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Haruki Murakami e Seiji Ozawa

Assolutamente musica
Assolutamente musica
Introduzione
I miei pomeriggi con Ozawa Seiji
Tutte le note a piè di pagina sono della traduttrice, le annotazioni tra
parentesi quadre sono di Murakami Haruki.
È solo in tempi relativamente recenti che ho cominciato a parlare
di musica con Ozawa Seiji. È vero che quando abitavo a Boston, dal
1993 al 1995, andavo spesso a sentire i suoi concerti, ma ero solo
uno dei tanti fan tra il pubblico e non lo conoscevo personalmente. In
seguito, per caso, sono diventato amico di sua figlia Seira. E da quel
momento ogni tanto mi è capitato di incontrarlo e di fare due
chiacchiere con lui; il nostro era un rapporto molto disteso e cordiale,
che non aveva nulla a che fare con i nostri rispettivi lavori.
Prima di iniziare questa serie di interviste, quindi, non avevo mai
avuto l’occasione di parlare seriamente di musica col Maestro
Ozawa. Una delle ragioni, probabilmente, era la quantità di lavoro
che assorbiva il suo tempo. Quando ci vedevamo, magari per bere
qualcosa, parlavamo di tanti argomenti tranne che di musica, proprio
perché lui vi dedicava già la sua intera esistenza; al limite vi
facevamo solo qualche accenno sporadico. Ozawa è una di quelle
persone che concentra tutte le energie nel lavoro, ed era
comprensibile che alla fine della giornata avesse bisogno di
staccare. Lo capivo ed evitavo di parlare di musica.
Nel dicembre 2009 gli fu diagnosticato un tumore all’esofago, e il
mese seguente subí un’operazione piuttosto invasiva. Fu quindi
costretto a ridurre drasticamente il lavoro per sottoporsi a un
impegnativo programma di riabilitazione. E forse proprio a causa
della sua convalescenza iniziammo a parlare di musica ogni volta
che ci incontravamo. Naturalmente Ozawa era debilitato, ma appena
toccavamo l’argomento sembrava ritrovare le forze. Parlare di
musica, anche se con un neofita come me, gli infondeva nuove
energie. A metterlo a suo agio era probabilmente proprio la mia
estraneità al suo mondo.
Da cinquant’anni sono un grande appassionato di jazz, e ho
sempre apprezzato la musica classica: colleziono dischi fin dagli
anni del liceo e vado ai concerti ogni volta che mi è possibile.
Soprattutto durante gli anni passati in Europa, dal 1986 al 1989, mi
sono letteralmente immerso nella musica classica. Insieme al jazz, è
sempre stata una ricca fonte di ispirazione per il mio cuore e il mio
spirito (e anche un’oasi di riposo). Se mai dovessero annunciarmi
che un giorno non potrò piú ascoltare jazz o musica classica, sulla
mia vita calerebbe un velo di tristezza. «Ci sono due tipi di musica, la
buona musica e tutto il resto»: se ci atteniamo a questa affermazione
di Duke Ellington, dovremo ammettere che sia la musica classica
che il jazz appartengono alla prima categoria. La gioia che proviamo
ascoltando «buona musica» trascende tutti i generi.
Un giorno in cui venne a trovarmi, mentre ascoltavamo musica e
chiacchieravamo, Ozawa Seiji mi raccontò una cosa molto
interessante a proposito del Concerto per piano n. 1 di Brahms
interpretato da Glenn Gould e Leonard Bernstein a New York nel
1962. «Che peccato lasciare che una storia cosí affascinante si
perda nel nulla», mi sono detto, «qualcuno dovrebbe registrarla e
scriverla». E per quanto possa sembrare presuntuoso, l’unico
«qualcuno» a cui riuscissi a pensare in quel momento ero io.
Quando parlai della mia idea a Ozawa Seiji, lui la accolse
favorevolmente: «Perché no? In questo periodo ho parecchio tempo
libero. Facciamolo».
Il tumore non aveva colpito solo Ozawa, ma aveva gettato nello
sconforto tutto il mondo della musica, me incluso. Forse, però, c’era
un aspetto positivo: avremmo avuto il tempo di passare lunghe ore
insieme a parlare di musica. Come dicono gli inglesi, anche dietro le
nuvole piú nere brilla il sole.

