due ufficiali, diede gli ordini per l'indomani. I greci ormai stringevano
il nodo. Ma all'indomani gli addetti al comando di reggimento non trovarono più il colonnello: alle
prime luci, senza aggiungere altro era montato in sella e portando con sé un sergente e due artiglieri
se n'era andato. Rimase fuori tutto il giorno, quando a notte rientrò i greci s'erano infiltrati e noi
avevamo dovuto abbandonare le posizioni, la sede del Comando era stata spostata e le fucilate
fischiavano da tutte le parti; ma egli ci ritrovò, ci riordinò e ci sospinse lungo l'itinerario che contro
ogni speranza egli era riuscito a percorrere; lui lo chiamava «cordone ombelicale» e noi avanti per il
cordone ombelicale sperando di spuntare in qualche modo alla vita. Seguimmo un percorso
d'inferno lungo la strada e in fondo a vallette e burroni, disboscando e spianando; ogni poco
dovevamo lavorare di badile e piccone per aprire la via ai muli che non riuscivano a venire avanti;
ma infine è riuscito a strapparci all'accerchiamento e a portarci in salvo, uomini, pezzi, munizioni e
muli; eravamo cinquemila uomini già dati per perduti, non so se mi spiego — concluse Reitani; —
questo voleva significare Bartolan poco fa, dicendo Briaza.
Il sergente annuì col capo, in silenzio. La pipa gli si era spenta, la riaccese.
— Bisogna anche dire che aveva a disposizione uomini come quelli della Julia — continuò il
comandante. Era diverso dal solito in quella notte, Reitani.
Immobile sulla paglia, parlava con un fervore che Serri mai gli aveva conosciuto. Guardava la neve,
pareva che quella gli risvegliasse i ricordi e lo forzasse a parlare. — Quando siamo rientrati in
Albania dopo giorni e giorni di ritirata, sembrava che dovessimo essere distrutti da quella fatica
disumana.
Invece in Albania da parte italiana esisteva soltanto un accenno di resistenza, i greci erano più
minacciosi che mai; allora la Julia è stata schierata immediatamente in linea sulla catena dei Mali e
la tragedia è ricominciata. Le poche truppe che affluivano dall'Italia giungevano in linea già corrose
dall'asprezza di quella vita affrontata con mezzi inadeguati, siamo giunti all'assurdo che il nostro
reggimento reduce dalla durissima ritirata è riuscito a trascinare con sé le munizioni ed è stato in
grado di schierare subito i pezzi e cominciare a sparare, mentre i reparti che arrivavano freschi
freschi al fronte erano senza proiettili; tanto che il colonnello una volta ha ceduto un migliaio di
colpi a una divisione giunta allora dall'Italia. Costituivamo ancora perciò, nonostante tutto, il nucleo
più saldo, cui è stato richiesto il massimo sforzo. Nessuno riuscirà mai a dire quale vita ha fatto la
Julia, abbarbicata alla roccia e sprofondata nella neve; le divise andavano a pezzi, nevicava sulla
pelle nuda, la neve si scioglieva sotto i piedi nudi. Non giungevano rinforzi, il porto di Durazzo
consentiva al massimo lo sbarco di una divisione ogni dieci giorni, nessuno veniva a rendersi conto
della situazione reale; ma la linea doveva essere tenuta ad ogni costo. E la Julia la teneva. La tenne
allora e più tardi e fino all'ultimo giorno di guerra, anche se gli uomini morivano e dovette essere
ricostituita dopo la resistenza sopra la linea dei Mali e una seconda volta dopo la resistenza sullo
Scindeli, il Becisti e il Colico; sei medico, sai cosa significa ricostituire una divisione due volte in
sei mesi. Più i greci infuriavano, più la resistenza si faceva disperata; non c'era vento, neve, gelo che
bastasse, anche se le mani e i piedi andavano in cancrena. Se la temperatura saliva un poco, era il
fango che diventava il nemico più accanito: prendeva alle spalle il fronte e bloccava i rifornimenti. I
reparti in linea restavano senza viveri e munizioni perché i muli non potevano salire dalla valle,
morivano di fatica nello sforzo di svincolarsi dal fango. Gli artiglieri lassù erano in prima linea con
gli alpini, difendevano i mortai e i pezzi con le baionette. Ti ricordi, Bartolan, quando l'altro gruppo
del nostro reggimento era isolato sul Becisti e aveva un disperato bisogno di munizioni e noi
eravamo rimasti senza pezzi e non potevamo andare in aiuto? Era una situazione da fare impazzire,
Serri: sapere che i nostri compagni stavano morendo perché non avevano munizioni per difendersi...
Non c'era niente da fare, nel fondo valle all'attacco delle salite s'ammassava tanto fango che i muli
venivano letteralmente assorbiti, inghiottiti; bisognava vedere con i propri occhi per poter credere...
Un mugolio prolungato partì dall'angolo ov'era rannicchiato il sergente.
Bartolan stava da tempo immobile con le braccia attorno alle gambe, la fronte poggiata alle
ginocchia; girò lentamente il capo verso gli ufficiali e disse: — Vi ricordate, signor tenente, come
abbiamo passato la notte di Natale, l'anno scorso?
Reitani guardò a lungo fuori dalla tenda la notte di Natale e mormorò: — Chi la può dimenticare?
— Il corpo dell'ufficiale si tese per un istante sulla paglia come reggesse un grave peso, poi
s'acquetò. — Eravamo in mille, Serri — proseguì Reitani — ad assistere all'agonia dei mille uomini
dell'altro gruppo che combatteva sul Chiarista-Fratarit. Era la notte di Natale. Senza le munizioni
che i muli non potevano portare lassù, il fronte stava per crollare.
Il colonnello Garrì allora radunò gli ufficiali del nostro gruppo e disse, duro: «Il vostro gruppo non
ha scarpe, siete cenciosi e non sembrate in grado di camminare. L'altro gruppo del nostro
reggimento è in linea e sta per essere sopraffatto perché è senza munizioni, che sono qui. I muli non
possono portarle, lo sapete. Bisogna salvare i compagni nostri e la continuità del fronte. Se i greci
sfondano arrivano a Valona, sapete anche questo. Ascoltatemi: ho fatto preparare molte cordicelle di
lunghezza opportuna. Una cosa da nulla, d'accordo.
Ma a ciascuna estremità di ogni cordicella si può legare un proiettile; tenendo a bilancia sulle spalle
due cordicelle, ogni uomo può portare quattro proiettili, ventotto chili di ferro. È molto, lo so;
inoltre, camminando, le corde segheranno le spalle. Una terza cordicella legata attorno alla vita
impedirà l'eccessivo dondolare dei proiettili appesi. Una cosa da pazzi, è inteso. Però mille uomini
possono portare quattromila proiettili. Ho calcolato che la distanza, il peso, la salita, il gelo e le altre
avversità imporranno una marcia di dieci, dodici ore. Sono le diciotto. Entro domattina pertanto sul
Chiarista-Fratarit il gruppo in linea potrà avere a disposizione quattromila granate, quanto basta per
scongiurare il pericolo imminente. Mi rendo conto che un comando come questo sembra
ineseguibile, ma io conosco i miei soldati. Ordino pertanto la partenza fra due ore, con le modalità
che ho stabilito».
Due ore dopo, i mille uomini partivano sotto il peso di quel ferro legato alle cordicelle,
s'impastoiavano nel fango, stracciati, ansanti, silenziosi sotto lo sforzo. Le funi sottili, tese dalle
granate, laceravano la giubba, la camicia, penetravano nella pelle. Sai quanto può essere lunga una
notte simile? Era impressionante, faceva piangere il vedere quei mille uomini gialli di fango,
estenuati, salire tentennanti sulla montagna, ciascuno con la sua cintura di granate come aveva detto
il colonnello. Affondavano, si rialzavano, procedevano arrancando, passo per passo, ora per ora.
Tutta la notte. Sembravano una colonna di pazzi. Ma a mattina, sul Chiarista-Fratarit le quattromila
granate giacevano presso i cannoni; e la situazione fu salva. Questa è stata la nostra notte di Natale,
l'anno scorso.
Reitani tacque.
— Già. Quel che è vero è vero — concluse Bartolan alzandosi e raccogliendo il gavettino. Cambiò
tono e finì: — Sono le undici, signor tenente, devo andare a dare il cambio alle guardie al pezzo.
Buon Natale, vedremo come sarà il prossimo. Questo è già migliore dell'altro.
— Non ti ho detto prima, per non farlo bestemmiare nella notte di Natale — disse Reitani a Serri,
quando il capo-pezzo fu uscito — che lui quella volta s'è portato sul Chiarista sei granate, con la
scusa che i sergenti devono dare ogni tanto il buon esempio.
Stettero a lungo in silenzio.
— S'è fatto tardi. Vuoi che chiudiamo la tenda e spegniamo il lume? — chiese Reitani.
Il comandante calò il telo senza prendersi la briga di abbottonarlo, il medico soffiò sul lucignolo. Si
distesero nuovamente sulla paglia, accesero una sigaretta e rimasero a fissare le braci nel buio senza
scambiare parola.
Serri poi disse: — Hai sonno?
— No. Perché?
— Pensavo che si potrebbe fare un giro a salutare i soldati. Sono sicuro che non dormono...
—...Non dormono di certo, è la Notte di Natale. S'è fatto freddo, un po' di moto ci farà bene e in un
paio d'ore saremo di ritorno. Sai, pensavo anch'io di fare il giro, non ho abbottonato il telo apposta.
Quando si rizzarono fuori della tenda, s'accorsero che anche senza la luce della lampada ci si
vedeva ugualmente. Infatti s'avvidero subito che si sorridevano a vicenda.
Incamminandosi a passo rapido, sollevarono entrambi il bavero del cappotto perché nevicava forte.
Reitani prese a braccetto Serri.
— M'appoggio — disse — per diritto d'età.
— Di che classe sei? — chiese Serri.
— Ho ventisei anni, sono del quindici.
— Anch'io!
Allora si guardarono in faccia ridendo, come se avessero scoperto ad un tratto d'essere vincolati da
una vecchia, salda, indistruttibile parentela di sangue.

5.
La primavera tiepida aveva attirato fuori dal magazzino di batteria un artigliere che nell'ora calma
del vespro se ne stava intento a ricucire una sella sdrucita. Passò con fretta insolita il sergente
Bartolan e chiese: — Hai sentito la novità, Pilòn?
— Grane, sergente?
— Una cosa grossa: la Julia va in Russia.
Pilòn, faccione rotondo e rosso, levò gli occhi verso il sergente e meditò sulla notizia.
— Sacranòn de to' nòna imbriàga! Se passa da l'Italia, almanco, par andar in Russia?
— Si, ciò, se capisse.
— Manco male, pois; xe do ani che go vòja de stravacàrme un poco i òssi sul stramàsso de casa
mia.
E aveva infilato nuovamente l'ago nel cuoio, tirando poi lo spago con le grosse mani.
Era stato in seguito indaffarato per più giorni a imballare materiali, inchiodare casse e disporre i
carichi per i muli, poiché la partenza era preannunciata imminente. Gli era successo anche, una sera,
di comprare nel bazar un oggettino e regalarlo alla Sulla piangente, in ricordo di Pilòn. Era rimasto
tutto confuso nel vedere le lacrime della ragazza, non aveva mai supposto che una donna greca
potesse piangere proprio per lui, Pilòn; le aveva perfino promesso, in piena buona fede, li per lì, che
le avrebbe scritto, senza neppure chiedersi come un artigliere alpino possa soltanto pensare di
scrivere in greco.
Si capiva, girando per il paese e parlando con la gente, quanto agli abitanti dispiaceva che gli alpini
se ne andassero; ma nessuno supponeva che, quando davvero le lunghe file di muli fossero uscite
dalle caserme assieme agli uomini delle batterie e tutto il reggimento si fosse incamminato per la
strada di Corinto, la popolazione si sarebbe riversata sulle vie a dare l'ultimo saluto ai soldati.
Invece successe proprio così, e più ancora: molti fra gli abitanti e fra questi moltissime ragazze
accompagnarono i soldati per diversi chilometri salutando e allungando pacchetti di frutta secca agli
uomini che marciavano nei ranghi; e quando alla fine si decisero a ritornare al paese, era un gran
sventolare di fazzoletti con sgocciolare di lacrime.
E tutto ciò faceva pensare che la guerra è una terribile dispensatrice di odii e l'avversione ufficiale è
una potente leva, ma alla lunga è più potente ancora l'umile intesa della buona gente che, al di sopra
di ogni contrasto comandato, si ritrova e lietamente si riconosce in qualunque contrada del mondo.
E di nuovo i soldati furono soli, alle prese con la strada; avevano però il passo sciolto e la parola
allegra perché sapevano di camminare, dopo un infinito tempo di lontananza, verso l'Italia.
E i muli sfilavano, uno dietro l'altro, giorno e notte, sulla riva del braccio di mare che separa il
Peloponneso dalla Grecia continentale.
Quando poi gli alpini ebbero marciato per centosessanta chilometri, giunsero un giorno a Patrasso e
solamente allora, vedendo il porto e le navi, vedendo i muli issati a bordo, furono certi del
rimpatrio.
Dietro ai muli sulle navi salivano gli alpini e dai ponti guardavano la terra allora lasciata e il mare
aperto verso l'Italia. Nei giorni in cui le navi stavano sotto carico erano anche giunti a più riprese gli
aerei inglesi a mitragliare e spezzonare, era venuto perfino il terremoto, ma neppure ciò impediva
che gli alpini stessero per tornare alle loro case.
Le navi salparono ad una ad una. Era il ventotto di marzo, ma il mare e il cielo tempestosi troppo
ricordavano l'autunno di due anni innanzi perché gli alpini non ritornassero col pensiero a
quell'inizio di guerra, a tutte le vicende sofferte e legate a quella terra. A ricordarle, intessute di
patimento, fetide di morte, insinuavano un senso di stanchezza ora che i nervi si accingevano a
distendersi nel presentimento della casa ormai vicina, presto raggiungibile. I profili delle montagne
seppelliti nella foschia tenessero pure con sé, se era possibile, ogni dolorosa memoria, ogni segno
del tormento, affinchè le madri in attesa ritrovassero nei figli reduci i fanciulli di un tempo. Se era
possibile.
Le navi procedevano in convoglio, faticosamente nel mare in tumulto.
Gli alpini sapevano che la notte minacciava agguati, circondando di insidie la Julia. Sapevano pure
che la radio nemica aveva minacciato di sterminio la Julia quando fosse stata sul mare. Ma non
temevano, volevano solamente rivedere la madre, la famiglia.
Le navi invece dirottavano spesso o si fermavano a lasciarsi sospingere dai marosi come gusci alla
deriva, a volte perfino invertivano la rotta, facevano il respiro affannoso per lunghe corse qua e là
sul mare: segno che annusavano pericoli in quel fittissimo buio.
Si riunivano, poi si distanziavano in gran furia, frettolose e preoccupate.
Allora gli alpini su ogni nave si guardavano e si chiedevano dove fossero andate le altre, se fosse
successa qualche disgrazia; tendevano l'orecchio perché con i sibili del vento sembrava ogni tanto
che giungesse anche l'ululato di una sirena, a dire che una nave andava a fondo.
Stavano in pena perché sulle navi era frazionata un'intera, una sola famiglia, d'un unico ceppo,
divisa a battaglioni e gruppi sulle singole navi, e io avevo un cugino nel battaglione Tolmezzo e un
fratello nel gruppo Udine, e tu avevi uno zio nel Conegliano ed il marito di tua sorella nel Gemona;
stavano nella nave avanti alla tua, in quella dietro, e tutte le navi erano cariche di parenti,
compaesani, compagni d'infanzia, compagni di guerra. Tutti di una stessa razza, degli stessi paesi,
perché così è, fra gli alpini. Se fossero stati sui monti, non ci sarebbe stato da darsi gran pena per gli
altri, perché un alpino sa sempre dove mettere il piede. Ma se la nave va a fondo, dove lo mette il
piede, sul mare? Non c'è che levarsi le scarpe e attendere, e che Dio la mandi buona.
Ma quando la notte è più fonda, la tempesta più furiosa, il freddo più intenso, l'acqua più insidiosa,
un boato rintrona nella caligine e si diffonde sulla superficie del mare.
Nel turbinare del vento, tra la pioggia a scrosci e il tempestare dell'onde qualcosa succede di più
temibile, nefasto: da nave a nave un brivido si diffonde col nervoso ticchettìo delle radio, le navi si
disperdono a tutta forza in ogni senso diradando ancor più la formazione: i siluri sfrecciano tra nave
e nave, una è stata colpita in pieno. — Quale? Quali fratelli sono in pericolo? Cosa si fa per aiutarli?
— vogliono sapere gli alpini. Bisogna fare qualunque cosa per salvarli.
Nulla. Non faranno nulla, per la prima volta non possono fare nulla, essi che si sono sempre difesi a
vicenda con le unghie e coi denti. Secondo gli ordini di navigazione, le navi devono invece
spingersi a tutta forza lontano dalla zona infestata dai sottomarini, alle operazioni di soccorso può
provvedere soltanto il naviglio di scorta.
— Quale nave è stata colpita? — vogliono sapere gli alpini, mordendosi le mani nel sentirsi
impotenti.
— Il «Galilea».
Un urlo, che per ogni nome di nave sarebbe stato uguale, sorge dalle labbra contratte. A bordo del
«Galilea» oltre il Comando di un reggimento e un ospedale da campo sta un intero battaglione, il
Gemona, forte dei mille alpini che lo compongono. Hanno sentito lo schianto del siluro che
dirompeva il fasciame della loro nave, subito squilibrata e offerta al capriccio del mare. Il naviglio
sottile di scorta tenta d'accostarsi e iniziare l'opera di salvataggio ma il mare lo respinge, vuole
intatta la sua preda. Nessuno deve poter avvicinarsi ai mille alpini aggrappati al relitto che dondola
nella tempesta e nel buio: affonderà, alla fine affonderà, tutto apparterrà al mare.
La lotta contro il mare ferve attorno alla nave squarciata, gli equipaggi si prodigano in tentativi
spasmodici, ma la violenza delle onde non tollera accostamenti, ogni illusione di speranza si riduce
al «si salvi chi può». I primi plotoni vengono calati in mare sulle scialuppe, ma subito gli uomini
annaspano nell'acqua gelida poiché le leggere imbarcazioni si rovesciano disseminando nel mare i
giovani alpini. Qui non c'è roccia, né terra, né ghiaccio per poggiare il piede e dare punto
d'appoggio alla forza dell'alpino; di tanto sasso calpestato non un briciolo rimane sotto i piedi che
agognano affannosi un sostegno nella mollezza dell'acqua; di tante incredibili vicende non rimane
che quella, l'ultima, buona solo per dibattersi ancora un poco, mentre si inghiotte l'ultima amara
acqua di quella vita che, con gli ultimi sorsi e sussulti, se ne va.
Già i primi annegati vagano sotto la superficie del mare; altri uomini, a pelo d'acqua, ancora
esprimono dai polmoni invasi dal liquido gli ultimi urli d'orrore nel sentirsi afferrati dalla morte
gelida e sospinti giù, inesorabilmente più giù, a morire; altri sono a mezz'aria nelle scialuppe calanti
verso il mare; gli ultimi, a centinaia, stanno a bordo nella frenetica attesa di separare la propria sorte
da quella della nave.
Morte indubbia e imminente è lo stare sulla nave che da un istante all'altro può sprofondare
trascinando senza scampo nel vortice quanti siano ancora a bordo. Di conseguenza, frequente è la
decisione di coloro che, ergendosi per un istante sui parapetti dei ponti, si gettano nella voragine
buia; l'acqua intorno alla nave brulica però di annegati e di uomini a nuoto: coloro che si gettano
dall'alto talvolta precipitano su chi si tiene a galla.
Tutti sanno che morire in naufragio è cosa orrenda, ma giammai questi alpini, nati e vissuti sui
monti, hanno posto l'annegamento fra le proprie possibilità di sorte; ed ora annaspano nell'acqua, o
resi ciechi dalla notte brancolano sui ponti nel presagio dell'assurda fine; morire per la patria è un
pensiero al quale non si sono mai ribellati, ma questo è il morire di un cane caduto in un pozzo, non
è fine d'alpini.
E il destino preme contro le murate della nave, ribolle con l'acqua e succhia cadaveri attirandoli giù;
e altri ne vuole, ne cerca, adescando uomini vivi con un abbaglio di speranza, penetrando poi con
dita feroci nelle gole contratte affinchè l'acqua trovi subito la via per uccidere facendo infine
vomitare con l'acqua la vita. Esige vittoria completa, è l'intero battaglione che vuole annientare; e
quando una nave di salvataggio riesce ad accostarsi al «Galilea», mentre chi fra gli alpini sa nuotare
si avvicina sperando nella salvezza, la mano del destino squassa ancor più le onde, le lancia contro
le fiancate rivestite di ferro mentre reggono nel loro seno molle gli uomini vivi, affinchè si
fracassino il cranio contro il metallo. Nessuna salvezza ha da esservi, per nessuno. Compiano pure
disperati sforzi i marinai della nave di soccorso per affiancarsi a quella morente: quando sarà a
pochi metri, il destino provvedere a sospingerla di schianto contro il «Galilea», e gli uomini che nel
gelido corridoio marino fra le due navi s'apprestano ad issarsi lungo le funi salvatrici siano
spiaccicati e maciullati fra le navi in collisione. Questa notte il siluro inglese ha voluto fare un dono
grandioso al mare, lo sappia chiunque è interessato a saperlo. Il «Galilea» non raggiungerà più le
sponde dell'Italia, diranno domani le radio inglesi, e il battaglione Gemona — annunceranno
informatissime — non rivedrà più la patria.
Infatti attorno alla nave agonizzante il mare brulica d'annegati e i siluri rigano ancora l'acqua,
tengono a forza lontane le navi di soccorso. Quell'una che ha saputo avvicinarsi non può prestare
opera di salvataggio, nessuna fune regge agli strappi del mare; è costretta ad impuntare le macchine
e svincolarsi dal pericoloso abbraccio col «Galilea»; nella manovra, forzatamente compiuta tra gli
uomini a mare, il risucchio sospinge gli alpini alle eliche che li addentano, ne sollevano le carni a
brani subito rigettandoli nell'acqua. Cento morti, poi duecento, trecento e fanno cerchio intorno alla
nave che affonda; è l'intero battaglione Gemona che affonda nel mare. Di mille uomini vivi, quando
il «Galilea» s'inabissa traendo seco gli ultimi alpini fino allora sopravvissuti, sull'acqua non rimane
che qualche straccio grigioverde, invisibile anche al periscopio in emersione che ha sorvegliato e
controllato gelidamente le fasi della tragedia. Il successo è completo, checché ne possano dire le
madri.
Checché ne pensino tutti gli alpini della Julia, che all'indomani sbarcano sul suolo d'Italia come
parenti giunti per il funerale.
Ma non c'era aria di funerale, al porto.
— Siete della Julia? — domandava la gente che accostava gli alpini scesi sulla banchina.
— Si.
— Vi è andata a fondo una nave, eh?
— Sì.
— Mille morti sono molti, caspita! Qualcuno aggiungeva: — Ne avete passate, eh, voi della Julia.
E pareva che già altre cose più interessanti distraessero la gente, perché lasciava cadere il discorso e
se ne andava.
Era umano che i soldati, toccando il suolo d'Italia dopo la vita di guerra e l'ultima sciagura,
s'attendessero dai primi italiani in borghese un'accoglienza che potesse sottintendere in qualche
modo la solidarietà con chi era vissuto nella privazione e nel dolore.
— Da queste parti non c'è reclutamento d'alpini, ci conoscono poco; forse è per questo — diceva
Pilòn a titolo di consolazione.
— Non avete ancora capito come vanno le cose? Ve lo dico io: in Italia non si curano di noi, noi ci
facciamo ammazzare per loro e qui se ne fregano, è chiaro come la luce del sole! — esclamava il
sergente Bartolan.
In effetto, in segno di lutto erano stati sospesi i festeggiamenti ufficiali; ma fra questi e
l'indifferenza non sapeva inserire nulla, per gli alpini che tornavano dall'Albania, il cuore degli
italiani?
Eppure gli alpini, vivaddio, in Albania avevano...
Parve però, più innanzi, che al passaggio delle tradotte le popolazioni s'animassero per la presenza
dei soldati; e infatti, quanto più i convogli ferroviari s'avvicinavano alla valle padana, il popolo
s'addensava alle stazioni facendo ressa attorno ai vagoni. Gli alpini sentivano ora la gioia d'essere
tornati, di ritrovarsi tra i fratelli in attesa; mani amiche tendevano doni, dolciumi, sigarette, fiaschi
di vino; voci amiche gridavano «Viva la Julia», «Viva gli alpini», «Viva l'Italia».
Era bello, dopo tanta solitudine in grigioverde, ritrovarsi in mezzo al popolo di cui si è parte viva.

6.
Agli alpini, giunta la Julia nel Friuli, sede abituale della divisione, venne concesso un mese di
licenza. Serri si mise in viaggio, raggiunse la sua città, salì le scale dopo un anno d'assenza.
Dal pianerottolo vide la grande porta di noce, le grosse maniglie, la lucida targa di metallo con
inciso il suo cognome. Si soffermò un istante.
Al di là della porta chiusa stava la sua famiglia sempre in attesa, inconsapevole tuttavia che fra un
minuto la sua abituale scampanellata — un tocco lungo e due brevi — avrebbe portato il trambusto
in casa. Cosa avrebbe trovato? Avevano sempre detto tutto, nelle lunghe lettere, o avevano taciuto le
pene più gravi? Un'infinita attesa stava per sciogliersi.
Come sospinto, all'impazzata salì i gradini restanti, diede i tre tocchi e poi con frenesia un quarto,
forsennato, lungo fino a quando quegli attimi si fossero bruciati e qualcuno fosse corso ad aprire.
Un grido, un accorrere di passi rispose dall'interno e le care braccia si contesero il suo corpo, le care
mani si contesero il suo volto.
— Italo! — dicevano le voci — sei tornato, Italo!
— Sì — rispondeva. E gli pareva appena vero.
— Fammi sentire che davvero non sei ferito! — diceva la mamma, passandogli la mano sulla
divisa. E forse era un pretesto per toccare ancora e meglio quel suo figlio ritornato.
— Italo! Non mi hai ancora salutato! — protestava la sorella.
— Lascialo tranquillo, Bruna, chissà come è stanco, poverino! — diceva la nonna.
Concedendo il campo alle effusioni delle donne il babbo, due passi più in là, guardava in silenzio il
figliolo ritrovandolo a poco a poco.
— Sono venuti spesso a trovarci — gli diceva più tardi, mentre le donne disponevano per il pranzo
— i tuoi soldati che rimpatriavano, sono venuti a ringraziare noi per quello che tu avevi fatto per
loro, ci hanno parlato a lungo di te. Non è possibile avere una ricompensa migliore di quelle loro
parole.
Siamo orgogliosi di te, figliolo, per la prima volta te lo devo dire. Hai fatto il tuo dovere.
Si riunirono tutti a tavola, ma mancavano i due figli minori.
— Se ci fossero anche Beppe e Mario... — sospirava la mamma.
Beppe era sempre sul fronte russo, Mario attendeva l'imbarco col suo reparto.
— Andrò a fare un po' di compagnia a Beppe, poi torneremo e ci riuniremo tutti, un bel giorno,
mamma.
— Dio lo voglia, Italo. Noi viviamo aspettandovi.
— Vi ha portato ristrettezze, la guerra?
— No, nessuna che non si possa superare agevolmente.
— C'è un altro po' di pane? — chiese l'ufficiale ad un tratto. Seguì un breve silenzio imbarazzato.
— No, Italo, non ce n'è — rispose pacatamente il babbo. — La colpa è mia, pare — aggiunse con
un fuggevole sorriso. — Sono io il tiranno.
— Il babbo non vuole che si ricorra alla borsa nera — spiegò la mamma con dolcezza — e con la
tessera si hanno centocinquanta grammi di pane al giorno.
— Troppo pochi — esclamò il medico allarmato.
— Sono un po' pochi — corresse la mamma — data la scarsezza degli altri generi; ma ci sono
sufficienti, non preoccuparti caro. Piuttosto, tu in questi giorni avrai bisogno...
— No, mamma, non darti pensiero, starò anch'io alle regole come voi.
— Vedi che Italo ha capito subito la situazione? — disse il babbo contento. — La mamma brontola
ogni tanto, dice che almeno io e Bruna dovremmo mangiare qualcosa di più di quanto si può
acquistare con la tessera; ma io penso che se i soldati muoiono al fronte anche noi dobbiamo
accettare qualche sacrificio. Ho tre figli in guerra, abbiamo milioni di figli in guerra: non sarà mai
detto che la nostra famiglia li contrasti nel loro sacrificio, se è vero che sono del nostro sangue.
Ti sembra giusto, Italo?
— Certo, papà. — Ma gli si stringeva il cuore vedendo la nonna che a pranzo finito, con l'avidità
dei vecchi raccoglieva ancora dalla tovaglia qualche briciola e la portava alla bocca.
— Ma mi patiscono la fame — pensava con uno struggimento profondo.
— Molti però non agiscono così — diceva Bruna.
— Gli apostoli erano soltanto dodici, e fra questi si trovava già un traditore.
Noi siamo quarantacinque milioni. Figuriamoci... — mormorava il babbo, con grande perplessità e
tristezza. E guardava nel vuoto passandosi lentamente una mano sui capelli, in quell'anno divenuti
del tutto candidi.
Perché? Perché mai? Per più di un anno non c'era stato villaggio, proda di fosso, valletta, margine di
bosco ove avesse fatto sosta, senza che il pensiero fosse volato instancabile a quell'unica meta.
Non cielo, non notti stellate o giorni luminosi che non gli avessero fatto sentire assillante la
lontananza della sua terra.
Eppure, ora che aveva riposto piede in Italia, un insopprimibile senso di desolazione gli devastava il
cuore.
Fatta eccezione per la famiglia, per qualcuno venuto in licenza dai fronti e rare altre persone, egli si
sentiva isolato.
Gli accadeva di pensare ai suoi compagni e li ricordava come li aveva già visti, generosi fino a
morirne; e ripensava a Piombi, a quel suo fiato che gorgogliava nel sangue per dire di curare gli altri
feriti; ripensava a tutti i suoi fanti e ai suoi alpini e ai loro infiniti modi di patire.
E questa gente attorno a lui, al confronto...
Contava i giorni di licenza che gli rimanevano, e sentiva che se non fosse stato per sua madre
sarebbe ripartito all'indomani.

7.
Dalle valli e dai paesi, allo scadere dei trenta giorni di licenza, gli alpini della Julia s'erano riuniti
nel cuore del Friuli a ricomporre i ranghi della Divisione.
Avevano avuto il tempo di riabbracciare i vecchi, la sposa o la fidanzata, la parentela; di conoscere i
nuovi venuti nella famiglia, i nati durante l'assenza; avevano fatto il giro del paese a salutare, un
bicchiere qua un bicchiere là, nelle case, all'alpino che è venuto in licenza e alla sera tornava in
famiglia e la mamma diceva tentennando il capo che il suo Toni le sembrava un po' allegro; erano
andati a salutare il parroco che domandava se avevano ancora quella medaglietta della Madonna
avuta in dono nel giorno della partenza per la guerra, e loro facevano finta d'averla perduta ma poi
la tiravano fuori, e il parroco rideva e diceva bravi bravi lo sapevo che vi siete mantenuti buoni
ragazzi. Erano entrati, ed era un brutto momento, nelle case dove si mettevano a piangere al vederli,
per via del figlio morto, e in principio non si sa che cosa dire, e poi si cerca, come si può, di fare un
po' di coraggio. In famiglia, alla sera avevano raccontato qualcosa della guerra, a veglia, perché le
donne volevano sapere, e ne veniva fuori una guerra piena di muli, di sassi, di neve e basta, ma le
donne erano contente lo stesso.
Avevano detto chiaro e tondo a tutti — oh, questo sì — che quel mese sapevano loro come passarlo:
mangiare bere dormire e divertirsi, se no per che cosa la davano la licenza?
Ma al secondo giorno avevano cominciato a dare una mano ai vecchi nelle faccende di casa, a fare
quel lavoretto nella stalla se no quest'inverno va a finire che ci entra l'acqua; e poi è meglio che alla
legna ci pensi io che sono giovane, e a tante altre cose pesanti che bisogna fare nelle case degli
alpini.
E poi i trenta giorni erano passati; licenza finita.
Si erano ritrovati tutti, quindi, nelle caserme; meno i mille del Gemona, che era una cosa che non si
poteva mandar giù. Ma però il Gemona era ancora in piedi ricostituito, perché quando muore un
alpino c'è sempre un altro alpino che prende il suo posto, e magari è il cognato o il cugino o il
fratello. E se ne mancano mille, la montagna ne può dare mille, perché nessuno si tira indietro; non
s'è mai sentito dire.
Avevano ripreso a fare brusca-e-striglia, a lucidare i finimenti, a rivedere i materiali e i muli e tutto,
perché questa era la volta d'andare in Russia e tutto doveva essere in ordine perfetto.
Poi un giorno avevano saputo che era stata loro decretata la medaglia d'oro. Sì, a tutti loro vivi e
morti della Julia, per quello che avevano fatto insieme in Albania. Tre medaglie d'oro: una ai due
reggimenti d'alpini, la terza al reggimento d'artiglieria alpina della Julia. Non restava altro che
andarsele a prendere a Udine, il Re in persona le avrebbe appese agli stendardi.
Già, medaglia d'oro, né più né meno: la più alta decorazione al valore che l'Italia avesse da offrire ai
suoi soldati. Naturalmente, neanche dirlo, la prima cosa che c'era da fare era quella di rassegnarsi a
qualche giornata di marcia.
Marciare sul liscio asfalto alla volta di Udine faceva uno strano effetto, dopo tanto camminare sui
sassi e nel fango. Pioveva, naturale. La popolazione applaudiva, passando per i paesi.
A Udine, dopo due giorni di pioggia passati sotto la tenda nei prati della periferia, venne anche la
giornata di cui tutti parlavano.
Era serena, per fortuna, e gli alpini si avviarono reparto per reparto verso il centro della città. Erano
di buon umore, avevano persino avuto il permesso di riempire di paglia lo zaino perché era la loro
festa: le cinghie non segavano le spalle. Già alle prime case s'avvidero che la popolazione stava
aspettandoli e batteva le mani e gridava. Così fino in centro; con più entusiasmo anzi, più la gente
era fitta. Gridava, gridava la gente e agitava le mani in segno di festa.
In certi tratti si accalcava talmente a ridosso delle schiere in marcia, che gli alpini procedevano in
uno stretto corridoio dalle pareti in tumulto, colorate di migliaia di bandierine sventolanti, una cosa
che agli alpini abituati alle larghe solitudini faceva quasi girare la testa. E pareva davvero, un po'
alla volta, di marciare nell'irreale, pareva che tutto diventasse sempre meno vero, una favola più che
altro, seguendo la quale era piacevole lasciarsi condurre dal passo senza pensare più a nulla,
procedendo verso annebbiate fantasie.
Si trovarono così in un grande spiazzo e c'erano tutti gli alpini della Julia, i tre reggimenti allineati e
affiancati. Proprio tutti, non era mai successo di vedersi così, insieme. Compagnia per compagnia,
batteria per batteria, tutta la divisione Julia.
Su tutto il campo si distendeva il grigioverde, punteggiato di penne nere: e gomito a gomito stavano
gli alpini; innumerevoli, e si vedeva finalmente cos'era la Julia: tanti Pilòn, tanti Scudrèra, tanti
sergenti Bartolan, tanti tenenti Reitani e, con la penna bianca, qualche colonnello Verdetti e Garrì.
Ma per intendere cos'era veramente la Julia non bastava guardarla dalle tribune, bisognava essere
nelle file, sentirsi quello che si sentivano nel cuore gli Scudrèra, i Pilòn, i Bartolan, i Reitani, i
Verdotti e i Garrì, tutti un po' trasognati, con qualcosa che pesava nel petto, ma non faceva male.
Poi la gente nelle tribune s'era acquetata e uno stendardo tricolore ascendeva verso il Re e si udiva
fare il nome di un reggimento, poi ancora di un altro. E a un certo punto il conducente di mulo
Scudrèra e tutti gli altri sentirono nominare il loro reggimento e a ciascuno sembrò d'essere
chiamato per nome, e il cuore cominciò a battere, o si fermò. E una voce si levò, non si capiva chi
fosse, e diceva: — «Per il superbo comportamento dei Gruppi durante la campagna italo-greca.
Frammisti agli alpini nel valore e nel sacrificio, costituirono con le loro batterie sui Mali, allo
Scindèli, al Colico come già sul Pindo i nuclei dai quali partì l'offesa e sui quali infuriò la resistenza
e prese slancio il contrattacco. Col tiro dei pezzi, come con la baionetta e la bomba, furono valorosi
fra i valorosi, alpini tra gli alpini».
E lo stendardo era là in mezzo, davanti agli occhi di tutti gli appendevano la medaglia d'oro. Ma
non si vedeva bene, si capiva poco di tutto, quelle parole poi avevano fatto l'effetto del cotone nelle
orecchie quando spara il pezzo: ogni suono sembra lontano e si fa più fatica a tenersi in equilibrio.
A dover stare immobili sul presentat'arm nelle file, di vero ormai non c'erano che le due orecchie
del compagno davanti, sotto il cappello alpino; di tutto il resto non si capiva più niente, «...sui quali
infuriò e prese slancio...». Come aveva detto? «furono valorosi tra...». Tra che cosa poi? Ecco:
furono valorosi alpini. Così. Se ne sono accorti anche loro e hanno dato la medaglia d'oro al
reggimento. Bene!
Ma però in quella mattina c'era qualcosa che non andava, che faceva stringere il cuore. Veniva
sempre da pensare ai compagni, a quelli dei Mali, dello Scindèli, del Colico. Come erano stati cari,
quelli...! Era questa la cosa che mordeva il cuore. Perché non c'erano e pareva che ci fossero?
Dov'erano? Dov'erano almeno le loro anime? Avevano sentito quello che era stato detto, sui quali
infuriò e prese slancio e le altre parole? Tanti erano, poveretti, e i più bravi. Avessero almeno questa
consolazione. Loro erano di più, molti di più degli alpini radunati nel grande campo. Loro non
avrebbero potuto trovar posto se fossero stati ancora vivi, neppure fitti fitti in piedi. E sdraiati nella
terra, meno che mai; perché, anche con la povera sepoltura da alpini, i morti occupano sempre più
spazio dei vivi.
No, non c'erano.
Eppure, quel sentirli intorno faceva scoppiare il cuore. Buon Dio, ecco cos'era, trovato: quel sentirli
intorno. Era come se gli scarponi allineati posassero su terra sacra, sul camposanto degli alpini
morti: pareva di dover scostarsi, lasciare sgombro il posto a loro in quel loro giorno. Ma non si
poteva, bisognava restare sul presentat'arm.
Loro erano, adesso ci voleva poco a capirlo; a socchiudere un tantino gli occhi per il sole, gli alpini
vivi li rivedevano e li riconoscevano a uno a uno: vecchi compagni scalcagnati fra le pietre e la
neve, rimasti abbarbicati alle rocce, dove la penna se la portava via a poco a poco l'acqua e il
dormire per terra; e la vita, di schianto, un sibilo frullante nell'aria, nel fango costellato di
scheggioni, di pezze marce e scatolette vuote.

