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Goffredo Petrassi (Zagarolo, Roma, 16 luglio 1904 - Roma, 3 marzo 2003) comincia la sua

formazione musicale tra i pueri cantores a Roma ricavandone un'esperienza che lascerà
tracce importanti nella maturazione del suo percorso artistico. Successivamente studia
composizione privatamente e poi presso il Conservatorio di Santa Cecilia, dove nel 1931 si
diploma in composizione e in organo. Completa la sua formazione seguendo il corso di
direzione d'orchestra.
Nel 1932 Petrassi, non ancora trentenne, raggiunge fama internazionale con Partita
d'orchestra, che lo presenta a critica e pubblico come una delle intelligenze più
promettenti della sua generazione. Nel 1937 viene eletto Sovrintendente del Teatro La
Fenice di Venezia, carica che mantiene fino al 1940; mentre dal 1939 insegna
composizione al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.
Suggestionato dalle innovazioni di Stravinskij e Casella, Petrassi compone il Concerto per
orchestra n. 1 (1933), cui seguono due composizioni sinfonico-corali, Salmo IX(1934-36)
Magnificat (1939-40) scritte sotto l'influenza dell'arte barocca, romana e controriformista.
La produzione seguente rivela un tono più riflessivo e introverso, un approfondimento delle
tematiche religiose, un ampliamento del materiale tecnico e linguistico, una maggiore
ricchezza della timbrica. Espressione di questa fase è il madrigale drammatico Coro di
morti su testo di Leopardi per coro maschile e strumenti (1940-41).
Dal 1951 il linguaggio strumentale prende il sopravvento su quello vocale, che Petrassi
sceglierà in maniera più saltuaria. I Concerti per orchestra presentano uno sviluppo
linguistico che mette in discussione i legami discorsivi tradizionali.
Petrassi svuota la figura sonora per ridurla a cellule minime oppure assimila in maniera del
tutto personale la dodecafonia e le tecniche della neoavanguardia. Esito di questo
percorso sono le composizioni da camera Quartetto per archi (1956), Serenata per cinque
strumenti (1958), il Trio per violino, viola e violoncello (1959) ecc…
Considerato uno dei massimi compositori italiani del Novecento, Petrassi offre anche al
cinema un contributo, seppur quantitativamente limitato ma di grande rilievo per la
qualità delle sue colonne sonore. Collabora con diversi registi aggiungendo anche la
musica cinematografica tra i settori della propria ricerca linguistica, condotta studiando in
modo approfondito i repertori popolari italiani (come farà lo stesso Rota).

UN CORO DI MORTI
Anche i più celebri fra i classici della letteratura italiana, quelli che si
conoscono se non altro per averli studiati a scuola (almeno in teoria…), hanno a
volte aspetti poco noti, possono riservare piccole o grandi sorprese.

Ad esempio, noi siamo naturalmente portati a ritenere che la grande poesia di


Giacomo Leopardi (1798 /1837) sia tutta racchiusa nel suo libro dei Canti.
Invece no; o meglio non tutta: una delle più belle e singolari poesie che il conte
Leopardi abbia mai scritto non si trova lì, ma in quella raccolta di prose
filosofico/narrative che pubblicò nel 1827 sotto il titolo di Operette morali.

Stiamo parlando del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, che
inaspettatamente si apre con un testo poetico, presentato sotto il titolo di Coro
di morti nello studio di Federico Ruysch. Il poeta prende spunto da una figura
realmente vissuta, uno scienziato olandese che fra Sei e Settecento divenne
famoso per una sua speciale tecnica di conservazione dei cadaveri umani
mediante l'iniezione di una speciale sostanza di cui portò poi nella tomba il
segreto, e immagina che eccezionalmente i morti possano per qualche minuto
esprimersi come se fossero tornati in vita, prima con un canto (il Coro
appunto), poi dialogando coi vivi eventualmente presenti, quindi con Ruysch,
che di mummie ha pieno lo studio.

Il dialogo - le domande dello scienziato, le risposte dei morti - permette a


Leopardi di dare forma narrativa a riflessioni già altrove svolte sul tema della
morte, e soprattutto di sfatare certi pregiudizi inveterati: quello in particolare
che la morte sia dolore, quando piuttosto si rivela come uno scivolare nel non
essere che è simile al sonno, e analogamente fonte, nonché di dolore, semmai
di qualche dolcezza e sollievo. La prosa del dialogo è in stile "quotidiano", non
senza venature di comico e grottesco; tutt'altro è invece il tono del Coro che lo
precede, il testo poetico appunto cui soprattutto si rivolge la nostra attenzione.

Qui la voce alta e nobile della grande poesia è la sola che può porsi in quel
punto di vista totalmente diverso e "altro" dal nostro; diventare, attraverso i
morti, "la voce del nulla" (Binni); essa sola può rivelare che non è la morte ad
essere incubo temibile e misterioso, dolore inspiegabile, ma la vita (quel "punto
acerbo" che interrompe, breve e atroce, l'infinita quiete del nulla, quella "cosa
arcana e stupenda" - dove "stupenda" significa, etimologicamente, "incredibile
e paurosa"). Essa sola può dire, con terribile calma, che l'alternativa è tra
l'infelicità e il nulla, che non essere è meglio che essere

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