Ho sempre amato la musica, ma non ho mai ricevuto una vera e


propria educazione musicale e quindi non ho conoscenze tecniche.
Sono davvero un dilettante. Nel corso delle nostre conversazioni
alcuni dei miei giudizi saranno parsi ingenui, o magari scortesi, ma
Ozawa Seiji non è il tipo che dà peso a questo genere di cose. Ha
riflettuto su ogni mio commento e ha risposto ad ogni domanda e io
gli sono immensamente grato per il tempo che mi ha dedicato. Ho
registrato i dialoghi, li ho trascritti, e poi gli ho chiesto di rileggere il
manoscritto per correggerlo.
«Ora che ci penso, non avevo mai parlato di musica in modo
tanto sistematico e dettagliato». Ecco la prima cosa che mi disse
dopo averlo letto. «Il mio linguaggio però è cosí rozzo, pensa che i
lettori ci capiranno qualcosa?»
È vero, il Maestro parla il suo gergo ozawano, non facile da
rendere in una lingua standard. Accompagna le parole con grandi
gesti e molte delle sue idee prendono la forma di una canzone.
Eppure, attraverso quel suo linguaggio un po’ ruvido, il suo sentire
piú profondo ci arriva con un’immediatezza straordinaria, capace di
abbattere il «muro della parola».
Malgrado io sia un dilettante (o forse grazie a questo mio limite),
ascolto la musica senza preconcetti, mi accontento di aprire le
orecchie ai passaggi piú belli e lasciarmi trasportare. Ne gioisco
profondamente, o mi rattristo quando la qualità dell’interpretazione
peggiora. Talvolta mi capita anche di riflettere su cosa renda un
passaggio piú o meno bello, ma comunque non do molta importanza
agli elementi tecnici. In realtà penso che la musica esista per
rendere felice la gente e che i musicisti usino una serie di tecniche e
di metodi che, nella loro complessità, mi affascinano.
È questo l’atteggiamento che ho cercato di conservare ascoltando
il Maestro Ozawa. In altri termini, mi sono sforzato di restare un
ascoltatore dilettante pieno di onestà e di curiosità. Perché forse
anche la maggior parte di coloro che leggeranno questo libro sono
dilettanti in fatto di musica.