TEMPO TERZO
Giacché sei polvere

1.
Oltrepassato il Brennero la terra cambia volto.
Come in una rifinita e verniciata costruzione per ragazzi, ai lati del binario si susseguivano le
stazioncine lustre e infiorate, scortate dallo steccato di assicelle dipinte in bianco. Un po' discosti i
villaggi, gruppetti di casine linde di buon legno alpestre, dalle finestrelle verdi o rosse.
Nel punto più elevato, naturalmente, stava la chiesina col suo bravo campanile magrétto e
appuntito. Il torrente scorreva a lato del paese e subito al di là si stendevano i prati, bei prati dalle
più svariate forme: di prato in prato l'occhio saliva i pendii, su su fino ai monti.
Ciò piaceva molto agli artiglieri alpini della tredici, ammucchiati alle larghe aperture dei carri
bestiame della tradotta che li portava in Russia.
Non mancavano neppure, disseminate nei punti opportuni, diritte in piedi le legnose figurine
tirolesi; asciutti e baffuti gli uomini dal cappelluccio con la piuma e il grembiule rigato, rotonde e
prosperose le donne nelle bluse bianche e i sottanoni. Da vicino, da lontano, al passaggio del treno
se ne stavano a guardare o salutavano agitando un braccio sopra la testa.
Il treno sferragliava nelle valli e nelle vaste pianure: Innsbruch, Rosenheim, Monaco, Norimberga,
Jena, Berlino.
I muli scalpitavano, asserragliati nei carri con gli uomini, mentre la Germania passava ai lati dei
vagoni.
La tredici, con i suoi duecentotrenta uomini, centosettanta muli, i quattro pezzi, le munizioni e i
materiali riempiva da sola un lungo treno. Le altre due batterie del Gruppo seguivano su altri due
treni. Correva voce che erano necessari centinaia di treni per trasportare in Russia le tre Divisioni
alpine, Tridentina, Cuneense e Julia: sessantamila penne nere.
Anche agli uomini della tredici ormai era noto che sarebbero andati nel Caucaso.
Caucaso era una parola un po' vaga, diceva poco, ma si sapeva che era una regione con monti
altissimi e ciò bastava: era un posto da alpini. Questi guardavano tranquillamente il paesaggio
godendosi quel comodo viaggiare. La tredici aveva avuto tante cose nella sua vita di guerra, ma mai
un treno tutto per sé, un treno intero. Fatto più che altro di carri bestiame, ma non si può pretendere
tutto. E con qualche bracciata di paglia sul pavimento si dorme tranquillamente, dopo dieci minuti
non si sente più il trantran delle ruote.
Leopoli, Varsavia. La Polonia mostrava la terra piatta, gli immensi boschi.
Ormai la Russia era vicina, dopo una settimana di viaggio. Per gli alpini la Russia era un mistero,
come per tutti; una curiosità impaziente animava gli uomini.
— Signor tenente, è vero che i russi vivono nelle capanne col tetto di paglia?
— Così dicono, vedremo. Le chiamano isbe.
Una mattina gli artiglieri videro un villaggio di capanne con tetto di paglia e alla prima stazione
corsero ai vagoni frotte di ragazzi laceri che rivolgendosi ai soldati gridavano a filastrocca: — Viva
Italia, viva Mussolini, viva Re, viva Duce, dare piccolo galliètta.
— La xe Questa la Russia! — chiedevano gli alpini sgranando gli occhi.
— Da, da, si, si, ruski. Dare piccolo galliètta... — gridavano in coro le voci.
— Ostrega, i parla in italiàn 'sti tósi — si meravigliavano i soldati.
— Ostrega, ostia! Ostia!— squittivano i ragazzi.
— Sentili, ciò, i dixe «ostia»! Alòra sèmo su la strada giusta, se sente che xe già passà de qua la
«Tridentina»!
Non avrebbero mai pensato, gli alpini venuti in Russia a fare la guerra, che una volta giunti il primo
gesto sarebbe stato quello di tendere a piccole mani supplici pane italiano.
Strana terra, la Russia. Per mezze giornate il treno procedeva su un terreno ondulante, fra campi di
girasole che si estendevano fin dove l'occhio riusciva a distinguere qualcosa. Linee sterminate; non
si vedeva una casa, un albero, un uomo. S'intravvedeva poi all'improvviso in una conca un
agglomerato di casupole che scompariva tosto, seguito dalla vastità di altra terra rinsecchita. Per
ore, per giorni. Isolato e sperduto, ogni tanto l'occhio trovava qualche punto d'appoggio in solitàrie
ruote a pala, simili a quelle dei mulini a vento.
Immobili anch'esse, protendevano le scarne braccia verso la terra e il cielo come a chiedere pietà
per quel loro abbandono.
Adusati ad altre misure e ad altri limiti, gli artiglieri guardavano attoniti, non riuscendo a stabilire
un punto di contatto con quella terra. Il treno si fermava a volte in aperta campagna, presso una
piccola tettoia in legno sostenuta da quattro pali, dalla quale pendeva un cartello con una parola
indecifrabile. Sotto la tettoia che fungeva da stazione non c'era nessuno, o al più una persona.
Mezz'ora, un'ora, cinque ore di sosta e poi il treno ripartiva ingolfandosi sempre più nella piatta
voragine.
Finalmente una sera, essendo venuta incontro un'ampia verdissima distesa d'alberi, il treno si fermò
in mezzo al bosco sbuffando a fianco d'una tettoia costruita con tronchi. Di lato al binario, a una
breve radura soffocata in mezzo al verde confluivano sentieri tortuosi, subito perduti fra gli alberi
diritti e altissimi. Dal fogliame filtrava l'intensa luminosità del vespro. A terra, sabbia finissima e
fresca; alte fra i tronchi, lame di vivida luce doravano l'aria e le cortecce.
Prolungandosi la sosta, dai sentieri giunsero a due, a tre, a gruppetti frotte crescenti di uomini e
donne che ai primi allegri saluti degli alpini si fecero innanzi e poi corsero ai vagoni ad offrire uova,
galline e monete russe chiedendo galletta, carne in scatola e orologi.
Molti alpini scesero, poiché la locomotiva non pareva intenzionata a ripartire; quasi tutti infine
scesero, disperdendosi a chiacchierare in Iddio sa quale idioma con quei russi del bosco.
Un'allegria primitiva e contagiosa legò presto in collane di risa gli abitatori del bosco e i soldati. Un
artigliere scaricò dal vagone una fisarmonica, sedette su un tronco d'albero reciso e intonò «Quel
mazzolin di fiori...», subito seguito dal coro degli alpini.
Alla seconda strofa, fra l'entusiasmo dei soldati varie donne tentarono di riprendere il facile motivo
e s'unirono al coro assecondate alla terza strofa anche dagli uomini, sì che un unico canto legava in
quel bosco gli sconosciuti fra un brillare d'occhi e di giovani denti.
Le ragazze erano le prime fra le russe che gli artiglieri avvicinavano, guardate quindi con un po' di
soggezione e con molto interesse; ragazze salde e ben piantate, assai pregevoli all'occhio
dell'artigliere alpino, larghe di spalle e di fianchi, sbozzate un po' alla buona a somiglianza di quei
loro tronchi che s'innalzavano intorno; larghe perfino di vita, tutte d'un pezzo sotto le vesti
campagnole.
Una però fra tutte aveva attirato lo sguardo del conducente di muli Scudrèra, che discosto dai
compagni se l'andava guardando di sottecchi all'inizio e poi senza riserve, tutto preso e conquistato
da un particolare che gli aveva attanagliato l'attenzione. Riserbata e contegnosa, la bella aveva colto
gli sguardi e se ne stava pudibonda nel gruppo delle amiche; ma Scudrèra già parlottava coi
compagni senza distogliere lo sguardo, si che la schiera femminile bisbigliava all'orecchio
dell'avventurata, che aveva fatto le guance rosse; e i vecchi russi, di contorno, maliziosi e sornioni,
ridevano nelle folte barbe avendo intercettato l'incrociarsi delle occhiate.
— Ma sarà vero? — ripeteva Scudrèra combattuto fra entusiasmo e incredulità.
— Bisogna vedere, bisogna assicurarsi — incalzavano i compagni; e qualche vecchio, fiutando aria
allegra s'era avvicinato al gruppo dei soldati.
— Bisogna dirlo ai nonni! — esclamò il sergente Fraita, capo-pezzo del secondo pezzo; e i nonni
ridanciani, dopo un complicato confabulare e ammiccare nel cerchio degli alpini, si portarono
solennemente a parlamentare col gruppo delle ragazze, suscitando alte strida e risa eccitate.
Il gruppo si scompigliava e si ricomponeva attorno alla bella, che si schermiva; le compagne la
spingevano, se la contendevano, la consigliavano, l'incitavano ridendo. E il trillare delle risate saliva
alla cupola verde.
Allorché gli ambasciatori ritornarono portando il responso e con lunghe chiacchiere e ripetuti gesti
si fecero intendere, due soldati corsero al treno ritornando con vari pezzi di sapone, subito
attentamente esaminati e annusati dai vecchioni; quando costoro solennemente mossero concordi la
testa in cenno affermativo, un urlo unico esplose dal gruppo femminile, mentre gli alpini si
dirigevano verso le donne starnazzanti.
Venne nominata nel bosco una sorta di commissione internazionale formata da due delegazioni di
tre membri aventi a capo rispettivamente il conducente Scudrèra e un vecchione; la ragazza, un po'
ridente e un po' recalcitrante, presa in mezzo al cerchio delle amiche fu da queste guidata e sospinta
verso un vagone. Non priva di solennità, la commissione seguiva.
Con rusticano cerimoniale i membri e la bella, scortata da due ancelle, salirono sul vagone e
s'eclissarono agli occhi della turba. Un silenzio denso di fermenti gravava sull'accolta, gli alpini
nella ressa attorno al vagone si erano accostati senza parere alle donne e tutti fissavano con evidente
orgasmo la porta chiusa.
Dopo vari minuti questa s'aprì e Scudrèra con occhi stralunati apparve nel vano.
Il suo viso esprimeva la stupita meraviglia di chi ha assistito a un prodigio.
Girò nel silenzio lo sguardo sulla frotta dei compagni col naso in su, e giungendo le mani e
agitandole rapidamente avanti e indietro, gridò trasecolato: — Le xe vere, Maria vergine, go
controlà, le xe un miracolo! Le sta su da sole, gnènte tiràche...; roba da far venir le làgrime a i oci!
Un unico urlo e uno scroscio d'applausi si levò nella radura, subito interrotto dall'apparizione della
bella. S'affacciò esitante alla porta, ristette. Era emozionata, bianca e rosata, ma agli strilli giocondi
delle amiche s'eresse ardita, con sfolgoranti occhi di vincitrice. Parve davvero bella, così trionfante
e calma; un'espressione di sfida emanava dal viso altero e dalla ricchezza incoercibile del busto
superbamente eretto.
Con calma e sicurezza mise il piede sul predellino e d'un balzo saltò a terra.
E fu quello il suo trionfo, perché agli occhi vigili dei soldati apparve manifesto che neppure nel
sobbalzo, sotto l'appena rimessa camicetta, il formidabile petto della bella si rassegnava a far cenno
d'omaggio alla legge di Newton.
Ella fendette la calca d'uomini e donne come regina, seguita dai dignitari che reggevano il sapone.
A quel punto un pennacchio bianco s'alzò imperioso e la locomotiva fischiò, chiamando.
— Scudrèra, vecio balèngo, nato de càn - brontolò Pilòn; — pròprio con gente come ti me tòca de
andar a far la guèra, maledèta la barba de to nòno pirata...!
Un mutismo preoccupato s'era diffuso nel convoglio; stando per tre giorni alla porta dei vagoni a
considerare quell'interminabile solitudine, s'insinuava negli animi una sensazione molesta; agli
alpini pareva d'aver lasciato da tempo la terra abitata e d'essere stati trascinati da quel treno dannato
oltre confini dai quali non si ritorna più. La mancanza di limiti estenuava. I muli stessi, oltremodo
nervosi, percuotevano notte e giorno con gli zoccoli il legno dei vagoni, s'allungavano calci fra loro.
La terra soffocava, pareva aver già irreparabilmente inghiottito gli uomini nelle spalancate fauci
della sua vastità. Spaccata dal sole, gialla e nera, deserta, ostentava le sue piantagioni di girasoli
come un inganno.
Al nono giorno di viaggio il treno rallentò, lentamente si fermò secondo il solito in mezzo alla
campagna; ma gli alpini che si erano sporti sulla destra del convoglio videro un diroccato edificio in
muratura.
— Siamo arrivati a Jsjum, scendere! — fu l'imprevisto ordine.
Scaricati i muli e i materiali, la tredici si portò sul piazzaletto antistante la stazione. Dopo
l'immobilità del lungo viaggio, gli artiglieri si erano disposti allegramente in formazione di marcia e
s'avviarono.
Cominciava la loro vicenda in terra russa; con volto assorto intraprendevano un cammino che
terminava chissà dove.
Il primo contatto con l'Ucraina schiudeva un mondo nuovo, sul quale s'addensava una cortina
d'attraente mistero.
A un angolo di strada, a ridosso di un'isba diroccata, stava un carro armato russo. Immobile,
gigantesco, con un'ampia breccia nella corazza che ne poneva in rilievo il formidabile spessore.
Incontrandolo all'improvviso oltre l'angolo, gli artiglieri alpini sospendevano le conversazioni
contemplando a lungo l'immane ordigno. Mai avevano veduto, fino allora, un pachiderma di simile
mole.
Rugginoso e schiantato, inclinato nella polvere a causa di un cingolo divelto, nulla tuttavia aveva
perduto della sua espressione d'intrattenibile forza e a ben poco giovava il consolante pensiero che
anch'esso, nella sua mole potente, era stato bloccato e reso innocuo. I soldati osservavano i muli che
gli giravano attorno, quiete bestiole al confronto; e in silenzio passavano oltre.
Appena la città di Jsjum apparve, la colonna deviò verso la campagna. I soldati prendevano contatto
con la terra osservando, cercando con gli occhi.
Razza di camminatori, d'istinto studiavano la terra per adeguare ad essa il passo; gli scarponi
chiodati saggiavano con circospezione il terreno di Russia: non aveva compattezza, era polveroso,
cedevole. Nel movimento del passo la suola della scarpa affondava leggermente e slittava per un
paio di centimetri all'indietro, i chiodi non facevano presa: terreno affaticante, pesante.
Sulle montagne del Caucaso, grazie a Dio, avrebbero ritrovato la pietra. La permanenza in pianura
doveva essere breve, alla stazione avevano saputo che la Tridentina era già stata avviata verso il
Caucaso.
La tredici procedeva su una larga pista sabbiosa che serpeggiava fra i campi gialli e piatti, mentre il
soffocante calore estivo incombeva su uomini e cose, sul terreno come sui crani dei soldati e sulle
cervici dei muli.
Sulla riva del fiume Oskòl, al tramonto, la tredici piantò le tende in un bosco; il terreno era cosparso
di munizioni russe abbandonate, solcato da trincee e camminamenti. Configgendo i picchetti gli
uomini del quarto pezzo videro affiorare una mano scarnificata e tosto, dal velo di sabbia rimosso,
emerse uno scheletro rivestito dai resti di una divisa fino allora sconosciuta: la divisa russa. Era il
cadavere di un soldato nemico lasciato mal sepolto dai compagni, respinti dall'avanzata tedesca:
nella quiete serale, con le braccia abbandonate sulla sabbia e la mascella aperta pareva implorare
sepoltura.
Gli artiglieri alpini si guardarono sconcertati.
— È un soldato russo — disse il sergente Sguario.
— Poveretto... — disse Pilòn.
Scudrèra, in silenzio, con un badile iniziò a scavare una fossa due metri più in là.
Quando il russo fu sepolto, il tumulo di sabbia si rilevava di qualche spanna dal piano del bosco.
L'infermiere Zoffoli aveva costruito con due rami una croce, si apprestava a piantarla; interdetto,
indicando verso il sepolto chiese guardando i compagni: — Chissà poi se la vuole... Ma Pilòn: —
Sua mamma sì, di sicuro.
Zoffoli infisse la croce nel tumulo. Tutti gli altri intorno, immobili e senza parola, si fecero il segno
della croce. A guardarli in viso, sembrava che seppellissero uno dei loro.
Il capitano Reitani — gli era giunta la promozione poco prima di lasciare l'Italia — giunse al
galoppo dal sentiero fra gli alberi e saltò di sella dinanzi alla tenda del comando di batteria,
contornata da quelle dei soldati.
Tornava dal rapporto ufficiali e gli artiglieri lo scrutavano con grande interesse poiché attendevano
le novità.
Il capitano passò le redini all'attendente accorso ed entrò rapidamente nella tenda sfibbiandosi il
cinturone.
— Non ha accarezzato il muso del cavallo — commentò increspando le sopracciglia il sergente
Bartolan. — Brutto segno, notizie cattive in vista.
— Rapporto ufficiali, subito — ordinò il capitano al furiere Clerici, sedendo al tavolino da campo.
Due minuti dopo i sette ufficiali della batteria stipavano la piccola tenda, Reitani passò lo sguardo
sui loro volti per assicurarsi che non mancava nessuno.
Erano tutti presenti. Nel gruppetto stavano Perbellini, ventenne e già uomo, sempre ridente e sereno,
adorato dai soldati; il tenente Emett, estroso, ma quadrato marchigiano; il sottotenente Candioli,
gioviale e testardo friulano, che si era digerito tranquillamente dal primo all'ultimo giorno la
campagna d'Albania; il tenente Brogli, sottocomandante della batteria, milanese e avvocato,
brontolone e sempre pronto, nei momenti più duri, a rivelare profonde risorse di volontà e di
coraggio; il sottotenente medico Serri; il sottotenente Ferrieri, da pochi mesi effettivo nella batteria,
tracotante e bonario urlatore nella sua mansione d'addetto ai muli, perpetuo spasso dei soldati.
— Ho cattive notizie da darvi — disse Reitani con volto impassibile; — le peggiori che ci possano
riguardare direttamente: al rapporto dei comandanti di batteria il tenente colonnello Verdetti ci ha
comunicato che siamo destinati a un'altra zona d'impiego. Non andremo più nel Caucaso.
— E dove, allora? — chiese per tutti il tenente Brogli. — In quale altro settore del fronte esistono
montagne? Reitani rispose lentamente.
— Non saremo impiegati in montagna, ma in perfetta pianura. Qui in Ucraina, sul Don.
— Sul Don? — domandarono precipitosamente sei voci. Gli ufficiali si scambiarono una frettolosa
occhiata, poi fissarono nuovamente il comandante, increduli.
— È impossibile, signor capitano, vuoi dire farci massacrare tutti — sbottò Ferrieri, gonfiando il
torace come se si apprestasse a parare un urto.
— La Tridentina — riprese Reitani senza raccogliere la frase — è stata inoltrata verso il Caucaso,
ma ha già ricevuto ordine di invertire la direzione di marcia.
Pare che le tre divisioni alpine dovranno attraversare a piedi l'Ucraina fino al Don e schierarsi sulla
riva di quel fiume.
— Sul fiume gli alpini? — disse Brogli quasi ridendo. Ma la voce gli tremava d'indignazione.
— È indubbiamente un assurdo — proseguì Reitani cedendo a un impulso accorato — ma non è
ancora cosa certa. Sicuro è invece che non andremo più nel Caucaso.
Pare che il colonnello Garrì stia facendo quanto può per scongiurare un impiego così irrazionale.
Unico ordine, comunque, è quello di tenersi pronti a marciare.
Vi autorizzo a comunicare in modo opportuno la variazione di programma agli artiglieri: meglio
venirla a sapere da noi che da estranei. Non ho altro da dire, per ora, salvo che mi attendo dalla
tredici, come sempre, un contegno perfetto.
Il comandante e gli ufficiali uscirono dal Comando e si guardarono intorno nell'esigua radura
delimitata dal cerchio delle tende. Varie decine di uomini riuniti a piccoli gruppi, in piedi o seduti
sulla sabbia guardavano immobili e in silenzio gli ufficiali. Pareva che una notizia di lutto si fosse
diffusa nel bosco. Era evidente che quegli uomini già sapevano; probabilmente le parole avevano
oltrepassato la sottile parete di tela.
Reitani si diresse con passo calmo ai più vicini e ad uno d'essi, seduto a terra, con mossa
amichevole spinse all'indietro il cappello alpino calato sugli occhi.
— Faremo in ogni caso — disse, e la voce ferma si diffuse nel silenzio del bosco — il nostro dovere
di soldati. Non è vero, Scudrèra?
Il conducente di muli sollevò il viso e il cappello alpino cadde sulla sabbia.
Non lo raccolse.
Disse invece: — Sì, signor capitano. — E aggiunse: — Ma non è giusto.
Passò poi una mano dietro la schiena e raccattò il cappello. Seduto a gambe larghe sulla sabbia, ora
lisciava e carezzava lentamente la penna.
Ma si vedeva che pensava ad altro.
Tutti tacevano, non vi fu neppure uno che si rivolgesse a Pilòn, come avveniva nei momenti tristi
quando occorreva mutare sveltamente i cupi pensieri in risate allegre; nessuno levò l'appello
fatidico che dava avvio alla cerimonia: — Artigliere alpino Pilòn Gio Batta, conducente di mulo...
—... e poeta! — esclamavano a gran voce in coro i presenti. Era quella la frase rituale che iniziava
la cerimonia, dopo di che il povero Pilòn, per riluttante e indignato che si dimostrasse, veniva
irrimediabilmente rinserrato nel bel mezzo di un cerchio di quadrate spalle d'artiglieri e
possibilmente issato su una cassetta, una pietra, un tavolo che gli servisse da piedistallo; e a quel
punto scaturiva l'impensabile evento: poiché Pilòn Gio Batta, conducente di mulo, rubicondo
faccione rimpinzato di salute e di pagnotte, feroce mangiatore di minestroni e spregiatore al
cospetto d'Iddio d'ogni virtuosità ed eleganza, bocca larga e rossa e vorace sotto il gran naso
rincagnato e gli occhietti piccoli e lustri di furbizia, o a volte grandi e smarriti per spropositata
innocenza, era un poeta.
Nessuno sapeva perché e come, e attraverso quali stranezze di sorte od occulte discipline egli
pervenisse alla poesia, poiché egli era sfrontatamente illetterato, e solo qualcuno l'aveva colto
talvolta con in mano un foglio stampato o con un pezzo di giornale raccattato per caso; ma era un
poeta.
Al richiamo imperioso e divertito dei compagni, scrollato da ogni parte e issato sulla cassetta tra le
contumelie e i lazzi egli, cui nessuno fra quei giganti avrebbe osato contrapporsi se avesse contratto
i muscoli e aggrondata la fronte, s'ammansiva invece sempre più come un sansebastiano che accetta
e forse ama il martirio; quanto più gli urli si facevano imperativi e intolleranti d'indugio, egli
addolciva il viso e s'acquietava nei gesti, non rintuzzava le ingiurie scherzevoli ma s'abbandonava
piuttosto a un suggerimento interno, inseguendo già un suo pensiero che gli riluceva negli occhi.
Era allora che il silenzio, tutte le volte, si distendeva fra i presenti, come a un giuoco intrapreso che
si tramuti in dramma; e i dileggiatori d'un minuto innanzi stavano immobili, in cerchio, silenziosi e
affascinati in attesa che Pilòn cominciasse a parlare.
Solo allora Pilòn si esprimeva, con una semplicità convinta ed umile, e una dignità tanto serena.
I soldati in silenzio ascoltavano le parole e, quando i versi finivano, il silenzio rimaneva a lungo a
ondeggiare sulle teste degli uomini prima che esplodesse l'infrenabile applauso, poiché sempre i
versi — e questo era il miracolo — avevano il potere di risolvere ciò che di patimento o di gioia
stava fervendo inespresso nell'animo di quegli alpini.
Non erano neppure versi, a volerli considerare da vicino; non avevano rima e il ritmo traballava,
erano parto d'un conducente di muli, infine. Erano parole, piuttosto, e anche poche, si capisce, dieci
o quindici al massimo, se no Pilòn sarebbe morto nel troppo prolungato sforzo di pescarle Dio sa
dove e di attaccarle quindi una all'altra; ma, messe insieme, erano come una vera poesia.
Come quella volta che tornati al campo a Udine, la sera della medaglia d'oro, prima che suonasse la
tromba del silenzio, Pilòn era stato sbattuto su quel tavolino davanti alle tende e aveva detto: L'oro è
sacro soltanto se un frammento — anello o medaglia — fa ricca tutta la vita.
Sì, tutto qui; ma..
Avvolto nel silenzio notturno, nella stanzetta dell'isba ove l'attendente gli aveva montato la branda
da campo, alla luce di una lampada a petrolio, il colonnello Garrì, chinando il dorso sull'asse d'un
tavolino di fortuna stava scrivendo una lettera.
Ogni tanto levava lo sguardo dalla carta e fissava il lume, o un incerto punto nella penombra oltre
l'esiguo cerchio rossigno. Là vedeva passare, come in una infinita lontananza, gli uomini e i muli
delle sue batterie alpine. Salivano arrancando, in notti tempestose, e raggiunta la sommità i muli
venivano scaricati; gli artiglieri montavano subito i pezzi, s'apriva il fuoco, la rossa vampa
illuminava per un attimo i serventi e l'eco rimbalzava di vetta in vetta, rotolava giù nelle valli
albanesi, a far sentire la voce del reggimento che serviva la patria in guerra.
Il colonnello si mordeva il tumido labbro inferiore e riabbassava gli occhi alla carta.
— «La Julia — scriveva — è stata tolta dalla zona di operazioni greca nel precisato intento d'essere
impiegata sulle montagne del Caucaso, e nel trasferimento a questo fine ha già sacrificato, con
l'affondamento del Galileo, il sangue di un intero battaglione e parte del comando d'un reggimento
d'alpini.
In previsione d'un adeguato impiego in montagna, le truppe alpine hanno rinunciato al congedo
concesso a boscaioli, minatori, carbonai eccetera, che per tanta parte contribuiscono alla formazione
dei nostri reparti. Gli specializzati della montagna sono concentrati in massa nelle divisioni alpine
indicando tassativamente, ai fini del rendimento, un impiego specifico in terreno montuoso. L'Italia
è stata depauperata di muli, ha fornito con grande sacrificio alle truppe alpine ingenti quantità di
materiali di equipaggiamento specialistico pregiato e insostituibile; è giusto quindi che si attenda un
impiego ponderato e rispondente all'attesa».
Guardava nuovamente la luce, il colonnello, ma non vedeva la fiamma. Scorgeva ora invece le
schiere dei suoi soldati battersi con forza sovrumana, uno contro cinque, contro dieci; e il nemico
non passava, unicamente per quegli uomini che erano un tutt'uno con la montagna, che conoscevano
e sfruttavano gli intimi segreti della rupe, che vivevano a compagnie e batterie là donde d'inverno
sloggiava anche il falco.
— «... Ma l'impiego in pianura di queste truppe — riprendeva a scrivere rabbiosamente — le
espone a catastrofiche conseguenze, impedendo, per la sola natura del terreno, ch'esse possano
dispiegare e sfruttare quelle caratteristiche materiali e morali che in terreno montano le rendono
assolutamente eccellenti. La guerra in pianura, invece, richiede un addestramento opposto a quello
che ad esse è stato impartito, e le sottoporrebbe in partenza ad una sfasatura spirituale rovinosa.
L'equipaggiamento ad esse in dotazione risulterebbe del tutto irrazionale, il sistema di rifornimento
di viveri e munizioni a dorso di mulo le porrebbe ben presto in insormontabile crisi. L'armamento
stesso, costituito da obici da montagna e piccoli mortai, ridurrebbe a limiti irrisori la loro capacità
d'offesa di fronte ai pezzi da campagna di ben più ampia gittata; e in difesa li costringerebbe a
condizioni di totale inferiorità, prive come sono di carri armati e di armi controcarro...».
Li vedeva già, il colonnello, i suoi artiglieri e tutti gli uomini della Julia e delle altre Divisioni
alpine, alle prese con la guerra di movimento che la pianura imponeva alle truppe operanti. Fra
autocarri, carri armati e cannoni semoventi in giostra nella guerra manovrata, come si poteva
decentemente supporre di manovrare essendo legati ai muli marcianti — venisse il diluvio
universale o piovesse il fuoco dal cielo — all'immutabile velocità di quattro miserabili chilometri
all'ora? Come competere con la velocità e la mobilità delle divisioni corazzate, con uomini adusati a
far blocco, a fondersi con la staticità della montagna?
Chi, chi aveva in animo di sospingere verso lo sterminio gli alpini?
L'ira incupiva lo sguardo del colonnello, mentre la stanzetta era piena del suo sdegnoso ansito.
Guardava il lume, il filo fumigante che usciva dal lanternine.
Dovevano morire così, i suoi soldati, senza che nessuno li difendesse da una disposizione idiota? O
non li aveva forse difesi sempre, lottando perché non una goccia del loro sangue fosse versato
invano? Che cos'erano, i suoi soldati?
Polvere da lasciare che il vento disperda a suo capriccio? Oh no, per Dio, finché egli era il loro
capo: a nessun costo l'avrebbe permesso! E meno che mai inchinandosi a quelle facce di pasciuti
pezzi grossi che in quel momento nella penombra dell'isba, oltre l'ultimo orlo di luce egli vedeva
confabulare: ridacchiavano e chiacchieravano tranquillamente nei loro uffici, poggiando le grosse
cosce sui braccioli imbottiti delle poltrone, dopo aver deciso che gli alpini potevano anche
schierarsi sul Don, per loro andava bene ugualmente...
Oh no, no mai! Impugnò la penna, unica arma che aveva in difesa dei suoi alpini, e gravò con furia
sul foglio di carta.
— «... Parlo con il cuore di vecchio alpino e per l'amore che porto ai miei soldati; so che non può
venirmene che danno, ma tuttavia sento il dovere di far udire alta la mia voce. Vi autorizzo a
rendere nota questa lettera a chi vorrete, e a farne l'uso che riterrete più opportuno, a vantaggio dei
soldati.
Finché è ancora possibile prendere adeguati provvedimenti io affermo e denuncio che, non so se per
ambizioni o incompetenze di comandanti o per altre ragioni, si sta addivenendo ad una
determinazione d'impiego delle truppe alpine che non esito a definire bestiale e delittuosa».
Firmò, sigillò la busta intestata, indirizzò ad un altissimo personaggio in Roma, indossò cappello e
cinturone, afferrò il suo bastone dal puntale d'acciaio, spense il lume e respirando con più liberi
polmoni uscì nella notte a scuotere dal sonno il maresciallo della Posta Militare.
Con l'intera Julia, la tredici marciava attraverso l'Ucraina. In un'alba spettrale aveva attraversato
l'Oskòl e sotto rovesci di pioggia si era inoltrata in una boscaglia disseminata di casupole distrutte.
Una confusa vitalità irreale, straniera e ostile giaceva insidiosa attorno agli artiglieri assonnati che
procedevano nel poltiglioso terriccio del bosco; dovunque relitti di guerra accentuavano il senso di
squallore e di abbandono, dando un tono di tragicità al paesaggio. L'artigliere Zòffoli, infermiere
della batteria, aveva incespicato in una bottiglia che s'era rotta schizzando un liquido chiaro come
acqua; ma poco dopo il cuoio della scarpa aveva cominciato a fumigare, dissolvendosi rapidamente
mentre la fascia gambiera e il pantalone in vari punti avevano seguito la stessa sorte. Zòffoli s'era
scalzato e svestito in un baleno, rimanendo seminudo sotto la pioggia, mentre i compagni, non
avvezzi a simili espedienti bellici, lo guardavano come fosse vittima d'un sortilegio e non osavano
ridere. Erano venuti poi i giorni del sole e della vita nella steppa.
Secondo gli ordini di marcia, alle ultime ombre della notte la tredici levava le tende e, lunga fila
d'uomini e muli, riprendeva il cammino verso nord-est puntando al Don; era l'ora in cui i soldati in
marcia assistevano al risveglio dei villaggi.
Attraversandoli all'alba, vedevano viluppi di cenci e di membra smuoversi sull'aia, a ridosso
dell'uscio delle isbe, poiché i contadini ucraini dormivano all'aperto su stuoie o stracci. Erano le
donne le prime a levarsi, mentre i vecchi e i bimbi ancora giacevano. Gli uomini validi erano in
guerra. La Russia rivelava il suo dimesso volto contadino.
Erano buona gente, gli ucraini; quando, ad ogni ora di marcia, dopo i dieci minuti di sosta la batteria
si ricomponeva e ripartiva, già si affannavano a salutare amichevolmente i partenti che s'inoltravano
fra i campi di segale e di girasoli. I soldati scoprivano passo passo quella terra tanto diversa dalla
loro: uno sconfinato ripiano a dolci linee, corroso qua e là da spaccature profonde dieci o venti
metri e lunghe centinaia o migliaia, chiamate balke, prodotte dal capriccio di secolari erosioni nella
compatta vastità della steppa; ogni tanto si incontrava qualche collina a pendio lieve, largo e basso
mammellone di quella terra feconda; ma tanto prevaleva fino agli estremi limiti il senso
dell'orizzontale, che l'occhio non esitava a valutare il tutto sterminata pianura.
Nelle depressioni gli alpini intravvedevano i villaggi sperduti e acquattati nella gran vastità; ma
succedeva spesso che i soldati camminassero per una intera giornata senza imbattersi in una casa,
un albero, una persona viva.
Erano interminabili, allora, quelle giornate col sole a strapiombo sulla pianura senza limite. Innanzi
e dietro alla tredici tutta la Julia marciava; la polvere smossa dalle bestie e dagli uomini in cammino
tingeva di nero il grigioverde, impastava di melma i visi madidi, ricavandone grottesche maschere;
si levava in volute scure sopra la colonna per ricadere sul reparto che marciava dietro. Due, tre,
dieci ore di marcia nella calura stordivano gli uomini che calpestavano la polvere e la sentivano per
tutto il giorno scricchiolare sotto i denti, orlare gli occhi e le labbra come una cornice di fango.
Era vita dura. Due gallette secche, una scatoletta di carne e la pista ucraina per tutto un giorno, sotto
l'allucinante sole. Alla tappa serale abbeverata muli, governo ai muli, filare per i muli, qualche ora
di sonno a terra fra le formiche e i topi di campo, e prima dell'alba via in marcia, fino al tramonto.
Due giorni, sei, dieci giorni. Verso il Don e la prima linea.
La pista non era una strada, ma un sentiero nella steppa, largo qualche metro, lungo all'infinito,
sempre uguale, cosparso d'impalpabile polvere spessa due palmi, maledizione per chi ci cammina
dentro.
— Qui non c'è pericolo di consumare le scarpe — dicevano ironici i soldati. Ma anche il cuoio, per
l'arsura, faceva le crepe come le labbra degli alpini.
Dentro il cranio, dopo ore di marcia, qualcosa cominciava a battere in ritmo col polso; e alle due e
alle tre del pomeriggio erano mazzate quelle che martellavano sotto il cappello alpino. Qualcuno
ogni tanto stramazzava, uomo o mulo, e i compagni lo guardavano ansimare nella polvere.
— Maledetta la pianura — dicevano.
Si distendeva questa ai lati della pista, implacabile avversaria, piatta terra spopolata e bruciata,
ricoperta da girasoli dal lungo fusto rinsecchito occhieggianti da ogni dove verso il soldato che
camminava.
Ad averli dinanzi agli occhi per interminabili ore di marcia, quando per il calore l'aria pare
liquefarsi e ondeggiare e i girasoli lentamente sembrano farsi più reclini, più vizzi sotto quella loro
insipida testona penzolante, ci si avvede che il girasole è pianta rachitica e scostante; e se dapprima
il giallo mare è vista gradevole, man mano che il sole avviluppa nell'implacabile abbraccio i suoi
fiori e il cranio di chi marciando li contempla, essi svelano a poco a poco l'esilità del bruno
scheletro che scricchiola ad ogni alito sotto il tondo volto giallo; e pare un po' alla volta di
camminare fra un esercito di morti, ad eccezione del viso ridotti all'osso, che stanno calcinandosi al
sole.
Quel sole che annebbia il cervello dei soldati in marcia; ed essi non hanno quel cappellone di foglie
gialle per ripararsi dai pensieri sconnessi che i raggi ardenti vanno incuneando nel cranio.
— Maledetti anche i girasoli — dicono fra i denti, masticando polvere.
E intanto, nella pista, una scarpa va innanzi all'altra; e verrà sera.
Venne poi anche il giorno dall'alba fosca.
— Meno male, oggi si marcia senza pericolo d'insolazione — dicevano gli uomini della tredici.
Ma in breve il cielo s'abbassò fino a sfiorare la pista, e spingeva i suoi nuvoloni violacei contro la
terra tanto che le erbe si spaurivano e tremolavano ai margini dei campi e i muli guardavano
inquieti le luci livide, sbuffando dalle froge nere.
Il vento della steppa, nuova conoscenza per uomini e bestie, giunse galoppando da lontano e con
incalzante impeto s'insinuò sibilando fra terra e nubi; e sospingeva queste a spallate verso l'alto,
sgonfiandone la gravida mole e riducendole fumiganti e lacere.
— Assicurare i teli da basto — ordinò Reitani che marciava in testa alla colonna; l'ordine si ripetè
da graduato a graduato, ma già gli esperti conducenti camminando di fianco al mulo avevano
provveduto a verificare la tensione delle cordicelle, a rinforzare i nodi; e, coperti il mulo e il carico,
sfilavano la giubba dagli zaini poiché ormai le prime gocce cadenti si spiaccicavano sul pelo e
facevano vibrare gli orecchi dei muli.
La steppa, fino allora inerte, si svegliava inquieta rispondendo ai fischi del vento con un murmure
che giungeva dalle aperte lontananze e si risolveva, nei pressi della pista, in un crocchiare di foglie
secche; già molte si staccavano e rotolavano sulla polvere e si acquietavano nelle prime pozze; e già
gli steli dei girasoli si flettevano dondolando la tozza corolla, che ad uno schianto del fusto restava
penzolante a mezz'aria.
Essendo a punto lo scenario grandioso, quasi che un maestro onnipotente calasse fulmineo la
bacchetta su un attacco improvviso, il furore dei suoni si scatenò nella steppa sviluppando e
centuplicando i toni di scroscio dell'acqua: il vento, animatore della tempesta, rombò sulla piana
squassando ogni altra vita, sibilando e soffiando a schernire le nubi grevi, ad atterrire i girasoli
minacciando di svellerli. Non c'era più orizzonte, ma solo incombente vorticare di nubi; e fittissimi
nastri d'acqua che congiungevano le nubi alla terra, rigando d'argento l'aria viola.
Così la steppa svelava voce e respiro pari alla sua vastità.
Nell'immane quadro tempestoso, simile a una piccola serpe la colonna della tredici strisciava sulla
pista, che in pochi minuti si era trasformata in un fossato melmoso in cui i marciatori affondavano a
mezza gamba, ad ogni passo contrastati dalla vischiosità montante. La temperatura resa gelida dal
vento intirizziva i corpi, la pioggia sferzava i volti e scendeva a rivoli lungo la schiena e dal petto al
ventre, usciva dai pantaloni entrando a far pozzanghera nelle scarpe sformate; doloroso era
svincolarsi dal fango e avanzare contro il vento. Il rintronare dei fulmini e il lampeggio nell'oscurità
temporalesca facevano imbizzarrire i muli, che s'abbattevano nella mota spezzando le funicelle dei
basti; ed era una impresa snervante il continuo recupero dei carichi disseminati nel fango, il rialzare
a strattoni il mulo recalcitrante, ricomporre il basto mentre il vento gelido incollava le vesti alla
pelle e inginocchiava nel fango.
A voler camminare ai margini della pista per offrir sostegno al passo sulla bassa vegetazione, la si
trovava trasformata in un groviglio di lacci erbosi che s'attanagliava alle caviglie, mentre ogni poco
un cartello ammonitore posto fra gli sterpi diceva, unico irridente segno di solidarietà umana in quel
deserto: «Achtung Minen! Attenzione alle mine!».
Nulla ha misura esigua nella vita della steppa; e l'invisibile sole pervenne allo zenit e digradò verso
occidente senza che la tempesta scemasse d'impeto.
Per l'intero giorno la tenacia dei marciatori si misurò col vento, con l'acqua; e nelle soste in salita o
in discesa nell'ondulante terreno, immersi ormai fino al ginocchio nella mota, quegli uomini videro
la pista muoversi, il fango farsi torrente e scendere lento scorrendo sui suoi piani inferiori a
secondare il declivio: orribile cosa, essendo fermi, vedere il fango gorgogliare attorno al ginocchio e
rotolare come vivo; e dover raggiungere la valle, e dibattersi in esso che accerchia l'inguine ai
soldati e vellica le pance dei muli.
E bisogna svincolarsi e proseguire senza posa: ignorando il patimento e l'uragano, poiché è stato
detto che il Don, là all'est, ha bisogno d'alpini.
Per farli morire, infine; ma la zampata finale ha da essere preceduta dalla sapiente tortura. Ci vuole
pure la loro Via Crucis, se no c'è modo che quelli durino anche sulla croce.
Non c'era croce, sulla chiesa di Swatowo; essendo in sosta, gli artiglieri alpini entravano levandosi
il cappello. Pilòn alzò riverenti gli occhi ai sacri affreschi che adornavano le pareti, si avvicinò nella
penombra all'altare comparando l'insieme ai cari ricordi della sua chiesa montana. L'universalità del
sentimento religioso annullava in quei momenti le distanze e il tempo, lo riconduceva a casa
fanciullo.
Giunto all'abside Pilòn non scorse però l'altare, ma un piano d'assi, rozze quinte e, dipinto sul fondo,
uno scenario fisso.
Si ritirò, sconcertato; e di lato all'uscita, sul piazzale, notò allora una baracchetta di legno con lo
sportello: la biglietteria della chiesa ridotta a teatro.
Si calcò a quel punto con una manata il cappello alpino in testa e si allontanò a lunghi passi.
Beffato.
A rammentare più tardi, avrebbero detto d'essere passati in un lontano tempo da Kupiansk,
Rowenki, Rossosch, o forse non sarebbero riusciti neppure a ricordare quei nomi stranieri; ma sta di
fatto che in quell'estate, lasciando al margine della pista qualche mulo morto di fatica, mangiandone
i resti come variante all'eterna galletta e scatoletta, masticando per quindici giorni polvere sotto il
solleone, gli uomini della tredici traversarono a piedi per cinquecento chilometri l'Ucraina fino a
raggiungere il Don.
Non ebbero il bene di vederlo, quando furono presso la riva, poiché nell'ultima ora di marcia erano
stati inoltrati con molta circospezione e, una volta giunti, uomini e muli vennero sospinti in una
macchia boscosa per essere occultati all'osservazione nemica. Scaricati i basti, legati i muli agli
alberi, gli artiglieri alpini si guardarono in viso tra loro.
— E adesso, signor tenente? — chiese Pilòn.
— Adesso, vedremo. Adesso si fa la guerra — rispose Ferrieri. E senza volerlo si grattava la testa
perché era alle prime armi e non sapeva da che parte cominciare.
Ma Reitani con pochi ordini sistemò la batteria nella macchia alberata, profonda e larga forse
duecento metri.
— Qui le tende, qui il Comando, laggiù la riserva munizioni, là la cucina, là il filare per i muli, qui
il magazzino. Per la linea pezzi darò ordini in serata. Ferrieri faccia raccogliere legna e mandi a
prendere acqua all'ultimo paese che abbiamo attraversato. Serri indichi il luogo adatto a costruire gli
impianti igienici. Perbellini con due uomini e un mulo stenda il filo telefonico collegandoci col
Comando di Gruppo, due chilometri in quella direzione. Brogli curi l'esecuzione di tutto: sentinelle,
turni di guardia notturni, verifica e pulizia delle armi. Fra due ore il campo sia sistemato, prima di
notte dovremo essere in grado di aprire il fuoco. Ridurre al minimo i rumori: dietro quella collinetta,
fra noi e i russi c'è solo il Don. Candioli con me, al Comando Gruppo.
Sorrise col suo dolce sorriso, il sottile comandante dal viso bianco; e la forza di duecentotrenta rudi
giganti si applicò lietamente al lavoro, poiché stava per sorgere dalle loro mani di costruttori un
ennesimo villaggio di alpini.
In capo a due ore tutti i servizi funzionavano, il rancio bolliva nelle pentole e gli artiglieri,
accovacciati all'ingresso delle tende scrivevano a casa d'aver piantato il campo in riva al Don.
Quando il capitano Reitani rientrò in batteria, comunicò agli ufficiali ed ai capi-pezzo: — Questa
notte prenderemo possesso della linea dando il cambio alla 294a Divisione d'artiglieria tedesca. Fra
poco saranno qui due ufficiali germanici per lo scambio delle consegne. La linea pezzi verrà
schierata al limite di questa boscaglia, sul campo di grano. I capi-pezzo subito con me, indicherò i
punti dove bisogna spianare le piazzole.
Un capitano e un tenente tedeschi — comandante e sottocomandante di una batteria — giunsero
mentre gli affusti dei pezzi venivano installati sulle rispettive piazzole e due uomini stavano issando
il lanternino del falso scopo.
— Il settore è calmo, per ora — dissero i tedeschi — ma non bisogna farsi illusioni. Dall'altra parte
del fiume noterete subito incessanti movimenti notturni: i russi stanno preparando qualche sorpresa.
Guardavano con curiosità gli affusti dei cannoni.
— Quando ritenete di essere in grado di sparare?
— Appena ci avrete fatto la consegna dell'osservatorio, saremo pronti per iniziare i tiri di
inquadramento — rispose il capitano Reitani.
I due tedeschi si guardarono di sfuggita: era evidente la loro incredulità.
— E i calcoli di tiro? — chiese uno dei due; — e il parallelismo ai pezzi?
— Mentre voi guiderete un mio ufficiale all'osservatorio.
— Ma se non avete ancora montato i pezzi! — incalzò il tedesco.
— Si stava provvedendo ora — disse Reitani; e trasmise un ordine a Brogli.
Uscirono quasi subito dal margine della macchia i capi-pezzo e alcuni uomini diretti verso gli
affusti: camminavano con lentezza e lievemente curvi poiché portavano sulle spalle le bocche da
fuoco e le testate dei pezzi; giunti alle piazzole abbrancarono più saldamente e ruotarono sul collo i
blocchi di metallo che reggevano; con moto rapido, avanzando un poco e piegando prestamente le
ginocchia sottrassero le spalle al peso enorme e lo lasciarono cadere sulle cosce trattenendolo così a
mezz'aria; un cenno d'intesa, e quei giganti deponevano con delicatezza i quintali di ferro sugli
affusti mentre altri uomini si affaccendavano intorno. Qualche secondo passò e i capi-pezzo,
riassestate le giubbe scomposte nello sforzo, s'ersero sull'attenti di fronte al loro capitano.
Respiravano pacifici, il loro viso non tradiva segno di fatica.
Reitani sogguardò in silenzio gli ufficiali tedeschi che non nascondevano un'espressione di stupore.
Questi si consultarono cogli occhi, poi il più elevato in grado esclamò: — Mai vista una cosa simile,
dobbiamo riconoscerlo. Mai visto in tre anni di guerra. L'altro chiese con grande interesse: — Di
che Divisione, avete detto?
— Julia.
— Javohl, Julia. Alpenjager.
— Già — rispose Reitani. — Alpini. — E guardò i suoi soldati. Poco dopo il capitano tedesco
diceva a Reitani: — Sono orgoglioso di trasmettere questo settore nelle vostre mani. Noi ormai
abbiamo assoluto bisogno di riposo, siamo in linea ininterrottamente da oltre un anno e l'inverno
scorso è stato spaventoso. Non vi sembrerà credibile, ma la nostra Divisione — confidò con accento
accorato — è ridotta a duecentoquarantacinque uomini; ora sarà ricostituita.
— Duecentoquarantacinque? — chiese allibito Reitani. — Come è possibile?
— È stato l'inverno scorso, verso Mosca — rispose il tedesco con un velo di dolore nella voce; —
soltanto in due mattine consecutive, alla sveglia abbiamo trovato sotto le tende quasi tremila nostri
soldati morti assiderati. Erano di pietra.
Reitani tacque.
— È il fronte russo — concluse l'altro con un sorriso. — Non fatevi illusioni.
Dio voglia risparmiarvi ciò che noi abbiamo sofferto, capitano.
2.
La Divisione alpina Julia s'era tutta schierata lungo il Don, secondo gli ordini. Per vari chilometri di
fronte, sfruttando sapientemente il terreno, i due reggimenti d'alpini e il reggimento d'artiglieria
alpina facevano la guardia all'acqua allineandosi nelle trincee che sempre più numerose e profonde
solcavano la riva del fiume; a ridosso dei battaglioni i gruppi d'artiglieria alpina integravano lo
schieramento controllando dagli osservatori avanzati i movimenti dei russi, aprendo il fuoco ogni
qual volta agli alpini era necessario l'appoggio dei cannoni.
Il Don scorreva argenteo e sornione fra i due schieramenti nemici, il suo greto sabbioso distanziava
le opposte rive di un centinaio di metri. Sulla riva sinistra i russi operavano nottetempo compiendo
qualche sortita al di qua del fiume, lavorando incessantemente in attività di cui giungeva l'attutito
rumore: di giorno la presenza dei soldati russi era celata dalla quasi ininterrotta striscia di bosco che
fasciava la riva; mancava in apparenza ogni segno di vita, ma se un italiano incauto s'esponeva
anche per pochi secondi, una solitaria fucilata ben presto lo freddava: i russi avevano disposto
infallibili tiratori appollaiati sugli alberi. Sulla riva destra, dalle prime postazioni d'arma automatica
mimetizzate sul ciglio del fiume, agli osservatori, alle trincee, alle compagnie, alle batterie, un'unica
rete di minutissima organizzazione e di appassionata volontà rendeva temibile lo schieramento
alpino. Gli uomini s'erano ormai abbrancati con salda presa alla terra, secondo l'usanza loro.
— Finché siamo vivi, anche di qua non passa nessuno — dicevano guardando il Don. E non c'era
iattanza in quelle parole, ma la consapevolezza del vecchio combattente che ha già comparato le
proprie forze alla situazione.
Era strana cosa, per gli alpini, avere quel celebre fiume dinanzi agli occhi e doversi interessare di
barche, di nuoto, di colpi di mano da portare a termine al di là del corso d'acqua. Ma s'adattavano
facilmente, e spesso pattuglie d'alpini passavano nottetempo il Don e i russi se li vedevano
piombare nelle linee a saggiarne la consistenza; e quelli sempre ritornavano con qualche atterrito
prigioniero caucasiano o uraliano. A ricambiare, pure i russi inviavano pattuglioni nelle linee alpine,
e ne nascevano sparatorie indiavolate al di sopra dell'acqua placida, con l'intervento dei mortai e
delle artiglierie per ore ed ore. Ma si sentiva chiaramente che erano diversivi senza scopo lontano e
che i tempi della battaglia grossa non erano ancora venuti.
S'avvicinavano, questo sì, e l'impegno dominante tanto per gli italiani che per i russi era quello di
prepararsi, senza parere, all'ora infuocata che non poteva tardare.
La popolazione russa, nei villaggi di retrovia ove stavano le basi dei reparti schierati in linea, ben
presto s'era istintivamente accostata agli alpini; la gente d'Ucraina aveva trovato via d'intesa con gli
uomini dalla penna nera e si mostrava larga di simpatia e di attenzioni verso quei ragazzi gioviali;
offriva spontanea ospitalità nelle isbe e si intratteneva volentieri, terminati i lavori della giornata, a
conversare fino a tardi con i soldati addetti alle basi. Quei contadini imparavano l'italiano con una
facilità prodigiosa. A sera, intorno a un lucignolo l'intera famiglia russa si radunava attorno al
soldato italiano e non si stancava mai di chiedere notizie dell'Italia, di tutto ciò che non fosse russo.
— È impossibile che abbiate strade asfaltate — dicevano le donne sgranando gli occhi e
consultandosi a vicenda con sguardi circolari. E già chiedevano con impazienza di raccontare
ancora, di andare avanti, come fanciulli che ascoltassero favole.
Era buona gente, primitiva e generosa, ma soffocata anch'essa nella vastità della steppa. Adusata da
infinite generazioni all'inclemenza del clima e della vita, subiva con supina sottomissione ogni
singola vicenda; accettava il male in silenzio, e con un sorriso scialbo coglieva il bene che la
sfiorava. Agli italiani sorrideva volentieri.
Essendosi soffermata la guerra presso le loro isbe, i contadini russi desideravano che in queste
entrassero gli italiani. Le offrivano, pregando che gli alpini si acquartierassero.
— Così i tedeschi non possono requisircele... — confidavano poi sottovoce, ad amicizia saldata.
I tedeschi erano incomprensibili, per gli uomini della tredici. La linea era tenuta esclusivamente
dagli italiani, ma nel retrofronte esisteva qualche reparto germanico a riposo con compiti di
presidio, e non erano perciò infrequenti i contatti con elementi tedeschi. I rapporti fra uomo e uomo
generalmente erano cordiali, da soldati che facevano insieme la guerra; ma la mentalità del soldato
germanico, la risoluzione di certe situazioni erano tali da sconcertare l'alpino e fargli intendere
quale divario lo dividesse dall'alleato. Ne ammirava l'organizzazione, la disciplina, la potenza senza
intendere lo spirito che animava quegli uomini sospingendoli ad atteggiamenti incomprensibili dalla
mentalità latina.
Perché a Popowka era successo quel fattaccio di cui tutti parlavano?
Alcuni soldati tedeschi, avendo necessità d'occupare un'isba, ne avevano sloggiato i due abitanti: un
vecchio e la nipote ventenne; costoro, preoccupandosi dell'ormai prossimo inverno, avevano
scavato una piccola tana ove s'erano installati.
Un giorno il vecchio, levato l'usciolo dell'inutilizzato porcile annesso all'isba, stava portandolo
verso la tana pensando d'impiegarlo come chiusura per i giorni più freddi. Un soldato tedesco notò
l'affaccendarsi del vecchietto e con un urlo lo fermò a mezzo il cammino, corse verso il russo e
come questi non fu pronto a mollare l'uscio gli assestò in pieno viso uno schiaffo tale da farlo
ruzzolare sulla polvere.
— Fermo, fermo! — gridò la nipote correndo a interporsi fra il soldato e il vecchio. Il tedesco,
inferocito per il nuovo intervento, con uno strattone spinse a lato la ragazza e fece cenno di
slanciarsi sul vecchio. Ma quella, più lesta, con l'intento di difendere il nonno si buttò sul tedesco
sforzandosi di trattenerlo, e nella breve colluttazione ebbe a graffiargli le braccia nude rigandole con
qualche stria rossa da cui usciva un po' di sangue.
Sul momento l'episodio ebbe termine per l'intervento d'altri soldati tedeschi che separarono i
contendenti; ma ebbe seguito, poiché il vecchio e la nipote all'indomani pendevano impiccati a un
albero della piazza.
Perché? Bestialità sfrenata? Disprezzo della vita di popolazioni vinte?
Spaventosa presunzione d'intoccabilità di vincitori?
Dopo essere stati sottoposti al rituale interrogatorio, i soldati russi che cadevano prigionieri in mano
agli alpini finivano col rimanere presso i reparti che li avevano catturati.
Dapprima gli alpini li consideravano con grande curiosità, poi allungavano qualche sigaretta,
regalavano una gavetta, qualche indumento e un bonario sorriso.
Trasecolati, i prigionieri ricambiavano facendo piccoli servizi, spaccando la legna e andando a
prendere l'acqua.
Si stabiliva così nel giro di pochi giorni una tacita convenzione, per cui gli alpini fornivano ai
prigionieri vitto e alloggio e questi aiutavano i soldati nei cento lavori che la vita di guerra
richiedeva. In capo ad una settimana i prigionieri erano perfettamente ambientati nei reparti alpini,
cantavano strigliando il mulo e riassestando i basti, si recavano nei devastati villaggi a racimolare
vetri, infissi e persino sacre icòne per attrezzare e arredare i rifugi in costruzione.
Dimostravano predilezione per il vino e i liquori, ma bevevano anche la benzina e l'alcool
denaturato; apprezzavano in modo particolare i tubetti di dentifricio, che spremevano beati
divorando la pasta piccante. Andavano e venivano in piena libertà, secondo le incombenze. A sera si
ritiravano sotto le loro tende e ricomparivano all'indomani, soddisfatti e puntuali.
Ciò che appariva più strano era che nessuno di loro, pur avendo ogni possibilità di confondersi fra la
popolazione russa o di rendersi introvabile nella sterminata Ucraina, rinunciò mai alla propria
condizione di prigioniero.
— Voi, per conto vostro, avete già vinta la guerra — dicevano gli alpini.
Quelli ridevano e ammiccando accennavano di sì.
Le truppe germaniche che avevano tenuto quel tratto del medio Don durante i mesi estivi,
consegnando il settore agli italiani non avevano fatto trovare alcuna opera campale, ma scarsissime
rudimentali trincee e qualche rara baracchetta.
Fra gli alpini, al pensiero dell'inverno imminente si diffuse un concorde convincimento: qui, per
resistere, bisogna sprofondarsi sotto terra. E come tutti gli altri, gli uomini della tredici quando non
sparavano si erano messi a scavare condotti e gallerie con lena infaticabile.
Era lavoro improbo lo scavare un villaggio sotterraneo con badili e picconi, troncando il lavoro e
mimetizzandolo rapidamente con paglia ad ogni ronzio d'aereo nemico, e sterrando montagne di
terra al chiaro di luna.
Il complesso d'opere era quasi compiuto quando Reitani comunicò agli artiglieri: — È giunto un
ordine. Alcuni reparti devono spostarsi, bisogna ottenere una migliore disposizione dello
schieramento. Domani giungerà qui una batteria di un'altra divisione, noi ci trasferiremo sette
chilometri più a nord presso un paese chiamato Kuwschin. Batteria in marcia domattina alle quattro.
Il capitano, parlando, aveva un volto impassibile ma i suoi uomini sapevano quanto quelle parole gli
costavano; solo per questa ragione nessun mormorio le sottolineò. Si limitarono a levare gli occhi al
cielo nuvoloso per guardarsi poi a vicenda, in silenzio. L'annuncio era grave. Era il primo d'ottobre
e già da una settimana la stagione aveva virato decisamente verso l'inverno. Quella mattina, alla
sveglia, gli uomini avevano annusato aria di neve e giorno per giorno con geloso amore avevano
visto completarsi il frutto della loro fatica, promessa sicura di un riparo dal gelo. E ora, poche
parole annullavano il lavoro di un mese e li trapiantavano di nuovo sulla terra nuda.
La guardarono con sconforto, all'indomani, quando la batteria giunse nella zona di Kuwschin: una
larga spianata a due passi dal Don, sopraelevata dall'acqua quel tanto che basta per essere aperta a
tutti i venti, alla mercé dell'osservazione aerea nemica, senza un albero, senza un pozzo; già
intaccata da fresche buche scavate da colpi di mortaio e di cannone; brulla e secca, ricoperta da una
densissima vegetazione di cardi selvatici. A due chilometri sulla sinistra, in riva al Don, stava il
devastato villaggio di Kuwschin.
— Perché proprio qui, signor capitano? Perché proprio noi? — domandò ad alta voce indignato il
sottotenente Ferrieri attorniato da un folto gruppo di uomini.
Sapeva di esprimere lo sdegno generale, gli piaceva assumere ogni tanto quell'atteggiamento
tribunizio; se ne stava ritto e massiccio dinanzi al capitano, con ambo le mani spinte innanzi e
poggiate sull'enorme bastone che si trascinava dietro durante ogni marcia. I soldati, li ripetendo un
suo famoso e innocuo intercalare lo chiamavano il «tenente-ti-sfondo-il-cranio».
Il capitano levò una mano ad indicare una breve depressione verso il fiume, al limite della spianata.
— Vedi quella valletta, Ferrieri? — disse bonariamente. — Proprio qui perché di là, quando il Don
sarà gelato, i russi tenteranno di passare con i carri armati.
E proprio noi perché tu, io e tutti noi siamo la tredici. I privilegi in guerra sono sempre di questo
genere, i tuoi uomini lo sanno già dal tempo d'Albania...
E passando lo sguardo dal sottotenente ai suoi uomini li guardava con sguardo calmo e profondo
come a sondare l'intimo animo. Emanava da quegli occhi e da tutto il sembiante del capitano una
tale spontanea dirittura, una così limpida e non incrinabile adesione al dovere militare, che gli
uomini si sentivano sempre irresistibilmente attratti ad assecondarne l'atteggiamento schierandosi in
ogni caso al suo fianco. Quei giganti riconoscevano d'istinto nel sottile e taciturno uomo di ventisei
anni il diritto naturale d'essere il loro capo.
— Non bisogna perdere un minuto — disse il capitano.
E con le roncole tratte di tasca, con i coltelli, con le baionette, con le mani i giganti si gettarono a
testa bassa a scerpere il mare di cardi.
Dall'alto, il cielo d'ottobre guardava e accoglieva la sfida aggrottando a minaccia l'immensa fronte
nuvolosa.
Tutta l'Armata italiana, duecentotrentamila uomini, era allineata sul grande fiume. Trìdentina, Julia,
Cuneense sessantamila alpini, costituivano l'ala nord dello schieramento italiano, che s'estendeva
verso il sud affiancando le divisioni Cosseria, Ravenna, Pasubio, Torino, Celere, Sforzesca, e la
Vicenza di rincalzo. Tutte s'apprestavano ad affrontare l'inverno russo e s'erano ormai affondate
nella terra.
Ma in un tratto della steppa, a ridosso del fiume, microscopico punto nell'immensa estensione del
fronte, la tredici ancora s'affannava in un lavoro frenetico, gli artiglieri stavano realizzando un vasto
piano di scavi. Già erano venute le piogge autunnali a battere per giorni interi le ricurve schiene
degli uomini scamiciati; già innumerevoli stormi di anitre selvatiche, nelle loro formazioni
triangolari, erano passati sfreccianti sotto le nubi basse volando verso le regioni del sud; la
vegetazione della steppa s'era immiserita, gli animali fuggivano e le piante si riducevano alla radice
e a vizzi stecchi, tutta la natura si difendeva al preannunciarsi dello spettro invernale.
Sotto le tende, al risveglio mattutino gli uomini della tredici trovavano nella gavetta un blocco di
ghiaccio e quella vista era incentivo a gettarsi per tutto il giorno con gli attrezzi nelle buche iniziate.
Anche gli ufficiali con badili e picconi scavavano la loro tana.
Si sapeva che la tredici si doveva costituire a caposaldo, essendo previste eventuali infiltrazioni
nemiche con conseguente isolamento del reparto. In quel caso, unico sarebbe stato l'ordine:
difendersi disperatamente fino all'ultima cartuccia, nella speranza che i reparti mobili giungessero in
tempo a salvare dall'annientamento.
Anche la tredici aveva ricevuto comunicazione d'essere considerata, assieme a due compagnie
d'alpini e a un'altra batteria della Divisione, «reparto di pronto intervento»; con tale qualifica
sarebbe stata rapidamente impiegata qualora in altri settori si fossero determinate improvvise
situazioni di emergenza.
Con tali prospettive risultava chiaro agli uomini che dall'efficienza degli apprestamenti dipendeva la
loro sorte ultima.
Mentre la linea pezzi sparava nel quotidiano duello con l'artiglieria russa, spesso sotto i colpi in
arrivo i soldati della tredici scavarono, a distanza di varie decine di passi l'una dall'altra, diciassette
fosse profonde tre metri, larghe quattro e lunghe sette: i rifugi sotterranei. Vennero anche scavati i
camminamenti che collegavano i rifugi tra loro e con le piazzole dei quattro pezzi, con gli
osservatori avanzati, con le postazioni delle armi automatiche, con i magazzini, l'infermeria, le
cucine, la riserva idrica interrata (il serbatoio di un'autobotte russa di preda bellica), i servizi igienici
da campo, la scuderia: oltre millequattrocento metri di camminamento profondo tre metri e largo
uno.
Contemporaneamente nel bosco di retrovia più vicino, a nove chilometri di distanza, il capitano
aveva dislocato una squadra di uomini con qualche ascia e qualche sega, affidando ad essi il
compito di provvedere il legname per i sostegni e le coperture dei lavori di scavo. Di giorno i
boscaioli abbattevano gli alberi d'alto fusto, li segavano nelle misure volute, di notte li sfrondavano,
tagliavano i rami, li scortecciavano, li squadravano. Al tramonto giungevano al bosco dalla linea gli
artiglieri coi muli, e ad uno ad uno i tronchi venivano trascinati presso i rifugi e subito diventavano
colonne di sostegno e architravi dei futuri alloggi; e quando il legnoso scheletro delle stanze
sotterranee fu compiuto, venne ancora ricoperto con uno strato di solidi tronchi affinchè reggesse
all'urto dei colpi di mortaio e delle granate di piccolo calibro; e siccome la pianura s'imbiancò di un
sottile strato di neve e i muli non bastavano all'impresa, gli alpini immediatamente decisero di
trascinare per i nove chilometri a forza di braccia i tronchi ancora necessari; ed era impressionante
vedere quegli uomini sudati sotto lo sfarfallare della neve, attaccati alle corde, trascinare sul terreno
gelido gli enormi tronchi per costruirsi la casa. Inarcandosi nello sforzo, guardavano ogni tanto il
cielo avverso, i minacciosi bioccoli che volteggiavano nell'aria; con furibonda tenacia
s'avvinghiavano alla fune facendo avanzare ancora di un metro il colosso di legno. Per nove
chilometri.
Coperti i camminamenti e i rifugi, trionfanti per essere ormai sul punto di vincere la gara con
l'inverno, a completare il tetto stesero sui tronchi mezzo metro di paglia e sopra questa un altro
strato di terriccio di sterro. Esultanti spiantarono le tende e dormirono finalmente per la prima volta
sotto terra.
Alla mattina successiva, riaffiorando sulla pianura, le loro gambe affondarono fino al polpaccio nel
biancore della prima grossa nevicata: la partita era vinta di stretta misura.
Ma la neve entrava dalle finestre, dai pertugi, dai riquadri d'ingresso; e subito gli alpini misero in
opera porte precostruite, le finestre fornite d'autentici vetri; li avevano raccolti nelle isbe diroccate
del villaggio di Kuwschin, abbandonato alla furia dell'artiglieria russa, appollaiato come era alla
riva del Don.
In breve entrarono in funzione le stufe, costruite mattone per mattone dagli ingegnosi alpini con
l'argilla che la steppa forniva, completate dai tubi fatti con vecchie lamiere arrotolate, dai camini
girevoli controvento che spuntavano d'un palmo dalla neve. Gli uomini si costruirono i letti, i tavoli,
le sedie, le lanterne, mimetizzarono il campo, resero riscaldate le postazioni dei pezzi e delle
mitragliatrici, circondarono il caposaldo con una doppia cinta di filo spinato, appendendo persino ad
essa campanelli d'allarme, opera insigne del fabbro di batteria.
A fine ottobre, settanta centimetri di neve seppellivano nel bianco il caposaldo. A cento passi di
distanza non si distingueva altro che steppa russa; ma tre metri sotto la steppa ferveva la vita degli
uomini della tredici.
La sera dell'inaugurazione, nel rifugio numero undici ci fu convegno allegro indetto dai conducenti
e presieduto dai sergenti Bartolan e Sguario, e dal caporale Pittino, maestri di buonumore.
Il capitano Reitani aveva concesso una razione straordinaria di cognac e assieme al sottotenente
Serri assisteva, invitato d'onore, alla solenne celebrazione della vittoria dei conducenti di mulo
contro la neve.
Fra canti e risa l'ultima goccia di cognac venne scolata dai gavettini, il fumo delle sigarette e delle
pipe appestava l'aria stagnante nel basso locale sotterraneo, la debole luce della lampada a petrolio
appesa al soffitto tingeva d'ombre i volti degli uomini in grigioverde, sui quali stava diffondendosi
ormai quel sentore di sonnacchiosa malinconia che preludeva all'ora d'andare a dormire.
Ma ecco che con improvvisa stravaganza Pittino riuscì a fare un po' di largo al centro
dell'affollatissimo rifugio e nello spazio sgombro capovolse il bidone del bucato, vanto della
comunità dei conducenti. Fra il silenzio e l'attenzione di tutti puntò un dito verso un alpino enorme
che se ne stava accoccolato su di un mucchio di legna per la stufa, e gridò: — Artigliere alpino
Pilòn Gio Batta, conducente di mulo...
—... e poeta! — concluse l'urlo dei presenti.
Sollevato a forza e sospinto al centro, il gigante fu issato sul bidone, traballò un attimo e parve
cadere, si ristabilì e fissò lo sguardo alla finestrella orlata di neve, già distaccato e lontano
dall'ambiente: fu un altro.
Seguendone lo sguardo, tutti sentivano che pensava alla steppa bianca, al Don, al freddo feroce, ai
duri uomini sotterrati; tutti videro nella sua figura un'immagine che li rifletteva, e il silenzio divenne
compatto.
L'aspettazione delle parole strane ondeggiava sospesa sugli uomini, sensibile al pari delle grevi
falde di fumo che galleggiavano nell'aria attorno alla lampada: come queste, un soffio l'avrebbe
alterata.
Il gigante immobile parve evocare la notte al di là del vetro, il volto si nobilitò in una espressione di
volontà indomabile, ma la voce dell'innocente poeta lentamente scandì, con la sommessa devozione
di una preghiera di ringraziamento e col fervore di un voto, le attese parole: Date all'alpino un
attrezzo e la neve diverrà baluardo.
Quando il reggimento fu un solo blocco di energia organizzata di fronte al nemico, nelle tane
fumose dilagò l'incredibile notizia: il colonnello Garrì, l'animatore di tutto, convocava a rapporto gli
ufficiali e rappresentanze d'artiglieri alpini liberi dal servizio di linea; rapporto di congedo, perché
egli era stato improvvisamente esonerato dal comando del reggimento e richiamato in patria.
All'ora stabilita, dagli osservatori a strapiombo sul Don ove fra gli artiglieri e il nemico stava
soltanto l'acqua ghiacciata del fiume, dai gelidi posti di vedetta, dai rifugi sotterranei uscirono gli
uomini del reggimento e s'incamminarono sulla steppa verso il Comando. Erano muti, cupi.
Progredendo, i gruppetti s'avvistavano a vicenda di lontano, piccole macchie grigioverdi sul
biancore della neve, e si riunivano per procedere insieme. Erano gli ufficiali e i soldati delle diverse
batterie; non si vedevano da mesi, si riconoscevano a fatica, dapprima, per le lunghe barbe e
quell'aria irsuta e caprigna che mette addosso la vita di linea. Amici fraterni, pareva si salutassero
senza entusiasmo, senza darsi neppure la mano, poiché con quei molti gradi sotto zero e quel
ventaccio era necessario tenere le mani ficcate in tasca.
Da molte barbe, sotto la bocca, scendevano lunghi pendagli di ghiaccio, le stalattiti degli alpini in
terra di Russia. Sospiri congelati le chiamavano, era inutile strapparle poiché col respirare si
formavano più grosse di prima. Erano il marchio dell'inverno russo sul volto degli uomini, così
come sulla groppa e sugli anteriori dei muli ogni pelo si rizzava e s'ingrossava per un suo involucro
di ghiaccio; le povere bestie generose tiravano le slitte nella steppa ricoperte da quel mantello
gelido e ogni tanto rigiravano il muso e pazientemente leccavano lo strato bianco là dove questo
minacciava di congelare la misera pelle.
Sotto il cielo di un dolcissimo azzurro appena ravvivato da un malinconico sole, in quella mattina di
dicembre un vento basso e sibilante scherzava con la steppa; mordeva qui e là la neve a saggiarne la
consistenza e dove riusciva ad intaccarne la compatta crosta subito s'insinuava negli strati profondi
e ne usciva tosto trascinando seco manciate di neve polverosa; la faceva rilucere per qualche istante
contro il sole in infinite particelle d'oro, come divertendosi ad agitare nell'aria uno scialle
trasparente; e la lasciava ricadere infine, annoiato, cospargendone gli alti cardi della steppa
disseccati dal gelo.
Era inverno, ormai; gli esseri viventi erano fuggiti o sepolti; non un solo uccello punteggiava il
cielo e sulla neve si scorgeva soltanto, e di rado, qualche topo correre goffamente da buca a buca e
rintanarsi. Inverno gelido, paralizzante; il freddo però non aveva ancora alitato sulla pianura con
tutto il suo rigore, poiché anche in quella mattina i soldati, i soli oltre il vento che si muovessero sul
deserto bianco, uscendo dai rifugi avevano constatato che i termometri dei pezzi segnavano non più
di venticinque gradi sotto zero.
A quei soldati, ora, stavano portando via il capo, l'uomo che li aveva guidati per le vie della guerra,
l'imperioso comandante cui era facile e gradevole cosa l'ubbidire poiché era giusto, paterno e
generoso.
Il volto degli uomini in marcia era indurito dal gelo e dallo sdegno, e incupito da un dolore che
bruciava gli occhi più del vento gelido.
Giungendo alla località di raduno gli artiglieri alpini si riunirono sulla neve, scambiando sommesse
parole. Un vapore denso usciva dalle loro bocche e ricadeva sui baveri dei cappotti a formare uno
strato di ghiaccio. Battevano i piedi sulla neve dura e si sfregavano le orecchie pallide sotto i
cappelli alpini.
Erano forse trecento, e furono introdotti in un'ampia stalla al riparo dal vento; poi si inquadrarono,
da bravi soldati.
Il capannone era male illuminato, la luce entrava soltanto dalla grande porta spalancata. Ad un tratto
una voce diede un ordine ed ogni brusio e scalpitio cessò nella stalla, gli uomini si irrigidirono
sull'attenti. Dalla luce esterna avanzò lo stendardo del reggimento e dietro ad esso si profilò
all'ingresso il colonnello Garrì, che a passo lento s'inoltrò fra i soldati.
Aveva il viso di pietra. Pareva non vedere nessuno e quasi esser cieco per la fissità dello sguardo e
per quel suo grosso bastone dal puntale d'acciaio che a intervalli brevi poggiava oltre il piede, sul
terriccio della stalla.
Nell'assoluto silenzio i soldati fissarono l'uomo che incedeva verso la bandiera, gigantesche statue
allineate nell'incongrua cornice della stalla; solo la mascella, in alcune d'esse, si contraeva dando
rilievo ai muscoli per lo sdegno che faceva stringere i denti; e sopra le teste il vapore del respiro
saliva a sbuffi prepotente e ritmico, quasi animalesco, a dire quanto e in qual modo le statue fossero
vive.
Vicino allo stendardo il comandante si fermò, passò lo sguardo sui volti dei soldati e ruppe il
silenzio.
— Ho ricevuto ordine di lasciare il reggimento e di rientrare in Italia — disse; e il metallo della
voce potente, per la prima volta sembrò essere incrinato. — Voi sapete come ciò non sarebbe mai
accaduto per mia volontà e come debba essere accettato per disciplina militare. Ho il conforto di
sapere che il comando del reggimento passa in esperte e salde mani alpine e che voi, miei soldati,
rispetterete come sempre la legge del dovere. Saluto voi, e con voi i compagni che non hanno
potuto in quest'ora lasciare la linea. Voi sapete che il mio dolore può essere temperato solo dal
vostro comportamento.
Troppe vicende abbiamo vissuto insieme e troppo ci conosciamo e ci amiamo perché nell'ora del
distacco io debba dirvi molte parole. Vi dico soltanto: rimanete sempre stretti intorno allo stendardo
del reggimento fregiato di medaglia d'oro per valore vostro e dei nostri morti, onorate i nostri morti
nell'adempimento del dovere per cui essi caddero e voi superstiti ancora combattete, nel nome della
patria in guerra.
Non è consentito che io rimanga più a lungo tra voi, mi viene imposto di lasciarvi.
Ma io — disse il colonnello con voce non più dimenticabile — io lascio a voi... miei soldati... il mio
cuore accanto allo stendardo che bacio...; e di qui nessuno lo smuoverà... poiché è vostro come il
drappo e la medaglia d'oro... Ha combattuto, ha sofferto, resta con voi...
Non voleva forse il colonnello materialmente baciare, in quel punto, lo stendardo, ma qualcosa gli
tremò all'improvviso nella voce e l'indusse a chinare, a sprofondare il volto nel tessuto.
Sull'attenti, senza un brivido raggelati nei venticinque sotto zero, i trecento uomini silenziosamente
piangevano. Ufficiali e soldati in quella stalla piangevano irrigiditi sull'attenti, come può essere
lecito fare o agli eroi o ai pazzi. In quella stalla piangevano su di sé, sulle loro glorie, su quanto
avevano patito e tribolato donando sangue, subendo in quell'ora la ventata di dolore che
scompigliava l'armoniosa costruzione di sofferenza e di amore su cui s'equilibrava la loro vita di
guerra; poiché la sofferenza, quando è tanto lunga e diversa e inaudita da non poter essere più né
detta né compresa, diviene amore che lega, un tragico amore nel cuore degli uomini che fanno la
guerra. Così, dagli occhi di quei trecento uscivano le lacrime dei soldati, il pianto d'un reggimento;
e le calde gocce scendevano senza ritegno lungo le gote, si diffondevano nelle virili barbe, o
cadevano sul grigioverde di guerra, dall'implacabile gelo subito trasformate in palline opache;
giuoco di bimbi, a vederle; supplizio d'inferno, a piangerle.
— Fra un'ora partirò per l'Italia — disse il colonnello avendo sollevato il volto dal drappo ed
ergendo il capo all'antico modo; — in questo istante per l'ultima volta passerò dinanzi agli artiglieri
alpini del mio reggimento. Miei soldati! — disse, e la voce era quella degli antichi tempi, e la stalla
e i cuori ne risuonarono; — miei soldati: per l'ultima volta, presentate le armi al vostro colonnello!
Senza che alcun ordine regolamentare seguisse, sotto la volta di paglia risuonò un secco scattare
d'armi impugnate: il colonnello passò da terziglia a terziglia, lentissimo, come a non voler più finire
quella dolorosa rivista. Con ogni uomo i suoi occhi scambiarono un muto indicibile colloquio; e ad
ogni passo il padre perdeva tre figli.
Per essi, nella sua vita di comandante tre mesi addietro egli aveva scritto una lettera in più, andando
imprudentemente troppo oltre, secondo gli alti Comandi, nel difendere i suoi soldati.
Cosicché, abbassata la mano dall'ala del cappello alpino dopo aver salutato l'ultimo uomo, il
colonnello varcò la soglia della stalla e uscì nel vento della steppa, socchiudendo gli occhi alla
vivida luce e al mortale dolore.
Guardò intorno la grande distesa bianca, avanzò il piede e si trovò solo nella neve e si sentì solo
sulla terra avendo perduto, due passi addietro, il suo bel reggimento.
Sul reggimento calò in quel giorno un presagio d'oscuri tempi, stringendo d'angoscia il cuore degli
alpini vigilanti sul fiume.
Sepolta nel bianco, fra una riva e l'altra, l'acqua del Don scorreva silenziosa sotto una spessa lastra
di ghiaccio su cui s'era disteso un uniforme tappeto di neve. Fra le contrapposte rive l'alto silenzio
della prima linea incombeva come una minaccia, rotto a lunghi intervalli da qualche secca fucilata.
Non succedeva nulla: troppo poco per tranquillizzare la sensibilità di gente adusata alla guerra.
Gli alpini giorno e notte scrutavano il cielo, il fiume, la boscaglia sull'altra sponda. Chi ha pratica di
prima linea conosce la snervante attesa di un evento che già gravità nell'aria ma ancora non si
scatena, l'interminabile silenzio che minaccia, quel vorticare di ossessionanti fantasmi che
ondeggiano senza smuovere una foglia.
— Ormai — diceva gravemente il colonnello Verdetti — la lastra di ghiaccio sul Don può reggere
anche i carri armati da quaranta tonnellate. È l'ora dei russi.
I turni di vedetta sul fiume erano ridotti a pochi minuti, poiché una più lunga esposizione
nell'immobilità nei trenta gradi sotto zero era mortale, specie se c'era vento. Le sentinelle smontanti
entravano livide nei rifugi e i pastrani appena tolti, poggiati sul pavimento, stavano ritti da soli.
— Per non morire — mormorava Brogli — bisogna poter tenere la posizione e non mollare questi
nostri rifugi.
— Ad ogni costo — confermavano i soldati.
3.
Il sedici dicembre, a metà pomeriggio, il telefono squillò alla tredici.
— Parla il Comando di Gruppo. C'è il comandante di batteria?
— Sono io — rispose Reitani.
— Ciao, capitano. — Era il tenente Massimo Rizzo, aiutante maggiore del Gruppo.
— Il colonnello Verdetti mi incarica di trasmetterti un ordine per la tua batteria.
— Dimmi.
— Entro due ore devi essere pronto a partire «per ignota destinazione» con tre ufficiali e cento
uomini, trentasei muli, dodici slitte, i quattro pezzi, due mitragliatrici, munizioni e viveri per un
giorno. Il solo zaino per tutti, due coperte.
— Si sa qualche altra notizia più precisa?
— No. Deve trattarsi di un impiego connesso al fatto che la tredici fa parte del «reparto di pronto
intervento». Scegli gli uomini più in gamba: crediamo che non si tratti di una faccenda semplice.
— Ho capito. E gli uomini che mi restano qui?
— Da' il comando a Brogli, per intanto. Provvederemo poi noi a rimpiazzarvi se tarderete a
rientrare.
— Credi che staremo fuori molto?
— Non so. Ti dico una mia opinione personale: temo che ci siano in aria grossi guai. Ciao Reitani,
quando sei pronto a partire telefona: ti diremo con precisione verso dove dovrai dirigerti. Ti faremo
poi raggiungere da staffette con ordini scritti. E in bocca al lupo, con tutto il cuore!
Reitani posò il microfono, impartì le disposizioni. Come ufficiali da avere con sé designò Perbellini
e il tenente Dell'Alpe, un bel ragazzone friulano che da un paio di mesi era stato assegnato alla
batteria. Suo padre era il tenente colonnello Dell'Alpe, un magnifico alpino che comandava il
battaglione Gemona.
Reitani chiamò Serri: — Vuoi venire con noi, Italo?
— Lo sai, Ugo.
— Bene. Dobbiamo essere soltanto in quattro ufficiali e tu all'occorrenza sei in grado di sostituire
qualcuno di noi, oltre che fare il medico.
— Speriamo che non ce ne sia bisogno.
— Speriamo.
Alle diciassette i centoquattro uomini rabbrividivano sotto il vento gelido marciando nel buio,
incitando i muli dal pelo ritto che trascinavano sulla crosta di neve ghiacciata i pezzi e le slitte.
I soldati camminavano in silenzio perché avevano dovuto lasciare nei caldi rifugi ogni loro cosa
salvo le armi; e separarsi dai quattro poveri stracci è sempre un brutto segno, e fa temere il peggio.
Inoltre, era una faccenda che non piaceva per niente quella del «pronto intervento». Si cominciava
subito col dover marciare per chissà quante ore sulla neve, mentre gli altri stavano intorno alle stufe.
E «ignota destinazione» era una frase che risuonava male nei loro cervelli. Antipatico anche quel
modo di conoscere strada facendo la direzione di marcia per mezzo di staffette da incontrare lungo
il cammino; che cos'era tutta questa segretezza?
La fila di uomini, di muli e di slitte raggiunse il villaggio di Ssemejki, ma proseguì; con lo scendere
della notte il freddo si fece più intenso; addentava i nasi e le guance come un cane rabbioso; al
chiaro di un briciolo di luna la colonna attraversò la pianura spazzata dal vento che portava a
Kurenji; marciava da cinque ore nel gelo, sperò nella sosta; ma anche Kurenji fu oltrepassata; seppe
però che a Stanovoje si sarebbe fermata, come annunciò una staffetta.
Perbellini e Serri, che avevano gli sci, vennero mandati innanzi assieme a due altri sciatori col
compito di raggiungere Stanovoje e di rintracciare gli alloggi, in modo che la colonna
sopraggiungendo non dovesse attendere sulla neve.
Presto la pattuglia avvistò il paese: bisognava lasciare la pista principale e deviare lungo la pista
secondaria. Al bivio la pattuglia si divise, Serri e un soldato proseguirono verso il paese, Perbellini e
un caporale attesero la colonna per indicare il cammino.
— Badate al freddo, continuate a muovervi — disse Serri avviandosi.
— Niente paura, signor tenente, siamo alpini e non ci ha ammazzato neanche l'Albania! — esclamò
l'alpino che rimaneva con Perbellini. Era un caporale tra i più scanzonati e svelti della tredici, un
valligiano campione di sci.
Poco dopo, ritornando dall'aver trovato gli alloggiamenti, Serri al bivio vide Perbellini chino sul
caporale steso sulla neve. La testa della colonna stava per sopraggiungere.
— Cosa è successo? — chiese Serri.
— Non so — rispose Perbellini angosciato; — è caduto mezzo minuto fa, non dice una parola.
— Siete stati fermi?
— No, siamo sempre andati in su e in giù, è impossibile stare fermi con questo vento maledetto.
Il caporale venne trasportato all'ospedaletto che esisteva a Stanovoje, fu sottoposto alle più attente
cure per salvarlo dall'assideramento.
— Non credevo di dover crepare qui così, come un cretino — diceva all'indomani con un'ombra di
sorriso sulle labbra bianche.
— Ma no, non dire fesserie, ormai stai bene — protestavano Pilòn e i compagni in piedi attorno al
letto.
Ebbe ragione lui invece, il caporale Pittino Alfonso: si sforzò di dire qualcosa, tentò di mettersi a
sedere, ricadde morto. Serri si chinò a sentirgli il cuore, si risollevò scuotendo la testa. Tutti si
guardarono a vicenda, smarriti.
Sopraggiunse il furiere Clerici, ad avvertire che erano giunti gli autocarri e il maggiore Amerri
aveva ordinato la partenza immediata.
Reitani guardò Pittino come a non volersi distaccare, portò la mano all'ala del cappello alpino nel
saluto militare, si avviò alla porta dicendo a tutti: — Andiamo.
Gli artiglieri alpini uscirono, alcuni rivoltandosi a guardare il morto.
Scudrèra rimaneva ancora a fianco del letto; Pilòn, ultimo, dalla porta disse: — Dai, Scudrèra.
— Vègno!— rispose Scudrèra; si scostò dal letto, come per andare; si assicurò con un'occhiata che
anche Pilòn fosse uscito, ritornò al letto e fissò il cadavere. Quasi non credesse alla morte, lo
chiamò, accorato: — Pittino! — Inghiottì saliva. Come arrabbiato perché Pittino non rispondeva,
agitò la mano verso il morto nel gesto di chi minaccia gli sculaccioni a un bambino, disse al morto
con un'intonazione di rimprovero e di delusione: — Pittino...
Con viso torvo se ne andò, biascicando qualcosa come se pregasse a fior di labbra. Ma, a guardargli
gli occhi, appariva chiaro che preghiere non erano.
Erano i soliti autocarri militari, alcuni col telone di copertura, altri senza; vennero caricati i muli, le
munizioni, i pezzi, le slitte, gli uomini della tredici.
— La va male — dicevano gli artiglieri fiutando complicazioni.
— Dove si va, signor capitano? — chiedevano a Reitani.
— Ora a Ssaprina, a pochi chilometri, poi non so.
— La va male... Se i ne porta in camion, tira vento catìvo...
— diceva Scudrèra.
A Ssaprina i cento della tredici si congiunsero con altri trecento alpini pure autocarrati per
l'occasione; il reparto di pronto intervento era così al completo e partì al comando del maggiore
Amerri.
— Di che reparto siete? — domandavano gli uomini di Reitani agli autisti.
— Autocentro.
— Dove ci portate?
— A Podgornoje, poi non sappiamo.
Alle tre del pomeriggio le ultime luci del giorno rendevano livida la neve ghiacciata; avanzò quindi
il buio, l'immenso buio sulla distesa ucraina. Con la notte il gelo s'intensificò, i muli ragliavano
lamentandosi sugli autocarri scoperti, gli uomini rabbrividivano accartocciati su se stessi per non
disperdere calore. Gli automezzi non potevano proseguire perché gli autisti non vedevano la pista;
nonostante il pericolo degli aerei vennero accesi i fari perché era necessario andare oltre.
Venne raggiunto Podgornoje, vi fu una breve sosta affinchè gli automezzi s'allineassero uno dietro
l'altro. Il comandante della colonna gridò agli autisti: — Non posso dire dove andiamo. Unico
ordine: seguire la mia macchina di testa mantenendo il collegamento a vista; spegnete i fari,
mantenete solo le luci di posizione; sfruttate la luce della luna che sta per sorgere. Non ci
fermeremo più, qualunque cosa succeda; bisogna giungere a tutti i costi.
L'autocolonna ripartì inoltrandosi nelle tenebre, presto rotte dal chiarore lunare che si distese sulla
neve.
Gli alpini tacevano e stringevano i denti, le mani e i piedi per resistere al gelo che sembrava
staccare con infiniti aghi la pelle dal corpo. Un dolore intenso saliva dalle estremità e tentava i
centri della vita, sempre più insidioso e crescente; al cuore montava un'oppressione, un disperato
terrore di non poter resistere, di morire così, prede del gelo su un autocarro.
Passarono tre, quattro ore. A una curva un mulo precipitò dalla fiancata d'una macchina e cadde
sulla neve già indurito come legno: era morto in piedi, aveva viaggiato stecchito finché uno
scossone l'aveva spinto fuori dall'autocarro facendo largo ai compagni di viaggio.
Nel cuore della notte il freddo rincrudì ancora, i termometri dei pezzi segnavano trentaquattro sotto
zero.
I muli, atterriti dal demone che induriva i peli come chiodi, che entrava nel corpo e lo frugava,
s'infuriavano e pestavano con enorme forza il piano dell'autocarro. Alcuni quadrupedi giunsero a
sfondarlo rimanendo impigliati nella fenditura del legno con le zampe, che ai successivi sobbalzi
della macchina finivano col fratturarsi. Urla spaventose allora soverchiavano il ronzio dei motori,
subito riprese in coro dagli altri muli e rimandate nella notte da autocarro a autocarro, sì che agli
alpini straniti dal freddo sembrava ormai d'essere dissennati e qualcuno già, sopraffatto, cominciava
a ridere; e i compagni, nell'udire quelle risa nel buio rabbrividivano, poiché sentivano anch'essi
traboccare dall'animo una forsennata voglia di ridere, o di ululare come le bestie ferite.
Per il trepestio degli animali e degli uomini, fra le imprecazioni degli autisti gli automezzi in corsa
spesso ondeggiavano e slittavano malamente sulla pista ghiacciata, più d'uno finiva con lo sbandare
affondando nella neve alta restando immobilizzato e abbandonato col proprio carico, mentre gli altri
proseguivano nella sarabanda inseguendo nella notte, come in una allucinazione, il fanalino rosso
della macchina che precedeva; carica anch'essa di disperati, di gente congelata e tremante, dal corpo
che implorava tregua da quel freddo che trapassava la pelle come fosse uno scialle liso.
Su quegli sciagurati, oltrepassato Rossosch, nelle ore più crudeli della notte la temperatura calò a
trentotto sotto zero.
La colonna andava sempre più assottigliandosi; qualche autista, assiderandosi al volante, perdeva
improvvisamente il controllo dell'autocarro che si rovesciava nella neve in un groviglio di uomini e
muli feriti.
Gli ufficiali erano stati collocati ciascuno su di una macchina diversa, con l'ordine di giungere a
destinazione a qualunque costo e di salire immediatamente su un altro autocarro qualora quello che
li portava fosse rimasto inchiodato nella steppa.
Verso l'una di notte, Serri vide una sagoma d'uomo che, nell'accresciuto chiarore di luna, dal
margine della pista si sbracciava in larghi segni. Fece fermare per un attimo, e la sagoma subito salì
nella cabina di guida: era il sottotenente Perbellini.
— Purtroppo manca il vetro parabrezza a questo autocarro — gli disse Serri. Il gelo notturno
s'incanalava nel riquadro spalancato e il vento della corsa s'ingolfava nella cabina.
— Se non moriamo stanotte non moriamo più — interloquì l'autista al volante. — Sono un pezzo di
ghiaccio. Se vedete che sbando tenete voi il volante, non muovo bene le braccia.
— Vuoi che guidi io per un poco? — chiese Serri.
— No, non posso, signor tenente. Abbiamo ordine di non lasciare il volante a nessuno, per nessuna
ragione — rispose quello — neanche se stiamo per crepare. — E aggiunse per conto suo due o tre
bestemmie secche, nitide, convinte.
— Il tuo autocarro s'è guastato? — chiese Serri a Perbellini.
— No, ma ho dovuto scendere per forza dalla cabina, non potevo salire dietro perché l'autocarro
portava soltanto muli. Erano infuriati, mi avrebbero schiacciato.
Accendendo una sigaretta, il medico scorse una macchia di sangue raggelato sulla manica di
Perbellini.
— Sei macchiato di sangue — disse preoccupato; — cosa è successo?
— Ne ho anche giù per il collo, ma non posso farci niente. Poco fa un mulo ha sfondato con un
calcio la parete di legno dietro la mia testa ed è entrato con la zampa nella cabina.
— E tu?
— Un momento prima mi ero avvicinato col viso al parabrezza che si era incrostato di ghiaccio, per
tentare di vedere la strada. È stata la mia fortuna; se fossi stato appoggiato allo schienale il mulo mi
avrebbe sfondato il cranio.
— E questo sangue?
— È del mulo, continuava a scalciare per levarsi dalla stretta del legno e quindi si segava la carne.
Non era possibile liberarlo e io non potevo stare sotto la minaccia di quella zampa ferrata. Non ti ho
detto che ho dovuto scendere dalla cabina? È per questo.
S'udì il ruggito d'un aereo basso, un bagliore rossastro risplendette all'improvviso sulla pista, subito
concluso da una esplosione sorda e seguito dallo sgranarsi di secchi colpi di mitragliatrice.
— Il pater noster e l'ave maria: incomincia il rosario — borbottò l'autista.
— Ho capito subito che hai uno spirito profondamente religioso — gli disse Perbellini.
— Sono toscano — rispose quello a breve chiarimento; e con violenza sterzò di colpo per evitare la
buca scavata sulla pista dalla bomba esplosa.
Una seconda bomba poco dopo rovesciò sulla neve un autocarro e per oltre un'ora la colonna fu
sottoposta al tiro di aerei russi che l'avevano individuata nella notte lunare.
— Che ore sono? — chiedeva ogni tanto l'autista agli ufficiali.
— Le tre.
— Le quattro.
— Se non mi sbaglio — disse ad un tratto l'autista mentre l'autocarro attraversava un abitato —
andiamo verso Kantemirowka.
Perbellini aveva una bussola, la osservava e andava ripetendo: — Da mezza giornata stiamo
andando verso sud. Dove ci portano?
— Questa volta all'inferno, signor tenente — interveniva l'autista — credete a me, non mi sono mai
sbagliato finora; mai. Siamo già morti. Amen — concludeva.
Sugli autocarri tutti gli uomini lottavano con l'insidioso torpore dell'assideramento; dovevano
continuamente agitarsi, sfregare, massaggiare tutte le parti del corpo, ma un tale sforzo in apparenza
lieve diveniva presto insostenibile. I muli non davano da tempo alcun segno di vita. L'aria era tanto
fredda che pareva avere una consistenza liquida; l'invisibile nemico assediava i corpi essendosi già
abbrancato alla pelle, agli arti, alle labbra, pronto ad affondarsi definitivamente azzannando il punto
più debole, spirito o carne che fosse.
A un certo punto sopraggiunse su una piccola automobile il tenente Gianfranco Di Nemi; vecchio
amico di Serri, valoroso ufficiale di collegamento al Comando di reggimento, s'era distinto per il
suo coraggio durante tutta la campagna d'Albania. Alto e asciutto, sempre pronto all'azione, quando
seppe da Serri che molti artiglieri rischiavano l'assideramento su quegli autocarri scoperti, si
prodigò da quel momento in poi a far la spola tra la colonna e il più vicino paese, guidando
pazzamente la sua automobile sulla pista ghiacciata, a porre in salvo nelle isbe i soldati che erano
prossimi a morire di gelo sugli autocarri.
L'interminabile notte si dissolse alfine in una pallida aurora e a questa affidò gli uomini e gli
animali in parte vivi e in parte stecchiti.
All'improvviso, alle sei, incontrando un gruppo di isbe, la colonna si fermò, artiglieri e alpini
scesero barcollando. Tremavano e sembravano vecchi cadenti, ma s'inquadrarono e si contarono:
seppero di essere ridotti a circa duecento, la spaventosa notte aveva dimezzato l'organico del
reparto. Buona parte degli autocarri s'erano dispersi durante il viaggio disseminando nella steppa
uomini congelati e assiderati, muli impazziti, viveri preziosi. A conti fatti il capitano Reitani
disponeva solamente di neppure sessanta artiglieri, tre pezzi, molte cassette di munizioni, due
mitragliatrici, quattro slitte e nove muli.
Il paese si chiamava Mitrofanowka: scarsa popolazione rintanata nelle isbe e nessuna traccia di
soldati.
Il maggiore Amerri diede ordine che la truppa entrasse nelle isbe a riscaldarsi e che alcuni ufficiali
girassero per il paese in ogni direzione per rintracciare la sede del Comando locale.
Reitani e Serri s'avviarono lungo le strade, di fianco a un edificio scorsero un autocarro militare col
motore in moto, senza autista. Entrarono nella casa e un tepore lungamente desiderato li avvolse.
Risero constatando che entrambi, in luogo caldo, avevano cominciato a battere violentemente i
denti.
— Finalmente si vede qualcuno — disse Serri indicando nella penombra un piantone che dormiva
su una panca.
— Non svegliarlo subito — suggerì Reitani — aspettiamo finché ci passa questo ridicolo battere di
denti.
Ma come il tremito della mascella era incoercibile, il capitano stesso si rassegnò a svegliare il
soldato che diede un sobbalzo e squadrò i due ufficiali con aria spaventata.
— C'è qualche ufficiale? — gli chiese Reitani.
— Sì — rispose il soldato. — Di che divisione siete?
— Julia.
Gli occhi dell'uomo si dilatarono. Balzò in piedi, disse un frettoloso: — Torno subito — e si mise a
correre lungo il corridoio gridando a perdifiato: — La Julia, La Julia.
S'affacciò subito a un uscio un colonnello di Stato Maggiore che con fare concitato fece entrare i
due ufficiali in una stanza tempestandoli poi di domande. Aveva le palpebre arrossate e i modi di
fare dell'uomo in preda ad un orgasmo incontenibile.
— E così, siete qui finalmente, la Julia è arrivata! — concluse traendo un profondo sospiro di
sollievo; — avverto subito il signor generale.
— Non è esatto, signor colonnello — rettificò Reitani — siamo giunti soltanto in duecento, la
nostra Divisione è ancora in linea sul Don, sopra Rossosch.
— Non importa, non importa — disse quasi seccato il colonnello — voi siete la Julia, questo è
l'importante.
E bussato alla porta di una stanza entrò rapidamente.
Il piantone in quel punto introdusse il maggiore Ameni e qualche altro ufficiale del reparto di
formazione.
Rientrò il colonnello, che parve visibilmente rinfrancato nel vedersi attorno diversi ufficiali. Non
rilevò in alcun modo il loro deplorevole stato.
— Come sapete — disse subito — la situazione è delicatissima e fluida, ma per fortuna ora siete
arrivati voi, e...
— Manchiamo di ogni notizia — lo interruppe il maggiore Ameni — vorrei appunto precise
informazioni.
Era un uomo di media statura, tarchiato, taciturno, forse anche un po' burbero; ma nei giorni duri
aveva sempre dato prova di un ferreo controllo mantenendo in ogni caso chiarezza di vedute,
prontezza di decisione e ascendente sui soldati.
— Certo, certo, — rispose frettolosamente il colonnello, — tutte le notizie, certo. Situazione
delicatissima e fluida, dicevo. C'è grande bisogno di soldati di ferro come sono gli alpini. Il signor
generale conta moltissimo su di voi...
Ha qui il suo provvisorio Comando tattico... È stato inviato qui con me per dare gli ordini più
urgenti e prendere le prime contromisure... Ma dobbiamo rientrare al più presto per riferire al nostro
Comando... Il settore ormai è di pertinenza della Divisione Julia e siamo sicuri...
— Scusate — interruppe nuovamente il maggiore Amerri — qual è l'attuale situazione del fronte in
questo settore?
— La situazione del fronte...? Ma allora non sapete proprio nulla...? — chiese il colonnello di Stato
Maggiore con evidente imbarazzo. Sedette, tamburellò per un istante con le dita sul piano del
tavolo, si alzò nuovamente, guardò verso la porta chiusa e disse con voce incolore: — Signori... in
questo settore il fronte praticamente non esiste... almeno da parte nostra. Non lo sapete? Gli ufficiali
si guardarono in silenzio.
— I russi — continuò il colonnello a bassa voce — cinque giorni fa hanno attaccato la Cosseria e la
Ravenna che tenevano questo settore di fronte, sono riusciti a sfondare e a portarsi dietro alle prime
linee, privandole quindi dei magazzini di munizioni e viveri. Hanno manovrato con tre interi Corpi
d'Armata corazzati, hanno travolto le nostre due divisioni ed hanno proseguito penetrando
profondamente nel territorio controllato dalle nostre forze; non sappiamo con esattezza dove ora
siano i russi e quali obiettivi vogliano raggiungere.
Ignoriamo la sorte del ventiquattresimo Corpo d'Armata corazzato tedesco che era corso in
appoggio. Qui comunque non esiste più una linea, temiamo che i russi stiano per lanciare attraverso
questo varco altre forze... È appunto compito vostro tamponare la falla.
— Che lunghezza di fronte tenevano le due divisioni? — chiese il maggiore.
— Una quindicina di chilometri ciascuna — rispose il colonnello.
— Sono giunti altri reparti di rincalzo?
— No.
— Siamo in duecento uomini — disse con pacatezza Ameni. E le parole pesarono tanto, che per un
lungo tempo nessuna voce ruppe il silenzio.
— L'intera divisione Julia sta trasferendosi qui — riprese poi il colonnello. — Voi siete i primi a
giungere e sarete impiegati subito.
— Con che mezzi si trasferisce la nostra divisione? — chiese Ameni.
— Per via ordinaria. A piedi, purtroppo — ammise il colonnello.
— Impiegherà molti giorni.
— Lo so, ma non si può fare altro di meglio. Intanto ho ordini per te, e per il tuo reparto. Parlo in
presenza dei tuoi ufficiali, è bene che si rendano subito conto della situazione. Vi terrete pronti a
partire in direzione di Thaly, ove pare che esista ancora un nostro reparto, ma non abbiamo notizie
precise. Si tratta di resistere a oltranza. Ora attenderete conferma dell'ordine di partenza, poiché la
situazione cambia di minuto in minuto. Arrivederci.
— Avverto che non abbiamo viveri — disse il maggiore; l'autocarro che li portava è rimasto
immobilizzato presso Rossosch.
— Spiacente, ma non possediamo nulla da mettervi a disposizione, abbiamo già incendiato tutti i
magazzini di questa zona che non sono caduti in mano ai russi — rispose il colonnello.
— Molti miei uomini sono senza cappotto foderato di pelliccia e il freddo è terribile. Ne avete?
— Dovevate arrivare prima — disse il colonnello; — ieri sono stati bruciati anche i depositi di
vestiario. Se giungevate ieri l'altro trovavate anche i cappotti a pelo.
Parve quasi seccato che la conversazione l'avesse trascinato a trattare banali argomenti
d'equipaggiamento. Fece un dietrofront, bussò all'uscio ed entrò dal generale.
Storditi dal sonno, eccitati dalle notizie gli ufficiali uscirono nel gelo. La fame e la stanchezza
divoravano le loro energie facendo sentire più accanito il morso del freddo; camminavano sulla
neve come sonnambuli.
— Non mi aspettavo una fine di questo genere — disse Perbellini.
La neve cigolava sotto le scarpe chiodate; era l'unica risposta.
Giunti presso le isbe in cui s'erano rifugiate le truppe, il maggiore Amerri disse agli ufficiali: —
Rendete noto ai vostri alpini il compito che ci attende; elencate gli uomini e i materiali che avete a
disposizione; controllate l'efficienza degli autocarri; recatevi a turno da quel colonnello per
mantenere il collegamento e riferite ad ogni mezz'ora. Io cercherò di provvedere qualcosa da
mangiare, se è possibile.
Non ho bisogno di farvi particolari esortazioni: in ogni caso compiremo il nostro dovere fino in
fondo. Da alpini.
La mattinata passò. Il sergente Sguario, aggirandosi per il paese in caccia di notizie assieme ad
alcuni uomini del suo quarto pezzo, era riuscito a rintracciare due fanti della Ravenna che avevano
raggiunto Mitrofanowka provenendo dal fronte.
— Che fronte? — avevano detto aspramente i due alle prime interrogazioni. — Non c'è più fronte;
al posto di due Divisioni c'è solo un buco e i russi che vengono avanti.
— E i soldati delle due divisioni? — avevano chiesto gli alpini.
— Morti in combattimento, fatti prigionieri, morti di freddo... Non c'è più nessuno — avevano
risposto con cupa voce i due fanti. Erano stracciati, sfiniti; uno non aveva scarpe, ma stracci legati
ai piedi.
— E voi?
— Noi che cosa?
— Come avete fatto a ritirarvi fino a qui?
— Non sappiamo neppure noi. Siamo qui, ecco tutto. Dovevamo cadere in mano dei russi, ma
invece siamo qui. Ci sono altri soldati nostri in giro per la steppa e non sanno dove andare. Forse
qualcuno arriverà fino a qui. Avete qualcosa da mangiare, alpini?
— Niente. Da due giorni non mangiamo nemmeno noi. Avete provato a chiedere al Comando?
— Sì, ci hanno risposto di andare in malora.
— Dove pensate di andare, adesso?
— Andremo davvero in malora, sacramento di Dio! E voi dove credete di andare, voi?
— Noi siamo arrivati questa mattina e aspettiamo l'ordine di partire per Thaly.
— Per dove?
— Per Thaly, ci hanno detto.
I due avevano riso, forte, guardandosi negli occhi come a scambiarsi pensieri noti soltanto a loro.
— A Thaly!?! — sghignazzavano; e parevano divertirsi. — Ma se veniamo noi, da Thaly!
Ammazzatevi qui, è la stessa cosa!
— Disgraziati che siete — aveva aggiunto il meglio in arnese dei due alzando la voce e quasi
indignato. — Non sapete che a qualche chilometro ci sono i russi e che prima di notte arriveranno
anche qui? Che vi piombano addosso coi carri armati quando meno ve l'aspettate? Non sapete
ancora come va questa faccenda, ma ve ne accorgerete presto! Tanti saluti e auguri, noi ce ne
andiamo.
E s'erano subito incamminati sulla neve, doloranti pagliacci grigioverdi, sulla pista dalla quale erano
giunti gli alpini.
— Gente finita — aveva detto ai suoi uomini il sergente Sguario seguendo con l'occhio i due che si
allontanavano. — Ma bisogna tenere gli occhi bene aperti, perché c'è in giro puzzo di morto.
Alle quattordici il colonnello chiamò a rapporto il maggiore Ameni e gli ufficiali alpini.
— È stato deciso che partirete subito con i vostri uomini — disse; — usufruirete degli automezzi
che vi hanno condotto fino qui. L'obiettivo da raggiungere non è più Thaly, poiché tutta la strada per
Thaly in queste ore è già stata occupata dai russi. Ti consegno questa carta topografica, maggiore.
Uscendo da Mitrofanowka dalla pista est troverete un posto di blocco sorvegliato da due carabinieri.
Vi avverto che oltre quel posto di blocco il territorio non è più controllato, potete trovare ad ogni
passo qualunque sorpresa. Fate attenzione, procedete con ogni misura di sicurezza poiché non ci
risulta fino a che punto le forze russe si siano infiltrate. Strada facendo cercate di superare ogni
eventuale resistenza poiché l'obiettivo che vi viene fissato è Jvanowka, verso il Don, un paese che
nell'attuale momento è il centro nevralgico della situazione di questo settore. Vostro compito è
quello di attardare fino all'estremo l'avanzare in massa delle truppe russe; raggiunta Jvanowka vi
impadronirete ad ogni costo del paese, vi attesterete a caposaldo e resisterete ad oltranza sul posto
fino all'ultima cartuccia. Chiaro? Non è escluso, maggiore, che possiate incontrarvi con qualche
elemento del ventiquattresimo Corpo d'Armata corazzato germanico tagliato fuori dalla battaglia, o
in qualche residuo di reparto italiano. In questi casi riunite tutte le forze in un unico reparto di
formazione e il comando sarà assunto dall'ufficiale più elevato in grado. Voi comunque da questo
momento risultate aggregati al 24° Corpo tedesco, alle dipendenze del generale Eibl, prima o poi
verrete pure a contatto con questi tedeschi. Noi — concluse — alla vostra partenza non potremo più
mantenere il collegamento con voi, il nostro è un Comando tattico mobile, deve subito arretrare e
non mantiene comando di reparti; però vi assicuro che il Comando della divisione Julia verrà
informato del vostro impiego. Ora vi consegneremo un po' di carburante e cento pagnotte, è quanto
possiamo darvi. Il signor generale è certo di poter contare sul vostro senso del dovere. In bocca al
lupo!
Poco dopo, la breve colonna formata da una dozzina di autocarri s'avventurava verso la terra di
nessuno.
Al posto di blocco due carabinieri dagli occhi sbarrati alzarono il palo trasversale e gli autocarri
infilarono la pista che conduceva verso est. Sulla distesa di neve quasi subito gli alpini videro che a
poche centinaia di metri quattro carri armati venivano incontro sulla stessa pista. I carristi
spuntavano a mezzo busto dalle torrette o stavano tranquillamente seduti sul tetto e indossavano tute
bianche. Gli autisti della colonna poggiarono prudentemente sull'estremo margine della pista e
arrestarono le macchine volendo porsi al sicuro da eventuali collisioni. I carri erano quasi
completamente incappucciati di neve, ma Pilòn sgranò gli occhi dicendo: — Sotto la neve ghe xe
una stella rossa.
— Tasi, stralocio — lo rimbeccò Scudrèra.
Nell'incrociare gli autocarri, i carristi agitavano le braccia e scambiavano cenni di saluto con gli
alpini, come a incuorarli con ampi gesti a proseguire verso est donde i carristi giungevano.
All'altezza del posto di blocco i carri armati si fermarono, aprirono all'improvviso un violento fuoco
con le armi di bordo puntate su Mitrofanowka. Sparavano probabilmente con granate incendiarie,
poiché subito si videro alcune isbe in preda alle fiamme. Trovandosi a ridosso dei carri, i due
carabinieri colti alla sprovvista si erano dati a correre a perdifiato sulla neve.
— I xe i russi, i xe i russi signor tenente! — gridava a Serri Scudrèra dall'alto dell'autocarro,
imbracciando il fucile.
La macchina di testa che portava il maggiore proseguì sulla pista trascinandosi dietro la colonna.
Fu chiaro allora a tutti gli uomini che il reparto andava ciecamente allo sbaraglio.

4.
L'artigliere alpino Covre, che al rientro della divisione in Italia aveva sostituito Prati nelle mansioni
di attendente di Serri, allorché gli autocarri raggiunsero una depressione del terreno e gli uomini
perdettero di vista le minacciose sagome dei carri armati, estrasse dallo zaino la pagnotta ricevuta in
partenza e con un sorriso non del tutto sereno disse all'ufficiale medico: — È meglio mettere al
sicuro il pane, prima che rispuntino quei bestioni. Ho preso io anche la vostra razione, signor
tenente, c'è mezza pagnotta a testa, la mangiamo. — Fece due o tre tentativi di spezzare il pane con
le mani, ma con grande disappunto non vi riuscì. Appoggiò la pagnotta a un ginocchio e premette
inutilmente con tutte le forze.
— Questa è bella! — esclamò sconcertato rigirando il pane e guardandolo con sdegno. Aveva mani
enormi, forti e dure come mazze, proporzionate alla statura gigantesca. Nella batteria era nota una
sua prerogativa: quando montava la tenda di Serri e non aveva a portata di mano un martello, con
tutta indifferenza usava conficcare i picchetti nel terreno tempestandovi sopra col pugno nudo. La
mano spesso sanguinava ma le asticciole di legno affondavano immancabilmente nel suolo della
steppa.
— Niente da fare, Covre — disse Coltrin, il puntatore del primo pezzo, che aveva seguito gli sforzi
dell'attendente. — Per romperlo devi adoperare la baionetta come ho fatto io, e poi non riesci lo
stesso a tirarne via un boccone, ti saltano i denti e quello resta com'è. È di pietra ormai, per il gelo.
Non vedi che nessuno ne mangia? Non si riesce. È la Russia: bisogna tenersi la fame col pane in
tasca.
La fame era grande, sugli autocarri, ma i duecento uomini davano poco ascolto ai suoi richiami. La
colonna procedeva superando una incessante serie di collinette, dietro ognuna delle quali era
necessario supporre la presenza del nemico in agguato. Il pensiero dei quattro carri da poco perduti
di vista non lasciava il cervello degli uomini.
Più e più volte il maggiore Amerri fermò la colonna ed avanzò a piedi, ed ogni volta gli uomini
imbracciavano le armi. Tutti sapevano che il cadere in una imboscata significava lo sterminio della
colonna.
Il giorno, stendendo lunghe dita d'ombra sulla neve, volgeva a sera.
In vista d'un paese la colonna s'arrestò, una pattuglia venne subito mandata in esplorazione.
Passò una voce: — Capitano Reitani in testa.
Quando il capitano ritornò disse in disparte a Serri: — Siamo a Krinitzschnaia, sulla nostra carta
non è segnata, la pattuglia ha riferito che il paese è abbandonato. Da due ore siamo nel vuoto. Il
maggiore è preoccupato perché la carta topografica è imprecisa. Ci siamo spinti molto innanzi e
Jvanowka non dovrebbe essere lontana.
E ai soldati: — Nervi a posto e occhi aperti, ragazzi. Presto saremo a Jvanowka. Nessuno spari
senza ordine.
Ripartiti gli autocarri, la tensione aumentò. Sul ciglio delle colline la sera disegnava incerte ombre
che parevano sagome d'uomini appostati. Sugli automezzi, silenziosi nel gelo i combattenti
subivano il sottile orrore di sentirsi trascinati sempre più addentro nella insidiosità della terra
nemica, mentre un crescente spazio separava ormai da ogni speranza d'appoggio.
La colonna, superato un tratto di pista incassato fra due colline, sbucò e subito s'arrestò su un
pianoro sul quale sorgevano alcune isbe. A lato della pista, accanto a un paletto di sostegno, un
cartello indicatore giaceva nella neve. Portava scritto: Jvanowka.
— Scendere dagli autocarri — fu l'ordine; — avanti due mitragliatrici.
Pattuglie di tre uomini avanzarono per saggiare la situazione. Presto una pattuglia ritornò.
— Nel gruppo d'isbe non c'è nessuno — riferì il sergente Bartolan — ma duecento metri più in là
c'è il paese. È sparso e grosso.
Altre due pattuglie rientrarono riferendo di non aver rilevato cenno di vita umana.
— Troppo comodo... — mormorò scuotendo la testa il sergente Bo, capo-pezzo del 3° pezzo; — c'è
sotto qualcosa.
Gravitava un silenzio pesante; l'ossessione di una invisibile presenza ostile angosciava l'anima dei
duecento uomini.
Il reparto venne suddiviso in tre gruppi che furono inviati a occupare tre punti alle estremità del
paese, ove furono anche piazzati i tre pezzi della tredici.
Quasi un quarto del paese veniva così bloccato. Gli uomini, eccetto quelli di guardia, entrarono
nelle isbe.
— In questa isba stabiliamo il Comando della tredici — disse Reitani a Sorgato; e l'anziano
artigliere, un tempo addetto alla mensa ufficiali e in quei giorni incaricato del servizio rancio della
batteria, oltre che essere attendente di Reitani, entrò nella capanna e quasi subito uscì reggendo un
trombone.
— Signor capitano — gridò eccitato — la cena di questa sera si salta, non c'è niente da mangiare,
ma dopo cena vi faccio sentire io se so suonare o no!
Entrarono.
Appesi a una rastrelliera stavano in perfetto ordine gli strumenti a fiato di una banda militare.
— Sono gli ottoni della banda di un reparto italiano — disse Reitani a Serri. — Gli strumenti
portavano inciso il nome di un reggimento della divisione che aveva tenuto la zona.
— Sono allineati e intatti — osservò il medico guardando gli strumenti.
— Già. Vuoi imitare Sorgàto, dopo cena? — chiese Reitani celiando.
— Non pensavo a questo — rispose Serri: — penso che se i russi fossero già entrati qui,
indubbiamente non avremmo trovato gli strumenti ancora a posto.
— Giusto. Ma con questo?
— Se qui è rimasto tutto intatto, non è da escludere che in un'altra isba sia rimasto qualcos'altro, un
deposito di armi o di viveri per esempio...
— Oh...! se è così — gridò Sorgàto entusiasta — io riesco a cucinare il rancio anche nel trombone!
Reitani guardò l'orologio.
— Voglio controllare la sistemazione degli uomini e dei pezzi. Se mi accompagni — propose a Serri
— al ritorno possiamo dare un'occhiata nelle isbe, anche perché il grosso del paese è stato
ispezionato frettolosamente e non sono tranquillo. Le nuvole coprono la luna e c'è troppo buio per
fidarsi di questo silenzio.
Visitati gli uomini e perlustrate le postazioni dei pezzi, facendosi luce con un lanternine a petrolio i
due ufficiali s'accinsero a ritornare al Comando di batteria. Soffi di vento raschiavano la candida
superficie gelata, sollevando un pulviscolo che si attaccava liquefacendosi sul globo di vetro della
lampada.
L'oscurità dominava su Jvanowka, annullando nel buio le isbe. I due uomini camminavano
guardinghi affondando fino al ginocchio nella neve, ogni tanto la fioca luce del lanternino faceva
intravvedere i contorni di un' isba; allora entravano e in ognuna appariva un unico spettacolo di
abbandono: paglia sparsa, panche rovesciate, scatolette vuote, vecchie lettere disperse che il vento
muoveva sul pavimento entrando dalle porte scardinate e dalle finestre senza vetri.
Era una visione desolante: dovunque tracce del povero vivere dei soldati sospinti via all'improvviso
dalla furia della guerra; rimanevano quelle misere cose, quei caricatori senza pallottole, quelle
scarpacce sgangherate che sarebbero marcite a poco a poco dopo aver coperto per lungo tempo,
chissà per quali strade, un piede enfiato dal cammino e illividito dal freddo.
Quanto più i due ufficiali gettavano lo sguardo, passando da isba a isba, su quei residui di grama
vita, tanto meglio si precisavano le tinte della tragedia che era passata su Jvanowka. Sempre più
agghiacciante era l'impressione, nel frugare tra quei relitti, di stare profanando miserrimi sepolcri
scoperchiati. A fianco dei due giovani, innumerevoli spettri di soldati in grigioverde cominciarono
allora a marciare con terrificante lentezza; tacite legioni in una parata allucinante vagavano nel buio
dinanzi agli occhi stanchi dei due uomini: poiché questo era il significato estremo delle cose rimaste
ad Jvanowka.
— Italo — disse improvvisamente Reitani arrestandosi e accennando al chiarore che trapelava da
un' isba — non dovrebbe esserci quella luce: non abbiamo occupato questa parte del paese, qui non
esistono soldati nostri.
S'avvicinarono alla capanna, s'accostarono alla finestra illuminata ma non riuscirono a vedere
nell'interno. Sospinsero lentamente la porta, entrarono nel piccolo vano che spesso nelle isbe serve
da vestibolo. Reitani impugnò la rivoltella, Serri socchiuse con cautela la seconda porta; dallo
spiraglio intravide nella stanza molti uomini seduti a vari tavoli.
— Soldati in divisa italiana — sussurrò all'orecchio del capitano.
— Sicuro? — chiese Reitani.
— Almeno mi sembra.
— Cosa fanno?
— Niente. Entriamo?
— Entriamo — rispose Reitani.
Serri sospinse la porta, il capitano con uno strattone lo trattenne per un braccio e rapidamente gli
passò innanzi entrando per primo nella stanza.
All'improvviso apparire dei due ufficiali non successe assolutamente nulla, nemmeno uno dei
presenti accennò a volgere il capo. Il capitano e il medico si scambiarono una svelta occhiata e si
guardarono intorno.
Era una stanza fumosa, abbastanza vasta, stipata di tavoli, sedie e uomini. Due o tre scatolette di
pomata anticongelante su cui galleggiava uno stoppino acceso appestavano l'aria e diffondevano un
fumigante chiarore, in lotta con le ombre intanate negli angoli, alle pareti e sul soffitto. Una
quarantina d'uomini sedevano ai tavoli poggiando sui gomiti, e con la testa fra le mani, o col viso
sul legno, o addirittura stavano accucciati per terra o sdraiati sotto i tavoli e le panche.
I due ufficiali si accostarono all'uomo più vicino, che seduto a un tavolo guardava con fissità
dinanzi a sé.
— Chi siete? — gli domandò Reitani ponendoglisi a fianco. L'uomo girò con lentezza il capo,
guardò in viso l'ufficiale e gli tenne lo sguardo addosso come se non avesse inteso.
— Di che reparto siete? — chiese ancora Reitani. L'uomo continuò a guardarlo.
— Sei muto? — disse a voce alta l'ufficiale, contrariato. Quello distolse senza fretta lo sguardo dal
volto del capitano. Serri si chinò a un secondo soldato, gli poggiò una mano sulla spalla e chiese: —
Di che reggimento sei?
L'uomo levò il volto e guardò il medico, un'ombra fuggevole di sorriso gli sfiorò i lineamenti,
abbandonò la testa all'indietro come svenisse, si accasciò sulla sedia e riaprì gli occhi tenendoli fissi
al lucignolo che scoppiettava sul tavolo. Sullo stesso tavolo il medico notò la mano di un altro
soldato, fasciata da un lurido straccio da cui colavano stille di sangue. S'avvicinò, sollevò
l'avambraccio del soldato, svolse il panno e vide una ferita larga, dai margini bluastri, appiccicosi
per un putrido umore. Il soldato trasse a sé il braccio.
— Sono un medico, ti curerò — gli disse Serri sostenendogli il polso. Al nuovo contatto l'uomo
diede uno strattone e con volto indifferente infilò la mano ferita e nuda nella tasca della giubba.
— Ma insomma, siete italiani o cosa siete? — gridò impaziente a quel punto Reitani, rivolto a due
soldati che ascoltavano le sue domande senza rispondere.
Al grido rispose un gemito lungo ma tranquillo, come di persona stanca di soffrire.
Gli ufficiali scavalcarono alcuni uomini a terra e s'avvicinarono a colui che aveva dato segno di
vita.
— Mi vuoi dire chi siete? — gli ripeterono due o tre volte gli ufficiali.
Infine le labbra dell'uomo accennarono a muoversi e una voce fioca mormorò: — Prigionieri...
russi.
— Come? — esclamarono contemporaneamente gli ufficiali. L'uomo li guardò con occhi smarriti e
disse con maggior stento: — Prigionieri... russi — C'è un ufficiale, qui? — gli chiese Serri.
Il soldato rimase perplesso, si guardò attorno, infine con un movimento del capo accennò a un
angolo della stanza.
Nell'angolo giaceva un uomo a terra, col viso riverso sul pavimento.
— È un maresciallo — disse Reitani notando i gradi. Lo rovesciarono a faccia in su, lo chiamarono,
lo scossero ripetutamente, ma quello non diede segno d'intendere.
— Questo è morto — esclamò sconsolato Reitani.
— No — disse Serri — dorme.
Mentre nessuno lo toccava, il maresciallo diede all'improvviso un sussulto e aprì gli occhi
sbarrandoli con un'espressione angosciata.
— Mamma... — biascicò vedendo i due sconosciuti chini su di lui; e con un rapido moto portò la
mano alla fondina della pistola. Serri, più vicino, gli bloccò la mano e s'avvide che la custodia era
vuota.
— Non preoccuparti — gli disse sollevandogli la mano e stringendogliela fra le sue — siamo
italiani.
Il maresciallo li fissò in viso e sui lineamenti del volto passò dapprima una lunga traccia
d'incredulità, poi una fugace luminosità di speranza; infine tutto si spianò lentamente, con lievi
tremiti nervosi, e sul volto dell'uomo calò l'inerte maschera degli altri. Aveva provato a sollevarsi,
ma s'era abbandonato di nuovo sul pavimento.
— Puoi parlare, maresciallo? — chiese Serri.
— Sì — accennò quello col capo.
— Di che reparto siete?
In risposta, riecheggiando disperse lontananze d'orrore, rauca d'angoscia e d'allucinazione, una
spaventevole voce mormorò: — Cosseria.
— Siete soli, qui? — chiese Reitani.
— No. Ci sono i russi — rispose il maresciallo.
— Non è vero, non ci sono — affermò con decisione il capitano.
— Ci sono — disse stancamente il maresciallo. — Vanno e vengono. Saranno qui anche adesso... ci
portano via...
— Puoi fare uno sforzo e raccontarci per bene quello che è successo? — domandò Serri. — È
importante. Mettiti a sedere, ti aiutiamo.
— Combattimenti continui per due giorni — cominciò a dire con grande stento il maresciallo,
seduto a terra, appoggiandosi alle braccia dei due ufficiali che non perdevano un movimento delle
labbra livide — combattimenti continui. Noi sul Don e i russi che vogliono venire nei nostri rifugi.
Abbiamo combattuto da disperati sul Don, ma sapevamo che nelle retrovie nostre c'erano i carri
russi...
Ansimava, sudava; si passò una mano sulla fronte e sugli occhi.
— E poi? — lo incitò Reitani.
— Non avevamo più munizioni, i russi hanno attaccato anche di fronte, sono passati di qua dal Don,
nelle nostre linee. Chi si è salvato è qui. — E si guardò intorno.
— Neppure un ufficiale si è salvato, del vostro battaglione? — domandò il capitano.
— Allora sì, tre. Adesso no, tutti morti. Vi racconto... Faticava a parlare, fu costretto a una pausa.
— In quanti siete venuti qui, dalla linea? — chiese Reitani.
— In duecento. Gli altri del battaglione tutti morti. Tre ufficiali vivi con noi. L'altro giorno...
— L'altro giorno c'erano soldati di altri reparti qui a Jvanowka, oltre i vostri duecento?
— Sì, pochi, di reparti distrutti in linea.
— L'altro giorno, dicevi...
— Sono venuti qui i russi, con i carri armati. Fanno puntate di carri, con le truppe sul tetto.
Quaranta carri, non avevamo una pallottola per il fucile... — si coprì il viso con le mani, scosso da
un tremito incoercibile.
— E poi? — incalzò Reitani — sai, è necessario che sappiamo, per regolarci su cosa dobbiamo fare.
— Non c'è più niente da fare — disse il maresciallo. — Sono stato un buon soldato, vi dico che non
resta più niente da fare.
— Faremo qualcosa per voi, se possiamo. Raccontaci — disse Serri.
— Hanno occupato il paese, siamo stati fatti prigionieri. Ci hanno portato via tutti.
— E voi?
— Noi abbiamo dovuto andare coi russi, noi a piedi e loro sui carri che circondavano i prigionieri.
Quando qualcuno di noi non correva abbastanza o cadeva...
— Dove vi hanno portato?
— Verso il Don. Ma ieri notte sono riuscito a scappare con gli uomini che sono qui dentro. Ma è
stato inutile.
— Perché inutile?
— Moriremo tutti, anche voi... Vengono a Jvanowka ogni qualche ora. Quando siete arrivati voi,
oggi, se n'erano andati da mezz'ora, trenta carri armati.
— Ci avete visti arrivare? — chiese Reitani sorpreso. — Perché non vi siete fatti vivi?
— Credevamo che foste russi.
— Se non perdevamo tempo a Krinitzschnaja — disse il capitano a Serri — qui trovavamo i russi
ad accoglierci...
— Sai con che carri vengono? — chiese Serri al maresciallo.
— I soliti «T 34». — Si portò una mano alla gola e sembrò sul punto di perdere i sensi.
— Bisogna cercare di portare indietro questi soldati, Ugo — disse Serri; — non si può lasciarli qui
in queste condizioni. Vogliamo tentare con un autocarro...?
— Sto appunto pensandolo — rispose Reitani. E al maresciallo, che aveva riaperto gli occhi: —
Cosa pensate di fare, voi?
— Non si può fare più niente — rispose l'uomo con voce rotta. — Guardatevi in giro... — E con la
mano tremante indicava i compagni.
Il chiarore rossigno batteva sui volti scavati, dalle lunghe barbe, e scendeva al grigioverde delle
giubbe lacere disperdendosi poi nella stanza fra l'ombre della zona più bassa, ove i corpi
s'accatastavano sul pavimento.
— Da quanto non mangiate?
— Non so, non so più... — E senza un movimento o un gemito il sottufficiale a quel punto svenne,
rimanendo addossato ad un altro soldato che non dava segno di vita.
Di buon passo arrancando sulla neve, i due ufficiali si recarono dal maggiore Amerri, ottennero che
un autocarro caricasse quegli uomini estenuati e tentasse di portarli a Mitrofanowka. Seppero che
era arrivato un reparto sciatori del famoso battaglione d'alpini Monte Cervino, che insieme con i
valorosissimi uomini del battaglione L'Aquila e a elementi di un'altra batteria, la trentaquattro, tutti
della Julia, completava il reparto di pronto intervento.
Anche un centinaio di tedeschi, residuo di un grosso reparto sbaragliato, erano giunti a Jvanowka.
Li comandava un colonnello che, secondo gli ordini, aveva preso il comando dello sparuto gruppo
italo-tedesco.
— Hanno qualche automezzo, una «katiuscia» con poche munizioni e due carri armati.
— Meno male — esclamò Reitani.
— Non farti illusioni, — disse il maggiore — un carro è giunto rimorchiato dall'altro perché è
guasto, e tutt'e due sono senza munizioni. Per ora non c'è niente da fare, se non stare in guardia;
domattina vedremo. Vi consiglio di tornare in batteria, vi aspetta una sorpresa. Riposate un poco,
perché domani sarà giornata decisiva.
— È il terzo giorno che passiamo senza mangiare — diceva poco dopo Reitani camminando e
rabbrividendo nel buio, — come ti senti, Italo?
— Credo che il mio stomaco si sia agganciato a una vertebra lombare. Sta lì, per intanto.
— Speriamo che Sorgato e Covre abbiano fatto sgelare la nostra mezza pagnotta, andrebbe bene
prima di addormentarci.
Entrando nell'isba ebbero l'impressione di trovarsi in un ambiente tiepido, tanto era il gelo esterno.
In un angolo della stanza scorsero subito un mucchio di paglia asciutta su cui si lasciarono cadere
con esclamazioni di gioia.
— Bravi, ragazzi! — dissero agli attendenti che sbirciavano gli ufficiali con aria sorniona.
— Non è tutto — disse Covre con un mezzo sorriso.
— Avete scaldato il pane? — chiese Serri.
— Qualcosa di più... — cominciò a dire Sorgato, e sollevando da terra un sacco vuoto scoprì due
pani, alcune scatolette di sardine e una gavetta colma di vino.
— Chi ha trovato questa roba? — chiese Reitani elettrizzato, rizzandosi a sedere sulla paglia.
— Quel matto di Scudrèra, signor capitano. Ha detto che voleva andare nella chiesa del paese per
recitarsi le preghiere dei morti ed è tornato gridando come un indemoniato perché nella chiesa
aveva scoperto un deposito di viveri. Questa è la vostra razione. Abbiamo mangiato in duecento e
abbiamo sfamato anche i tedeschi. E pensare che non volevamo toccare niente nella chiesa, s'era
sparsa la voce che era roba avvelenata...
— E allora? — chiese Serri.
— Allora Scudrèra ha detto che si sacrificava per tutti e faceva la prova. E si è attaccato a una
damigiana di vino.
— Cosa gli è successo? — domandò il capitano ridendo.
— Quando prendeva fiato tra una bevuta e l'altra faceva una faccia indecisa, quel manigoldo; noi lo
guardavamo preoccupati e lui diceva di non capire bene e si riattaccava alla damigiana. Ha finito
con non saperci dire niente, perché si è ubriacato come un maiale: diceva di bere vino e invece era
cognac, signor capitano.
— Date qualcosa da mangiare anche a noi, subito — esclamarono i due ufficiali ridendo; — sono
già le undici di notte.
— Subito, vi facciamo due panini superbi — dissero gli attendenti accostandosi a un tavolo per
aprire le scatolette e tagliare il pane.
Quando si voltarono e s'accostarono alla paglia con i panini, i due ufficiali giacevano immobili uno
accanto all'altro ad occhi chiusi.
— I panini — disse Sorgato.
— La cena, signor tenente — disse Covre; e quando s'avvide che il medico non rispondeva, si chinò
e gli scosse un piede, ripetendo poi il gesto su Reitani.
— Sono andati — disse interdetto.
Con i panini in mano, i due attendenti inginocchiati sulla paglia si consultarono con lo sguardo.
— Li svegliamo? — domandò a voce bassa Sorgato.
— Io li lascerei dormire, poveretti — disse Covre; — loro non dormono da quando siamo partiti dai
rifugi, lo sai.
— E la cena?
— Mangeranno domattina quando si sveglieranno.
— Se si sveglieranno... — brontolò Sorgato fra i denti guardando gli ufficiali distesi.
— Cos'hai detto? — fece l'altro cambiando espressione.
— Niente.
— Ti ho sentito, sai. Vuoi ripetere?
— Lo so io cosa ho detto — disse Sorgato alzandosi. — Cose mie, non ti riguardano. Chiudi la
porta piuttosto, e mettiamole contro il tavolo: non mi piace il vento di questa notte.
— Si può sapere cos'hai? — disse Covre scrutando l'amico con occhi allarmati.
Sorgato andò alla finestra, fissò lo sguardo fuori dal vetro, si rigirò, osservò i due ufficiali come ad
assicurarsi che dormissero e poi, poggiate affettuosamente le mani sulle spalle di Covre disse: —
Quanti figli hai?
— Due — rispose l'altro dilatando gli occhi; — perché?
— Io ne ho cinque, lo sai; ho fatto sei anni di guerra, sono il più anziano della batteria, il capitano
aveva deciso che restassi nei rifugi a Kuwschin, ma io ho voluto venire con lui e con voi, perché in
sei anni di guerra non mi sono mai tirato indietro, Dio santo. Non sono un vigliacco, voglio dire.
Però sta' attento a quello che ti dico: adesso andiamo a dormire anche noi, ma prima di
addormentarti ricordati di pregare un poco la Madonna per i tuoi figli e per le, ecco.
— Perché! Cosa pensi che succeda questa notte? — chiese l'altro con ansia.
— Stanotte? Forse niente. Faccio così per dire, per stare un poco allegri... Ora sdraiamoci, che
spengo il lume. Se per caso senti il più piccolo rumore svegliami subito, capisci?
Covre grugnì qualcosa, poi i due si accostarono agli ufficiali e li guardarono dormire.
— Mi ghe metterìa una man, par portarli fora da 'sto maledètopaese, poarèti... — disse Covre.
— Invèse, o i xe lóro a portar fora ti, o nessun altro al mondo — soggiunse l'anziano.
Si stesero sulla paglia accanto ai loro ufficiali, dopo averli ricoperti con un telo. Sorgato soffiò sul
lume e subito si disegnò nel buio il riquadro luminoso della finestrella, poiché fuori la luna s'era
fatta largo fra le nubi.
Guardarono il chiarore in silenzio e a lungo, poi Covre mormorò: — Sorgato...
— Cosa ghe xe?
— Come el se ciama 'sto schifoso d'un paese!
— El se ciama... — cominciò Sorgato incerto, accostando invano strane sillabe nella memoria. —
Adesso go sonno, non me ricordo... te lo farò dire domàn dal capitano...
Qui ogni voce tacque. Ma dentro il cervello dell'anziano alpino un cattivo spirito completò il
pensiero e concluse: —...in Paradiso.
Poi anche Sorgato brontolone e senza sonno chiuse gli occhi, perché gli pareva che, dall'esterna luce
di luna, cinque teste di bimbo s'affacciassero alla finestrella.
— Aprite! aprite subito, presto! — urlò una voce imperiosa; e sotto l'impeto di una spallata la porta
dell'isba si spalancò facendo rotolare il tavolo in mezzo alla stanza.
— Cosa c'è? — gridò il capitano Reitani svegliandosi di soprassalto e destando Serri con uno
scrollone.
— I russi, signor capitano! Una nostra pattuglia s'è scontrata con una pattuglia russa e ha avvistato
un reparto russo che avanza — disse d'un fiato il sergente Bon, ancora ansante.
— Da che parte? — domandò già calmo Reitani, che era balzato in piedi e stava accendendo la
lampada.
— Dal Don. Il maggiore Amerri manda a dire d'andare subito da lui — rispose Bon.
— Vengo. Italo — disse il capitano a Serri — Tu va' da Perbellini e Dell'Alpe e di' che tengano
pronti i muli per spostare i pezzi e le munizioni, dobbiamo modificare lo schieramento.
— E noi? — chiesero gli attendenti.
— Restate qui e tenetevi pronti. Che ore sono, Italo?
- Quasi le quattro.
— Se vorranno venire, i russi attaccheranno con la prima luce; abbiamo un po' di tempo, forse.
Sulla neve si separarono, Serri andò verso i pezzi. La luna era scomparsa, la notte era ancora buia e
il gelo graffiava la pelle con minutissimi artigli.
Mentre l'ufficiale camminava, una subitanea e gigantesca striscia di fuoco sgorgò dalla neve a
duecento metri da lui e un bagliore rossastro solcò quasi orizzontalmente il cielo perdendosi verso il
Don, seguito da un rumore inimmaginabile. L'ufficiale sostò un attimo, interdetto, e il rumore e la
corsa del fuoco attraverso il cielo si ripeterono. Allora comprese.
— È la «katiuscia» tedesca che è entrata in azione — si disse riprendendo il cammino; — deve
essere orribile trovarsi di fronte ad un'arma simile. — Ma già sapeva che quella che stava sparando
aveva a disposizione soltanto una decina di colpi.
Nelle isbe accanto ai pezzi gli uomini della tredici attendevano ordini.
Dell'Alpe e Perbellini avevano già fatto bardare i muli, fecero caricare una parte delle munizioni
sulle quattro slitte. Giunse Reitani con uno schizzo della posizione.
— Il tempo stringe — disse agli ufficiali, — i russi s'apprestano ad avanzare venendo dal Don. Si
vanno schierando in modo da far prevedere un'azione convergente su Jvanowka: pare che si
accingano a conquistare il paese per dominare la strada verso Mitrofanowka e Rossosch. Dobbiamo
sostenere l'urto frontale che viene dal Don; anche se non conosciamo la situazione che abbiamo alle
spalle, è dal Don che per ora giunge il pericolo immediato. Il colonnello germanico che ha preso il
comando delle truppe presenti a Jvanowka ha ordinato che gli autisti e gli eventuali feriti o
congelati che Serri designerà arretrino di un chilometro lungo la strada dalla quale siamo venuti,
con gli autocarri carichi di ogni materiale che non siano armi e munizioni: i materiali e gli autocarri
sono preziosi, bisogna che la loro sorte immediata sia scissa da quella di Jvanowka.
— Dalla nostra — interruppe deciso Dell'Alpe.
— Dalla nostra — confermò senza esitazione il capitano. E proseguì: — Ordini: mentre si caricano
gli autocarri, farne avanzare uno fino qui, caricare due pezzi e relative munizioni, inoltrarlo per
cinquecento metri lungo la pista verso il Don e scaricarlo; quando sarà di ritorno, tutti gli autocarri
partiranno assieme agli automezzi tedeschi. Resteremo solamente noi e le armi. Chiaro? Avvertite di
ciò tutti gli uomini. Ciascuno è in diritto di sapere che questa è la giornata conclusiva.
Non dissero nulla gli uomini, quando conobbero la situazione e gli ordini.
Parevano soltanto un poco stanchi mentre affastellavano i materiali da caricare.
Ma tutti levarono il naso nell'aria fredda e tesero l'orecchio allorché udirono un rombo di motori che
s'allontanava nel buio in direzione di Mitrofanowka.
— Cosa succede? — scattò Reitani.
— Gli autisti... — riferirono quasi subito Scudrèra e Pilòn giungendo ansanti — gli autisti sono
scappati con gli autocarri... È rimasto questo, perché la sua macchina non ha voluto partire... — e
sospingevano verso il capitano un autista spaurito.
— Cosa è successo? — gli chiese gelidamente Reitani.
— Io non volevo, signor capitano... — rispose l'uomo tremando. — Sono stati gli altri... Questa
notte dicevano che non dovevamo morire qui... Che noi eravamo dell'autocentro, che avevamo già
fatto il nostro servizio e che... e che avevamo il diritto di tornare indietro...
— Dove? — domandò il capitano.
— A Mitrofanowka, finché c'era la speranza di trovare strada libera...
— I tedeschi hanno riferito che a metà percorso i russi già premono sulla strada — disse Reitani; —
un reparto armato può forse aprirsi un varco, una colonna d'autocarri non si salva. — E ordinò: —
Caricare sulle slitte le munizioni, trainare i pezzi.
Con le piccole slitte in una serie di viaggi i muli trascinarono l'armamento della tredici verso il Don.
Fronte al fiume, che distava vari chilometri, nel primo albeggiare si delineava lo schieramento italo-
tedesco a difesa di Jvanowka. Consisteva in una rada unica riga di circa trecento uomini distesi sulla
neve, disposti ad arco a circa seicento metri oltre l'abitato. Lungo l'immaginaria corda sottesa
all'arco, erano stati collocati i piccoli cannoni da montagna della tredici e della trentaquattro; poco
addietro la «katiuscia» con la sua decina di colpi. Nulla più.
L'arco umano, avendo un combattente ogni cinque metri, si stendeva per una lunghezza di un paio
di chilometri. Sotto una insostenibile pressione nemica gli uomini avrebbero gradualmente arretrato
restringendo lo schieramento, fino a fare scudo e chiudersi in cerchio attorno ai cannoni, per passare
infine sul posto all'uso dell'arma bianca; nessun'altra alternativa, questi erano gli ordini. I fianchi di
tale schieramento, come le spalle, già all'inizio erano alla completa mercé d'ogni iniziativa russa.
Il nemico tuttavia cominciò ad avanzare guardingo, lentissimo, parve voler distendersi di preferenza
in un più vasto raggio, abbracciando il paese da lontano. Non sparava; affidò solamente al gelo il
compito del primo attacco contro l'arco d'uomini immobilizzati ventre a terra sulla neve.
Solo dopo un'ora di attesa un sibilo fischiò nell'aria e una granata di medio calibro scoppiò
sull'abitato di Jvanowka.
— Serventi ai pezzi — disse Reitani.
Attorno ai cannoni era stato trattenuto un minimo di serventi; gli altri artiglieri, imbracciato il
fucile, s'erano stesi nell'esile arco inframezzati agli alpini.
Una batteria russa aprì il fuoco sul paese aggiustando il tiro. Una seconda batteria, tre chilometri a
lato, iniziò il tiro di inquadramento. La tredici aprì il fuoco su questa, che era ben visibile sulla
neve; le fanterie russe cominciarono ad affacciarsi su un costone antistante all'arco difensivo, alcune
loro mitragliatrici iniziarono a cantare nell'aria tersa, gli alpini controbatterono con le armi
automatiche, un plotone dovette rispondere a fucilate a un reparto russo che tentava di farsi sotto. In
breve il combattimento salì a toni alti, ben presto il paese fu preso di mira da numerose batterie
nemiche mentre i reparti russi si avvicendavano all'attacco. Le isbe cominciarono a bruciare, la neve
zampillava in sempre nuove fontane lasciando sul terreno il nero dei crateri scavati dalle granate.
I russi iniziarono a tirare sulla tredici con le granate a «shrapnels», Reitani rispose sparando a zero
sui reparti che premevano sulla filiforme linea degli alpini. Già la pianura formicolava di forze
russe, si distinguevano le schiere, i carriaggi e le slitte che avanzavano lentamente sulla neve fonda
girando al largo d'Jvanowka, mentre questa era stretta sempre più da vicino dai russi, tenuti a bada
da quel filo di alpini e dai pezzi della trentaquattro e della tredici. Ad ogni salva di batteria che
colpiva nel pieno dei battaglioni compatti, i russi desistevano dall'attacco concedendo tregua ai
difensori, ma riprendevano slancio più tardi ritornando all'assalto.
— Non passano! Non passano! — gridavano presso i pezzi gli artiglieri eccitati.
Ma era chiaro invece, al solo guardare le enormi forze che di lontano progredivano sulla pianura,
che in condizioni simili la resistenza non poteva durare. Per quanto Reitani misurasse con scrupolo
la cadenza di fuoco, le cassette di munizioni andavano svuotandosi rapidamente; e gli uomini sulla
neve, pressati dall'incalzare dei russi, in più punti avevano dovuto retrocedere avvicinandosi ai
pezzi. La resistenza e l'offesa infuriavano sulla piana bianca.
— Alla baionetta! Ormai vengono! — s'udiva gridare a tratti, e ondate di spasimo s'abbattevano sui
difensori che guardavano verso l'ufficiale pronti allo scatto estremo.
— Nervi a posto! Aspettate gli ordini! — rispondevano seccamente gli ufficiali intenti a vigilare
ogni mossa del nemico. E i reparti incalzanti s'arrestavano e ripiegavano sotto l'abbaiare ardente
delle granate sparate a zero, sotto il morsicare rabbioso dei fucili di quei disperati che inseguivano
gli attaccanti in ripiegamento riguadagnando qualche metro di neve, per retrocedere poi alla
pressione successiva. Il filo d'uomini si muoveva, s'articolava, si torceva sulla neve senza ancora
spezzarsi.
— Dimmi se è giusto che uomini simili non debbano arrivare a sera. Tengono testa a forze venti
volte superiori! — diceva con amarezza Reitani a Serri volgendo poi lo sguardo ai lontani spazi ove
il grosso dei russi avanzava in tranquilla manovra aggirante.
— Mi pare che quelli siano quasi all'altezza di Jvanowka — osservò Serri; — non puoi attardarti
con tiri di disturbo?
— Non ho munizioni, devo serbarle per la difesa vicina... — rispose il capitano mordendosi le
labbra. E ricomponendosi: — molti feriti?
— No; e leggeri per fortuna. Pochi anche i congelati, ma temo che siano molti gli assiderati fra gli
uomini, là... — e indicava l'arco vivo.
— I soldati sono immobili sulla neve da cinque ore... „ — Per quanto tempo potremo resistere
ancora? a — Forse per qualche ora, Italo. Ho il rimorso d'averti condotto qui, non era indispensabile
che tu venissi.
— Ho voluto venire io.
Alle undici sopraggiunsero tre aerei da bombardamento tedeschi, sollevando l'entusiasmo dei
soldati; ma, sorvolata la zona sganciarono varie bombe su Jvanowka e se ne andarono.
— È finita per noi... — dissero allora i combattenti che fino a quel punto avevano tacitamente
sperato in un provvidenziale arrivo di rincalzi. — Siamo abbandonati, non sanno neppure più dove
siamo...
Sul finire della mattinata i russi mutarono tattica: cessarono di lanciare reparti compatti e
mandarono innanzi piccole pattuglie striscianti sulla neve, sempre più numerose, tentando di
insinuarsi gradualmente nello schieramento degli alpini; contemporaneamente sulla vasta pianura il
moto d'accerchiamento venne sospeso.
— Non riescono a sfondare! Si fermano! — esclamavano i soldati esultanti.
— È mezzogiorno, si fermano a mangiare — commentava ironico il sergente Sguario, capo-pezzo
del quarto pezzo.
— Vogliono ridurre le perdite e se la prendono più comoda per stancarci; probabilmente
sopravvalutano l'entità delle nostre forze — disse il maggiore Amerri; — forse attendono
l'imbrunire per l'attacco decisivo.
Essendo pressoché cessato l'urto delle fanterie, l'artiglieria russa infieriva ora con maggiore furia
sottoponendo il paese a un martellamento continuo. Una slitta e un mulo presso un pezzo saltarono
in aria.
— Guarda Scudrèra — disse il capitano a Serri indicando il conducente che metteva al riparo il suo
mulo dietro una pila di cassette di granate. Scudrèra aveva passato un braccio attorno al collo del
mulo e col viso appoggiato al muso gli andava carezzando la mascella.
— Non aver paura — gli diceva lisciandogli il pelo — ci sono sempre qua io, il tuo padrone non si
dimentica di te, sta' sicuro: piuttosto che lasciarti fare prigioniero ti sparo una fucilata in un
orecchio. Va bene? — gli domandava infine sorridendo e tirandogli l'orecchia; e poiché gli era così
vicino, affettuosamente gliela baciava, senza esitazione e senza pudore.
— Non ti vergogni Scudrèra, sporcaccione? — gli disse Serri celando sotto un sorriso una
incomprimibile commozione.
— Ormai no, signor tenente — rispose Scudrèra con grande serietà. — Si può fare tutto quello che
si vuole senza vergognarsi, ormai. È l'unica soddisfazione che ci resta, in questo porco mondo.
E si guardava intorno.
Due ufficiali avanzarono sulla neve avvicinandosi al gruppetto.
— Gianfranco! Sei qui anche tu? Cosa fai qui? — gridò Serri correndo incontro al tenente Di Nemi,
che avendo esaurito il suo compito il giorno innanzi a Mitrofanowka, non avrebbe dovuto trovarsi a
Jvanowka.
— Sai — rispose Di Nemi, schivo — ho pensato che uno di più non guasta.
L'altro ufficiale era padre Leone, il cappellano del battaglione Monte Cervino, gran barba e gran
cuore in piccolo corpo. I tre ufficiali erano fermi sulla neve, discosti dagli altri uomini. Uno sguardo
reciproco corse fra i loro occhi, sottolineando un denso silenzio.
— Questa è la volta buona, a quanto pare, Italo — disse il tenente Di Nemi.
— Già — disse Serri.
Nuovo più lungo silenzio. Altre parole non volevano venire.
Il cappellano prese a braccetto i due ufficiali.
— Ragazzi — mormorò — non è il momento di farvi discorsi. Ditemi: siete in pace con Dio?
— Be'...
— Se mi dite che vi fa piacere, vi do l'assoluzione.
— Confessarci così, in questo momento...?
— Non occorre. Basta che chiediate misericordia a Dio e gli offriate la vostra vita... così com'è.
Gli occhi dei due ufficiali risposero.
Congiunse le mani, il cappellano, mormorò una preghiera, sfilò il guanto destro.
Sembrò distrarsi, guardava intorno sulla neve gli artiglieri affaccendati ai cannoni, e più avanti gli
alpini sdraiati nel bianco.
— Ormai credo di poterlo fare — disse, quasi parlando a se stesso; — la penitenza la stanno già
facendo da un pezzo, mi pare. — E fissando i due ufficiali: — Io vi assolvo; io li assolvo tutti. —
Levò la mano nuda sulla distesa bianca.
Era una mano diafana, esangue, di frate, adusata al breviario e al messale, a innalzar l'Ostia, a
spargere carità dove toccava; e Dio solo già sapeva che di li a pochi mesi, nell'orrore della prigionia,
padre Leone, distrutto dalle cancrene dei congelamenti, moribondo in tutto ma non nello spirito, si
sarebbe trascinato fino al suo ultimo respiro da morente a morente, ad alzare su di essi giacenti
quella mano ormai putrida e sfatta fino all'ossa, gocciolante di pus nel benedire.
Padre Leone levò la mano nuda sulla distesa bianca, e guardando il cielo la calò lentamente nel
segno della croce.
— In nomine Patris... et Filii...
Tacque a lungo, assorto. Poi all'improvviso, come cambiando umore, esclamò quasi allegro: — In
gamba, ragazzi. Tanto, in un modo o in un altro, deve toccare a tutti...
Quia pulvis es... Te lo ricordi ancora il latino, dottore?
— Giacché sei polvere... — mormorò Serri.
— Senti senti i signóri uficiàli che i pàrla latìn anca a Jvanòwka!Era la voce del conducente Pilòn,
che stava passando accanto con un telo da basto caricato sulle spalle. Continuò: — El bèlo xe che
'sto latìn lo so anca mi, el xe el latìn de me nòno, el lo dixèva sempre, poarèto, quando me nòna ghe
scondèva el tabàco! Vole' sentirlo? — Cambiò spalla al telo da basto, e recitò: — Me meto omo, chi
pulvisè et in pulvere redeventàrì.(Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris.)
— Padre, perdona loro... — disse ridendo il cappellano, aprendo le braccia e levando gli occhi al
cielo.
— Ah, sì...? «Perché no i sa quél che si fanno»! Crèdelo che non lo savèmo, padre? Crèdelo che i
conducènti de mulo no i capìssa el sugo de i vostri discorsi, e cosa che bòle in péntola? E invece, ve
la digo mi la conclusiòn de le conclusiòn, in bròdo ristreto: dème reta a mi, i russi no i ne cùca
gnànca 'stavòlta, paròla de Pilón. — Tacque un attimo, scrollò le spalle. — Ma qua se ciàcola, e la
Nèna ga frèdo, pòra cagna anca èla.
Strizzò un occhio, in quel suo faccione tondo, a salutare tutti; e s'affrettò verso la mula del suo
cuore.
Un fumo nero s'addensava sul paese; per tre volte Serri dovette mutare sede al posto di medicazione
incendiato dalle granate. I feriti non erano molti, ma parecchi i morti: giacevano riversi sulla neve
facendo compagnia agli assiderati che, sembrando combattenti appostati in riga con gli altri,
andavano invece silenziosamente morendo senza saperlo.
Alle tredici il colonnello tedesco disse ad Amerri: — È inutile sacrificare altri uomini per rimanere
in una posizione insostenibile. Vi comunico che le mie truppe lasceranno la linea fra dieci minuti, le
farò arretrare a un chilometro dietro il paese, presso i nostri automezzi, iniziando così lo
sganciamento. Ho già trasmesso l'ordine, bisogna attuarlo finché si è in tempo.
— E le truppe italiane? — disse Amerri.
— Lascio a voi decidere.
— Restiamo sul posto, questo è stato l'ordine ricevuto in partenza — decise il maggiore dopo breve
riflessione. — Vi segnalo però che sguarnite la linea all'improvviso e ponete in crisi la resistenza.
— Vi ho lasciato libertà di scelta.
— Restiamo.
Sfruttando alcune anfrattuosità del terreno le truppe tedesche abbandonarono gradatamente il loro
tratto di linea, man mano rimpiazzate dagli italiani; ma la linea risultò tale che fra un uomo e l'altro
esistevano ora intervalli di venti metri.
I russi s'avvidero del movimento e i loro uomini strisciarono innanzi con maggiore impegno;
guadagnarono terreno palmo a palmo, e in vari punti gli alpini furono costretti a ripiegare, l'ampio
arco s'era già flesso e s'avvicinava ai cannoni.
— I feriti? — domandò Reitani a Serri vedendolo sopraggiungere ai pezzi.
— Li ho affidati in consegna ai tedeschi, tentano di portarli indietro. ~ Il capitano strinse il braccio
del medico.
— Abbiamo quasi esaurito le munizioni — disse; e aggiunse, con una grande dolcezza nella voce:
— alle quindici cala il sole, avremo sì e no mezz'ora di vita.
Grandi urli giunsero a quel punto dal centro dello schieramento soverchiando il battere delle
mitragliatrici: un reparto russo aveva fatto irruzione sull'ultimo rilievo ov'erano abbrancati gli alpini
e li aveva sopraffatti costringendoli ad arretrare e scendere sulla perfetta pianura.
— Primo e quarto pezzo — gridò Reitani: — puntamento diretto sul costone!
In un baleno i due pezzi furono approssimativamente puntati, due granate esplosero sul costone.
— Vedi? — disse Reitani — siamo costretti ad adoperare i pezzi come fossero fucili. Fuoco! —
gridò. Due altre esplosioni avvamparono sul costone.
— Abbiamo ancora quattro cassette di munizioni — concluse — ma quello è l'unico punto su cui
posso sparare senza colpire i nostri soldati; i russi sono ormai troppo vicini, fra poco farò saltare i
pezzi e adopreremo anche noi i fucili.
Rapidamente l'ombra della sera s'addensò su Jvanowka e sorprese i difensori raggruppati a
cinquanta metri dai pezzi. Le alte grida dei russi, nettamente distinguibili fra il fragore delle
fucilate, si levavano nell'oscurità incipiente. Ombre d'uomini s'agitavano sulla neve, illuminate dalle
improvvise vampe delle esplosioni.
La mezz'ora pronosticata dal capitano era forse trascorsa, la tredici viveva ancora. Ma moriva.
— Addio, Italo — disse il capitano afferrando nel buio e stringendo con grandissima forza la mano
del medico. — Devo stare con tutti gli uomini, non potrò più parlarti. Saremo vicini, ma con questo
buio non ci vedremo più.
— Addio, Ugo — disse il medico — siamo stati fratelli.
— Noi crediamo in Dio, ci ritroveremo fra poco — disse fervidamente Reitani; e lasciata la mano si
rigirò di scatto e gridò nel buio: — tredici] Tutti gli uomini alla difesa dei pezzi!
Molti artiglieri risposero al richiamo del capitano, sbucando dall'oscurità attorniarono i pezzi.
— Italiani! Inastare la baionetta! — tuonò la voce del maggiore Ameni.
— Baionetta! Baionetta! — ripetè esaltata la voce di qualche ufficiale.
Si vedevano soltanto ombre, lo scontro all'arma bianca si sarebbe ormai svolto fra ombre: assurdo,
demoniaco.
— Maggiore Amerri! Dov'è il maggiore Amerri? — gridarono alcuni soldati.
— Che c'è? — urlò il maggiore colpito dal tono delle voci.
— Un portaordini tedesco vi cerca...
— Befehl... ordine... Befehl — disse decisamente un soldatino tedesco tendendo verso il maggiore
un foglietto e illuminandolo con una pila.
— Leggi anche tu — disse Amerri a Reitani; — la pila non fa luce e vedo male.
Lessero: — «Al maggiore Amerri. Impiego vostro reparto richiesto urgentemente altrove da
superiore Comando italiano. Ordino immediato ripiegamento ogni forza italiana a zona 1 Km ovest
paese: F.to: Il Comandante Forze italo-germaniche Jvanowka». Seguiva la firma del colonnello
tedesco che due ore prima aveva fatto arretrare il proprio reparto.
— Il messaggio trasmette una richiesta italiana, ora posso obbedire — disse Amerri — se ancora
riusciamo a sganciarci.
Nuovi ordini volarono nel buio ai soldati. Alcuni fucili mitragliatori rimasero in posto e alcuni
alpini cambiando continuamente sede mantennero nei russi l'impressione di una certa resistenza,
mentre il grosso del reparto approfittando dell'oscurità arretrava verso il paese.
— Ferma la tredici. — ordinò Reitani; — bisogna porre in salvo i pezzi e le munizioni!
Era una impresa disperata, con la linea difensiva ormai inesistente trasportare i cannoni sottraendoli
all'immediata vicinanza dei russi.
Impossibile caricarli sulle slitte, troppo piccole e deboli per reggerli.
Assurdo pensare di smontarli e farli portare a dorso di mulo; sulle tre slitte vennero rapidamente
affastellati munizioni e materiali. I conducenti con la breve colonna così formata inseguirono gli
alpini che avevano ormai raggiunto Jvanowka.
— Sbrigarsi! — gridò giungendo di corsa il tenente Dell'Alpe — sono l'ultimo, fra noi e i russi non
c'è più nessuno, tutti gli altri se ne sono già andati! — E poiché non si udivano spari imbracciò il
fucile mitragliatore e si mise a sparare all'impazzata in direzione dei russi.
— Tre muli ai pezzi! — ordinò Reitani.
Le bestie vennero agganciate ai tre pezzi e incitate a tirare. Affondando nella neve, inarcando le
schiene i poveri animali tentarono invano di smuovere il peso che li frenava. Sventagliate di
fucileria passavano sopra le teste degli artiglieri, a poche decine di metri si vedevano le vampe dei
fucili russi.
— I cannoni sono bloccati dal ghiaccio! — urlò il sergente Bartolan.
— I muli non riescono ad andare avanti, la neve è troppo alta! — gridarono i conducenti.
— Dieci uomini sparino col fucile verso le vampe, tutti gli altri spingano i pezzi! — ordinò Reitani.
E per primo si gettò a un cannone, puntando i piedi nella neve abbrancò i raggi d'una ruota tentando
di farla girare. Perbellini, Serri, Dell'Alpe fecero altrettanto, i capi-pezzo si slanciarono a sostenere
il vomere dei loro cannoni che affondava come un'ancora nella neve, altri artiglieri s'inarcarono a
ridosso degli affusti, degli scudi, dei mozzi, altri s'inginocchiarono a spalare con le grandi mani la
neve dinanzi alle ruote, i conducenti aizzarono a gran voce le bestie: le ruote si disancorarono dalla
morsa di ghiaccio, girarono nella neve fonda, e sotto le canne dei fucili russi gli ultimi della tredici
mossero sprofondando nell'oscurità.

5.
A un chilometro di distanza molte isbe di Jvanowka lasciata addietro bruciavano come torce nel
buio. In sosta, gli uomini di Reitani ansimavano e si asciugavano il sudore poiché la fatica di
trascinare i cannoni era stata enorme.
Il maggiore Amerri, su una motocicletta tedesca, attendeva sulla pista la tredici.
— I tedeschi sono già partiti — disse a Reitani; — devono tentare di ricongiungersi a un loro
reparto. Sai perché siamo ancora al mondo? Perché quelli all'ultimo momento sono riusciti a
riparare un apparecchio radio e a mettersi in comunicazione con un Comando, ricevendo per noi
l'ordine di ripiegare. Mi hanno assicurato che a qualche chilometro prima del paese di
Krinitzschnaja esiste una pista a mano destra, orientata a nord: la tredici dovrà infilare quella e
raggiungere un paese chiamato Novo Kalitwa. È sul Don.
Là metterai in posizione i pezzi. Hai capito?
— Sta bene. E voi? — chiese Reitani.
— Noi invece dovremo deviare a sud, verso Seleny-Jar e Dereso watka — rispose Amerri — in
appoggio a L'Aquila. Ho già mandato avanti gli uomini, ora li raggiungerò. Bisogna che vi
affrettiate anche voi, poiché i russi da Jvanowka possono arrivare qui da un momento all'altro.
— E a Krinitzschnaja chi c'è? — domandò Reitani.
— Non sappiamo. I russi mantengono ogni iniziativa di movimento, non siamo in grado di
controllarli. Bisogna far fronte agli avvenimenti così come si manifestano di minuto in minuto.
Capitano Reitani: da questo momento, il reparto d'assalto alle mie dipendenze cessa d'esistere, la
tredici diventa batteria autonoma e va ad attestarsi a Novo Kalitwa in attesa di ordini.
— Da chi li riceverò?
— Non so.
— Notizie sulla situazione?
— Caos completo in questa zona, devi averlo capito dagli ordini che ti ho trasmesso. Sono ordini
seri, per caso? — domandò amaramente il vecchio soldato; — riceviamo una comunicazione da
chissà quale nostro Comando attraverso una radio di stranieri che se ne vanno, veniamo divisi e
sospinti in direzioni opposte in un deserto di neve in mano al nemico... A proposito, tieni presente
che la zona è battuta da reparti celeri russi che si scostano continuamente.
— E la Julia? — chiese Reitani.
— Nessuna notizia. Dobbiamo fare calcolo su noi stessi e basta. Starai male a munizioni, suppongo.
— Ne ho poche cassette. Ne avevo tenute diverse di riserva su quell'autocarro che ci era rimasto.
— L'autista l'ha abbandonato: è tornato e mi ha riferito che si è ribaltato nella neve oggi, vicino a un
gruppo d'isbe prima di Krinitzschnaja; su quest'autocarro io avevo fatto anche caricare un paio di
quintali di viveri trovati nella chiesa d'Jvanowka.
— I russi avanzano da Jvanowka! — gridò una voce. E una lunga raffica di fucile mitragliatore
passò alta sopra gli uomini.
— Bisogna levarsi di qui — disse Amerri. — Io vado, spicciatevi anche voi, speriamo di rivederci.
— Salutati gli uomini, partì.
— Batteria avanti — comandò il capitano Reitani; e gli artiglieri alpini della tredici iniziarono la
marcia notturna.
Mentre prendevano respiro per il violento sforzo sostenuto, il sudore di cui s'erano impregnate le
maglie si era raffreddato e gli indumenti bagnati molestavano i combattenti; era gradevole perciò
camminare e rallegrante il pensiero d'allontanarsi da Jvanowka.
I muli sulla pista di neve gelata procedevano con maggiore facilità e l'aiuto richiesto ai soldati per
trascinare avanti i pezzi era meno impegnativo. La cosa più molesta, ora, era il dover camminare
curvi di fianco alle slitte in movimento per impedire che i materiali di cui erano sovraccariche si
rovesciassero ad ogni passo nella neve. Gli oggetti ammassati sulle slitte non si potevano legare,
poiché tutte le funi disponibili erano state utilizzate a rinforzare le catene di traino dei muli nel
furioso sforzo di poco prima.
I soldati si alternavano quindi nel sospingere i pezzi e nel tenere in bilico i materiali; ma qualche
artigliere, anziché procedere curvo col rischio di finire ad ogni momento con un piede sotto un
pattino della slitta, preferì issarsi sulle spalle una cassetta. Serri aveva ritrovato i propri sci su una
slitta e li aveva messi ai piedi; camminava a fianco del capitano in testa alla colonna e ogni poco
passava in coda per mantenere il collegamento con gli ultimi uomini che col tenente Dell'Alpe
vigilavano alle spalle dei marciatori.
— Si cammina con un buon passo, nonostante tutte le fatiche di questi giorni. I soldati sono stati e
sono splendidi — disse Reitani a Serri con orgoglio.
— Davvero, Ugo — confermò il medico; — ma non farti troppe illusioni.
Il capitano volse il capo e cercò di scrutare, nel chiarore diffuso della luna che stava spuntando, il
volto di Serri.
— Cosa intendi dire? — domandò.
— Voglio dire che questi ragazzi sono costretti da troppi giorni a una vita pazzesca. Vivono nel
gelo, sono sottoposti a una vera continua tortura fisica e psichica; da quando abbiamo lasciato i
nostri rifugi non hanno mangiato e dormito per la ventesima parte di quanto è indispensabile. Temo,
Ugo, che se non si provvede a procurargli un minimo di benessere e di tregua, possano crollare da
un momento all'altro, fosse solo per l'azione del freddo. Siamo già a venticinque gradi sotto zero, a
quest'ora. Per quanto dovremo camminare così all'aperto, stanotte?
— Non so, non abbiamo carte topografiche, non ho indicazioni precise. Forse tre, cinque, sette ore...
Chi lo sa?
— E se si arriva a domani, cosa darai da mangiare agli uomini? Potrai lasciarli almeno dormire?
— Non so, Italo. So soltanto — disse con amarissima ironia il capitano — che a un certo tratto di
questa pista dobbiamo voltare a destra e raggiungere al più presto un paese, chiamato Novo
Kalitwa. Se e in che modo là moriremo, io non lo so.
— È pazzesco! — esclamò Serri. — Non bisogna lasciar niente d'intentato. Bisogna trovare a tutti i
costi il modo di dar da mangiare e da dormire a questi cinquanta uomini che ti sono rimasti se non
vuoi, quando meno te l'aspetti, vederli cadere morti sulla neve. Se comincia uno, gli altri seguono
senza nemmeno accorgersene, te ne avverto.
— È da quando mi sono reso conto che la batteria era ancora viva, usciti da Jvanowka, che penso a
queste cose, Italo. E una soluzione forse ci sarebbe...
— Quale?
— Sull'autocarro che era rimasto questa mattina a Jvanowka avevo fatto caricare molte cassette di
munizioni e il maggiore Amerri ha aggiunto due quintali di viveri trovati nella chiesa d'Jvanowka.
— Dov'è l'autocarro?
— Si è rovesciato nei pressi del primo paese che si incontra procedendo su questa pista, mi ha detto
il maggiore; l'autista l'ha abbandonato sulla neve. Ma noi dobbiamo deviare molto prima.
— Non può essere che lungo la pista: bisogna ritrovarlo! — esclamò Serri; questa è terra
abbandonata, probabilmente il carico è intatto!
— Avremmo viveri e munizioni... Ma a quel paese possono esserci i russi, non conosciamo nulla
della situazione e non possiamo prendere iniziative senza sapere a che cosa andiamo incontro: sarà
molto se riusciremo a raggiungere Novo Kalitwa, esausti come siamo.
— Vado io a vedere — disse Serri.
— Sei pazzo?
— Con questi sci vado avanti di corsa, mi sbrigo; se trovo munizioni e viveri vengo ad avvertirti,
torniamo a prenderli.
— Non posso chiederti una cosa simile, Italo. Non posso darti uomini di scorta perché non abbiamo
altri sci. Ma sarebbe forse la salvezza...
— È deciso, vado: un uomo solo sfugge più facilmente. — Guardò l'orologio e disse: — Sono le
diciotto. Se raggiungi il bivio per Novo Kalitwa prima che io sia di ritorno, lascia una cassetta vuota
sulla neve per farmi sapere che siete già andati avanti. Ti lascio questo — disse sfilandosi il
cappotto; — mi sarebbe d'impaccio a sciare, ho la giacca a vento e non mi fermerò un istante.
Arrivederci!
— Italo!
— Arrivederci! — esclamò Serri già guadagnando con i veloci sci i primi metri di vantaggio sulla
breve colonna della tredici. Corse per un'ora sulla pista, solitario nel chiarore di luna. Il silenzio
infinito lo circondava dandogli la sensazione di un misterioso e non più rimontabile isolamento, nel
quale andava sempre più sprofondando. Mai come in quell'ora aveva sentito il malefico influsso
della vastità bianca che annichiliva la volontà e suggeriva presagi di perdizione. La sterminata
Russia lo teneva nel grembo nevoso, lasciandolo libero in una prigione con uscite troppo lontane,
per evaderne.
— «Torna indietro» — gli ripeteva nelle orecchie una voce. «Ricongiungiti ai tuoi compagni, è
questa l'unica possibile speranza di salvezza. Reitani stesso ti ha chiesto se sei pazzo a voler andare.
Torna indietro...».
Gli sci rallentarono l'alterno moto, finirono col fermarsi paralleli sulla pista, le punte e le racchette
dei bastoncini si piantarono nella neve, le impugnature su cui poggiavano le mani si congiunsero
dinnanzi all'uomo, che si curvò lentamente in avanti finché poggiò la fronte sui guanti. Sentì
sollievo al gelido contatto della stoffa impermeabile, chiuse gli occhi. Era stanco, ansante, le tempie
gli battevano, da più giorni presso il cuore lo stomaco gli si stirava e s'accartocciava in modo
tormentoso.
L'ufficiale pensò che poteva sedersi a riposare per qualche minuto sugli sci senza levarli; ma non si
mosse. Poi non pensò più a nulla, tutto il suo vivere si limitava a stare ricurvo in avanti sui
bastoncini, e disperdere qualche goccia di sudore sfregando con lentezza la fronte sul tessuto dei
guanti. Poteva passare un minuto, o un secolo, o la morte, era la stessa indifferente cosa.
— «Torna indietro, idiota! cosa vai cercando?» — gli gridò dentro imperiosamente la voce. Sul
pulsante ritmo che gli scuoteva le tempie gli parve si accordasse una lontana cadenza, somigliante al
frusciare del passo dei suoi alpini che camminavano nella neve. Ad occhi chiusi ne vide i volti, uno
per uno, faticanti e smagriti; vide Scudrèra chiedere al mulo se era contento, vide Reitani balzargli
innanzi nell' isba a fargli scudo contro l'imprevedibile, vide i morti di quel giorno e di quegli anni,
le tante altre cose che non era neppure necessario ricordare per sentirle pesare dentro.
— Hanno bisogno di munizioni e viveri... — disse a mezza voce a se stesso; allora, senza esitazione
spinse innanzi le punte degli sci premendo rabbiosamente sui bastoncini, e riprese la corsa.
Mezz'ora dopo credette d'individuare sulla pista la deviazione a destra per Novo Kalitwa, ma tirò
diritto in direzionedi Krinitzschnaja; erano le venti, allorché la splendida luna di quella notte gli
consentì di vedere le prime isbe di un paese.
Stava guardandole attentamente di lontano per osservare se usciva fumo dai camini, quando si
accorse che, pochi passi innanzi a un ponticello, al termine della scarpata che scendeva al rigagnolo
gelato, risaltava sulla neve una grande macchia scura. Scese: un autocarro giaceva su un fianco,
semisprofondato nella neve ammassata in quel basso tratto dal vento.
L'ufficiale sfilò gli sci, entrò nel cassone dell'autocarro ancora ricoperto dal telone lacerato nella
caduta: il chiaro di luna gli consentì di scorgere molte cassette accatastate alla rinfusa, alcune
sfondando il telone s'erano infisse nella neve. Il medico riconobbe subito le usuali cassette
contenenti munizioni, scorse qualche altra cassa: col coltello forzò il coperchio di una, affiorò una
galletta. Tentò subito di addentarla, ma era gelata, dovette desistere.
— Qui occorrono almeno tre slitte, forse non bastano per tutto questo ben di Dio — pensò con
allegria facendo un rapido calcolo — e qualche uomo per caricare.
Devo fare prestissimo.
S'infilò un pacco di galletta al di sopra della cintura della giacca a vento, risalì sulla strada e rimise
gli sci. Udì allora il nitrito di un cavallo.
Proveniva dal gruppo d'isbe, aveva udito senza possibilità d'errore; un altro nitrito subito rispose.
— Bisogna che veda cosa c'è, chi c'è — decise il medico accostandosi alle prime isbe cercando di
sfruttarne le ombre. Ma quelle case erano vuote, le porte aperte e scardinate; però, in un cortile fra
un'isba e un'altra l'ufficiale vide allineate una decina di grandi slitte da carico. Erano bellissime,
solide, intatte, tutte uguali. Mentre con l'occhio le considerava, udì anche, nel capannone vicino, il
lento scalpitare di cavalli a riposo. S'affacciò al capannone, con cautela entrò: non era sorvegliato.
— Qui intorno esistono necessariamente anche uomini — pensò; — ma sentinelle non se ne
vedono.
Chi potevano essere? Italiani no, l'esercito non aveva a disposizione slitte simili. Tedeschi? Era
difficile, quelli ripiegati da Jvanowka non portavano slitte con sé, e avevano deviato assai prima,
erano certo lontani di lì. Russi in sosta?
Con accresciuta attenzione l'ufficiale uscì dal recinto e, sul terrazzino di legno posto innanzi
all'ingresso dell'isso più vicina, scorse allora una mitragliatrice piazzata. Russa, senza dubbio, ne
aveva veduto altre uguali catturate. A quel punto, dall'interno dell'isba percepì giungere un russare
profondo, ritmico. Chi poteva dormire così tranquillamente, abbandonando addirittura le armi
all'esterno tanto si sentiva padrone della situazione e sicuro da ogni sorpresa, se non i russi in
avanzata?
Serri s'inoltrò ancora nel paese curando di spingere gli sci nella neve profonda e polverosa, per
ridurre al minimo il rumore: vide altre slitte, altre armi postate agli ingressi, nessun carro armato;
voltò gli sci in opposta direzione, uscì dal paese e si diede a correre nuovamente sotto la luna.
Raggiunto il bivio non vide alcuna cassetta nella neve, si soffermò perplesso, guardò l'orologio:
erano le ventuno e trenta, la tredici avrebbe già dovuto essere passata. Guardò attentamente sulla
pista, non notò tracce di passaggio recente sulla neve e proseguì nella direzioneche portava a
Jvanowka.
Cos'era successo alla sua batteria? Aveva fatto brutti incontri e non l'avrebbe ritrovata più? Aveva
deviato prima, ed egli era sperduto? Affannosi pensieri gli si avvicendavano nel cervello, mentre
una stanchezza orribile gli scendeva nelle membra. Ebbe la sensazione d'avvicinarsi troppo ad
Jvanowka, fece vari assurdi calcoli sulle ore e sui tempi di marcia, temette a più riprese d'imbattersi
nei compagni morti sulla neve.
Improvvisamente scorse qualcosa muoversi sulla pista, lontano quanto la luce della luna consentiva
di vedere. Si fermò. Qualcosa gli veniva realmente incontro.
— La tredici — gli suggerì il cuore dando un tuffo.
— No, non procede così adagio la tredici — si disse poco dopo, osservando meglio.
— Russi che avanzano con misure di sicurezza? — si chiese quindi; e fu tentato di gettarsi di lato
sulla neve per occultarsi, se ancora era in tempo.
— Non sono nemmeno soldati — constatò poi, quando la macchia scura fu più vicina. — Sembra
quasi una processione.
Uno sterminato dolore lo prese, e subì la disperata voglia d'accasciarsi e abbandonarsi alla neve
quando si avvide che la teoria di fantasmi che gli veniva incontro, il meschino branco d'esseri che
procedeva nella notte erano — loro, loro! — i suoi cari compagni.
Colui che veniva innanzi a tutti con l'incedere d'un vecchio, strascicando le scarpe nella neve,
oppresso da un peso che portava sulle spalle, era il suo amico Ugo, il suo fratello silenzioso: pareva
dover cadere ad ogni passo, era tanto curvo che strascinava sulla neve il bordo inferiore del lungo
cappotto; altre ombre seguivano la prima, quasi tutte reggevano pesi ciondolando e ondeggiando
come uomini ubriachi; nel silenzio notturno se ne udiva il respiro affaticato, raschiante. Fra queste,
trainando le slitte e i cannoni procedevano i muli, ad ogni passo arrancando alzavano e abbassavano
penosamente il testone.
Serri sentì struggersi di desiderio d'aiutare, fare qualcosa.
— Ugo! — gridò.
— Italo! Cammina...! — rispose penosamente la voce di Reitani, mentre questi volgeva a fatica il
capo. Sulla spalla reggeva una cassetta. Un soldato si fece avanti, lo liberò dal peso dicendo: — Ora
tocca a me, signor capitano.
— Cosa vi è successo? — chiese Serri affiancandosi al comandante.
— Non dobbiamo fermarci mai, mai! Se sostiamo, ho paura che qualcuno stramazzi nella neve —
rispose il capitano torcendo più volte il collo per riprendere liberi movimenti. — È terribile... —
proseguì a bassa voce. — I russi da Jvanowka hanno ripreso a battere questa pista con l'artiglieria,
abbiamo dovuto affrettarci ma i muli erano esauriti, dopo il primo sforzo si erano fermati.
Guardali, non riescono quasi a camminare. Dovevamo alleggerirli, ma non possiamo assolutamente
abbandonare i materiali che ci rimangono, senza quelli siamo finiti. Ho tentato l'ultima possibilità,
ho detto ai soldati: «le cassette di granate speciali controcarro non devono cadere a nessun costo in
mano ai russi», e mi sono caricato una cassetta sulle spalle. Allora tutti hanno fatto altrettanto con
vari materiali, le slitte sono rimaste alleggerite, i muli hanno potuto riprendere il cammino, gli
uomini si sono avvicendati a sospingere i pezzi e a portare a spalla i materiali; e siamo arrivati qui.
Ma è una cosa infernale, siamo esausti come malati, temo che la tredici stia per crollare.
Però — aggiunse rabbiosamente — crolleremo a Novo Kalitwa!
— Ugo — disse Serri — ho trovato i viveri... Il capitano spalancò gli occhi incredulo, come se
temesse d'aver inteso male.
—... e le munizioni. Ho fatto il calcolo, saranno duecento colpi. I viveri saranno indubbiamente due
quintali.
— Vorrebbe dire rimanere vivi e poter combattere... — mormorò il capitano.
— Dite davvero, sior tenente? — domandò con gli occhi accesi Covre, che nel frattempo s'era
avvicinato.
— Guarda — disse Serri dandogli il pacco di galletta. — Mangiatela, se ci riuscite. La notizia corse
rapida a rianimare la colonna.
— Torno subito a caricare quanto è possibile — disse Serri al capitano; — mi occorrono quattro
uomini.
— C'è un grosso ostacolo: non ti posso dare nessuna slitta — soggiunse Reitani: — non possiamo
portare in eterno le cassette sulle spalle, e i muli ancora per qualche ora non possono essere caricati.
— Ho trovato anche le slitte — esclamò Serri; e mise rapidamente al corrente il capitano dei
risultati della perlustrazione e del progetto che intendeva realizzare.
Il piano fu subito concretato. Allorché la colonna giunse al bivio per Novo Kalitwa fece sosta.
— Vi raggiungeremo a Novo Kalitwa — disse Serri al comandante.
— Italo, se dovessimo mutare itinerario, ti lascio un uomo su questa strada.
— In bocca al lupo, sior dotor! — esclamavano gli artiglieri alpini.
La breve colonna riprese la marcia piegando a nord, Serri proseguì verso ovest.
Doveva procedere più lentamente, questa volta, poiché aveva con sé quattro artiglieri appiedati,
scelti fra quanti s'erano offerti di dividere con l'ufficiale il rischio dell'impresa: l'infermiere Zoffoli,
Covre, Scudrèra e Sorgato. D'accordo col capitano, Serri aveva scelto uomini che non avessero
mansioni tecniche alla linea pezzi, poiché l'organico era tanto ridotto da rendere insostituibili gli
addetti ai cannoni.
Strada facendo l'ufficiale istruì i compagni su ciò che avrebbero trovato, e sul da farsi. Scudrèra
gongolava, incitava gli altri tre, come lui sprovvisti di sci, a camminare più in fretta per non far
perdere tempo a Serri.
— Voglio ridere — diceva allegrissimo — a vedere le facce dei capi-pezzo quando ritornerò con le
munizioni. «Sei senza, eh» — domanderò a quel superbioso del sergente Sguario — «aspettavi con
ansia il povero conducente Scudrèra, eh, signor capo-pezzo dei miei scarponi? Toh, ti regalo cinque
cassette di granate e tre scatole di carne, spara e sfamati!» E rideva già, divertito e tranquillo, come
a cosa fatta e conclusa.
L'eccitata speranza dei quattro alpini pareva aver ridotto il rigore del freddo e allontanata
l'incertezza della sorte; aveva certamente ricacciato indietro la stanchezza.
— Ora, silenzio — disse Serri ad un tratto; — fra poco saremo all'autocarro.
L'orologio da polso segnava l'approssimarsi della mezzanotte. La luna era anche troppo luminosa
nel cielo bluastro, la neve splendeva, alla pattuglia sarebbe stata gradita la complicità di qualche
nuvola.
Sul ponte non esisteva traccia di vita.
— Giù, qui — disse Serri deponendo gli sci e indicando l'autocarro. — Avviciniamo le cassette alla
pista.
Disposti a catena, i cinque uomini si passarono l'un l'altro rapidamente le cassette che Serri fece
allineare sulla neve a margine della pista.
— Tu resta qui — disse l'ufficiale a Zoffoli — ricopri di neve le cassette, nascondi i miei sci e se
arriva qualcuno infilati sotto il ponte. Non sparare se non per difenderti. Saremo presto di ritorno; se
però tardiamo più di un'ora o se senti sparare in paese, aspetta ancora mezz'ora e poi raggiungi la
batteria da solo, di' che abbiamo avuto dei guai.
Con gli altri tre uomini Serri s'avvicinò alle prime isbe, andò innanzi da solo fino a raggiungere il
noto recinto. Sul terrazzino dell'isba la mitragliatrice non era stata smossa, nell'interno due o tre
persone stavano ancora russando.
Fece un cenno agli alpini, che lo raggiunsero procedendo nella neve fonda. Il rumore che
producevano rompendo con gli scarponi la crosta ghiacciata gli parve enorme, ma a camminare
sulla pista gelata il crosciare del velo di ghiaccio sarebbe stato ancor più sonoro.
— Camminate nelle mie peste, non farete rumore — sussurrò agli uomini quando gli furono vicini;
e avanzò verso le slitte osservando attentamente intorno.
Si fermò dinnanzi alla quarta, la più facilmente asportabile poiché stava dirimpetto a un'uscita
laterale del recinto, da cui si poteva direttamente raggiungere la neve della steppa. A un gesto
dell'ufficiale i tre uomini si disposero attorno alla slitta. Era perfetta, perfino corredata di una
enorme coperta, aveva il pia no portante vasto quasi quanto quello di un carro, e robuste fiancate.
— Smuoviamola adagio — sussurrò Serri.
I quattro uomini si chinarono, tentarono simultaneamente di sollevare la slitta, ma quella non si
mosse: era bloccata dal ghiaccio, lo svincolarla avrebbe richiesto un violento strattone, il ghiaccio
nel frangersi avrebbe prodotto un grande stridore. L'esito della spedizione parve definitivamente
compromesso, gli uomini si scambiarono un'occhiata amara di delusione.
— Dove sono i cavalli? — domandò Scudrèra.
Serri indicò, a pochi passi, il capannone. Scudrèra si avvicinò all'uscio semiaperto, adocchiò
nell'interno e ritornando alla slitta disse: — I cavalli non sono sorvegliati. Attacchiamone due alla
slitta e partiamo al galoppo.
— Sveglieremo tutti. Anche se riuscissimo ad allontanarci saremmo inseguiti, non potremmo
caricare le cassette — mormorò Serri.
— Sì — approvarono gli uomini accennando gravemente con la testa. Uno sconforto rabbioso li
aveva presi. Trasalirono d'un tratto, ma subito sorrisero tranquillizzati: nella stalla un cavallo aveva
nitrito.
Un più ampio sorriso si affacciò allora sul viso di Scudrèra, che con tutta serietà propose a bassa
voce: — Al mio segnale, voi tre liberate la slitta mentre io, per coprire il rumore, mi metto a nitrire.
Va detto che nitrire da fare invidia a un cavallo era forse la più preclara virtù di Scudrèra, la più
celebre senza dubbio; nell'intero reggimento, a questo effetto il conducente era un caposcuola.
Covre e Sorgato lo guardarono sconcertati, poi fissarono perplessi l'ufficiale.
— Ma sì, non ci resta altro, tentiamo — decise questi; — non crederanno a una pazzia del genere;
ma se qualcuno si fa vivo, piantiamo tutto e ci buttiamo nella steppa, seguirete ogni mia mossa. È
deciso. Pronti? — disse afferrando le estremità dei pattini della slitta; — quando abbasso la testa,
Scudrèra comincia e noi tiriamo.
Anche Sorgato e Covre si curvarono sulla slitta, abbrancando gli estremi con le forti braccia. I
quattro uomini si fissarono reciprocamente per un attimo trattenendo il respiro, l'ufficiale fece un
cenno col capo e subito il conducente di muli Scudrèra sfidò il nemico in terra di Russia lanciando
alla luna di dicembre il più filante, perfetto nitrito che si potesse mai udire. Talmente perfetto e
convincente, che all'artista bastò l'animo per emetterne subito un secondo, al quale immediatamente
rispose dal capannone una serie di eguali nitriti: sotto la copertura canora, a strattoni la slitta fu
svincolata dal ghiaccio e con improvvisa decisione fu addirittura sospinta oltre l'uscita del recinto.
Gli uomini sostarono trepidanti, ora in gran silenzio. Passarono due minuti, ma non si udì alcun
rumore: giungeva soltanto, dalla stalla, ad intervalli, lo sbuffare e il nervoso scalpitare di qualche
animale.
— Magnifico — sussurrò Serri al conducente; — ora andiamo a scegliere due cavalli.
— È meglio che vada io solo, sior tenente — consigliò Scudrèra; — tutte le bestie non si
spaventano mai a vedermi, anche se non mi conoscono; e non fanno baccano.
— Va bene, fa' più presto che puoi.
L'alpino andò alla stalla, il buon esito dell'avventura pareva ormai assicurato.
— Prendiamo la mitragliatrice, intanto, sior tenente, già che ci siamo? — propose Sorgato.
— No — rispose Serri — non avremmo poi le munizioni adatte; meglio caricare una cassetta di
granate in più.
Scudrèra uscì dal capannone e si avvicinò alla slitta con atteggiamento sconsolato.
— I cavalli sono tutti legati con grosse catene... — disse con profondo avvilimento.
Un'ombra di delusione si dipinse sul volto degli altri uomini: l'impresa falliva.
— Spingeremo la slitta a braccia — propose Sorgato.
— Vi sentite di farlo? — chiese Serri dubitoso.
— Qualunque cosa — disse con semplicità Sorgato.
La slitta stridette sulla neve nell'avvio, gli uomini la sospinsero di corsa per un primo tratto
allontanandosi rapidamente dalle isbe, furono ben presto lontani.
Compiendo un largo giro nella steppa raggiunsero il ponte, da sotto sbucò Zoffoli semiassiderato.
Caricarono in fretta le cassette e gli sci, e tutti e cinque intrapresero a sospingere sulla pista la slitta.
Ora era ben pesante, ma la neve battuta e ghiacciata favoriva lo slittare dei pattini. Scudrèra s'era
legato fra le stanghe e tirava, gli altri quattro dietro e ai lati spingevano.
Una contentezza profonda, una eccitazione gioiosa tenevano lontana la stanchezza, lo sforzo non
faceva sentire il freddo.
— Bravo Scudrèra, hai risolto la situazione col tuo nitrire! — disse Serri.
— Oh, sior tenente... — rispose lusingato l'alpino; — peccato che non c'erano muli nella stalla. Se
potevo fare il verso del mulo — aggiunse con disappunto — mi prendevo l'impegno di farvi portar
via tranquillamente tutte le slitte.
— Quella del mulo è la voce che ti riesce più naturale — osservò Zoffoli.
— Eh, sì... — ammise con compiacimento Scudrèra. Ma, rimuginando la frase, qualcosa non gli
garbò e senza desistere dal tirare le stanghe si voltò a fissare l'amico; l'infermiere però stava
guardando con viso serafico la faccia della luna ed allora al conducente non rimase che sfogare l'ira
compressa col curvarsi con più furibonda lena sulle stanghe della slitta.
Giunsero al bivio e s'inoltrarono sulla pista che conduceva a Novo Kalitwa.
Tutto procedeva nel migliore dei modi, non si scorgeva traccia dei russi.
— Hanno via libera e non avanzano, sior tenente: com'è? — chiedeva malsicuro Covre.
— Anche essendo in avanzata devono coordinare i movimenti e a volte sostare — rispondeva Serri.
Parlavano poco, perché alla lunga la fatica era ritornata sensibile.
— Non si potrebbe mangiare qualcosa, sior tenente? — domandò Scudrèra.
— È giusto, fermiamoci qualche minuto — consentì il medico.
— Mentre vi aspettavo ho visto che qui ci sono delle scatolette di tonno — disse con eccessiva
noncuranza Zoffoli, indicando una cassetta.
— Hai visto anche che sapore hanno, anima santa? — chiese Scudrèra.
— Sapore di roba avvelenata, come quella della chiesa di Jvanowka — ribattè l'infermiere, piccato.
Era buon tonno all'olio, che i cinque uomini non assaggiavano da anni.
Ripartirono subito, superarono con grande stento la salita che portava alla sommità di una collinetta,
altrettanto faticarono nel trattenere la slitta lungo la discesa; nel piano successivo lo sforzo sembrò
ancora più opprimente, le braccia e le gambe ormai non davano adeguata risposta alla volontà.
— C'è molto, ancora, sior tenente? — domandò Covre, affannando.
— Non so, Covre.
Gli altri tacevano, caparbi, ma la slitta procedeva sempre più a rilento. Serri vide con
preoccupazione profilarsi dinnanzi una ripida salita.
— Forza, ragazzi! — esclamò spingendo con lena.
Iniziarono la salita con slancio; ma, man mano che progredivano, l'andatura si riduceva
gradualmente, finché la slitta parve sul punto di fermarsi.
— Forza...! — sibilò Scudrèra con voce che tradiva l'intenso sforzo — bop...
Forza!
La slitta s'arrestò, gli uomini subito si curvarono ansando e appoggiandosi al cumulo delle cassette
senza dire parola; Serri osservò innanzi. Il tratto più ripido era superato, ma la salita più lieve si
prolungava ancora a perdita d'occhio.
— Anche se fosse pianura, non si va più avanti — pensò; — e in ogni caso non posso chiedere a
questi uomini di trasportare a spalla le cassette nei tratti più ripidi.
Covre, stando in piedi, s'era già addormentato a ridosso delle cassette. Gli altri riposavano, sfiniti.
La slitta, carica di granate e di viveri, costituiva ormai un peso intrasportabile.
— Non lo facciamo apposta, sior tenente... — mormorò Scudrèra sollevando a fatica la testa.
— Lo so, abbiamo un carico troppo pesante, in questi giorni abbiamo faticato troppo — rispose
Serri che stando fermo si sentiva implacabilmente calare le palpebre sugli occhi. Ebbe la percezione
che il disastro stesse avvicinandosi, si gettò sui compagni gridando e scrollandoli.
— Sveglia! Sveglia! — urlò. — Volete morire assiderati? Ascoltatemi bene: non si può proseguire,
bisogna tentare qualche cosa di diverso. Voi dovete assolutamente dormire qualche ora, ma non si
vedono isbe. Livelleremo il piano delle cassette sulla slitta e vi sdraierete su quelle, vi toglierete le
scarpe e vi avvolgerete nelle vostre coperte, e sopra stenderete la coperta grande. A turno, uno di voi
tenga gli occhi bene aperti, e le orecchie drizzate. Io intanto andrò avanti con gli sci, raggiungerò la
batteria e provvederò a mandarvi qualcuno con i muli.
In capo a cinque minuti i quattro uomini, costruito un riparo dal vento disponendo opportunamente
a parete le cassette sulla slitta, ammonticchiate le scarpe in un angolo, erano scomparsi sotto la
provvidenziale coperta da cavallo russa. Avviticchiati l'uno all'altro dormivano già nuovamente
quando il medico, calzati gli sci e reagendo disperatamente agli attacchi del sonno, riprese il
cammino verso Novo Kalitwa.
Era un ben faticoso procedere: non aveva esatto controllo di quanto faceva, le reazioni del suo
spirito erano lentissime ed annebbiate; sentiva soltanto d'andare innanzi, di scivolare in avanti
attraverso un mondo ovattato mentre due parole gli risuonavano a ripetizione nel cervello: Novo
Kalitwa,... Novo Kalitwa...
Il movimento non gli costava fatica; soltanto, gli era insopportabile tenere gli occhi più che
socchiusi: una minima fessura per la pupilla, in quella implacabile luce notturna. Andava avanti
senza sapere o chiedersi altro; e ogni tanto si sollevava di scatto perché all'improvviso qualche
percezione lo avvisava che stava cadendo sulle punte degli sci.
Gradualmente il movimento gli snebbiò un poco il cervello, vide nuovamente la luna e la neve,
avvertì il fruscio dei due legni che strisciavano; s'accorse allora con un senso d'orrore di non essere
solo nella vastità silenziosa, ma che dalla steppa, ai due lati della pista, si muovevano lentamente e
s'avvicinavano curvi e minacciosi innumerevoli soldati, ne distingueva con chiarezza i lunghi fucili
che impugnavano, fuciloni russi; si avvicinavano senza fretta, con un concorde movimento
concentrico, in breve i più vicini gli sarebbero stati addosso. Ma poi, puntando gli occhi e dilatando
le palpebre, si accorse che i più vicini erano soltanto ombre, masse di piante di cardi sulle
ondulazioni della neve; ossessive visioni, per la sua stanchezza. Respirò, sollevato dall'incubo.
Guardò l'orologio, segnava le quattro e dieci. L'ufficiale fece qualche calcolo, stabilì che da almeno
un'ora e mezza aveva lasciato i compagni con la slitta; si guardò intorno e decise di proseguire
ancora.
Non gli rimaneva che andare innanzi, ma comprendeva con evidenza raccapricciante che in ogni
caso non era possibile vivere ancora a lungo in quel modo, piccolo nucleo d'uomini senza risorse
abbandonato fra le maglie della rete nemica. Era impresa pazzesca vivere e combattere per
disperazione e per solo senso del dovere, senza mezzi, senza cibo, senza sonno. E chissà poi se non
era già tutto finito, se nel frattempo i compagni non erano stati travolti: ridotti com'egli li aveva
veduti all'inizio della notte, non era certo difficile accerchiarli e annientarli.
Si riscosse da quei pensieri udendo alcune esplosioni: colpi di mortaio, senz'altro; potevano essere
lontani un paio di chilometri. Erano certamente i russi, non potevano sparare che contro la tredici.
Affrettò l'andatura per quanto glie lo consentivano le forze. S'accorse che stava spuntando il giorno,
un triste e gelido evento l'aurora che illividisce la neve. Senza fermarsi vide e lesse un cartello che
portava scritto, con una freccia: «Novo Kalitwa»; premette, ansando, sui bastoncini e si sforzò,
curvo sugli sci, di fare il passo più lungo perché i tiri di mortaio si facevano più vicini e frequenti.
Procedeva a testa bassa sulla pista, la stanchezza estrema lo rendeva indifferente anche al pensiero
di quel destino che l'accerchiava sempre più stretto, e in un modo o in un altro stava forse per
abbattersi sul suo capo per farla finita. Ma almeno si potesse morire tutti insieme, tutta la tredici
unita, se era destino che tutta se ne andasse; molto meglio così, che fare la fine d'un cane isolato e
randagio, dopo tutto il patire sopportato insieme.
— Sior tenente! Sior tenente! — gridò all'improvviso una voce che fece trasalire Serri.
Il medico s'arrestò di botto, si rigirò e vide il conducente Pilòn che arrancava sulla neve e tentava di
raggiungerlo.
— Tornate indietro, sior tenente, siamo di qua...! Quando furono vicini, l'ufficiale chiese con
angoscia: — Dov'è la batteria?
— Mi siete passato davanti senza vedermi, sior tenente! La batteria ha deviato qui a sinistra, perché
a Novo Kalitwa ci sono i russi, quasi ci prendevano.
Avanti, di qua, c'è un paesino abbandonato, la tredici sta dormendo nelle isbe, il capitano mi ha
ordinato di venire qui ad aspettarvi e condurvi subito al paese, perché fra tre ore si va di nuovo in
linea. Ma dove sono gli altri quattro, sior tenente? — chiedeva guardandosi intorno con
preoccupazione.
— Sono rimasti indietro di qualche chilometro su questa strada, bisogna andarli a prendere con due
muli perché abbiamo una slitta carica di viveri e munizioni.
Non perdiamo tempo — aggiunse il medico incamminandosi, seguendo la traccia fresca che la
batteria aveva lasciato deviando dalla pista sulla neve vergine.
— Maria santissima! Viveri e munizioni!?! — esclamò Pilòn rovesciando indietro con una manata il
cappello alpino. — Vado io subito di corsa a prenderli, i muli ormai hanno riposato un poco.
— E tu hai dormito, Pilòn?
— No, sior tenente, il capitano mi ha rimandato subito sulla strada ad aspettarvi. Ero li da almeno
un'ora. Ma, con questa notizia, è come se mi svegliassi riposato!
Giunsero in breve al paese, un gruppo di isbe riparato nel fondo di una valletta. Serri non volle
svegliare nessuno, salvo due uomini che fece partire con due muli assieme a Pilòn. Entrò poi
nell'isba che il conducente gli aveva indicato e subito individuò Reitani Perbellini e Dell'Alpe che
dormivano sul pavimento, il vederli accucciati come animali sulla nuda terra gli diede una stretta al
cuore.
— Se fossi un russo capitato qui, potrei sgozzare loro e forse tutti gli altri uomini nelle isbe senza
che nessuno si svegliasse — pensò con un senso di trepidazione per quei dormienti. S'accorse allora
che il capitano e Perbellini, rannicchiati l'uno contro l'altro, s'erano steso, sopra i corpi, il suo
cappotto. Non ebbe cuore di levarlo, si inginocchiò accanto ai due, si sfilò il cinturone e l'avvolse
attorno alla fondina della rivoltella, si accucciò a terra ponendosi a guisa di cuscino il viluppo di
cuoio.
Nella stanza l'aria non era freddissima, rispetto all'esterno, ma dal pavimento di terra saliva e come
un millepiedi gigantesco s'appigliava lentamente alle membra un freddo sepolcrale.
L'uomo chiuse gli occhi; e, nel raccoglimento preludente al perdersi nel nulla, rappacificato con la
vita ancora una volta s'augurò il sonno anziché la morte.
Quando si svegliò, si accorse che, inginocchiato al suo fianco, Reitani stava scrollandolo senza
pietà.
— Sei finalmente sveglio, Italo? — gli diceva il capitano ridendo; — hai dormito solo tre ore, mi
dispiace, ma tra poco dobbiamo partire.
— È arrivata la slitta? — chiese il medico stiracchiando le membra. S'accorse allora d'essere
ricoperto dal proprio cappotto.
— Sì, viveri e munizioni, è una cosa magnifica; ho fatto distribuire qualcosa a tutti, ti ho anzi
portato questa mezza scatoletta di carne, mangia subito.
— E gli uomini che avevo lasciato a dormire sulla slitta?
— Sani e salvi.
— Bene. — E il medico sollevò il busto da terra restando a sedere sul pavimento, s'infilò il cappotto
e cominciò a mangiare con grande appetito la poca carne; grasso e gelatina erano gelidi grumi
insapori.
— Dove andiamo? — chiese con voce assonnata, masticando.
— Partiamo fra un quarto d'ora, alle dieci. Ho mandato Perbellini a fare una ricognizione.
Piazzeremo la linea pezzi a ridosso di Novo Kalitwa, su un'altura dalla quale si possano almeno
seguire e contrastare per quanto possibile le iniziative dei russi senza venire travolti dal loro primo
movimento. Se restassimo in questo paese a fondo valle, rimarremmo senz'altro imbottigliati; sulla
collina invece i russi ci individueranno meno facilmente e saremo più vicini all'obiettivo che ci è
stato indicato.
— Come si chiama questo paese?
— Golubaja Krinitza.
— Bel nome.
— Molto bello, suona bene.
Evitavano di proposito di toccare argomenti più seri fino dal primo risveglio; tanto, sapevano
benissimo entrambi di dibattersi inutilmente in una situazione senza scampo. Avessero ricevuto
ordine di uscirne, forse si sarebbero ancora salvati; ma l'ordine piovuto dal cielo li teneva invece
agganciati alla neve di Novo Kalitwa.
Qualche ora di sonno e poco cibo avevano ritemprato i cinquanta uomini della tredici che all'ora
fissata ripresero la marcia verso i russi. Procedettero per tre chilometri lungo la pista situata nel
fondo valle che separava due versanti collinosi e portava a Novo Kalitwa. Affrontarono la neve del
versante di sinistra, in un punto riparato a mezza costa lasciarono Sorgato, i materiali e i viveri, una
ventina fra conducenti e addetti ai servizi; gli ufficiali con trenta soldati della linea pezzi
proseguirono con i cannoni e le munizioni.
Raggiunta la sommità della collina si trovarono dinnanzi a un altopiano completamente piatto e
battuto dal vento.
Ora la valle rimaneva a destra; sulla sinistra l'altopiano si estendeva a perdita d'occhio, in avanti
invece la pianura si prolungava per un chilometro circa e digradava poi in un pendio verso il basso,
ove si distinguevano alcune isbe.
— A quelle isbe laggiù, di fronte a noi — disse Reitani indicando — incomincia il paese di Novo
Kalitwa. Scaricare i muli, ci fermeremo qui.
I materiali furono deposti, affondavano nella neve alta; gli artiglieri si guardavano intorno
disorientati: non pareva possibile poter rimanere a vivere in pieno inverno su quell'aperta distesa
solcata soltanto, dietro la linea pezzi, da una stretta balka ripiena di neve.
— Ragazzi — comunicò il capitano — il Don è a tre chilometri davanti a noi, al di là di Novo
Kalitwa.
Appariva evidente che i venticinque chilometri di marcia notturna che sembrava di arretramento li
avevano portati, con una larga conversione, ad attestarsi ancora presso il Don. Avevano più che mai,
perciò, il nemico di fronte e il vuoto dietro alle spalle e ai fianchi.
— Qui il terzo pezzo, qui il quarto, là il primo — indicò il capitano; — prendiamo posizione in
questo punto.
— E noi? — chiese il sergente Bartolan cercando invano attorno con lo sguardo un luogo riparato.
— Noi ci sistemeremo immediatamente dietro ai pezzi, a fare la guardia; non ci rimane altro da
fare, non l'hai capito? — rispose il capitano quasi ridendo per attenuare un poco la gravità
dell'affermazione. — Sarebbe meglio ripararci in questa balka, ma nel fondo ci sono più di tre metri
di neve; almeno per ora dovremo rassegnarci a restare sulla pianura.
La neve alta venne battuta, la linea pezzi fu schierata, le munizioni distribuite accanto ai cannoni,
gli ufficiali fecero i rilievi della zona e i calcoli per il tiro, gli uomini la revisione delle armi, Reitani
ordinò che i conducenti saliti lassù riportassero i muli alla loro base.
— Così non potremo più spostare i pezzi, in caso di emergenza — disse Serri guardando il capitano
negli occhi.
— Appunto, Italo — rispose Reitani; — sono persuaso che da qui ormai non potremo muoverci più.
È d'altronde l'unico punto dove possiamo piazzarci ubbidendo agli ordini senza venire subito
travolti. — E chiamò Perbellini.
— Appena sistemata la linea pezzi — gli disse — bisogna che gli uomini comincino a scavarsi le
buche nella neve per stanotte. Si ripareranno almeno dal vento.
— Ho già dato disposizioni che sia scavata una buca ogni due uomini, la neve qui è alta più di un
metro e perciò potranno avere un po' di parete. Raggiunta la terra stenderanno uno strato di cardi.
Hanno anche una coperta a testa.
— Meno male.
— Avverto che gli ufficiali invece sono senza coperta. Con il trambusto di questi giorni, chi non
portava la coperta a tracolla è rimasto senza. Abbiamo un unico telo da basto, l'ha lasciato Pilòn per
noi, ma per quattro ufficiali è troppo poco.
Verso le quattordici, annunciata dall'inconfondibile fischio passò nel cielo una granata.
— Lunga — disse alzando il naso in aria Coltrin, il puntatore del primo pezzo.
La granata esplose trecento metri dietro lo schieramento della tredici.
— Speriamo che sia un colpo disperso — borbottò Bartolan.
Gli uomini, interrotto momentaneamente il lavoro, guardavano in silenzio gli ufficiali, sembrava
attendessero qualcosa. Una seconda granata venne allora ad esplodere cento metri innanzi ai pezzi.
La direzioneera la stessa del tiro precedente.
— Tiro a forcella — mormorò Reitani a Dell'Alpe tenendo fisso il binocolo verso le colline di
fronte; — siamo stati individuati.
Il terzo colpo non si fece attendere troppo e scoppiò a ottanta metri dietro i pezzi.
— Ho visto la vampa del colpo in partenza, signor capitano! — gridò Coltrin.
— Dove? — chiese Reitani.
— Là, di fianco a quel pagliaio sulla neve — indicò Coltrin precisando un punto sui colli prossimi
al Don.
— C'è un pezzo, infatti: pare isolato, — confermò Reitani dopo aver osservato attentamente col
binocolo.
— Calcola i dati di tiro relativi a tutti i pagliai visibili — ordinò a Dell'Alpe.
Fischiò ed esplose una quarta granata a qualche decina di metri dal primo pezzo.
Alcune schegge sibilarono sugli uomini.
— Bisogna buttare in aria quella carogna prima che divenga buio, signor capitano, se no stanotte
saltiamo in aria noi — esclamò il sergente Bartolan.
— È probabile — disse Reitani — ma non vorrei che sprecaste munizioni.
— Io, signor capitano! Sparo io col mio pezzo! Cinque colpi soli! In cinque colpi lo butto per aria
— gridò già infiammato Bartolan.
Col suo puntatore Coltrin, il sergente formava, al pezzo, una coppia di artiglieri imbattibile.
— E se mi buttate via cinque colpi senza fare centro? — chiese Reitani.
— Allora stanotte andiamo a far saltare il pezzo con le bombe a mano, parola d'onore! — affermò
tutto serio Bartolan, mentre Coltrin si poneva una mano aperta sul petto.
— Attenzione, primo pezzo! — esclamò Reitani sorridendo. E i due si precipitarono all'arma.
Era un piccolo obice da montagna da 75/13, residuato dalla prima guerra mondiale, vecchio pezzo
superato dalla tecnica moderna, ma ancora micidiale e temibile in mani amorose ed esperte. In
mano a Bartolan e Coltrin al quarto colpo fece saltare il cannone avversario, al terzo aveva già dato
fuoco al vicino pagliaio.
Il sole calava.
— Vietato accendere anche un solo fiammifero, naturalmente — ordinò Reitani; — i russi hanno
già rilevato la nostra presenza in questa zona e non possiamo stimolare la loro attenzione. Se ci
fanno un attacco di sorpresa non c'è scampo, lo sapete.
Ma, intensificandosi il freddo, il fuoco appariva un affascinante miraggio agli uomini che restIl a
distendersi nelle tombe gelide battevano i piedi sulla neve camminando su e giù dietro ai cannoni.
Verso le diciotto, protetti dall'oscurità giunsero alla linea pezzi i muli della cucina.
— Ho portato il rancio — annunciò Sorgato con accento trionfale; — ho dovuto attendere il sorgere
della luna per vedere dove andavo, ma in compenso sono riuscito a fare un buon minestrone,
bisogna distribuirlo subito finché è caldo.
Quando scoperchiò il recipiente s'avvide che i maccheroni erano inglobati in una compatta massa
opaca: durante il tragitto il brodo si era trasformato in ghiaccio, fu necessario spaccarlo con la
baionetta. Gli affamati alpini si allontanavano dalla slitta del rancio recando sul coperchio della
gavetta un grumo ghiacciato dal quale andavano malinconicamente estraendo ad uno ad uno i
maccheroni come granelli di una melagrana.
Progredendo la notte, le sentinelle avvistarono al chiaro di luna due carri armati e un grosso reparto
russo che provenendo da Novo Kalitwa transitarono lungo la pista del fondo valle facendo una
puntata a Golubaja Krinitza. Ritornarono a Novo Kalitwa dopo due ore.
— Se fossimo rimasti in paese... — mormoravano i soldati e si raggruppavano riconoscenti attorno
al silenzioso capitano.
— Provate a stendervi nelle buche — disse questi verso la mezzanotte — vi proteggerete dal vento
e forse potrete riposare un poco: domani sarà giornata dura. Chi non resisterà a stare fermo in buca
potrà dare il cambio alle sentinelle.
A poco a poco gli uomini scomparvero calandosi nello spessore della neve; sotto gli occhi dei
quattro ufficiali rimaneva soltanto l'immobilità dell'altopiano bianco.
Un vento costante in provenienza dal Don sibilava curvando gli steli secchi dei girasoli, penetrava
nel panno grigioverde e lambiva le carni dei quattro uomini stanchi.
Perbellini a fianco del capitano fu preso da un lungo, intrattenibile brivido.
— Se non provvediamo in qualche modo, non resistiamo fino a domattina — disse Serri.
— Non possiamo andare in una buca, dobbiamo vegliare — rispose Reitani; — ora davvero la
tredici è abbandonata a se stessa.
— C'è un telo da basto, possiamo fissarlo a due pali e ripararci un poco dal vento — propose Serri.
Il telo fu rizzato dalla parte da cui spirava il vento, i quattro ufficiali vi si accoccolarono dietro,
accucciandosi su qualche bracciata di cardi selvatici gettata sulla neve.
— Nessuno ha guardato i termometri? — chiese Dell'Alpe.
— Trentadue sotto, mezz'ora fa — disse Perbellini. Passò un lungo tempo. I quattro uomini
giacevano lottando in silenzio col gelo agghiacciante.
— Perbellini si è addormentato, beato lui — annunciò Dell'Alpe.
— Da quanto? — chiese subito Serri.
— Sarà mezz'ora.
— Sveglialo! — esclamò con concitazione il medico allungando un braccio e scrollando il
dormiente.
Perbellini si svegliò di soprassalto, si guardò attorno trasognato.
— Ti fanno male i piedi?
— No — disse l'adolescente muovendo gli arti. Ma s'interruppe all'improvviso e tacque,
impressionato.
— Cosa c'è, Perbellini? — chiese preoccupato Reitani.
— Non sento, non muovo più le mani, signor capitano! — rispose Perbellini con voce angosciata.
Serri gli tolse i guanti, prese fra le sue le mani gelide, insensibili, le strofinò a lungo fino a che il
colpito avverti il dolore; continuò ancora a massaggiarle senza sosta e infine le estremità
ricuperarono sensibilità e calore.
— Non si può dormire di più di qualche minuto, sarebbe mortale — disse Serri alzandosi; — faccio
il giro delle buche per controllare i soldati, voglio assicurarmi che non si assiderino, torno fra poco.
S'avvicinò a una buca, guardò dentro. Dal buio si sentiva venire un persistente battere di denti, si
intrawedevano due ombre informi: Bon e Zoffoli abbracciati sui cardi.
— Come va? — chiese Serri.
Rispose il sergente Bon, tentando di frenare il battito dei denti: — Se non fosse per questi denti
cretini... e questo freddo boia...
— Coraggio... — replicò Serri — bisogna arrivare a domattina.
L'infermiere Zoffoli dava pesanti manate qui e là sul corpo di Bon, per favorire la circolazione del
sangue. Disse a Serri: — Cerco di tenerlo caldo. Ma non son la sua morosa, si sa...
— La morosa la xe la morte, 'sta notte — battè il sergente fra i denti, tuttavia ridendo. Serri si
raddrizzò, passò ad altre buche, tornò dagli ufficiali.
— Come stanno? — gli chiese Reitani.
— Non c'è male, con la coperta e sui cardi resistono, nelle buche sono riparati abbastanza bene dal
vento.
Alle due la temperatura era scesa a trentotto sotto zero, i quattro ufficiali con grande fatica
spostarono il telo poiché il vento aveva mutato direzione, provarono a camminare all'aria libera, ma
il freddo era insopportabile. La disperata sensazione di non poter resistere al freddo cominciava a
far breccia nell'animo. Si rannicchiarono di nuovo sugli sterpi dietro al telo, abbracciandosi l'un
l'altro nel tentativo di scambiarsi calore. Un torpore orribile commisto al sonno si diffondeva negli
organismi.
— Potete resistere ancora? — chiese angosciato Reitani.
— Ho un sonno spaventoso — disse Perbellini.
— Possiamo tentare una cosa — disse Serri: — uno veglia e tre dormono, a catena.
Turno ogni cinque minuti. Siamo in quattro, possiamo dormire un quarto d'ora per uno. È l'unico
mezzo che ci rimane per arrivare a domattina, ma chi veglia resti sveglio ad ogni costo, si ricordi
che ha nelle mani la vita degli altri tre.
Comincio io, dormite.
Un minuto dopo vegliava sui tre compagni subito abbandonati al sonno. Li guardava e pensava agli
altri compagni sepolti a pochi passi nella neve, intorno ai cannoni.
Erano tutti avvinti a un'unica sorte, condannati ormai a soccombere di stenti.
Il sacrificio si sarebbe compiuto in silenzio, in quell'isolamento tragico. A primavera la neve
sgelando avrebbe restituito le loro ossa di sconosciuti.
Trenta erano già sepolti nelle buche; tre battevano i denti dormendo; egli vegliava, ancora due
minuti, prima di poter chiudere gli occhi a quel sonno orribile...
Con una intensità disperata, contemplando allora la paurosa vastità di neve, ascoltando il vento,
guardando le stelle lontane, sentì quei tribolati — nel profondo del cuore — fratelli.