A rischio di sembrare sfacciato, mi prendo la libertà di dire che nel


corso delle nostre numerose conversazioni ho iniziato a pensare di
avere con Ozawa Seiji diversi punti in comune. A prescindere dal
talento, dalla qualità di quel che produciamo e dalla fama, mi pare
che abbiamo lo stesso modo di vivere.
Prima di tutto credo che il lavoro ci procuri la gioia piú genuina.
Malgrado le differenze che possono esistere tra la musica e la
scrittura, siamo felici quando siamo immersi nei nostri rispettivi
mestieri. Ed è proprio questa capacità di immergerci completamente
nel lavoro che ci riempie di soddisfazione. Raggiungere l’obiettivo è
importante, certo, ma per noi la ricompensa migliore è la capacità di
concentrarci profondamente, di dedicarci anima e corpo a quello che
stiamo facendo al punto da non renderci conto del tempo che passa.
Poi, ci sprona ancora quella stessa «fame» che era in noi quando
eravamo giovani, quel sentimento del «non fare mai abbastanza», di
dover perseverare, spingerci sempre piú lontano. Osservando
Ozawa al lavoro ho sentito la profondità e l’intensità del desiderio, un
desiderio positivo, che lo anima. Anche quando sa di fare bene una
cosa e ne è fiero, non è mai del tutto soddisfatto. Vuole che la sua
musica sia sempre piú bella, sempre piú profonda: lotta contro il
tempo e le sue stesse forze per raggiungere la perfezione...
Il nostro terzo punto in comune è l’ostinazione. Siamo pazienti,
resistenti, piú semplicemente cocciuti. Se abbiamo deciso di agire in
un modo, nessuno riuscirà a farci cambiare idea. E quando le nostre
scelte ci creano problemi, o ci attirano critiche e antipatie, ce ne
assumiamo la responsabilità senza provare il bisogno di scusarci. In
Ozawa non c’è presunzione alcuna, è un uomo alla mano, scherza
volentieri, ma non distoglie mai l’attenzione da tutto ciò che succede
intorno a lui, e ha chiare in mente le sue priorità. Quando ha preso
una decisione, non cambia idea. Per lo meno è l’impressione che mi
ha dato.
Nel corso della mia vita, ho frequentato persone di tutti i tipi e
sono arrivato a comprendere bene alcune di loro, ma prima di
conoscere Ozawa non avevo mai incontrato nessuno con cui
potermi identificare cosí facilmente. Per questo mi è molto caro. E
sapere che al mondo esiste una persona come lui mi rassicura.
È evidente, però, che siamo anche diversi. Ad esempio io non
sono altrettanto socievole. In qualche maniera ho una certa curiosità
nei confronti degli altri, ma succede raramente che qualcuno lo noti.
In quanto direttore d’orchestra, Ozawa lavora con un gran numero di
persone ogni giorno. Per quanto talentuoso, se fosse un uomo
scorbutico, sempre di cattivo umore, non sarebbe accettato dai suoi
musicisti. Le relazioni interpersonali sono estremamente importanti
per lui. Il direttore deve essere sulla stessa lunghezza d’onda
dell’orchestra, avere competenze relazionali e organizzative. In piú
deve pensare al suo uditorio, e, in quanto maestro, sforzarsi di
guidare la nuova generazione.
Invece io, che sono uno scrittore, posso trascorrere giornate
intere senza vedere anima viva, senza parlare con nessuno, senza
mostrarmi al pubblico: ho questa libertà. Il lavoro di gruppo non fa
parte del mio mestiere, e anche se sarebbe bene avere uno scambio
con i colleghi, non ne sento particolarmente il bisogno. Tutto quello
che devo fare è starmene a casa e scrivere. Mi dispiace ammettere
che l’idea di guidare la nuova generazione non mi ha mai nemmeno
sfiorato (né qualcuno mi ha mai domandato di farlo). Penso che le
nostre due professioni esigano una forma mentis diversa, oltre che
caratteri diversi. Ma credo che al livello piú profondo delle nostre
personalità siano maggiori i punti in comune delle differenze.
Le persone creative non possono fare a meno di essere egoiste.
Quest’affermazione sembrerà arrogante, ma è incontestabilmente
vera. Il lavoro creativo non è possibile per chi, qualunque sia il suo
campo d’attività, vuole mantenere il controllo su tutto, cerca di non
causare problemi e sceglie sempre la via piú facile. Creare dal nulla
esige uno stato di concentrazione raggiungibile quasi solamente
nell’assenza di contatto con gli altri, attraverso quella dimensione
che si potrebbe definire dämonisch, il demonico.
Tuttavia, usare il pretesto di essere un artista per permettere al
proprio ego di prendere il sopravvento è un ostacolo alla vita sociale
e allo «stato di concentrazione» indispensabile alla creatività.
Mettere a nudo il proprio ego alla fine del diciannovesimo secolo era
una cosa, in questo secolo un’altra, ed è molto piú difficile. Le
persone che fanno un mestiere creativo devono costantemente
trovare il giusto equilibrio tra individualità e mondo circostante.
Ozawa e io forse non abbiamo scelto gli stessi mezzi per
giungere a questo equilibrio, ma una cosa è certa: i nostri obiettivi
sono simili. E ancora, se le nostre priorità non sono le stesse, il
modo in cui le gestiamo è piú o meno uguale. Per questo motivo ho
potuto ascoltarlo sentendomi in sintonia con lui.
Ozawa Seiji è un uomo profondamente onesto, non usa un
linguaggio difficile, non si dà arie. A settantacinque anni continua a
dar prova delle qualità che tutti hanno sempre apprezzato in lui. Ha
risposto alle mie domande con grande sincerità, i lettori se ne
renderanno subito conto. Ci sono stati argomenti di cui non ha voluto
parlare per ragioni diverse. A volte ho indovinato il motivo della sua
reticenza, altre no. Che fosse per il «detto» o il «non detto», mi è
sempre venuto naturale identificarmi con lui.