6.
Venne l'alba. Gli artiglieri alpini sorsero dalle buche con l'aspetto di cadaveri resuscitati. I quattro
ufficiali rinvennero dall'incubo di una fine angosciosamente rinviata di quarto d'ora in quarto d'ora,
sciolsero le membra irrigidite, scossero i cappotti imbevuti di ghiaccio, crocchianti.
— Siamo tutti vivi; tre artiglieri hanno i piedi congelati — comunicò il medico a Reitani; — ma non
potremo superare una seconda notte in queste condizioni.
— Perbellini — ordinò il capitano — bisogna riprendere subito gli scavi, è necessario ripararci nella
terra per quanto è possibile.
— Va bene; ma non abbiamo attrezzi, signor capitano.
— Adopereremo le baionette, i coltelli, le unghie; daremo noi per primi l'esempio.
Tutti cominciarono con ogni mezzo a togliere neve e ad affrontare la terra; ma era dura come pietra,
si lasciava a mala pena intaccare dalle baionette. Dopo tre ore di fatica, soltanto pochi uomini erano
riusciti a scavare buche profonde poco più di qualche centimetro.
Reitani non cessava di scrutare in avanti la pianura nevosa e più oltre le colline che nascondevano il
Don; si portava poi sulla destra della linea pezzi a osservare giù nella valle la pista che congiungeva
Novo Kalitwa con Golubaja Krinitza. Il silenzio e l'immobilità che stagnavano sugli spazi nevosi
non lo tranquillizzavano ed erano ben lungi dal trarlo in inganno.
— Sento pesare come non mai su di me la vita di questi nostri uomini — confidò a Serri; — c'è
qualcosa di assurdo e di intollerabile nella situazione che stiamo vivendo. Da stanotte mi chiedo se
sono in diritto... Ciò che aumenta la mia sofferenza è il vedere come gli uomini accettino senza un
lamento il pensiero della fine che può venire da un momento all'altro. E bada che tutti sanno
d'essere venuti qui a morire...
Gli brillavano gli occhi, guardava ora i suoi artiglieri che scavavano furiosamente la terra gelata,
osservava le colline del Don.
— Verranno di là — disse mordendosi il labbro inferiore — ad ammazzarmeli...
Verso le nove la vedetta diede l'allarme.
— I russi! — gridò indicando il limite della pianura.
Reitani puntò il binocolo. Di fronte, dove a due chilometri di distanza la pianura si congiungeva alle
colline parallele al corso del Don, un reparto stava avanzando.
— Saranno sei o settecento — disse il capitano agli ufficiali vicini — vengono senza dubbio contro
di noi, fra mezz'ora saranno qui. Serventi ai pezzi.
Gli uomini si portarono in silenzio alle armi.
— Quanti proiettili abbiamo? — chiese il medico.
— Duecentosessantaquattro. Pochi, ma li venderemo cari.
— Batteria pronta, capitano — comunicò Dell'Alpe.
— Spareremo a zero sul reparto che avanza. Avverto che darò l'ordine di fuoco soltanto quando i
russi saranno a trecento metri.
I russi progredivano sulla spianata lentamente, a ranghi compatti; quando furono a ottocento metri
dalla batteria si fermarono.
— Purché adesso non avanzino in ordine sparso... — borbottò fra i denti Dell'Alpe.
Un rumore intermedio fra il fruscio e lo scroscio passò nell'aria.
— Mortaio... — sibilò qualcuno, e uno schianto secco subito seguito da un secondo fece
socchiudere le palpebre ai soldati.
— Brutto affare. Rispondiamo? — chiese Per bellini irritato.
— Da trecento metri — confermò il capitano con calma.
Altri due colpi di mortaio esplosero più vicini alla batteria, poi ancora due in prossimità del quarto
pezzo. Un soldato rimase ferito a un braccio. Serri gli frenò subito l'emorragia.
I russi ripresero ad avanzare con decisione, appoggiati dall'intensificato impiego dei mortai:
iniziarono anche a sparare con le mitragliatrici, i sibili delle pallottole sfioravano i pezzi e gli
uomini della tredici. Serri medicò altri due soldati feriti.
Quando il reparto russo fu a quattrocento metri dalla batteria il tiro dei mortai scemò d'intensità.
— Batteria pronta, capitano — sollecitò Dell'Alpe che si rodeva nel non veder controbattuto il tiro
nemico.
— Ancora qualche minuto — rispose Reitani; ma quando il reparto russo fu a trecento metri puntò
il binocolo e disse a Dell'Alpe con estrema calma: — Primo, terzo e quarto pezzo: granate a tempo,
spoletta a zero, puntamento diretto sull'obiettivo indicato.
— Batteria pronta! — ripetè fremendo Dell'Alpe in attesa del comando ultimo.
— Fuoco — mormorò il capitano.
— Fuoco! — gridò il tenente ai capi-pezzo. Un triplice rombo partì dai pezzi e un indescrivibile
scompiglio fu visibile nelle file russe.
— Fuoco! — ripetè Dell'Alpe. — Fuoco! — gridò quasi subito per una terza volta.
Quando l'eco della terza salva si dissolse, gli uomini ai pezzi udirono le alte grida che si levavano
dal reparto russo, nel quale s'erano aperti visibili vuoti; molti russi erano caduti nella neve, il reparto
tuttavia si era subito ricomposto e avanzava nuovamente.
— Altre tre salve, capitano? — gridò Dell'Alpe.
— Sì — confermò Reitani.
— Non abbiamo più granate a pallette — comunicò Perbellini.
— Passate alle normali, presto — disse il capitano. — Fuoco con le mitragliatrici.
I russi erano giunti a duecentocinquanta metri e progredirono ancora fino a distare soli duecento
metri dai pezzi italiani.
— Sono decisi a tutto — constatò Reitani. E comandò: — Intensificare la cadenza del tiro.
Sotto l'esplodere delle granate e le raffiche delle mitragliatrici il reparto russo s'arrestò, parve
esitare, poi all'improvviso i russi volsero le spalle e si diedero a precipitosa fuga disperdendosi in
ogni direzionesulla neve.
— Scappano! Scappano! — gridavano entusiasti gli artiglieri ai pezzi.
— Non illudiamoci, ritorneranno — mormorò Reitani a Dell'Alpe; — hanno ormai valutato i mezzi
di cui disponiamo e non facciamo altro che provocarli, tutto sommato.
Il tempestare dei colpi di mortaio sulla tredici riprese improvvisamente con estremo vigore come
per rappresaglia, le schegge volavano in ogni direzione, altri alpini vennero feriti. Il reparto russo, a
settecento metri, andava ricomponendosi e riordinandosi.
— Quanti feriti? — chiese il capitano a Serri.
— Undici, ma cinque hanno voluto ritornare al loro posto ai pezzi.
— Quanti colpi ci restano? — domandò allora il capitano a Perbellini.
— Centosettantasei, ma ventuno sono controcarro.
— Vengono di nuovo! — esclamò Dell'Alpe.
I russi avevano ripreso ad avanzare, ancora a ranghi compatti.
— È pazzesco uno schieramento simile, li mandano al macello — disse Reitani osservando col
binocolo.
Il grandinare dei colpi di mortaio contro la batteria s'accrebbe, altri mortai erano entrati in azione,
ma il loro tiro era impreciso. Due artiglieri caddero feriti, uno aveva una gamba sfracellata. Serri si
chinò su di lui, lavorando febbrilmente a fianco del pezzo.
Quando il reparto che attaccava giunse a duecento metri, Reitani ordinò di aprire il fuoco
simultaneamente con le mitragliatrici ed i pezzi. L'effetto fu impressionante, ma il reparto proseguì
ugualmente, presto fu a cento metri dai cannoni.
— Fuoco accelerato! — ordinò il capitano. Ma poiché i russi dimostravano di saper giungere ai
cannoni, comandò pure: — Inastare la baionetta!
Rabbiose salve a cadenza rapida si rovesciarono sui russi, le due mitragliatrici sgranavano pallottole
incessantemente, i mortai russi picchiavano sulla batteria, gli ultimi proiettili italiani giacevano
accanto ai pezzi, una mitragliatrice s'inceppò, vari artiglieri sparavano con i fucili, il reparto russo di
testa era già a ottanta metri dai cannoni, due colpi del terzo e quarto pezzo esplosero nel folto dello
schieramento nemico, gli altri russi subito s'inginocchiarono sulla neve, si distesero, uno si rialzò e
corse indietro, dieci lo imitarono, tutti in un baleno si rialzarono e fuggirono lasciando sulla neve i
corpi immobili dei compagni inanimati.
Di fronte a questa nuova situazione, gli artiglieri videro accrescersi le probabilità di sopravvivenza.
Ma il velo di speranza con cui adombravano la realtà fu subito strappato, poiché Dell'Alpe gridò: —
Un altro reparto avanza!
Tutti videro presso i colli prossimi al Don una seconda grossa formazione russa che da un
chilometro e mezzo di distanza stava avanzando sulla neve.
— Perbellini, quanti colpi abbiamo? — chiese Reitani.
— Sei colpi, signor capitano — rispose l'adolescente con voce ferma. Gli ufficiali e i soldati si
guardarono negli occhi in silenzio: la fine era segnata.
I mortai russi avevano nuovamente sospeso il tiro, dietro i pezzi i feriti doloranti tacevano. Una
improvvisa stanchezza pareva essere scesa su uomini e cose.
— I russi avanzano ancora — confermò Reitani osservando col binocolo verso il Don.
— Un altro reparto! — gridò il sergente Sguario dal quarto pezzo, che si trovava sull'estrema destra.
Gli artiglieri videro allora, guardando a tre chilometri sulla destra, varie centinaia di uomini in fila
che salivano lentamente e stavano per raggiungere, al di là della valle, i salienti delle colline. A
giudicare dalla posizione degli ultimi uomini della fila, che si trovavano ancora sulla pista a fondo
valle, la colonna proveniva da Golubaja Krinitza.
— Hai tenuto d'occhio la pista a fondo valle? Non sono venuti da Novo Kalitwa? — domandò
concitatamente Dell'Alpe a Sguario. — Lo escludo, non abbiamo perso di vista Novo Kalitwa per
un solo momento — rispose con sicurezza il capo-pezzo.
— Occupano sistematicamente tutta la zona, avanzano anche dalle nostre spalle. È fatta — ammise
Dell'Alpe con rabbiosa tristezza.
Reitani guardò ancora la pianura antistante, da dove s'avvicinava il pericolo più immediato. Gli
uomini del reparto sgominato s'andavano riunendo, quelli del reparto di rincalzo distavano poco più
di un chilometro.
— Quando saranno vicini a noi — ordinò a Perbellini — farai saltare i pezzi: prepara le micce e le
cariche.
Serri aveva riunito i feriti facendoli stendere su un piano di cassette vuote ravvicinate sulla neve.
Perbellini preparava in silenzio le cariche. Gli artiglieri, taciturni, avevano volti duri, chiusi.
— Mi dispiace — disse però Sguario — d'aver lavorato tre ore per niente a scavarmi la buca.
— Qualcuno arriva dalle cucine — notò un artigliere che stava guardando indietro.
Un uomo infatti stava avvicinandosi quasi di corsa arrancando nella neve; ad un tratto cadde e si
rialzò subito riprendendo a correre. Due altri uomini apparvero al limite del piano e si misero a
correre verso la batteria agitando convulsamente le braccia.
— Hanno visto i russi al fondo valle o sono stati già attaccati — disse Dell'Alpe.
— Quello è Sorgato, disgraziato anche lui — osservò Sguario riconoscendo l'uomo che si
avvicinava correndo.
Come fu a trenta metri, Sorgato con uno sforzo accelerò l'andatura agitando le braccia come un
forsennato; gli si distingueva un viso stravolto che nessuno gli aveva mai visto. Piombò in mezzo
agli uomini; gridava ansando, guardandosi attorno senza dar mostra, nel suo smarrimento, di
riconoscere alcuno: — Signor capitano... Signor capitano...
— Sono qui! — esclamò Reitani quasi seccato.
— Signor capitano... — gridò Sorgato precipitandosi boccheggiante sull'ufficiale e afferrandogli le
braccia —... la Julia... la Julia...
— Cosa vuoi? — domandò Reitani mentre vari artiglieri si raggruppavano intorno ai due.
— La Julia... — ripetè il vecchio alpino con occhi da forsennato, ansimando —... la Julia, vi dico!
In quel momento gli altri due arrivavano urlando: erano Scudrèra e Pilòn che sopraggiungendo si
precipitarono dal capitano.
— Cosa c'è, insomma? — gridò questa volta Reitani stizzito.
— Arriva la Julia, signor capitano! — urlò Scudrèra con quanto fiato gli consentiva la corsa fatta.
— Bada a quel che dici, imbecille! — gridò furibondo Coltrin.
— È la verità, signor capitano — proseguì rapidamente Scudrèra senza rilevare la frase del
puntatore. — Un mulo è scappato giù nella valle, gli sono corso dietro ed ho visto arrivare un
reparto, lo credevo russo ma poi ho riconosciuto gli alpini da lontano!
— Sei sicuro? — chiese seccamente Reitani.
— Sicuro, signor capitano? — scattò risentito Scudrèra; — ho parlato con loro, stanno già andando
sulla nuova linea, mi hanno garantito che entro oggi tutta la Julia arriverà qui!
— I russi sono a seicento metri! — gridò il sergente Bon che seguiva ogni movimento nemico.
L'eco di un rapido sgranarsi di colpi di mitragliatrice giunse dalla destra, dall'opposto versante della
valle, trenta teste si volsero rapide all'improvviso richiamo; s'udirono quattro netti tonfi di colpi di
mortaio in partenza, dopo pochi secondi quattro pennacchi di fumo nero si levarono tra le file del
reparto russo avanzante. Gli artiglieri della tredici, immobili come statue, seguivano l'evento
trattenendo il respiro.
E allora videro che sulla neve dell'altopiano il reparto russo s'arrestò interdetto per un paio di
minuti; poi, certamente obbedendo a un ordine, gli uomini che lo componevano eseguirono un
dietro-front e cominciarono a retrocedere verso il Don.
Un grido solo, lungo, frenetico, quasi doloroso si levò allora fra i pezzi della tredici; e una molla
inverosimilmente tesa scattò nel petto degli artiglieri alpini che si avventarono l'uno contro l'altro a
colpirsi con grandi manate sulle spalle, ad abbracciarsi, a baciarsi sui visi ispidi di pelame incolto e
gialli di patimento. Sul piano di cassette da munizioni i feriti, pallidissimi e ammutoliti, si
assestavano con caute mani gli stracci posti a riparo delle piaghe e si palpavano gli arti offesi quasi
a saggiarne con nuovo interesse la superstite vitalità; perché inverosimilmente la vita richiamava,
ancora una volta, tutti i trenta moribondi della tredici.
— Me n'era rimasta ancora una, Italo — disse Reitani fissando Serri con lucenti trepidi occhi; gettò
sulla neve lo sgualcito pacchetto vuoto e spezzò a metà la sigaretta che teneva in mano.
— Mezza per uno — disse ancora, insinuando fra le labbra del compagno uno dei due mozziconi —
da buoni fratelli. Accendi tu, io sono senza fiammiferi.
Ogni più semplice parola aveva ora un significato incredibile: riposante.
— Avevi in mano la scatola qualche minuto fa — rispose Serri frugandosi in tasca inutilmente.
— Sì, l'avevo data a Perbellini — disse Reitani sorridendo — per accendere le micce e far saltare i
pezzi... — Gettò un'occhiata sulla destra, al di là della valle, poi alzò lo sguardo verso le colline più
lontane soffermandolo un istante in direzionedi Jvanowka; lo girò innanzi osservando il reparto
russo che indietreggiava, macchia nerastra nello sfondo dei colli in riva al Don; ritrasse
gradualmente l'occhio scorrendo sulla pianura bianca di neve e punteggiata di morti; l'ultima
occhiata fu per i suoi trenta uomini rimasti vivi e per i suoi tre piccoli pezzi acquietati. Guardò Serri
infine, gli sorrise allora come un fanciullo che esiti a confidare un suo segreto e finalmente disse
con voce sommessa, completando la frase interrotta: — Me la farò restituire; quasi quasi penso di
portarla alla mia mamma, per ricordo.
Siccome Serri lo fissava con occhi strani, violentati dalla commozione: — Sai come sono le
mamme — si scusò; — certe volte basta una cosa da niente per farle contente.

7.
— Il pezzo che ti era restato indietro sta per arrivare qui — disse nel pomeriggio a Reitani il tenente
colonnello Verdotti, osservando attentamente la piana innanzi alla tredici; — è stato possibile
recuperare quasi tutto ciò che vi era rimasto a mezza strada durante il vostro trasferimento a
Mitrofanowka; entro domani avrai nuovamente la batteria al completo. Hai scelto il punto più
indicato per schierare i tuoi pezzi, capitano: un po' troppo avanti, forse, ma in compenso puoi
battere meglio le linee nemiche. Le altre batterie del Gruppo sono già in linea, ho posto il mio
comando presso Golubaja Krinitza.
— In questa circostanza avete tenuto un comportamento da veri alpini — proseguì il comandante di
Gruppo — la tredici ha onorato ancora una volta il nome della Julia, siamo fieri di voi. Ma non è
una buona ragione per farmi quella faccia — concluse allegramente prendendo a braccetto Reitani
nel vedere che il viso dell'ufficiale era impallidito.
Era quello che si dice una bella figura di soldato, il tenente colonnello Verdotti; veterano di molte
campagne, alla grande esperienza di cose militari univa una eccezionale dirittura morale, un senso
di responsabilità e una prestanza fisica che gli conquistavano la stima e l'affetto dei soldati.
— Com'è ora la situazione, signor colonnello? — chiese Reitani; — da quando abbiamo lasciato
Kuwschin noi non sappiamo più nulla salvo che i russi hanno sfondato con tre Corpi d'Armata
corazzati.
— La situazione non è nota con precisione — rispose Verdotti — perché la crisi ha investito oltre
che il settore di fronte italiano anche quello tedesco e romeno; ci giungono notizie imprecise.
— Ma cosa è successo?
— Ecco: — disse il colonnello cogliendo il fusto di un cardo selvatico e tracciando con esso una
linea nella neve — supponi che questa linea sia il medio Don. Poco oltre l'estremo di destra, a sud,
c'è Stalingrado. All'estrema di sinistra, a nord, c'è Voronesh. Da nord a sud sono successivamente
schierate le Armate tedesche, poi la ungherese, poi la italiana, quindi la romena e infine ancora le
tedesche. — Parlando, con la punta del fusto di cardo andava segnando con buchi equidistanti lo
schieramento delle armate. Tagliò con un tratto la linea, in corrispondenza del dislocamento
dell'Armata italiana.
— In questo tratto, dal fiume Kalitwa — riprese — proprio qui nel settore che oggi noi teniamo,
fino all'ansa di Werch Mamon, il dodici dicembre i russi hanno sferrato una travolgente offensiva
sostenuta appunto da tre Corpi d'Armata corazzati, sfondando e aprendosi una falla che nel settore
italiano ha per limite, a nord, lo schieramento del Corpo d'Armata alpino. Lo schieramento alpino
— e guardando sulla pianura indicò col cardo l'orizzonte verso nord — termina appunto là, a una
dozzina di chilometri circa, oltre una palude formata dal fiume Kalitwa che in quella zona si getta
nel Don.
Qui, dove ci troviamo ora, il fronte era tenuto dalla Ravenna e dalla Casserà, che dopo una
resistenza accanita sono state travolte dalla strapotenza nemica; il comando dell'Armata italiana ha
deciso perciò di togliere una divisione all'intatto schieramento alpino e inviarla qui nel tentativo di
tamponare la falla e di impedire lo scardinamento totale del fronte: è stata prescelta la Julia, e voi
siete stati mandati avanti come reparto di pronto intervento; il grosso della Julia è giunto soltanto
oggi, a piedi. Da oggi costituiamo il cardine e la spalla dello schieramento rimasto valido da qui
verso nord.
Dobbiamo perciò resistere indefinitamente su queste posizioni. Facciamo fronte verso est, al fianco
nord abbiamo la linea tuttora salda, al fianco sud...
— Al fianco sud? — chiese Reitani — Sappiamo soltanto che in questa battaglia i russi hanno
gettato la loro Ia Armata più un Corpo d'Armata corazzato contro la Cosseria e la Ravenna, e la 6a
Armata più due Corpi d'Armata corazzati contro la Pasubio, la Torino, la Celere e la Sforzesca: con
questa enorme sproporzione di forze il settore di fronte delle nostre fanterie è stato travolto. I
tedeschi cercano di porre in atto ogni contromisura possibile per salvare le loro Armate che
combattono da qui fino a Stalingrado e nel Caucaso. Ignoriamo l'attività dei Corpi d'Armata
corazzati russi che ormai operano alle nostre spalle.
— E tutte le divisioni italiane che erano schierate sul Don...
— Stanno ripiegando, e nel territorio in cui manovrano operano contemporaneamente grandi forze
russe.
— Cosicché i russi possono attaccarci alle spalle quando vogliono... — disse Reitani.
— Sì, non possiamo nasconderlo. Possono aggirarci a vasto raggio dal sud e noi qui non ce ne
accorgeremmo neppure. Ma per noi alpini c'è l'ordine di rimanere.
Abbiamo esattamente la funzione di una diga frangiflutti spinta nel mare.
Dobbiamo resistere qui ad ogni costo. Ma penso che il nostro destino sarà deciso altrove.
— Capisco — disse Reitani.
— Devo tornare al mio comando — terminò Verdotti; — entro oggi vi manderò viveri di conforto,
ne avete bisogno. Vi occorrerebbe anche un lungo periodo di riposo, ma non posso concedervi
neppure un'ora.
— Ci basta non sentirci soli come eravamo fino a stamane.
Così era, infatti. I quattro colpi di mortaio avevano mutato la situazione nella zona di Novo Kalitwa
e nell'animo degli artiglieri. Erano stati sparati da un battaglione della Julia che stava raggiungendo
le nuove posizioni. Gli uomini della tredici, quasi impazziti di entusiasmo, avevano poi visto altri
uomini formicolare sulla neve e prendere posizione sulle colline. Il battaglione di alpini Tolmezzo
era affiorato sulla piana ove la linea pezzi di Reitani vigilava; gli artiglieri alpini e gli alpini
avevano scambiato i primi gioiosi saluti a gran voce e il battaglione si era poi schierato cento passi
innanzi alla linea pezzi costituendo la prima linea.
I russi, sconcertati dall'affluenza delle nuove forze, non erano più riapparsi, avevano cessato anche i
tiri di disturbo e non davano segno di vita.
Approfittando della tregua e incalzati dalla necessità i battaglioni e i gruppi si erano subito
impegnati nella lotta contro la neve e il freddo. Come nel giorno precedente gli artiglieri della
tredici, così gli uomini dell'ottavo e nono Reggimento Alpini si erano trovati a calpestare la neve
gelata ed a pensare che su quella dovevano in ogni modo vivere. E s'erano buttati a corpo morto a
spalare neve, scavando così quello che doveva essere, ad un tempo, primissima linea e rifugio, e che
prima di notte appariva all'occhio come un lungo solco che tagliava per chilometri la pianura,
profondo quanto la neve e largo un metro. I muli portavano paglia, gli attrezzi lavoravano
accanitamente, all'imbrunire sugli opposti bordi della fossa vennero fissate le coperte a guisa di tetto
e a notte nella fossa dormirono gli alpini.
All'indomani erano giunti tutti i restanti reparti della Julia, la tredici aveva avuto il suo ultimo pezzo
e si era ricongiunta agli altri suoi uomini, la linea acquistò organicità e continuità, sul fronte di
Novo Kalitwa la divisione iniziò il nuovo ciclo di vita di guerra.
— I nostri rifugi di Kuwschin...! — sospiravano gli artiglieri giunti il giorno innanzi, pestando la
neve attorno ai pezzi e guardando la pianura desolata.
Nel pomeriggio i russi ripresero i bombardamenti; fu subito evidente che avevano ricevuto notevoli
rinforzi d'artiglieria poiché cominciarono a battere tutta la zona in cui s'era schierata la divisione.
Dimostrarono anche di possedere un notevole numero di mortai coi quali andavano picchiando sulle
linee. Le artiglierie della Julia risposero vigorosamente, poiché erano giunte buone scorte di
munizioni.
Ogni reparto era collegato con i Comandi telefonicamente, il rancio giungeva regolarmente anche se
gelato, le armi erano a punto, la divisione era compatta e agguerrita, scaglionata nei ripiani, nelle
vallette e sui colli a poca distanza dal Don e da Novo Kalitwa.
Ma gli uomini soffrivano, gettati sulla neve, rintanati nelle trincee nevose, legati all'arma e al
servizio di sentinella, immobilizzati nel terreno gelato, assetati poiché tutto intorno era soltanto
neve o ghiaccio, assonnati per essere costretti a scavare la terra nelle ore di luna per non rimanere
assiderati.
Tacevano, ma i piedi nelle scarpe irrigidite minacciavano di non potersi più muovere, le mani
faticavano ad impugnare l'arma.
— Ma signor tenente — chiedeva Coltrin a Perbellini — le divisioni di fanteria che erano qui prima
di noi non avevano rifugi?
— Sì, certo.
— E dove sono?
— In riva al Don, là su quelle colline in fondo alla pianura. Se li godono i russi, ora.
— Loro nei rifugi degli italiani, e noi sulla neve?
— Per forza.
I soldati guardavano a lungo all'estremo margine della pianura e sempre qualcuno commentava: —
Non capisco perché non ci mandano ad occuparli.
I «Rata» russi venivano a mitragliare e spezzonare. Prendevano di mira le batterie e scendevano
fino a pochi metri dalla neve tentando di sganciare le bombe sui cannoni mentre gli artiglieri
sparavano con i fucili. Gli apparecchi sorvolavano le trincee degli alpini mitragliando
ininterrottamente e gli uomini rispondevano da terra impegnando strani duelli con gli aerei.
Riuscirono ad abbatterne due.
I reparti russi cominciarono ad attaccare qui e là di sorpresa la linea italiana per saggiare la
consistenza dello schieramento alpino, ma furono respinti. Gli alpini sentivano però chiaramente
che il nemico si stava rafforzando; di notte si sentiva giungere da Novo Kalitwa un incessante
rombo di motori.
Alla tredici il capitano Reitani incitava di continuo gli uomini a scavare la terra. Ora che la
permanenza si poteva considerare stabile, aveva fatto iniziare la rimozione della neve e
intraprendere le opere di scavo sul bordo del ripido pendio della balka che si infossava a dieci metri
dietro la linea pezzi.
— Forza, ragazzi! — diceva; — fra poco per sopravvivere bisognerà avere qualche buco per
ripararci. Datemi ascolto.
Gli artiglieri si sfibravano nel lavoro di scavo, avevano anche costruito qualche baracchetta con assi
raccogliticce e con teli da tenda.
— Bisogna porre gli uomini al riparo almeno dai colpi di mortaio — diceva il capitano agli ufficiali
— perché tra poco ci sarà battaglia grossa.
A dieci passi dal primo pezzo, nel punto più esposto, sfruttando come parete il pendio della balka,
Reitani aveva fatto rizzare su pali un telo che serviva da tetto e ricadendo a lato formava altre due
pareti del rifugio ufficiali. La quarta parete mancava, ma al pari dei soldati gli ufficiali ora
usufruivano di due coperte e di qualche bracciata di paglia. Il rifugio era gelido, ma consentiva
tuttavia qualche ora di sonno. Sui pochi metri quadrati di terriccio gli ufficiali dormivano affiancati
e vicini; tra Reitani e Perbellini stava su un'assicciola il telefono poiché il rifugio funzionava anche
da Comando di batteria.
Gli alpini con una ingegnosità senza pari andavano rendendo meno impossibile la vita nelle trincee.
Un pezzo di latta, un fazzoletto steso, due palmi d'asse, un ritaglio di cartone incatramato, tutto
serviva a tamponare, a chiudere, a contrastare un grado di temperatura all'inverno russo. Faceva un
freddo terribile, poiché il Natale era imminente; un senso di sollievo si diffondeva fra gli uomini
quando, verso il mezzogiorno d'una giornata di sole, si potevano sfilare per un poco i guanti perché
la temperatura era salita a quindici, anche a dieci gradi sotto zero; ma già un'ora dopo scendeva
rapidamente, e se qualcuno voleva approfittare dell'ultima luce del giorno e di un momento di calma
per scrivere a casa gli auguri di Natale, doveva prima tenere a lungo la penna stilografica infilata in
bocca affinchè ridiventasse liquido l'inchiostro gelato nel serbatoio.
La notte di Natale calò sulla distesa bianca; era patetica e struggente come solo i soldati in trincea la
sentono, lontani da ogni bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle stelle.
A mezzanotte, dalle gelide tane disperse fra la neve, ombre lente sortirono sulla pianura e
s'avviarono silenziose verso un punto un poco luminoso.
Convenivano dagli esigui tuguri ricavati fra neve e terra, pazientemente divisi con pidocchi e topi;
andavano a processione e giungevano alla piccola luce, alla baracchetta del Comando di battaglione
a salutare Gesù, poiché il cappellano Lo chiamava tra gli alpini, in quella notte: diceva la Messa di
Natale in prima linea e Lo pregava di scendere a trovare gli alpini, che Lo attendevano con puro
cuore.
Pochi avevano trovato posto nella baracchetta, i più stavano nella neve, si erano inginocchiati nella
neve e dalla porticina aperta vedevano le due candele accese e il cappellano che pregava per
chiamare Gesù.
Il cappellano pregava con fervore ma un poco in fretta, perché gli alpini tremavano di freddo,
quarantadue feroci gradi sotto zero, ma erano venuti da Lui.
Stavano fermi e buoni nella neve, le ginocchia sprofondate nel bianco parevano di ghiaccio;
tenevano la testa bassa a dire le loro semplici preghiere e ogni tanto l'alzavano a guardare il chiarore
delle due candele.
Il cappellano leggeva in fretta e a bassa voce le parole della Messa di Natale.
— Vedi, Bambino Gesù — forse diceva il suo cuore mentre gli occhi scorrevano sulle righe del
messale — questi sono gli alpini che fanno la guerra. Ma non ne hanno colpa, Tu lo sai. Sono stati
mandati, e devono ubbidire. Preferirebbero lavorare tranquilli nelle loro case, per i loro figli e per le
mogli che sono rimaste sole, e per i vecchi. A loro non manca la buona volontà di servir Ti in pace
proprio come vorresti Tu, Fax hominibus bonae voluntatis. Vedi invece dove sono finiti e come
soffrono, che vita fanno! Guardali come sono ridotti, quasi peggio di Te quando nascesti: hanno
solo un po' di fradicia paglia per sdraiarsi; Tu almeno avevi, scusa, il bue e l'asinello a riscaldarTi
col fiato.
Loro, no. Il loro fiato esce dalla bocca e diventa brina, ricade sul bavero e sul petto del cappotto,
anche quando dormono; si svegliano così, poveretti, col ghiaccio sugli abiti. E sopportano, perché
sono mansueti ed umili di cuore, come Tu vuoi. Quando mi sono voltato verso di loro per
annunciare Gloria in excelsis Deo, ho visto che sono inginocchiati nella neve rivolti al Tuo altare:
me l'aspettavo, li conosco bene. E stanno a testa china, Ti pregano, se li ascolti sentirai che Ti
chiedono soprattutto di farli tornare presto a casa, alle loro montagne; da soli non possono andarci,
sono capaci di morire qui, per ubbidire.
Tu stesso li hai fatti così; ma se li restituisci alla casa sentirai che felicità, che bontà d'intenti e
d'opere vive nel loro cuore...
Press'a poco così doveva pregare il cappellano, perché era un alpino anche lui.
Ormai la Messa di Natale stava per finire; con quei quarantadue sotto zero non era possibile, in
linea, fare altre cerimonie. Nella «baracchetta, vicino all'altare, il campanello del telefono trillò.
— Pronto — disse a bassissima voce, per non disturbare, il maggiore Letti che comandava il
battaglione Tolmezzo. Ascoltò, rispose brevemente e tolse la comunicazione scambiando con il
celebrante un gesto di rammarico.
— Immediatamente ai posti di combattimento! — ordinò ad alta voce; — i russi stanno venendo
all'attacco davanti al nostro battaglione. Capitano Reitani, qui per favore.
La tredici, che operava in diretto appoggio del battaglione, aveva la linea pezzi schierata fra le
postazioni degli alpini.
— Mi raccomando il collegamento fra noi — disse il maggiore; — sarà dura, dagli osservatori
avvertono che i russi stanno per attaccare con almeno tre battaglioni il mio reparto. Dovremo
compiere uno sforzo enorme.
Il cappellano aveva terminato la Messa e stava riponendo gli arredi sacri, s'udì il frullare e lo
schianto d'alcuni colpi di mortaio che esplosero nelle vicinanze.
— Non rispettano neppure la notte del Signore... — sospirò il cappellano spegnendo le due candele.
Reitani era già uscito, corse duecento metri a raggiungere la batteria. Le salve di varie batterie russe
iniziarono a scaricare proietti sulle linee italiane.
Dietro i pezzi, al Comando di batteria squillò il telefono, Reitani accorse.
— Tiro d'interdizione su Novo Kalitwa — disse a Dell'Alpe uscendo e comunicando i dati.
La batteria iniziò a sparare aprendo il duello con le artiglierie russe, i bengala si alzavano
illuminando le linee con una fioritura di luce, scoprendo i grossi battaglioni nemici che avanzavano
sulla neve; velocissimi nastri rossigni si stendevano nell'aria rasentando le corolle dei cardi vizzi,
venivano incontro agli alpini acquattati e si spegnevano nel buio: pallottole traccianti delle
mitragliatrici russe.
Avanzando ancora i reparti russi ed intensificandosi il fuoco nemico, squillò nuovamente il telefono
alla tredici.
— Il comandante di gruppo ordina di sospendere il tiro su Novo Kalitwa, che verrà ripreso dalle due
altre batterie del gruppo. La tredici inizi il tiro di sbarramento sui reparti russi che avanzano.
Reitani comunicò alla linea pezzi le variazioni di tiro, le prime granate caddero sui russi, questi
risposero con un intensificato tiro dei mortai. Le mitragliatrici degli alpini sparavano a tiro
incrociato, lunghi sibili negli alti spazi del cielo annunciavano il passaggio delle granate. Vampe
violacee e rossastre zampillavano dovunque sulla neve, disseminando schegge sugli uomini e
inserendo sprazzi di colore nel bianco spettrale della luce dei bengala.
— Parla il maggiore Letti — disse ancora una voce concitata al telefono della tredici. — Reitani,
tieniti pronto a sparare a zero, ho già avvertito i miei alpini di stare sdraiati sulla neve, i russi che
attaccano stanno per dare l'assalto alle nostre trincee, sono a duecento metri. Sono migliaia, è un
momento duro; tiro preciso, a fil di penna, mi raccomando, se no mi ammazzi gli alpini!
— Fidatevi della tredici, maggiore — replicò Reitani e ritornò di corsa ai pezzi per far variare il
tiro.
— A zero, ragazzi — comandò ai capi-pezzo — a duecento metri. Ricordatevi che i proiettili che
sparate sfiorano gli alpini.
— Non sbaglieremo di quattro dita, signor capitano! — esclamò Bartolan curvandosi assieme a
Coltrin sul sistema di puntamento del pezzo.
Trenta secondi dopo, gli alpini affacciati alle trincee a sparare, avendo a cento passi dietro le spalle i
quattro pezzi della batteria, percepivano a un metro sopra la testa il sibilo e il risucchio delle granate
roventi della tredici che li sfioravano, per esplodere duecento metri più avanti nel folto del reparto
russo.
— Perfetto, Reitani! — gridava il maggiore Letti al telefono; — ancora, ancora! Tiro accelerato fino
a contrordine, se puoi; è il momento culminante.
— Con gli stessi dati, tiro accelerato — ordinò Reitani alla linea pezzi.
Quando i russi, nella luce dei bengala, spiccarono il balzo finale per piombare nelle trincee del
battaglione, la neve e l'aria ribollivano d'esplosioni, di schianti; gli alpini, curvi sulle loro armi e
protetti dai nastri infuocati della tredici che parevano mordere le penne, sparavano a perdifiato,
frenetici, decisi a difendere la trincea e scattare al contrattacco quando i russi fossero stati a pochi
metri. Il battaglione e la batteria, fusi in un'unica micidiale forza, difendevano la linea e la vita in
uno slancio estremo. I russi piegavano le ginocchia e s'afflosciavano sulla neve, ma altri
sopraggiungevano baldanzosi arrestandosi anch'essi e cadendo; prossimi ormai alle trincee altri
guadagnavano un metro, due metri, abbattendosi infine innanzi alla distruggitrice tenacia di un
battaglione e d'una batteria d'alpini: la sorte parve a lungo sospesa sulle linee, affidata da un lato a
virtù di tenacia di pochi e dall'altro all'irruenza e alla massa d'urto dei molti; quando gli sforzi degli
assalitori parvero scoordinarsi, quando infine la massa russa voltò le spalle e all'improvviso arrancò
come una pesante mandria verso il buio delle proprie linee, allora fra gli alpini, che deposto
finalmente il fucile sulla neve si soffiavano sulle mani gelate o le infilavano sotto le ascelle, corse
un brusio che da difensore a difensore diceva: — Abbiamo collaudato la linea: potranno venire
mille volte, ma non passeranno più.
Ora gli alpini riordinavano le armi e correvano di bocca in bocca i primi tristi consuntivi del
combattimento: — Due morti e quattro feriti al primo plotone...
— Un colpo di mortaio è entrato nella trincea del quarto: cinque morti e un ferito...
— Una ventina di alpini si sono congelati...
— Tre assiderati...
Dalla piana antistante le trincee si udivano salire i lamenti dei feriti russi immobilizzati nella neve.
Lugubri e fiochi, straziavano il cuore.
— Bisognerebbe fare qualcosa, andare a prenderli, poveretti. Sulla neve muoiono, con questi
quarantadue sotto zero.
— Sono già uscite due pattuglie, ma non hanno potuto avvicinarsi, sono state prese a fucilate. Ci
sono ancora diversi russi appostati in giro, e sparano.
La tredici aveva avuto otto feriti, Serri li aveva medicati e avviati all'ospedale. Uno s'era presentato,
un servente del secondo pezzo, e aveva mostrato in silenzio al medico le palme delle mani. Dal
polso alle estremità delle dita mancavano in tutto il loro spessore i tegumenti cutanei, le povere
mani ostentavano a nudo i fasci di muscoli e il biancore luccicante dei tendini.
— Cosa t'è successo, disgraziato?
— Mi ero levato i guanti un momento, signor tenente, perché erano incrostati di ghiaccio e non
potevo muovere le mani. Sono scivolato vicino al pezzo e sono caduto; per non sbattere la faccia ho
dovuto poggiare le mani sul ferro del cannone. Per il gelo la pelle mi è rimasta attaccata là, Dio
santo.
Il gelo, l'indemoniato gelo era sempre il nemico più feroce; era vile, subdolo, implacabile, e ad ogni
istante in agguato.
L'altro, formidabile anch'esso, era tuttavia più facilmente affrontabile. Non desisteva se non era
esaurito dallo sforzo, però. Anche in quella notte di Natale dopo mezz'ora di tregua ritornò
all'attacco con forze più imponenti, impegnò i suoi uomini con un vigore impressionante
scagliandoli di nuovo contro il battaglione e la batteria, deciso a sfondare. Ripiegò, ritornò quindi
con maggiore furia all'attacco.
— Attenti — telefonarono dagli osservatori e dai comandi — viene avanti con forze raddoppiate, è
indubbiamente un intero reggimento che avanza.
L'urto contro il battaglione e la tredici fu terribile, distruggitore; fortunatamente gli altri battaglioni
del reggimento e le batterie del gruppo riuscirono ad agganciare il reggimento nemico
impegnandolo su più largo fronte e frazionando la potenza d'urto. Il nemico non giunse a ridosso
delle trincee; nell'imminenza dell'alba il reggimento russo, fiaccato da ore di tentativi sanguinosi,
ripiegò ancora una volta.
Agli sguardi stanchi degli alpini l'alba svelò innanzi alle trincee lo spettacolo di centinaia di russi
inerti sulla neve.
Le palpebre pesavano, tormentate dalla stanchezza; e gli occhi vitrei dei soldati guardavano fissi e
come spenti al di sopra dei cadaveri il primo livido pallore di quel venticinque dicembre che gli
uomini amano salutare giorno di pace.

8.
Specie durante la notte gli uomini della Julia scavavano la terra, trascinavano assi e pali dalle
retrovie, s'accanivano nel tentativo di costruire rifugi.
I russi, di fronte, abitavano i rifugi italiani trovati intatti lungo il Don, usufruivano anche dei paesi
posti al di là del fiume, ben sapendo che gli italiani non potevano avere velleità d'attacco; ma la
Julia era inchiodata alla neve, là i suoi uomini erano condannati ad accettare e subire ogni iniziativa
nemica.
Il giorno ventisei i russi attaccarono e furono respinti sei volte.
— Agiscono progressivamente — diceva a Reitani il tenente colonnello Verdetti, venuto in
ispezione alla tredici, — hanno cominciato col saggiare la consistenza del fronte della Julia
attaccando la linea tenuta da un battaglione, poi hanno aumentato le forze d'attacco e si sono
scagliati contro un reggimento, infine contro tutta la Divisione. Finora non hanno avuto successo,
ma ricevono sempre nuovi rinforzi.
— Che forze russe potrà avere attualmente di fronte, la Julia? — chiedeva Reitani.
— È accertato che sono schierate innanzi a noi tre divisioni russe, ma bisogna tenere presente che i
reggimenti russi hanno un organico assai superiore al nostro. Inoltre i prigionieri affermano
concordemente che è atteso l'arrivo di divisioni di siberiani particolarmente atti e attrezzati al
combattimento nel clima più freddo.
— E la situazione generale? — chiedeva Reitani. Il colonnello guardava il cielo e increspava le
labbra.
— T'ho già detto che la Julia è come una diga che s'inoltra nel mare — diceva; — ecco, fa' conto
che ora sul mare si sia scatenata una furiosa burrasca. Chiaro?
— Chiaro.
— Bene. I tedeschi dicono che stanno prendendo le misure del caso. È tutto quello che si sa.
Resistono ancora a Stalingrado, ma da là a qui la situazione del fronte è oscura e incontrollabile.
Sulla nostra sinistra abbiamo sempre le altre due divisioni alpine che tengono la linea sul Don, ma
sulla destra invece c'è un rimasuglio di divisione tedesca quasi completamente distrutta dai
combattimenti; alla destra di quella poi c'è il vuoto assoluto.
La diga finisce perdendosi nel caos.
— E il rimanente dell'Armata italiana? — chiedeva Serri, angosciato per la sorte del fratello Beppe.
— Stanno ripiegando, noi appunto ci ostiniamo a sbarrare la strada al nemico anche per rendere
meno difficoltoso l'arretramento della nostra Armata.
— E noi? — domandava Brogli. Il colonnello si stringeva nelle spalle.
— A noi non resta che resistere qui, secondo il compito che il Comando d'Armata ci ha affidato. In
ogni modo, per uscirne con onore c'è una sola via, e la conosciamo. Dobbiamo provvedere a noi
stessi da soli, non possiamo fare affidamento sulle forze tedesche dislocate nel settore della Julia,
perché sono esigue ed esauste.
— A quanto ammontano, in realtà? — insisteva Brogli.
— I tedeschi ci hanno inviato in appoggio qualche reparto che è stato inserito in linea fra i nostri,
ma uno dei battaglioni è composto di quarantotto uomini, e una compagnia di sedici! Ricordatevi di
non perdere mai d'occhio la quota 176, è una delle posizioni chiave del nostro schieramento ed è
tenuta da loro. I tedeschi dicono che faranno affluire in questa zona molti carri armati, ma temo che
non li vedremo mai. A proposito di carri armati, vi avverto invece che a Novo Kalitwa ne sono
giunti diversi: abbiate presente che i russi li adoperano specialmente di notte. Abituate gli uomini
all'idea di trovarsi di fronte anche a quei bestioni di ferro, una di queste notti.
Il ventisette dicembre lo spiegamento offensivo russo gravò sulla linea della Julia in tutta la sua
potenza. Gli attacchi si susseguirono di giorno e di notte.
In pochi giorni il gelo, l'insonnia e il combattere avevano scavato nel volti degli alpini profonde
ombre di patimento. Tutta la Julia viveva poggiando e gravitando su quei lunghi chilometri di fronte
da difendere: diecimila uomini di compagnia e batteria infissi nella neve spuntavano con la penna
nera dalle trincee e dai muretti di neve elevati a occultamento dei pezzi; addietro, scaglionati nelle
retrovie stavano i comandi, le basi, le cucine, i magazzini, i depositi, gli ospedali, i servizi, tutti
difesi dai diecimila in linea cui gli altri diecimila dislocati a tergo provvedevano, facendo affluire
nottetempo alle trincee, con i conducenti e i muli, i mezzi per continuare a vivere e combattere.
La linea divorava munizioni e viveri, le retrovie rifornivano di continuo: nulla doveva arrestare il
concatenato lavoro che articolava le trincee ai comandi, ai servizi; né i quaranta sotto zero, né le
tempeste di ferro che scrollavano l'intero settore dovevano intaccare l'opera dei ventimila alpini,
pena l'annientamento della Julia.
La Julia teneva. Tenevano i muli, i conducenti, gli alpini affossati nel gelo infernale, le vedette sugli
estremi spalti.
Gelati dal vento, giungevano a sera muli e conducenti, trascinando a ridosso delle linee le munizioni
e il rancio.
— Presto! — diceva allegramente Scudrèra raggiunta la linea pezzi della tredici, scrollandosi dalle
gambe e dall'orlo del cappotto la neve raccolta durante il cammino e slegando il telo di copertura
delle slitte; — Sbrighève, ve se raffrèda el ràncio e me vièn el cagòto ai muli.
— Abbiamo fretta di tornare indietro, eh? — insinuava Coltrin beffardo.
— Indietro, io? — sbottava Scudrèra ridendo, consapevole di quant'era inverosimile l'idea che egli
potesse aver paura. E aggiungeva con serietà: — Cosa mangiate domani, se stanotte mi crepano i
muli?
— Cos'hai portato? — chiedeva l'infermiere Zoffoli, eterno affamato.
— Minestrone congelato, pane e formaggio. Ti basta?
— C'è il vino? — domandava il sergente Bartolan, addetto alla distribuzione.
— Sì: nel sacco più grande.
Era sembrata una battuta di spirito, la prima volta, ma poi gli artiglieri si erano abituati a sfilare dal
sacco il blocco di ghiaccio bruniccio costituito dal vino congelato: lo rovesciavano sulla neve e lo
spezzavano con una accetta per ricavarne le razioni, mentre qualcuno raccoglieva le schegge per
succhiarle.
Gli artiglieri passavano poi a turno presso la slitta a ricevere i quattro blocchi gelati di minestra, di
vino, di pane e di formaggio, per ritirarsi quindi a ammorbidire in bocca i gelidi cibi, nella loro tana
presso le armi.
Erano pasti penosi e crudeli, una serie di bocconi che raggelavano il palato e facevano dolere i
denti. E spesso, in quei minuti, i bocconi laboriosamente preparati finivano a precipizio nel
tascapane perché un maledetto trillo del telefono sbatteva gli uomini ai pezzi e la tragedia notturna
aveva inizio.
Venne il ventotto dicembre.
Si fecero innanzi i reparti russi e fra le schiere si profilarono le minacciose sagome dei carri armati.
— Lasciate passare i carri — fu l'ordine fulmineo che il telefono trasmise — li bloccheremo qui in
retrovia; voi fermate le fanterie ad ogni costo innanzi alle linee.
I carri armati passarono incontrastati sulle trincee degli alpini, mentre questi rannicchiati nel fondo
fissavano i cingoli scorrere a due palmi sopra le penne nere; subito gli alpini si riaffacciarono ad
affrontare i reparti che i carri armati trascinavano nella propria scia e ancora una volta li bloccarono
innanzi alle linee. Solo in un punto, sotto l'impeto nemico, in quel giorno la linea cedette e i russi
irruppero nelle trincee: era la quota 176 tenuta dal reparto tedesco. Un urlo di delusione e di
raccapriccio uscì dalle gole degli alpini: la quota dominava il rimanente distendersi della linea, una
breccia simile avrebbe potuto generare conseguenze disastrose.
Poco dopo, un reparto di alpini salì all'attacco della 176, con furibondo impeto la espugnò e la
riconsegnò ai tedeschi. I russi ritornarono immediatamente all'assalto, riconquistarono la 176
scacciandone i tedeschi, gli alpini contrattaccarono e restituirono la quota ai soldati germanici; nel
giro della giornata per una terza volta i tedeschi perdettero la quota e gli alpini la riespugnarono
riconsegnandola ancora agli alleati.
— Julia: Panzer-Soldaten...!— esclamavano i tedeschi.
Era difficile misconoscere l'eccezionale valore che gli alpini dispiegavano giorno per giorno:
perfino qualche ufficiale russo fatto prigioniero ammetteva che i Comandi al di là delle linee erano
esasperati e impressionati per la sovrumana resistenza opposta dagli alpini; aggiungeva però che gli
italiani non dovevano farsi illusioni perché i russi ricevevano sempre nuovi rinforzi e avrebbero
finito per avere il sopravvento.
Era evidente che lo schieramento russo si rafforzava quotidianamente e che sempre più numerose
forze andavano addensandosi contro gli alpini; il ventinove dicembre il nemico pose in azione
numerose batterie controcarro e iniziò sulla pianura la caccia all'uomo nel tentativo d'arrestare il
movimento nelle linee alpine: ad ogni cenno di vita, al muoversi di una testa affiorante da una
trincea, ad una sagoma d'artigliere che si spostava per portare una cassetta di munizioni, era una
granata dei pezzi nemici che giungeva al bersaglio, inesorabile, avendo i pezzi controcarro una
precisione di tiro pressoché assoluta.
Così raggiunse gli alpini, venendo da mille miglia lontano, la citazione della Julia sul bollettino di
guerra germanico «per il superbo comportamento della divisione sul fronte del medio Don»; in
quattro anni di guerra era la seconda volta che il Comando supremo tedesco citava nel bollettino
una divisione straniera.
Nella mattina del trenta dicembre non era ancora stato dato l'allarme alla tredici quando già le altre
due batterie del Gruppo sparavano da tempo.
— Non si vede nulla — dicevano innervositi gli artiglieri guardando la tranquilla distesa di neve.
— Il Comando di Gruppo all'apparecchio, signor capitano!
— chiamò il telefonista.
— Non ti ho fatto aprire il fuoco finora, — comunicò al telefono Verdetti a Reitani — per non farti
sciupare munizioni, temo che ne avrai molto bisogno fra poco. Bada che i russi stanno preparando
qualcosa di grosso, hanno già attaccato sulla destra e ora stanno muovendo verso di noi. Ti avverto
che sono forze ingentissime; saranno dolori.
— Allarme! — gridò dal di fuori la vedetta.
— Serventi ai pezzi — ordinò Reitani. Si soffiò il naso colante per il gelo e uscì fra i suoi uomini.
Li guardò. I capi-pezzo erano a fianco del loro cannone: Bartolan al primo, Fraita al secondo, Bon
al terzo, Sguario al quarto. A lato d'ogni pezzo stavano i gruppetti dei serventi, il capitano aveva
intorno gli ufficiali.
— Il puntatore e un servente restino col capo-pezzo — ordinò — tutti gli altri rientrino nei rifugi ed
attendano di essere chiamati a turno.
I capi-pezzo scelsero un servente, gli altri a malincuore arretrarono di dieci metri e s'appiattarono
nei rifugi ricavati nel bordo della balka. Il capitano guardò gli ufficiali.
— Anche voi nei rifugi — disse; — resto fuori solo io. Gli ufficiali non si mossero.
— È un ordine — disse Reitani con pacata dolcezza; — ci sarà tempo per tutti.
Dell'Alpe, Perbellini, Serri e Brogli ubbidirono, portandosi sotto il telo del rifugio-comando.
Udivano Reitani dare ai capi-pezzo i primi comandi per il tiro, la voce risuonava serena nei
trentadue sotto zero.
Cinque minuti più tardi la tredici viveva già il dramma che aveva investito il settore. Innumerevoli
mortai russi battevano il terreno striscia per striscia, metro per metro, coadiuvati dalle artiglierie
nell'opera di distruzione, stroncando, uccidendo, massacrando. Le «katiuscie» russe, entrate in
azione, con formidabili boati e arcuate fasce di fuoco sgranavano sedici colpi ciascuna ad ogni tiro,
crivellando il terreno e dilaniando gli uomini immobili presso le armi nel vasto settore della Julia.
Il telefono della tredici pareva impazzito, poiché ad ogni minuto giungevano dai Comandi del
gruppo e del battaglione sempre nuove richieste di fuoco accelerato per sostenere nei punti più
disparati gli alpini sotto l'imminente minaccia d'essere travolti.
Gli artiglieri ai pezzi sparavano senza tregua, intenti a mutare ogni poche salve la direzione del tiro
secondo le variazioni incessantemente trasmesse da Reitani. Frenati dall'ordine del capitano, dai
rifugi gli artiglieri seguivano col cuore in gola le fasi del combattimento, imprecando per non essere
ai pezzi.
Le linee sussultavano e fumigavano sotto gli schianti, parevano divellersi per l'impeto d'una potenza
infernale; sovrastava tutti la sensazione d'un imminente crollo.
Nel frastuono immane dilagante sulle linee, una serie di schianti più violenti colpì i timpani degli
artiglieri della tredici poiché i mortai russi improvvisamente intrapresero a centrare la batteria, un
fumo nero e denso avvolse i pezzi.
— Serri! — gridò la voce di Reitani mentre il medico si slanciava correndo verso il capitano, che
s'intravvedeva nella cortina nerastra.
— Sei ferito? — urlò Serri, tentando di farsi intendere nonostante le altre scariche di mortaio che
piombavano fra i pezzi.
— No, corri al quarto pezzo, qualcuno è ferito! — rispose il capitano e gridò subito: — Dell'Alpe,
munizioni!
Raggiunto il quarto pezzo, Serri vide il cannone reclinato a lato, un colpo nemico l'aveva centrato
svellendo la metà dello scudo e schiantando una ruota.
Vicino al pezzo, appena il fumo dell'ultima esplosione si diradò, scorse a tre passi, sulla neve fatta
scura, il corpo abbattuto del sergente Sguario. Gli si chinò precipitosamente a fianco, e nell'attimo
stesso una tempesta di colpi s'abbattè sulla batteria, Serri sentì le schegge rimbalzare contro il
pezzo. Vide allora che un secondo corpo giaceva al di là dell'affusto del cannone.
— Zoffoli! Chiamate Zoffoli e i portaferiti! — gridò verso il rifugio più prossimo, che distava pochi
metri; — vengano con due barelle!
— Via dal pezzo, Italo! — gridò Reitani imperioso, mentre altri colpi di mortaio già frullavano
nell'aria; — ti ammazzano!
— Giù, Zoffoli! — gridò Serri all'infermiere che correva verso di lui trascinando una barella.
Quattro colpi di mortaio esplosero, una scheggia sfiorò il viso di Zoffoli e gli recise un lembo
dell'orecchio sinistro.
Serri aveva fra le mani il capo di Sguario, vide che il sergente respirava ancora. Essendo giunti i
barellieri i due feriti vennero deposti sulle barelle.
— Giù nella balka, adagio — disse Serri.
S'erano appena rizzati reggendo le barelle quando altri quattro colpi di mortaio esplosero a
gragnuola a pochi metri dal cannone.
— Accidenti...! — mormorò Zoffoli con una smorfia di dolore.
— Sei ferito?
— A un braccio... mi cade la barella... — disse l'infermiere che già perdeva sangue dall'orecchio.
— Dalla a me — disse Serri prendendo subito il posto di Zoffoli.
— Volete andar via di là, disgraziati? — gridò la voce di Reitani; — non capite che i mortai hanno
puntato il tiro contro il quarto pezzo?
Le barelle scesero nella balka mentre il combattimento aveva assunto toni più alti ed esasperati.
— Ancora munizioni, Dell'Alpe, presto! — comandava Reitani.
— Tiro accelerato davanti alla settantasette e alla settantanove, subito! — chiedeva il telefono.
L'aria era solcata in ogni senso da sibili e schianti, a ondate giungevano gli urli dei russi che
s'inferocivano negli attacchi respinti.
— Attenti sulla destra, i russi stanno per sfondare! — tempestava il telefono.
— Dottore, gli alpini mandano qui i loro feriti, il loro tenente medico è morto!
In quel finimondo, Serri stava tentando con grande alacrità di rintracciare le lesioni che le schegge
di mortaio avevano prodotto nel corpo del sergente Sguario. Dovevano essere diverse, a giudicare
dagli strappi sul grigioverde, ma era urgente individuare le più gravi. Non apparivano tracce di
sangue, il ferito era svenuto, non si poteva d'altronde denudarlo nel gelo.
Il volto di quell'uomo si andava sbiancando; era palese che Sguario aveva già udito il richiamo della
megera sdentata, e s'avviava al tristo appuntamento.
Gli occhi dei compagni erano magnetizzati dal suo viso immoto. Sguario, Sguario, anche tu...? Così
grande, così forte, sembravi inatterrabile; il tuo coraggio era tanto da trasfondersi sempre negli altri,
che ora si smarrivano a vederti abbattuto sulla neve...
Altre volte Sguario era tornato da vie inverosimili, precluse a tutti; come quella tal volta, in Albania,
quando era uscito di pattuglia in ricognizione verso le linee greche, ed era partito imprecando,
costretto com'era a sostituire con l'elmetto il fido cappello alpino. Una pallottola greca l'aveva ferito
a una coscia facendolo stramazzare; catturato dai greci, disarmato e sanguinante era stato avviato
verso le retrovie. L'alpinaccio, zoppicante fra due soldati greci con baionetta inastata, si trascinava
lungo un sentiero schiumando rabbia; come s'avvide di trovarsi isolato coi due abbrancò l'odiato
elmetto e con tale nuova mascella d'asino li aggredì fulmineo, li stese in un baleno; ritornò sui suoi
passi, piombò di sorpresa nella trincea greca, si impossessò di un mitragliatore, ne catturò i serventi,
e con questi allibiti prigionieri rientrò sacramentando nelle linee della Julia.
Ma questa volta, a giudicare dal polso e dall'occhio, il capo-pezzo era morente.
Nella neve della balka innanzi ad un rifugio, in piedi attorno alla barella stavano in cerchio molti
artiglieri. Serri aveva slacciato al ferito il cappotto e la giubba, con uno strappo guardingo gli lacerò
la camicia. Al più diretto contatto con l'aria gelida il sergente Sguario contrasse la bocca, aprì gli
occhi, tentò di parlare. La corona dei compagni si fece più vicina, le teste si chinarono per cogliere
le parole.
Gli occhi del capo-pezzo parvero riconoscere i volti, le labbra gli si contrassero in una smorfia.
Col coltello Serri gli aveva intanto tagliata la maglia e alla vista del petto nudo un contenuto
mormorio di raccapriccio passò fra gli artiglieri: all'altezza del cuore una scheggia grossa quanto un
pugno aveva sfondato il torace del capo-pezzo; pur essendo infissa tra le costole, una parte del
metallo nerastro emergeva ancora fra le labbra della ferita. In quell'istante il sergente Sguario
s'irrigidì, s'inarcò, la scheggia emerse dalla ferita, fuoriuscì in due o tre conati come se il torace la
vomitasse, rotolò lentamente dal petto al fianco e si fermò contro il lembo della maglia strappata.
Non gocciolò una stilla di sangue, che questo, affiorando, subito si raggrumava bloccato
fulmineamente dal gelo. Serri ricoprì il petto, si alzò.
— È morto — disse agli artiglieri che lo guardavano stupiti senza aver ancora capito.
— È morto — ripetè a se stesso, preso da una improvvisa rabbia impotente; e passò alla seconda
barella.
Nessuno dei presenti, attanagliati dall'orribile fascino della morte, aveva udito lo scoppio delle
ultime granate, ma il combattimento continuava furibondo.
— Otto serventi diano il cambio, Dell'Alpe qui da me, venti cassette ai pezzi subito! — gridò a quel
punto Reitani affacciandosi all'orlo della balka.
— Come vanno i feriti? — domandò vedendo Serri alle barelle.
— Sguario è morto — gli disse Sorgato. Il capitano portò le mani al volto, come per distendere i
lineamenti che s'erano contratti. Ma fu un attimo.
— Perché non porti le barelle nei rifugi, Italo? — domandò.
— Impossibile, non c'è luce — rispose il medico, levando lo sguardo dal ferito che andava
fasciando. — Una scheggia in una coscia, è il servente del quarto pezzo — aggiunse rispondendo
all'interrogazione colta negli occhi del capitano.
— Capitano, richiedono fuoco dinanzi alla quota 176 — annunciò Per bellini.
Reitani corse ai pezzi, Serri si alzò.
— Portate indietro il ferito, riportatemi subito la barella — ordinò il medico ai barellieri.
Una tempesta di colpi si rovesciò nuovamente intorno ai cannoni.
— Il terzo pezzo è colpito, maledizione! — gridò una voce. Serri accorse al cannone, lo scudo era
stato perforato e schiantato, il puntatore Foresti era seduto su una cassetta di munizioni e si torceva
dal dolore serrando fra le ginocchia un braccio sanguinante.
— Vieni, ti medico subito — gli disse Serri passandogli le mani sotto le ascelle per aiutarlo ad
alzarsi.
Foresti alzò gli occhi verso il medico, ricompose con uno sforzo di volontà il viso contratto e
alzandosi disse: — Quando avrò finito il mio turno verrò da solo, signor tenente; anche il pezzo è
colpito, ma possiamo sparare ancora. — E si curvò ai congegni di puntamento.
In quel momento, mentre da qualche minuto le fanterie russe avevano rallentato l'impeto d'attacco,
una scarica di otto granate raggiunse la zona della linea pezzi, subito seguita da una seconda e da
una terza. Era evidente che il nemico iniziava con nuovi mezzi un preciso tiro di controbatteria,
nell'intento di annientare i cannoni della tredici.
— Via tutti! — gridò Reitani correndo da un pezzo all'altro e sospingendo tutti gli artiglieri verso i
rifugi.
Rimase solo, immobile in piedi nello spazio fra il secondo e il terzo pezzo, sotto l'inaudita violenza
del tiro. Le granate giungevano sulla zona della tredici a grappoli, i pezzi scomparivano e
ricomparivano tra ondeggianti fumate nere, le schegge sibilanti volavano in ogni direzione.
— Capitano, signor capitano! Venite qui! — gridavano con angoscia i soldati dai rifugi
affacciandosi all'orlo della balka e aspettandosi da un istante all'altro di veder saltare in aria il loro
comandante.
Serri corse avanti, afferrò Reitani per un braccio e lo scosse.
— Ugo, sei pazzo! — gli gridò; — vieni via, vuoi farti ammazzare?
— Io sono al mio posto, tu no, torna indietro! — gli rispose Reitani fissandolo con occhi imperiosi.
Ma già i capi-pezzo Bartolan, Fraita e Bon si erano slanciati fuori dai rifugi, subito seguiti dai
puntatori e dai serventi e accorrevano nuovamente ai cannoni.
Bartolan, passando accanto a Reitani, gridò: — O tutti al riparo o nessuno, capitano!
La batteria riprese a sparare; per fortuna la tempesta dei colpi in arrivo ebbe una tregua, Serri potè
medicare vari feriti inviati dal battaglione, che stava subendo forti perdite.
Spostando il tiro delle batterie e dei mortai in tutti i settori della zona tenuta dalla Julia, i russi
tentavano di scardinare la disperata resistenza; gli alpini sostenevano la massacrante tensione che il
combattimento imponeva, e fra una vampa e l'altra il loro occhio correva lungo i trinceramenti che
fumavano e si sbrecciavano, constatando che nonostante l'inferno scatenato dalle artiglierie e la
furibonda pressione dei battaglioni russi, nonostante i morti, i feriti, il gelo, la pazzia di star
resistendo contro un nemico incomparabilmente più forte, la loro linea era ancora inviolata.
Sovrumana per resistenza e capacità di sacrificio, la Julia teneva come un unico prodigioso mostro
dai diecimila cuori, dalle ventimila braccia abbarbicate alla terra.
Improvvisamente, il tiro contro la tredici riprese con una cadenza spaventosa, molti serventi di
nuovo rinviati indietro dal capitano piombarono nei rifugi tra lo schianto delle granate.
— Italo! — gridò la voce di Reitani.
Serri sormontò il ciglio della balka, il fragore delle esplosioni gli impedì d'intendere le parole del
capitano, ma vide che questi gli indicava il terzo pezzo. Si precipitò al cannone, e a fianco vide il
sergente Bon disteso sulla neve che andava arrossandosi di sangue. La gamba destra del sergente,
squarciata sopra il ginocchio, mentre l'uomo si dibatteva, si era arrovesciata tanto da porsi di
traverso sull'addome e sul torace.
Serri ingrandi con uno strappo la lacerazione dei pantaloni del sergente, si sfilò la cintura di cuoio e
l'attorcigliò sulla coscia del ferito frenando l'emorragia.
— Una barella, portaferiti! — gridava intanto; ma nel frastuono nessuno udiva la voce, nemmeno il
puntatore Foresti che ancora perdeva sangue dal braccio ed ora anche dalla fronte essendo stato
nuovamente ferito dall'esplosione che aveva colpito Bon.
Il sergente e il puntatore erano cugini, addetti allo stesso pezzo e amici indivisibili. Alla vista del
sangue del parente, Foresti era stato preso da una disperazione frenetica; sostituendo Bon, scacciati i
serventi era rimasto solo al pezzo e con eccitazione furibonda si gettava sui proiettili spolettati,
caricava il pezzo e sparava; sparava incessantemente, con movimenti rabbiosi, esasperati,
piangendo d'ira e di dolore, disseminando sangue che gli colava dalla manica e dalla fronte,
gridando in continuazione come un ossesso: — Maledetti...! Maledetti...! L'avete ammazzato...!
Maledetti...! Prendete questa... e questa... e questa...! — e infilava granate e sparava, demoniaco,
ruggente, folle, asciugandosi di tratto in tratto il colaticcio di lagrime e sangue che gli impastava il
viso impeciato di capelli e nero di fumo.
Non riuscendo a richiamare l'attenzione di nessuno, con uno sforzo disperato Serri si issò sulle
spalle il grande corpo del sergente Bon, s'incamminò verso il rifugio, una granata esplose e il
medico sentì il corpo del sergente sussultare, perdette l'equilibrio ed entrambi caddero nella neve,
mentre alcuni artiglieri uscivano precipitosamente dai rifugi a portare aiuto. Risollevandosi dalla
neve il medico guardò il sergente, e inorridì non ritrovandone più il viso: mentre l'aveva sulle spalle,
una scheggia aveva colpito Bon asportandogli metà della testa.
In quattro trasportarono il cadavere nella balka. Serri soffocando il raccapriccio dovette subito
medicare altri feriti, poiché un colpo di mortaio aveva centrato un rifugio.
La battaglia continuava, durava ormai da molte ore in un accavallarsi di vicende.
— Dottore! — chiamò d'un tratto il telefonista — chiedono di voi all'apparecchio.
— Qui Serri — disse il medico accorso al microfono — cosa c'è?
Un ufficiale parlava dal Comando del battaglione Gemona schierato a tre chilometri.
— Senti — disse con voce angosciata — il nostro comandante colonnello Dell'Alpe è stato ferito tre
minuti fa: una pallottola nell'addome. È gravissimo, moribondo, tentiamo di scendere al fondo valle
per portarlo all'ospedale. Alla tredici avete suo figlio Gino, se è possibile fargli vedere il padre...
— Parlo subito con Reitani — assicurò Serri sconvolto. Dell'Alpe era un grande, caro amico.
— Dottore — disse Zoffoli sopraggiungendo — venite subito, il tenente Dell'Alpe è ferito.
Al braccio di Reitani, Dell'Alpe stava scendendo al rifugio, era costretto a tenere gli occhi chiusi
perché aveva tutto il viso inondato di sangue.
— Una ferita alla fronte e alla tempia, ma di striscio per fortuna — gli disse Serri iniziando la
medicazione.
— Non è niente — disse Dell'Alpe leccando e poi sputando il sangue che gli colava fra le labbra; —
sono stato fortunato. Ho sentito anche un forte colpo al fianco sinistro, ma deve essere una cosa da
nulla. — Parlava senza annettere importanza alle parole che diceva, era un ragazzo di grande
coraggio, sempre sereno e sicuro di sé.
— Vediamo subito — disse Serri preoccupato. Sul quadrante addominale superiore di sinistra
Dell'Alpe aveva un vasto ematoma, ma la cute non portava traccia di lesioni.
— Strano — mormorò il medico; ma un pezzette di metallo si mosse fra le pieghe degli abiti e
rotolò sul ventre di Dell'Alpe.
— Rivestiti — disse Serri raccogliendo e osservando il frammento metallico; — è una pallottola
russa deformata. Dammi la tua rivoltella.
— Un mezzo miracolo: guarda — concluse qualche secondo dopo, restituendo l'arma a Dell'Alpe:
— la pallottola ha colpito il calcio della tua rivoltella e s'è schiacciata contro il profilo d'acciaio.
Vedi qui la tacca? Sei salvo per caso.
Mentre Dell'Alpe osservava interessato rivoltella e pallottola, Serri raggiunse Reitani e gli parlò in
disparte; poi entrambi si avvicinarono al ferito.
Qualche minuto dopo Dell'Alpe, con il viso bianco quanto le bende che gli fasciavano la fronte,
scendeva verso la valle.
Era mezzogiorno, per i rimasti in vita; gli altri, fuori dal tempo, giacevano sulla neve.
Il combattimento ormai finiva: dopo sei ore di incessanti attacchi condotti con terrificante valore, i
russi desistettero e ripiegarono anche quel giorno senza aver posto un piede, un solo piede nelle
linee degli alpini.

9.
— Al millenovecentoquarantatré! — aveva detto a mezzanotte Reitani levando il gavettino
contenente la razione supplementare di cognac.
— Al millenovecentoquarantatré! — avevano risposto gli ufficiali e i soldati che stipavano il rifugio
del Comando, portandosi alla bocca il gavettino con molta attenzione, poiché per il gelo la pelle
delle labbra restava spesso appiccicata al metallo. Il cognac era l'unico liquido che potessero bere,
perché non congelava.
Il brindisi di Capodanno era stata una cosa che non poteva mancare, ma non aveva rallegrato
nessuno.
— Che cosa ci porterà l'anno nuovo? — aveva chiesto senza calore Brogli.
— Mah...! — aveva fatto eco Bartolan fra il silenzio generale; e la cerimonia si era conclusa così.
Non poteva essere allegra, la tredici; i morti erano stati sepolti da poco, ed ogni giorno se ne
aggiungeva qualcuno; i feriti continuavano a lasciare posti vuoti, salvo quelli che si rifiutavano di
andare all'ospedale e si aggiravano fra i compagni con le loro bende attorno alla testa, o zoppicanti,
o con il braccio al collo seguendo l'esempio di Foresti e di Zoffoli.
I tre quarti del giorno e della notte passavano nel continuo sforzo di contenere gli incessanti attacchi
russi; le artiglierie nemiche tempestavano senza tregua, i «Rata» venivano ai spezionare e a
mitragliare, i carri armati minacciavano spesso da vicino. Ma era il gelo il nemico di gran lunga
peggiore, tutta la Julia ne soffriva, gemente sotto l'implacabile assedio.
Serri, morto il medico del battaglione d'alpini Tolmezzo, si portava anche da questi e si rendeva
conto, aggirandosi in ogni recesso delle trincee, dello spaventoso soffrire degli uomini. Nelle gelide
postazioni, in compagnia dei loro pidocchi stavano nell'immobilità gli alpini della Julia,
impossibilitati a muoversi perché controllati dai controcarro e dalle mitragliatrici russe, ad ogni ora
minacciati d'assalto e di morte, vigili e fermi, immersi nel loro pozzo di gelo.
Serri passava dall'uno all'altro, nessuno se non del tutto stroncato si dichiarava vinto; come i suoi
artiglieri non abbandonavano la linea pezzi avendo le bende che coprivano a mala pena le ferite,
così gli alpini spesso non lasciavano le loro trincee neppure quando sentivano la carne spappolarsi
in cancrena. Il medico di frequente doveva sostenere lunghe discussioni per convincere i più gravi a
lasciare l'arma e farsi portare all'ospedale. Non ragionavano, sapevano soltanto di voler restare a
fianco dei compagni. Erano questi che spinti dalla pietà segnalavano di nascosto al medico i più
sofferenti.
— Quello là, alla prima mitragliatrice — gli dicevano — deve avere i piedi congelati. È da una
settimana che si leva dalla buca solo di notte per andare al gabinetto ed è costretto a camminare a
quattro zampe come i cani, non sta più su.
Serri si avvicinava all'alpino, gli parlava, gli chiedeva di slacciarsi le scarpe e di fargli vedere i
piedi.
— Non posso, le scarpe sono gelate e non si aprono più — rispondeva quello.
— Sei congelato senza dubbio, dirò al tuo comandante di compagnia di mandarti d'autorità
all'ospedale.
— Oh,"non lo farà, signor dottore — rispondeva l'alpino; — è congelato anche lui, finché resta qui
lui non può mandar via me. E poi — aggiungeva con un sorriso scanzonato — quando i russi
attaccano non possiamo scappare, sappiamo già di dover restare qui finché si crepa! E allora, noi
siamo i soldati migliori, no?
— Quel guardafili non dorme da tre giorni per il male ai piedi — disse a Serri Scudrèra; — ha
buttato le scarpe da un pezzo.
— Guardafili — ordinò il medico — togliti i calzettoni, voglio vedere.
— Son guarìo, signor tenente, i piedi ormai non mi fanno più male, grazie ma no gò bisogno
degnente.
Quando il medico gli sfilò la calza impregnata di ghiaccio, alla caviglia il piede si presentava
nerastro, punteggiato di chiazze verdi; sfilata del tutto, nella calza rimasero primo e secondo dito,
già necrotizzati e distaccati da ciò che restava del piede.
L'artigliere contemplò a lungo le due dita rigirandole sulla palma della mano, poi le avvolse con
cura nel fazzoletto, le mise in tasca e disse: — Bisogna che me ricòrda de sepelìrli, se no nel giorno
del giudizio universale me trovo senza do' dèi, 'orca la pepa. E aggiunse, da buon ragazzetto: — Se
me desmèntego, me mama me ciapa a sberlòni, quando tornèmo a casa.
Il dieci gennaio tutti i rifugi, ricavati con infiniti accorgimenti e stenti sul ciglione della balka dietro
la linea pezzi della tredici, erano costruiti.
Offrivano ben scarsa protezione dalle granate, ma quando all'esterno imperversavano i quaranta,
nell'interno i soldati ottenevano i venti sotto zero, ed era già un risultato.
Dovunque, ormai, nelle linee della Julia gli alpini erano riusciti a costruire migliori ripari dal
freddo, avevano accumulato paglia e i giacigli erano meno gelidi; un senso di fiducia si era
propagato nelle trincee soprattutto perché i russi, dopo venti giorni di attacchi forsennati, avevano
perduto lena. Sparavano ancora molto con i mortai, ma attaccavano con minore frequenza ed
impegno: un assalto o due al giorno, mentre in precedenza avevano raggiunto perfino i dieci assalti
quotidiani.
Alpini e artiglieri possedevano e sentivano ormai la linea come una parte del loro stesso corpo: i
piedi s'erano congelati nello stare per notti intere sul suolo nevoso delle trincee, le mani si erano
congelate impugnando l'arma o servendo il pezzo nel terribile tormento del gelo; ma la linea, per il
sovrumano sforzo dei difensori, viveva in tutti i suoi recessi, nei buchi, nelle tane, nei rifugi, come
nelle postazioni e nei camminamenti, ed era incrollabile.
L'armonia d'animi e l'intesa di azione fra battaglioni e batterie erano complete, coordinate nel
comune impegno e collaudate dagli innumeri assalti sostenuti, durante i quali gli alpini s'erano
abituati a combattere sotto il basso tetto del fuoco «a zero» con cui gli artiglieri bloccavano il
nemico innanzi alle trincee.
— Mi fate un vero lavoro di ricamo, passate sulle nostre teste come facendo un orlo — diceva il
colonnello Cimolino che comandava l'ottavo reggimento alpini, stringendo la mano a Verdetti e
battendo amichevolmente sulla spalla di Reitani; — finché combattiamo insieme in questo modo, i
russi non passeranno mai.
Era questo il convincimento di tutta la Julia, ora che anche il freddo era tenuto più facilmente a
bada. Era noto che da Natale all'Epifania tra i ventimila uomini della Julia s'erano avuti seimila
congelati, cifra paurosa; ma si sapeva che una gran parte d'essi non aveva voluto lasciare il reparto.
Sopperendo alle perdite, contro la Julia i russi facevano affluire sempre nuovi rinforzi, in modo da
tenere perennemente schierate tre Divisioni; la sproporzione delle forze contrapposte era
agghiacciante, ma la consapevolezza d'aver tenuto in scacco il nemico alimentava la speranza e la
tenacia nel cuore degli alpini.
Dall'Italia la corrispondenza portava ondate di commosso orgoglio fra i combattenti; i bollettini di
guerra italiani e tedeschi esaltavano il valore della Divisione. Come già in Albania, per la seconda
volta un palpito di leggenda sfiorava le penne nere della Julia.
Fieri, silenziosi, pacati gli alpini guardavano instancabilmente oltre il pianoro bianco le colline
allineate in riva al Don. Nuovi ordini d'operazione erano giunti nella prima decade di gennaio ai
battaglioni e ai gruppi, predisponendo i piani di una prossima attività. Gli alpini ne parlavano sotto
voce, nei rifugi, mormorandosi a vicenda strane frasi, scambiandosi occhiate speranzose. Una voce
serpeggiava nelle tane, strisciava nella paglia fra gli alpini chee parlottavano in attesa del sonno, e
diceva: — È venuto l'ordine d'operazione: uno di questi giorni la Julia scatta all'attacco e andiamo a
conquistarci i rifugi sul Don.
— Sana ora! — sbottava Scudrèra; — no xe giusto che i «cunìci» e le «panse longhe» de la
«Tridentina» e de la «Cuneense» i stia al caldo ne i rifugi sul Don, e noialtri pòri cani de la «Julia»
se sia bufa da un mese ne la neve.
Cosa 'spetèmo a atacàr? L'invito de Stalin, ostia?
Nella notte sul sedici gennaio il Comando di Gruppo inviò una comunicazione riservata al capitano
Reitani.
Diceva: «Carri armati e fanterie russe provenienti dal sud hanno occupato in questi giorni le vie di
transito a qualche decina di chilometri alle spalle del nostro schieramento, ed hanno conquistato
Rossosch. Se da Rossosch raggiungono il Don, la Julia è completamente circondata. La tredici
attenda ordini mantenendo le attuali posizioni».
— Italo, preparati — disse Reitani all'ufficiale medico tendendogli il foglio: — ricominciamo da
capo.

TEMPO QUARTO
La colonna marciava affondando fino al ginocchio nella bianca vastità del proprio sepolcro

1.

Gli alpini della Julia fecero il viso incredulo, a mezza mattina di quel sedici gennaio.
— Bisogna ripiegare, oggi stesso si parte — aveva annunciato Reitani alla tredici.
— Come? Ripiegare? — dicevano gli artiglieri; — lasciare questa linea? Ma dove sono i russi? Se
non si fanno neppure vivi?! Non sono riusciti a spostarci di un metro in un mese! Qui c'è uno
sbaglio, qualcuno è diventato matto!
Il capitano Reitani a mezzogiorno aveva radunato gli uomini della linea pezzi.
Disse: — Fra tre ore la batteria dovrà essere in assetto di marcia, verranno i muli e le slitte.
Preparare i carichi e distruggere i rifugi.
Un mormorio di sorpresa e di dolore corse fra i soldati. Il capitano attese immobile che ritornasse il
silenzio e proseguì: — Statemi a sentire. Lo so anch'io che la Julia non è stata battuta in nessun
modo, ma isolata com'era mentre combatteva qui, è stata quasi completamente circondata da
lontano; se non se ne va di qui cade prigioniera per aggiramento a largo raggio, senza neppure
potersi difendere e combattere.
La Julia prigioniera senza combattere! Solo l'idea esasperava gli alpini che si buttarono con furore
sulle opere di riparo e con poche mazzate le distrussero.
Caddero le misere assicelle, i pali d'angolo, i tetti di paglia e di neve.
Giunsero alla linea pezzi della tredici gli uomini delle cucine, i muli e le slitte; vennero ritirate le
linee telefoniche, si ricuperarono tutti i materiali, verso sera il battaglione Gemona lasciò la linea,
sfilò accanto alla tredici restituendo il sottotenente Landolfi che durante tutto il periodo era stato
all'osservatorio negli avamposti del battaglione; la tredici rimase ancora due ore in posizione a
sparare per proteggere l'arretramento degli alpini e infine, sul fare della notte, iniziò il ripiegamento.
Alla notte e al destino, non al prevalere del nemico ancora I intanato sul Don, la Julia cedeva
inviolate tutte le posizioni che un mese innanzi aveva ricevuto in consegna.
Gli uomini camminavano in silenzio e a testa bassa sotto la luna, mentre qualche rado colpo di
mortaio batteva la neve intorno alla colonna.
La tredici attraversò il fiume Kalitwa ghiacciato e l'ampia palude in cui s'estende per sfociare nel
Don; nel paese di Sslawianka venne raggiunta dagli uomini della base arretrata al comando del
sottotenente Ferrieri; ebbe ordine di fermarsi a pernottare, poiché la mezzanotte era già passata e la
situazione all'intorno era sconosciuta e non consentiva di procedere. Gli artiglieri si accantonarono
nelle isbe.
All'alba la tredici sparava già, poiché il nemico s'era mosso dal Don e avanzava. Da un'altura, col
binocolo si potevano distinguere i soldati russi che occupavano Golubaja Krinitza: giravano tra le
case frugando con lunghe pertiche forse temendo la presenza di inesistenti insidie.
Reitani andò a rapporto al Comando di Gruppo e al ritorno radunò gli ufficiali della tredici.
— La situazione è assai grave — disse; — ingenti forze russe di fanteria motorizzata con carri
armati tengono saldamente Rossosch e si teme che si siano già spiegate all'intorno. Noi ora
punteremo su Popowka, che è a dodici chilometri a nord di Rossosch, e tenteremo poi di
ricongiungerci al grosso della nostra Armata. Questa, eccetto il Corpo d'Armata Alpino, già da un
mese ha lasciato il Don ed ha ripiegato verso ovest assieme a tutte le forze tedesche; noi siamo
rimasti per questo mese sul Don a far da muro e proteggere finché possibile il ripiegamento delle
altre divisioni. Ora dobbiamo tentare ad ogni costo di ritornare a Popowka e Podgornoje, nella zona
del nostro vecchio schieramento sul Don, da cui stanno ripiegando la Tridentina e la Cuneense. Col
nostro arrivo a Popowka sarà ricostituito il Corpo d'Armata Alpino e verrà deciso il da farsi. La
marcia sarà durissima. Potremo scontrarci con i russi ad ogni passo, e in ogni caso dovremo fare un
cammino tortuoso, sulla neve vergine.
Avvertite gli uomini che dovremo affrontare un percorso di 70 o 80 chilometri, marcerà l'intera
divisione e non sarà concessa nessuna sosta, chi rimane indietro resta abbandonato a se stesso,
praticamente è perduto. È una misura dolorosa ma è in giuoco l'esistenza di tutta la Julia. Partiremo
fra due ore. Siamo quasi privi di viveri, fra poco ci verranno distribuite due gallette e una scatoletta
di carne. Per intanto mettete a punto i carichi, controllate il numero degli uomini, dei rrluli e delle
slitte e ricordate che d'ora in poi può succedere qualunque cosa. — E tacque.
— Andiamo a contarci — disse asciutto il tenente Brogli rompendo il silenzio.
Brogli aveva sostituito Dell'Alpe da quando questi, ferito, era sceso ad incontrare il padre morente.
Si era saputo che il colonnello Dell'Alpe si era esposto in piedi sulla trincea di prima linea fra i suoi
alpini del Gemona e le coincidenze della fatalità si erano spinte tanto oltre che nella stessa ora padre
e figlio erano stati colpiti da pallottole di fucile russo che si erano schiacciate contro il calcio delle
rispettive rivoltelle. Ma la molla del caricatore era stata rinvenuta in quattordici frammenti fra le
anse intestinali del colonnello, e sul chirurgo aveva prevalso la morte.
Il generale Ricagno, comandante la Divisione Julia, aveva offerto al tenente Dell'Alpe una licenza
per lutto e per cure in patria, ma il tenente aveva rifiutato rispondendo in friulano: — El papa el
diceva «Mai daùr».(Il papa diceva: «Mai indietro».)— Infine, aveva dovuto accettare l'ordine di
rimpatrio giunto dal Comando di Corpo d'Armata, e la tredici era rimasta privata del superbo
ufficiale.
Sulla neve della piazza di Sslawianka il capitano Reitani stava osservando la batteria schierata.
Dall'estate era la prima volta che la rivedeva tutta riunita dinanzi agli occhi, constatò come le file si
fossero assottigliate.
La forza in partenza per Popowka risultò di quasi centottanta uomini: il reparto aveva quindi
perduto circa cinquanta artiglieri alpini, caduti in combattimento o assiderati o congelati o feriti non
recuperabili.
I muli da centosettanta erano ridotti a meno di ottanta, essendo stati uccisi dal gelo e dagli stenti o
anch'essi squarciati dalle granate.
Gli operai di batteria avevano costruito una ventina di slitte, piccole e rudimentali, su cui venivano
trasportati i materiali, le munizioni e i pezzi.
Questi ultimi erano ancora quattro, poiché anche quello del sergente Sguario, colpito allo scudo e ad
una ruota, era stato issato su una slitta ad intelaiatura appositamente studiata ed era ancora in grado
di prestare, con molti accorgimenti, il suo servizio.
Reitani guardò con accorata passione quel complesso di forze già tanto provate e disse agli uomini:
— Poche parole ai miei artiglieri alpini, perché fra poco si parte. Nessuno resti indietro, non
rivedrebbe più il reparto. Sono costretto anche ad annunciarvi che la scatoletta di carne e le due
gallette che vi sono state consegnate poco fa costituiscono l'ultima distribuzione di viveri fino a
quando sarà risolta questa crisi. Fatene tesoro. Ed ora in marcia, ci fermeremo soltanto a Popowka.
Batteria avanti.
— Ciao, Don — brontolò Pilòn, e buttò avanti il piede; gli rispose la neve, cigolandogli sotto gli
scarponi.
Il resto della giornata trascorse senza sorprese, nonostante frequenti rombi lontani interrompessero
il silenzio. La Julia sfilava nella neve, battaglione per battaglione, gruppo per gruppo, serpente
grigioverde che si snodava per chilometri sul bianco della steppa. Nelle ore di marcia diurna
procedette sulla pista, ma all'imbrunire la lunga colonna venne portata nella neve vergine, a
maggiore salvaguardia da sorprese. I muli già affaticati dalle molte ore di marcia avevano subito
risentito l'aumentata fatica, gli uomini camminavano di lena pur sprofondando nella mollezza della
neve.
— Ora è più difficile che i russi ne fassa l'improvvisata — diceva Scudrèra, reggendo le lunghe
briglie dei suoi muli.
— Ci sono anche le nuvole, per fortuna — constatava soddisfatto l'attendente Covre, camminando a
fianco di Serri.
Col buio, strani sprazzi di luce tratto tratto illuminavano verso nord il discontinuo tetto di nubi,
simili a lampi temporaleschi; pareva anche di udire il rombo del tuono.
Verso le diciannove si levò un vento molesto che mordicchiava le orecchie e gelava le mani; gli
alpini infilarono sotto il cappello il passamontagna e sprofondarono le mani inguantate nelle tasche
dei cappotti. L'aria diveniva assai rigida.
— E poi dicono che i conducenti possono fare i loro comodi! Voglio vedere adesso chi mi da il
cambio a tenere le redini dei muli. È come avere in mano due pezzi di ghiaccio! — brontolava ogni
tanto Scudrèra trottando a fianco dei tre muli che trainavano la sua pesantissima slitta, sovraccarica
di materiali e munizioni. E come nessuno gli dava retta, gridava all'improvviso: — Fora le màn da
le tasche, imboscati!
— Zitto, ti fai sentire dai russi — lo redarguiva scherzosamente l'infermiere Zoffoli.
— Dici bene tu ma el fredo xe fredo — ribatteva il conducente; — tu poi dovresti vergognarti più
degli altri, sei il più fortunato: senti il freddo meno di tutti, con quela meza orecia che te manca!
Alle ventidue il freddo era aumentato di molto. Il vento s'era fatto teso, costante, spirava dal nord ed
ostacolava il cammino. Gli uomini avevano alzato i baveri dei cappotti e abbassato tutta l'ala dei
cappelli alpini, ma le dita del vento passavano sotto i passamontagna e graffiavano ogni centimetro
di pelle del viso e del collo.
— Sai che temperatura abbiamo? — chiese Serri al preciso Perbellini che camminava con un
termometro appeso a un bottone del cappotto.
— Un quarto d'ora fa, trentotto sotto — rispose l'adolescente a labbra strette.
— Fai fatica a parlare? — domandò Serri.
— È niente, è il vento che mi viene in faccia e mi gela le labbra.
— Hai messo la pomata anticongelante?
— Si, ma non serve a niente. E tu l'hai messa?
— Si— Ecco, vedi? Cosa credi? Anche tu parli come una vecchia sdentata.
Serri s'accorse allora che, sotto il passamontagna, le proprie labbra e le guance s'erano indurite ed
erano quasi insensibili. Interrogò Covre ed altri soldati e notò con preoccupazione che tutti
parlavano appunto come vecchie sdentate. Qualcuno anzi pareva averne preso perfino l'aspetto
esteriore poiché procedeva accartocciato su se stesso, e ricurvo come portasse un fastello sulle
spalle; arrancava faticosamente ciabattando nella neve, in tutto simile a una vecchia cadente.
L'intera colonna aveva sensibilmente rallentato il passo e faticava contro il freddo e il vento.
La luna s'affacciava ogni tanto a fuggenti davanzali di nubi, scompariva poi lasciando nella
penombra la colonna che procedeva frusciando nella neve; si percepiva soltanto lo sbruffare dei
muli e il cigolare delle slitte, gli uomini tacevano e si mordevano le labbra per far circolare il
sangue; i loro cappotti, dalla vita alle spalle, s'erano ricoperti di uno strato di ghiaccio a causa del
vapore del respiro che cadeva e si congelava sulla stoffa.
Ogni tanto qualche slitta s'inclinava per le ineguaglianze del terreno e si rovesciava nella neve; gli
ufficiali e i soldati s'affannavano a ricollocare a posto le cassette e aizzavano i muli correndo per
lungo tratto a riprendere il proprio posto nella colonna, poiché non bisognava rimanere indietro.
Quando però tentavano di rimettere le mani in tasca s'accorgevano che i guantoni non giovavano
più a nulla, poiché rimestando nella neve s'erano rivestiti di un centimetro di ghiaccio; allora le
mani nude si rifugiavano nelle tasche, ma era come tenerle immerse nell'acqua gelata.
Verso la mezzanotte la Julia marciava da undici ore senza avere sostato per un solo minuto; gli
uomini procedevano affannosamente nella neve alta stando curvi in avanti per ripararsi il più
possibile dal vento che a tratti diveniva fischiante; ogni tanto qualche folata strappava dal capo i
cappelli alpini, che rotolavano rincorrendosi sulla neve e disperdendosi nel buio. Si cominciava a
incespicare in qualche zaino abbandonato lungo il cammino, ed era un brutto segno: avanti c'era un
alpino che non resisteva al peso e al passo.
I bagliori che illuminavano a sprazzi le nuvole erano più vicini, ora si capiva che erano dovuti a
depositi di munizioni fatti saltare; le luci avevano un che di lugubre, dicevano che altra gente si
ritirava abbandonando materiali preziosi.
Anche la colonna in marcia perdeva qualcosa: le file che sopraggiungevano, s'imbattevano ogni
tanto in un mulo stecchito nella neve, morto di fatica e ancora attaccato alla sua slitta. La slitta non
aveva carico, segno che le cassette e i sacchi erano finiti sulle spalle degli alpini, ma poco dopo un
infittirsi di materiali sulla neve stava a dire che gli uomini non avevano retto alla moltiplicata fatica:
era impossibile infatti sostenerla, con la fame che illanguidiva lo stomaco e col freddo divenuto
intollerabile. Però tutti procedevano, poiché non c'era speranza di poter salire sulle slitte già
sovraccariche e ciascuno era affidato alle proprie gambe e al proprio cuore.
— Ho una soletta di ghiaccio sotto le calze, le scarpe mi sono diventate piccole — disse Reitani a
Serri, parlando con il ridicolo fare da vecchia sdentata.
— Anche a me è successa la stessa cosa, anche ai soldati — rispose il medico; — è la traspirazione
del piede che si condensa e raggela fra il cuoio e la lana.
— Abbiamo congelati?
— Per ora nessuno si è fermato, ma temo che saranno guai. Il termometro di Perbellini ora segna
quarantadue sotto.
— Restare in colonna! — gridò il capitano ad alcuni artiglieri che s'erano soffermati a un capannone
presso il quale la batteria stava transitando.
Dal capannone uscivano molti uomini reggendo qualcosa e correndo avanti per ricongiungersi ai
loro reparti. Reitani e Serri accorsero. Era un magazzino nel quale erano state abbandonate una
ventina di damigiane: alla luce di una candela un folto gruppo di alpini s'affaccendava attorno a
quelle, riempiendo in fretta borracce e gavette; altri, in disparte, già bevevano a garganella vuotando
in breve i gavettini e subito si riaccostavano alle damigiane per riempirli ancora.
— È cognac, signor capitano, questo sì scalda! — esclamò trionfante un alpino che aiutava a
mescere, riconoscendo Reitani che s'era fatto largo nella calca.
— Disgraziati, ci lasciate la pelle! — gridò Serri.
— Via tutti, via tutti! — urlò Reitani facendo saltare dalle mani dei soldati quante gavette e
borracce gli venivano a tiro. — Via tutti vi dico, di corsa!
— Aiutami — disse Reitani a Serri. E i due ufficiali si diedero a rovesciare le damigiane, il cognac
fluiva a fiotti nel terriccio emanando il suo sottile odore.
Quando tutto il liquore fu sparso a terra, il capitano e il medico uscirono nella neve e con un lungo
inseguimento raggiunsero la batteria. Avevano da poco ripreso il loro posto di marcia quando il
sergente Bartolan corse a pochi passi in disparte alla colonna e dinanzi a un ammasso scuro gettato
sulla neve gridò: — Tenente Serri!
Il medico accorso vide un soldato accartocciato sulla neve, una mano rattrappita stringeva la
borraccia; l'ufficiale passò un dito sull'orlo e lo portò alla bocca, avvertì il sapore del cognac.
— Sulla slitta di Scudrèra, subito! — ordinò. Alcuni artiglieri issarono l'alpino sulla slitta in
movimento, Serri lo fece ricoprire con coperte tolte da un sacco, mentre altri due sacchi cadevano
dalla slitta ricolma e si perdevano nella neve.
— Chi è? — chiedevano gli artiglieri marciando intorno alla slitta.
— Mah? — diceva Bartolan; — credo che sia un alpino del battaglione che cammina davanti alla
tredici. Il cognac l'ha ubriacato, per caso l'ho visto disteso nella neve. Vedete cosa succede,
imbecilli? — gridava, improvvisamente infuriato.
— È ubriaco...
— È morto...
— El xe morto imbriàgo... — diceva lugubre Scudrèra ai compagni esterrefatti.
Accanto alla slitta, Serri camminava in silenzio, arrovellandosi per la propria impotenza, la
ossessionante nemica dei medici che fanno la guerra. Cosa poteva fare con quei quarantadue sotto
zero, in cammino nel buio, per quel soldato steso fra i sacchi sul veicolo traballante? L'alpino sotto
le coperte stava irrigidito, la mano gelida non mollava la borraccia, offriva una resistenza legnosa.
Impossibile in quelle circostanze osservare il respiro, l'occhio, tastare il polso, praticare
un'iniezione, fare una qualunque cosa. Pensò di accendere un fiammifero, ma le dita non facevano
presa, per il freddo non percepivano i sottili bastoncini che gli cadevano nella neve. A tastoni
insinuò una mano sotto il cappotto dell'alpino, gli slacciò la cinghia dei pantaloni e frugò tra le
mutande, la camicia e le maglie, giunse alla pelle del ventre: gelida; inoltrò le dita fino al petto
inerte e gelido più della mano che lo toccava. Si convinse allora che il mulo su quella slitta stava
trascinando un cadavere, o che in ogni caso nessuno avrebbe ormai potuto più strappare alla notte
quella sua preda.
Altre se ne aggiunsero nella mezz'ora successiva, reclinate sulla neve ad intervalli, due poi tre poi
dieci; e i soldati si chinavano sui fagotti grigioverdi, li caricavano sulle slitte straripanti, dal colmo
dei carichi uno scrollo del mulo li rotolava di nuovo sulla neve, i compagni s'accorgevano più tardi
d'averli perduti, forse erano stati raccolti più addietro da altri alpini; o forse no, perché il vento
sollevava un polverio di neve e li ricopriva subito di bianco.
Restavano là, steppa.
— È un alpino del mio paese — disse di uno il furiere Clerici, e se lo caricò sulle spalle; col peso
avanzò forse per cento metri ma poi il fiato gli si fece grosso; barcollò, cadde nella neve col
cadavere, ritentò di sollevarlo, ricadde, imprecò, prosegui solo e roso da una rabbia cupa consegnò
il portafogli del morto al capitano. Questi prese a braccio Clerici e camminavano insieme in
silenzio.
— Come volete che faccia a capire? — disse angosciosamente il furiere.
— Chi? — domandò Reitani.
— Sua madre. Mi maledirà, signor capitano.
— Glielo diremo, che non potevi.
— È vecchia, non sa com'è la guerra. Mi vedrà sempre, sta di fronte a casa mia.
La luna era scomparsa del tutto, la notte s'era fatta tenebrosa, da qualche parte tuttavia filtrava un
bluastro lucore d'acquario. Avvolti dalla stanchezza e dal freddo, gli alpini non capivano quasi più
nulla, eccetto che di andare dietro agli altri. I piedi inciampavano uno contro l'altro perché avevano
perduto sensibilità, pezzi di ghiaccio ormai, sospinti innanzi dalla disperazione.
All'una di notte la steppa era dominio della tormenta, il vento turbinava levando vortici di neve sulla
colonna, i cappotti erano diventati rigidi scafandri opprimenti, le mani martirizzate cercavano
invano un rifugio tiepido, il pulviscolo nevoso entrava negli occhi, nelle orecchie, s'insinuava
incomprensibilmente sotto le giubbe e le maglie, giungeva alla pelle della schiena risvegliando
brividi profondi.
— Hai l'impressione che ti stiano svestendo, che qualcuno ti spogli? — chiese Reitani a Serri.
— Sì, pare d'essere nudi.
— Meno male, credevo che mi stesse venendo qualche accidente.
— Niente paura, signor capitano — disse Scudrèra che aveva inteso le parole — sémo tutti
accidentati a 'sto modo, per mal che la vada se crepa tutti insieme.
Son ridotto anca mi come una sèlega cascà in giassàra!
— Come che cosa? — chiese il capitano, siciliano, guardando Serri.
— Come un passerotto caduto in una ghiacciaia — tradusse il medico.
— Una sèlega tu? — rise Reitani volgendo il capo verso il gigantesco conducente; — quanto pesi?
— Centodue chili compreso l'osso, ai vostri comandi — rispose Scudrèra dando una spinta al carico
della slitta che minacciava di crollare.
Ma anche Scudrèra aveva presto smesso di chiacchierare, poiché il freddo aveva raggiunto limiti
inauditi e gli uomini camminavano semi paralizzati dal gelo.
Nella notte, affondando fino al ginocchio, procedevano ormai avvolti da una nube di neve levata dal
vento. Incappucciati nei passamontagna e intabarrati nei cappotti duri e bianchi, avevano assunto
l'aspetto di grotteschi pupazzi di neve. Il freddo tagliava, mordeva, succhiava le carni
incartapecorite, bruciava le labbra, le narici, i bronchi; insostenibile.
— Sergente Bartolan! — chiamò Reitani preoccupato per la sorte della tredici; — tu hai una pila,
cerca di dare un'occhiata ai termometri dei pezzi e a un orologio, se ti riesce.
Quando il capo-pezzo si riavvicinò, disse scostando dalla bocca il passamontagna: — Sono le due,
signor capitano, e siamo a quarantasei gradi sotto zero.
— A quanto? — domandò Reitani riparando con la mano l'orecchio dal sibilare del vento.
— Quarantasei sotto zero. Non posso sbagliare, ho guardato tre termometri e il tenente Per bellini
ha controllato.
— Vuoi dire morire — disse ad alta voce un soldato vicino.
— Vuoi dire essere idioti a pensarlo! — gli gridò rudemente dietro le spalle Scudrèra. — Tira avanti
invece, che mi stai sui piedi; se no ti attacco a tirare al posto di un mulo. Si lamentano i muli, forse?
— Idiota! — ribattè con rabbia il soldato, affrettando il passo.
Il gelo, oltre tutto, inaspriva l'animo e faceva guizzare nel cervello pensieri stravaganti e maligni,
che lasciavano una lunga scia di tentazioni strane e perfide.
— Coraggio, ragazzi, fra poco viene giorno! — dicevano gli ufficiali cercando di rincuorare i
soldati; ma le parole svuotate del significato abituale cadevano sulla neve come quei cappelli che
nessuno più poteva raccogliere.
Nelle ore più fonde della notte la marcia divenne agonia; la fame rabbiosa latrava nel petto senza
che gli uomini potessero saziarla, poiché era assurdo pensare di poter mordere la galletta di pietra o
esporre le mani al gelo; il sonno e la stanchezza intorpidivano la mente e i muscoli, richiedendo alla
volontà un disperato sforzo per reggere e proseguire; e sopra ogni cosa la prolungata esposizione
agli estremi rigori del freddo moltiplicava le sofferenze, riunendole in una sola sensazione che
sussurrava agli orecchi dei soldati allucinanti presagi di prossima, inevitabile fine.
Non bisognava ascoltarle, queste voci, tutti lo sapevano e le respingevano; la colonna nonostante
l'avversità procedeva instancabile, soverchiando il vento e tutte le altre maledizioni che il demonio
in quella notte aveva addensato sulla marcia della Julia. Però ciascuno si domandava se erano
proprio zaini abbandonati quei fagotti scuri mezzo sprofondati nella neve sui quali l'occhio sempre
più spesso s'imbatteva. A quella vista il cuore si stringeva e il piede arrancava più in fretta, sospinto
da una forza arcana a guadagnare più rapidamente qualche metro di steppa. L'orrore fisico della
morte saliva in quei momenti dalle solette di ghiaccio fra calza e scarpa e lambiva come un'orrenda
lingua la pianta del piede, rodeva le dita delle mani sprofondate nelle tasche e saliva sotto le
maniche sino a far sentire gelato e come di cadavere il cavo delle ascelle, azzannava la gola e le
strappava un disperato urlo di terrore, che i vicini percepivano invece, nel vento, come un debole
gemito di bimbo sofferente.
Ormai, sotto l'infuriare del gelo i contatti col mondo esterno subivano continue spaventose
deformazioni, i nervi attossicati dal freddo venivano frustati da correnti e scariche nervose che
scompigliavano e devastavano lo spirito dei marciatori.
— Questo è un cannone semovente abbandonato — disse Brogli ai soldati quando la tredici
s'imbattè nella sagoma d'un ammasso di ferro; ma pareva uno scoglio emergente da uno spettrale
immobile mare di ghiaccio.
— Finalmente si vede qualcosa: un palo telegrafico! — accennò quasi lieto il sergente Fraita ai suoi
uomini indicando il lungo legno solitario; ma pareva il pericolante albero di uno sperduto naviglio
incagliato nei geli d'una allucinazione che impazzava nel cervello.
— Mi pare che spunti l'alba, da quella parte — osò dire Scudrèra quando la notte era più caliginosa
e disperante; qualche compagno immusonito grugnì, nessuno rispose; ma poco dopo l'innumerevole
colonna della Julia emergeva sulla pianura bianca spuntando dalle ultime tenebre della notte.
I soldati si guardavano in volto stupiti, si ritrovavano, si riconoscevano, si salutavano, scambiavano
le prime parole amiche come se si risvegliassero allora.
Si riunivano nuovamente perché s'erano distaccati e perduti, ciascuno ritornava da un suo chiuso e
lontano mondo di sofferenza e di semifollia, nel quale aveva vagato per quindici interminabili ore
rotolandosi fra il fumigare di una pazzesca ossessione.
Avevano camminato e vegliato, s'erano affidati follemente alla notte. Questa aveva impresso il suo
sigillo, li aveva resi irriconoscibili: sopra un basamento di ghiaccio che si era accumulato sulle
spalle e sul petto, dal pertugio del passamontagna s'intravvedevano occhi gonfi e arrossati,
sporgevano sconosciuti nasi gialli e cerei o lividi, ricoperti di croste rossigne; s'affacciavano
tumefatte e orrende labbra spaccate e barbe e baffi da cui si dipartivano numerosi pendagli mobili, o
congiunti all'estremo con il ghiaccio che ispessiva il cappotto; in questo caso l'alpino incapsulato in
una rigida impalcatura che gli saliva dal petto al mento non poteva articolare il capo, e rimaneva
impastoiato in una tormentosa barbuta di ghiaccio.
La luce, unico dono, era sufficiente a richiamare alla vita le migliaia di corpi semiassiderati; perfino
i muli dal pelame irto di punte di ghiaccio acceleravano l'andatura stimolati dalle risorte voci dei
conducenti.
Nelle prime ore della mattina il vento cessò, dando tregua'ai marciatori, ma il freddo si mantenne
accanito. Ogni tanto la colonna incontrava qualche carro armato tedesco o russo colpito o
incendiato da poco tempo.
— Ma come? — si chiedevano i soldati disorientati; — anche qui c'è stata battaglia? Ma il fronte
non è rimasto sul Don, in questo punto?
Gli ufficiali s'interrogavano con gli occhi, in silenzio.
La colonna si era spinta molto a nord, durante la notte; forse s'era portata quasi all'altezza di
Rossosch. A un certo punto la marcia subì un intoppo, poiché le slitte stentavano a superare un
pendio nevoso molto lungo e ripido, e i muli avevano bisogno di riprender fiato a mezza salita. Gli
artiglieri della tredici si precipitarono in una provvidenziale stalla che sorgeva nei pressi e accesero
fuochi di paglia sgelando scatolette e gallette, imitati dagli ufficiali. Il fuoco non riusciva a togliere
il gelo dal corpo, ma tuttavia dava ristoro.
— E tu non mangi, Italo? — chiese Reitani masticando allegramente carne e galletta.
I presenti si avvidero allora che l'ufficiale medico si trovava in una curiosa situazione: un blocco di
ghiaccio gli aveva asserragliato i baffi e scendendo al mento si era saldato con un secondo blocco
che aveva inglobato in un unico ammasso i peli della barba e il passamontagna, cosicché il medico
poteva a mala pena parlare ma non riusciva in nessun modo a masticare, poiché al più piccolo
movimento della mandibola i peli, vincolati in un tutto unico con il ghiaccio e la lana, si
strappavano senza rimedio.
— Non posso mangiare e ho una fame maledetta! — rispose a labbra strette l'ufficiale che provava
invano a inserire sotto il passamontagna una forbicina nel tentativo di tagliare i peli.
— Sgela il ghiaccio vicino al fuoco — consigliò Reitani ridendo.
— Ho provato — sibilò il medico — ma se mi avvicino quanto basta mi brucio il viso, ho la pelle
ustionata dal freddo; e a stare più lontano ci vuole troppo per sgelarmi, e non faccio a tempo a
mangiare.
Soldati e ufficiali ridevano divertiti masticando, Serri strepitava pregando che almeno non lo
facessero ridere perché nel tendere le guance al riso gli si strappavano i peli. Dovette rassegnarsi ad
uscire digiuno poiché era ormai trascorsa una decina di minuti e la colonna aveva ripreso il
cammino.
La Julia superò la ventiquattresima ora di marcia forzata; gli alpini e i muli arrancavano sempre
nella neve alta, lottando contro il gelo.
Alla trentesima ora di cammino, quando già imbruniva, gli uomini della tredici si avvidero che i
luoghi che la colonna attraversava erano noti: si trovavano nelle retrovie del fronte su cui erano stati
schierati giungendo in linea durante l'estate, Kuwschin non era più molto distante.
— Siamo ormai a Popowka, signor capitano! — esclamavano esultanti gli artiglieri.
— Sì, fra un'ora o due arriveremo, forza ancora per un poco!
— Semo fora dai dispiaceri? — domandava Scudrèra.
— Speriamo! Dovrebbe essere così — rispondeva Reitani; ma indugiava con lo sguardo sulla mole
di qualche carro armato incendiato che la colonna incontrava strada facendo. Le sventrate pareti di
ferro erano affumicate, attorno ai cingoli divelti stavano cassette di munizioni russe o tedesche;
cavalli squartati dalle granate giacevano qui e là, il loro sangue arrossava ancora la neve.
— C'è stata battaglia fresca, da queste parti! — disse Serri a Reitani.
— È quello che sto notando — rispose il capitano aggrottando le ciglia; — le tracce sono di ieri o
ier l'altro. Non vorrei che trovassimo i russi, a Popowka.
La divisione raggiunse tuttavia Popowka senza imbattersi in contrasti. Dopo trentadue ore di marcia
ininterrotta, gli alpini entrarono nel grosso paese trascinando per la cavezza i muli esausti che
seguivano i conducenti come cagnolini al guinzaglio. Gli uomini non erano meno stanchi dei muli,
ma l'estremo pericolo era scongiurato, le isbe che vedevano erano proprio quelle di Popowka, entro
cui gli alpini si sarebbero presto riscaldati e ristorati.
Il paese aveva le abitazioni intatte e la popolazione rimasta era scarsa; gli alpini della tredici per la
prima volta dopo il mese passato nelle trincee innanzi a Novo Kalitwa pregustavano la prossima
gioia di un buon fuoco. Posti al riparo i muli e i materiali, entrarono nelle isbe assegnate, sfilarono i
cappotti che per un mese non avevano tolto dalle spalle.
Sorgalo e Covre s'avvidero che i cappotti, intrisi di ghiaccio com'erano, stavano ritti da soli sul
pavimento. Subito Scudrèra ne abbrancò uno, e con questo fra le braccia iniziò a ballare, cantando:
— Volga... Volga... — Tutti ridevano, anche la famiglia russa che abitava la capanna.
L'infermiere Zoffoli, che s'era già sdraiato a terra, gridò: — Scudrèra! Bestióni Neanche trentadue
ore di marcia t'han rotto le gambe?
Scudrèra depose ritto a terra il cappotto con molto riguardo, e inchinandosi gli disse: — Grazie,
signorina, non è leggera ma balla bene; mi scusi, devo andare, i muli mi chiamano, sente?
I soldati protendevano le mani gelide verso il tepore delle grandi stufe russe, stendevano le gambe
rattrappite dalla fatica mentre i pendagli di ghiaccio appiccicati alle barbe cominciavano a colare
sciogliendosi. Pezzi di galletta e residui di carne in scatola uscirono dalle tasche e vennero allineati
sulle stufe per essere sgelati e mangiati, secchi d'acqua attinta ai pozzi profondi passarono di mano
in mano a dissetare finalmente gli alpini che per un mese avevano succhiato neve.
Nell'isba del Comando della tredici l'infermiere Zoffoli riscaldava contro la stufa il palmo della
mano e massaggiava poi con attenzione il blocco di ghiaccio che incarcerava il viso e la barba del
suo tenente medico, ne staccava delicatamente i ghiaccioli in fusione mentre Serri fissava con
sguardi voraci l'intatta scatoletta di carne che sgelava sulla stufa. Quando fu liberato dall'assurda
maschera, con grandi sforbiciate si tagliò irosamente la barba e addentò la galletta con animalesca
avidità.
— È qui il Comando della tredici? — chiese un portaordini del Comando Gruppo entrando nella
isba.
— Sì, perché?
— Il capitano è atteso a rapporto.
Reitani s'infilò il cappotto ed uscì. Gli uomini, avendo dato fondo agli scarsi residui di cibo
s'asciugavano i panni, tentavano di togliersi le scarpe gelate o si stendevano sulla paglia. Ma il
sonno non veniva perché i corpi vibravano ancora per lo sforzo sostenuto.
Serri usci a visitare e a medicare gli uomini che avevano bisogno delle sue cure; dopo un'ora, al suo
ritorno, il capitano era ancora assente.
Quando Reitani rientrò tutti videro che era scuro in viso. Si tolse in silenzio il cappotto e si avvicinò
alla stufa per scaldarsi le mani.
— Cattive nuove, comandante? — chiese Brogli.
Gli ufficiali e la dozzina di soldati presenti tesero gli orecchi.
— Il paese è già stato attaccato ieri e oggi, la prima volta da reparti russi regolari e la seconda da
partigiani appoggiati da mortai — rispose il capitano; — spuntano anche i partigiani, ora. Bisogna
piazzare due pezzi in fondo alla strada e predisporre un servizio di guardia. Brogli, provvedi tu, per
favore.
— Va bene — disse Brogli uscendo.
Il capitano, in piedi, s'era addossato alla stufa e vi aderiva con le mani, il ventre e il petto; con la
testa levata guardava il soffitto.
Dalla paglia su cui sedeva, Serri lo osservò a lungo e poi gli chiese: — C'è dell'altro?
— Niente di preciso ancora — riprese Reitani; - non ho avuto ordini per la partenza, non è neppure
escluso che il Corpo d'Armata Alpino si costituisca a caposaldo qui sul Don e tenti di resistere fino
a un'eventuale avanzata tedesca che in primavera o in estate venga a liberarci.
— Come? — esplose Ferrieri; — come potremmo resistere per tanti mesi?
— Verremmo riforniti per via aerea, dicono; ma sono soltanto progetti vaghi, naturalmente... —
rispose Reitani irrigidendosi contro la stufa; in quella posizione volgeva le spalle alla stanza,
nessuno riusciva a vederlo in viso.
Senza dubbio il suo comportamento era strano, inusitato. Tutti i presenti erano immobili, e in
profondo silenzio fissavano la schiena, la nuca, i capelli arruffati e neri del comandante sperando
che si voltasse per poterlo vedere in volto e comprendere qualcosa di più.
Serri allora si alzò dalla paglia e nel gran silenzio si avvicinò alla stufa e si fermò a un passo dietro
Reitani.
— Che cosa c'è ancora, Ugo, — disse lentamente, scandendo le parole — che non ci vorresti dire e
che dobbiamo sapere?
Il silenzio che seguì prendeva le gole degli alpini, pareva che non dovesse più terminare; ma il
capitano si voltò di scatto e piantò gli occhi negli occhi dei suoi uomini: — C'è — disse rompendo
l'indugio e troncando ogni esitazione, con voce alta e secca, come se impartisse un ordine alla
batteria schierata — c'è che i russi, dal giorno quindici in poi, hanno sfondato il fronte dell'Armata
ungherese a Korotojak, sotto Voronesh; operando nel vuoto che per centinaia di chilometri esiste
intorno a noi, sono calati dal nord con enormi forze corazzate e motorizzate senza dover neppure
combattere, si sono congiunti con le loro divisioni provenienti dal sud ed hanno completamente
saldato l'anello intorno a noi. La Julia, l'intero Corpo d'Armata Alpino sono isolati e circondati.
Siamo nel fondo d'una sacca.
Nessuno si mosse, la notizia aveva impietrito i presenti. In quell'istante la porta cigolò, entrò Brogli
e indugiò sull'uscio sbattendo una contro l'altra le scarpe per scrollare la neve; disse poi
allegramente: — Fa un freddo cane, amici; ma qui dentro siamo in paradiso, se Dio vuole! Tutto a
posto, capitano. Altri ordini da trasmettere?
— Uno solo, per adesso, — gli rispose Reitani a bassa voce — per tutti gli uomini liberi dal servizio
di guardia: dormire.
— Oh, meno male, era proprio l'ordine che mancava! Lo trasmetto subito volentieri! — commentò
Brogli accingendosi ad uscire nuovamente.
Aveva già rimesso la mano sulla maniglia della porta ma s'arrestò fulminato, accorgendosi in quel
punto che la stanza, alla luce della lanterna che pendeva dal soffitto, offriva l'assurdo aspetto d'un
ammuffito magazzino di rigattiere, ricolmo di ridicole, vecchie statue fuori uso.

2.
Era buona paglia asciutta quella su cui gli alpini finalmente dormivano, perfino profumata perché
conservava un lontano odore di campi e d'estate, odore di terra che si screpola al sole; il più bel
sogno, per chi rischia sempre di morire di freddo; era quasi come mormorare «Italia...» all'orecchio
d'uno qualsiasi di quei dormienti accucciati uno a ridosso dell'altro nell'isba del comando della
tredici, o in quelle accanto, sotto la luna che faceva brillare l'alta coltre di neve che ricopriva
Popowka.
Il silenzio, il gelo e il bianco offrivano maestoso corteo alla regalità della notte; notte russa,
sterminatrice gelida e quieta; sovrana su ogni altra vita, sovrana impassibile sul suo regno favoloso
e silente.
Nelle stalle i muli, nelle isbe gli alpini dormivano per grazia sua, confortandosi d'una stanchezza e
d'un gelo quasi mortali, abbandonati al sonno come bimbi o soldati. Ma già, ad oriente, la maledetta
livida aurora risvegliava gli uomini rincuorandoli alle male opere del nuovo giorno.
Un fremito frullante passò infatti nell'aria immota sovra Popowka e tra le isbe risuonò un tonfo
greve, poi un secondo, subito seguito da altri.
I corpi degli uomini si rimescolarono sulla paglia, nel buio delle capanne; alcune voci corsero,
alcuni lumi s'accesero.
— Capitano Reitani, allarme! — gridò una sentinella spalancando la porta dell' isba. Una ventata
gelida passò sui caldi corpi degli uomini giacenti.
— Sveglia!
Come ad un indistinto lontano richiamo, Serri ad occhi chiusi mosse il capo, stirò svogliatamente le
gambe, tornò a coscienza; sentiva il torpore del sonno correre via dalle membra, che dalla
sommersione nel pesante riposo riemergevano grado a grado.
Gli uomini indugiavano semicoscienti sulla paglia, stiracchiandosi di malavoglia, quasi stentassero
a riaversi dalla fatica d'aver dormito. Ma tuttavia, a un richiamo del capitano che stava già uscendo
cominciarono a sforzarsi di far entrare i piedi nelle scarpe che neppure una notte passata al caldo era
riuscita a rendere flessibili.
Quando Reitani rientrò, radunò gli ufficiali e i sottufficiali della batteria.
— Ho preso gli ordini dal colonnello Verdetti — comunicò. — Situazione: i colpi di mortaio che
sentite sono sparati da partigiani che attaccano il paese, sono già state prese le contromisure
necessarie. Altre formazioni partigiane sono segnalate nella zona, ma non tali da porre in difficoltà
una divisione. Quello che preoccupa, invece, è la situazione generale; durante la notte sono giunte
più precise notizie: le truppe russe si consolidano attorno al Corpo d'Armata Alpino con l'evidente
intento di soffocarlo in una morsa senza uscita. La divisione di fanteria Vicenza, venuta in Russia
con compito di presidio e inserita poi nello schieramento alpino, ha ben scarsa capacità offensiva;
fra le tre divisioni del Corpo d'Armata Alpino, la Tridentina e la Cuneense sono in buona efficienza
perché fino a ieri non si sono mosse dai rifugi sul Don e, nonostante che i russi nei giorni scorsi le
abbiano violentemente attaccate, mantengono in armi circa sedicimila uomini ciascuna; la Julia
invece è stata logorata nelle trincee di Novo Kalitwa, purtroppo abbiamo uomini e muli provati,
feriti e stanchi, scarse armi, più scarse munizioni e poche slitte; siamo soltanto dodicimila. Altri
dodicimila uomini costituiscono la divisione Vicenza.
Con la somma di queste forze — disse il capitano, fissando ad uno ad uno gli ufficiali e i
sottufficiali — il Comando del Corpo d'Armata Alpino ha deciso di spezzare l'anello russo che ci
circonda, e di tentare di ricongiungersi alle Armate italiana e tedesca che hanno ripiegato dal medio
Don mentre noi resistevamo sul fiume. Non siamo tuttavia i soli ad essere rimasti rinchiusi nella
sacca: ieri e oggi nei paesi vicini si sono concentrati altri reparti che divideranno la nostra stessa
sorte, e sono cinquemila uomini di comandi e servizi vari, duemila di un battaglione speciale e di
alcune batterie a cavallo, cinquemila che rappresentano i resti non utilizzabili delle due divisioni di
fanteria dissolte un mese fa a Novo Kalitwa. Sono presenti anche settemila tedeschi con molte slitte,
qualche carro armato, vari automezzi cingolati e qualche cannone anticarro e semovente, ma con
scarsissime munizioni; esistono inoltre settemila fra rumeni e sbandati di varia provenienza. Infine
s'aggiungono a noi due divisioni ungheresi che sono giunte ripiegando dalla zona di Korotojak:
sono ben trentamila uomini, ma non ci saranno di alcun aiuto perché ritirandosi in questi giorni
sono rimasti del tutto senz'armi. Complessivamente siamo quindi oltre centodiecimila uomini
rinchiusi nella sacca e tra questi gli italiani sono circa settantamila, ma purtroppo le uniche forze
ancora in grado di sostenere il combattimento sono quelle del Corpo d'Armata Alpino, qualche altro
piccolo reparto italiano e una metà del contingente tedesco. Tutti gli altri reparti ci seguiranno inerti
e in definitiva serviranno soltanto ad appesantire e attardare i movimenti della colonna. Punteremo
verso ovest, daremo battaglia ad oltranza quando ci imbatteremo nella linea di sbarramento russa e
tenteremo di sfondarla per raggiungere poi ad ovest la nuova linea su cui hanno ripiegato le forze
dell'Asse. Dico ovest perché non abbiamo altri ragguagli più precisi sulla loro dislocazione, come
non sappiamo con esattezza dove incontreremo la resistenza russa; sappiamo soltanto di essere
costretti a superare l'accerchiamento russo e di doverci trovare entro ventiquattro ore a ovest di
Postojali, un paese a qualche decina di chilometri da qui, ove pare siamo attesi da forze di
retroguardia dell'Asse; se non le raggiungeremo entro le ventiquattro ore, esse saranno costrette a
ripiegare ulteriormente e noi saremo abbandonati a noi stessi. Alle cinque partenza. Ordini per la
tredici: alleggerire al massimo il reparto, porteremo con noi solamente le armi e le munizioni
trasportabili con le slitte. I viveri, come sapete, sono esauriti; gli uomini caricheranno su di sé le
armi individuali e resteranno con i soli indumenti che indossano, tutti gli altri materiali devono
essere distrutti immediatamente, compresi gli zaini degli ufficiali e dei soldati: è un ordine
spiacevole, ma tassativo, giochiamo il tutto per il tutto. Perbellini — disse con una amara piega di
dolore sulle labbra — farai saltare subito il quarto pezzo, colpito com'è non consente impieghi
rapidi. Eseguire gli ordini — concluse dando una occhiata all'orologio; — fra mezz'ora si parte.
Pochi minuti dopo, i muli e le slitte uscivano dalle stalle, all'incerto chiarore gli artiglieri alpini
frugavano negli zaini togliendo affannosamente le cose più preziose: un paio di calze, fiammiferi,
una candela, alcuni fazzoletti, una maglia stinta, il paio di guanti di ricambio; facevano scomparire
il tutto nelle tasche, ficcavano le cose più voluminose sotto la giubba, le annodavano alla vita, si
legavano a tracolla la coperta e infine con gesto desolato lasciavano cadere sulla neve il rimanente,
dando un'ultima occhiata allo zaino vuoto, vecchio pesante amico tante volte maledetto, che
s'afflosciava come un cencio. Aveva servito da sedile, da cuscino, da riparo; era un vero dolore, un
tradimento abbandonarlo in fretta tra le mutande appallottolate e le carte stracce, ma quello era
l'inesorabile ordine.
Osservato da un ragazzetto russo infreddolito, Scudrèra stava togliendo dallo zaino un paio di
lunghi mutandoni di lana; li dispiegò al vento, li appallottolò e se li ficcò sotto il cappotto; ma
facevano troppo volume, li sfilò e se li arrotolò al collo, come una sciarpa. A questo punto si vide
osservato dal ragazzetto, che sorrideva divertito. Scudrèra dispiegò nuovamente le mutande
accostandole al ragazzetto, come a misurargliele: erano più alte di lui, il ragazzo rideva. Scudrèra
allora gli gettò le mutande sulle spalle, e gli disse: — To' dòpo, ma cresci in fretta; intanto le porterà
to nòna. Bàbuska! Bàbuska!
Capito?
— Karasciò! — esclamò il ragazzo russo. Fece un cenno di ringraziamento e filò verso un'isba
chiamando: — Bàbuska! Bàbuska! — Nel correre, però, gli caddero sulla neve le mutande; mentre
le raccoglieva e scappava, Scudrèra gli gridò dietro: — Ciò, insulso! Tienle ben, che le ga fate me
mama! — E rivolto a Pilon: — Te ga visto? El me ga capìo sùbito! Son mi che non capìsso dove go
imparà a parlar in russo!
Gli alti fuochi 'crepitavano sulla neve, cassette e pacchi di documenti delle furerie bruciavano,
autocarri privi di carburante venivano dati alle fiamme, il quarto pezzo della tredici era saltato; tutte
le compagnie e le batterie gettavano alla neve e al fuoco preziosi materiali, la gente russa andava
attorno raccogliendo indumenti, ragazzetti già se li spartivano altercando.
Gli alpini guardavano la distruzione con dolorosa fissità, una gran pena era scesa sulla Julia. Nei
dintorni, immani bagliori si diffondevano nel cielo ad annunciare che anche le altre divisioni nei
paesi vicini stavano bruciando tutto fuorché le armi e le slitte, e che oltre centomila uomini si
privavano tragicamente di ogni bene nel tentativo di serbarne uno solo: la vita.
Centomila gavette vuote di cibo, colme di ghiaccio, costellavano la neve e segnavano la sorte dei
combattenti imprigionati nella sacca presso il Don.
La colonna si mosse, girò attorno al paese, s'affacciò alla vastità della pianura divenendo,
all'improvviso confronto, un piccolo nastro grigioverde; e s'incamminò verso ovest.
— E la Tridentina E la Cuneense, signor capitano? — chiedeva il puntatore Coltrin a Reitani.
— Marciano a qualche chilometro al nostro fianco, ci riuniremo più avanti.
Dopo qualche ora di marcia venne il contrordine: le tre divisioni avrebbero proseguito con itinerari
separati per poter saggiare in punti diversi la resistenza nemica e sfondare poi insieme nel punto più
debole. Più tardi la colonna della Julia venne frazionata in colonne minori, formate da un
reggimento d'alpini e un Gruppo d'artiglieri alpini; il Gruppo della tredici si unì all'Ottavo
Reggimento Alpini. I reparti, scaglionati nella vastità, andavano alacremente verso ovest.
Il silenzio venne rotto all'improvviso dal rombo d'un aereo russo che passò sulle colonne, sganciò
qualche spezzone e scomparve nel cielo in direzionedi Rossosch. Una ondata di irritazione passò
sugli uomini.
— Accidenti, siamo stati individuati! — esclamò il sergente Bartolan.
— Presto incominceranno i guai — mormorò Reitani a Serri.
Apriva la colonna un battaglione d'alpini, seguivano la tredici e gli altri reparti. Verso il
mezzogiorno la testa della colonna si fermò, si udirono alcuni spari. Giunse un ordine, Reitani
chiamò Perbellini e gli disse: — Porta in testa il primo pezzo e sta' attento, pare che siano stati
avvistati carri armati russi. Il capitano venne chiamato a rapporto; tornando comunicò: — Siamo
nella zona di Nova Postojalowka e Ssolowiew, a pochi chilometri da quella Postojali che dobbiamo
superare entro le ventiquattro ore; ma i russi ci hanno sbarrato il passaggio. Fra poco ci schiereremo
e attaccheremo.
— E gli altri reparti della Julia? E le altre divisioni? — chiese Brogli.
— Cercheranno di sfondare per conto proprio, c'è ordine che ogni reparto affronti immediatamente
la situazione per non dare tempo ai russi di rafforzarsi.
Il pezzo di Perbellini già sparava, i russi rispondevano, i sibili raschianti dei proietti passavano sulla
colonna.
Mezz'ora dopo il combattimento divampava, i battaglioni Cividale, Tolmezzo e Gemona dell'
Ottavo Alpini, sostenuti dalle batterie del Gruppo di Verdetti, andavano all'attacco del paese e
riuscivano a impadronirsi di una parte dell'abitato, le slitte avanzavano fino a un chilometro dal
paese pronte a passare appena si fosse aperto il varco. Gli ufficiali medici curavano sulla neve i
primi feriti. La situazione si prospettava favorevole, da un istante all'altro si poteva procedere.
Ma dopo un'ora le posizioni conquistate nel paese furono abbandonate; gli alpini furono costretti a
retrocedere fino alle slitte e i tre pezzi e gli uomini della tredici che si erano spinti innanzi fino a
seicento metri dall'abitato rimasero allo scoperto a mezza distanza fra gli alpini e i russi.
— I nostri pezzi! — gridava esasperato Scudrèra, picchiandosi in testa e calpestando la neve.
Serri s'affannava a prestare i primi soccorsi ai feriti che rientravano dall'assalto.
— Non è possibile, colonnello — ripeteva affannosamente a Verdotti un capitano degli alpini,
mentre il medico gli medicava un'ampia ferita al viso; — non è possibile tenere le posizioni in
paese! Nova Postojalowka si può conquistare d'assalto, siamo riusciti ad attestarci nell'abitato per
cinque volte consecutive, ci siamo asserragliati nelle isbe, ma le posizioni che si raggiungono non si
possono mantenere: i russi mandano avanti i carri armati che prendono a cannonate le isbe e le
mandano a pezzi, è un macello; sopraggiungono poi le fanterie e finiscono col prevalere!
— Quanti carri armati avete visto?
— Sei, e molti autocarri che arrivano dalla pista di Rossosch scaricando sempre nuovi rinforzi.
Le tre batterie del Gruppo sparavano, rintuzzando l'impeto dei russi che tentavano di uscire dal
paese per attaccare gli alpini. I tre pezzi della tredici, che presi di mira dal fuoco nemico non si
potevano spostare, rischiavano ad ogni istante di cadere in mano ai russi. Un artigliere giunse
correndo dalla linea pezzi e si precipitò da Serri: — Dottore! — gridò ansimando — al primo pezzo
Coltrin e due serventi sono stati feriti, stanno per morire dissanguati, il sergente Bartolan e gli altri
non riescono ad aiutarli perché devono sparare continuamente...
— Corro subito — disse Serri passando all'infermiere Zoffoli il rotolo di benda che stava
avvolgendo al braccio di un ferito; afferrò lo zainetto di sanità e s'avviò.
I russi sparavano con i mortai sui cannoni del Gruppo, ma quando il medico uscì dallo schieramento
alpino e avanzò guardingo verso la linea pezzi della tredici i mortai tacevano.
— Sono fortunato — pensò l'ufficiale. Il trovarsi al di fuori della cerchia difensiva dava ai radi
intervalli di silenzio una consistenza quasi palpabile; soltanto qualche raffica di mitragliatrice russa
passava sibilando nell'aria gelida; ma le voci rimbombanti dei cannoni del Gruppo rintronarono
nuovamente.
Quando il medico si trovò a una sessantina di metri dal primo pezzo comprese e addirittura vide con
raccapriccio la ragione del silenzio dei mortai nemici: due carri armati da quaranta tonnellate si
erano affacciati tra le estreme isbe del paese e avanzavano nella neve verso i pezzi della tredici.
Aprirono il fuoco con le mitragliatrici di bordo; ad intervalli si soffermavano per qualche secondo a
sparare col cannone che spuntava dalla torretta e riprendevano ad avanzare.
Serri si affrettava verso il primo pezzo tenendosi curvo sulla neve e non perdeva d'occhio i due
pachidermi. A cento metri dai pezzi uno d'essi accelerò l'andatura e deviò verso la linea degli alpini,
il secondo puntò decisamente verso i cannoni di Reitani.
— Ugo ha fatto portare avanti le granate controcarro, ora Bartolan spara senz'altro — si disse il
medico vedendo che il carro armato si avvicinava al primo pezzo dal quale egli distava una trentina
di passi. Vide infatti Bartolan sparare, udì la secca esplosione, osservò il carro armato colpito in
pieno arrestarsi; ma non percepì l'esplodere della granata, poiché questa era slittata sulla corazza del
carro, scivolando via senza far danno. Negli istanti che seguirono', Serri assistette inorridito alla
scena fulminea: il carro avanzò sul primo pezzo, il medico vide Bartolan e un servente tentare di
gettarsi a lato quando il muso del gigante già era a ridosso del cannone. In un baleno lo urtò, lo
sormontò, l'abbrancò, lo smosse; la coda del pezzo s'elevò e si agitò a sghimbescio nell'aria come un
braccio che implori aiuto; ma già il carro aveva rizzato il muso nell'aria e si spingeva innanzi
ricadendo poi con lentezza pesante sul cannone, che scomparve sotto la mole mostruosa; con due
scrolloni il gigante si svincolò dalla preda e s'allontanò sulla neve. Tutto era successo in un
vertiginoso attimo sotto gli occhi del medico. Bartolan stava riverso nella neve, e il pezzo e altre
sagome scure, forse uomini, giacevano schiacciati nella scia lasciata dal carro.
L'ufficiale fece due o tre passi di corsa ma s'arrestò perché il sibilo di una raffica lo sfiorò; ebbe il
tempo di gettarsi nella neve e contemporaneamente vide l'enorme mole del secondo carro armato
che gli rotolava addosso, forse da cinque metri. Serrò gli occhi già annientato, ma nell'attimo
successivo le estreme energie dell'istinto lo forzarono a riaprirli, vide con orrore la spaventosa
forma incombente, il digrignare feroce dei cingoli dentati; l'attimo si dilatò, tutta la vita si fermò
paralizzata e pencolante su quello.
— Mamma... — pensò l'ufficiale e vide i cingoli ruotare a un metro dagli occhi, udì ingigantito il
rumore del motore e del ferro in movimento; allora non vide e non sentì più nulla, soltanto si
divincolò come una serpe, disteso sulla neve si rigirò su se stesso due, tre, quattro, cinque volte,
rotolò ubriaco, stordito, avvertì un violento strattone a un braccio, si sentì addentato e perduto,
distrutto; conobbe la vertigine di sentire vita e morte coabitanti in un sussulto estremo nel suo
cervello, si chiese senza più alcuna angoscia se tutto era finito, se ormai riviveva nella morte, riaprì
gli occhi e vide azzurro di cielo, sollevò il capo dalla neve e scorse il carro a dieci metri che se ne
andava. Rimase supino a fare il morto, appena allora cosciente di non esserlo.
Dopo un minuto, vedendo il carro lontano si rizzò ginocchioni nella neve, si tastò il braccio e si
avvide che la mano serrava ancora la cinghia dello zaino di sanità ch'egli teneva al momento
dell'incontro col carro. Capì allora che s'era salvato per un nulla, per l'ultimo guizzante rotolarsi; e
che lo strappo al braccio gli era venuto dallo zaino travolto e stritolato dal gioco dei cingoli, poiché
la mano contratta sulla cinghia non aveva mollato la presa.
— Accidenti... — disse ansando a se stesso; e non seppe dirsi altro.
Si rialzò, si avvicinò a Bartolan che guardava inebetito la neve attorno al pezzo smembrato; a tre
metri dai resti del cannone, nella scia lasciata dal carro assalitore giaceva dilaniato un cadavere; una
sola gamba appariva, superstite, da un impasto informe e sanguinolento che all'estremo opposto
terminava in un rimescolato tritume di capelli, denti e ossa craniche tenuto insieme da un lucido e
gelatinoso cemento di materia cerebrale già gelata.
— È Coltrin? — chiese Serri, subito provando una vampata di sdegno contro di sé nel constatare
l'assenza di emozione nel porre la domanda.
— Sì; era stato ferito poco fa, gli mancava già una gamba, ma non la trovo più — rispose Bartolan
senza turbamento, fissando ciò che rimaneva dell'amico fraterno; e lentamente passò lo sguardo
spento su un secondo cadavere, a metà maciullato nel solco del carro, a metà integro nella neve
intatta.
— Altri due sono là — disse ancora accennando col capo lungo la scia e avendo sul viso un ghigno
incomprensibile; — sono ridotti come sogliole.
Guardando negli occhi l'ufficiale con uno sguardo fisso aggiunse: — L'avete scampata anche voi
per miracolo; quando ho visto il secondo carro che vi veniva addosso ho gridato, ma non mi avete
sentito.
Serri percorse nel largo solco una quindicina di metri, giungendo al punto ove erano state deposte le
munizioni del pezzo affinchè, essendo la neve in quel tratto ghiacciata, non avessero a sprofondare.
Là il carro era passato su due artiglieri; il medico vide che, per la rigida resistenza offerta alla ferrea
mole dal lastrone ghiacciato, i due cadaveri erano stati appiattiti e pressati, stavano distesi sul
ghiaccio dando orribile risalto al paragone fatto da Bartolan: smisuratamente larghi e lunghi
avevano perduto spessore e sembianze umane.
In quell'ora reparti alpini avanzarono, invano tentando un nuovo attacco al paese; tutta la giornata
trascorse senza portare mutamenti decisivi. Vennero fatti alcuni prigionieri, i quali affermarono che
il presidio di Nova Postojalowka era costituito da più di tremila uomini di fanteria appoggiati da
sette carri armati e da numerosi mortai e cannoni; confermarono che rinforzi autocarrati giungevano
ininterrottamente dalla vicina Rossosch.
Venne la notte, col buio i due pezzi superstiti della tredici poterono rientrare nello schieramento
alpino; giunsero anche il battaglione Ceva e il Gruppo di artiglieria Mondovì con una batteria del
Val Po che non erano riusciti a passare altrove; si schierarono subito con gli altri reparti. Tutti
pernottarono all'addiaccio, martoriati dal freddo, insonni.
— All'alba i battaglioni tenteranno l'ultimo attacco — correva voce.
— All'alba bisognerà sfondare ad ogni costo, scadono le ventiquattro ore — dicevano gli alpini. Si
chiudevano poi in lunghi silenzi, si sfregavano le estremità, si picchiavano il torace cercando di
tenersi desti.

3.
Alle prime luci dell'indomani i battaglioni appoggiati dal fuoco dei pezzi andarono all'attacco. Tutti
i reparti erano già duramente provati, il numero delle armi era dimezzato, le munizioni
scarseggiavano. Durante la notte invece le forze del nemico erano raddoppiate, l'attacco condotto
con violenza disperata s'infranse contro la troppo munita barriera. Il tenente colonnello Avenanti,
comandante del Ceva, cadde alla testa dei suoi alpini; molti ufficiali e soldati morirono.
— Non passeremo più — disse freddamente Brogli a Serri che medicava i feriti. Di fronte ai fatti, il
presentimento della fine già troppe volte rinviata si andava diffondendo.
Alle undici i russi uscirono dal paese e attaccarono con l'evidente volontà di sferrare l'azione
decisiva. Comparvero le fanterie appoggiate da forze corazzate, gli alpini con sgomento contarono
diciassette carri armati.
L'urto fu violentissimo, la linea degli alpini venne travolta e superata, i pezzi furono sottoposti a un
infernale fuoco di controbatteria; ben presto nel Gruppo Mondovì tutti i comandanti di batteria
rimasero uccisi assieme con la maggioranza degli ufficiali e degli artiglieri fulminati accanto ai
cannoni. Il tenente colonnello Verdetti ordinò allora al capitano Bonzani, comandante della
quindicesima batteria del suo Gruppo, di inviare artiglieri ai superstiti cannoni del Mondovì rimasti
senza uomini vivi; i cannoni ripresero il tiro finché i nuovi serventi morirono sui pezzi distrutti, e il
capitano Bonzani rimase gravemente ferito.
Anche al Gruppo del colonnello Verdetti la situazione era diventata estremamente grave: le batterie
avevano immobilizzato sulla neve tre carri armati russi ed altri due, colpiti, erano stati costretti ad
abbandonare il campo di battaglia; ma ormai la tredici, la quattordici e la quindici non avevano
quasi più munizioni, un altro pezzo della batteria di Reitani era stato colpito in pieno e distrutto.
I carri armati russi incrociavano dove più s'addensavano i reparti alpini ruotando inesorabilmente le
decine di tonnellate della loro mole sugli uomini vivi; puntavano verso gli agglomerati umani più
compatti, col tiro teso e radente delle mitragliatrici di bordo li obbligavano a buttarsi sulla neve e
subito si gettavano sulla preda a dilaniarla coi cingoli, si soffermavano ed eseguivano mezzi giri
dimenandosi a destra e a sinistra per tritare le carni umane su più ampio raggio.
Le fanterie quindi avanzavano finendo il massacro, sopraffacendo chi era ancora in grado di
combattere.
Molti cannoni dei Gruppi tacevano distrutti, la sparatoria e la resistenza degli alpini s'affievoliva, i
caduti in grigioverde coprivano il bianco della neve, i feriti brancolavano verso i posti di
medicazione. Notizie sempre più gravi correvano miste a nomi d'ufficiali morti, di compagnie e
batterie travolte; il nemico s'approssimava alle slitte, ogni novità trasmessa ai Comandi faceva
sentire come imminente la totale carneficina.
— Tutti i vivi all'assalto! — ruggì allora il colonnello Verdetti estraendo la rivoltella. — Il mio
Gruppo alla baionetta con me, fra tre minuti! Abbandonate tutto, tutti all'assalto!
Gli ufficiali trasmisero l'ordine che in pochi istanti dilagò fra le slitte, nei posti di medicazione, sulla
neve, dovunque esistesse un alpino in condizione di reggersi in piedi; straripò raggiungendo gli altri
reparti, elettrizzò ogni uomo, rinfrancò chi già combatteva.
— Savoiaaa...! — gridò al terzo minuto il colonnello Verdetti, strappando con i denti la sicura a una
bomba a mano e buttandosi innanzi, circondato dall'aiutante maggiore e dagli altri ufficiali.
— Savoiaaa! — urlarono come folli gli armati, seguendo il comandante. E una torma disperata
s'avventò verso il nemico, spaventosa d'inaudita volontà, dolorante e pazza, sospinta dal delirio di
voler scavalcare la morte o abbracciarla; dietro i primi, sorsero dalla neve e si slanciarono avanti in
un miscuglio indicibile mitraglieri rimasti senz'arma, furieri, telefonisti, graduati, infermieri,
conducenti, medici, uomini delle salmerie, artiglieri dal pezzo schiantato, alpini che avevano
esaurita l'ultima pallottola; e fra questi ansimavano i feriti sorti dai posti di medicazione,
zoppicavano i congelati, arrancavano i malati, tutti brandendo baionette, bombe a mano, bastoni,
coltelli da tasca, fucili a mo' di clava, spaventevoli apparizioni di forsennati che facevano massa
contro il nemico avendo lasciato addietro soltanto i moribondi e i morti.
Piombarono sull'avversario con irruenza furiosa, s'avventarono; impotenti ad altro, si rotolarono
nella neve in lotta mortale con i nemici abbrancati, li tennero avvinti a sé quando il carro armato
passò ad arare la neve e la carne; si gettarono sui carri in moto, finirono stritolati sotto i cingoli ma
questi erano ancora rossi dell'impasto di sangue e di muscoli quando altri salirono a sollevare le
botole delle torrette e gettare la bomba nell'interno, a torcere con furenti colpi di calcio di fucile le
canne delle mitragliatrici che spuntavano dalle spesse corazze.
Assalito dalla torma demente, il nemico si arrestò, rinunciò al proposito di sterminare quegli
uomini, non resse, voltò le spalle e ricalcò di corsa le proprie orme inseguito e pressato dalla torma
dei forsennati; incalzato da questi ripiegò precipitosamente sulle posizioni di partenza
asserragliandosi nelle isbe del paese e nelle sue linee munite.
Ma gli alpini non passarono. Non ebbero armi sufficienti a valicare la barriera fissa.
Ritornarono alle slitte pesti, sanguinanti, esausti, portando seco i feriti; facevano il triste consuntivo
dei morti; riprendendo respiro, guardavano la neve seminata di cadaveri, tra cui cinque carri
torreggiavano immobilizzati.
— Abbiamo impedito che venissero ad ucciderci tutti — dicevano ancora ansanti — ma quando
torneranno sarà la fine.
I feriti facevano ressa ai posti di medicazione stabiliti all'aria aperta sulla neve. Sotto gli occhi dei
feriti in attesa di aiuto, Serri opponeva ogni possibile risorsa all'onnipresente minaccia della morte.
Aveva nel cuore la tristezza di poterla contrastare soltanto con inadeguati e crudeli ripieghi, ma
lavorava con fervore supplicando Iddio di conservargli la mobilità e il tatto alle mani ch'era
costretto a muovere nude nell'aria gelida. Ormai i materiali sanitari erano del tutto esauriti, gli
strumenti chirurgici erano finiti sotto il carro armato.
Gli accadevano cose strane, che da principio gli parevano incredibili. Già il primo ferito, al quale
stava asportando col coltello da caccia tre dita d'una mano sfracellata, osservava senza batter ciglio
le fasi dell'intervento: — Ma non senti dolore, tu?
— No, signor tenente — aveva risposto quello con tranquillità; — è come se non avessi la mano.
Non la sento. Amputando arti ad altri feriti e ricevendo risposta consimile, il medico aveva
constatato che l'intervenire nel gelo su arti semicongelati attenuava e spesso annullava la sensibilità
dei nervi con grande vantaggio, a questo effetto, per i feriti.
Fra i primi gli era stato portato un alpino con una gamba sfracellata; era opportuno liberarlo dallo
spappolato pendaglio e il medico esitò prima di procedere alla disarticolazione della gamba
all'altezza del ginocchio temendo una eccessiva effusione di sangue. Ma, intervenendo, non solo
constatò che il soldato non accusava dolore, ma con indicibile sollievo s'avvide che i vasi sanguigni
beanti nel gelo si contraevano quasi subito e il sangue ristagnava in pochi istanti. Il fatto si ripeteva
per la maggioranza dei feriti.
— Non possiamo farci illusioni, però, colonnello — diceva a Verdetti che lo interrogava; — non
posso rispondere della vita di nessuno, sono costretto a intervenire in un modo bestiale e le
circostanze rendono sicura ogni più grave complicazione.
— Poveri figli... — mormorava il colonnello.
— Ci precederanno di poco — aggiungeva Brogli.
Molti erano i morti in combattimento, le file dei reparti si erano ridotte spaventosamente. La tredici
era stata tra le più risparmiate dalla sorte, non risultava dimezzata o pressoché annientata come altri
reparti, ma tuttavia diciannove dei suoi uomini giacevano sulla neve e pure il giovanissimo
sottotenente Landolfi era morto per una palla in fronte ricevuta mentre si trovava presso il secondo
pezzo. L'angoscia per la perdita dei compagni pesava sugli animi e rendeva più brucianti i presagi.
Altri ufficiali del Gruppo erano morti, diversi erano feriti. Uno venne trascinato a braccia al posto di
medicazione di Serri, era il sottotenente Frati della quattordici, un allampanato e meditabondo
laureato in filosofia che durante i mesi di fronte si era guadagnato la stima di tutti per l'olimpica,
quasi trasognata calma che lo caratterizzava e per l'inalterabile, sottile arguzia che lo distingueva.
Più a nulla ormai gli giovavano tali doti, ora che stava disteso sulla neve svenuto e mortalmente
pallido.
— Deve avere una pallottola nella pancia, a quanto si è capito — mormorò al medico l'infermiere
Zoffoli. Serri si inginocchiò nella neve, sbottonò gli indumenti del ferito, e sulla pelle nuda
dell'addome, presso l'ombelico, vide un piccolo occhiello rosso, a contorno regolare.
— È spacciato? — domandò Zoffoli.
Il medico strinse le labbra; una perforazione addominale, in condizioni simili, non lasciava adito ad
alcuna speranza. Rimosse il ferito, e a cinque centimetri a lato della colonna vertebrale constatò la
presenza del forame d'uscita.
— Sì, è una ferita da pallottola — disse evasivamente con tristezza pensando all'inevitabile sorte
dell'ufficiale.
Questi socchiuse un occhio, guardò il medico e con un filo di voce mormorò: — È finita, per me.
— No, sta' tranquillo — mentì Serri sorpreso di vedere cosciente l'amico che fino a quel momento
era parso privo di sensi.
— È finita, me lo sento — ripetè Frati.
— Non posso fare nulla — pensò Serri con infinita pena; e chiese: — Senti dolore?
— No, niente; mi brucia solo un poco l'osso.
— L'osso? Dove? — domandò il medico attentissimo.
— Qui a destra — disse il ferito indicando l'ala iliaca. Con estrema attenzione Serri visitò il
sottotenente, gli fece alcune domande, gli disse alfine tra lo stupore dei presenti: — Alzati.
Il ferito aprì gli occhi smorti, rivolse al medico un lungo sguardo dolorante: — Non posso —
rispose fiocamente.
— Alzati! — gli ordinò con durezza Serri, scuotendogli un braccio e stimolandolo ad obbedire.
Faticosamente il ferito, disorientato, tentò di rizzarsi e il medico lo aiutò a levarsi. Rimase in piedi
sulla neve, fra gli sguardi allibiti di chi assisteva alla scena.
— Ora cammina — gli impose Serri dandogli una leggera spinta.
Brancolando l'ufficiale tentò un primo passo, un secondo, procedette più sicuro, si voltò e ritornò a
Serri guardandolo con occhi spauriti e interrogativi.
— Dove ti fa male? — domandò il medico con ansia. Il ferito fece un gesto segnando una linea
orizzontale, a semicerchio dall'addome alla schiena.
— Una bella fortuna, Frati! — esclamò con gioia Serri abbracciando il compagno che lo fissava
stordito; — la pallottola ti è entrata sotto la cute dell'addome sopra i muscoli addominali e sopra
l'ala iliaca e ti è uscita dalla schiena! Con tutta probabilità non hai lesioni interne, coraggio!
Frati si sentì rinascere e il volto esangue gli si imporporò.
— Non posso disinfettarti e fasciarti — disse Serri — non abbiamo più né garza né una goccia
d'alcool. Ho potuto soltanto scuoterti dall'accasciamento.
Il filosofo, che aveva ficcato le mani nelle tasche dei pantaloni constatò: — Ho un buco nella tasca
— e trasse la mano destra sulla cui palma stava un piccolo oggetto; — guarda chi si vede —
aggiunse con allegra sorpresa — la pallottola che m'è uscita dalla schiena ha bucato la tela e m'è
arrivata fino in tasca! Se riesco ad arrivarci io, questa me la voglio portare a casa. Grazie, Serri,
m'hai ridato vita, vedrò di conservarmela; ora torno alla mia batteria.
E col suo passo dinoccolato s'allontanò tentennante.
— Che Dio te la mandi buona... — gli augurò il medico, osservando quell'incedere da fantoccio.
Le ore del pomeriggio trascorrevano rapidamente, i russi insistettero in qualche attacco di scarso
vigore, i loro carri armati si aggiravano sulla neve in perlustrazione mitragliando e aggredendo i
soldati di sorpresa. Si tentava di seppellire i morti, ma la durezza del suolo gelato era pressoché
inviolabile; i superstiti sapevano che sarebbero stati annientati al primo vigoroso attacco russo; e
d'altronde le ventiquattro ore convenute erano state superate, già dall'alba le forze che attendevano
gli alpini al di là dell'accerchiamento dovevano aver ripiegato e chi si trovava ancora nella sacca
non aveva più motivo di speranza. Mancava ogni notizia di tutti gli altri reparti in ripiegamento. Il
comando delle truppe presenti dinanzi a Nova Postojalowka aveva già trasmesso l'ordine di disporre
in cerchio le slitte: entro il grande cerchio si sarebbero trincerati i superstiti ed avrebbero affrontato
combattendo l'ultimo destino.
Tuttavia gli uomini s'aggrappavano ancora tenacemente alla vita, i feriti si guardavano attorno con
occhio febbrile e interrogavano gli ufficiali con trepidazione.
Dopo una ennesima puntata di carri, venne portato a Serri un alpino dagli occhi sbarrati, in preda a
una violenta eccitazione.
— Dottore... — disse balbettando — un carro armato... mi ha schiacciato...
— Come? — esclamò Serri.
— Sì, mi è passato sopra il corpo, con i cingoli... Il medico fissò quei due occhi da demente e chiese
con incredulità: — E sei vivo? E non ti ha fatto a pezzi?
— Non so... mi fa male qui... — e con la mano segnava strisce trasversali in corrispondenza del
torace, dell'addome e delle gambe.
Serri gli allentò le vesti e con indicibile stupore vide che il corpo dell'alpino era marchiato da larghe
striature livide ed equidistanti, gli indubbi morsi dei cingoli.
— Non mi credete? — ripeteva l'alpino. — Domandate ai miei compagni che hanno visto il carro
passarmi sopra... è passato sopra ad altri tre, ve li stanno portando qui.
Subito dopo infatti Serri visitò quegli uomini: egualmente segnati e intatti. Si sforzava di capire il
perché del miracolo.
— Dove eravate? — disse.
— Sulla neve.
— Era alta?
— Sì, più di un metro. L'avevamo maledetta tutta la notte per questo, ci era toccato un brutto posto.
— Era ghiacciata?
— No, si sprofondava.
Il medico ebbe allora la vivente testimonianza di una inaudita possibilità: quando su uno strato di
neve alta e soffice il carro armato passava sopra i corpi umani, la neve compressa sotto la mole del
carro poteva mantenere uno spessore sufficiente a salvare gli uomini che rimanevano pressati ma
vivi, prodigiosamente imprigionati intatti fra il terreno e i cingoli.
S'avvicinò in fretta Reitani.
— Italo — disse rapidamente — abbiamo avuto perdite spaventose, le armi efficienti sono poche, ci
rimane soltanto il secondo pezzo, le munizioni vanno esaurendosi. Abbiamo tenuto rapporto, è stato
deciso di tentare il tutto per tutto, come vuole il colonnello Verdotti: appena sarà buio ci
muoveremo, fingeremo di spostarci a sinistra, faremo invece una conversione verso destra e
attraverso le balke più profonde, dove speriamo che i russi abbiano scarsa sorveglianza, tenteremo
di forzare il passaggio. Ci rimangono dodici slitte, in parte sono scariche perché ci mancano ormai
tre pezzi, le caricheremo di feriti e congelati che non siano assolutamente in grado di camminare: tu
li sceglierai subito e li farai trasportare sulle slitte. La partenza è prevista tra un'ora, se non succede
altro.
Un'ora dopo, protetta dal buio la colonna si mosse in assoluto silenzio; fra gli uomini in marcia
procedevano le slitte cariche di feriti e di congelati stesi su uno strato di paglia e riparati dal gelo
con coperte. In breve sul posto non rimasero che i morti e si attardarono alcune mitragliatrici e il
pezzo del sergente Fraita, a sparare fingendo un immutato programma di resistenza. Dopo aver
camminato per un'ora verso sud la colonna operò la conversione prevista e con un largo semicerchio
puntò progressivamente a est, poi a nord e infine con decisione a ovest andando nuovamente
incontro alla linea di schieramento russo a qualche chilometro a lato di Nova Postojalowka.
Con estrema cautela la testa della colonna s'insinuò in una balka profonda e stretta avanzando
lentamente e con grande difficoltà; gli alpini aiutavano i muli a sospingere le slitte poiché la neve
accumulata nel fondo della valletta rendeva quasi impraticabile il passaggio ai veicoli e agli
animali; i feriti trattenevano i gemiti, i marciatori il respiro, perché a breve distanza non potevano
mancare le scolte russe. Al termine della prima balka la colonna riuscì ad infilarsi in una seconda, la
neve raccolta faceva affondare uomini e muli fino all'inguine, le slitte traballavano e cigolavano, gli
alpini dal fondo dello stretto passaggio incassato nella pianura levavano lo sguardo ai ciglioni
sempre temendo di scorgere un soldato russo affacciato a dare l'allarme: ben sapevano di trovarsi in
una trappola, che il venire sorpresi e immobilizzati nel fondo della balka significava lo sterminio
immediato; la stanchezza accumulata nei vari giorni di combattimenti e di fatiche era scomparsa,
fugata dall'enorme tensione dei nervi.
— Forza! — mormoravano in sordina i conducenti quando una slitta s'arrestava semisprofondata e i
muli zampavano senza trovare appoggio per gli zoccoli negli alti accumuli di neve.
— Uno... due... tre... hop! — sibilava un ufficiale o un graduato agli uomini che abbrancavano la
slitta incagliata e con uno sforzo supremo la sospingevano innanzi. La colonna allora riprendeva ad
avanzare in fretta, le speranze rinascevano poiché una slitta bloccata nell'angusto passaggio
significava un ritardo per l'intera colonna.
— A che punto siamo? — chiedevano i feriti sporgendo il viso dalle coperte.
— Ancora un poco...
— Siamo pazzi da legare — sussurrò il tenente Brogli a Serri. — Tutta fatica inutile, anche se
usciremo di qui i russi ci riprenderanno domattina.
Seguendo un fortunato itinerario nel fondo di successive balke, la testa della colonna giunse ad una
grande pista che tagliava la steppa da sud a nord: era la via Rossosch-Voronesh, il presunto limite
della sacca. Non si vedeva segno di sorveglianza, la sorpresa pareva riuscire. Con infinite
precauzioni, a piccoli gruppi la colonna passò al completo e proseguì nella steppa senza che venisse
dato l'allarme. Gli uomini esultavano, si cercavano a vicenda con occhi brillanti alla luce della luna
che sorgeva, si toccavano in silenzio le mani inguantate, si curvavano sulle slitte a rincuorare i feriti
e dare la grande notizia: — Siamo passati, siamo fuori dalla sacca! Pareva incredibile che dopo i
lunghi giorni di agonia tutto si fosse risolto così semplicemente, con tanta facilità.
— Non facciamoci illusioni, Italo — disse Brogli; — non c'è speranza, non riusciremo più a
ricongiungerci con l'Armata, troveremo sempre i russi davanti a noi.
— Dove andiamo adesso, signor colonnello? — chiedevano gli ufficiali a Verdetti.
— Verso ovest, non abbiamo nessun altro riferimento preciso, per ora. Ci spingeremo sempre verso
ovest finché incontreremo qualcuno, ma dovremo marciare nella steppa stando lontani dai paesi e
dalle piste per non doverci imbattere nei russi. Dovremo sempre camminare nella neve vergine.
E continuarono gli alpini a dibattersi nella neve sospingendo le slitte con sforzo disumano, per ore e
ore. Quando la colonna si fu distanziata considerevolmente dalla pista Rossosch-Voronesh, risalì il
ciglione di una balka e proseguì la marcia sulla neve della pianura.
Pareva che gli uomini non sentissero il freddo e la fame, tanto la speranza li sospingeva innanzi;
neppure i feriti si lamentavano, chiedevano soltanto tratto tratto un pezzo di crosta di neve da
sgretolare in bocca poiché l'arsura della febbre li divorava, nelle labbra delle ferite aperte e mal
fasciate il sangue ardeva chiedendo sollievo.
Nel pieno della notte un aeroplano passò sulla colonna, la luce della luna gli consentì di individuare
i marciatori, sganciò alcune bombe colpendo uomini e muli.
— Vedi, Italo? — disse Brogli al medico; — siamo nuovamente sotto il controllo dei russi. È stata
una illusione.
La marcia proseguì ininterrotta nel gelo, i feriti e i congelati costretti a camminare a piedi
arrancavano appoggiandosi al braccio dei compagni validi, quelli giacenti nelle slitte vennero del
tutto rinserrati sotto un tetto di coperte stese e legate sopra il groviglio dei corpi, affinchè questi
fossero meglio protetti dal freddo; rinchiusi e ammassati uno sull'altro, costretti all'immobilità, i
giacenti sentivano gli arti feriti schiacciarsi sotto il peso del corpo dei compagni. Urli repressi,
imprecazioni attutite dalla paglia e dalle coperte venivano dalle slitte e assillavano gli uomini che
camminavano a fianco.

4.
Dopo una notte di marcia terribile spuntò l'alba e alle prime ore del mattino la colonna fu costretta a
rifugiarsi precipitosamente in un bosco poiché erano stati avvistati diversi carri armati. Pattuglie
mandate in esplorazione segnalarono la presenza di imponenti forze russe che manovravano
tutt'intorno.
Sordi o raschianti colpi di cannone rintronarono tosto vicini e lontani, dovunque le sagome
minacciose dei carri russi s'aggiravano sulla neve sparando.
— Cosa ti ho detto questa notte? — diceva Brogli.
— La situazione è tremenda, siamo d'accordo — rispondeva Serri — ma non bisogna disperare
finché siamo vivi.
La temperatura divenne meno rigida, cominciò a nevicare sui cappotti degli alpini, sulle groppe dei
muli e sulle coperte dei feriti. La sosta era angosciosa, la fame mordeva tutti, i muli addentavano gli
spinosi arbusti del bosco, gli uomini silenziosi guardavano con invidia le bestie pensando all'ultima
distribuzione di cibo avuto a Sslawianka.
— Quando ci hanno dato l'ultima galletta e scatoletta? — chiedeva il conducente Pilòn, morto di
fame.
— Il diciassette gennaio, a Sslawianka — diceva il sergente Fraita.
— E oggi quanti ne abbiamo, Clerici? — domandavano al furiere che aveva il compito di tenere
aggiornato il diario di batteria.
— Ventuno.
— Quattro giorni senza mangiare, santa Madonna! — mugolava Covre.
— Io avevo una scatola di sardine, la conservavo come oro, ma ho dovuto mangiarla per tirare
avanti — diceva Sorgato.
— Hanno da mangiare gli ufficiali? — chiedevano gli artiglieri al mensiere.
— Neppure un boccone di galletta ammuffita, lo sapete meglio di me, sono disgraziati e affamati
come noi.
— Io ho una crosta di formaggio — confidava agli amici Scudrèra — me la sono messa in tasca più
d'un mese fa, la sera del sedici dicembre, partendo per Jvanowka; l'ho ancora qui nella tasca, ho
giurato di tenermela fino a quando sarò sul punto di morire di fame. Vi avverto — diceva ai
compagni posando una mano sulla tasca — che se qualcuno cerca di rubarmela io gli sparo, come è
vero Dio! — Non si capiva se diceva per scherzo o sul serio, ma parlando guardava in giro con
occhi minacciosi. — Diamo una mano al tenente — aggiungeva poi curvandosi presso Serri che
approfittava della sosta per riassestare le medicazioni ai feriti.
— Bravi, aiutatemi a levarli a uno a uno dalle slitte — diceva il medico. E i compagni sollevavano
dalla paglia i feriti, li portavano qualche passo a lato, come in un giuoco li sorreggevano a trenta
centimetri dalla neve e sbottonavano i pantaloni e le mutande brontolando e ridendo, ma
muovevano le mani con molto garbo perché i feriti avevano le piaghe aperte e da soli non bastavano
neppure a provvedere ai loro bisogni corporali.
— Anca da bàlia me tòca farte, porca l'oca! — protestava Scudrèra reggendo a mezz'aria, da solo,
un gigantesco conducente dalle mani e i piedi in cancrena, impossibilitato a reggersi e bastare a se
stesso. — Sotto la nàja te si' cressù benin, fioléto! Quanto te pési? Dighelo a la to' mameta!
— Centonove, Scudrèra; ma tiénme più su, che i cardi i me pùnse el de drìo!
— Par forza, con tutto quel che te ghe regali, poaréti! Almanco te calassi de péso, fiol d'un can. Mi
no capisso: con quel che te magni...
Col trascorrere delle ore la situazione parve precipitare, il bosco sembrava doversi tramutare da un
minuto all'altro in un campo di battaglia, gli uomini si sentivano chiusi in una morsa pronta a
stritolarli, si consultavano nervosamente fra loro, correvano fra gli alberi e i compagni nell'assurda
ricerca d'una parola, d'un segno di speranza, o ristavano tetri e solitari a fissare la neve.
Ma tuttavia, nel pomeriggio, la situazione migliorò: le sparatorie si erano affievolite, i carri armati
non si vedevano più, si seppe che non lontana stava la Tridentina che aveva superato una forte
resistenza nemica. Le coperte vennero ridistese e legate sopra i feriti, le slitte si mossero, la colonna
uscì dal bosco e riprese la marcia.
In cammino, i reparti che avevano aggirato Nova Postojalowka ristabilirono finalmente il
collegamento con le altre unità del Corpo d'Armata Alpino: si seppe che nessuna divisione era
riuscita a oltrepassare l'accerchiamento nelle prime ventiquattro ore, Postojali era stato raggiunto
ma al posto delle truppe dell'Asse si erano trovati i russi che la Tridentina aveva sgominato; non
rimaneva che riunire le forze e le armi rimaste, formare colonna unica e proseguire senza sosta
verso ovest.
— Non hai avuto notizie più precise? — chiese Serri camminando a fianco di Reitani; — ci
dirigiamo verso una meta definita?
— No, anche le altre divisioni sono senza riferimenti, non possiamo scegliere l'itinerario più
opportuno poiché ad ogni passo non conosciamo la situazione che incontreremo un passo più in là.
Prenderemo le decisioni di ora in ora, dobbiamo affrontare tutte le iniziative dei russi e del caso; e
dirigerei comunque verso ovest.
— Non sappiamo di quanto hanno ripiegato le nostre truppe che fino a ieri ci attendevano a
Postojali? Non siamo in collegamento radio?
— No, nulla. Quelle erano esigue truppe di retroguardia, il grosso ha ripiegato da tempo, speriamo
soltanto che le forze dell'Asse qui in Ucraina stiano attestandosi in posizioni che noi si possa
raggiungere in breve. Speriamo, ma manca ogni indizio di conferma, sappiamo solo di avere
superato l'anello di sbarramento con cui i russi avevano circondato il Corpo d'Armata Alpino. Pur
avendo forzato l'anello, abbiamo però trovato anche oggi il nemico di fronte e intorno; c'è
l'impressione che i russi stiano giocando come il gatto col topo.
— Siamo già in trappola in ogni caso, non ve ne accorgete?
— interloquì Brogli che aveva seguito la conversazione. Era pessimista senza ironie e sconforti,
poneva in evidenza gli aspetti più scuri della situazione valutandoli con obiettività; camminava
alacremente senza dare alcun segno di scoramento.
— Supponete pure — continuò a dire con calma — che si riesca a evitare ogni contatto con i russi o
che si possa superare tutti gli sbarramenti che quelli indubbiamente predisporranno sul nostro
cammino. Ammettiamo che tra qualche giorno noi si riesca a trovarci dinanzi alle nuove prime linee
italiane o tedesche: ma fra quelle e noi chi troveremo? Le nuove prime linee russe, amici!
E chi di noi riuscirà a passarle, quasi privi di munizioni e carichi di feriti e congelati come siamo, e
con una fame da non stare in piedi? O credete che i russi, che vigilano i nostri passi sul territorio
controllato da loro, e sul quale trasportano comodamente truppe e cannoni sugli autocarri lungo le
piste, alla fine saranno ad attenderci innanzi alle linee nostre per renderci gli onori delle armi e farci
passare? Sperate forse tutto ciò, voi?
Il ragionamento, purtroppo, non faceva una grinza.
— Giusto — rispose Serri; — ma noi non possiamo arrenderci a supposizioni, soltanto perché sono
verosimili; dobbiamo affrontare la realtà così come si manifesta di episodio in episodio, non
lasciando intentato nulla fino all'ultimo.
— È così, Brogli — confermò Reitani; — un individuo isolato potrebbe anche arrendersi e darsi
vinto, ma noi abbiamo un impegno collettivo e un ordine che vale per tutti: proseguiremo fino
all'esaurimento delle ultime forze; è già deciso che la colonna non si fermerà fino a che non avrà
raggiunto i nostri avamposti.
— O la morte — insinuò Brogli.
— O la morte — confermò pianamente Reitani; — solo in questi due casi avremo fatto il nostro
dovere fino in fondo.
Calava la sera, le corde che legavano i muli alle slitte divenivano rigide sbarre ghiacciate. Quando
la superficie della pianura ondulava nel saliscendi di basse colline, l'occhio dei soldati vedeva
l'enorme colonna nereggiare e perdersi agli estremi nel fosco della notte incipiente. Ora che le tre
divisioni alpine, la divisione di fanteria, i reparti tedeschi, ungheresi e romeni s'erano fusi in
un'unica colonna, circa centomila uomini si affaticavano in un corteo lungo forse trenta chilometri,
enorme complesso di forze umane già in vario modo minate dalla fame, dal gelo, dai combattimenti,
dalla stanchezza. Ogni reparto trascinava seco i feriti, i congelati, le armi, i mezzi rimasti; c'era chi
aveva cannoni, scarse munizioni e niente cibo; chi qualche autocarro, un fusto di benzina semivuoto
e scarso pane; chi un fucile, una manciata di pallottole per ogni uomo e nulla più; chi soltanto fame,
feriti sulle slitte scricchiolanti e una stanchezza mortale nelle gambe, nel petto, negli occhi. Tutti
procedevano nella neve, andavano stancamente verso l'ovest rimuovendo la neve smossa da chi
precedeva, riaffondando se colui che stava innanzi era già affondato, imprecando se quello aveva
già imprecato. Camminavano uno dietro l'altro, attenti solo a non dar di cozzo contro gli animali o
finire con una caviglia sotto una slitta attardata che sopraggiungeva più veloce per ricollegarsi,
prima di notte, al suo reparto.
L'enorme colonna procedeva instancabile; abbandonava i rifiuti sulla neve: slitte sconquassate,
cannoni fuori uso, fucili rotti, automezzi ridotti all'ultimo litro di carburante, utile soltanto a fare un
falò della macchina; e allora gli uomini che sopraggiungevano tendevano le mani al rogo
continuando a camminare per non perdere un metro, un secondo sui compagni e trovarsi poi fra
sconosciuti e per una fiammata restare privi anche dell'ultimo, costante tepore dell'amicizia.
Ma sulla steppa calò la notte fonda, spaventosa di gelo e di tenebre; e gli uomini a poco a poco si
sentirono estranei a tutto fuorché alla sofferenza propria. Poiché tirava il vento che sollevava il
polverio di neve, si erano calati sulla testa e sulle spalle la coperta, procedevano guardando da uno
spiraglio da cui entrava una lama gelida; il vento gonfiava la coperta, la faceva sventolare nell'aria e
cadere nella neve. I marciatori la raccoglievano bianca, la riponevano a difesa del capo, delle spalle
che rabbrividivano come nude; ma la coperta s'era fatta pesante, s'induriva e ghiacciava, divenuta in
breve un rigido cartoccio crocchiante, spesso era lasciata cadere definitivamente sulla neve o veniva
posta su una slitta a dare col peso un senso di maggior calore ai feriti. I marciatori riprendevano il
cammino nell'indescrivibile aria dei quarantatré sotto zero, andavano silenziosi e straniti, ciascuno
rinchiuso nella sua teca di gelo, procedendo come un automa nel buio finché un ostacolo affiorante
sulla neve non lo faceva cadere avvolgendolo di ghiaccia polvere.
Faticosamente l'uomo si rialzava imprecando all'intoppo, si scrollava in fretta la neve dai panni e
dal volto, il pulviscolo gelido al contatto della pelle fondeva sui polsi e sul collo cerchiandoli di
freddo atroce; riprendeva affannosamente i passi perduti, poiché i compagni l'avevano sopravanzato
di ben trenta metri verso l'ovest.
Prima di mezzanotte sorse la luna, occhieggiando indifferente tra le nubi; il freddo parve accrescersi
perché il vento spirava con maggiore veemenza.
— Le redini non mi stanno più in mano, Cristo! — esclamò con rabbia Scudrèra non sentendo più
la presa e vedendo che i muli della sua slitta sbandavano.
— Da' a me, facciamo un po' il cambio — propose Sorgato tendendo la mano.
— No! — disse Scudrèra deciso: — el conducente de i miei muli son mi! El cambio mi lo dò
soltanto al Padre Eterno! — E dato uno strattone ai muli s'arrotolò le briglie attorno al collo, strinse
fra i denti l'estremità del cuoio e affondò le mani insensibili sotto le ascelle, continuando a marciare
accanto ai muli.
— Come va, Scudrèra? — chiese Serri.
— Se tira avanti, signor dottore.
— Quanti feriti hai sulla slitta?
— Dodici, se no i xe morti; ma vivi o morti, da la sacca me li porto fora mi.
Non digo ben?
— Certo. Ma domattina voglio vedere le tue mani, ricordati.
— Signorsì. No le xe bèle, ma le xe dure; da artigliere alpino, parola del conducente Scudrèra.
La conversazione finì perché era doloroso muovere le guance e le labbra per parlare. L'intera
colonna procedeva in silenzio, fantastica parata d'ombre sotto la luna. La stanchezza aveva fatto
rallentare il passo, qua e là si distinguevano nelle file scomposte uomini barcollare a lungo, lottando
contro un assalto d'improvviso sfinimento; ciondolavano, era visibile lo sforzo di portare innanzi la
gamba, il corpo non seguiva il movimento intrapreso dell'arto, l'uomo pareva cadere ma si
riprendeva all'ultimo istante, proseguiva a prezzo d'inaudita fatica.
Una tetra frigidità era penetrata a poco a poco negli animi, unita a una sonnolenza, a un
disfacimento della sensibilità psichica che rendeva impassibili a quanto avveniva intorno e non
toccava da vicino. Se però un compagno intralciava il passo, un'ira improvvisa ribolliva nello
spirito, un insopprimibile odio contro il proprio simile trovava sfogo nella repentina voglia di
colpire, farsi strada e passare innanzi. Dalle intime fibre dell'organismo straziato dalla fame, dalla
stanchezza ed esasperato dal gelo, sconosciute animalesche tendenze s'estendevano ad avviluppare
l'anima, esaltavano sepolti istinti bestiali mugolanti nel profondo. Per la potenza corroditrice del
gelo, bagliori mai visti attraversavano ad un tempo gli occhi e il cervello lasciando scie di visioni, di
pensieri malefici; i nervi di ognuno, dilaniati e sprizzanti anormali correnti nervose, parevano irretiti
in guaine paralizzatrici; le stesse facoltà dello spirito risultavano incapsulate in una torbida sfera
d'egoismo in cui s'accentrava a ultimo presidio ogni residuo di difesa, escludendo ferocemente ogni
solidarietà in altri tempi prodigata ed offerta, com'era buona usanza fra gli uomini; perfino la
sofferenza dei compagni, l'evidente tenace patire di quegli esseri brancolanti si tramutava
brutalmente in un freddo dato di fatto cui comparare le proprie forze, per trarre confronti e più
radicate speranze di sopravvivenza.
L'atmosfera aveva la trasparenza, la compattezza e la tagliente levigatura del vetro; gli uomini
procedevano in essa offrendo le membra al ferimento continuo e senza sangue, s'esasperavano
contro la feritrice invisibile, s'imbestialivano di patimento accanendosi nella volontà di giungere
ancora una volta al giorno nuovo.
Sulla neve di Russia la colonna avanzava ininterrottamente puntando all'ovest, dolorando per
centomila membra ma instancabile, infrenabile nell'intero corpo in movimento; abbandonava sulla
neve i relitti procedendo senza tregua, ed erano ormai corpi vivi che si reclinavano sulla neve, corpi
d'uomini che s'abbattevano di schianto o poggiavano il ginocchio incapaci a sollevarlo e si
chinavano quindi in giù, sempre più in giù, con le braccia che affondavano fino al polso, poi fino al
gomito, tirate giù, giù dal demone della neve; l'uomo in ginocchio s'afflosciava lentamente, vinto
dal richiamo irresistibile, tentato dal sogno di riposo, un minuto solo per poi riprendere con forze
nuove, un minuto così, prono sulla neve morbida, giù anche col ventre, poi col torace, la neve è
morbida come un materasso e non è neppure fredda; si può appoggiarvi perfino la guancia e la
fronte senza danno, pare un cuscino, per un minuto solo ci si può stare... i compagni poi si possono
raggiungere in fretta, dopo il riposo... questo buon riposo... sulla neve... la neve... un cuscino... non
c'è freddo... né fame... né stanchezza... solo sonno... un po'... di sonno... sulla... neve...
— Cominciano i morti sulla neve, signor dottore...! — disse l'infermiere Zoffoli rintracciando il suo
ufficiale fra le ombre in cammino.
— Hanno cominciato da un pezzo, purtroppo — mormorò Serri; — adesso si vedono perché c'è la
luna, ma già prima che spuntasse sono caduto su un morto di freddo.
— Cosa facciamo? — chiese il bravo infermiere.
— Cosa pensi di fare?
— Non so... Lasciarli così mi sembra... Sulle slitte, forse...
— E come fare, stracariche di feriti come sono? Mettere sulla neve quelli?
— Oh no!
— E allora? Portarli a spalla noi?
— Non faremmo cinquanta metri.
— E allora?
— Già... — disse Zoffoli guardando con smarrimento l'ufficiale — non c'è niente da fare. Ma
lasciarli così mi sembra una cosa...
— Lo è, Zoffoli, lo è — confermò il medico sentendosi montare dall'anima un'onda di orrore. — È
tutto un orrore.
Una voce cantava, cinquanta metri innanzi, il vento portava i toni squillanti e quasi allegri; il canto
s'avvicinava gradualmente inserendosi fra le folate sibilanti, finché a fianco della tredici in
cammino gli uomini videro anche il cantore; era un soldato che procedeva con comoda lentezza,
incurante di mantenere il passo degli altri, cantava a voce spiegata, accompagnando il ritmo con una
mano, con l'altra stringeva la giubba e la camicia strascinandole nella neve; aveva una gran barba
nera, e il torace ricoperto dalla sola maglia; gettò in aria la giubba e calpestò allegramente la
camicia come fosse un bimbo che gioca.
— È impazzito — disse Serri a Zoffoli — cerchiamo di ricoprirlo.
S'avvicinarono; appena il soldato li ebbe dinanzi smise di cantare. Zoffoli tese un braccio dicendo
qualche parola, l'altro indietreggiò, trasse in un baleno la baionetta dal fodero, si diede a vibrare
all'impazzata colpi nell'aria, si mise improvvisamente a correre a lato allontanandosi dalla colonna.
Si disperse in distanza. Si sentiva soltanto che aveva ripreso a cantare, felice.
— Ma dove va?... — sospirò Zoffoli.
Il vento aumentò d'intensità, gli uomini si curvavano in avanti tentando di farsi più piccoli, con
maggiore frequenza dovevano porre attenzione per non calpestare i compagni stesi sul bianco. Le
folate investivano la colonna sollevando turbini di neve che ricoprivano i morenti e i marciatori, i
muli sbuffavano rallentando il passo e si inquietavano costretti nel loro mantello di ghiaccio.
Seguendo Reitani, la tredici procedeva a fatica, gli artiglieri camminavano fra slitta e slitta sfiniti.
— Non ne posso più! — urlò disperato l'attendente di Brogli, abbassandosi tentando di slacciarsi le
scarpe; — non ho più i piedi! — E come i lacci e il cuoio delle calzature erano irrigiditi, legnosi,
trasse di tasca l'affilato coltello e con strappi frenetici tagliò il cuoio e si ferì malamente; senza darsi
cura del dolore e del sangue gettò lontano le scarpe e riprese scalzato a marciare.
Sulla colonna, assieme al vento alitavano fermenti di follia che nuovi lugubri episodi attizzavano e
gonfiavano a dismisura. In breve il contagio d'incontenibili frenesie dilagò fra le schiere,
trasmettendo suggestioni e avvampanti richiami da uomo a uomo, man mano che lo smisurato
freddo prendeva dominio nella carne e nella mente di quelle infelici creature.
Follia, pura, irreale, scatenata follia erano diventate le voci, la neve, il pianto, la steppa, il vento, il
passo, la notte, il dolore, il cielo, la colonna, il minuto, tutta quella abominevole terrificante vita che
vacillava e minacciava di spegnersi, tra un inesplicabile scintillio di faville ricadenti sulla groppa
dei muli.
Tutto stava divenendo possibile, purché fosse spaventoso e graffiasse, straziasse il cervello.
— Aiutooo! — gridava da una slitta la voce di un ferito rinserrato nelle coperte.
— Cosa c'è? — chiedeva stirando le labbra piagate il conducente Pilòn, curvandosi sulla slitta che
trascinava l'ammasso di una decina di feriti.
— Aiuto! Ho addosso un morto!
— Cosa dici? — balbettava Pilòn trasalendo, già preso nel gioco di un'orrida realtà.
— Fermate la slitta, slegate le coperte, ho addosso un morto!
— ripeteva l'agghiacciante, folle voce salendo dalla paglia.
— No, non slegate niente, non perdete tempo a fermarvi! — comandavano in coro altre terribili
voci filtrando dalle coperte.
— Ma io non resisto, è un morto! — singhiozzava da un nero impenetrabile abisso la prima
lamentosa voce.
— Non è vero! Non è vero! — ululavano bestialmente le altre.
— Come fai a dire che è morto? Chi è? — balbettava Pilòn dibattendosi nelle tenebre
dell'ossessione, intravvedendo ormai le pallide larve che lo irretivano trascinandolo nell'orrida
danza.
— Non so chi è, ma è già gelato, è duro! Mi sta addosso, sta congelando anche me!... — guaiva il
dannato, uggiolando come un cane imprigionato nella gelida tomba.
La colonna marciava compatta affondando fino al ginocchio nella bianca vastità del proprio
sepolcro.
Interi reparti, i più provati nei giorni precedenti, rallentavano il passo e venivano scavalcati da altri;
la colonna si rimescolava, si ricomponeva ininterrottamente nella notte in un brulichio di bestie ed
uomini procedenti a tentoni; ombre zoppicanti non riuscivano più a raggiungere la propria schiera e
s'inserivano fra altre ombre incappucciate e sconosciute presso le quali camminavano per un lungo
tratto in silenzio, rimanendo poi indietro a poco a poco, sbandandosi definitivamente. Un infinito
patire respirava per le bocche dei soldati, reclinava i corpi sulla neve, attardava i più infelici
disperdendoli nella massa dal volto chiuso; ma la colonna ignorava ogni tormento, procedeva
implacabile e compatta buttando a margine le scorie, trascinando senza pietà ogni pena e ogni uomo
verso il tragico e sconosciuto e allucinante traguardo dell'ovest.
— Signor capitano...
— Chi sei? — disse all'ombra che gli si era fatta vicina Reitani, puntando gli occhi dall'apertura del
passamontagna incrostato di ghiaccio.
— Sono Bartolan. Volevo dirvi che gli uomini non resistono più. Li conosco, camminano ancora,
non dicono niente, ma presto non cammineranno più.
— Lo so, Bartolan — rispose Reitani sprofondando con le gambe nella neve alta — ma non ci resta
altro da fare. Tu sei un bravo soldato, mi capisci.
— Si — disse il capo-pezzo a fior di labbro.
Sollevando turbini di neve, facendoli volteggiare sulla colonna, il vento rendeva quasi nulla la
visuale e isolava i camminatori nella vastità, lasciandoli soli con il gelo e la stanchezza.
L'impressione di essere dispersi nel vuoto era paralizzante, pareva mozzare le gambe e il respiro.
— Se non possiamo fermarci a riposare siamo finiti — disse Bartolan.
— Sì — rispose il capitano.
Alle tre di notte alte lingue di fuoco apparvero agli occhi dei soldati in marcia; non si capiva se
erano lontane o prossime, s'innalzavano dalla pianura arrossando per larga sfera le tenebre.
Un fremito di risveglio passò nell'animo degli uomini della tredici quando s'avvidero, mezz'ora
dopo, di essere ormai vicini ad un paese; molte isbe bruciavano; i reparti che precedevano si erano
fermati, la tredici per conseguenza s'arrestò.
— Cosa succede? — chiedevano le voci dei feriti sepolti nell'involucro delle coperte.
— Alt! Il Gruppo Conegliano sosterà qui — comunicò a Reitani il colonnello Verdetti; — attendere
che vengano assegnate le isbe a ciascuna batteria.
— Le isbe... isbe... — mormoravano gli artiglieri trasognati, increduli che un secco ordine giunto
all'improvviso avesse il potere di sciogliere, da solo, la caligine dell'interminabile incubo.
— Le isbe! — gridavano i feriti scuotendo le coperte; fateci uscire di qui, presto... presto...!
L'attesa fu lunga, poiché i reparti s'accavallavano all'ingresso del paese ed era difficile smistarli e
assegnare il settore di sosta.
— Il Comando della colonna ha giudicato insostenibile prolungare ancora la marcia — comunicò
Reitani agli ufficiali; — ha deciso di avvicinarsi ai paesi e fare sosta. La colonna è stata frazionata
ed ha puntato su paesi diversi, alla nostra frazione è stato assegnato questo, si chiama Novo
Georgiewka. È disabitato, il presidio russo al nostro arrivo si è allontanato dando fuoco all'abitato,
vogliono toglierci ogni possibilità di sopravvivere, ma qualche isba non brucia, la utilizzeremo.
Si udì un rumore di catene scosse e un tonfo, gli ufficiali si voltarono. Un mulo attaccato a una slitta
era caduto sulla neve. Senza che si udisse una parola, al riverbero delle capanne fiammeggianti si
videro vari soldati agitarsi, trarre fulminei le baionette e piombare sul mulo disteso.
— Fermi! Fermi! — gridò Brogli accorrendo; — può essere ancora vivo!
Ma già gli uomini stavano vibrando colpi feroci, strappavano a brani le carni fumanti, a mala pena
facevano in tempo a ghermire un ritaglio di preda e già erano sospinti via a furia da altri che
tagliavano più fondo, frugavano con le larne giungendo all'osso.
— No, signor tenente — disse a Brogli con occhi lucidi il puntatore Foresti levandosi dalla carcassa
e addentando il pezzo di carne che reggeva fra le mani; — il mulo è morto di sicuro.
Dopo pochi minuti il bianco delle ossa luccicava sul bianco sporco della neve; allora Scudrèra
lasciò la sua slitta, s'avvicinò ai resti e nonostante le mani enfiate e i guanti, con pochi esperti colpi
di coltello disarticolò una zampa, se la gettò in equilibrio sulle spalle e ritornò alla slitta.
— Non si sa mai... — disse col suo gioviale sorriso passando accanto agli ufficiali.
La tredici entrò nel paese e raggiunse la piazza passando fra due ali di capanne in fiamme. Una
confusione indicibile complicava ogni movimento, perché il tratto di colonna in sosta a Novo
Georgiewka comprendeva elementi dei reparti più eterogenei. Gli uomini della tredici riuscirono ad
accaparrarsi due isbe quasi intatte, nelle quali vennero collocati i feriti e i congelati ai quali Serri
prodigò le'scarse cure possibili.
— E noi? — chiedevano delusi gli altri uomini.
— Noi dovremo arrangiarci come potremo, intorno ai fuochi o nelle stalle — disse Reitani; — sono
le quattro, riposeremo fino alle undici.
I fortunati possessori di pezzi di mulo cominciarono ad abbrustolire la carne sulle fiamme, gli altri
s'allontanavano non potendo resistere al ghiotto spettacolo, succhiavano la neve e si sdraiavano a
dormire sotto le tettoie più vicine alle isbe in fiamme. In un'isba l'infermiere Zoffoli scovò un
grande calderone, trionfante lo portò agli ufficiali.
— Bene! — esclamò Reitani; — Bartolan e cinque uomini corrano a prendere le ossa del mulo
morto, fonderemo la neve e faremo il brodo per la batteria.
Bartolan ritornò con un telo rigonfio.
— Le ossa sono scomparse — comunicò con evidente dolore: — sulla neve è rimasta soltanto la
macchia di sangue.
— E cos'hai nel fagotto? — domandò deluso il sottotenente Per rieri.
— La neve insanguinata, tenente — rispose con assoluta serietà Bartolan; — c'è dentro il sangue
gelato, faremo il brodo con quello, sarà meglio che niente, no?
— Certo — confermò Ferrieri con foga, dando la misura di quella fame che li divorava dentro.
— Scudrèra, dov'è la tua zampa di mulo? — domandò allora Brogli.
— L'ho buttata via — rispose con viso contrito il conducente.
— Animale! — gridò Ferrieri fra la delusione di tutti. Scudrèra se ne andò, ma dopo vari minuti
ricomparve reggendo la zampa.
— Lo dicevo che non si sa mai... — disse agli ufficiali con occhi raggianti.
— Bugiardo! Brigante! Ti sfondo il cranio! — gridò Ferrieri quasi abbracciandolo; — qua la zampa,
la mettiamo subito in pentola. Perché hai aspettato tanto a portarla?
— Ho dovuto levare il ferro dallo zoccolo. — Cosa te ne fai?
— Non si sa mai, signor tenente, lo go dito anca prima... esclamò Scudrèra ammiccando con aria
scaltra.
— Fate bollire l'osso per tutta la notte, domattina berremo il brodo caldo. Ora andiamo a dormire —
disse Reitani.
— Ho scovato un posto per dormire un po' al riparo — comunicò Per bellini.
— Dov'è? — chiese Reitani.
— Là, dietro a quell'isba. È uno stanzino con le pareti di canne intrecciate, in terra non c'è neve, ma
avverto che è un porcile.
— Sarà lurido, per terra — obiettò Brogli.
— Tutto è gelato, non si stacca niente, ho provato — assicurò Per bellini.
— Cosa dice la scienza medica? — domandò celiando Reitani, fissando solennemente Serri.
— Tutto sterilizzato: idoneo senz'altro! — sentenziò il medico.
— Signori! Con me! — invitò il capitano.