Questo libro non è quindi una classica raccolta d’interviste, né un


insieme di «conversazioni con una celebrità». Nel corso dei nostri
incontri ho capito di voler rendere conto di una risonanza naturale
del cuore. La risonanza del cuore di Ozawa, ovviamente, che ho
ascoltato con la massima attenzione. Dopotutto, io facevo le
domande e lui rispondeva. Ma spesso nelle sue parole sentivo l’eco
del mio cuore. E spesso l’eco faceva risuonare ciò che sapevo
sonnecchiare in me da molto tempo. Altre volte, invece, mi ha
sorpreso. La vibrazione simpatetica che si produceva durante le
nostre conversazioni non solo mi ha fatto conoscere Ozawa Seiji,
ma, a poco a poco, mi ha anche rivelato Murakami Haruki. Inutile
specificare che è stato un processo davvero stimolante.
Voglio fare un esempio concreto. Non avevo mai provato a
leggere uno spartito, e non riuscivo a cogliere tutto ciò che questo
genere di lettura comporta. Ma quando Ozawa mi raccontava delle
sue esperienze facevo attenzione all’espressione del suo volto e al
tono della sua voce, e ho capito quanto fosse importante per lui. Per
dare forma alla musica deve prima leggere lo spartito. E lo fa col piú
profondo fervore, fino ad essere convinto di padroneggiare ogni
minimo dettaglio. Si impregna di quei simboli complessi tracciati su
una superficie a due dimensioni − un foglio di carta − e poi libera la
sua musica, dandole spessore e profondità. Questo processo è il
fondamento della sua vita musicale. Si sveglia di primo mattino e,
nel suo spazio personale, in assoluta concentrazione, passa ore a
leggere gli spartiti, a decifrare il messaggio del passato.
Come Ozawa, anch’io mi sveglio alle quattro e mi concentro sul
mio lavoro, da solo. D’inverno è ancora buio. Non c’è avvisaglia
dell’aurora, nessun canto d’uccelli. Passo cosí cinque o sei ore
seduto alla scrivania a scrivere, picchio sui tasti del computer e
intanto bevo caffè caldo. È la mia routine quotidiana da piú di un
quarto di secolo. Mentre Ozawa si immerge nella lettura dei suoi
spartiti, io mi concentro nella scrittura. La natura delle nostre attività
è diversa, ma immagino che il nostro livello di attenzione sia
identico. Mi succede di pensare che non potrei vivere come faccio
ora se non fossi capace di concentrarmi. Senza questa facoltà, la
mia vita non sarebbe piú la mia. Credo che lo stesso valga per
Ozawa.
Quando Ozawa ha parlato della lettura di uno spartito, ho capito
concretamente cosa volesse dire, come se stesse parlando di me,
non di sé. Ho provato questa sensazione in molti momenti delle
nostre discussioni.

Tra il novembre 2010 e il luglio 2011, e in tanti posti diversi –


Tōkyō, Honolulu, la Svizzera –, non mi sono mai lasciato sfuggire
l’occasione di intervistare Ozawa. Per lui era un periodo cruciale,
durante il quale si dedicava principalmente a riacquistare la salute.
Dopo aver subito diversi interventi chirurgici, andava in palestra e
faceva grandi sforzi per ritrovare la condizione fisica precedente alla
sua prima operazione. Dato che frequentavo la stessa palestra, mi
succedeva spesso di incontrarlo in piscina mentre procedeva con la
riabilitazione.
Nel dicembre 2010, Ozawa ha fatto uno spettacolare rientro sulla
scena musicale alla Carnegie Hall di New York, in un concerto con la
Saitō Kinen Orchestra, l’orchestra che nel 1984 ha formato, insieme
ad altri musicisti, per rendere omaggio al suo maestro Saitō Hideo.
Non ho potuto assistere a questo concerto, ma a giudicare dalla
registrazione è stato magnifico, ispirato, anche se estenuante per il
fisico di Ozawa, com’era evidente agli spettatori. Dopo altri sei mesi
di convalescenza, il Maestro ha condotto il Seiji Ozawa International
Academy Switzerland, un seminario che ha luogo ogni anno sulle
rive del lago Lemano. Dopo essersi dedicato, con il consueto
fervore, alla formazione di un piccolo gruppo di giovani musicisti, li
ha diretti a Ginevra e a Parigi per due concerti di particolare
successo. Questa volta c’ero, ed ero con lui anche nei dieci giorni di
preparazione. Pur ammirando la passione che metteva nel suo
lavoro, non potevo fare a meno di essere preoccupato per la sua
salute: come avrebbe reagito il suo fisico a tutti quegli sforzi? La
musica creata in quelle occasioni era meravigliosa, e lo era
soprattutto grazie all’energia di Ozawa.
Mentre lo guardavo in piena azione, sono arrivato a questa
certezza: era piú forte di lui, non riusciva a farne a meno. Non
poteva resistere. Il suo medico, il suo allenatore sportivo, i famigliari
e gli amici non avrebbero potuto dissuaderlo, pur avendoci
strenuamente provato. Perché la musica è il combustibile che
permette a Ozawa di andare avanti. Non riesce a vivere senza la
sua dose quotidiana. Si sente vivo solo quando crea la sua musica,
materia pulsante che lancia agli spettatori come se dicesse: «Ecco a
voi!» Chi potrebbe domandargli di smettere, allora? Anche io avrei
voluto dirgli: «Signor Ozawa, abbia pazienza, faccia una pausa per
recuperare le forze e torni a dirigere solo quando si sarà rimesso.
Capisco quello che prova, ma conosce anche lei il detto “Chi va
piano va sano e va lontano”». Sarebbe stata l’unica reazione
ragionevole. Eppure, pur vedendo che per stare in piedi sul podio
impegnava tutti i muscoli del corpo, non riuscivo a dargli questi
consigli. Avevo l’impressione che quelle parole, una volta
pronunciate, sarebbero suonate false. Perché quest’uomo abita un
mondo in cui i limiti del ragionevole non valgono. Come non valgono
per un lupo, che può vivere solo nel cuore della foresta.