5.
Le ultime ore della notte passarono, le alte lingue di fiamma degli incendi sbiadirono nell'alba,
venne la mattina del ventidue gennaio.
Alle nove gli uomini della tredici bevvero con grande avidità il rossastro e ripugnante intruglio
caldo, s'affaccendarono a riparare le slitte mal ridotte, a rinnovare le distribuzioni di paglia e neve
fusa ai muli.
— Sono le dieci, fra un'ora si parte — annunciò Reitani; — cominciamo a caricare i feriti sulle
slitte.
Ai fuochi, i soldati tentavano di sgelare il ghiaccio impregnato nei cappotti; altri tagliavano a pezzi
le scarpe che avendo assunto la rigidità del legno avviluppavano i piedi in una morsa insopportabile
e le sostituivano con ritagli di coperte fissate con filacci.
Scudrèra, che già da due giorni aveva i piedi avvolti in residui di telo da tenda, sfoggiava al piede
destro uno strano rinforzo, e a chi lo derideva, rispondeva con tono di sufficienza: — Impara dai
muli, e tasi. Io li guardo tutto il giorno: piantano il ferro nella neve e non scivolano, il ferro del
mulo ha due punte all'ingiù, cretino, e fanno presa. Voi invece, con quegli stracci, tornate indietro di
trenta centimetri a ogni passo, insulsi che non si' altro.
Infastidito e incompreso, se ne andava poi con incedere pesante, pestando a dispetto il piede destro
nella neve: sotto il calcagno, durante la notte, s'era fatto sistemare da Pilòn, con filo metallico e
spaghi racimolati in un'isba, il ferro strappato dalla zampa del mulo morto.
I più fra i soldati, approfittando della sosta, giravano per il paese a incontrare amici che non
vedevano da settimane. Gli agglomerati d'isbe si dipartivano in file irregolari dalla piazza centrale
del paese a guisa di raggi di una immensa ruota frantumata e senza cerchio abbandonata sulla neve.
— I feriti e i congelati sono a posto sulle slitte — comunicò Serri al capitano; — è una cosa
tremenda, Ugo, sono schiacciati uno sotto l'altro perché ho dovuto ridistribuire i feriti che stavano
nella slitta del mulo morto questa notte. Ho aggiunto altri quattro congelati che diversamente
dovremmo abbandonare qui, non sono in grado di compiere neppure un passo; abbiamo ancora una
ventina di congelati che verranno a piedi, non so come potranno fare a camminare. Quello che sto
vedendo è incredibile, mi costringe a modificare la mia opinione sui limiti della capacità di
resistenza umana.
— Siamo sottoposti a uno sforzo mostruoso — disse Reitani; — anche questa notte il freddo ci ha
impedito di dormire, non mangiamo da cinque giorni, marciamo da sei, per non contare il
combattimento. Come stanno i feriti? Ho paura che qualcuno mi muoia.
— È un'altra cosa incredibile, Ugo: hanno le ferite aperte, alcuni hanno dei veri squarci che io non
posso curare in nessun modo, eppure quasi nessuno presenta segni d'infezione, le emorragie sono
rare e lievi. Penso che siano i trenta e i quaranta sotto zero a preservarli. Vivono succhiando
ghiaccio, soltanto stanotte ho potuto far distribuire un po' d'acqua calda.
— E i congelati?
— Si difendono come possono, ma le alterazioni dei tessuti si approfondiscono, c'è qualcuno che ha
le ossa delle mani e dei piedi scoperte, o le dita che cadono a pezzi. Se riusciranno ad arrivare a un
ospedale, molti dovranno subire gravi amputazioni. A proposito, dovresti ordinare a Scudrèra di
cedere la guida della sua slitta a qualche altro: tiene in mano le redini giorno e notte e non accetta il
cambio da nessuno, dice che il conducente è lui e che i feriti che ha sulla slitta deve portarseli in
salvo da solo; ma poco fa l'ho visitato, se non mette le mani al riparo temo che finirà per farsele
tagliare tutte e due, sono già gravemente congelate. Ma bisogna che tu glielo doman...
— Taci! — l'interruppe Reitani tendendo l'orecchio; — non senti rumori di motori?
Nel medesimo istante una violenta esplosione echeggiò nel paese, coronata da un improvviso
strepitio di fucili mitragliatori; a cento metri un'isba esplose assieme al proietto che l'aveva centrata.
Ondate d'urli giunsero dalla parte opposta del paese, da cui si riversavano correndo verso la piazza
torme di soldati colti di sorpresa.
— I russi! I carri armati! — gridavano affannandosi verso i propri reparti.
In un baleno l'abitato brulicò di soldati che s'affrettavano rimescolandosi in ogni direzionementre le
esplosioni si moltiplicavano e il fuoco di fucileria si infittiva.
— Provvedi alle slitte — disse in gran fretta il capitano a Serri; — io corro in piazza, al pezzo.
— C'è già Brogli, ha spinto più avanti il pezzo, sta per sparare — comunicò ansante Perbellini
sopraggiungendo di corsa. — I russi hanno attaccato con carri armati e autoblinde dalla pista da cui
siamo arrivati questa notte, hanno scaricato da molti autocarri le fanterie che già sparano, una
colonna di altri autocarri è in arrivo. Il colonnello Verdetti ordina di far partire immediatamente le
slitte dalla pista ovest e di far defluire e sganciare gli uomini.
— Slitte in marcia, via subito! — gridò Reitani. — Gli uomini validi con me!
— Presto! Presto! — urlò Ferrieri piombando alla tredici; — i russi hanno già occupato il settore
nord del paese, hanno fatto prigionieri i reparti che si trovavano là, è rimasto accerchiato anche il
Comando dell'ottavo alpini con il colonnello Cimolino e il capitano Magnani! I russi tentano di
circondare l'abitato, tra poco bloccheranno l'uscita verso ovest, resteremmo tutti qui dentro; presto!
Serri già instradava le ultime slitte della batteria verso la pista, sforzandosi di ottenere via libera fra
la ressa di slitte ancora sotto carico e fra gli uomini dei vari reparti che s'aggrovigliavano correndo
in ogni senso. Reitani, con le due mitragliatrici e con gli artiglieri nel frattempo accorsi, si era
slanciato verso il settore occupato dai russi. Bombe di mortaio esplodevano, raffiche di fucile
mitragliatore seminavano il panico fra le torme di uomini.
Muli imbizzarriti dal fragore e dal trambusto trascinavano a corsa pazza i veicoli traballanti,
s'impennavano nel tentativo di strappare i finimenti e liberarsi dai carichi umani che si rovesciavano
sulla neve, le bestie allora si lanciavano di gran carriera al galoppo trascinando le slitte vuote,
travolgendo uomini e portando alla frenesia la sarabanda; su tutto sovrastavano gli schianti, gli urli,
i richiami e le fiamme che divampavano qua e là.
— Avanti, avanti! — gridò Serri ai conducenti essendo riuscito con indicibili sforzi a far superare i
continui intoppi e a raggiungere l'imboccatura della pista ovest; — incolonnatevi con le altre slitte
del Comando Gruppo, non fermatevi più!
La lunga colonna che aveva potuto uscire dal paese marciava già sulla pista ovest, alimentata di
continuo da quanti ancora trovavano l'imboccatura sfuggendo al caos che regnava nell'abitato.
Il medico si soffermò a contare le slitte della tredici che gli sfilarono dinanzi; s'accorse che ne
mancava una. Ritornò correndo nel paese in cui il parossismo della confusione andava scemando
poiché anche la maggior parte degli uomini sbandati si era allontanata. Vari soldati avevano
impegnato combattimento, sparavano verso la zona del paese controllata dai russi; altri giacevano
abbattuti sulla neve, qualche animale frenetico scorrazzava sulla piazza; su tutto saettavano le
traiettorie delle armi russe, dalla provenienza degli spari si capiva che il nemico aveva progredito
notevolmente conquistando una gran parte dell'abitato.
— Covre! — gridò Serri scorgendo l'attendente che gli correva incontro in preda a una grande
agitazione; — hai visto una nostra slitta rimasta indietro?
— Sì — rispose affannosamente il soldato; è ferma là, di fianco a quel pozzo.
— Andiamo, presto! — gli disse l'ufficiale correndo nella direzione indicata.
Come la raggiunse, vide che la slitta era vuota e abbandonata, il conducente e i due muli giacevano
morti sulla neve.
— Era l'ultima della fila, è arrivato un colpo di mortaio, ho visto io — disse l'attendente.
— Potevi dirmelo prima! — gridò l'ufficiale; — e i feriti?
— Si sono rifugiati in una di queste isbe, non mi ricordo quale.
— Cerchiamoli — ordinò il medico; — tu di qua, io di là; ci ritroviamo qui fra poco.
I due uomini si separarono, Serri entrava e usciva di corsa dalle isbe deserte, un'angoscia disperata
gli premeva il petto. Si trovò oltre la piazza. vide Brogli e Perbellini che con alcuni uomini si
affaccendavano attorno al pezzo.
— Italo! — gli gridò Brogli; — cosa fai ancora qui, disgraziato?
— Cerco dei feriti nostri — rispose il medico; — dov'è Reitani?
— Non sappiamo — gridò concitatamente Brogli; — era con gli uomini a sparare con le
mitragliatrici, ma adesso o ha già ripiegato o è prigioniero, dove c'era lui ci sono i russi. Noi
abbiamo finito le granate, stiamo facendo saltare il pezzo, ripieghiamo immediatamente.
— Fate in fretta! — gridò il medico allontanandosi verso un' ìsba.
— Non andare da quella parte! Non c'è un minuto di tempo! — gli gridò Per bellini.
Il medico perlustrò affannosamente alcune isbe; disperando di rintracciare i feriti si diresse poi
verso il punto convenuto con Covre. Le vie del paese erano ormai deserte; il nemico stava per avere
il totale sopravvento sugli ultimi uomini isolati rimasti imbottigliati.
— Non ho trovato nessuno! — gridò Covre a Serri che si avvicinava; — bisogna far presto, ho visto
quattro russi passare dietro quelle isbe.
I due uomini avevano percorso qualche metro, quando una sventagliata di fucile mitragliatore li
sfiorò; si appiattarono sulla neve, un mulo che a pochi passi da loro era stato colpito diede un
enorme balzo sollevando la slitta a cui era attaccato; veicolo e animale ripiombarono restando
immobili sul bianco.
Serri e Covre, sdraiati, videro due russi che in piedi dietro a un albero distante venti metri stavano
osservando le abitazioni sparandovi contro a brevi intervalli; l'ufficiale fece un cenno all'attendente,
entrambi con estrema cautela strisciarono sulla neve fino a sottrarsi alla vista dei due russi. Serri
notò che Covre era senza moschetto; egli aveva, da sempre, soltanto la rivoltella.
— Via di qua, vieni! — sussurrò Serri.
Con rapidi balzi da casa a casa si avvicinarono all'imboccatura della pista ovest, riuscendo ad
eludere l'attenzione di qualche russo che si affacciava guardingo tra le isbe innaffiando le strade e i
muri con raffiche di fucile mitragliatore sparate a casaccio.
Quando i due alpini riuscirono a sbucare dietro l'ultima isba del paese all'inizio della pista, Serri
fece un improvviso passo indietro trattenendo l'attendente: a dieci metri un immobile carro armato
stava sparando a ritmo celere col pezzo di bordo contro la colonna ormai lontana circa un
chilometro.
— Tre russi vengono da questa parte, signor tenente! — avvertì convulsamente Covre che inorridito
alla vista del carro aveva subito guardato verso l'interno del paese anelando a una qualche via di
scampo.
Sulla sinistra Serri scorse il margine di una piccola balka in cui avrebbero potuto trovare riparo, ma
questa iniziava venti metri al di là del carro armato.
Nel cervello gli attimi trascorrenti bruciavano come una serie di aghi infuocati.
— Altri cinque russi! Vengono tutti da questa parte, siamo in trappola! — disse Covre mordendosi
le labbra.
— Vieni — decise Serri indicando la balka — passiamo là.
— No, signor tenente — mormorò in fretta Covre dilatando gli occhi; — c'è il carro armato... Ci
ammazza... Bisognerebbe passargli davanti... — Lo sguardo gli si smarriva.
— Per forza! Vieni!
Con uno strattone, Serri indusse l'artigliere a seguirlo oltre l'angolo dell'isba, lo prese per mano e i
due avanzarono verso il carro armato. Quando gli furono dinanzi sfiorarono i cingoli minacciosi,
videro le canne di mitragliatrice spuntare dall'acciaio, trattennero il respiro attendendo e sentendosi
quasi in corpo la raffica fatale, con una corsa precipitosa e un salto si trovarono affondati nella neve
del fondo della balka; si guardarono negli occhi.
— Hai visto? — disse Serri. — Adesso sbrighiamoci a camminare.
La balka sfociava dopo una cinquantina di metri in un'altra più ampia, nel cui fondo la neve portava
evidenti tracce del recente passaggio di molti uomini. I due avanzarono riuscendo ad allontanarsi di
mezzo chilometro dal paese, risalirono poi sulla pianura per non perdere di vista la colonna e
proseguirono lungo il bordo della balka. Sulla pianura erano disseminati molti uomini isolati che si
dirigevano verso la colonna mentre i carri armati e i mortai da Novo Georgiewka tiravano qua e là
sollevando sulla distesa improvvise fontane di neve.
Dopo una mezz'ora di solitario affannoso cammino i due uomini si consideravano salvi
dall'immediato pericolo; non rimaneva che raggiungere la colonna prima che annottasse. Serri
incitava Covre che camminava faticosamente a cinquanta metri dietro al medico.
Ad un tratto l'ufficiale notò che l'attendente, fermo sul ciglio della balka, parlava con qualcuno che
stava nel fondo della spaccatura molto profonda e scoscesa.
— Chi c'è? — chiese Serri.
— Il tenente Brogli, il sottotenente Perbellini e il comandante della quattordici — rispose Covre.
— Li vedi?
— Sì, da qui si vedono.
— Sono feriti?
— No, hanno detto che stanno bene; camminano, vengono avanti anche loro.
— Cosa dicono?
— Dicono che siamo sulla strada giusta e che la balka porta sulla pista della nostra colonna; ci
consigliano però di scendere nella balka perché sulla pianura possiamo essere colpiti dal tiro dei
carri armati e dei mortai.
Il tiro era ormai diradato e stanco.
— Di' che noi continuiamo a camminare sul ciglio perché a scendere ci riempiremmo ancora di
neve: ci gelerebbe addosso, perché c'è vento. Anzi, andremo sulla pista.
— Hanno sentito, hanno detto di fare come preferiamo, ma di stare attenti — disse Covre
riprendendo il cammino.
Dopo un'ora di marcia affannosa, quando già s'accennava l'imbrunire, giunsero a un punto in cui la
pista si biforcava: a qualche chilometro oltre il bivio, sulle due piste si distinguevano le code di due
colonne che divergendo sempre più si prolungavano nel bianco a perdita d'occhio.
— E adesso? Da che parte sarà la tredici. — si chiese Serri. La decisione da prendere comportava
conseguenze decisive.
— Signore... — pensò. E a Covre: — Allora? Andiamo a destra? — disse a caso.
— Par mi va ben, siòr tenente.
Proseguirono sulla pista di destra. Non sapevano che i diecimila uomini che ancora per un'ora essi
videro sempre più allontanarsi e impicciolire sulla pista a sinistra, sarebbero stati per sempre
ingoiati dalla steppa.
Dopo una terza ora di sfibrante inseguimento Serri e l'attendente riuscirono a raggiungere la
colonna: la risalirono e con infinito sollievo si riunirono agli uomini e alle slitte del Gruppo
Conegliano.
— Italo! — gridò Reitani — temevo di non vederti più...!
— Anch'io, Ugo! Sono arrivati Perbellini e Brogli? — domandò Serri.
— No, sono in pena anche per loro. Li hai visti?
— No, ma sono passato vicino a loro già fuori di Novo Georgiewka, hanno parlato con Covre. Non
possono tardare ad arrivare.
Si scambiarono le notizie. L'assalto operato dai russi aveva colto di sorpresa le migliaia di uomini in
sosta a Novo Georgiewka; il nemico aveva subito conseguito un forte vantaggio iniziale, il tentativo
d'arginare la pressione russa per dar tempo alle slitte di defluire aveva raggiunto solo parzialmente
lo scopo, un ingente numero di uomini era rimasto rinserrato senza possibilità d'essere liberato con
un contrattacco, poiché gli scampati avevano esaurito le munizioni. Fra gli uomini del Gruppo era
salvo il colonnello Verdotti; al suo aiutante maggiore, tenente Massimo Rizzo, una pallottola aveva
trapassato un braccio dal gomito alla spalla; mancavano diversi ufficiali tra cui il comandante della
quattordici il tenente Ivo Emett; s'ignorava la sorte di moltissimi artiglieri. Alla tredici mancavano
più di trenta uomini fra i quali i tenenti Brogli, Perbellini e Candioli; l'ultimo pezzo fino a quel
giorno superstite era stato fatto saltare, una mitragliatrice era fuori uso; restavano undici slitte e
ventotto muli.
Le tenebre stavano annunciandosi, nessun altro artigliere aveva raggiunto la tredici, il capitano fece
contare nuovamente gli uomini.
— In quanti siamo alla tredici! — gli chiese Serri.
— Io, tu e Ferrieri fra gli ufficiali, più centododici uomini fra cui una cinquantina di feriti e
congelati che non si possono muovere dalle slitte.
Andiamo esaurendo le nostre forze, Italo. Abbiamo fatto saltare l'ultimo pezzo che ci rimaneva, ci
resta una sola mitragliatrice con ottanta colpi; in media gli uomini hanno si e no tre pallottole da
moschetto a testa.
— Siamo venuti in Russia in duecentotrenta... — disse Serri.
— Sì. E non è ancora finita — aggiunse il capitano.
Con la sera, il freddo intensificato andava nuovamente stendendo le sue invisibili trame, una
stanchezza atroce pesava sulle membra, l'accresciuto languore che prendeva i corpi invitava ad
arrestare il passo e lasciarsi cadere sulla neve.
Nelle slitte, sotto le coperte, i feriti si lamentavano penosamente.
— Penso a Brogli e a Perbellini — mormorò Serri; — la neve alta mi ha costretto a camminare
adagio, speravo di trovarli già qui.
— Forse si sono incolonnati con qualche altro reparto — disse Reitani. — Dietro di noi marciano
almeno trentamila uomini che nella notte scorsa hanno sostato in altri paesi. Speriamo.
La stanchezza e la varietà delle vicende avevano allentato le maglie della colonna, frazionando e
disseminando confusamente interi reggimenti i cui uomini vagavano sbandati intralciando il
cammino.
Era un sempre rinnovato rimescolarsi di sofferenze, di volti, di razze; italiani, tedeschi, ungheresi,
romeni, tutti incappucciati ed uguali nel loro dolore. Anche fra le slitte della tredici erano comparsi
sconosciuti smunti visi di soldati che camminavano in silenzio, cupi, disperati. La primitiva
compattezza dell'enorme colonna si era smembrata in tanti tronconi, quasi fosse la brulicante
carogna di una gigantesca biscia fatta a pezzi.
I russi cominciarono allora a gettarsi sullo sfacelo. Padroni delle piste circostanti e spostandosi
rapidamente sugli autocarri, s'appiattavano nelle posizioni più propizie, attendevano che un gruppo
di uomini in colonna fosse isolato da più larghi intervalli, piombavano fulminei sui camminatori
quasi inermi uccidendo o catturando prigionieri; quando l'impotente gruppo successivo
sopraggiungeva, trovava i cadaveri sulla neve e scorgeva i superstiti già lontani e intruppati dai russi
che li portavano via.
All'insostenibile cumulo di pene si aggiunse anche il sapere di poter essere in ogni momento
strappati a forza sotto gli occhi dei compagni impossibilitati a dare aiuto, e scomparire sospinti
verso un altro più misterioso destino.
— Senti? Cannone controcarro — disse Reitani a Serri quando le tenebre s'infittirono.
Passò una voce: — I russi hanno attaccato la colonna a tre chilometri avanti a noi.
Poco dopo una seconda voce si diffuse come un fremito: — Il generale Ricagno e lo Stato Maggiore
della Julia sono stati circondati in una balka: si sono difesi fino all'ultima cartuccia, ma sono caduti
prigionieri.
Era vero. Non significava nulla che la cosa sembrasse assurda: era vero; succedeva che fra
centomila soldati un pattuglione nemico poteva portarsi via un generale con l'intero suo Comando.
Non era più guerra, era ormai facile caccia contro sventurati che tuttavia non si arrendevano ancora.
Baluginava ai loro occhi una visione lontana, annebbiata ma presente ad ogni ora, fonte
d'appassionato dolore e speranza, ed era la patria e la casa.
— No, mi non me arrèndo, siòr tenente — diceva a Serri Scudrèra che marciava a fianco dei suoi
muli tenendo le briglie sempre rigirate ai polsi e al collo perché le mani ormai non gli servivano più.
— Mi non me posso fermar, a casa go i me veci che i me aspèta e i ga bisogno de mi.
— Ma perché non vuoi cedere le briglie? — diceva Serri. — Vuoi tornare a casa senza le mani?
— Questa la xe un'altra storia — affermava quetamente Scudrèra — la conosse' anca vu.
Era calata la notte fonda. Alcuni feriti gravi, appiedati, non erano più in grado di camminare e
stavano per afflosciarsi sulla neve.
— Fate saltare l'ultimo pezzo che è rimasto al Gruppo e collocate sulla slitta i feriti — decise il
colonnello Verdotti.
Il pezzo superstite era sprovvisto di munizioni, e quando saltò le tre batterie del Gruppo perdettero
l'ultimo cannone.
A mezzanotte, dopo quattro ore di penosissima marcia la colonna raggiunse il paese di
Ladomirowka, abbandonato ma non distrutto. Gli uomini si gettarono nelle isbe in preda a una
indescrivibile furia; incuranti di ogni altra cosa si buttavano sui pavimenti piombando all'istante
nella voragine del più profondo sonno. Venissero pure i carri armati, i partigiani, le truppe russe, il
demonio con tutto il suo inferno, quegli uomini ridotti allo stremo potevano soltanto dormire.
Ma, nel cuore della notte, molti si destavano sotto i morsi di una fame atroce; restavano a lungo con
gli occhi spalancati nel buio inseguendo disperati disegni; si alzavano poi da terra, brancolando e
calpestando gli inerti corpi dei compagni raggiungevano a tentoni la porta, uscivano nel gelo
famelici e attenti come belve in cerca di preda; s'aggiravano attorno all'isso, si portavano innanzi
alle stalle, ai porcili, cercavano le concimaie; si inginocchiavano nel bianco ansanti e disperati,
affondavano le mani rattrappite od enfiate nella neve, ne scomponevano la spessa coltre scavando
fino a giungere al concime; rimestavano come porci impazziti per stanare con occhi lucenti le
raggelate barbabietole e le rape che la ragazza contadina, giungendo indolente con la ricolma
carriola, ai tempi del caldo con pigra mossa aveva rovesciato marce sul letame.

6.
Dopo tre ore e mezzo di riposo, ancor prima dell'alba del ventitré gennaio gli uomini dai volti lividi
ripresero la marcia.
Già dal primo minuto del risveglio la fame latrava orribilmente. La colonna procedeva lungo la
pista, poiché all'inizio della marcia la sola fatica di camminare nella neve vergine avrebbe abbattuto
i camminatori digiuni.
Incontrando strada facendo qualche gruppo di isbe abbandonate, gli uomini si slanciavano a frugare
nelle cucine, nei cortiletti, negli orti per racimolare da un tavolo, da un cassetto, dal terreno delle aie
una scorza di patata, un rifiuto rancido, un qualsiasi ributtante avanzo che si potesse masticare e
ingoiare. Le spasmodiche ricerche ben raramente davano frutto, poiché altre migliaia di affamati
avevano preceduto frugando; ma, ad ogni isba incontrata, squadre di gente dal viso torvo e cinerino
si buttavano all'uscio spesso impegnando, sulla soglia, rapide silenziose accanite lotte per prevalere
e conquistare precedenza; e siccome non pareva disumano che gli uomini si giocassero la vita per
una scorza di patata, non era infrequente che dai panni sordidi e ghiacciati spuntasse all'improvviso,
barbarico, il luccichio dei coltelli. Man mano che la marcia li inoltrava nell'inverosimile, i
camminatori dovevano lottare sempre più aspramente contro primordiali feroci istinti. Più che mai
necessario era il mantenere contatto coi compagni fidati, e restare fra alpini.
Il sole languido si levò nel cielo. Il vedere l'immutabile bianco distendersi a perdita d'occhio,
sempre uguale nonostante l'affannoso procedere, dava ai soldati la sensazione d'essere naufragati in
uno sterminato mare di ghiaccio dal quale era illusorio pensare di uscire. La speranza non aleggiava
più sulle schiere, aveva raccolto l'ali e camminava anch'essa a piedi scalzi fra i soldati, scarmigliata
e ansante, scansando cadaveri stecchiti sulla neve.
Tra le disordinate file della colonna in marcia, la confusione si era accresciuta di giorno in giorno,
poiché la stanchezza e la fame avevano smembrato i reparti disseminando i singoli e disperdendoli
nella massa a tergo che li ingoiava, sfatta anch'essa ma sospinta dal flusso dell'inarrestabile corrente.
Molte decine di migliaia di uomini erano ormai disarmati poiché il peso del fucile era diventato
insostenibile e reso inutile dall'esaurimento delle munizioni; ormai anche il peso di un moschetto
era tale da fiaccare un uomo. Nella grande colonna tuttavia sopravvivevano ancora isole compatte
costituite dai reparti della Tridentina, che aveva potuto iniziare la ritirata in condizioni di efficienza,
e da esigui reparti d'artiglieria tedesca che usufruendo di qualche mezzo cingolato e di sufficienti
scorte di carburanti erano riusciti a vincere fino allora l'inesorabile blocco della neve.
Per il continuo prodigarsi del capitano Reitani, attorno alle undici slitte della tredici i superstiti
artiglieri si mantenevano ancora compatti; anche la maggior parte dei feriti e congelati costretti a
camminare a piedi riuscivano a non attardarsi lungo il cammino. Disarmati, stravolti, boccheggianti
i feriti e i congelati obbligati alla marcia costituivano le avanguardie della disperazione.
— Quanto dovremo camminare ancora? — chiedevano sospirando a Reitani e a Serri, trascinando
avanti la gonfia gamba dal polpaccio trapassato da una pallottola, zoppicando per la scheggia
approfondita nello spessore dei muscoli della coscia, saltellando miserevolmente sui piedi congelati
e rivestiti di cenci.
— Non sappiamo, nessuno lo sa; bisogna avere sempre coraggio, fino all'ultimo giorno; se
resisteremo riusciremo a portarci in salvo — rispondevano gli ufficiali.
— Ma quando verrà quel giorno? — era la richiesta angosciata; — quando siamo partiti dalla linea
sembrava che in ventiquattr'ore dovessimo essere fuori dalla sacca, invece questo è il settimo giorno
di marcia...
— Nessuno sa nulla, bisogna andare sempre verso ovest e avere il coraggio di non fermarci mai...
Le parole cadevano abbandonate sulla neve, come ogni altra cosa inutile.
— Abbiamo fame...! Fame...
Anche queste cadevano.
Tutta la vita s'era trasformata in dolore, unico dono di Dio pareva potesse essere, ormai, soltanto la
morte; eppure quei miserabili salutavano con gioia, a notte, il gelido luridume di qualche isba
abbruciacchiata, per stendere a terra la loro stanchezza e tentare di ricuperare un po' di forza,
riattizzare nei muscoli le faville d'una vita che si spegneva.
A niente potevano giovare tre ore di sonno sofferte nel gelo, per uomini che da una settimana
sopportavano quella vita. Eppure, prima dell'alba essi si ponevano nuovamente in marcia agganciati
al loro posto di tortura nelle file della colonna. Avevano occhi dalle ciglia strinate dal gelo, dalle
palpebre gonfie e crostose, lagrimosi e sanguigni come due piaghe gementi aperte nel viso; con
quelli videro la luce del ventitré gennaio diffondersi sulla steppa e svelare il bianco della nemica. Si
estendeva dominatrice seppellendo ogni punto di riferimento, sì che la steppa non era altro che
neve, un agghiacciante mare di neve. Lo spirito si annichiliva innanzi alla vastità, anelava invano a
cogliere un segno di vita; per mezze giornate gli sguardi scrutavano l'orizzonte con la speranza
d'intravvedere il tetto di un' isba.
Ecco infatti un paese, che all'ottava ora di marcia gli uomini della tredici raggiunsero e
sorpassarono senza fermarsi; unico indice che lo dicesse per l'innanzi abitato, erano i cadaveri di
partigiani russi che giacevano per le strade. Da quanto tempo? Era impossibile dirlo: come tutto
all'intorno, erano anch'essi pietrificati e conservati dal gelo. Certo, avendo attaccato di sorpresa un
segmento della colonna, erano incappati in un reparto ancora armato ed erano stati sopraffatti dal
disperato azzannare dei tormentati camminatori.
Al tramonto si levò il vento della steppa, poco dopo la colonna era avvolta nella bufera che piegava
gli uomini e tentava di stenderli nella neve. Questa turbinava intorno, la visibilità divenne nulla,
come ciechi i marciatori continuarono a camminare affondando fino al ginocchio, piangendo,
bestemmiando, con estrema fatica avanzando di trecento metri in mezz'ora. Come ad ogni notte,
ciascuno credeva di morire di sfinimento sulla neve, qualcuno veramente s'abbatteva e veniva
ingoiato dalla mostruosa nemica; ma la colonna proseguì nel nero cuore della notte, abbandonò ogni
precauzione e si portò su una pista, si gettò alla ricerca di paesi, di villaggi, di sperduti gruppi di
isbe per porsi a salvamento dal gelo.

7.
— Ventiquattro gennaio — brontolò il furiere Clerici quando il giorno spuntò sulla tredici che da
qualche ora si era rimessa in cammino. — Sarà molto se arriverò a sera — disse cupamente Sorgato
a mezzogiorno masticando una scorza di patata; — mi sento morire di fame.
— Questo è il nostro ultimo giorno — mormorò Covre a notte, quando il tratto di colonna nel quale
era incorporata la tredici s'arrestò sulla pista in uno stretto fondo valle, immobilizzata
dall'improvviso fuoco di batterie russe. La consapevolezza di avere una sola mitragliatrice quasi
priva di munizioni e i fucili senza pallottole, sconcertava gli artiglieri ancora armati, annullava la
speranza dei rimanenti. Il fuoco russo infittiva, bisognava prendere una decisione poiché il restare
fermi nel gelo costituiva di per sé un pericolo mortale. Alcune compagnie della Tridentina
passarono in testa, attaccarono sostenute da un pezzo controcarro tedesco che si trovava fra gli
italiani, anche la tredici fu chiamata avanti assieme agli sparsi uomini validi, l'attacco venne sferrato
decisivo e violento.
Un'ora dopo la colonna s'era aperta a prezzo di sangue il varco e riprese ad avanzare; sulla pista
giacevano cadaveri di soldati russi e cannoni rovesciati: dalla disperazione di quegli alpini sortivano
ancora sprazzi di energia non domata, impeti di volontà forsennata.
A notte fonda il gelo toccò punte estreme, si levò la tormenta di neve ad accerchiare gli uomini, a
ricoprire in pochi istanti i cadaveri di chi si abbatteva; la morte da freddo abbracciava i soldati, ad
uno ad uno.
Ad un tratto una voce corse a ritroso: era prossimo un paese. Isolati o a frotte, uomini sbandati
affrettarono il passo, reparti tentarono di aprirsi il varco nella ressa per portarsi innanzi, conducenti
aizzavano a gran voce i muli e gridavano per ottenere precedenza alle slitte dei feriti. Richiami, urli
di tedeschi e magiari si levavano nell'oscurità, colonne di slitte si intersecavano e si scontravano nel
tentativo di tagliarsi la strada a vicenda per precedersi; ogni uomo ansimava e si sforzava di
spremere ai muscoli le ultime forze per correre avanti, per raggiungere al più presto il paese, attratto
dal miraggio di un'isba che avrebbe salvato, in quella notte, dalla morte per freddo. Ogni ombra che
si affannava nel buio rappresentava un concorrente, forse colui che riuscendo a precedere avrebbe
rubato la possibilità di entrare in un'isba già colma, un odioso antagonista, un feroce negatore di un
diritto umano, una belva quindi, un assassino da eliminare senza rimorso; qualcuno nell'oscurità
cominciò ad allungare la mano — nel folto della colonna sulla spalla dell'uomo che lo precedeva,
spingendo indietro l'avversario e facendosi avanti; qualche altro, ostacolato nella ressa dal troppo
lento incedere d'un ferito o d'un congelato, diede una spinta, vibrò a pugno chiuso un colpo su una
testa già stordita, sormontò con un piede il caduto e passò oltre, mentre nella tumultuante calca già
altri dieci, altri venti inconsapevoli calpestavano il rilievo grigioverde che urlando sprofondava man
mano nella neve, finché taceva. I tedeschi con grandi e salde slitte trainate da robusti cavalli
minacciavano di prevalere nella gara, i conducenti italiani perciò sollecitavano i muli, file di slitte si
scontravano rovesciando i feriti sulla neve, s'insinuavano di corsa nella accozzaglia delle migliaia di
uomini, gli animali spaventati zampavano abbattendo chi premuto dai vicini non riusciva a scansarsi
in tempo e finiva sotto gli zoccoli dei cavalli e dei muli, rotolava quindi urlando sotto i pattini delle
slitte, rimaneva sulla neve con le ossa schiantate; e subito la folla inconscia e affannosa lo
travolgeva, lo uccideva correndo frenetica e assalitrice verso il paese.
Il paese era grande, sparso, abbandonato dagli abitanti, le isbe già rigurgitavano di soldati giunti da
ore; la marea di disperati lo assaltò, s'affollò intorno alle isbe già ricolme di uomini giacenti, chiese
a gran voce di entrare, gli occupanti si affannavano a dimostrarne l'impossibilità, i sopraggiunti
sfondarono le porte, penetrarono d'impeto calpestando gli uomini a terra, si stiparono uno sull'altro,
uno contro l'altro finché ogni stanza fu un unico carnaio urlante, maledicente, un solo viluppo di
uomini feroci e imbestialiti, profondamente paghi nell'intimo d'essere sfuggiti alle mortali unghiate
della tormenta che fuori, in quella notte d'inferno, avrebbe forse sterminato tutti gli altri meno lesti e
decisi.
Ma migliaia d'altri sopraggiungevano ancora e facendo ressa contro gli usci imploravano,
imprecavano, bestemmiavano, piangevano vedendo la porta e la salvezza a un passo e restandone
tuttavia esclusi; constatando l'impossibilità di entrare dalla porta, si gettavano allora alle finestre,
frantumavano i vetri col calcio dei fucili e scavalcando i davanzali piombavano a capofitto
rimanendo a galleggiare sul brulicame di membra; altri impazzivano subitamente, mentre convulsi e
tetri tedeschi infilavano nel fucile le ultime pallottole rimaste e sogghignando sparavano attraverso
le porte richiuse, godendosi quindi gli urli di chi si credeva in salvo e al riparo e invece proprio
allora cominciava a perdere il sangue e morire. Altri tentavano a lungo d'insinuarsi nell'ingresso
semiaperto e farsi posto nell'isba stipata fin sull'uscio, ma non potendo a nessun costo forzare la
compatta calca conficcavano silenziosamente la baionetta nel corpo al più vicino all'uscio, con uno
strattone lo toglievano di mezzo buttandolo a stramazzare sulla neve e si inserivano poi soddisfatti
al posto lasciato sgombro dal morto.
All'aperto, all'inadeguato riparo di tettoie — poiché ogni vestigio d'umano non era tuttavia distrutto
in tutti quei cuori — v'era chi accendeva fuochi fumosi accingendosi a passare la notte in piedi, fra
gelo e fiamma, fidando in Dio; v'era anche chi rincalzava le coperte ai feriti rimasti sulle slitte e li
imbottiva di paglia raccattata, chi accudiva ai muli affinchè all'indomani avessero forza per
trascinare avanti i congelati.
Altri invece vagavano guardinghi fra le isbe per sorprendere un mulo attaccato a una slitta vuota e
incustodita: con un balzo s'impossessavano allora del traino e fuggivano con la nuova ricchezza da
barattare o da usare nella marcia all'indomani, indifferenti al fatto che il furto appiedasse e lasciasse
alla mercé della steppa chi non sapeva più camminare.
La bufera ululava nel turbinio di neve sul paese, la notte arrestava ogni vita scagliando vortici di
gelo. Ma forsennati figli della disperazione s'aggiravano ancora fra le isbe implorando e
minacciando, scagliando contro il cielo inascoltate grida; e si sentivano morire. Battevano a lungo
ad ogni porta chiusa, supplichevoli, infuriati, pazzi nel sentire le carni arroventarsi nel gelo;
s'accasciavano infine contro l'uscio di un'isba o a ridosso della parete meno esposta al vento,
s'accucciavano poi sulla neve, il loro guaito s'affievoliva, a poco a poco tacevano; rabbrividivano
sempre meno, sempre meno fino a restare rannicchiati e del tutto immobili, sagome umane che ad
occhi fermi e spalancati affrontavano il vento notturno con un ghignante e tranquillo viso di pietra.
Nessuno li vedeva, nessuno badava. Soltanto il nevischio turbinava insistente intorno al loro viso,
s'apprendeva alle ciglia e alle barbe, s'accumulava nei lobi degli orecchi, nelle cavità delle narici,
fra le labbra dischiuse e sui denti, si distendeva tra gli orli delle palpebre divaricate e velava gli
occhi aperti, mascherava di bianco tutto il volto. E questo, sotto, vetrificato, ghignava.
Alcuni infine v'erano, che impazziti d'un tratto sul pensiero dell'ultima ripulsa, si scostavano dalla
porta rimasta chiusa ad ogni supplica e s'aggiravano con lentezza attorno all'isba inospitale;
silenziosi si portavano al più riparato degli angoli, scuotevano la neve dal basso bordo del tetto di
paglia; con attenzione, con infinita cura sfregavano fiammiferi fino a spremerne da uno l'esigua
fiammella, l'innalzavano cautamente riparandola dal vento e l'accostavano alla paglia, attendendo di
vederne sprizzare il primo fuoco e il primo fumo.
Si ritiravano allora, e ristavano rattenendo il respiro a guardare, insensibili al vento ed al gelo,
spiando con sottile gioia l'incantevole corsa bluastra e poi rossa delle fiamme che in un baleno
avvolgevano l'isba; e gli occhi abbacinati trapassavano le pareti frusciami di fuoco e vedevano,
abbracciavano, carezzavano con infinita esultanza il multiforme ammasso di corpi dormienti da cui
si attendevano con orgasmo il primo, inebriante, tardivo urlo.

8.
L'alba del venticinque gennaio fugò la tormenta, la colonna s'incamminò, per tutta la giornata
marciò e all'imbrunire raggiunse Nikitowka, grosso paese nel quale con indescrivibile gioia la
tredici riuscì a trovare isbe sufficienti a dare ricovero agli artiglieri. Il paese era abitato, ma il
passaggio di precedenti reparti aveva esaurito ogni scorta di viveri; i soldati tuttavia riuscirono a
racimolare qualche patata, qualche buccia da ingollare con indicibile avidità.
Gli uomini godevano finalmente qualche ora di sosta e di riposo e Serri potè dare qualche scarso
aiuto ai feriti e ai congelati, riassestare almeno le lacere bende o i ritagli di stracci sulle carni
macerate. In molte isbe le donne gli offrivano spontaneamente tele e acqua calda per detergere e
coprire le ferite, dimostravano una toccante partecipazione al dolore che aveva invaso le loro case.
Le stufe ardevano, gli artiglieri si ristoravano, con pazienti ricerche ricavavano dalla neve dei cortili
nuovi avanzi di rape; chi veniva sopraffatto dal sonno e riuscendo a vincere l'assillo della fame
dormiva abbandonato sui pavimenti delle isbe, chi era ancora sveglio si rallegrava per la prospettiva
di una intera notte di riposo; le voci riacquistavano un poco della perduta vivacità, un tenue lume di
speranza riaffiorava.
Gli ufficiali e i sottufficiali approfittavano della sosta per riordinare quanto rimaneva della batteria,
contavano gli uomini, facevano riassestare le slitte e rinforzare le corde di traino che il gelo e lo
sforzo, in marcia, spezzavano continuamente imponendo pericolose soste ai veicoli.
Il capitano Reitani, seduto su una panca e contornato di uomini addormentati per terra, sommava su
un foglietto gli ultimi dati riguardanti la batteria.
— Con che forza è rimasta la tredici? — domandò Serri sedendogli accanto.
— Novantasei uomini compresi i tre ufficiali — rispose con tristezza Reitani; — mi sforzo di
pensare che chi è rimasto indietro non sia morto ma si sia congiunto a qualche altro reparto. Quanti
feriti e congelati abbiamo?
— Quarantotto trasportati sulle slitte, non ne è morto nessuno finora; ma bisogna aggiungere
diciannove congelati e sei feriti che si trascinano a piedi.
Il capitano prese appunto.
— È terribile: siamo rimasti in ventitré uomini validi; e anche noi siamo mezzo morti di fame e di
sonno — disse amaramente posando con gesto tenue la mano sui capelli scarmigliati del furiere
Clerici che, seduto a terra, gli si era addormentato accanto poggiando il capo sulla panca.
— Vi siete ricordati di contare anche me, almeno? — chiese Scudrèra levando il viso dal
pavimento.
— Sì, purtroppo — gli disse Serri con un mezzo sorriso.
— E in che lista me gavè ficà?
—Fra i congelati, naturalmente — rispose il medico; — e presto ti dovrò segnare fra gli amputati se
continuerai ad essere testardo più dei tuoi muli.
— Fra i congelati? È una ingiustizia, le xe le solite camòrre...!— protestò Scudrèra; — come uomo
potrò avere le mani un poco scassate, ma come conducente son tuto d'un tòco, sto facendo il mio
dovere come qualunque altro, no?
— No, — disse Reitani: — ti rifiuti di obbedire al tuo comandante, sei un cattivo alpino.
— Mi? — disse Scudrèra sollevando l'enorme torace dal pavimento e appoggiandosi su un gomito.
— Mi un catìvo alpìn?
E perché no me fusilè, se non obedìsso? O volè farme el processo in Italia! — E puntava verso
Reitani il braccio teso e la mano avvolta in una vecchia mezza sottana multicolore, particolare dono
della padrona dell' isba al gigantesco conducente.
— Vedremo — rispose Reitani divertito; — queste sono decisioni da prendere in segreto. Dimmi
piuttosto: hai mangiato la tua crosta di formaggio?
— Ecco, vedete? — disse Scudrèra; — se la mano mi entrasse in tasca, credo che l'avrei già
mangiata; ma invece è troppo gonfia, e mi fa male, non entra: e alòra la gròsta la xe sempre qua, me
la magno quando son sul punto de crepar de fame.
— E non hai paura che qualcuno te la rubi, se dormi? — lo stuzzicò Serri.
— Oh, no! — esclamò Scudrèra aggrottando cupamente la fronte; — se qualcun pròva, mi lo còpo;
i lo sa tutti, li go già avvertii. No, no, nessun se fida, imeconòsse.
— Basta — disse Reitani ridendo e mutando subito espressione nel dare un'occhiata e riporre il
foglietto che aveva ancora in mano; — dormiamo anche noi, che si fa tardi.
I due ufficiali si distesero sul pavimento, dopo alcuni minuti tutti gli uomini in grigioverde
dormivano nel tepore della stanza. Dai letti, alla luce della fiammella sempre accesa sotto l'icona, la
famiglia russa guardava con occhi pietosi quella gioventù che immota nel sonno pareva morta.
Il paese era calmo, i muli nelle stalle masticavano tranquilli la paglia, tutti i soldati dormivano al
coperto e al caldo, le membra si distendevano nella placidità del sonno a cui neppure le sentinelle
erano in grado di resistere.
Ed ecco che verso mezzanotte stuoli d'ombre silenziose s'avvicinarono al paese, scivolarono tra isba
e isba evitando i tratti di. neve illuminati dalla luna, si distribuirono presso le soglie delle isbe,
attesero immote. Ad un lontano sparo, socchiusero le porte degli ingressi e alla pia luce tremolante
sotto l'icona individuarono i soldati dormienti; puntarono allora il parabellum e in ogni casa una
lunga, interminabile raffica s'abbattè sugli inermi, mentre gli assalitori fuggivano a precipizio subito
raggiungendo, dietro le isbe, la neve della steppa.
Chi non rimase ucciso all'istante ma fu svegliato dal sussulto della carne ferita, o scampò alla morte
rimanendo illeso, gridò con un urlo che si ripercosse di casa in casa, e si estese sull'abitato come un
unico rantolo. Un tramestio convulso, un'orgia di dolore e di orrore investì il paese che subito
traboccò d'infinite ombre urlanti; chi impugnava le armi, chi correva senza scopo e direzione, chi
invocava aiuto e pietà per i compagni feriti; sul paese allora cominciarono a piombare le bombe di
diversi mortai che attorniavano l'abitato, la terrorizzata popolazione russa riversandosi dalle case
accrebbe il panico, moltiplicò gli urli.
— I carri armati! I carri armati! — venne inconsultamente gridato.
— Abbandonare il paese, via verso ovest! — fu il comando che orientò i soldati; e con un frenetico
bardare muli, agganciare slitte, caricare feriti, inserirsi nel tempestoso flusso gli uomini
s'accavallarono fra animali e traini sospingendosi a furia verso ovest, già braccati e bersagliati dai
russi che sopraggiungevano a mitragliare la mandria fuggiasca: spuntavano a drappelli fra le isbe, si
slanciavano ai margini della colonna lentamente avviata e sotto gli occhi esterrefatti dei vicini
abbrancavano e trascinavano via — prigionieri — i più sfortunati.
Le isbe occupate dalla tredici, allineate in una stradicciola a fondo cieco, erano state parzialmente
risparmiate, ma nelle prime due gli artiglieri si erano trovati aggrediti nel sonno, in una quattro feriti
e tre congelati erano rimasti uccisi da un'unica raffica, nella seconda il furiere Clerici era stato ferito
ad un braccio, una pallottola aveva lacerato il cappotto a Reitani; Serri era rimasto illeso, ma il
puntatore Foresti, il disperato cannoneggiatore di Novo Kalitwa che gli stava dormendo accanto
aveva ricevuto una pallottola in pieno petto.
— Calma! La tredici resti unita! — aveva comandato Reitani riavendosi dalla stuporosità del sonno
e dal tragico risveglio.
— Ugo, faccio caricare i feriti, tornerò ancora qui per Foresti — aveva detto Serri precipitandosi
verso la porta.
— Sì, io intanto radunerò gli uomini, fa' più presto che puoi!
— aveva gridato il capitano correndo verso altre isbe.
— Via, si parte! Stare uniti a tutti i costi! — aveva ordinato poco dopo vedendo che le slitte erano
caricate e pronte a muoversi.
— Un momento, signor capitano! — aveva urlato dalla porta dell'isba il furiere Clerici reggendosi il
braccio ferito; — il tenente Serri è tornato, ha detto che Foresti è ancora vivo...
— È vivo, bisogna portarlo con noi! — aveva gridato il medico. E anche il puntatore moribondo era
stato caricato su una slitta assieme ai nuovi feriti che prendevano il posto dei sette morti.
La tredici s'era poi tuffata nei gorghi della corrente umana che premeva verso la pista ovest;
nonostante ogni sforzo le slitte s'erano disunite, gli uomini rimescolati nella massa si
abbandonarono al flusso da cui erano ghermiti e travolti.
Scene selvagge e fulminee si svolgevano sotto gli occhi dei fuggiaschi impotenti; soldati russi
armati di fucile mitragliatore si avventavano su uomini isolati e li sospingevano via o li uccidevano.
Essendo serrato fra le scomposte file della colonna, durante una momentanea sosta Serri vide a
pochi passi l'allampanata figura del tenente Frati appoggiato alla parete di un'isba; da Novo
Postojalowka i due non s'erano più incontrati.
Ora il filosofo teneva le braccia alzate e innanzi a lui la sagoma di un partigiano russo gli puntava
sullo stomaco la canna del fucile mitragliatore.
Attorno al polso nudo dell'ufficiale brillava alla luce della luna il cinturino metallico dell'orologio:
conquistato dal luccicore il russo aveva levato una mano verso l'irresistibile attrazione; esitò per un
istante essendo impedito dall'arma che impugnava, con gesto risoluto strinse allora il parabellum fra
le ginocchia, si sfilò i guanti e con entrambe le mani si affrettò nel tentativo di sfilare l'orologio da
quel polso sempre alzato.
— Difenditi, Frati! — gridò Serri divincolandosi invano nella calca tentando d'accorrere; ma la sua
voce si disperse nel frastuono e la colonna si riavviò sospingendolo; rigirandosi, il medico vide
l'infelice filosofo scomparire fra due isbe preso a calci e spinto dal russo.
Ma neppure la colonna parve poter trovare scampo, tempestata dai mortai nemici e bloccata
all'inizio della pista da reparti e cannoni russi; soltanto dopo qualche ora di combattimento la
resistenza venne superata e all'alba la marcia ebbe inizio.

9.
A poca distanza dall'abitato di Nikitowka la testa della colonna dovette però arrestarsi di nuovo,
immobilizzata da un secondo schieramento di blocco nemico; contemporaneamente i reparti di coda
vennero assaltati ai fianchi e a tergo da forti squadre di partigiani che si diedero ad isolare e
catturare uomini. — Fate presto ad avanzare, ci finiscono ad uno ad uno, ci fanno prigionieri! —
gridavano in delirio verso la testa gli uomini di coda.
— Non si può sfondare, c'è un passaggio obbligato, i russi hanno troppi cannoni!
— Questa è la fine... — mormoravano rabbrividendo le migliaia di uomini inermi inseriti nel corpo
della colonna.
— Abbandonare la pista e buttarsi sulla collina di sinistra, superarla a tutti i costi! — comandò un
ordine fremente.
Con uno sforzo inaudito, uomini e muli si portarono a una salita a fianco della pista, l'affrontarono
sospingendo con la forza della disperazione le slitte che i muli non riuscivano più a far avanzare e
che i feriti con implorazioni strazianti pregavano di non abbandonare.
Progredendo, cadendo, rantolando, soffocando di fatica gli alpini riuscirono a salire il colle
aggirando il passaggio obbligato e ponendosi, così, al coperto dal tiro delle artiglierie; ma non da
quello delle armi automatiche, poiché i russi avevano nel frattempo operato una conversione
mettendo di nuovo la colonna sotto il fuoco delle mitragliatrici e dei parabellum.
Quando i primi reparti raggiunsero la sommità del colle s'avvidero che sulla pista che si estendeva
alla base del versante opposto i russi, arretrando anche i cannoni, avevano costituito un nuovo
sbarramento.
— Adesso giù a rotta di collo per il pendio fino alla pista, o si sfonda d'urto o si crepa sul posto! —
fu l'ordine pazzesco.
Ed allora, invasati da una furia cieca, migliaia d'uomini in massa si slanciarono a capofitto giù per il
ripido pendio nevoso, i conducenti aizzarono i muli che si gettarono al galoppo dapprima seguiti e
poi sospinti da centinaia di slitte che, avendo preso l'abbrivo ruinavano al basso trascinando verso i
cannoni russi i feriti e i congelati urlanti sotto il legame delle coperte. La inerme massa d'uomini e
di bestie precipitò scatenata in una carica folle, galoppò ansando e mugghiando incontro ai cannoni,
incurante delle granate che dai pezzi russi le saettavano incontro; li investì, li rovesciò
travolgendoli, e passò oltre.
A portare più in là, verso il fantomatico ovest il proprio disperato patire.
— Ugo — disse Serri quando più tardi potè rintracciare il capitano nella confusione della marcia
subito ripresa — una nostra slitta è stata colpita in pieno da una granata mentre scendevamo il colle,
è saltata per aria e i quattro feriti che portava sono morti.
— Sì, lo so — rispose con strana tranquillità Reitani; — è morto anche il conducente?
— Sì.
— Abbiamo perduto anche i due muli e la slitta. A uno a uno ce ne andiamo tutti, tutti Italo, divorati
da questo inferno. Il medico scrutò con un rapido sguardo il volto del capitano.
— Hai perduto anche l'ultima speranza, Ugo? — domandò sommesso.
Reitani volse il viso verso l'amico, gli passò una mano sotto il braccio, un sorriso triste varcò il
pelame della ormai lunga barba e non giunse nemmeno a sfiorare la malinconia degli occhi.
— No, Italo — rispose pacatamente; — ma il dover assistere a questa agonia della tredici senza
poter fare nulla mi schianta il cuore. Oh, non penso a me...
Personalmente non ho esitazioni, da tempo ho già definito i miei casi. Sono un soldato, mi
arrenderò soltanto alla morte, non prima. Accetto qualunque destino, meno quello di cadere vivo in
mano ai russi. Nella rivoltella ho ancora una pallottola, la tengo per me.
— Me la presti? — disse il medico sforzandosi disperatamente di spremere dalla gola serrata un
tono leggero; — te la restituirò in Italia... Non devi portare alla tua mamma i fiammiferi di Novo
Kalitwa? Li hai ancora?
— Sì — sorrise Reitani.
La colonna camminò per il resto del giorno senza imbattersi nel nemico; nel pomeriggio, raggiunto
un ampio costone che scendeva a un grosso paese s'arrestò; dall'abitato giungevano raffiche di
mitragliatrici e colpi di cannoni.
— Siamo a Nikolajewka — corse voce; — il paese è pieno di soldati russi, il Tirano e il Vestane
l'hanno attaccato da ore. Sta arrivando l'Edolo, ha avuto forti perdite a Arnautovo.
Più tardi passò un ordine lungo la colonna: — Fate largo, lasciar passare in testa l'Edolo e il
Valcamonica, è questione di vita o di morte per tutti.
Con gli artiglieri del Valcamonica, al comando del maggiore Dante Belotti giunsero gli alpini della
«50» e della «51» dell'Edolo: in combattimento, arcangeli indemoniati.
La Tridentina attaccò, le compagnie d'alpini si slanciarono contro le linee di resistenza russe,
vennero respinte e riattaccarono più volte; ma i russi resistevano accanitamente, con innumerevoli
armi contrastavano il passo.
Giunsero improvvisi a bassa quota aerei nemici da caccia e da bombardamento; sorvolarono a più
riprese la colonna sganciando bombe, mitragliando nel folto e seminando la morte fra gli uomini
immobili sulla neve. Stava morendo anche il giorno, avanzava minaccioso il gelo notturno.
— Se non si conquista il paese, qui per bene che vada moriremo di freddo — dicevano le voci lungo
la colonna che sulla neve si stagliava a perdita d'occhio.
Il nemico attestato a Nikolajewka dimostrava di poter rintuzzare agevolmente i tentativi italiani di
sfondamento rivelando la potenza del suo massiccio complesso di forze: i reparti della Tridentina si
trovavano il passo sbarrato da contingenti russi che superavano l'organico di due divisioni; fu facile
individuare la presenza di oltre trenta bocche da fuoco che vomitavano proiettili contro gli
attaccanti e la colonna.
I tre pezzi tedeschi che avevano aperto il fuoco per sostenere l'attacco italiano, dopo le prime salve
avevano taciuto; alle interrogazioni dei soldati vicini gli artiglieri germanici allargarono le braccia e
scuoterono rabbiosamente la testa imprecando, perché avevano esaurito con quei pochi colpi le
ultime munizioni. Contro i trenta cannoni nemici la colonna poteva opporre solamente quattro
piccoli pezzi da montagna che il Gruppo Valcamonica della Tridentina era riuscito a conservare,
assieme a una esigua scorta di munizioni; oltre a ciò, al valore individuale degli uomini della
Tridentina e a poche mitragliatrici era affidata oramai la sorte delle decine di migliaia di inermi che
formavano la colonna.
Dall'alto dell'ampio costone che s'affacciava sulla sottostante conca di Nikolajewka, l'immenso
ammasso di soldati disarmati ed impotenti seguiva col cuore in gola le vicende dell'azione che gli
alpini della Tridentina andavano sviluppando, nel tentativo di superare il terrapieno della ferrovia
che separava la conca dal paese. I quarti d'ora si succedevano rapidamente, i superstiti dei
battaglioni della Tridentina operavano allo scoperto avanzando a successivi sbalzi, intervallati da
soste durante le quali gli uomini si appiattivano nella neve impediti a procedere dal tiro rapido delle
armi nemiche; si rivelava allora più chiaramente l'impossibilità di raggiungere l'unico risultato utile:
sgominare i russi e conquistare il paese.
Tuttavia, quei decimati battaglioni della Tridentina che marciando costantemente in testa alla
colonna avevano sostenuto i più aspri e frequenti combattimenti, con uno sforzo supremo riuscirono
a superare in qualche punto il terrapieno e si portarono a contatto ravvicinato col nemico: già
combattevano nei pressi della stazione ferroviaria, si attestavano nelle prime isbe del paese,
facevano riaccender la speranza negli animi di quanti sul costone venivano cannoneggiati dai russi;
fremiti di speranza s'alternavano a spasimi di delusione riflettendo le alterne vicende della lotta, alla
quale i feriti e i disarmati assistevano come da un osservatorio.
Era passata un'ora, una seconda. La Tridentina insisteva negli attacchi e i russi non mollavano, già
certi della grossa preda; la situazione diventava insostenibile, i soldati fermi presso le slitte
tremavano sentendo l'orribile freddo che distendeva sui volti le sue gelide bave.
— Avanti! — incitava Scudrèra, urlando al vento.
— Andiamo tutti all'assalto e tanti saluti, sarà quel che sarà! — gridava il furiere Clerici.
— Bisogna sfondare ad ogni costo! — ripeteva il sottotenente Ferrieri.
— Tanto, qui si muore tutti ugualmente — gridavano i soldati esausti di fame e di freddo.
— La Tridentina ha progredito in qualche punto — comunicò una voce eccitata risalendo a ritroso
la colonna; — incontra molta resistenza presso la ferrovia e la chiesa, fra poco sferrerà l'attacco
decisivo: tenersi pronti a buttarsi avanti per sfruttare il primo successo.
Poco dopo infatti, nell'ultima luce del giorno, con uno sforzo supremo le forze ancor valide della
Tridentina si gettarono all'attacco con alla testa il battaglione Tirano, travolsero d'impeto alcuni
centri di resistenza nemica, già l'esultanza si diffondeva nelle schiere impotenti e ferme intorno alle
slitte; ma un urlo di raccapriccio si levò dalla marea di disarmati in attesa sul costone quando,
bruciata ogni energia nello slancio dell'assalto e sopraffatti dal fuoco nemico, gli attaccanti
tentennarono sulle posizioni conquistate e non reggendo al contrattacco russo presero a ripiegare
verso le slitte; nell'assalto erano morti il generale Martinat e quaranta ufficiali.
Alla vista dei dimezzati battaglioni alpini retrocedenti, la tragedia ultima si delineò con definitiva
chiarezza fra la massa degli uomini in attesa: incalzando le ultime forze italiane sbaragliate, i russi
le avrebbero respinte fino a ridosso delle slitte, e infierendo nel dolorante corpo della colonna
avrebbero concluso con una carneficina l'ultima fase del combattimento. Innanzi a Nikolajewka,
pervenendo dal calvario lungo il quale s'era trascinata, la sanguinante colonna nella luce di quel
tramonto vedeva ormai innalzarsi un'unica croce e spalancarsi una sola fossa; innanzi a
Nikolajewka Iddio parve in quella sera aver posto sulla neve il dito gigantesco, a indicare il termine
all'inaudita tortura.
Ma altro si rivelò, in quell'ora, il disegno eterno. Un uomo, un solo uomo sommò nell'animo la
disperata angoscia di tutti, vedendo i suoi alpini retrocedere combattendo sulla neve; i suoi alpini,
poiché egli era il generale Reverberi comandante la Tridentina; e dalla somma di dolore gli scaturì
dall'anima un gesto ed un grido.
Fu una cosa semplice, ma condotta a cavalcioni della morte. Esisteva ancora un rugginoso carro
blindato germanico in grado di rotolare i suoi cingoli sulla neve grazie a pochi litri di carburante
residuo; su quello il generale si slanciò, salì ritto sul tetto, diede un secco ordine al guidatore, il
carro si mosse avanzando verso i battaglioni in ripiegamento e verso il nemico.
— Tridentina...!Tridentina avanti...! — gridò con forza selvaggia il generale Reverberi dall'alto del
carro in movimento, indicando col braccio puntato Nikolajewka.
Non fu lasciato avanzare solo: i suoi alpini, riserva disarmata, si gettarono avanti seguendo il carro;
generale e soldati raggiunsero i battaglioni che, elettrizzati, fecero massa compatta: il carro
sopravanzò trascinando seco il cuore e l'ansito dell'intera divisione; quell'uomo ritto sul tetto
metallico non cadde, non fu trapassato, Iddio lo lasciò in piedi, gli consentì di guidare gli alpini fin
sulle difese nemiche, di travolgerle in uno slancio furibondo, di rovesciare i cannoni fumanti, di
porre in fuga i russi conquistando Nikolajewka e aprendo il varco entro cui dal costone, come
richiamata dalle soglie della morte, irruppe la marea d'uomini dilagando nel paese.
Come tutti gli altri, ancora ansanti per la corsa, gli uomini della tredici si rintanarono nelle isbe
devastate dal combattimento, s'accoccolarono sui pianciti gelidi mentre il vento soffiava penetrando
dalle finestre divelte. Tuttavia erano al riparo, riposavano le membra che parevano sciogliersi nella
stanchezza.
Anche per quel giorno, se non intervenivano complicazioni, la morte sembrava evitata. Ma i soldati
erano nervosi, irascibili, i nervi minacciavano di non tenere più, le parole aspre e intrattenibili che
sfuggivano dalle labbra non corrispondevano ai veri sentimenti del cuore.
— Quando finirà questa sonata? — mormorò rabbrividendo di freddo Pilòn rannicchiato sulla terra
accanto a Scudrèra.
— Oggi, pareva — brontolò di malumore il conducente battendo i denti; — domani vedremo.
Intanto dormi, cretino. O hai bisogno che ti canti la ninna-nanna?
— Prova, cretino che sei tu; non ci riesci, si vede benissimo che non hai più fiato in corpo.
— Io? — grugnì Scudrèra masticando rabbia; — te ne approfitti perché ho le mani gelate, vigliacco.
E per protesta si rigirò e poggiò di prepotenza il capo irsuto sulla pancia di Pilòn come se questa
fosse un suo cuscino, e s'addormentò di colpo.
Pilòn tacque, richiuse gli occhi; ad ogni respiro che traeva, sentiva quel testone che sulla pancia gli
andava su e giù. Provò a respirare più adagio e più lieve, perché era un peccato svegliare il povero
vecchio amico, quell'orso furioso dalle mani diventate verdi.
Scherzava o faceva sul serio, poi, il tenente Serri, a dire che gliele dovevano tagliare?
Non si capiva più niente di preciso, in batteria, da un po' di tempo.
Si capivano soltanto due cose: si restava sempre più in pochi, ed era una vita da cani idrofobi.

10.
Gelati e assonnati, gli uomini della tredici prima dell'alba si rimisero in cammino. Era il ventisette
gennaio. Fuori dal paese i russi avevano predisposto il consueto sbarramento che con il collaudato
sistema d'urto venne superato. Ad ogni scontro però calava il numero di coloro che riprendevano la
marcia.
— Come va il braccio, Clerici? — domandò Serri al furiere ferito che camminava tenendo l'arto
infilato tra i bottoni del cappotto.
— Non c'è male, signor tenente. Si è gonfiato, ma non mi da molto dolore; si può resistere.
— Te la caverai, sono sicuro, la pallottola è già uscita — disse il medico rincuorando il ferito che
sorrideva fiducioso.
— Che forza ha la batteria questa mattina? Hai fatto i calcoli?
— Si, l'altra notte a Nikitowka abbiamo avuto sette morti e due feriti, Foresti ed io; ieri è saltata in
aria una slitta sulla discesa, cinque morti; ancora, ieri un uomo è rimasto indietro, non abbiamo
notizie. Questa mattina in batteria sono presenti diciannove uomini validi compresi gli ufficiali,
trentasette tra feriti e congelati trainati su slitta e ventisei che vanno a piedi; ottantadue presenti in
totale. In più, ventisei muli che tirano dieci slitte.
— Bisogna badare ai muli — disse Scudrèra che aveva sentito; — crepano.
— Cosa dici? — domandò Serri allarmato, conoscendo l'infallibile esperienza del conducente; —
bisogna che vivano a tutti i costi, devono portare in salvo i feriti.
— Lo so, signor tenente — rispose Scudrèra; — ma al mulo bisogna dàrghe la vita, se occorre; i
miei tre, no i crepa de sicuro, garantìsso mi. Ma bisogna curarli.
Non si può buttarsi a dormire se non sono al riparo, se non si è trovata la paglia e si è fatta sgelare
l'acqua per loro. E si può anche stare svegli tutta la notte a far fuoco perché si riscaldino, se c'è
bisogno. Invece c'è chi dorme, e i muli crepano. Vedrete che sorprese, tra poco.
Quando fu giorno due apparecchi russi sorvolarono la colonna.
— Maledetti! — gridavano i soldati agitando i pugni. Da tempo avevano compreso le linee del
semplice giuoco russo: all'alba gli aerei nemici venivano a rilevare la direttrice di marcia della
colonna, più tardi giungevano le squadriglie a mitragliare e bombardare. Le schiere in ripiegamento
tentavano di occultarsi e far perdere le tracce di sé durante ogni notte; ma, attraverso i rilievi fatti ad
ogni nuova alba dagli aeroplani, i russi erano in grado di predisporre agevolmente i movimenti delle
proprie truppe, apprestando il quotidiano sbarramento dovunque la colonna avesse deciso d'andare.
I reparti russi potevano spostarsi velocemente viaggiando negli autocarri sulle piste gelate, con i
carri armati, le autoblindo, i cannoni semoventi e tutte le armi e i rifornimenti al seguito; avendo in
pugno l'iniziativa e la forza, predisponevano a piacimento gli attacchi e le tregue; in un'ora di
viaggio sulle piste sopravanzavano la colonna annullando il vantaggio che questa s'era conquistato
in venti ore di ininterrotta marcia, passo per passo sulla vergine neve della steppa.
In tali condizioni, era un giuoco per i russi schierarsi ogni giorno in attesa della testa della colonna
faticosamente incedente, bloccarla in un ampio arco di sbarramento, impegnarla ed attaccarla ai
fianchi, nell'intento di annientare ciò che il gelo, la fatica disumana e i combattimenti precedenti
non avevano ancora distrutto.
Gravava perciò sui marciatori la certezza d'essere di continuo osservati, preceduti e seguiti: ogni
ventiquattro ore un nuovo cerchio si serrava di sorpresa intorno alla colonna, ogni giornata
richiedeva la sua lotta mortale.
Nell'ultimo tempo la resistenza nemica s'era fatta più accanita, multiforme, alle truppe regolari russe
s'erano aggiunti i partigiani.
— Questo è l'undicesimo giorno di ritirata, Italo — disse Reitani affiancandosi a Serri; — cosa ne
pensi?
— Penso alla scatoletta e alle due gallette avute undici giorni fa e non mi spiego come abbiamo
potuto resistere fino ad ora con qualche rapa gelata e qualche scorza marcia messa in corpo. Osservi
i soldati? Sono un miracolo. Siamo ridotti in condizioni spaventose, ma tuttavia camminiamo.
— Quanto credi che l'organismo possa resistere ancora? — domandò Reitani.
— Non ti so dire; mancando il cibo e il sonno e vivendo in questo clima, avrei escluso di poter
resistere una mezza settimana. Sta finendo invece la seconda, non so più cosa pensare. Sulla slitta di
Pilòn c'è Foresti che da due giorni ha il torace trapassato da parte a parte, sputa sangue, dice che si
sente abbastanza bene e che non ha bisogno di niente; cosa vuoi che aggiunga, io? E tu, cosa dici?
Riusciremo a giungere al traguardo? C'è possibilità di congiungerci all'Armata?
— Non esiste alcun segno che ci autorizzi a sperarlo — ammise il capitano. — Abbiamo già
percorso circa trecento chilometri verso ovest e non abbiamo trovato traccia di nuove linee, non si
capisce più nulla. Non si è visto un aereo nostro, un minimo segno d'essere ricercati, d'avere
qualcuno che supponga che siamo ancora vivi. C'è l'impressione che ci abbiano dato per morti
ormai, che abbiano messo un coperchio sulla nostra tomba. Se è così, siamo davvero sepolti senza
ancora saperlo.
— Il Comando della colonna ha notizie di quelli che sono rimasti indietro? — domandò Serri. —
Non mi do pace pensando a Perbellini, a Brogli, a tutti gli altri.
— A parte quelli che vediamo morti sulla neve, si pensa che la maggior parte degli altri si affianchi
ai reparti rimasti indietro. Gruppi d'uomini camminano a decine di chilometri dietro di noi
fermandosi nei paesi a riposare senza più fretta. Abbiamo visto che le popolazioni sono d'animo
generoso; per di più la colonna è tallonata continuamente da reparti russi, con i quali i nostri uomini
privi di armi non possono impegnare combattimento neppure volendo; perciò devono venire fatti
prigionieri senza complicazioni. Sotto questo aspetto, hanno maggiori probabilità di salvezza di
quante ne abbiamo noi. Ma sarà bene risparmiare il fiato — concluse. dovremo camminare fino a
notte. A quanto ho sentito dal colonnello Verdetti, la marcia si preannuncia durissima, andremo
avanti fino all'esaurimento delle forze per distanziarci il più possibile da Nikolajewka.
La colonna procedeva fuori pista, la neve fonda della steppa imponeva il consueto sforzo. Essendo
rotta dai reparti precedenti la crosta gelata, a ogni passo il piede affondava nella neve polverosa, la
fatica dell'incedere era sfibrante.
Verso le nove altri aerei russi passarono a più riprese mitragliando, i morti rimanevano sulla neve, i
feriti si trascinavano avanti perdendo sangue, sui muli colpiti e ancora vivi piombavano con le
baionette snudate i soldati più vicini, si rialzavano poco dopo e riprendevano a camminare portando
grandi brani di carne sulle spalle. Ma per quanto fosse allettante il pensiero della carne arrostita alla
prima sosta, ai portatori era impossibile reggere il nuovo peso per lungo tempo, imprecando per la
fatica inutilmente compiuta si soffermavano ancora, rassegnandosi ad accontentarsi di un piccolo
ritaglio di scarso peso; quando il coltello tornava all'opera non riusciva ad incidere la carne
pietrificata che rimaneva allora abbandonata sulla neve a servire da rossa ingannevole esca ad altri
affamati.
La giornata era gelida ma serena, il vento non si era ancora levato, non esisteva alcun segno di
prossimo pericolo e tuttavia un nervosismo preoccupante serpeggiava nella colonna. Non senza
deleterie conseguenze decine di migliaia di uomini privi di ogni mezzo di vita si accanivano a
camminare da undici giorni fra combattimenti e dolori nel vetrato gelo della steppa; molti erano
caduti o s'erano attardati, ma chi ancora reggeva allo sforzo ne portava i segni evidenti: torme
ubriache e non più soldati parevano i marciatori, fantocci macabri che perpetuavano una loro follia
trascinando con sé quelle slitte gocciolanti marciume e orine di feriti; gli stessi muli, ridotti a
scheletri rivestiti di un mantello di ghiaccio, contribuivano a completare con la loro presenza il
terrificante quadro di una raminga, disperata pazzia.
I nervi degli uomini erano in cedimento, minacciavano di spezzarsi ancor prima dei muscoli;
terribile era il logorio causato da quella perpetua costrizione a camminare senza requie. Già dal
primo risveglio nelle buie ore della notte gli uomini vivevano nell'incubo della marcia imminente,
provavano lo sgomento di porsi in cammino nel gelo sapendo di dover procedere per venti, ventidue
ore fino ad ingolfarsi, ancora marciando, nella nuova notte.
Nelle multiformi e disgregate schiere d'italiani, tedeschi, ungheresi e romeni si vedevano quindi
procedere spettri d'uomini che soltanto una volontà inferocita poteva ancora sospingere innanzi:
curvi, zoppicanti, saltellanti, gravitanti su grucce improvvisate, rosi dalla febbre e dai pidocchi, con
le piaghe rosseggianti tra le bende gialle di pus; lividi in volto o cadaverici, boccheggianti, affamati
come lupi randagi, s'ostinavano a tenere il passo della colonna, bestemmiavano o pregavano
emettendo dalle narici e dalle labbra spaccate un'unica bava sanguigna che scendeva ad accumularsi
e raggelarsi sulle barbe e sugli abiti.
Ma non esisteva pietà per quegli spettri, per essi valeva soltanto la condanna di dover marciare ad
ogni modo e non perdere un passo. Tutto dovevano fare marciando, inesorabilmente: vivere e patire,
piangere e respirare, levarsi le croste dalle ferite che s'appiccicavano ai panni e togliersi le dita che
staccandosi putride di cancrena scivolavano sotto la pianta dei piedi impedendo il passo; imprecare
e supplicare, cogliere la neve per placare l'arsura delle fauci e balzare a impossessarsi di una coperta
caduta da una slitta, accudire ai loro bisogni corporali moltiplicati dalla diarrea che infieriva tra le
schiere; e allora si vedevano quei tragici pezzenti, assaltati da improvvisi crampi, frugare tra i cenci
che li rivestivano con mani rattrappite e rese inette dal congelamento, slacciare rabbiosamente gli
indumenti, abbassare pantaloni e mutande, accucciarsi a metà, e tuttavia procedere oscenamente a
tentoni e a gambe larghe per non attardarsi di un passo, d'un solo minuto, mentre perdevano e
lasciavano dietro di sé, sulla neve, chiazze e strisce di liquame sanguinolento.
Tutto ciò era trascurabile particolare nella vita della colonna, che aveva altri problemi collettivi da
risolvere: la sopravvivenza, il nemico, l'itinerario, l'ovest.
— Sento un aereo! — gridò verso le undici il capo-pezzo Bartolan.
Infatti la parte di colonna che precedeva stava arrestandosi, come accadeva al passaggio degli aerei
bassi.
— Giù tutti! — gridò Reitani.
Non si scorgeva ancora l'aeroplano ma se ne udiva il rombo, sormontato a tratti dalle raffiche delle
mitragliatrici di bordo.
— Signor tenente — disse in fretta a Serri il furiere Clerici, che si era sdraiato sulla neve ponendo la
testa al riparo dietro il bordo posteriore della slitta di Scudrèra — venite qui, per uno c'è ancora
posto.
— No, grazie, ho da fare — rispose Serri che a lato della slitta approfittava della sosta imprevista
per riassestare le fasciature alle mani di Scudrèra.
A quel punto l'aeroplano si profilò e subito passò rombante a una decina di metri sopra la colonna;
sgranava in continuazione le sue pallottole, disparve in pochi secondi.
— Eccoci serviti anche per questa volta — disse Scudrèra scrutando il cielo; — mi rovesciano il
sangue ai muli, quei bastardi di aviatori. Bella roba sparare su chi tiene stretta l'anima coi denti! E
dicono che questi aerei russi sono pilotati da donne! Vorrei averne io una fra le mani...
— Cosa ne faresti? — domandò Serri divertito.
— Oh, niente... Ecco, me contentano de dàrghe da tener le redini de la slitta par una mésa giornata,
e dirghe ogni tanto: «ti piace la guerra fatta al posto di conducente di mulo? Dimmelo francamente,
tu che ti divertivi a fare la conducente di aeroplani! Hai capito la differenza, adesso, carogna?» e le
darìa magari qualche pissegóto nel dadrìo, se sa, par farla caminàre più in fréta.
Cosa ne dici, Clerici? Cosa le faresti invece ti, che te ga studià?
Siccome il caporale Clerici non rispondeva e il conducente e il medico s'accorsero che stava ancora
sdraiato sulla neve, si portarono entrambi dietro la slitta e Scudrèra toccò il giacente con un piede
avvolto di stracci e disse col suo tono di stravagante allegria: — Sveglia, furiere! Fra poco se parte,
e a ciuciar neve vièn el mal depànsa!
— Fermo! — esclamò Serri chinandosi sul furiere e spostando il piede di Scudrèra che insisteva
nello spingere rudemente il corpo dell'amico.
Poiché vide che l'uomo prono teneva gli occhi chiusi, il medico si tolse in fretta un guanto e infilò la
mano sotto il bavero del cappotto di Clerici, fra camicia e collo: la pelle era tiepida; s'accorse allora
che il cappotto presentava nel mezzo un minimo strappo, un forellino entro cui avrebbe potuto
passare un chicco di grano turco. Il medico insinuò con ansia le dita lungo la schiena di Clerici
scorrendo sulle vertebre, un polpastrello si soffermò ad un tratto avvertendo un'ineguale piccola
depressione e, nel centro di questa, un foro nella pelle che non perdeva — lo constatò ritraendo la
mano — una goccia di sangue.
Però Clerici era morto. Anche Clerici era morto, aveva finito d'essere il furiere della tredici, ora era
un cadavere al quale bisognava togliere subito il diario di batteria che non doveva andare perduto
come colui che in vita l'aveva tenuto aggiornato. Altre mani, ormai, avrebbero contrassegnato il suo
nome tracciando una piccola croce accanto, e la data; e ciò sarebbe stato tutto per Clerici, esequie
funerale e sepoltura; l'unica croce per lui sarebbe stata quella segnata a matita sul diario, poiché egli
era un alpino della Julia in ritirata sulla neve di Russia; e questa era la sorte.
— Una pallottola in pieno midollo spinale — disse il medico a Reitani accorso: — è rimasto
fulminato.
— Pissegóti? Pissegóti nel da drio? — urlò disperatamente con tutto il fiato dei suoi polmoni
Scudrèra, guardando il cielo e agitando sopra la testa le mani avvolte negli stracci colorati. — Una
bomba nel centro dell'anima, a quéle asasìne.
— Cos'ha Scudrèra? — domandò a Pilòn il puntatore Foresti allungando il collo dall'ultima slitta.
— Dev'essere arrabbiato per Clerici, poveretto — gli rispose il conducente Pilòn afferrando
l'estremità delle briglie dalla groppa del mulo; — sai che quando qualcosa gli va per traverso parla
come un matto. Guarda che si riparte — aggiunse poi vedendo muoversi le slitte precedenti; e fece
il verso ai suoi muli.
Sul mezzogiorno il tempo cambiò, sulla steppa si levò il dannato vento, gli uomini e le bestie
rallentarono l'andatura. La neve aveva acquistato una tinta cinerina, le folate la sollevavano come
polvere appiccicandola ai pastrani, ai passamontagna e al mantello dei muli. I soldati rabbrividivano
sotto le sferzate fischianti, lacrimavano, dai nasi cominciava a colare il solito umore mucoso che
scendeva filante sui baffi, sulla barba e raggiungeva il cappotto ingrossandosi a poco a poco e
formando quegli insopportabili pendagli di ghiaccio. I piedi parevano sbriciolarsi per una loro
dolorosissima fragilità, le mani gelide non servivano più neppure per abbottonare un bottone,
irrigidite dal freddo.
La colonna non camminava su pista; non c'era quindi speranza d'incontrare qualche isba per
ripararsi se il freddo fosse diventato intollerabile o le gambe avessero rifiutato di procedere. Un
senso di nervoso malessere opprimeva tutti, poiché da varie ore in ciascuno s'andava rafforzando la
sensazione che il corpo, dopo un infinito tempo di marce e di privazioni fosse giunto al definitivo
stremo delle forze. Un presagio orribile nasceva dall'intimo delle fibre esauste, parlava nella carne;
l'animo sgomento fremeva inorridendo, si ritraeva impaurito dal palese richiamo della morte.
— Forza, Sorgato! — gridò Pilòn all'attendente che incespicava spesso. — Se elxe torna a casa da
la ritirata de Russia anca Napoleòn, picolèto e col mal de pànsa, no te voi arrivar ti, bestión?
Il vento soffiò più crudelmente, la steppa parve ribollire nel turbine, un soldato s'abbattè, i
successivi lo incontravano e lo scansavano lasciandolo morire. Cominciò ancora una volta lo
stillicidio dei corpi prostrati sulla neve.
La steppa, ammantata di bianco e di vento, opponeva tutta la crudeltà del suo inverno alla marcia
degli uomini.
— Temo per i nostri feriti e congelati che vanno a piedi, disse Serri a Reitani.
— Ho paura che oggi succederà un disastro — rispose il capitano.
— Anch'io.
— Forse è la fame spaventosa che abbiamo addosso.
Un mulo della terza slitta stramazzò nella neve e non si mosse più.
— E uno! — brontolò Scudrèra.
— Alt! — ordinò Reitani alla breve colonna della tredici; — oggi dobbiamo rimanere uniti anche a
costo di restare un po' indietro.
Mentre alcuni artiglieri liberavano la slitta dal mulo morto, il capitano raccomandò agli ufficiali e ai
due capi-pezzo superstiti, Bartolan e Fraita, di non lasciare nulla d'intentato affinchè né un uomo né
una slitta s'attardassero restando isolati.
Dopo qualche minuto la tredici ripartì tentando di raggiungere il Gruppo che si era avvantaggiato di
qualche centinaio di metri; camminando, il piccolo reparto raggiungeva e superava uomini isolati
che avanzavano a passo lentissimo, la neve sollevata dalle folate vertiginava, le coperte che gli
uomini avevano posto sul capo e sulle spalle erano bianche e grevi di ghiaccio.
La tredici stava superando una slitta carica di feriti, su questa Reitani e Serri credettero di
riconoscere il maggiore Amerri, non più riveduto dal tempo di Jvanowka.
— Maggiore Amerri? — chiesero all'uomo sdraiato.
Era lui, quasi irriconoscibile; aveva un viso bruniccio, rinsecchito e raggrinzito come una mela cotta
al forno. Aprì gli occhi, ravvisò i due ufficiali, sorrise stancamente; allo stiramento del sorriso parve
che la riarsa buccia di mela si fosse spaccata.
— Ferito? — chiese Serri.
— Sì — rispose quello; — ho una coscia aperta.
— Come va? — domandò Reitani.
— Morale alto — disse il maggiore; — ma oggi vado crepando, con questo vento.
Ragazzi, se non rivedrò la mia famiglia, dite che non l'ho dimenticata mai e che ho fatto
l'impossibile per restare vivo per lei.
Era così calmo e consapevole, che i due ufficiali risposero gravemente di si. Lo perdettero subito di
vista, incalzati dai muli che sbruffavano alle loro spalle.
La tredici raggiunse un erculeo soldato che stava in ginocchio sulla neve. Dal suo atteggiamento si
capiva che non aveva la forza d'alzarsi ma non s'arrendeva ancora a lasciarsi cadere definitivamente.
Gli uomini dapprima lo guardarono incuriositi, poi lo fissarono sgomenti; il sergente Bartolan si
distaccò dalle slitte seguito da Fraita ed entrambi lo aiutarono a sollevarsi; l'uomo si alzò, disse
qualcosa senza fare un passo, fece cenno ai due d'andare avanti e rimase fermo, in piedi sulla neve,
incapace a muoversi.
— Chi è quello? — domandò Reitani a Bartolan quando il sergente raggiunse la tredici.
— Non l'avete riconosciuto? era l'uomo più forte del reggimento; faceva il «presentat'arm» per tre
minuti tenendo la bocca da fuoco del pezzo al posto del moschetto; per questo i soldati si sono
spaventati, a vedere che non ha più forze neppure lui — rispose Bartolan; — dice che verrà avanti
fra poco.
Il male della steppa dilagava fra gli uomini della grande colonna; ora essi camminavano con
estrema lentezza, con movimenti legnosi, spezzati. Molti trascinavano i piedi senza più sollevarli
dalla neve, fermandosi a tratti, riprendendo poi a vagolare come sonnambuli; quando si
soffermavano, sembravano statue di fango gelido in attesa del soffio divino per diventare uomini.
Ed era allora, invece, che iniziavano a morire.
Nel silenzio che dominava la colonna s'udì all'improvviso uno sparo, poco dopo gli artiglieri della
tredici raggiunsero un uomo abbattuto sulla neve; stringeva una rivoltella e gli usciva ancora a fiotti
il sangue dalla bocca; fuoriuscito dalle labbra, subito il sangue veniva frenato dal gelo e fissato in
grumi sulla neve.
— Si è sparato — disse Fraita passando oltre; tutti gli altri camminando guardavano il suicida,
inorriditi per quel modo di morire. Nessuno fiatava.
Poco dopo, a brevi intervalli, si udirono diversi altri spari; gli artiglieri tendevano gli sguardi con
preoccupazione, senza vedere nulla; ma s'imbatterono poi nei cadaveri di chi s'era sparato nella
testa, nel petto, dove gli consentiva la lunghezza dell'arma che portava. Uno fra i morti aveva i gradi
di ufficiale.
La follia suicida contagiava gli uomini in marcia.
Un mulo dell'ottava slitta cadde morto sulla neve, la tredici si fermò.
— Due — sogghignò Scudrèra.
— Di questo passo non ci resteranno muli sufficienti a trainare le slitte — disse Reitani
nervosamente.
Un gruppo di sbandati si era gettato sul mulo per asportare pezzi di carne prima che la slitta fosse
svincolata dalla carogna; gli altri due muli attaccati allo stesso traino, alla vista di quel sangue
s'infuriarono, fu necessario impegnare una violenta colluttazione per allontanare gli sbandati, che
alla partenza della slitta si ributtarono sulla preda come iene magre per fame.
Prepotenti fantasie iniziavano ad affacciarsi nei cervelli, strani fluidi cominciavano a passare
lambendo la colonna commisti alle folate del vento; l'impossibile e l'assurdo s'insinuavano, come
altre volte, dinanzi ai piedi e agli occhi dei marciatori.
— Oh, Dio, signor tenente — disse l'infermiere Zoffoli con occhi stravolti, aggrappandosi a una
manica del cappotto di Serri: un canto sguaiato e senza senso usciva dalla bocca di un alpino che
fuori dalle file saltava a grandi balzi sulla neve minacciando con un fucile spianato i compagni in
marcia. Uno ne uscì affrontandolo, l'alpino folle fece fuoco con grande allegrezza e l'altro cadde
riverso sulla neve. Un secondo nel frattempo era uscito dalla corrente, riuscì ad avvicinarsi alle
spalle del pazzo e da retro gli sparò una revolverata nella testa, correndo poi faticosamente a
raggiungere i compagni che avevano proceduto di molti metri.
Il vento sibilava sulla colonna, questa procedeva verso ovest.
— Ho fame, signor capitano — disse ad un tratto Sorgato che si trascinava con immensa fatica; —
non vado più avanti... muoio di fame...
— Coraggio, Sorgàto! — esclamò Reitani; — sai che non abbiamo viveri, non posso far nulla. Ma
tieni duro, pensa ai tuoi figli. Vieni!
Il capitano e Serri si posero ai fianchi dell'anziano artigliere, questi camminava appoggiandosi alle
loro braccia.
Qualcosa di non ancora provato e spaventoso aleggiava da qualche tempo sulla colonna. Un furore
cieco serpeggiava negli animi: era un inconsulto, infrenabile desiderio di rivolta contro la natura e la
vita; un odio infinito faceva maledire quel mostruoso regno di gelo e la forza vitale che ancora
costringeva a percorrerlo impedendo di lasciarsi cadere sulla neve e farla finita con l'inaccettabile
patire. La morte stessa aveva un suo richiamo tranquillante, tanto da apparire gradevole e amica,
poiché era riposo; ma quando le ginocchia secondavano quel pensiero e cominciavano a piegarsi
verso terra, un disperato tremito invadeva le membra e costringeva a portarsi più in là, dieci metri,
un metro, un passo più in là.
Fu spaventoso quando uomini validi fino a quel punto sentirono le forze fisiche crollare mentre
l'animo ancora anelava a procedere: tutti camminavano contro il vento dosando con angosciosa
cautela le estreme sfuggenti energie, quando quelli iniziarono a piegare un ginocchio nella neve, poi
l'altro, poi curvavano la schiena, affondavano le mani nella neve e tendevano la testa in avanti, gli
occhi fuori dalle orbite, protesi in un immane sforzo disperato, simili a cani rattenuti dalla catena;
non parlavano, soltanto guardavano con occhi sbarrati i compagni procedenti, l'implacabile colonna
che avanzava; altri alla vista orrenda si sentivano mancare, venivano anch'essi tirati giù sulla neve,
s'acquattavano a quattro zampe fra i piedi dei marciatori che li scansavano. Erano uomini, parevano
bruti. Trovavano forze, allora, per spingere avanti un ginocchio, una mano, l'altro ginocchio,
avanzavano così nella neve per lunghi tratti, fissando gli occhi sui piedi dei camminatori per vedere
se quel procedere carponi consentiva un progresso apprezzabile, se c'era speranza. Ma a qualcuno
già mancava forza per stare chino nella positura bestiale, le braccia non reggevano e cadeva prono,
rimanendo disteso e ansante sulla neve; richiamava allora un residuo di forze e con quelle strisciava
ancora in avanti, lasciava un solco dietro a sé procedendo come un rettile, progrediva a sbalzi, a
sussulti, a rantolanti ansiti, con movenze non più umane. Immobilizzato dall'abbandono delle forze
protendeva infine un braccio convulso, lo levava dalla neve, stendeva le dita verso la colonna come
per aggrapparsi ad essa, per farsi trascinare.
— Fratelli... — ansimava con voce fioca: — Fratelli...
— Sono un uomo anch'io... non lasciatemi... — singhiozzava.
La colonna procedeva, la sua corrente lo sfiorava lasciandolo gemere sulla riva gelida; poiché
nessuno poteva reggere una soma di dolore che non fosse la propria.
— Sono un cristiano come voi... non abbandonatemi... per amor di Dio... — rantolava quello.
Poi taceva, poiché anche il viso gli era caduto nello spessore della neve.
Oppure rimaneva a lungo recline nel bianco, col mento proteso e il braccio levato verso le ginocchia
degli altri; a poco a poco il gelo lo induriva in quel gesto, lo fissava così, l'uomo diveniva una forma
immobile e tragica. Il braccio gliel'avrebbe abbassato a suo tempo il disgelo.
Il nevischio sibilava sulla colonna; questa procedeva verso ovest.
— Non stai più dritto, eh? — gridò Scudrèra volgendo lo sguardo al limite posteriore della sua
slitta: aveva scorto Sorgato che appoggiandosi con le mani al basso bordo di legno arrancava
ricurvo e pareva cadere ad ogni passo.
— Non ne posso più... — rantolò Sorgato. Il conducente non gli rispose, continuò a camminare a
fianco dei suoi muli.
— Zoffoli! — disse ad un tratto scorgendo l'infermiere che gli marciava vicino; — tienimi le redini
per un poco, sta' attento che non tocchino la neve, se no le se giassa e po' le se rompe.
— Molli anche tu? — rispose all'improvvisa richiesta Zoffoli, allarmato ma canzonatorio; si affrettò
tuttavia a sfilare le redini dal collo del conducente e a prendere la guida dei muli.
— Tienti a mente quel che ti dico: tu sarai per tutta la vita una bestia cornuta, ónta de vaselina — gli
disse irosamente Scudrèra offeso dalla domanda.
Rallentò poi lievemente il passo, la slitta gli passò innanzi e il conducente si trovò all'altezza di
Sorgato.
— Te te diverti a star tacà al tranvài? — chiese all'anziano, dopo aver percorso in silenzio un
centinaio di metri al suo fianco. Aggiunse poi, cambiando tono: — Come la va vècio?
Sorgato girò lo sguardo verso il conducente, lo guardò con occhi inespressivi e abbassò il capo sul
bordo della slitta senza rispondere.
— Ohe'! Digo a ti, — gridò Scudrèra.
I due per un poco camminarono vicini in completo silenzio. Sorgato ansava.
— Tu stai crepando — constatò ad un tratto Scudrèra guardando con curiosità l'amico. Non
ottenendo risposte, si chiuse in uno sdegnoso silenzio per qualche altro minuto.
— Senti — proruppe alfine: — Ti devo chiedere un piacere...
— A me...? — gli chiese Sorgato riuscendo a far filtrare nello sguardo una espressione di desoltla
ironia.
— A te, si, cosa c'è di strano? — proseguì Scudrèra bruscamente; — lo dico a te, perché siamo fra le
slitte e nessuno ci bada. Alzati un poco, dammi retta.
Come Sorgato riuscì a camminargli ritto a fianco, il conducente con un gomito tentò di allontanare
un bordo del cappotto e disse: — Sai, ho deciso di farla finita col mio pezzo di formaggio, ma con
'sti stracci sulle mani non riesco a mettere le dita nella tasca della giacca. Prendimelo fuori tu, è
questo che ti chiedo.
Sorgato tolse un guanto, infilò la mano sotto il cappotto di Scudrèra, trasse la famosa crosta e dilatò
gli occhi nel veder comparire un gran pezzo di formaggio; era annerito dalla lunga permanenza
nella tasca del conducente, ma in compenso pesava forse tre etti; mirabolante visione, per quei
morti di fame.
— Bravo — disse Scudrèra — adesso magnatelo ti, e tirate su.
— Ma... — disse incredulo Sorgato, con occhi in cui riluccicava la vita.
— Ma, che cosa? — urlò Scudrèra indignato; — cosa credi, che sia scemo? Che lo faccia per te, per
la tua faccia da ebete? O credi invece che mi sia dimenticato de quei cinque rachìtichi che mi hai
mostrato a casa tua? Bell'affare go fato, quéla volta, a venirte a trovare...! — E guardava con
adorazione e rispetto il formaggio.
— Ma tu... — mormorò Sorgato.
— Io... — disse Scudrèra rabbonito — mi a casa go soltanto do' veci insemenìi, che non so neppure
se hanno ancora cervello che basta a ricordarsi di me. E poi — concluse orgogliosamente — vuoi
confrontare le mie forze con le tue? Sbrigati a mangiare, piuttosto, se non vuoi crepare; se non lo
mangi subito, ti porto via il formaggio. Non sono una monaca io, non faccio complimenti: ti lascio
crepare sulla neve io, non me ne imperla niente!
— Sì — disse l'altro, dando il primo morso. Scudrèra, che guardava, deglutì faticosamente.
— E pensare — brontolò fra i denti — che avevo fatto anche la fatica di raschiare via la crosta...
Bel fesso, Dio Cristo!
Ma già aveva piantato Sorgato e allungava il passo per raggiungere le sue bestie.
— Adesso dammi pure le redini — disse bruscamente a Zoffoli; — e non pensare di darti delle arie
da conducente, sai, perché resterai sempre un lurido infermiere che non capisce niente di muli.
E si gettò sulle spalle le briglie fissandole con due giri attorno al collo; un terzo giro lo diede attorno
al braccio fra gomito e polso, alla sua balzana maniera.
— Arri Gigia — gridò allora — che te te scaldi le rècie.
Il tramonto tingeva in livido la via della colonna; questa procedeva verso l'ovest.
La colonna, folle fuggente mostro partorito dall'inverno e dalla steppa, non udiva il lamento degli
uomini ma solo la sferzante voce del vento; perdeva membra d'uomini lungo il cammino ma
proseguiva implacabile, frenetica, rimescolando razze e dolori nel suo grembo ampio, devastato,
scoperto al vento, trascinando cadaveri nelle slitte e disseminando uomini vivi nella neve,
insensibile agli ultimi richiami che ogni caduto levava ai fratelli sordi e pazzi di gelo.
Anzi, quando stanchezza, fame e freddo parevano essere sul punto d'arrestare il flusso e impietrare
l'intera colonna, i muli sfiniti perdettero la forza di scansare gli uomini che marciando cadevano
nello spazio fra una slitta e la successiva; allora l'uomo abbattuto senti sulla schiena il ferrato
zoccolo del mulo, senti il metallo del pattino e il peso della slitta schiantargli le costole, e ne morì.
Restava sul bianco, cencio informe infarinato di neve; un'altra slitta, una terza nel cieco procedere
lo addentavano, lo trascinavano, altri zoccoli lo calpestavano, lo sfiguravano. Il cadavere a infinite
riprese rotolava, strisciava, veniva gettato a lato e là rimaneva a gelare finché altre zampe lo
riagganciavano nel giuoco diabolico; omeri e tibie gli si frantumavano sotto le lame delle slitte, i
marciatori ne percepivano impotenti il sinistro crepitio: emergendo fra carni stracci e neve parevano
indicare, accusare, maledire chiunque con sguardo inorridito o attonito le vedeva affiorare, volgersi
e nuovamente sprofondare nella funerea polvere di neve. Così il moto incessante della colonna
faceva proseguire orribilmente anche ai cadaveri la marcia interrotta, come la corrente del fiume fa
sostare e ad un tratto nuovamente riprende e trascina i relitti.
Agli occhi del sottotenente Serri compariva e scompariva tratto tratto quel primo cadavere greco
contro cui aveva cozzato due anni prima nell'acqua della Vojussa, in Albania; tuttora egli stava
cozzando contro i cadaveri trascinati a centinaia nei gorghi della colonna, e più che mai si sentiva
ridotto in polvere: polvere sospinta da un destino folle e da un vento infernale, commista forse per
sempre alla polvere di neve.
Gli uomini erano ciechi, muti, vivi solamente per il proprio dolore: la vita aveva principio e limite
unicamente nel passo. Contrastava il diritto di vita colui che intralciava il cammino ai marciatori; e
se i due che si scontravano erano di nazione diversa o se le slitte che si urtavano erano di diverso
esercito, allora più facilmente ne nascevano violente, serrate lotte per conquistare la precedenza.
Conflitti di mentalità e di razza esplodevano violenti su quell'estremo margine di vita. Quando il
sottufficiale germanico per dar sollievo ai cavalli e serbarli alla fatica del giorno venturo faceva
scendere dalla slitta i commilitoni feriti obbligandoli a procedere per un tratto a piedi, gli italiani si
slanciavano sulla slitta vuota.
— Raus! Raus! — gridava il conducente tedesco; e non esitava a picchiare con la frusta o col calcio
del fucile sulle mani aggrappate degli uomini pronti a salire. Improperi, maledizioni, fucilate
volavano allora nell'aria.
Ad un momentaneo ingorgo nel transito, accanto alla fila di slitte della tredici sostava uno sparuto
gruppetto di esausti soldati tedeschi. S'apprestavano già ad incamminarsi nuovamente, quando
l'ultimo della fila crollò nella neve: era un fantaccino piccolo e sfinito, respirava con grande stento
ansimando nel suo giubbetto bianco dal quale spuntava il viso esangue. Il penultimo della fila tentò
invano di rialzare il caduto, gridò allora qualche parola facendo accorrere il caporale. Entrambi
rimisero in piedi l'estenuato, ma quando lo lasciarono questi si afflosciò nuovamente nella neve. A
guardarlo prono col volto nella coltre gelida sarebbe parso svenuto o morto, se non fosse stato per
un lieve movimento di una mano che ad un tratto accennò stancamente di no, come volendo
significare che no, non era più possibile rialzarsi e proseguire.
A quel cenno il graduato si curvò sul disteso, gli sollevò un braccio e lo lasciò: il braccio ricadde
inerte sulla neve, la polvere bianca turbinando andava ricoprendo rapidamente il corpo immobile. Il
caporale allora piegò un ginocchio, abbassò il volto fino al capo del soldato e cominciò a parlargli
con voce sommessa, ma con grande rapidità e fervore, stringendo affettuosamente fra le proprie la
mano rilassata.
Osservavano la scena vari artiglieri della tredici, fermi a pochi passi in attesa che le slitte si
riponessero in cammino. A qualche metro da loro i fanti germanici che costituivano la piccola fila
guardavano con volto indifferente e duro; il gelo aveva plasmato per tutti un unico e non
modificabile volto marmoreo.
— Sono fratelli — spiegò uno dei tedeschi agli italiani. Erano due piccole figure su cui premeva il
destino, l'una inerte e perduta, l'altra angosciata e fervida. Il nome della mamma con frequenza
ricorse sulle labbra dell'inginocchiato, faceva tremare le palpebre al disteso. Ma quando il graduato
tacque e scrutò fidente il viso bianco del fratello, questi non mutò espressione; soltanto una mano si
mosse facendo leva sul polso, levò le dita dalla neve e con breve e stanco cenno significò: no.
Esasperato, il fratello rizzò le ginocchia dalla neve, fissò con un lungo sguardo di dolore l'uomo che
non sapeva più vivere, i suoi occhi ne contemplarono l'immagine ultima, forse sentendo già nascere
da questa la rampogna che l'avrebbe poi per sempre perseguitato, tornando solo; e forse per ciò i
presenti lo videro ergersi sul giacente e contenere la disperazione in un atteggiamento sempre più
misurato, quasi sdegnoso, ed infine trasformarsi nel più freddo e impersonale graduato tedesco che
si potesse incontrare.
Ritto in piedi, reso inflessibile da una nuova coscienza di sé puntò il braccio e il dito contro il
fratello e gli artiglieri allibiti lo udirono gridare con imperiosa voce di comando e rimprovero: —
Deutscher Soldati — Deutscher Soldati — ripetè con più deciso tono il fratello al fratello, il
graduato al gregario; e altre parole sonanti come squilli s'opposero ai sibili del vento, passarono sul
giacente; gli artiglieri afferravano al volo il significato delle più sonore e frustanti.
— Soldato tedesco! — comandava il graduato puntando il dito verso l'uomo che ansimava nella
neve; — alzati! Ma il fantaccino boccheggiava, impotente.
— Soldato tedesco! — scandì il graduato con più vibrata concitazione — io ti comando, per la
grande Germania: Alzati!
Il soldatino con evidente sforzo aprì gli occhi, li fissò sul fratello. Ognuno dei presenti, secondo la
propria sensibilità, avvertiva che qualche cosa di inusitato stava succedendo mentre sentiva
trascorrere nell'aria gelida le parole: «Fuhrer... Grosse Deutschland... Befehl... Adolf Hitler...».
— Roba da pazzi! — mormorò Zoffoli vedendo che il tedesco steso sulla neve aveva ravvicinato le
gambe e tentava di puntare le ginocchia e i gomiti per sollevarsi.
— Alzati, soldato tedesco! — esclamò un'ultima volta il graduato con vittoriosa intonazione nella
voce, quando vide che il fratello già aveva posto un piede sulla neve e si sforzava di rizzarsi. Con
l'aiuto di un commilitone allora lo sollevò, gli passò un braccio attorno alla vita sostenendolo nei
primi passi. La piccola intatta squadra riprese il cammino.
— Avete visto? — domandò sogghignando uno sbandato; — uno non è neppure padrone di morire
in pace, gli gridano Hei Hitler e quello salta su e si mette ancora a marciare...
— Ti figuri cosa direbbe un italiano — interloquì ridendo un altro — se gli gridassero nelle
orecchie «viva Mussolini» o «viva il re» anche quando è sul punto di crepare?
— Hitler o non Hitler, sono due uomini da presentargli le armi, quei due disgraziati — ammonì il
conducente Pilòn seguendo ancora collo sguardo i due fratelli che si allontanavano faticosamente
nel nevischio.
— Sono due bestie, invece — commentò lo sbandato; — vanno avanti solo se sentono il richiamo
del padrone.
— Non ti auguro di cadere nella neve — intervenne gravemente il sergente Bartolan — e di non
sentire allora nessun richiamo.
Ma già le voci e i commenti si spegnevano per l'affannare nella fatica del ripreso cammino. Quasi
tutti ormai erano privi di scarpe, gli stracci attorti ai piedi affondavano nell'alto strato di neve
polverosa, scivolavano all'indietro ad ogni passo. Era calata la notte, i marciatori procedevano alla
cieca e ogni poco percepivano sotto i piedi i corpi esanimi dei compagni caduti ed ora resi anche
invisibili. Dalle slitte i feriti imploravano che venissero tolte dal loro contatto le agghiaccianti salme
dei morti, ma non era possibile accontentarli.
Nella progressione del patimento, ciò che nei primi giorni era sembrato cagione di folli pensieri si
era ridotto ad una tetra constatazione di fatto, macabra ormai soltanto come presagio di nuove
impensabili torture.
Anche Serri dovette provvedere a far togliere due cadaveri che nelle slitte opprimevano i feriti;
vennero scaricati e deposti sulla neve vergine mentre altri feriti costretti fino allora a camminare
facevano ansiosamente ressa attorno al medico.
— Io, io signor tenente! Avete visto ieri che ho i calcagni in cancrena!
— Io ho perso tre dita del piede, lo sapete!
— Tocca a me, signor tenente, ho una scheggia nella coscia!
— Io mi sento morire, ho le mani e i piedi congelati... — imploravano, avendo come estrema
aspirazione quella di prendere sulla slitta il posto del morto.
Serri valutava rapidamente la gravità delle condizioni di ciascuno, sceglieva i due che più d'ogni
altro avevano diritto di salire sulle slitte; ma dover dire: — «tu proseguirai ancora a piedi» — a chi
aveva innumerevoli ragioni per trovare requie alla tortura del cammino, causava al medico un
disperante raccapriccio.
Altri quattro muli della tredici caddero morti; i superstiti animali condannati al traino minacciavano
ad ogni passo di stramazzare, i feriti rischiavano di rimanere sulle slitte immobilizzate nel gelo
tremendo. Era così penetrante ed intima la sensazione di freddo, da far sembrare che anche le
viscere e soprattutto i polmoni fossero diventati di ghiaccio.
In molti camminatori, il pus ghiacciava a fior delle cancrene, indurito e gialliccio fra il verde e il blu
dei tessuti già morti: mani, nasi, testicoli, piedi, orecchie, sicché i dannati trascinavano in marcia
qualcosa del proprio cadavere.
La tormenta s'abbatteva urlando, scagliando nelle tenebre gli aculei dei quarantacinque sotto zero
sulla colonna; questa procedeva verso ovest.
Nel fondo della notte le schiere si avvicinarono a due fuochi che ardevano in una valletta.
— Siamo arrivati... — sospiravano i camminatori fremendo di desiderio; ma, raggiunti i fuochi,
s'avvidero che alcuni soldati avevano scoperto tre pagliai e, incapaci di compiere un passo di più, al
riparo dal vento avevano acceso la paglia e bivaccavano all'aperto affrontando le incognite della
notte e della solitudine.
Dopo ancora una disperata ora di marcia la brancolante colonna raggiunse alfine il paese di Jvonka,
si buttò al frenetico arrembaggio delle isbe; con un'altra ora d'affannose ricerche nel buio la tredici
riuscì a trovare qualche casa semivuota, gli uomini entrarono, piombarono a terra annientati.
I corpi si ammassavano alla rinfusa sul pavimento, abbandonati grado a grado da ogni
consapevolezza di vita, perfino dalla stessa fame che sopiva il suo struggente ululato arrendendosi
allo strapotere del sonno; cadevano senza scampo in un abisso caliginoso.
Ma pure, quegli uomini che venendo da una irripetibile via di dolore ad ogni notte si prostravano
temendo che al riposo seguisse la morte, colmavano tuttavia il preludio al sonno condensando in
esso ancora un anelito di speranza; giacevano immoti sul terriccio delle isbe ma tra il groviglio dei
corpi passavano ancora fremiti di vita.
— Sei tu, Scudrèra? — mormorò nell'oscurità Sorgato passando la mano su un braccio smagrito ma
ancora potente e solido.
— Si, perché? — mugolò a fatica Scudrèra che stava addormentandosi.
— Mi sono messo qui vicino a te perché... — disse Sorgato imbarazzato.
— Lasciami dormire, piaga — brontolò il conducente.
— Volevo dirti che tu sei... — riuscì a dire Sorgato — che tu oggi mi hai... Che io oggi ho potuto
arrivare... Be', insomma, che tu mi potrai chiedere sempre quello che vorrai e io... Lo sapranno
anche i miei figli, ecco.
— Non fare storie, piantala, noioso — disse Scudrèra ormai sveglio — e non credere di cavartela
con quattro stupide parole: non dubitare, io rivoglio indietro il mio formaggio, verrò a prendermelo
a casa tua quando sarò in Italia, parola d'onore! E se farai finta di non ricordarti del debito, ti butterò
la casa per aria, come è vero Dio!
— Faremo una cena, Scudrèra... — sussurrò con entusiasmo Sorgato stringendo il gomito del
conducente; — una cena come non si è mai sentita dire nel mio paese, e neanche nel tuo...
— Si capisce! — aggiunse con voluttà il secondo affamato, già preso nell'incanto; — poi tu verrai
da me e ti farò vedere io cosa vuol dire una cena a casa mia: una pagnotta e un pollastro, una
pagnotta e un coniglio, e così via... E fiaschi de vin da tute le parti, par tuta la cusìna...
— Benon! — gongolò Sorgato sorridendo nel buio; — mi me vojo cavar la voja de pasta'suta: me
fico a bagnomaria dentro un pentolón più grande de mi, pien de pasta'suta, da restar fora; solo con
la testa: e un bocón de qua e un bocón de la', vojo magnar fin che me la sugo tutta...! E dopo
qualche secondo di silenzio aggiunse: — Tutto sta a poter uscire da questa sacca...
— Vedi che alla fine salta sempre fuori il cretino? — sbottò Scudrèra già contrastato e deluso; —
non c'è gusto a parlare con te; sta" zitto e lasciami dormire.
Entrambi rimasero in silenzio a inseguire i propri sonnolenti pensieri, sottolineati dal pertinace
russare dei dormienti.
Sorgato poi mormorò: — Scudrèra, ti volevo dire...
— Che cosa vuoi ancora?
— I miei figli... ti sono davvero sembrati cinque rachitichi, come hai detto oggi?
Scudrèra raccolse nell'aria fredda il tono dolente, rivide nel buio le cinque splendide creature
radunate attorno al grembiale materno, e tacque. Portò alla bocca lo straccio gelido che gli
avvolgeva una mano, poggiò le labbra sulla tela e soffiò lentamente per far penetrare il calore
dell'alito; indugiava, cercando parole che non tradissero la commozione del suo cuore.
— Oh, sai, I xe rachitichi de sicuro... — disse infine con studiata indifferenza —...se li metto a
confronto con quelli che avrò io, quando saremo in Italia e mi sposerò la Pasquala. Per il resto, si
può dire che i tuoi figli sono normali, su per giù.
L'anima di Sorgato si distese; per tutta la sera, nonostante la delizia del formaggio, era rimasto come
aggrovigliato in quella cattiva frase di Scudrèra.
Ora si sentiva quasi felice, restava soltanto un po' piccato per la burla.
— Pasquala Scudrèra... — suggerì allora Sorgato, allargando con un'intonazione ironica la rotonda
sonorità del nome.
— Sì — confermò con orgoglio il conducente, ben lontano dal poter raccogliere, a quel richiamo, la
provocazione; — Pasquala Scudrèra.
E rivoltandosi sul pavimento si sentì all'improvviso la voglia e la forza di riattaccare i muli alla
slitta e avventurarsi solo coi suoi feriti nel gelo, a guadagnarsi un passo un metro una nottata su
quella maledetta interminabile strada che fulgente di speranze puntava verso l'ovest.
Dopo cinque provvidenziali ore di sonno, rovistate da cima a fondo le isbe per scovare semi di
girasole, rape gelate ed ogni genere di rifiuti, allineate le slitte e allacciati gli stracci ai piedi, alle
prime luci del ventotto gennaio gli uomini della tredici ripresero il loro posto nella colonna.
Alla mattina, al primo contatto, la neve era ripugnante: al solo sentirla crosciare sotto i piedi, a
taluni provocava il vomito. Prometteva patimenti per ogni istante della giornata, era la complice
prima degli innumerevoli dolori che perseguitavano i soldati da dodici giorni.
Per il primo tratto di cammino la neve era dura, consistente, permetteva un passo abbastanza
redditizio; gli uomini camminavano volentieri per vincere la molestia del freddo; ma ben presto
sotto l'insulto dei piedi e degli zoccoli la neve perdeva compattezza, si rimescolava, diveniva
polverosa e la colonna era costretta a procedere fino a notte in un asciutto canale dal fondo
sdrucciolevole e infido, nel quale gli uomini erano condannati ad avanzare per l'abituale ventina
d'ore ogni giorno. Quando poi sopraggiungeva la tormenta, l'avversità era tale che la colonna poteva
procedere soltanto di uno, di mezzo chilometro all'ora.
Stanchezza, fame, sete, freddo, sonno: questi cinque elementi si componevano in vario modo nel
corpo di ogni uomo, e già i primi chilometri di cammino richiedevano una disperata tenacia per
procedere sulla steppa; poi si spalancava l'inferno entro quell'orizzonte cancellato dall'implacabile
biancore della neve, disperso dalla nuvolaglia sfilacciata in brume cineree; la vastità paurosa della
steppa corrodeva non meno della fame.
Allora, e fino a notte fonda, fuori dagli usuali limiti del tempo e dello spazio la colonna procedeva
nell'infinito e nell'immoto. Veniva ogni giorno il momento in cui il cuore dei marciatori chiedeva
per carità di poter sostare e morire.
— Ho trovato in un' isba una manciata di semi di girasole — disse Zoffoli a Serri tendendogliene un
pizzico. L'ufficiale non ebbe forza di rifiutare, ringraziò con lo sguardo, portò alla bocca alcuni semi
e affondando gli incisivi nell'esigua polpa oleosa concentrò ogni sua attenzione nel coglierne il
sapore.
Parevano squisiti, ma il sapore si dileguava subito e nello stomaco non scendeva quasi nulla.
— Semi di girasole — disse raggiungendo Reitani e allungando la mano; — ne ho sei per te, sta'
attento a non lasciarli cadere.
— Oh... — esclamò il capitano sorridendo e sfilando un guanto; nel ricevere i semi, uno gliene
cadde nella neve, lo raccolse rapidamente e lo mise in bocca con avidità, serbando gli altri nella
mano a pugno.
— Speriamo che questa colazione non ci debba servire anche da pranzo e da cena — disse Serri.
— Chissà che si possa trovare qualcosa in qualche isba — rispose il capitano; — da tre giorni ho un
continuo crampo allo stomaco. A te lo posso dire, sei il mio medico: a volte sento dolori così forti
da trattenermi a stento dal rotolarmi sulla neve e non alzarmi più. Ma io so che devo dare l'esempio,
Italo, e quindi non cederò, o sarò l'ultimo. Come vanno gli uomini?
— In questi ultimi giorni tutti hanno subito un tracollo, segno che ormai per la mancanza di cibo i
nostri corpi stanno divorando i tessuti essenziali, muscoli e ogni altra cosa. Siamo diventati
irriconoscibili; guarda Sorgato, Zoffoli, Covre, lo stesso Bartolan: quindici giorni fa erano degli
atleti, ora sembrano dei tisici. Stiamo morendo di consunzione, questa è la realtà. Fra tutti noi,
soltanto Scudrèra fa eccezione: nonostante il congelamento alle mani ha ancora del vigore in corpo,
è prodigioso; escluso lui, entro qualche giorno noi saremo spacciati. Sono obbligato a dirtelo, Ugo:
tu sei il comandante e devi saperlo.
— La mia tredici... — mormorò il capitano mordendosi le labbra; alla stretta dei denti il labbro
inferiore leso dal freddo gli si spaccò e un rivoletto di sangue fluì scorrendo a rapprendersi nella
barba cespugliosa. L'ufficiale non passò neppure la lingua sul labbro inciso, lasciò con indifferenza
che il sangue colasse.
Italo Serri guardò quel volto smagrato e giallo in cui gli zigomi premevano come punte sotto la cute
erosa dal gelo. A palpebre abbassate, poteva già parere il viso di un morto. Soltanto i grandi occhi
approfonditi in un violaceo alone di patimento avevano mantenuta e anche accresciuta una vitalità
eccitata e febbrile, nella quale si disperdevano i residui dell'antica dolcezza fugata dalle contratture
segnate da una disperata e selvaggia energia. L'uomo che portava quel viso nel vento della steppa
soffriva indicibilmente per sé, ma più ancora per i suoi soldati, Serri ben lo sapeva. Avrebbe dato
qualunque cosa per vedere i solchi di quel volto spianarsi in un sorriso tranquillizzatore.
— Non possiamo morire di fame prima dei nostri uomini, capitano — disse risolutamente; — ma è
quello che ci sta succedendo.
— Devo rimanere sempre nella colonna, non posso litigare con i soldati per un pezzo di rapa marcia
— rispose Reitani.
Egli, fino dall'inizio della marcia di ritirata, aveva compreso che l'unico modo per salvare il maggior
numero di uomini stava nel mantenere sempre compatto il reparto, farne un nucleo che
nell'immenso stuolo della colonna non si fosse mai disciolto; aveva pure intuito che se egli si fosse
attardato a frugare nelle isbe durante le marce, ben presto in mancanza del suo controllo la batteria
si sarebbe disgregata disperdendo uomini e slitte nel caos della colonna, abbandonando grado a
grado i feriti al loro destino e gli artiglieri al marasma in cui vivevano le masse degli sbandati.
Aveva quindi deciso, imitato dagli altri ufficiali, di non abbandonare per un istante le sue slitte in
cammino attorno alle quali gravitavano gli uomini marcianti; mentre agli artiglieri era possibile
correre e rovistare nelle isbe incontrate, gli ufficiali della tredici e il comandante in primo luogo
erano realmente prossimi a morir di fame.
— Se incontreremo qualche isba, oggi nessuno mi tratterrà dal cercare qualche cosa da mangiare —
disse Serri; — fossero anche foglie di granoturco, qualcosa devo mettere in corpo; chissà che possa
trovare una rapa, o magari una patata intera. Mi sento sfinito. — Da qualche giorno la testa gli
pesava tanto che, sempre costretto a tenerla abbassata per vedere dove mettere i piedi nella neve
fonda, non riusciva più a tenerla eretta: gli pareva che le vertebre del collo gli si fossero incurvate e
irrigidite a foggia di manico di ombrello.
— Prova, Italo; chissà... — rispose il capitano guardandolo con occhi brucianti di muta avidità.
Nelle ore che seguirono, la colonna s'imbattè in qualche isba diroccata, Serri si avvicinava ma i
soldati precedenti l'avevano invariabilmente ripulita; non sarebbe rimasto che il tentativo di frugare
sotto la neve dei cortiletti, ma era un lavoro lungo e il medico non voleva perdere di vista la tredici
che si allontanava rapidamente.
Presso la porta di una stalla però, nella neve calpestata, Serri riuscì alfine a scovare un bariletto
manomesso e schiantato contenente nel fondo, fra pezzi di ghiaccio e di neve indurita, un tritume
rossastro: ebbe un tuffo al cuore, si sfilò un guanto e staccò una manciata di quell'impasto, l'osservò
con ansia e s'avvide che il barile conteneva residui di crauti conservati. La massa era già stata
rimestata di recente, Serri si chiese perché i soldati in precedenza non se ne fossero appropriati;
osservandola con più cura s'avvide che quel tritume era zeppo di vermi bianchi raggrinziti e uccisi
dal gelo: l'estate li aveva fatti nascere e l'inverno li aveva conservati assieme ai crauti andati a male.
— Ho fame... muoio di fame... — pensò tentando di vincere la ripugnanza che la verminaia gli
suscitava, ma una nausea incoercibile gli montò alla gola. Cercò di separare i crauti dai vermi, ma
questi erano tanti e così fittamente inglobati nella massa che l'operazione era impossibile.
— Devo tornare a casa... — pensò; e vincendo lo schifo diede un morso al cibo immondo.
Era gelido, insapore, ma cedeva alla pressione dei denti, e diveniva una pasta molle, nel caldo della
bocca: sì, era cibo. L'inghiottì.
Ne portò una manciata alla bocca, ne raccolse due grossi blocchi, quanto potè; corse a raggiungere
Reitani.
— Tieni, Ugo: c'è da mangiare — disse con occhi sfavillanti. Lo sguardo dilatato del capitano si
smorzò nel vedere il brulicame che il medico gli aveva posto tra mano.
— Mangia, non è cattivo — incitò il medico.
— Tutt'altro! — disse allegramente Reitani masticando il primo boccone e tentando di contenere
una smorfia di disgusto — meglio che noi mangiamo vermi, piuttosto che i vermi mangino noi, no?
Quante calorie sviluppa la carne di verme, dottore? — domandò scherzosamente mentre un sorriso
gli riaffiorava dal fondo delle occhiaie.
Mangiavano, grazie a Dio; avevano l'impressione che un residuo di vitalità si diffondesse subito
nelle membra, la mente s'accendeva in nuovi calcoli e progetti da cui non era più esclusa la
possibilità di sopravvivere. Tale era la loro miseria.
— In quanti siamo rimasti in batteria? — domandò Serri; — ieri sono morti due congelati. Mancano
anche due feriti che sono rimasti indietro.
— Sì — rispose Reitani — siamo rimasti in settantotto uomini di cui solo diciotto validi.
— Abbiamo trentasette feriti e congelati sulle slitte e ventidue che vanno a piedi.
— Ieri sono morti anche otto muli, ne restano diciotto, nemmeno due per slitta.
— Siamo al ventotto gennaio, agonizziamo da dodici giorni — disse Serri — abbiamo marciato per
centinaia di chilometri, ci troviamo sempre davanti al vuoto, i soldati mi domandano dove vogliamo
ancora andare, in che cosa speriamo, dove sono le nostre linee... Cosa dicono i Comandi, Ugo?
— Nulla. Da molti giorni avremmo dovuto incontrarci con le nostre linee di resistenza, ma a quanto
si vede l'Ucraina è stata abbandonata ai russi. Dicono che le nostre Armate non possono essersi
ritirate che verso ovest e che quindi non ci rimane che inseguirle in quella direzione e raggiungerle
dovunque si siano fermate. Questo è tutto. Un rombo di motori s'annunciò nel cielo.
— Arrivano — ebbe appena il tempo di dire Serri e due apparecchi sorvolarono bassissimi la
colonna sgranando il rosario delle mitragliere di bordo.
— Hanno ammazzato Bartolan! — urlò l'infermiere Zoffoli nel successivo silenzio calato fra le
slitte della tredici.
— Non raccontare balle! — gridò il capo-pezzo che già si risollevava dalla neve, infilandosi una
mano tra i panni e insinuandola lungo il petto; la ritrasse lorda di sangue.
— Una stupida pallottola di striscio, non è nulla — disse al capitano e al medico — non vale la
pena che mi spogli, il sangue fa la crosta da solo.
Un mulo invece era stato trapassato e la slitta di Pilòn venne liberata dalla carcassa mentre
sull'animale morto infieriva la solita calca dei moribondi di fame. Le labbra succhiavano i brani
gocciolanti, i denti azzannavano le polpe ancor calde, ma tosto il gelo le impietrava.
Si riudì il rombo lontano, la colonna rallentò l'andatura, gruppi di soldati tentavano di porsi in salvo
gettandosi a lato nella neve vergine.
— Tornano — disse Reitani a Serri scrutando il cielo. Gli apparecchi tardavano a comparire.
— È uno solo — disse Serri indicando al capitano un punto nell'aria.
Il rombo si avvicinò, ma non si udiva ancora il crepitare delle mitragliatrici.
L'apparecchio sorvolò la tredici, passò lento sulle slitte e sugli uomini che tentavano di farsi piccoli
e si schiacciavano sulla neve coprendo la testa con le mani, proseguì volando bassissimo verso la
coda della colonna, mentre alte grida provenivano dalla testa.
— Ma quello... — disse Ferrieri con incertezza.
— È un apparecchio in ricognizione, perciò non ha sparato — disse il sergente Fraita.
— Ha sparato, se avanti urlano — corresse il sottotenente Ferrieri.
— Signor capitano — esclamò Scudrèra lasciando per la prima volta le briglie sulla groppa dei muli
e avvicinandosi di corsa a Reitani — io guardo sempre bene la roba che mi passa sulla testa:
quell'apparecchio aveva sulla pancia i segni tedeschi, quant'è vero Dio!
— È una «Cicogna»! — gridarono con indecisione molti, raccogliendo e tramandando indietro le
voci che giungevano dalla testa della colonna.
— Sarà una «Cicogna» catturata dai russi, chissà quante ne avranno anche loro... — commentò
Covre.
Gli occhi degli uomini si cercavano, si interrogavano febbrilmente, si sfuggivano a vicenda nel
timore di aver espresso con troppa evidenza una risibile speranza, s'appuntavano infine sulla
indistinta sagoma dell'apparecchio che era ricomparso e incrociava lentamente a qualche chilometro
a fianco della colonna. Questa era ferma sulla neve, ognuno ora ristava ad osservare in silenzio le
evoluzioni dell'aereo, gli occhi affascinati non l'abbandonavano un istante per la paura di perdere di
vista il miraggio.
— Cosa c'è? Apriteci! Vogliamo vedere! — gridavano i feriti da sotto il coperchio di teli e coperte.
L'apparecchio volteggiò, virò nel cielo in quell'ora azzurro e puntò decisamente sulla colonna, la
raggiunse sorvolandola con grande lentezza. In assoluto silenzio gli uomini seguivano con gli occhi
l'esile sagoma, videro distintamente sotto le ali e sulla carlinga i distintivi dell'arma aerea
germanica, dinanzi all'incredibile apparizione trattennero anche il respiro attendendo da un istante
all'altro il più strepitoso dei miracoli; pareva verosimile e quasi certo che dalla fusoliera dovesse
calare ondeggiando una corda e che tutta la colonna stesse per essere agganciata e sollevata dalla
neve, prodigiosamente trascinata per le vie dell'azzurro a salvamento, uomini slitte e muli in grande
corteo tratti a salvamento.
L'apparecchio prese quota, ritornò più alto sopra i volti levati, qualcosa cadde dalla carlinga e si
svolse, sbocciò un piccolo paracadute che scendeva lentamente reggendo un tubo scuro, frotte
d'uomini si diedero a correre sulla neve vergine per raggiungere il punto ove sarebbe caduto.
Solo allora dalla colonna si levò il grido di innumerevoli voci deliranti e piangenti che per
chilometri di pista nevosa si tramandavano l'annuncio; e i muli scalpitavano innervositi per il
trambusto d'abbracci e urla che s'aggrovigliavano intorno alle slitte, levavano il muso dalla neve che
andavano lambendo con la ruvida lingua, si guardavano intorno sbruffando.
— Vado avanti dal colonnello Verdetti, a sentire che novità ci sono — disse Reitani con voce incerta
e con occhi trasognati.
L'apparecchio scomparve, i soldati passavano di crocchio in crocchio scambiandosi impressioni e
speranze, i teli che ricoprivano i feriti venivano slegati e i poveretti s'affacciavano fra le coperte.
Quando Reitani fu di ritorno comunicò ai soldati che gli facevano ressa intorno: — Il messaggio
dice che il territorio controllato dalle truppe tedesche non è lontano, stiamo per raggiungerlo...
Le grida di felicità degli artiglieri lo interruppero, ma il capitano ottenne il silenzio con un cenno.
— Però — proseguì — il messaggio avverte che la zona in cui ci troviamo è formicolante di truppe
russe nelle quali stiamo per imbatterci, il nemico non vuole lasciarsi sfuggire la preda tanto
cacciata. Dovremo perciò deviare e tentare di sfuggire a un ultimo accerchiamento. Devieremo a
nord e punteremo su Novi-Oskòl, un paese ove esiste un presidio germanico. Dobbiamo compiere
un ultimo sforzo e saremo salvi! Fra qualche minuto si riparte.
Poco dopo la colonna era nuovamente in marcia e il passo di tutti aveva acquistato una leggerezza
dimenticata, perfino la fame sembrava vinta, nessuno più si attardava lungo il cammino, i feriti
avevano troncato ogni lamento e si udivano le loro voci parlottare sotto le coperte. L'andatura
acquistò perfino un ritmo celere che fu tosto abbandonato perché gli ignari muli non reggevano;
anche alla tredici una bestia s'afflosciò morta fra le stanghe.
— Non sprecate le forze, date retta ai muli che vi insegnano come si deve fare!
Non è ancora finita, illusi! — ammoniva Scudrèra.
— Bisogna fare presto — diceva fervorosamente Sorgato; — i russi non devono più trovarci.
Due autoblindo cingolate germaniche, sparuti residui che la neve non era ancora riuscita a ingoiare,
sopravanzarono le schiere in marcia rotolando faticosamente verso la testa della colonna.
— Vedete? vanno avanti — disse allegramente Ferrieri ai soldati; — ci aprono la strada.
— Il Comando pensa che sia possibile uscire dalla sacca, adesso? — chiese sottovoce Serri
accostandosi a Reitani.
— Il colonnello mi ha detto che esistono ancora molte incognite — rispose il capitano; — pare che
le forze russe stiano stendendo un grosso cordone dinanzi a noi per sbarrarci la strada all'ultimo
momento. È quello che diceva Brogli, poveretto... Bisogna stare molto attenti e non lasciarci
sorprendere, l'essere costretti a un combattimento sarebbe la nostra rovina, perché anche la
Tridentina è ormai senza munizioni. Ora stiamo puntando su Novi-Oskòl, se riusciamo a
raggiungerla dovremmo essere in salvo.
— Ma non possono venirci incontro, dalle nostre linee?
— Non esistono ancora linee vere e proprie, ma soltanto avamposti isolati, isole di resistenza. Temo
che l'iniziativa sia sempre nelle mani dei russi e che i tedeschi stiano ancora indietreggiando.
Dopo qualche ora di cammino, gli uomini della tredici raggiunsero una delle due autoblindo e con
grande delusione videro che stava bruciando.
— Hanno accumulato tutto il carburante nell'altra — corse voce; — è andata innanzi ad esplorare,
la meta non è lontana. Verso il mezzogiorno una notizia dilagò da schiera a schiera: — Ancora sette
chilometri e saremo a Novi-Oskol!
Fremiti di ansia e di speranza si accavallavano negli animi degli uomini, ogni più tenue indizio era
fonte di grandi entusiasmi e di improvvisi sconforti.
— Io non mi faccio illusioni — andava ripetendo Scudrèra — mi pare impossibile che tutto vada
così liscio e finisca con una passeggiatina.
— Ci trovi gusto a fare lo iettatore? — lo rimproverava il sergente Fraita. — E ti sembra davvero
che tutto sia andato liscio, finora?
— Si sa, io non posso avere il cervello di un sergente — diceva di rimando Scudrèra; — ma ti dico
che i muli non sentono ancora odore di stalla e io ho dato sempre retta a loro, non a te. Lo so da un
pezzo che arriveremo, ma non ci siamo ancora.
La colonna lasciò l'alta neve della steppa e sbucò su una pista ben battuta, le slitte dopo tanti giorni
di terreno rotto scivolavano ora placidamente, i soldati si indicavano a gran voce i cartelli che, tratto
tratto, ai lati della pista in bei caratteri in stampatello annunciavano: Novi-Oskol.
La colonna si fermò, Reitani fu chiamato avanti.
— Novi-Oskol è a quattro chilometri — comunicò al ritorno; — una radio tedesca ha ripreso a
funzionare, siamo stati avvertiti che la strada è sbarrata da almeno tre reggimenti di cavalleria russa.
Il presidio tedesco questa notte è stato sbaragliato e il paese è in mano ai russi.
Con sguardo atono gli uomini fissavano in silenzio il capitano, le braccia penzolavano lungo i
fianchi, le spalle erano ritornate curve. Mesi di sofferenze riemergevano fra le rughe dei visi vizzi.
— Non ci perderemo d'animo per questo — esclamò con vigore Reitani; — ora i reparti della Julia
scenderanno al riparo in quella valletta, ci inquadreremo, terremo pronte le armi individuali che ci
rimangono e attenderemo ordini. Il Comando della colonna sta predisponendo il piano d'attacco.
I soldati trascorsero due interminabili ore nella valletta mentre si udivano spari lontani. Il Comando
della colonna tentò di ricavare, tra la massa degli uomini in sosta, soldati e armi sufficienti a
sfondare l'ostacolo; ma i combattimenti precedenti e la folle vicenda avevano ridotto talmente
l'efficienza di quei superstiti, che fra le molte migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi, romeni
presenti non fu possibile racimolare un battaglione di uomini armati in grado di combattere. La
possibilità di superare lo sbarramento di Novi-Oskol svaniva. Per ultimo scherno il destino ribadiva
la condanna sugli sciagurati ormai giunti a prezzo d'ogni tortura sulla soglia della salvezza.
Stavano questi fra le slitte, in preda all'accasciamento; guardavano intorno posando gli sguardi sulla
fiumana di rottami umani che stagnava sulla neve.
Nell'immobilità, negli atteggiamenti, nei volti portavano il marchio degli uomini che il destino ha
vinto e s'appresta ad annientare. Qualcuno ancora, con gesti stanchi e inutili, verificava le
condizioni del proprio fucile, contava le due o tre pallottole che gli rimanevano, restava poi con
l'arma fra mano a guardare con espressione d'ebete la neve nella quale sprofondava fino al
ginocchio; si sentiva perduto.
Serri, cupo e silenzioso, stando seduto sul bordo di una slitta, con fissità osservava da tempo e senza
scopo una sella che un soldato aveva gettato sulla neve a pochi metri da lui; sulla sella era venuto
poi a sedersi uno sconosciuto capitano che appoggiando i gomiti alle ginocchia se ne stava
immobile nascondendo il viso fra le mani, incurante del ghiaccio che incrostava i guanti e che
doveva gelargli la faccia.
Il medico non riusciva a staccare lo sguardo dall'uomo, poiché gli pareva che quell'essere cencioso e
immobile, del quale non era ancora riuscito a vedere il viso, gli riflettesse l'immagine di ciò che
anch'egli era diventato: una miserabile carcassa tenuta viva da un cuore che non aveva ancora
saputo cessare di battere.
Dopo forse mezz'ora quel capitano abbassò le mani alle ginocchia, diede un lungo sguardo intorno;
la barba bionda gli ricopriva la faccia fino agli zigomi lividi, gli occhi erano celesti, calmi, quasi
fanciulleschi, sereni tanto che sembrava si trovassero per errore in quel viso macerato dal
patimento.
Il capitano si sfilò i guanti, scostò lentamente un lembo del cappotto, frugò in una tasca dei
pantaloni e trasse un piccolo oggetto lucente che ripulì a lungo e con cura, sfregandolo nella sciarpa
di lana che portava al collo; vi alitò sopra, soffregò ancora, lo guardò con evidente soddisfazione.
— Un suo anello — si disse Serri; — poveretto, sta pensando alla sua famiglia.
Il capitano mutò occupazione: aveva levato di tasca una piccola rivoltella, la teneva fra le mani con
attenzione, verificò che fosse scarica, soffiò più volte nella canna, introdusse in essa quell' oggettino
lucente che Serri allora comprese essere una pallottola; il capitano richiuse l'arma, parve annoiarsi
poiché distolse lo sguardo dall'arnese che andava ormai rigirando sovrappensiero fra mano, e volse
pigramente gli occhi a ciò che aveva intorno; guardava i muli pazienti e scheletrici, le slitte
immobili cariche di carname dolorante; abbassò lo sguardo alla neve che lo divideva da Serri, portò
la rivoltella alla tempia e sparò. Serri si slanciò verso il capitano e gli si fermò interdetto innanzi,
perché quello già stava sfilando la cartuccia dalla canna dell'arma; come l'ebbe sulla palma della
mano la considerò con attenzione e quindi, avvertita la presenza del medico e indicandogli il
fondello del bossolo tranquillamente disse: — Mi ha fatto cilecca, vedi? Doveva essere umida,
penso. Niente di male.
Disorientato, il medico fissava gli occhi sereni del capitano: nel celeste vagolava indistinta
un'espressione fra l'ironico e il meravigliato.
— Cos'hai da guardarmi in quel modo? Ti ho fatto qualcosa? — domandò il capitano.
— Siete impazzito, capitano? Datemi quella rivoltella! — esclamò Serri.
— Credi che voglia riprovare? A che scopo? — disse l'altro; e rise. — No — proseguì con accento
annoiato — non mi interessa. O ti fa gola quest'arma? È buona, mi è sempre andata bene, la colpa è
stata della cartuccia che era umida.
Tieni, te la regalo se ti piace. — E gli porse l'arma.
— Ma perché avete tentato d'ammazzarvi? — chiese Serri completamente sconcertato.
— Così. Tant'è — rispose il capitano. — Mi chiedi il perché? Forse che anche tu, che fai lo
scandalizzato, non tenti di ammazzarti? Non tentano tutti d'ammazzarsi?
Per tutta risposta Serri non riuscì a fare di meglio che spalancare gli occhi.
— È così, ti dico — proseguì con espressione annoiata il capitano; — tentiamo tutti d'ammazzarci,
da dodici giorni a questa parte, con la scusa di correre dietro alla storiella della sacca da varcare...
Provano tutti ad ammazzarsi, anche tu; tutti, ti dico, in ogni modo, con tutti i mezzi possibili. Ma
non ci riusciamo, questo è il nostro destino. Hai visto cosa mi è successo poco fa? Ho tentato, ho
fatto tutto quello che potevo, ho scaldato nelle mani la pallottola, l'ho lustrata, le ho alitato sopra,
l'ho pregata, non doveva bastare?
Nossignore; la cartuccia era bagnata, mi tocca ancora vivere, non c'è via di scampo. Di', giovanotto,
mi prendi forse per un pazzo? E allora — disse cedendo a un disperato accento — tieni a mente
quello che ti dico: a noi non resta che l'inferno, per migliorare questa sorte dannata. Sistemati per
sempre, no? E la colpa? Ci pensavo poco fa, con la rivoltella in mano: la colpa va divisa. Un po'
mia, un po' tua, un po' di tutta la gente del mondo: ciascuno ha fatto o non ha fatto qualcosa, a
tempo debito, per arrivare alla guerra. Noi saldiamo il conto ora, amen. E gli altri? Speriamo che il
nostro esempio serva almeno a chi verrà.
S'infilò svogliatamente i guanti sulle mani diventate nere per il freddo, senza più dare un'occhiata al
medico s'alzò, si rigirò e lo piantò in asso sulla neve.
S'annunciava il tramonto, giunse un inesplicabile ordine: rimettersi in marcia e seguire la testa della
colonna qualunque fosse la stravaganza del percorso, mantenere sempre strettissimi contatti.
— È stata abbandonata l'idea di attaccare il paese, non siamo assolutamente in grado di sfondare —
spiegò Reitani a Serri. — Il generale Nasci ha condiviso il piano suggerito dal nostro maggiore
Fabbri e appoggiato dal colonnello Heidkaemper, che da quando è morto il generale Eibl comanda i
reparti tedeschi: tenteremo un'ampia diversione, ci sforzeremo ad ogni costo di superare la ferrovia
e attraversare il fiume Oskol.
Che Dio ce la mandi buona, giochiamo il tutto per tutto.
Con grandi stenti la colonna s'inoltrò nella neve alta, raggiunse e superò il terrapieno della ferrovia
e si accingeva ad oltrepassare la superficie gelata del fiume quando una «Cicogna» sbucò
improvvisamente dalle ombre del tramonto e sfiorando la colonna disegnò verso sud un ampio
semicerchio nell'aria, quasi indicasse una direzione; subito scomparve.
La testa della colonna operò allora una rapida conversione, precipitosamente ritornò sui propri passi
e riattraversò i binari ferroviari, puntò svelta verso sud seguendo la traccia indicata dall'aereo, piegò
all'improvviso ad ovest addentrandosi in un terreno impervio, superò ancora una volta la ferrovia, si
buttò al fiume e lo oltrepassò all'impazzata sempre trascinandosi dietro, come un gregge affannante,
la marea d'uomini e di slitte. Fra la neve altissima in cui i muli affondavano fino al ventre e le slitte
dovevano essere sospinte a braccia, attraverso continui estenuanti dislivelli di terreno la colonna si
riportò sulla libera steppa e camminando alacremente fino a notte fonda si trovò ad aver raggiunto il
paese di Towolosanka.
— E Novi-Oskol? — chiedevano i soldati.
— L'abbiamo lasciato alle nostre spalle — rispondevano raggianti gli ufficiali.
— Riposiamo per poche ore, alle tre si riparte — annunciò Reitani alla tredici; — la «Cicogna»
tedesca ha segnalato tutto attorno la presenza di forti reparti russi in movimento, che indubbiamente
stanno dandoci la caccia.
Una smania incontenibile si era impadronita dei soldati, che non riuscivano a prender sonno. Se ai
muli non fossero state indispensabili alcune ore di riposo, sarebbero subito ripartiti anziché starsene
a giacere sul pavimento delle isbe a masticare pezzi d'intonaco delle pareti e a succhiare fibre di
legno.

12.
A mezzanotte un artigliere scosse Reitani e avvertì che molte slitte tedesche stavano partendo. Il
capitano s'affacciò alla porta dell'isba e chiese ai tedeschi in transito dove andassero.
— Nach west! — fu la frettolosa risposta. — Nach west! Ruski soldaten...
— Cosa succede? — domandò Ferrieri nervosamente.
— Quando quelli filano hanno sempre ragione...! Sento puzza di bruciato... — commentò il
sergente Fraita.
In un lampo tutti i dormienti vennero risvegliati, la colonna si riformò e si disperse nel buio della
notte; sgombrando il paese dinanzi ai russi che sopraggiungevano riuscì ad evitare l'agganciamento.
Nonostante il brusco risveglio e la precarietà della situazione, nuove linfe parevano circolare nel
corpo dei camminatori, il freddo stesso sembrava fare minor presa sugli arti raggelati.
La colonna raggiunse e superò il fiume Oskol.
— Ma non l'abbiamo già passato ieri sera? — chiedeva interdetto Scudrèra.
— Si, ma questo è certamente ancora l'Oskol — confermava Ferrieri.
— Non si capisce più niente, siamo nel mondo della luna! — commentava Pilòn con fanciullesca
allegria. Tutto andava acquistando stranamente il sapore di un avventuroso giuoco.
— Questo è Barssuk — dissero i soldati all'alba, entrando in un paese disabitato e frugando
sveltamente nelle isbe in cerca di rifiuti — è scritto sulle tabelle del Kolkoz.
— In questo capannone c'è un deposito di patate! — gridò con trionfale entusiasmo il sergente
Fraita. E torme d'uomini si precipitarono sul mucchio, si riempirono le tasche, uscirono masticando
e gridando; infilavano patate sotto le coperte delle slitte, i feriti esultanti mangiavano avidamente i
tuberi gelati e ancora incrostati di terra, ingurgitando con essi motivi di nuove speranze.
— Adesso si va a Morosowa Balka — annunziava qualcuno che aveva afferrato al volo il nome,
colto nella conversazione di due ufficiali superiori.
— Stiamo per arrivare a Morosowa Balka! — esclamavano. tutti con gioia, mentre la notizia si
diffondeva di bocca in bocca e il nome, fino a un minuto prima sconosciuto, acquistava il ridente
significato di terra promessa.
— Forza! A Morosowa Balka! A Morosowa Balka! — gridavano i soldati masticando patate crude e
affrettando il movimento dei piedi sulla neve: e l'esaltante potere di suggestione di quelle parole era
tale che ciascuno pareva sottintendere per vecchia nozione che Morosowa Balka era l'augusto nome
della porta del paradiso.
Sulla pista scintillante sotto il primo sole aleggiò all'improvviso una «Cicogna», salutata dai clamori
degli uomini in marcia.
— Ha i pattini! Scende! Scende! — fu l'effuso grido di migliaia di uomini.
Il pensiero che qualcuno venisse a contatto con la colonna, che una presenza fisica s'accostasse
alfine ai disperati figli dell'abbandono era veramente inebriante, faceva venire le vertigini,
richiamava il pianto alle ciglia dei marciatori.
L'apparecchio planò, i suoi pattini strisciarono con leggerezza sulla neve, si fermò palpitando.
Pareva davvero, visto tra le palpebre socchiuse e tremolanti di lagrime, una celestiale farfalla entrata
dalle rispalancate finestre della vita per posarsi sul candido, trionfale lenzuolo. Perfino la neve, in
quell'ora, tornava ad essere bella.
— È sceso — balbettò Covre.
— Guardate! È sceso...! — ripetè l'infermiere Zoffoli.
— Madonna mia, si è fermato...! — gridò dalla slitta il puntatore Foresti.
— È con noi! Guardatelo... Ma guardatelo...! — urlava Scudrèra tentando di torcere, con gli
avambracci, le teste dei muli verso l'aereo.
Senza dolore, i soldati si mordevano per felicità le mani rigonfie e spaccate.
I piloti dell'aereo, sotto l'ala, ebbero un lungo colloquio con alcuni alti ufficiali accorsi dalla pista,
accanto alle slitte i camminatori in sosta guardavano con occhi brillanti l'incredibile scena.
L'apparecchio ripartì, Reitani venne chiamato a rapporto.
— Stiamo avvicinandoci agli avamposti dell'Asse — riferì al ritorno; — ma l'equipaggio della
«Cicogna» ha avvertito che il fronte è ancora in movimento, la situazione muta di ora in ora, i
presidIl tedeschi arretrano continuamente, dobbiamo affrettarci.
Il peggio è che l'aereo ha avvistato nella regione molte colonne russe che puntano verso di noi,
tentano ancora una volta di rinserrarci in un cerchio. Non andremo più a Morosowa Balka,
cadremmo in bocca al lupo; punteremo di nuovo a nord, non dobbiamo darci per vinti proprio ora,
abbiamo davanti ancora molte incognite. Ma coraggio, riusciremo a portarci in salvo!
Ancora una volta la steppa parve allargare all'infinito i suoi confini, gli uomini si sentirono deboli di
fronte alla smisurata vicenda, le slitte deviarono, la colonna mosse sulla neve alta verso nord.
— Da qualche giorno stiamo andando avanti a zig-zag — disse innervosito Covre a Serri; — di
questo passo non arriveremo mai...
— Non ti sei accorto che abbiamo sempre avanzato in questo modo? — lo confortò l'ufficiale; —
eppure abbiamo lasciato indietro di almeno trecento chilometri il nostro carro armato di Novo
Georgiewka. Te lo ricordi?
— Non vorrei trovarmelo di nuovo di fronte — disse l'attendente dando una sospettosa occhiata in
giro sulla steppa.
La reazione agli entusiasmi della mattina appesantiva ora le ginocchia, il freddo trovava
nuovamente indifese e languenti le carni dei marciatori. La fame aveva riconquistato vittoriosa il
posto dei tuberi di patata, che quasi tutti i soldati andavano vomitando senza interrompere il
cammino per non perdere venti passi di vantaggio.
Nel pomeriggio comparve nel cielo un aereo tedesco da trasporto che rimorchiava un grosso aliante,
s'aggirò lentamente sulla colonna, s'abbassò e sganciò l'aliante che planò sulla neve, subito
circondato dai soldati tedeschi.
Conteneva viveri che vennero distribuiti fra le truppe germaniche, gli incappucciati fanti tedeschi
camminavano frammisti agli italiani masticando cioccolata e lardo affumicato. Gli italiani
guardavano con occhi dilatati, qualcuno non resisteva al desiderio, ammiccava, indicava il cibo e
stendeva la mano.
— Nein — rispondevano seccamente quelli; — non si può. — O non dicevano nulla e masticavano
guardando innanzi con occhio atono, come se non avessero inteso.
— Strangolatevi, carogne! — imprecavano i delusi deglutendo convulsamente e portando neve alla
bocca.
Qualcuno cadde, strisciava penosamente sulla pista come uno spaventoso verme con voce umana,
veniva inghiottito dal buio prima che dalla neve; tutti gli altri arrancavano verso l'indistinta
speranza.
Come, come aiutare i caduti se le slitte da due settimane erano sovraccariche di feriti e gli uomini
che ancora marciavano si reggevano in piedi soltanto per virtù di uno sforzo disperato? Ora, in
prossimità della meta, all'animo dei marciatori riappariva in tutta la sua spaventosa potenza l'orrore
che si levava da quei corpi distesi; per l'addietro li avevano guardati senza fremere, li avevano
incontrati a centinaia ogni giorno e li avevano scansati, quasi fossero paracarri abbattuti, ancora utili
a segnare la via di quel calvario alla gente attardata; ma ora la loro carne gelida emanava
nuovamente un tragico richiamo.
La colonna procedeva a rilento, frazionata su molti chilometri; ogni tanto dalla coda giungeva l'eco
di spari, si spargeva voce d'attacchi russi, ciascuno tentava d'affrettare il passo, i conducenti
aizzavano i muli sfiancati.
Dopo tredici ore di marcia ininterrotta, raggiunto il paese di Besserab, il tratto di colonna in cui era
inserita la tredici ricevette ordine di sostare. Le isbe erano semidistrutte, le pareti interne delle
stanze erano incrostate di ghiaccio, gli uomini distesi a passare la notte sui pianciti battevano i denti
per il freddo. Non dormivano, tendevano l'orecchio ad ogni lontano rumore portato dal vento,
temendo sempre d'essere sorpresi dai russi.
Nell'ottenebramento dei sensi s'alternavano, come in un delirio, dolci immagini e cupe apparizioni;
labbra in sorriso e visioni di sole fiorivano nell'aria buia, poi sembrava che fucili mitragliatori
venissero puntati dalle finestre divelte ed enormi carri armati passassero all'improvviso stritolando i
giacenti.
Dal brulicame dei corpi distesi venivano mormorii, gemiti, urli laceranti o rattenuti, sospiri lunghi e
infelici, digrignare di denti, pianti sommessi, sobbalzi nervosi: la speranza e l'orrore scuotevano con
pari violenza le anime e i corpi, incanalandoli a forza e come ciechi in un unico angusto passaggio
da cui tendevano la mano, offrendo tacita guida, la salvezza, la pazzia o la morte.

13.
L'alba del trenta gennaio raggiunse la colonna già in marcia, la notte era trascorsa senza sorprese.
— E oggi dove andiamo? — chiedevano ansiosamente i soldati agli ufficiali.
— Non si sa, faremo come ieri, speriamo bene.
La giornata s'annunciava serena, la temperatura era gelida, i marciatori calzati di cenci trascinavano
frettolosamente gli stracci nella neve.
Dopo le dieci gli uomini della tredici avvistarono un'autoblinda ferma al margine della pista,
procedendo notarono che sul tetto della macchina stava in piedi un uomo e pareva parlasse ai
soldati.
— È il Comandante del Corpo d'Armata Alpino, è il generale Nasci! — esclamò con sicurezza
Bartolan, occhio di falco.
Avvicinandosi, gli artiglieri si avvidero che il generale dall'alto dell'autoblinda diceva qualcosa ai
soldati man mano che questi gli sfilavano davanti.
— Tredicesima batteria — disse Reitani salutando, quando passò innanzi al generale.
— Bene! — rispose il Comandante del Corpo d'Armata Alpino; gli occhietti gli sorridevano nel
paffuto volto montanaro, da tutta la corpulenta sagoma sprizzava un'aria di ridente fiducia. — Bene,
artiglieri alpini! — continuò il generale; — da tre ore siamo usciti dalla sacca, lo sapete? Qui i russi
non sono ancora arrivati, questo è territorio presidiato dalle forze dell'Asse, lo sapete? Ma bisogna
tenere ancora gli occhi aperti perché i presidii sono distanziati e sempre in pericolo, possono dover
arretrare da un'ora all'altra; capito? Capito bene?
No, non capivano i soldati che gli passavano dinanzi a schiere, sembrava avessero capito quasi nulla
di quelle parole, si limitavano a sgranare gli occhi e a portare con gesto impacciato la mano gonfia
alla fronte, nel tentativo di salutare alla vecchia maniera resa inconsueta dai giorni folli;
continuavano a marciare volgendo per un poco la testa all'indietro, a fissare ancora il generale,
indecisi, poi guardavano avanti e attorno con aria stranita, sempre trascinandosi sui loro stracci; a
vederli dall'alto dell'autoblinda, dovevano parere tardi come i loro muli che non avevano badato al
generale e continuavano a zampettare malinconici, a dondolare le testone dalle orecchie
incappucciate di ghiaccio.
— Ohe! — urlò con evidente disgusto Scudrèra dando la sveglia — si' tutti insemenii? Siete tutti
insemeniti?
— Siamo fuori dalla sacca, mamma mia... — gridò istericamente da una slitta un ferito strappandosi
di dosso le coperte.
— Viva l'Italia! — gridò però con voce strozzata il conducente Pilòn dall'ultima slitta; e l'urlo risalì
fra i dieci traini e giunse fino a Reitani che marciava in testa alla tredici, diede avvio a ciò che fino a
quell'istante era inesprimibile.
— Viva l'Italia...! Viva l'Italia...!!! — proruppero allora in un unico urlo forsennato, felice, disperato
d'amore e di gioia i settantotto superstiti della tredici.
— Viva l'Italia! — gridarono alla steppa, al cielo, alla neve con la loro prima voce d'uomini
nuovamente vivi, risorti d'un balzo.
Poi, la realtà venne incontro affascinante e incredibile come una fiaba. Nella piena luce del giorno
la colonna puntò senza esitazioni verso le piste di grande comunicazione, sfilò lungo un paese
mentre gli abitanti si affacciavano alle isbe e congiungevano le mani in gesti di grande
commiserazione nel vedere quegli avanzi d'uomini sfigurati e stracciati; le donne correvano nelle
cucine e uscivano reggendo ciotole di latte che offrivano ai soldati, le luride barbe s'affondavano
nella schiuma, nelle gole gorgogliava il bianco liquido e gli occhi scintillavano d'inesauribile
avidità. La colonna si spezzettò in innumerevoli gruppetti che sostavano d'isba in isba, correvano a
portare cibo ai feriti costretti nelle slitte, ritornavano a ricevere più grandi ciotole dalle mani della
popolazione russa.
— Là — accennò con un dito a Scudrèra un sorridente vecchio, indicando una cassetta nel recinto
dell'orto.
— Siamo in paradiso! — gridò estasiato il conducente appena riuscì a rimuovere il coperchio; trasse
e portò alla bocca una spessa lastra bucherellata, con i denti strappò al sottile sostegno di rete
metallica un grosso blocco pastoso e si diede a mangiare con una espressione di felicità.
— Venite, imbecilli, non capite che è miele?! — gridò ai compagni, masticando e sputando dalle
labbra impiastricciate cera e api morte.
— Anche a me...! Anche a me...! — imploravano dalle slitte gli alpini dagli arti congelati,
spalancando avidamente la bocca e protendendo il viso.
— Andiamo avanti, non vedete che il paese è lungo chilometri? Non restiamo indietro! —
gridavano gli ufficiali; e gli artiglieri salutavano con grandi gesti, abbracciavano le donne che si
schermivano ridendo, procedevano a piccoli tratti masticando burro, api, pane, cera, miele,
imbrattandosi i baveri dei cappotti e le dita congelate con i favi appiccicosi, soffermandosi poi più
innanzi, quando altre mani tendevano nuove offerte e altri occhi dimostravano pietà.
— È finita la storia delle rape marce! — esclamavano sgranocchiando con impressionante rapidità
le pagnotte donate dai russi.
— Mangiate poco, ragazzi, è pericoloso mangiare così, potete morire d'indigestione, dico sul serio!
— raccomandava Serri, stringendo a due mani un pane di forse tre chili di cui aveva già inghiottito
la metà.
— Sarà quel che Dio vorrà, signor tenente! Sono quindici giorni che viviamo di niente! — gridò
Bartolan.
— Di porcherie da maiali, lo sapete...! — aggiunse Covre.
— Moriremo con voi, tutti insieme, pieni di pane e di latte!
— esclamò Pilòn.
— Come i bambini! — rise Zoffoli.
— Andremo di sicuro in paradiso! — affermò Sorgato.
— Col cappellano in testa, morto d'indigestione! — completò Scudrèra, tra felici risate.
Animalesca, sfrenata, dal profondo delle viscere la fame non desisteva dall'urlare imponendo
d'essere saziata.
— Si sentono lontani rumori di carri armati, alle nostre spalle — avvertì il sergente Bartolan.
Come frustata, la colonna procedette con più celerità sulla neve che pareva diventata soffice e
amica, in una quasi ininterrotta cornice di isbe accoglienti. Nell'animo di ciascuno si faceva
lentamente strada un pensiero chiaro, sereno, semplice: siamo salvi, nulla al mondo potrà essere più
duro di quanto abbiamo passato.
Il passo era diventato leggero, l'anima lieve. Solo la fame rimaneva insaziabile, pareva anzi essere
aumentata dopo il primo appagamento. Ma il vivere era una stupenda verità scintillante di
magnifiche sorprese.
Ecco un agnello, un agnellino nero, che spaventato dal trambusto saltella sulla neve
approssimandosi alle slitte della tredici; traballando va a finire tra le lunghe gambe dell'infermiere
Zoffoli. L'affamato spalanca gli occhi, vede già l'arrosto e prende fra le braccia la bestiola belante.
Ma una bimbetta, sulla soglia dell'isso, piange e chiama l'amico nero che se ne va; intorno alle slitte
si levano grida di protesta, Scudrèra strepita e minaccia, Reitani fa un cenno, l'infermiere riporta
l'agnellino alla bimba che si fa tutta sorriso.
La madre, che mortificata taceva in disparte, con ampi gesti saluta i soldati, segue per un poco la
colonna affannandosi a dire: — Spassiba, spassiba; grazie, grazie!
Ma è vita ormai questa, vita vera di tutti i giorni, vita d'uomini, non di lupi braccati!
Nel pomeriggio la colonna giunse nel paese di Bolshtrojzkoje e si accantonò agevolmente nelle
isbe. Non si trovava ancora in zona di sicurezza, ma il sapersi fuori dall'immediato e costante
pericolo dava a tutti un senso di totale tranquillità.
— Dobbiamo stare all'erta — ammonivano gli ufficiali; — abbiamo ai fianchi alcuni capisaldi, ma
la via dell'est è aperta e indifesa, i carri armati russi possono piombare su di noi quando vogliono.
Venne fatto un primo smistamento dei soldati di altri reparti che negli ultimi tempi avevano
marciato nelle file del colonnello Verdetti; Serri con gli aiuti offerti dalle donne russe potè
finalmente rinnovare le fasciature ai feriti e ai congelati, constatando con grande stupore e sollievo
che qualche ferita era rimarginata e le condizioni di buona parte degli infermi non erano peggiorate.
Soltanto alcuni congelati presentavano lesioni terrificanti.
Tutti si crogiolavano in una paradisiaca sensazione di pace, nelle isbe i contadini russi offrivano
volentieri alimenti, gli artiglieri poterono suddividersi abbondanti razioni di patate bollite, latte e
perfino qualche gallina.
E finalmente a sera, dopo quarantacinque giorni di disperata vita guadagnata ora per ora
strappandola al gelo, alla morte e all'assurdo, dopo quindici giorni di accerchiamenti, undici
combattimenti e settecento chilometri percorsi nella neve della sacca, il primo sonno riposante scese
sugli uomini della tredici.

14.
Il capitano Reitani guardò i suoi uomini allineati a fianco delle slitte e pronti a incolonnarsi per
riprendere il cammino. Tremavano di freddo, poiché alle sei di mattina di quel trentuno di gennaio
l'aria era mordente, ma dai visi raggrinziti trasparivano luci di rinnovata speranza.
Il capitano sapeva che la notte aveva fugato le inevitabili deformazioni d'entusiasmo del giorno
precedente, e che la realtà parlava ora agli artiglieri il suo linguaggio; la vicenda era tutt'altro che
conclusa: erano uomini dai piedi mozzi dal gelo, soldati dispersi e malati, in terra di nessuno, fra
due eserciti ferocemente contrapposti. Il capitano vide e comprese, sentì il cuore stringersi di pena e
d'amore.
— Il Comando della colonna ha preso contatti con il Comando dell'Armata Italiana, forse oggi
stesso ci verranno inviati incontro i primi rifornimenti, sono certo che questa vicenda sta per
chiudersi — disse con voce alta e sicura, egli che non aveva mai illuso i suoi soldati; — oggi
faremo una breve marcia di venti chilometri, raggiungeremo il paese di Par. Batteria avanti.
«Batteria avanti» aveva detto il capitano, come soleva fare nei vecchi buoni tempi all'inizio delle
pacifiche marce d'esercitazione, o anche in guerra quando il reparto era un ferreo complesso di
forze; non aveva più pronunciato quella frase nelle ultime settimane.
Il sole era già alto, quando una breve fila di autocarri si profilò all'orizzonte e portò il subbuglio
nell'animo dei camminatori.
— Sono italiani! — esplosero cento, mille voci mentre tutti gli occhi s'appuntavano ai veicoli. I più
vicini vennero presi d'assalto, gli autisti vennero abbracciati freneticamente, gli uomini passavano le
mani sui parafanghi, s'abbassavano a toccare i pneumatici e i fari.
— Vedi? Gomme Pirelli, le solite — dicevano con un nodo alla gola, scorrendo con un dito sulla
dicitura in rilievo stampata sulle coperture.
— Questo è una «Lancia 3 Ro», ottima macchina — dicevano.
— Presto, Italo — comunicò Reitani; — devi scegliere venticinque feriti e congelati della batteria,
da caricare sugli autocarri; saranno trasportati direttamente agli ospedali.
— Ho già preparato le liste ieri, con precedenza secondo la gravità — assicurò il medico
avvicinandosi alle slitte. — Cominciamo da Foresti.
Gli infermi designati furono tolti dagli immondi giacigli sui quali avevano vissuto e sofferto per un
incalcolabile tempo, i compagni li trasportarono a braccia e li issarono sugli autocarri.
— Ritorneremo presto! Arrivederci! Grazie d'averci portato in salvo! — mormoravano i partenti ai
più vicini con fioche voci; e agitavano stancamente le braccia ossute a salutare i più lontani e gli
ufficiali.
Dalle slitte, i feriti e i congelati meno gravi seguivano ogni movimento e ogni scena con occhi
smorti e desiderosi, sforzandosi di sorridere.
— Voi al più presto, forse oggi stesso, gli autocarri vanno e tornano — assicurava Serri da slitta a
slitta.
Le macchine partirono e presto scomparvero, i restanti ripresero in silenzio la marcia sulla neve.
Giunsero a Par nel pomeriggio, si accantonarono nelle isbe. Le famiglie russe offrirono patate e
latte, acqua calda e filacce per ripulire le ferite, sorrisi amorevoli e lunghe esclamazioni di pena nel
vedere i segni dell'estremo patimento.
— Venite dal Don? — dicevano i vecchi con occhi increduli; — d'inverno? A piedi nella neve?
Senza viveri? Nessuno ha mai fatto questo in Ucraina, è una cosa incredibile!
Ritornò la colonna degli autocarri, i feriti e i congelati rimasti furono posti sulle macchine in
partenza, mentre gli uomini ancor validi facevano corona vociando e affidando incarichi ai partenti.
— Gli autisti dicono che sarete subito rimpatriati!
— Salutateci l'Italia! — disse Pilòn.
— Avvertite le nostre famiglie! Dite che siamo ancora vivi...!
— gridò Scudrèra.
— Ma ricordatevi, ci raccomandiamo!
Partivano congelati e feriti d'Jvanowka, infermi che non avevano voluto lasciare la linea a Novo
Kalitwa, feriti di Novo Postojalowka, i sanguinanti scampati di Novo Georgiewka, di Nikitowka e
Nikolajewka, tutti coloro che avevano trascinato piaghe e carni aperte disseminando sulla neve della
steppa lacrime e dita mozze, piedi verdi di cancrena; partivano, portando con sé fame e pidocchi,
putridi stracci e odore di morte.
— Su, Scudrèra, sali sull'autocarro — disse Serri.
— Io? Perché? — domandò il conducente rabbuiandosi.
— Non fare lo sciocco; sbrigati, se ti premono le tue mani.
— Ma io sto già meglio, sono sicuro che...
— Non farci perdere tempo, sali subito, ti ordino di partire! — disse Reitani che aveva ascoltato.
— Queste sono ingiustizie... — brontolò Scudrèra arrampicandosi sull'autocarro e rintanandosi
mogio mogio in un angolo.
— Buon viaggio! Buon viaggio! — gridava agitando le mani chi restava, quando le macchine si
mossero.
Reitani e Serri rimasero a lungo sulla neve guardando gli autocarri che rimpicciolivano correndo
verso l'orizzonte. Il capitano fissò poi il medico negli occhi, volse lo sguardo verso gli uomini che a
capo chino rientravano a scaldarsi nelle isbe.
— Ecco conclusa la marcia nella sacca, Italo — sospirò guardando la neve. — C'era una volta la
tredici...
— In quanti siamo rimasti? — chiese il medico; — tu dimmi i nomi e io li conto.
— Io, tu, Ferrieri, i sergenti Bartolan e Fraita; Zoffoli, Covre, Sorgato...
Quanti ne ho detti finora?
— Otto.
— Pilòn.
— Nove.
Elencarono qualche altro nome, si ricontarono.
— Quattordici — mormorò Serri.
— Quattordici uomini, tredici muli, qualche fucile scarico, qualche rivoltella e gli stracci che
abbiamo ai piedi: ecco la tredici — disse con sconforto il capitano. Dopo una lunga pausa aggiunse:
— Era una bella batteria, ti ricordi?
— Si...
— Ti ricordi quando siamo venuti in Russia? Occupavamo un treno intero: duecentotrenta uomini,
centosessanta muli... i nostri quattro pezzi... le armi... le munizioni... i materiali... un treno intero.
— Ho freddo, Ugo — disse volutamente Serri, perché gli faceva male guardare il viso del capitano;
— rientriamo?
— Anch'io ho freddo; rientriamo — confermò Reitani rabbrividendo.
Nella neve polverosa i cenci che portavano ai piedi lasciavano dietro ai due uomini un solco
continuo, profondo. Di cose trascinate.
Nello stanzone dell'isba, Serri stava seduto su una delle due panche che contornavano la tavola.
Curvo in avanti, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, lo sguardo rivolto al pavimento di terra
battuta, pareva fissare un punto indistinto del terriccio, ma in realtà non distingueva nulla: in quel
momento era perso nel ricordo di casa, per la prima volta in quelle settimane di ritirata osava
abbandonarsi del tutto alla nostalgia della famiglia, indugiare sui particolari che la memoria gli
restituiva, rievocare i volti le voci le stanze, aprirsi interamente alla speranza del ritorno.
L'isba era abitata da una vecchia contadina rivestita di stracci imbottiti, da due donne ancor giovani
e da quattro ragazzini un po' allarmati e un po' incuriositi per la presenza di tanti soldati stranieri.
La vecchia donna si avvicinò a Serri e posò qualcosa di pesante sulla lunga panca su cui l'ufficiale
era seduto; il medico venne distolto dalle sue fantasticherie e fissò in viso la donna. Sotto il
fazzolettone bianco che le copriva i capelli, il volto esprimeva amabilità, sollecitudine, accorata
pietà.
— Doktor — disse la donna; e accennava con una mano a indice teso verso la panca, sulla quale
aveva appena appoggiato un grande bianco catino di ferro smaltato, ripieno d'acqua fumante.
— Doktor — ripetè sorridendo, e a incitamento e spiegazione fece il gesto di immergere le mani
nell'acqua. Il viso smunto si illuminava pallidamente nel sorriso, le rughe si approfondivano ai lati
degli occhi chiari e giovani, di ragazza; era in realtà una vecchia madre che ora attendeva di veder
ripetere dall'ufficiale lo stesso suo gesto; certo una madre dolorante che esercitava anche così la sua
maternità, nell'attesa del ritorno del suo figlio vero.
Serri le ricambiò il sorriso ringraziando, con due gesti rimboccò verso i gomiti i bordi delle maniche
del cappotto, immerse con prudenza due dita a saggiare la temperatura dell'acqua; e siccome era
sopportabile, con estrema lentezza e voluttà affondò nell'acqua calda le mani fino ai polsi e fissò la
donna, a farle ben intendere la sua beatitudine.
— Grazie. Spossìba, mama — le disse Serri.
— Bene — accennò quella, soddisfatta, approvando più volte col capo; e subito si volse, ritornando
rapida verso la sua grande stufa.
Ora Serri stava immobile, chino sul catino, già a occhi chiusi per percepire più intensamente tutte le
sensazioni che l'acqua calda gli provocava sulle mani: un movimento di vita che gli circolava
nuovamente nel palmo e in ognuna delle dita, un pizzicore infinitamente gradevole che gli saliva
dalle mani alle braccia e grado a grado gli risvegliava nel profondo un trionfale senso di gioia e di
felicità, così grande e vitale da far fatica a non mettersi a gridare; tale, da solo, da dargli la frenetica
certezza d'essere giunto finalmente in salvo. Da quasi cinquanta giorni, da quel sedici dicembre
allorché avevano dovuto lasciare quei loro rifugi sotterranei di Kuwschin, non aveva più avuto
modo e possibilità di lavarsi le mani con acqua, meno che mai calda, in quel gelo in cui tutto era
ghiaccio: soltanto qualche goccia di alcool denaturato — finché ce n'era stato — a disinfettare le
mani, a volte, nell'intraprendere all'aperto quelle crudeli medicazioni ai feriti.
Serri aprì gli occhi, ora voleva realmente vedere e constatare d'aver le mani proprio immerse
nell'acqua calda, lo inebriava quella incredibile realtà fisica.
Sì, veramente le mani poggiavano immobili sul fondo del catino, tutte contornate e scaldate da
quella divina acqua; ne scorgeva le dita vive e tutte salve, poteva contarle e muoverle ad una ad una,
tutte sane, tutte sue, ben visibili nella perfetta trasparenza dell'acqua, ora che questa aveva perso
temperatura e aveva cessato di fumare.
Fu allora che Serri, con improvvisa stretta al cuore, si avvide che dal fondo del catino, dalle dita
delle sue due mani, nello spessore del volume d'acqua lentissimamente salivano delle nubecole
serpentine, filiformi, che a spira si diffondevano nel liquido fino a giungere in superficie; e nel
salire cedevano qualcosa di sé che colorava l'acqua, la colorava di rosso: e quello era sangue, che
subito Serri distinse con raccapriccio e con pietà, poiché comprese che da cinquanta giorni portava
sulle mani strati di sangue dei suoi feriti e dei suoi morti di Jvanowka, di Novo Kalitwa e della
lunga ritirata; l'ultimo sangue dei suoi soldati scomparsi. Uno scuro spessore che egli riteneva
soltanto di sporcizia, inesorabilmente accumulato su quelle sue mani sempre raggelate, veniva a
quel punto dilavato e si scioglieva infine, su quella panca, in quel catino, nella vasta cucina-
dormitorio della grande isba russa.
— È mostruoso — diceva poco dopo in quell'unica isba che raccoglieva ormai tutta la tredici, il
colonnello Verdetti, che portava i segni dell'aspra sofferenza divisa con i soldati; — la Julia venendo
in Russia aveva circa ventimila uomini.
Sapete in quanti siamo usciti dalla sacca? In quanti siamo rimasti?
— Compresi gli uomini mandati agli ospedali? — chiese Serri.
— Compresi quelli.
— Diecimila... — azzardò Bartolan.
— Duemila trecento — rispose il colonnello.
— Spaventoso. Pare incredibile — disse Ferrieri mentre gli altri tacevano guardandosi sconcertati
negli occhi.
— La ritirata nella sacca ci pareva un disastro — proseguì il colonnello; — invece è stata una
tragedia senza nome, della quale soltanto ora siamo in grado di cominciare a renderci conto. Anche
le altre divisioni sono giunte svuotate, nella disgrazia noi non siamo neppure stati fra i più
sfortunati. Non avete ancora idea di quello che è successo durante le marce, vedevamo ciò che
accadeva intorno a noi, ma spesso non ci accorgevamo di quanto avveniva a chilometri da noi, nella
notte, nella tormenta, nei paesi durante le soste: la colonna era lunga molte decine di chilometri,
spesso discontinua, i reparti russi attaccavano la coda composta dagli uomini sbandati e più stanchi,
li isolavano e li catturavano; nel corpo della colonna battaglioni distanziati, reggimenti interi hanno
perduto i contatti, hanno sbagliato strada e sono caduti in blocco nelle mani dei russi. I morti in
combattimento sappiamo chi sono, gli assiderati caduti sulla neve li abbiamo visti, in tutto
rappresentano una cifra minima al confronto del numero degli assenti: mancano generali, colonnelli,
molte decine di migliaia di soldati, reparti al completo che sono rimasti prigionieri. Una tragedia
che non poteva essere più grave e dolorosa, figlioli.
— Qualcuno però sta ancora giungendo — disse Serri — è possibile che arrivino altri soldati
attardati lungo il cammino.
— È ciò che speriamo. Ci tratterremo qui per qualche giorno in attesa, se non arrivano i russi a
scacciarci.
— E poi, cosa faremo? — domandò Ferrieri.
— Non sappiamo. Probabilmente dovremo riprendere il cammino e arretrare ancora perché il fronte
è in movimento. Qui da un giorno all'altro arriveranno i russi.
Bisogna ridurre al minimo indispensabile il numero delle slitte, ripararle e tenerci pronti a rimetterci
in marcia. Forse sarà lunga, non abbiamo ancora finito.
— Non è possibile scrivere a casa? — chiese Pilòn.
— Ancora no, purtroppo — rispose il colonnello con un doloroso sguardo; a tutti era nota la
spasimante adorazione che aveva quell'uomo per la famiglia. — La situazione è caotica, anche più
indietro i servizi non funzionano. E pensare — soggiunse accentuando le rughe del volto — che da
due settimane la radio russa va comunicando che l'esercito sovietico ha rinserrato in sacche senza
possibilità di scampo centoventimila italiani in via di progressivo annientamento. Povere famiglie
nostre...
La giornata passò, i soldati mangiavano e dormivano; caduti in una prostrazione estrema che si
andava aggravando piuttosto che scemare col riposo.
All'indomani giunsero ancora sparuti gruppetti di uomini che superando l'isolamento e i rigori della
steppa riuscivano a sfuggire dalla sacca.
Giungevano in un lento stillicidio, sfiniti, moribondi di fame e di stenti, ad ogni ora qualcuno
spuntava dall'infinito biancore e alla vista dei compagni e alla notizia d'essere in salvo s'accasciava
privo di forze sulla neve; la steppa, come il mare, gettava tratto tratto a riva i relitti di un grande
naufragio.
Gli ufficiali e gli uomini dei vari reparti, per quanto il freddo lo concedeva si portavano al limite del
paese all'inizio della pista proveniente dall'est e spingevano lo sguardo sulla neve sterminata nella
speranza di veder spuntare qualche compagno, finché il gelo non li ricacciava tremanti nelle isbe.
Era prossimo il tramonto e Serri, rimasto ormai solo sulla neve in attesa, stava per rientrare
rinunciando alla speranza di poter rivedere anche per quel giorno Brogli, Perbellini e gli altri
compagni, allorché vide avanzare fra le prime ombre che calavano sulla steppa una figura solitaria
che si avvicinava con estrema lentezza: la lunga sagoma d'uomo dopo qualche passo sostava a
riposare, poi riprendeva il cammino con tranquilla costanza. Il medico gli andò incontro, presto si
trovò dinanzi ad un uomo barbuto, dai lineamenti gonfi e gialli; era ricoperto da una giubba senza
bottoni e a brandelli, i pantaloni alla zuava gli scendevano penzolanti fino alle caviglie, la testa
arruffata era priva di copricapo. L'uomo non aveva guanti alle mani screpolate dal gelo e i suoi piedi
erano ricoperti soltanto dalle calze incrostate di ghiaccio; guardava il medico con espressione
mortalmente stanca, ma gli occhietti nelle cavità approfondite fra zigomi e fronte ammiccavano
sorridendo.
— Frati...! — gridò il medico all'apparizione.
— Ciao — rispose con tranquillità il filosofo; — come stai?
— Come stai tu, piuttosto?! — esclamò Serri trasecolato.
— Io bene, ma ho perduto la pallottola.
— Quale pallottola? — domandò il medico con perplessità, colto da un improvviso dubbio sulle
condizioni mentali del compagno.
— Quella che mi è entrata e uscita dalla pancia e mi sono ritrovato in tasca, a Novo Postojalowka.
Hai perduto la memoria? — disse l'allampanato uomo fissando il medico con preoccupazione.
— Fa un freddo cane, andiamo in un' isba — disse Serri tranquillizzato, riprendendo il cammino e
passando un braccio attorno alla vita del filosofo per sostenerlo.
Ma Frati puntò nella neve le calze ghiacciate e si arrestò.
— Io non entro — disse con assoluta decisione — non voglio più avere a che fare con i russi, ne ho
abbastanza, preferisco piuttosto morire qui.
— Cosa stai dicendo? — domandò il medico nuovamente disorientato.
— Non voglio farmi fare ancora prigioniero — disse cupamente Frati.
— Prigioniero? Ma qui nessuno è prigioniero; ci sono il colonnello, gli uomini delle batterie —
disse Serri.
— Ci sono... Ma non siete... Ma non sono... — balbettò il redivivo —... tutti morti?
— Morti? Ma no, qui siamo fuori dalla sacca, siamo in salvo! — esclamò il medico interdetto.
— In salvo? — gridò con un rauco gemito il filosofo aggrappandosi e quasi cadendo sul compagno.
Ma si riprese tosto, riacquistò l'imperturbabilità abituale ed entrambi ripresero lentamente il
cammino.
— Cosa t'è successo? — chiese Serri; — dove hai messo il cappotto e le scarpe?
— I soldati russi mi hanno portato via tutto — rispose Frati; — mi hanno fatto prigioniero a
Nikitowka.
— T'ho visto. E poi? — domandò Serri allibito.
— E poi mi hanno messo in fila con tanti altri e abbiamo fatto una marcia fino a un altro paese, poi
siamo stati consegnati ad altri soldati russi che mi hanno tolto il cappotto e le scarpe.
— Vi trattavano così?
— Così? Io sono stato fortunato perché tutti quelli che mi guardavano in faccia si mettevano a
ridere, non so che gusto ci trovavano. Allora io facevo la faccia più cretina che potevo, loro
ridevano ancora di più e mi toglievano i bottoni e perfino i fazzoletti sporchi perché non avevo
altro, ma intanto mi lasciavano vivere.
— Vi davano da mangiare?
— Gli abitanti delle isbe ci davano qualcosa, quel che potevano.
— E poi?
— Al terzo giorno i soldati hanno portato via tutti, non so dove siano andati; io in quel momento ero
sulla stufa, sono rimasto là e più tardi mi sono accorto che ero solo. Nell'isba c'erano soltanto tre
soldati russi che mi hanno fatto capire che se tentavo d'uscire mi ammazzavano. Nel pomeriggio a
un certo momento non li vedevo, sono uscito e sono venuto qui.
— Sono venuto qui...? Ma quando tu sei stato fatto prigioniero a Nikitowka era la notte fra il
venticinque e il ventisei gennaio e oggi è il due febbraio! — esclamò Serri.
— Può darsi — disse tranquillamente Frati; — sono venuto avanti da solo pian piano, per non
stancarmi troppo.
— E la tua ferita?
— In principio bruciava, poi ha smesso.
— Hai incontrato altri soldati nostri?
— Sì, ogni tanto. Ma erano morti sulla neve, avevo preso un bastoncino e quando scorgevo un
mucchietto di neve lo frugavo: se c'era sotto un morto voleva dire che ero sulla strada giusta.
— Ma soldati nostri vivi, ne hai veduti?
— Sì, qualcuno. Ma quando ci vedevamo di lontano, giravamo alla larga a vicenda, per il timore
che l'altro fosse un russo.
I due ufficiali erano giunti al paese. Sulla soglia di un' isba il medico disse: — Ecco, qui c'è il
comando della quattordici, la tua batteria. Ti lascio entrare da solo, ti crederanno un morto
risuscitato.
Il filosofo era fermo sull'uscio, esitante e ansimante, in preda a una incomprimibile emozione; poi,
con grande trepidazione domandò indicando l'isba: — C'è... da mangiare?
— Sì: patate e latte — affermò Serri.
— Anche... latte? — mormorò il redivivo sbarrando gli occhi come spaurito.
E si mise a piangere.
Era curioso spettacolo vedere quella gran bocca dentuta e spalancata stirarsi a ogni singulto fra il
pelame dei baffi spioventi e la barba tremula. Era una barbetta rada e appuntita, caprigna: da
filosofo, appunto.

15.
Nella notte del terzo giorno di sosta l'afflusso dei radi naufraghi gettati a riva cessò.
— Non giungerà più nessuno — avevano concordemente affermato gli ultimi arrivati; — dietro di
noi è rimasta soltanto la steppa.
Al quarto giorno infatti non un uomo apparve; s'affacciarono invece alcuni carri armati russi che in
prossimità del paese arretrarono e scomparvero.
Erano giunti, nei giorni precedenti, una decina di artiglieri della tredici, in condizioni tali da dover
essere subito avviati agli ospedali con gli automezzi che facevano la spola recando scarsi viveri e
ripartendo con teorie di soldati infermi.
Venne l'ordine di partenza. La tredici allineò sei slitte rimesse a punto, trainate dai dodici muli
ancora in grado di camminare.
Fu allora che sbucò Scudrèra. Andò dritto alla sua slitta, diede una irosa spinta al conducente
designato, gettò una rapida occhiata alle zampe dei suoi muli e si passò le redini al collo, pronto a
partire. Aveva le mani avvolte da candide bende, era l'unico in batteria ad essere rasato, pareva un
signore fra mendicanti.
— Cosa fai ancora qui, disgraziato? — gridò Reitani accorrendo; — da dove vieni?
— Ho ubbidito, signor capitano — disse Scudrèra con fare compunto; — sono partito e mi hanno
portato a Karkow, all'ospedale. Ma là dentro mi sentivo morire — aggiunse; — ero anche un po' in
pensiero per i miei muli, e ieri ho dovuto scappare, sono tornato qui con un autocarro.
— Hai dovuto, eh? — disse il capitano non sapendo che tono scegliere; — all'ospedale ti avranno
dato anche per disertore, oltre tutto. Ma non te la darò vinta: gli autocarri sono partiti, ma alla prima
occasione ti rimanderò a Karkow.
— Signorsì — rispose umilmente Scudrèra. Il capitano si allontanò, dava le ultime disposizioni per
la partenza.
— Sarà un po' difficile che io ritorni a Karkow... — sussurrò Scudrèra a Pilòn; — gli ospedali sono
già stati chiusi e i ricoverati sono in viaggio per l'Italia, Karkow sta per essere occupata dai russi.
Ma non dire queste cose al capitano, se no se la prende con me.
— Karkow occupata? — disse Pilòn allarmato; — ma non è alle spalle di questi capisaldi?
— Sì, sarà settanta o ottanta chilometri avanti. Perché?
— Ma allora abbiamo ancora i russi davanti a noi...
— Cosa vuoi che sappia io? — rispose annoiato Scudrèra scrollando le spalle; — io sono un
conducente, queste cose domandale a quel sapientone di Fraita. So soltanto che la tredici è qui e io e
i miei muli in Italia ci arriviamo di sicuro. Un po' alla volta.
— Fra tre minuti si parte — annunciò Ferrieri tra le slitte; — siamo pronti?
La popolazione che tanto amorevolmente aveva aiutato gli sventurati era tutta sulle soglie degli
abituri ad assistere alla partenza, con ampi cenni e con larghi sorrisi augurava la buona fortuna.
Serri volendo tenere raccolte le calze e i fazzoletti che gli erano stati distribuiti, s'avvicinò all'isba
che l'aveva ospitato e chiese alla vecchia contadina se avesse un sacchetto. La donna fece un cenno
desolato; ma poi, come colta da una improvvisa idea, prese per mano l'ufficiale e lo condusse
nell'interno dell'isba, s'avvicinò al letto, afferrò il cuscino e con uno strappo deciso lacerò la cucitura
d'un bordo rovesciando sul letto le foglie di granturco contenute.
— No, no! — esclamò il medico interdetto e commosso.
Ma la donna già gli aveva tolto di mano le calze e le altre cose e le aveva infilate nel piccolo sacco
improvvisato, che riconsegnò all'ufficiale; con le punte delle dita gli tracciò un rapido segno di
croce sulla fronte, lo fissò con addolorati occhi di madre e lo sospinse infine verso l'uscio e la neve,
indicando poi verso l'ovest e ripetendo con fervore: — Mama... mama...!
Passarono i giorni e la breve colonna marciò; i camminatori, sempre affamati per la penuria di cibo,
conobbero ancora la tormenta e poi videro, col deciso variare della stagione, le prime chiazze di
terra affiorare dalla neve che marciva sotto il sole per raggelarsi a sera, al levarsi del vento;
s'affrettavano verso nordovest, inseguiti e sospinti dalle notizie che dicevano Karkow sgombrata,
Stalingrado caduta e il fronte, alle loro spalle, sempre in movimento e ancora pronto a ghermirli e
schiacciarli sotto i cingoli dei carri armati russi; conobbero ancora la fame, la stanchezza, l'insonnia,
la minaccia del tifo petecchiale, la nostalgia dell'irraggiungibile patria e il rimpianto dei compagni
perduti; si videro affranti, scarnificati superstiti dei bei reggimenti alpini. Reggimenti annientati, se
non fosse stato per quei branchi d'alpini che ancora marciavano portando con sé, ripiegati sul petto,
gli stendardi dei loro reparti.
Superati i milleduecento chilometri e i settanta giorni di marcia invernale sullo sterminato suolo di
Russia, con tutti gli altri anche i superstiti della tredici sì fermarono.
Quando venne dato l'ultimo alt, in prossimità di una stazione ferroviaria, i cenci fradici che
ricoprivano i loro piedi già calpestavano, fra la mota, la prima erba di primavera.
Stalingrado era caduta, ma non loro, i veci alpini superstiti della Julia, della Tridentina, della
Cuneense. E non sapevano ancora d'aver strappato — loro soli, gli umili alpini — il grido di
ammirazione e il riconoscimento del Comando Supremo russo, che nel Bollettino N. 630 emesso da
Radio Mosca ai primi di febbraio annunciò il travolgimento delle forze dell'Asse sul fronte del
medio Don e la caduta di Stalingrado, ma precisò: «Soltanto il Corpo d'Armata Alpino italiano deve
considerarsi imbattuto sul suolo di Russia».
— Siamo a metà marzo: pensa che in Sicilia i mandorli sono già in fiore — disse il capitano Ugo
Reitani guardando dal finestrino dello scompartimento le grandi chiazze di neve che spezzavano il
terreno acquitrinoso.
— Ti auguro di fare in tempo a vederli ancora sugli alberi — rispose Serri sollevandosi dalla panca
e avvicinandosi al finestrino. E aggiunse: — Riusciremo a passare il confine col chiaro? Mi
piacerebbe vedere con i miei occhi l'ultimo lembo di Russia che si allontana.
— Lo vorrei anch'io, ma siamo più vicini al tramonto che alla Polonia, mi pare.
Il treno viaggiava, portando verso l'Italia i residui del reggimento. Sulla paglia dei carri-bestiame e
sulle panche degli scompartimenti gli artiglieri si lasciavano cullare dalla nenia, che saliva dalle
rotaie; anche a palpebre chiuse vedevano il lucido ininterrotto binario che li guidava al Brennero, si
sentivano stanchi di una stanchezza felice.
— Abbiamo fame, signor capitano — disse l'infermiere Zoffoli che si era affacciato allo
scompartimento.
Le migliorate condizioni di salute e il ritorno delle energie alimentavano nei giovani corpi un
insaziabile bisogno di cibo.
— Anche noi ne abbiamo, Zoffoli, ma sai che non c'è niente. Però questa faccenda presto finirà.
— Certo! — esclamò l'infermiere con uno sfavillante sorriso d'intesa. La ferita al braccio ricevuta a
Novo Kalitwa gli era guarita durante la ritirata; ma il mezzo orecchio che gli era rimasto si era
ridotto, congelando, a un informe impasto livido.
Raggiunta la Polonia, i soldati in viaggio ricevettero, alle stazioni, zuppe di legumi e semolino
fornite dal servizio di assistenza germanico; ma la fame rimaneva inalterata.
— Appena verremo trasbordati su una tradotta italiana, avremo finalmente pane e pastasciutta a
volontà — ripeteva Sorgato.
A Brest Litowsk, mediante una accurata disinfezione e disinfestazione furono liberati dai pidocchi
con i quali dai tempi di Novo Kalitwa avevano diviso ogni avventura.
Ma ogni guaio stava per finire; finalmente gli artiglieri furono sistemati sulla tradotta italiana che
mosse verso la patria.
Ritornavano irriconoscibili, laceri, con gli stanchi piedi rivestiti di stracci, con cenciosi abiti da
pezzenti vagabondi; avevano occhiaie e guance infossate, nasi esangui e affilati dalla cui pelle
assottigliata traspariva il bianco della cartilagine sottostante.
Ora si rendevano conto del perché non avessero rinunciato alla vita quand'essa non valeva più nulla,
lassù nella steppa orrida, ove perfino il respiro gelava e ricadeva sul cappotto; ora intendevano
perché non avessero ceduto all'invitante, oblioso sonno che calava sulle palpebre e piegava
mollemente le ginocchia verso la neve, quel vasto e bianco letto di riposo.
Avevano invece preferito l'ossessionante marciare, il delirio della fame, lo strazio delle carni;
sempre avanti in quelle livide albe, in quegli interminabili giorni di tetra ghiacciaia, in quei tramonti
di cenere che le sferzate del vento sugli occhi tingevano di strisce dal colore di sangue rappreso, in
quelle notti che scatenavano sulla steppa le distruggitrici potenze del gelo, allorché mostri orrendi
s'azzuffavano nel buio fischiando e galoppando, e dilaniavano i piccoli uomini che non desistevano
mai dal portarsi avanti. Avanti, ma dove? Dove mai può voler andare un granello di polvere
ghermito dal vento? Dove, se per loro il mare di neve non aveva più una sponda, uno scoglio su cui
alfine arrestarsi?
Ecco, ora lo sapevano; il cuore raccontava la sua storia patita in silenzio; era stato lui, col suo
piccolo affaticato battito a tener deste le membra, a stornare il sonno, a lenire ogni piaga e fatica;
pur incappucciato di gelida neve, aveva rintracciato passo per passo la via che conduceva a casa.
Una sera, in un carrozzone buio venne, chissà da chi, un mormorio incerto, un accenno a labbra
chiuse; altri lo raccolsero, lo passarono di bocca in bocca; il motivo vagolò indeciso, sfiorò lento il
cuore degli uomini; altre voci lo accrebbero donandogli una consistenza triste, simile a un accorato
pianto che fluisce nel buio.
Ma gli artiglieri alpini non piangevano, erano immobili, forse ad occhi chiusi.
Cantavano. A bassa voce, un sussurro. Veniva a loro il ricordo di cento, di mille, d'infinite cose
lasciate disciogliere in una, in quel filo di voce che si faceva strada nel buio come una piccola vena
d'acqua tra le pietre e l'erba. La canzone era struggente, quanto può essere un canto d'alpini, parlava
di un ponte, d'una bandiera, della Julia, della terra, della guerra oltre che degli alpini; nata in
Albania, diceva in un ritmo lentissimo: Sul ponte di-i-i Perati bandiera ne-e-ra è il lutto de-e-lla
Julia che va a la gue-e-ra... è il lutto de-e-ll'alpino che va a la gue-e-ra, la meglio gio-o-ventù che va
so-tto te-e-erra...
— Abbiamo cantato ancora... — mormorò il sergente Bartolan.
— Era da Kuwschin... dai rifugi sul Don che non cantavamo più... — rammentò Sorgato.
— Sì — confermarono Covre e il sergente Fraita.
— Era tanto tempo... — annuirono gli altri.
— È una bella cosa, ragazzi, aver ricominciato a cantare senza volere — disse Pilòn tanto sottovoce
che non sembrava avesse voluto parlare ad alcuno.
Ma molti lo udirono; sorridevano fra sé e sé nell'oscurità, senza dir niente a nessuno; con mosse
lente e soddisfatte qualcuno si palpava i pantaloni a ricercare il gonfio della borsa del tabacco per la
fumatina di chiusura; come si usava fare nelle sere sul Don, a Kuwschin, o ad Argos in Grecia, o
prima ancora nelle valli d'Albania, quando la tredici era la tredici e, una volta nominata così, non
c'era bisogno d'aggiungere altro.
L'Italia, chilometro per chilometro, s'avvicinava.
Ora per una seconda volta tornavano, dopo aver sparso sangue nei valloni fangosi e sulle pietraie
d'Albania come nella polvere e sulla neve delle steppe di Russia, dopo avere supplicato clemenza ad
infiniti cieli e aver subito il morso d'innumerevoli sciagure; e la loro era una lunga e così tragica
storia quale di rado gli uomini sono condannati a vivere sulla terra.
Era stata chiesta, a loro, una disumana somma di sacrificio; sovrumana, a lungo andare, poiché la
mulattiera su cui si snoda il lento andare dell'alpino ha almeno un margine che sempre pencola
sull'impossibile; quando non vi s'infila diritta, e allora è un sentiero che conduce senza scampo in
paradiso.
Tutto s'attendevano, poiché tornavano senza più nulla; e avevano fame e sete di vita.
— Sei malinconico, Scudrèra? — domandò Serri al conducente, sorprendendolo a guardare dal
finestrino con occhi spalancati e immobili.
— Oh, no... — rispose il soldato trasalendo e facendo un viso compunto, quasi fosse stato colto in
fallo.
— A che cosa pensavi? — chiese sorridendo il medico, insinuandogli con gesto espansivo le dita di
una mano fra gli ispidi capelli.
— A le cose... — disse l'alpino con un accenno di sorriso umile, schivo — a le cose del me paese.
— Si guardava le bende che gli fasciavano le mani; nel bianco trasudava qualche chiazza
giallognola.
— Mi avete sempre detto che me le avrebbero tagliate — mormorò con accoratezza; — credete
davvero che me le taglieranno, in Italia?
— L'ho davvero creduto per molto tempo, Scudrèra — disse il medico studiandosi di celare la
commozione; — ma a dirti la verità, adesso spero che ti vadano meglio, in queste ultime settimane
hai fatto un miglioramento incredibile.
— Oh, me l'aspettavo — disse il conducente con noncuranza, smentita dagli occhi fulgenti; — lo
sapevo. Io sono come le bestie — affermò con orgoglio.
— Per la testardaggine, sì — disse Serri ridendo. — Sei il mulo più cocciuto e selvatico che io
abbia mai visto.
— Me lo dice sempre anche mio padre, era anche lui un conducente — ammise Scudrèra; e
aggiunse con grande umiltà: — Ma io non ho disobbedito a voi e al capitano per il gusto di
disobbedire. Vi vedevo restare sempre più in pochi, pensavo che ogni uomo poteva servire ancora a
qualche cosa. Anch'io.
— Lo so. L'ho sempre saputo — disse Serri con un nodo alla gola.
— Se le mani mi tornano pulite, signor tenente — confidò allora l'alpino, abbandonandosi a una
imprevedibile dolcezza di voce — quando saremo in Italia io mi sposo la Pasquala.
— Si asciugheranno, vedrai; le asciugherà il nostro sole — disse il medico; — ma non dovrai
tenerle esposte al freddo, mai più.
— Non c'è pericolo! Io in Italia faccio lo spaccalegna, con quel lavoro le mani si scaldano per forza!
E se non basta, sono sicuro che la Pasquala si divertirà a soffiarci sopra... perché mi vuol bene.
Nel suo troppo lento andare quotidiano la tradotta superò Kielce, poi Vienna, Salisburgo.
— Anche oggi brodo e mezza pagnotta? Ma non capite che stiamo morendo di fame?
Non sapete che abbiamo vissuto di rape marce e gelate? — protestavano gli artiglieri facendo ressa
intorno al personale di servizio del treno; — avete due vagoni carichi di viveri di scorta, dateci da
mangiare!
— Non possiamo! Non possiamo! — era l'esasperante risposta; — dobbiamo osservare i
regolamenti, le tabelle apposite... In Italia mangerete quello che vorrete!
— Come si sta in Italia? — chiedevano i reduci dilatando gli occhi come fanciulli.
— Bene, c'è di tutto, vedrete. Basta pagare.
— Pagare che cosa? Non abbiamo già pagato abbastanza? — si chiedevano l'un l'altro senza capire.
— Ho paura che avremo molte delusioni, ho bell'e visto — borbottava il sergente Fraita.
— Delusioni perché? — interveniva il sergente Bartolan; — questi sono regolamenti, si sa; ma in
Italia sarà un'altra cosa, siamo gli alpini che tornano dalla Russia, in Italia lo sanno.
— Sanno che vita abbiamo fatto, ci aspettano di sicuro — confermava Zoffoli.
Intanto Pilòn e Scudrèra, accovacciati in un angolo, parlottavano commentando le parole degli altri.
— Sai, Scudrèra, scommetto che dalla nostra vita salterebbe fuori perfino un libro — diceva Pilòn.
— No — rispondeva l'altro dopo lunga riflessione; — nessuno lo leggerebbe. Chi vuoi che si
interessi di noi? Noi siamo soldati.
— Ma non siamo uomini anche noi?
— Sì, ma sotto la naja. Gli altri se ne fregano.
— Eppure — insorgeva il sergente Fraita — sono sicuro che una vita disperata come la nostra non
l'ha vissuta ancora nessuno, in questi tempi.
— E chi lo sa, sergente? — diceva Scudrèra; — io credo che per i soldati italiani crepare di freddo
in Russia o di caldo in Africa sia sempre la stessa bella soddisfazione, e un merito uguale, mi
sembra.
— E non è ancora finita, ragazzi! — esclamò Zoffoli — gira e rigira, gente come noi è buttata sotto
dal principio alla fine. Bisogna dire che siamo proprio uguali alla polvere, viene un soffio di vento e
ci soffia via... Non siamo altro, per quel che ci capita.
— Che polvere? — sbottò Scudrèra ad alta voce trattenendo un sorriso burlesco; — polvere sarai tu,
lurido infermiere; io sono un conducente, e me ne vanto. Che polvere d'Egitto!?
— Taci tu — rimbeccò piccato l'infermiere; — tu non puoi capire quello che voglio dire.
— To' sàntola in cariola! Non posso capire, eh? Bella roba i tuoi ragionamenti!
— disse Scudrèra con una smorfia di sufficienza; — figurati che se io volessi...
Se io volessi... ti farei rispondere da Pilòn! — E cambiando in un baleno estro e tono, l'iracondo
gigante tradì Pilòn: — Pilòn el ga fato la poesia nova...
Da tanto tempo non si era udita la voce di Pilòn, fugata dalla tragedia. Il conducente aveva
compiuto in silenzio i suoi mille e duecento chilometri a fianco dei muli; Jvanowka e Novo Ka-
litwa e la steppa l'avevano veduto compiere il suo incessante e muto lavoro, senza lamento; si era
soltanto smagrato a poco a poco, i vestiti logori gli ciondolavano addosso, il faccione tondo di luna
piena si era ridotto a un arcuato pallido quarto. Guardava ora con occhi confusi i compagni che lo
avevano costretto a rizzarsi, nella sua squallida magrezza pareva ancora più alto e tentennante, alla
mercé del prepotere di chi gli stava seduto attorno in attesa.
— Coraggio, Pilòn; sentiamo cosa t'ha ispirato la steppa — disse il capitano Reitani ottenendo un
improvviso silenzio.
Già pareva che molte cose dipendessero da quanto avrebbe detto il conducente, a giudicare dalla
aspettazione che si era dipinta sui visi. Dal vecchio giuoco riemergevano ancora affascinanti
richiami.
— Non so... Non sono ancora sicuro se una parola va bene... — disse esitando il gigante.
— Prova a dire, sentiamo, te lo diremo noi — incitò Reitani.
Pilòn abbassò le palpebre. Ora si percepiva soltanto il fluente scorrere delle ruote sul binario,
ritmato dal rimbalzo sonoro ad ogni congiunzione di rotaie.
Pareva quasi una cantilena, non si capiva se briosa o triste; sembrava che Pilòn dovesse dare le
parole a quel ritmo. Ma disse: Gli alpini arrivano a piedi là dove giunge soltanto la fede alata.
Nel silenzio che s'aprì su quella voce ondeggiò allora una ridda di sentimenti, di ricordi, affiorarono
consapevolezze fino a quel punto indistinte, generatrici di un subitaneo e dolente orgoglio. Non
seguì alcun applauso, la voce candida aveva toccato fondo, nelle anime.
— Qual è la parola che non sai se va bene? — domandò il capitano con grande serietà. Pilòn era di
nuovo titubante, pareva si vergognasse.
— Alata — rispose umilmente.
Reitani interpellò con un rapido sguardo Serri, fissò poi Pilòn e gli sorrise.
— Non darti pensiero, Pilòn — disse con voce strana al conducente; — lasciala pure com'è, non
toccare più nulla.
Rosenheim, Innsbruck. Il treno filava verso l'Italia, una gran parte d'Europa era già stata
attraversata, il confine si approssimava. I reduci stavano incollati ai finestrini, scrutavano le
strettorie della valle che preannunciavano il valico del Brennero.
Un'ansia illimitata li teneva; disperdeva e richiamava all'infinito lo stesso pensiero, l'uguale
sentimento moltiplicato per ogni passo segnato nella steppa.
Una spasimante oppressione gravava su quegli uomini, pareva malattia; ed era amore.
Con un improvviso mutare di spazi, la strettissima valle prese respiro in una spianata e subito
apparve un pennone portante una bandiera, il treno s'arrestò a una piccola stazione alpestre:
Brennero.
Era l'Italia.
Nessuno d'essi avrebbe mai più potuto significare con parole umane il senso di quel minuto. Il cuore
stesso taceva, smarrito; soltanto lo sfiorava un fervore di visioni e di pensieri, gelidi e quasi
d'incubo, ma ormai lontani e come sopiti, dissolti da un tepore nuovo, dalla certezza di un nuovo
tempo benigno:... pianure ghiacciate... sterminati biancori... cieli imbottiti di cenere... essere soli...
sperduti nella vastità senza misura... questo paese si chiama Jvanowka... questo Golubaja Krinitza...
se mi congelo sono finito... divento come quell'orribile cavallo stecchito... ecco qui un uomo
morto... non tornerà più a casa... siamo nel fondo di una sacca... il carro armato mi stritola... ho tanta
fame... mi accontenterei di mezza rapa marcia... di un solo boccone... i morti non si contano più...
ho le scarpe piene di neve... una suola di ghiaccio fra la calza e il cuoio... mamma mia... non ho più
forza per camminare... abbiamo tredici pallottole in dieci soldati... roba da ridere... da spararsele
nella testa... sono circondato, ma da vivo non mi prendono... quarantasei sotto zero... la pelle delle
mani resta attaccata all'acciaio dei pezzi... avere sulle mani gelate... un briciolo... del sole d'Italia...
Eccola, l'Italia.
E, per il solo vederla, una gran nebbia, una necessità d'oblio già calava sulla vicenda tragica e
pareva dissolverla, la riconduceva a misure più umane. La realtà vissuta si sfocava, si disperdeva,
lasciando di sé soltanto un'attonita, stupita eco nel cuore.
E allo stesso modo, per contrapposto, quell'ora reale e presente pareva favolosa e indistinta, lontana
come la speranza d'un tempo; la coscienza stentava a connettere, sperduta in una nuvola, come
nell'ora del risveglio; le lacrime che scendevano sulle gote parevano d'altri, o gocce di pioggia. Tutti
gli alpini erano scesi, toccavano il suolo con i cenci dei piedi e fissavano la terra con lunghe
occhiate sospettose, come se fosse una lastra di ghiaccio pronta a rompersi, a dissolversi; c'era
invece chi s'inginocchiava, stendeva le palme su di lei, chinava la fronte fino a toccarla e la baciava
con le labbra ancor spaccate dal gelo della steppa; baciava l'Italia.
— In vettura! In vettura, si riparte! — gridavano gli addetti ferroviari sospingendo gli alpini ai
carrozzoni. Gli alpini salivano ubbidienti, trasognati, era un incanto riudire voci italiane.
— Chiudere i vetri dei finestrini! Chiudere i finestrini! — gridava ora il personale passando dinanzi
alle vetture; e avvicinandosi agli sportelli dava un secco giro con la chiave di servizio e li sbarrava.
— Nessuno esce più! Alle stazioni è vietato affacciarsi! — ingiungevano le voci imperiose; —
chiudere i vetri dei finestrini!
— Che roba è questa? — si cominciò a gridare dall'interno dei vagoni.
— Non siamo bestie!
— Aprite! Aprite! — urlavano ormai gli alpini riabbassando i vetri e scuotendo invano le maniglie.
— Siamo in Italia!
— Siamo gli alpini...! — Siamo gli alpini! — gridavano. Sulla pensilina, dinanzi al vagone della
tredici stava immobile un ferroviere, con le mani nelle tasche dei pantaloni.
— La popolazione non vi deve vedere: è l'ordine — spiegò seccamente al più vicino grappolo
d'uomini che si affannavano sbracciandosi dal finestrino.
— Non abbiamo la peste, noi! Siamo gli alpini che tornano dalla Russia, cavallo vestìo da omo! —
gli gridò esasperato Scudrèra, mentre il treno già si muoveva.
—Che alpini o non alpini!! Ma vi vedete? — urlò allora ai rinchiusi il ferroviere; — vi accorgete si
o no, Cristo, che fate schifo?

Fine

Variante

— Viva l'Italia!
— Se ha fatto un passo simile, io sono sicuro che...
— E il Papa?
A tanto surriscaldato friggere, pareva che le prime falde di neve russa stessero cadendo
sull'incandescente acciaio del Patto.
Il negozio di parrucchiere consisteva in un locale diviso a metà da un tendaggio di vecchio logoro
velluto; dalla strada si entrava nel primo vano, adibito a profumeria, ove le due commesse dietro un
banco vendevano ciprie e acquette di colonia; al di là della tenda era ricavato il secondo vano, più
piccolo, nel quale in quel momento il parrucchiere greco stava tagliando i capelli a Serri.
—Bonjour, mademoiselles — esclamò a quel punto una voce rotonda, leziosa, appena cessò il
cigolio della porta d'ingresso.
—Bonjour, monsieur le capitain — risposero in coro le commesse.
—È il Governatore di Patrasso — si disse Serri; e levando lo sguardo allo specchio vide infatti
riflessa, attraverso uno spiraglio del tendaggio, l'immagine del capitano. Del governatorato sfumato
gli era rimasto, duraturo, soltanto l'appellativo.
— Vorrei un pettine — disse con risolutezza sforzandosi di esprimersi, per quanto gli riusciva, in
una sua lingua francese tutta particolare, nei confronti della quale lasciava ai greci il compito di
districarsi.
— Di quale tipo? — chiese una commessa.
— Da tasca. Forte, per la guerra — fu la bellicosa risposta.
— Per la guerra? Andate di nuovo in guerra? — domandarono le ragazze sgranando gli occhi.
Erano bellocce, l'interessamento piacque al capitano.
— Oui — rispose con noncuranza. — Datemi anche un po' di brillantina.
— Oh, signor capitano! E lo dite così?!? — esclamarono quelle, arrotondando le labbra rosse; si
guardavano poi reciprocamente, giungendo le mani, estatiche.
— È questione d'abitudine... — disse il capitano levando dal banco e osservando in trasparenza una
bottiglietta d'acqua di colonia.
— Andate forse in Russia? — chiesero quelle col fiato sospeso.
— Naturellement!
— Oh, oh...! Ma non avete combattuto anche troppo, signor capitano? Non siete già stato sul fronte
albanese?
— Certainement. Beaucoup de batailles: Tepeleni... Argirocastro...
— Ooh...
— Kakavija...
— Ooh... Ooh...!! — Parevano, le volpine venditrici, gallinelle spaurite rincorse dal gallo guerriero.
Questi allora continuò l'inseguimento: — Tomori, Trebescines, Kalibàki, Golik...!
— Non plus, monsieur le capitain! — gemette la più sensibile, estenuata dal vorticoso crescendo di
rischi corsi dal capitano.
—...Mali... Scindèli... Topojanit... — continuò il Governatore, implacabile — Kòritza... Dragòti...
Kalibàki... — S'arrestò, indeciso. — Già detto — forse pensò; e s'arrese.
Era ben in diritto d'essere affaticato dal tumultuante galoppare di tante memorie; s'appoggiò quindi
con i gomiti al banco, protendendo il busto più in avanti possibile verso le trepide ammiratrici.
— Ma non avete paura, signor capitano? — chiese la più emozionata; — come fate a difendervi?
Avete solo quella piccola rivoltella...
Il capitano sorrise, benevolo.
— Io non sparo — disse con voce dolce, carezzevole, come se parlasse a due bimbe, terminando di
accendere una sigaretta e lasciando cadere il cerino; — mes cheries, je commande un bataillon...
Ma, ripreso dal demone della guerra si drizzò di scatto dal banco, arretrò di due lunghi drammatici
passi, rigirò per un istante all'indietro anche il capo; levò un braccio e lo ruotò in avanti con mossa
decisa.
— En avant, mes soldats! — gridò solenne, bellissimo, compiendo subito un solo passo in
atteggiamento di uomo che scatta nella corsa. Si vedeva chiaramente che quell'uomo stava
irresistibilmente trascinando l'intero battaglione contro il banco.
Ma subito s'arrestò, si eresse, ritornò sorridente e mansueto, protese verso le commesse la mano che
reggeva il minuscolo cilindro di carta e tabacco.
— Voyez? — disse allegramente, aspirando e gettando una boccata di fumo; — Voyez? Ma
arme — spiegò — c'est la cigarette.

2.
L'inizio della campagna contro la Russia apportò le inevitabili ripercussioni in territorio greco.
I servizi d'informazioni segnalarono il riaccendersi di attività clandestine antitaliane tra le
popolazioni; i comandanti trasmisero ordini atti ad assicurare maggior disciplina nei reparti, i
soldati compresero che la situazione mutava e si profilavano di nuovo per essi all'orizzonte i tempi
del sangue.
A Patrasso, dopo un mese giunse al battaglione l'ordine di ricongiungersi agli altri reparti del
reggimento e della divisione rimasti a Missolungi.
— Ci riuniscono. La divisione è decimata dalla malaria. Si rimpatria — assicuravano i fanti addetti
al Comando del battaglione.
— Pare che si rimpatri davvero — confermarono al Comando del reggimento quando il battaglione
ebbe oltrepassato lo stretto. Fra una settimana inizieremo le marce per ritornare in Albania e in
Italia.
— Non mi rassegno all'idea di lasciare la Grecia senza aver visto l'Acropoli. È uno dei più grandi
desideri della mia vita, voglio andare ad Atene — disse Serri a Parrelli. — Vieni anche tu? Ho già
parlato con il nuovo comandante di battaglione, ci da un permesso di tre giorni per andare a
Patrasso col pretesto di urgenti cure dentarie; di più non può fare, ma è sufficiente. Per andare da
Patrasso ad Atene dovremo trovare noi il modo, bisogna viaggiare con mezzi di fortuna.
— Verrei subito — rispose Parrelli — ma fra Patrasso ed Atene so che c'è una quindicina di posti di
blocco. Come fare a superarli?
Per i militari italiani circolare senza permesso in territorio greco era pressoché impossibile. I due
ufficiali concretarono il piano; a Patrasso scovarono un autista greco che possedeva, oltre
un'automobile, benzina ed interessi sufficienti per affrontare le incognite di un viaggio ad Atene
senza permessi. Rintracciarono infine un eccezionale tipo di soldato, un corpulento, poliglotta,
barbuto fante cinquantenne con monocolo all'occhio; dotato di stranissime facoltà fisiche e
psichiche aveva attraversato più volte le linee durante la campagna di guerra, dispiegando grande
coraggio; misterioso combattente pluridecorato, era addetto a servizi speciali e autorizzato a
indossare abiti borghesi, dipendeva dal Servizio Informazioni Militari.
Fu messo a conoscenza del piano: egli si sarebbe munito di una busta gialla rigonfia di giornali,
tempestata di sigilli a ceralacca, indirizzata a un grosso Comando in Atene. Se ai posti di blocco
fossero sorte difficoltà, avrebbe esibito con fare misterioso la busta gialla, facendo intrawedere il
terribile indirizzo.
— A vostra disposizione, signor tenente; posso procurarmi un paio di giorni di permesso e ad Atene
ho qualcosa da fare, l'idea mi piace.
All'indomani mattina la grossa sgangherata automobile filava verso Corinto, incappando ben presto
nei primi posti di controllo. — Permesso di circolazione — chiedeva il soldato di guardia.
— Dobbiamo raggiungere Atene al più presto — diceva uno dei due ufficiali, a turno — dobbiamo
essere sprovvisti di ogni permesso militare. Vedi? Bisogna che viaggiamo con macchina civile, con
autista greco. Insomma — concludeva a bassa voce, facendo cenno al soldato di avvicinarsi allo
sportello e parlandogli all'orecchio — siamo in servizio speciale, segretissimo. — E con fare
misterioso indicava lo strano borghese barbuto in abito bianco che sedeva enigmatico, astrale poco
meno di Budda, a fianco dell'autista.
— Avanti! — diceva per lo più il soldato al compagno incaricato di manovrare la sbarra, dopo
essere rimasto qualche poco perplesso a considerare in silenzio la macchina e i viaggiatori.
Altre volte il soldato di guardia diceva: — Mi dispiace, senza documenti non posso lasciarvi
proseguire.
— E va bene... — soggiungeva allora con un sospiro l'ufficiale — vuoi dire che l'avrai voluto tu.
Signore — aggiungeva con deferenza rivolgendosi all'imperscrutabile personaggio — di fronte a
questa incomprensione non esiste altro mezzo. Volete avere la cortesia di...
Senza abbandonare l'immobilità trasognata con la quale andava contemplando i cicli al di là del
parabrezza, con movimento impercettibile il Budda faceva spuntare dalle anfrattuosita dell'epa un
angolo della gran busta sigillata; restando impietrito e totalmente assente, con atto di degnazione
faceva poi fuoruscire dai lembi della giacca una metà della busta, alla quale correvano gli occhi del
soldato subito magnetizzati dalle ceralacche e dallo stupefacente indirizzo.
— Sei contento, adesso? — diceva, l'ufficiale cui spettava la parola. — Vedi?
Cosa ne pensi?
— Alza la sbarra! — ordinava il soldato al compagno.
A un posto di blocco la situazione precipitò, per la presenza di un capitano che in servizio
d'ispezione controllava personalmente i documenti.
— Atene? — disse alla prima spiegazione degli ufficiali. — Una macchina civile senza permesso di
circolazione? Due ufficiali senza foglio di viaggio? Un borghese che non ha documenti d'identità? Il
vostro viaggio è finito, signori.
Scendete, siete trattenuti per gli accertamenti del caso, voglio veder chiaro in questa faccenda.
— Un momento, signor capitano — disse con gravità l'ufficiale di turno, giocando l'ultima carta —
è evidente che per tutto ciò c'è una ragione, della quale potete rendervi subito conto. Scusate,
signore — continuò rivolgendosi al Gotamo — volete avere la compiacenza di mostrare...
La voce giunse alle sfere superne, poiché il taciturno trasse in silenzio le ceralacche e le profferse
alla vista dell'incredulo. Appariva indubbio che il Buonarroti avrebbe potuto fissare in quel gesto la
dignità di Mosè che ostende le tavole scendendo dal Sinai.
— Vedete l'indirizzo, signor capitano? — incalzò l'ufficiale; — considerate che nell'angolo, in alto,
dice «Estremamente urgente-Segreto». Sono spiacente di non poter dire di più, la missione è
particolarissima. Lo comprendete anche dal fatto che è stata affidata, per precise ragioni, a un
medico e a un semplice ufficiale subalterno di reparto. Molte cose gravissime dipendono dal
giungere immediato di questo plico, abbiamo ancora due sole ore utili. Sta a voi decidere. Vi
avvertiamo che se ci trattenete siamo costretti a chiedervi dichiarazione scritta d'assumervi piena e
diretta responsabilità della vostra iniziativa.
Il capitano esitava, interdetto, dinnanzi allo sportello aperto. Guardava il barbuto come a tentare di
penetrarne il segreto. Il diniego del capitano poteva portare disastrose conseguenze.
A quel punto il biancovestito die segno per la prima volta di scuotersi dalla contemplazione; con
estrema lentezza la sua barba ruotò fino ad accostarsi alla spalla, la testa enorme rimase quindi
immobile e muta, la maschera inespressiva guardava il nulla. Ma s'animò d'un tratto, per il concitato
rialzarsi del sopracciglio sinistro; la palpebra scese poi lentamente a coprire l'occhio; l'altro occhio
allora si dilatò, ingigantito dalla lente, bovino ma penetrante per una sua luce insostenibile, fermò lo
sguardo in fronte al capitano e ristette, freddo e innaturale. In quegli istanti era l'occhio implacabile
del Destino che fissava attraverso uno scintillante vetro lo sventurato capitano. Del tutto sconcertato
e soggiogato, l'ufficiale fu per qualche attimo incatenato a quello sguardo; se ne sottrasse con
visibile sforzo, parve gli si snebbiasse lentamente lo spirito da un'allucinazione.
— Quand'è così... — disse riallacciandosi con difficoltà al filo del discorso — non posso oppormi,
naturalmente. Capirete, queste non sono cose che succedono tutti i giorni. Anzi, è la prima volta che
mi capita. Il bello è che non posso neppure segnarla nel registro dei passaggi.
Appariva sollevato e quasi allegro, ora che aveva preso la sua decisione.
— No, naturalmente, non va segnata.
— Naturalmente. Buon viaggio, allora, signori — disse il capitano dando di sfuggita un'occhiata al
tenebroso. Ma questi fissava da tempo un immoto punto oltre il parabrezza.
— Capitano — disse ancora il perfido Parrelli sporgendo il capo dal finestrino, mentre la macchina
si rimetteva in moto — ci avete fatto perdere tempo prezioso, potreste far telefonare ai prossimi
posti di blocco preannunciando il nostro passaggio e dicendo di lasciarci proseguire senza fare
storie?
— Senz'altro! — assicurò il capitano, facendo un gesto d'intesa e di saluto.
All'approssimarsi della grossa macchina al successivo posto di blocco, la sbarra si levò e il soldato
di guardia fece cenno di proseguire.
— Mi dispiace per quel signor capitano — disse allora il Gotamo — ma anche se avessi dovuto
ipnotizzarlo, farlo sedere accanto a me e portarlo con noi ad Atene come scorta, il viaggio sarebbe
proseguito. Lo avremmo scaricato al ritorno, in perfette condizioni, al suo posto di blocco.
— Ci tieni tanto ad arrivare ad Atene? — domandò Parrelli.
— Sono vent'anni che non rivedo una signora. Era la più grande cantante di Grecia, allora, e la più
bella donna, a quanto dicevano i giornali. Devo vedere chi dei due è diventato più grasso, nel
frattempo.
Inoltrandosi l'automobile nell'Attica, Atene s'annunciò di lontano. È allora che, al viaggiatore non
immemore, l'azzurro intenso inizia a popolarsi di visioni e di sogni.
— Ho fatto questo viaggio per vedere il Partenone — disse Serri. — È mezzogiorno. Vi avverto che
voi potete andare dove volete, ma ora nessuno al mondo mi tiene dall'andare di corsa sull'Acropoli.
È necessario salire, per giungere all'Acropoli; e pervenendo ai Propilei, ci si avvede di aver lasciato
al basso i secoli.
— Quanti?
— Quanti ne hanno le colonne, viandante — accenna il sole sbiancando i marmi.
Pareva una terrazza, l'Acropoli, essendo colle e piazza; città sul monte, eccelsa sul sasso vivo che la
regge defunta. Mutilata e insepolta; ma indistruttibile.
Prima d'essere pietra bianca riversa innanzi al cielo, fu spirito di bellezza fervente in cuore
d'uomini. Uno vi fu, che s'aggirò sull'ancor calvo monte mirando il cielo d'Attica, dagli spalti aerei
mirando il mare d'Attica; tentando col sandalo la pietra chiara, primo disse: «Qui, a Pallade Atena».
Mirava forse il cielo, tenendo pollice e indice disgiunti e tesi contro la fronte, a parare gli occhi
dall'incendio dell'apollineo sole, trascorrente sull'igneo carro; mirava poi la bianca città prostrata, il
Licabetto puntuto e infine, oltre il Falere, la lucente piana del mare dilagante di luce, peplo argenteo
di cui ammantare la Dea.
Immobile guardava dal celeste limite, mentre il braccio levato nell'ampio gesto tendeva le vesti che
il vento spiegava, esigua vela, ala bianca sul colle.
Chiuse le palpebre sul suo pensiero, ammansendo la lana contesta, l'uomo diceva: «Qui, a Pallade
Atena».
Benedetto egli sia, nel lungo tempo degli uomini. E benedetti gli schiavi che per l'erte scoscese
sospinsero al vertice i candidi marmi, issando quindi i tamburi su i tamburi petrosi a innalzar le
colonne. Benedetto chi segnò gli spazi all'opre, e volendo gradini e ambulacri costrusse, insino ai
fastigi, il marmoreo pensiero; chi fuse il piombo, chi s'imbiancò viso e mani di pentelica polvere,
chi s'appose alle funi o inscrisse il mito sulle polite lastre, chi da Chariàs pervenne a offrir
sembianze all'arma fidiaca. Benedetti, nel lungo tempo degli uomini.
A mezzo il giorno, nell'estate, il calore sale dal sasso e tra l'immobile pietra l'aria è mobile e pare
fumighi per translucidi vapori salienti fra le colonne; sì che oltre gli spalti ogni distanza al
soffermato viandante appariva infinita; e nessuna dimora più augusta che il bianco colle.
Eterea sostanza divina, l'onnipossente Bellezza vagava fra le pietre sparse sull'ardente terrazzo, tra
le pile infrante, l'erme stroncate; invano l'occhio si soffermava a sorprenderla; vagava lenta come
essendo onda morta fra le basse pietre; non vista, se pure sensibile ovunque.
Ad intenderne il moto, l'ineffabile Presenza con lene effondersi saliva a lambire gli infimi piani dei
templi; scorreva quindi più celere su i lunghi gradini, sormontava ad una ad una le pietre fino ad
estendersi a le soglie illustri, ai ripiani lucenti che porgevan base a le bianche colonne.
Ad amarla, la si sentiva allora ristare e poi attorcersi a quelle, avvolgere dapprima il marmo in
larghe volute e spire; e tentando gli scanalati steli con dita incorporee, fluiva poi verso i più alti
spazi, viva ormai, già trasparente a fior della pietra, una con essa, nuvola effusa fra i volumi ultimi.
Dea infine, oltre ogni misura e limite Dea sovrastante le pietre: onnipresente Bellezza.
Missolungi. Dalle plaghe lagunari,................

PRESENTAZIONE di Carlo Bo
Giulio Bedeschi non ha bisogno né di presentazioni né di avalli. Come si potrebbe presentare al
pubblico uno scrittore che vanta milioni di lettori, che senso avrebbe attenersi a una ricognizione
critica quando la partecipazione è stata così spontanea e generale? No, il problema da affrontare è
un altro, vedere perché i libri del Bedeschi hanno avuto tanto successo, che cosa sta all'origine di un
consenso che non può essere suddiviso o separato per gruppi o per famiglie. Una volta trovata la
strada avremo automaticamente la Qualità e la natura di questo Centomila gavette di ghiaccio, libro
che conserva intatta la sua forza e restituisce tutto lo scrittore autentico che è Bedeschi.
È evidente che lo scrittore ha saputo individuare un mondo, un territorio, diciamo meglio un campo
comune dove la memoria poteva giuocare tutte le sue carte, scatenando a sua volta un giuoco più
complesso di sentimenti e di passioni. Bedeschi ha intuito inoltre che la letteratura non solo non gli
sarebbe servita ma avrebbe distorto e corrotto il suo tentativo che era di parlare in via diretta, di
raccontare come se si trovasse una sera a dovere rendere conto delle sue esperienze di guerra.
Di libri di guerra infatti il nostro secolo è purtroppo molto ricco ma generalmente si tratta di libri
costruiti con intenti d'arte. Lo scrittore di questo particolare scaffale non nasconde mai le sue vere
intenzioni, vuole testimoniare e insieme colpire, vuole mostrare un volto nascosto e segreto ma
soprattutto si preoccupa di offrire al suo lettore un prodotto ben confezionato, un testo che
avvalendosi delle sollecitazioni letterarie possa raggiungere uno stato più sicuro, più solido e questo
con l'illusione che l'arte aiuti a proteggere e conservare un prodotto che per forza di cose è
fortemente condizionato dal suo primo dato di cronaca. Il più delle volte si sono ottenuti degli ibridi
e proprio per questo chi leggeva non riusciva a sottrarsi a un giuoco di impres sioni molto insidiose
epperò si era portati a concludere che la guerra era un punto di partenza mentre tutto il resto era
stato ottenuto attraverso la memoria lirica o la memoria polemica. È una storia antica, cominciata
con la prima guerra mondiale e sull'eco delle prime corrispondenze dal fronte. La questione era:
bisogna lavorare di fantasia o non è più giusto attenersi ai fatti nudi e crudi? Una polemica illustre
che aveva solleticato uno scrittore difficile come Andre Gide ma che era poi rimasta senza una
conclusione sicura. Comunque, il problema rimane e neppure la letteratura di guerra dopo il 1945
ha saputo aggiungere qualcosa di nuovo. Caso mai, ci sarebbe da dire che si è mantenuto un certo
rapporto fra quello che era l'atteggiamento dei Soffici (prendiamo qui lo scrittore toscano come un
simbolo critico) e quello più recente dei Rigoni-Stern: il racconto doveva obbedire a dei precisi
canoni estetici.
Non è questa la strada scelta da Bedeschi il quale sembra non soltanto esaltare la resa, il risultato
ma mostra a ogni pagina la sua predilezione per i dati di fatto, le cose concrete e per quanto durano i
suoi libri si avverte quest'ansia, questo bisogno di evitare ogni occasione di indugio, ogni pretesto di
sviluppo.
Del resto, il suo modo di raccontare assomiglia molto a un tipo di discorso naturale, di chi sente il
peso diretto di un numero infinito di notizie. Spesso è sopraffatto da questo tipo di urgenza, per cui
non contano né i particolari né la posizione da dare a questi particolari. Un discorso che tende
all'esaltazione della realtà e chi lo segua senza altre intenzioni avverte immediatamente che non c'è
spazio né tempo per le sistemazioni, le dilettazioni artistiche: di qui certe improvvise rotture, certi
salti, certi ritorni improvvisi su quanto era già stato detto. Insomma, la sua memoria non è mai
composta, non è costruita epperò si ha l'impressione che il racconto si adegui al primo film della
memoria, di quello che era stato visto e recepito subito. Bedeschi non è uno scrittore che si metta fra
la realtà e la sua pagina, quasi sempre mostra una preoccupazione opposta, tende a sottrarsi, a stare
fuori del campo visivo e alla fine ottiene un risultato singolare, quello, cioè, di mettersi al seguito
dei fatti che racconta.
In effetti — e soprattutto quando il Bedeschi racconta le azioni di guerra — procede globalmente,
non sceglie, ci mette dentro tutto, ciò che uno scrittore interessato privilegerebbe e ciò che rientra
nel quadro della prima memoria, ciò che sembra fatto a posta per colpire e quindi essere adoperato e
sfruttato artisticamente e ciò che rientra nel consueto della conversazione. Ed è proprio questo che
gli consente di raggiungere il successo e il consenso dei lettori, di chi è felice di sentire il racconto
dell'accaduto realmente e non si preoccupa di verificare in che modo un certo fatto è stato enucleato
e esaltato.
Ma non basta, questo modo di seguire il cammino stesso delle cose da raccontare finisce per fare
scattare un tempo che non è esclusivamente narrativo ma rientra in un ordine diverso e per molti
aspetti assai più persuasivo.
Da tutto ciò deriva che il Bedeschi si è potuto innestare, inserire sulla corrente continua del suo
popolo di lettori che - è bene dirlo — non è fatto soltanto di reduci, di chi ha vissuto le stesse
tragedie militari di Grecia e di Russia ma di un numero assai più grande di ascoltatori potenziali,
insomma di gente che ha bisogno di stare a contatto con la realtà non mediata, tanto meno
contraffatta. I grandi maestri della letteratura di guerra — prendiamo questa volta come indice il
Barbusse — finivano per lavorare di fantasia, anche se restituivano onestamente quello che avevano
visto e sofferto o visto soffrire dagli altri, nel senso che ritagliavano delle scene, organizzavano il
loro racconto, lasciando da parte quanto a loro giudizio apparteneva al libro del normale e del
quotidiano. Ne conseguiva una certa monumentalità, un certo tipo di leggenda, di letteratura eroica
e questo anche quando si trattava di eroi vendicatori che con le loro gesta portavano i lettori a
bestemmiare la guerra.
I personaggi del Bedeschi sono invece quanto mai comuni e anche quando si comportano da eroi
rifiutano ogni concessione all'eroico, all'esempio, sono persone che si esauriscono completamente
nell'assolvere il loro compito, in una sorta di obbedienza alla propria immagine di soldati e alla fine
quando devono pur esprimere un giudizio, la loro impressione si rifugiano nel dialetto, cercano di
smorzare i toni che le cose stesse hanno fatto alti. Lo scrittore si adegua al loro metro, diciamo pure
alla loro morale e il metro è sempre quello delle cose: una battaglia, una strada da tenere, una notte
da passare nel gelo, sotto tende che aiutano il vento a fare il suo mestiere e via di seguito, stare
accanto ai feriti, ai moribondi, insomma tutte le voci di un inferno di cui la gran parte degli italiani
non ha mai saputo niente.
Chi legge finisce per capire che in questo procedimento puro e umano vince la sincerità, la purezza
del racconto naturale. Si direbbe che il Bedeschi abbia giustamente optato per stare dentro il
racconto degli altri, così come aveva subito scelto di seguire la storia per giorni. Che è poi quello
che deve avere affascinato i suoi lettori e spinto questi lettori a chiamarne altri. È una catena che
sembra assai lontana dal rompersi, tanta è la forza di questa enorme famiglia anonima, non ancora
abituata o corrotta o disposta ad accettare una realtà dimezzata, comunque arbitrariamente definita.
La forza delle cose e poi il costante senso del mistero di fronte ad eventi che annullano di colpo e
interamente l'immagine dell'uomo che si ritaglia una vita secondo i suoi bisogni e le sue idee. La
guerra Bedeschi la vede e la racconta restando fedele allo Stendhal della Chartreuse, con la sola
differenza che la sua Waterloo è una misera campagna, una tragica spedizione di un esercito non
agguerrito, portato in terre lontane, per delle ragioni che non sono mai state neppure illustrate.
Basterebbe l'approdo in Albania per fare capire al lettore che Bedeschi ha colto anche questo
antefatto, su cui peraltro non insiste, convinto giustamente che uno spettacolo così profondamente
desolato sarebbe stato più che sufficiente a informare e a preparare uno stato d'animo adeguato a
quanto sarebbe accaduto dopo.
Lo scrittore per conto suo si limita a seguire questa lunga strada verso il dolore e la morte, senza
aggiungere mai un commento suo, un giudizio a posteriori che oltre tutto sarebbe stato fin troppo
facile: il suo compito — lo ripetiamo — è stato quello di accodarsi al battaglione, di stare in guerra
con le preoccupazioni quotidiane (trovare un riparo, delle coperte, un pezzo di pane, un po' d'acqua
da bere) e alla fine ha avuto il suo premio. Forse non c'erano altre strade all'infuori di questa per
arrivare al cuore di quel povero popolo umiliato e afflitto, portato al macello.
Proviamo a rovesciare il quadro, immaginiamo che cosa si sarebbe potuto ricavare con un altro
metodo, un metodo che avesse richiesto i riflettori sulle scene più crudeli e strazianti: forse si
sarebbe ottenuto un risultato estetico più rilevante, certamente si sarebbe perduto questo coro di
invocazioni, di dolori, di bestemmie soffocate, non avremmo quello che invece abbiamo avuto, un
esempio di comunicazione spontanea, dove il fatto non perde niente del suo smalto inferiore, dove
nonostante tutto l'immagine dell'uomo non viene mai dissacrata.
È un risultato da non sottovalutare, abituati come siamo ormai da molto tempo a un abuso continuo,
alla sopraffazione perpetua di questi territori umani che diamo per marginali e trascurabili. Eppure
questa è la materia illustrata dal Bedeschi, una materia umana che conosciamo soltanto — quando
ce ne preoccupiamo — per schemi e consideriamo come terra di conquista mentre è una materia
eterna, una famiglia senza volti riconoscibili ma compatta e che mantiene salda la sua religione che
è fatta prima di tutto di pietà.
Probabilmente l'autore avrà conosciuto anche gente diversa, uomini sganciati da questa segreta
comunione generale ma non ne ha tenuto conto. Deve avere soppesato bene le diverse componenti e
alla fine ha separato la gente com'è da quelli che hanno la presunzione di stare fuori dalla famiglia.
La sua storia è la storia di quella gente umile che non discute i perché dei sacrifici e delle fatiche e
preferisce dare una mano che torcere quella degli altri e non ha paura della morte, perché la
considera un evento naturale. Sono questi i grandi sentimenti che permangono al fondo di quei cuori
senza storia e costituiscono il lievito nascosto della vita perenne. Perché dalla lettura di tante
tragedie non deriva mai al lettore un senso di disperazione, infatti non c'è mai nulla di atroce,
neppure di fronte alla devastazione di quei poveri corpi. Nella partita fra il male (che è stato
enorme) e il bene, chi vince è il bene per merito di questo popolo fedele alla sua antica verità.
In altri momenti si ha più netta la percezione di questo senso epico senza lenocini di nessun genere:
Bedeschi non alza mai il tono, non indica neppure, anzi il più delle volte il discorso gli si spezza tra
le mani e riprende il sopravvento la cosa, il fatto, l'azione. I suoi personaggi così come non sono
mai protagonisti, così ignorano quanto serve a illustrare o soltanto segnalare le loro azioni: la natura
della loro presenza è ben diversa e non sopporta nessun tipo di commento. Sono personaggi che si
spengono nel momento stesso che hanno fatto o detto qualcosa, per loro non esiste la storia, sanno
benissimo che passeranno come le più umili cose della loro vita quotidiana, a volte sembrano
ripetere uno dei grandi momenti della loro fede tradizionale, sono convinti che gli strumenti, gli
oggetti, le cose siano più importanti, contino di più della loro vita. Bedeschi ha puntato su questo
effetto diretto, si provi a confrontare le fotografie dell'epoca con il racconto, non esiste una
parentela: nelle fotografie è immediatamente recuperabile un quadro, un riferimento storico, chi ha
vissuto quei tempi riconosce di colpo quelle immagini, nel racconto questo non avviene, la realtà di
Bedeschi è un 'altra: molto più profonda.
Ma stiamo bene attenti a classificare questa profondità. Bedeschi non ha ambizioni filosofiche, non
sollecita mai una frase, una confessione, un grido di dolore verso le sue intenzioni, sa benissimo che
di fronte a certi fenomeni (e da questo punto di vista, la guerra è il fenomeno per eccellenza) non ci
sono parole che siano in grado di rovesciare la situazione, l'unico atteggiamento consentito in un
cuore onesto è l'accettazione. La sua gente non conosce la sopportazione, intesa come strumento di
riscatto spirituale, conosce soltanto e l'adopera in modo mirabile lo strumento dell'accettazione: è il
loro «così è» di fronte all'altro «è così» delle cose e dei fatti. Quella gente sa che bisogna risolvere
subito i problemi del quotidiano immediato, non specula, non sta a vedere dove finisce il male e
comincia il bene, l'atto è il solo mezzo che ha per rispondere. Il resto viene in seguito, è nel
momento dell'azione che sente nascere dentro di sé il sentimento del bene, della solidarietà, il dare
una mano nel momento del pericolo è l'unico modo di parlare che conosce. Il discorso ufficiale è
fatto soltanto di luoghi comuni, di echi, di quel tanto di cultura che le può essere capitato in sorte e a
ben guardare è ancora un atto di estremo pudore: un po' come dire, quello che sento lo traduco
subito in atti, il resto lo posso esprimere con delle frasi fatte, con quel tanto di filosofia popolare che
ci è stato tramandato nel sangue. Come si vede, si giuocano due partite: fuori c'è la guerra con tutte
le sue regole, prendere, lasciare, uccidere, essere uccisi, dentro si svolge un discorso molto più
importante e che nessuno saprà mai tradurre in termini commerciabili. Da quella straordinaria
materia anonima si leva a un certo punto un racconto indiretto di straordinaria efficacia, siamo di
fronte a un capitale che se lo ignoriamo, non per questo è meno straordinario, il capitale dell'anima
popolare.
Sono, dunque, due discorsi che non coincidono, che non hanno modo di scontrarsi, di contrapporsi
ma che ci sono nel libro del Bedeschi e per i quali egli si è attenuto al modo più onesto di lasciarli
trapelare. Ci è riuscito lasciando i due registri ai loro posti, dicendo per conto suo ciò che aveva
visto alludendo appena a quello che i suoi personaggi non avrebbero mai saputo né potuto dire.
Se lo avessero fatto, sarebbero entrati di colpo nella rappresentazione esteriore, non sarebbero
rimasti ad alimentare quel coro di voci che da al libro la sua più vera dimensione.
Questo raro impasto di voci e di atti, di parole e di azioni risalta maggiormente nella parte più
tragica delle Centomila gavette di ghiaccio, là dove il Bedeschi racconta la ritirata e la lotta per
fughe in Russia. Lo scrittore, nel restituire questa Anabasi moderna che pure abbiamo sepolto nella
nostra memoria e preferiamo considerare come un episodio e non come un risultato di vita tradita, si
limita ad accumulare le diverse vicende senza interrompere mai il racconto, senza trovare una facile
scappatoia nelle misure del tempo; si vuoi dire che non ci sono soste, che la marcia di quei disperati
sulla neve, di notte e di giorno, stretti dalla fame, dalla sete e dalla stanchezza è resa per intero,
come una musica di cui non si arriva a calcolare né la durata né la possibile conclusione. Non sono
più uomini, Bedeschi lo dice chiaramente ma bisogna intenderci su questa affermazione: non più
uomini in quanto sono stati strappati da qualsiasi ordine sociale e nello stesso tempo recitano senza
volerlo, contro loro stessi qualche volta, una parte che lì mette al di sopra degli animali e degli stessi
uomini. Né vale dire che si tratta soltanto di un prepotente istinto, di una volontà di sopravvivere,
no, quei dannati rappresentano una tragedia che ha due soli protagonisti, la vita e la morte epperò
non sono mai attori, sono vittime. La loro è una interminabile teoria di vittime che soltanto Dio può
condannare e salvare e alla fine, quando quegli alpini riescono a rompere l'accerchiamento, ecco
che avviene il miracolo, si cambia quadro, il dolore viene di colpo annullato, la speranza prende il
posto dello spettro della morte.
Sarebbe stato molto facile alzare il tono, estrarre da quella fuga dalla morte uno spettacolo,
Bedeschi non lo ha fatto, preferendo continuare a sfogliare il calendario di quei giorni di inferno. Ha
sentito che al di là c'era una tragedia molto più grossa, eterna, che non si trattava soltanto di un
giuoco mortale fra sovietici che andavano all'attacco e i nostri poveri alpini che erano costretti a
battere a piedi nudi quelle piste ghiacciate, che in fondo assistevano a qualcosa di diverso e di più
terribile della guerra e che in ultima analisi si consumava una «passione» di proporzioni gigantesche
dove l'uomo scompariva, non poteva più tenere. Eppure alcuni di quegli alpini della ritirata sono
riusciti a salvarsi, certo a un prezzo spaventoso (i centomila che sono rimasti su quei campi
sterminati di neve), hanno potuto raggiungere la loro patria, reinserirsi nel consorzio civile, dopo
avere conosciuto i confini infiniti del consorzio della violenza e della morte.
Il libro si chiude con l'altra voce che era poi la voce di chi non era stato scelto da Dio per quella
prova e ignorava quanto era avvenuto in Russia, la nostra voce, la voce del disgusto e dello schifo.
È una conclusione mostruosa ma che appartiene alla nostra storia, a quello che sappiamo fare della
nostra esistenza e che rende il peso spaventoso della rinuncia e della viltà. Erano, sono due mondi
incomunicabili e purtroppo eterni, il mondo della storia che si racconta e quello della storia che si
preferisce tacere e nascondere.
Che cosa resta a distanza di quasi quarant'anni? Restano dei segni, e il libro del Bedeschi ne è uno,
di qui la sua importanza, così bene avvertita dalla grande famiglia che non ha mai avuto voce, né -
tanto meno - la speranza di averla un giorno. Un segno che durerà, su cui il tempo potrà ben poco.
Ma contro quanti come noi hanno saltato o tendono a saltare quel tipo di memorie quella gente ha
una grande funzione correttiva, è il simbolo della vita che non sopporta di essere violentata né
avvilita.
Due mondi - come si vede — che tendono a separarsi sempre di più e sarà così fino a quando si
continuerà a speculare sulla vita. Dal coro di queste pagine viene appunto questo monito, ciò che
racconta Bedeschi non è che il risultato di una sopraffazione aberrante, non è che il risultato della
lezione di Caino che recitiamo e seguiamo da secoli. Quelle colonne di moribondi sulla neve non
facevano che raggiungere le innumerevoli folle di condannati che le avevano precedute ed erano il
simbolo di quello che si sarebbe continuato a perpetrare contro la dignità umana. Non c'erano
possibilità di soccorsi ma non solo questo: lo spettacolo della ritirata era soltanto una conferma di
principi stabiliti e seguiti molto prima. Quegli uomini erano le ombre del male, le vittime di una
catastrofe morale e spirituale che andava ricercata altrove. Del resto, un teatro di quelle proporzioni
non avrebbe retto se non ci fosse stato dietro un autore, un servitore del disordine e. della violenza.
così il silenzio di morte di quelle pianure non era che la risposta impotente a chi si era arrogato il
diritto di parlare per tutti.
C'è infine un'altra cosa da aggiungere: alla base di questi consensi fuori dell'ordinario bisogna saper
intravvedere dei motivi più alti, per esempio quello che dipende dal problema del male. La cronaca
— e questo libro per l'appunto è un documento di vita patita e scontata — è appena una traccia di
un disegno che si riporta a una volontà misteriosa. Dalle vicende narrate si levano in modo
perentorio le domande: perché si deve arrivare a queste mostruosità? perché gli uomini devono
ridursi a travolgere la loro esistenza in un rosario di bestemmie contro la loro figura? Ma ecco che
nelle stesse domande lo scrittore insinua l'unica risposta che tenga, la risposta di segno opposto che
ci richiama alla dignità dei grandi sentimenti e della solidarietà. L'unica soluzione possibile avrebbe
dovuto essere il suicidio e infatti qualcuno - dice Bedeschi - l'ha seguita ma era il frutto di una
sofferenza resa ormai insopportabile. Al contrario, la maggior parte ha avuto la forza di sostenere
l'urto della sorte avversa e ha tenuto grazie agli altri, guardando gli altri, misurando le sofferenze
degli altri. C'è l'episodio dei due fratelli tedeschi, c'è tutto l'album dei soldati italiani che riescono a
chiudere la loro disperazione e a scioglierla in un ultimo atto di volontà, in un ulteriore sforzo.
È chiaro che in quei momenti non c'era alcuno spazio per la parola e quel coro di dolori era un coro
muto, un coro senza voci, ancora una volta senza storia.
Quel poco di storia che gli uomini salvano dalle loro sconfitte e dalle loro vittorie è ben poca cosa, è
nulla contro la storia che si perde, viene cancellata e taciuta, contro il patrimonio del sangue versato
senza un'apparente spiegazione. Nelle pagine più soddisfatte, più gonfie di questi sentimenti
inespressi il Bedeschi si fa il portavoce di quella catastrofe su cui pure è stata costruita la nostra
salvezza. Da questo punto di vista è il cronista, il contabile di questo misterioso bilancio: lui ce lo
mette davanti completo e vivo, sta a noi leggerlo, interpretarlo rettamente. E non tanto perché tutto
poi venga passato nello scaffale della gloria ma perché sia mantenuto vivo, resti presente nelle
nostre coscienze. Ci si obbietterà che si tratta pur sempre di operazioni gigantesche, dove la nostra
misera scienza si smarrisce ed è vero: tuttavia vale conservarne la memoria, riportandole fuori del
vissuto, rimettendole a confronto della nostra più profonda realtà. A quale titolo possiamo
dimenticare una parte della nostra origine, della nostra prima natura, meglio della nostra
condizione? Oltre tutto non lo dobbiamo fare e per diverse ragioni: non dobbiamo dimenticare la
forza misteriosa di questo concime, non possiamo saltare il maggiore capitolo di questa storia che
nessuno è in grado di raccontare.
Noi procediamo per cifre, Bedeschi ha trovato un'apparente scappatoia nel suo titolo più famoso ma
anche di fronte a cifre più ricche le nostre risorse di intelligenza servono a poco. Nel denunciare
queste cifre tentiamo una via d'uscita, un'uscita di sicurezza che se sono rapportabili alla nostra
scienza umana, tuttavia mancano di verità. Tutte quelle migliaia di uomini precipitati dentro
l'inferno bianco della Russia sono un'astrazione, rientrano nel quadro dei nostri calcoli interessati
ma per forza di cose non riescono a restituirci neppure la millesima parte di una sola di quelle
tragedie. Bedeschi ha seguito la strada più onesta, cercando di dare un volto a chi cadeva, la
memoria della loro terra, il ricordo delle famiglie e pur essendo anche lui stravolto di fronte a quegli
spettacoli non mancava di insistere sul minimo umano possibile in quelle situazioni. Uno sguardo,
una parola, un pezzo di formaggio conservato nelle tasche e poi diventato inservibile per delle mani
congelate, una battuta di spirito: tutto questo contribuiva a fare più credibile una storia che di li a
poco sarebbe stata cancellata per sempre. La ritirata non era soltanto l'epopea di quelli che poi
avrebbero raggiunto la salvezza, era - e di gran lunga sovrastava tutto il resto — questo eterno
perdere le proprie tracce, quest'opera congiunta di cancellazione che si accaniva sui corpi di chi si
dava per vinto e non sentiva più nessun richiamo dell'istinto.
Ecco che allora ciò che avrebbe potuto diventare una rappresentazione fine a se stessa acquista un
rilievo maggiore e si trasforma in un fondo perpetuo di memoria umana. Questo noi siamo, ogni
qualvolta venga a mancarci la rete di sostegni che nutrono le nostre illusioni; tutto sta a vedere in
che modo si sa in quelle ore estreme sopportare e aspettare. Gli alpini del Bedeschi non hanno
esitazioni, non conoscono la retorica dei sentimenti commerciabili, sono anche allora gli stessi,
quello che sono sempre stati epperò dimostrano una forza, una tenuta che a noi sarebbe proibita. La
loro saldezza morale ha dei fondamenti ben riconoscibili, gli viene dalla terra, dalla fatica,
dall'essersi quotidianamente pagata la vita.
Soltanto chi non ha fatto questa trafila, non ha avuto questo tipo di educazione naturale, si trova di
fronte al pericolo e alla morte sprovvisto di ragioni e di fede. E questa è anche la spiegazione del
successo del libro del Bedeschi: la maggior parte dell'ultima letteratura di guerra obbedisce a un
altro criterio, intende dimostrare una tesi, quindi i consensi che ottiene sono consensi scontati. Qui i
consensi non sono di parte, l'autore non ha nulla da insegnare, è un semplice trasmettitore di
domande, un esemplificatore di vicende anonime e allora il suo gran pubblico ha potuto
riconoscersi in pieno, acconsentire nel modo in cui un ascoltatore si riconosce in un coro, in un
canto. Vogliamo dire che c'è una parte — giustificata — di tacito stupore e nei momenti di più alta
tensione una corrispondenza con quegli uomini senz'altri codici di quelli dell'amore inespresso. Una
narrazione di rapporti che possono apparire un po' rozzi ma dove per l'appunto il primo pregio va
indicato nell'autenticità, nella mancanza di camuffamenti, nel non sapere adoperare delle maschere.
È anche vero che questo tipo di sospensione lo ritroviamo in tutti i libri di guerra, chi scrive non
arriva a nascondere una certa perplessità ma qui tutto ciò viene depositato sulla pagina senza
accorgimenti, senza alcun tipo di speculazione. Il cronista ha di questi vantaggi sullo storico, gode
di un maggiore spazio, è più sciolto nei suoi movimenti, nel senso che la sua memoria è sollecitata
da quello che ha visto e poi non ha più dimenticato.
Un cronista inoltre è tanto più credibile, quanto meno si preoccupa di sottolineare, di appoggiare la
voce e il Bedeschi spesso lascia l'impressione di non avere ancora finito di raccontare la sua
vicenda, di non avere esaurito quella carica di passione e di dolore. Tutto col tempo viene ridotto, a
volte addirittura appannato: qui invece assistiamo a una sorta di racconto immobile, fermo e questa
è un'ulteriore conferma della purezza del procedimento e prima ancora dell'onestà delle intenzioni
dello scrittore. Bedeschi ha visto giusto quando ha lasciato da parte ogni commento musicale, ogni
compiacimento e Dio sa se non aveva l'occasione di farlo ma il suo vedere giusto è di ordine
morale.
L'autore ha optato per il registro anonimo con la convinzione che proprio nell'anonimo avrebbe
potuto fare confluire l'infinita corrente, l'eterno fiume di quelle anime perdute e salvate.
In conclusione, se il critico ha una raccomandazione da fare ai nuovi lettori che certo non
mancheranno è soltanto questa: le pagine del Bedeschi sono pagine di una tragica cronaca del
passato prossimo ma che non si esauriscono nell'ambito di quel tempo e di quegli uomini e ci
riportano a ragioni e domande che fanno parte della nostra storia assoluta, qual è quella del cuore
umano, nel dolore e nella morte.
CARLO BO

Sommario
TEMPO PRIMO ........................................................................................................................3
1...................................................................................................................................................3
2...................................................................................................................................................9
3.................................................................................................................................................18
4.................................................................................................................................................26
5.................................................................................................................................................35
TEMPO SECONDO ................................................................................................................40
1.................................................................................................................................................40
2.................................................................................................................................................47
3.................................................................................................................................................49
4.................................................................................................................................................57
5.................................................................................................................................................64
6.................................................................................................................................................68
7.................................................................................................................................................70
TEMPO TERZO ......................................................................................................................72
1.................................................................................................................................................72
2.................................................................................................................................................85
3.................................................................................................................................................93
4...............................................................................................................................................102
5...............................................................................................................................................116
6...............................................................................................................................................132
7...............................................................................................................................................136
8...............................................................................................................................................143
9...............................................................................................................................................151
TEMPO QUARTO .................................................................................................................153
1. .............................................................................................................................................153
2...............................................................................................................................................163
3...............................................................................................................................................169
4...............................................................................................................................................174
5...............................................................................................................................................182
6...............................................................................................................................................189
7...............................................................................................................................................190
8...............................................................................................................................................192
9...............................................................................................................................................195
10.............................................................................................................................................199
12.............................................................................................................................................219
13.............................................................................................................................................221
14.............................................................................................................................................224
15.............................................................................................................................................230
Variante...................................................................................................................................237
PRESENTAZIONE di Carlo Bo............................................................................................242

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