Lo scopo delle interviste raccolte in quest’opera non è fare un


ritratto dettagliato del personaggio Ozawa Seiji. Non sono un
reportage o una teoria sul come funziona un individuo. Essendo un
appassionato di musica, il mio solo obiettivo era parlare di musica
nel modo piú aperto e onesto possibile con il musicista Ozawa Seiji.
Ho voluto mettere in luce il nostro rispettivo modo, anche se a livelli
molto diversi, di dedicarci alla musica. Questo era il mio obiettivo
principale nel creare questo libro, e mi piace pensare di averlo
realizzato, in una certa misura. Conservo dentro di me la sensazione
viva di «aver passato un periodo estremamente piacevole
ascoltando musica insieme al Maestro Ozawa». Forse un titolo come
I miei pomeriggi con Ozawa Seiji sarebbe stato piú indicato.
Chi leggerà questo libro, si renderà conto che le risposte di
Ozawa, anche se spontanee, sono spesso folgoranti. Si esprime con
parole semplici, che si inseriscono con naturalezza nella
conversazione, ma in esse si celano passaggi taglienti come lame,
sprazzi di uno spirito acutissimo. Per fare un paragone musicale,
sono come quelle sottili «voci interiori» che un ascoltatore poco
attento non sente. Per questo motivo durante le interviste non
potevo permettermi la minima disattenzione. Non potevo lasciarmi
sfuggire il minimo cambiamento di tono. Tralasciare questi indizi
discreti mi avrebbe fatto perdere il senso delle parole di Ozawa.
Ozawa Seiji è dunque un indomito «figlio della natura» e un
inesauribile pozzo di saggezza. Un uomo che ha fretta di ottenere un
risultato, ma capace di infinita pazienza. Qualcuno che dà prova di
illimitata fiducia verso le persone attorno a lui, ma non può fare a
meno di vivere in profonda solitudine. Sono aspetti contrastanti che
coesistono in lui. Evidenziarne solo uno sarebbe equivalso a fornire
un’immagine parziale. Ho cercato di trascrivere le sue parole il piú
fedelmente possibile.
Il tempo che ho passato con Ozawa è stato per me una vera
gioia, e spero di riuscire a condividerla con i miei lettori, pagina dopo
pagina. Voglio esprimere al Maestro la mia sincera riconoscenza per
avermi concesso tanto tempo. Realizzare questa serie di interviste,
che coprono un lungo periodo, ha comportato molti problemi
organizzativi, ma la mia piú grande ricompensa è stata sentire il
Maestro dire: «Ora che ci penso, non avevo mai parlato di musica
cosí, in modo tanto sistematico e dettagliato».
Spero con tutto il cuore che Ozawa Seiji continui a offrire al
mondo tanta «buona musica», e il piú a lungo possibile. La buona
musica, come si dice dell’amore, non è mai troppa. Perché infinito è
il numero di persone che vi trova alimento al proprio desiderio di
vivere.

Vorrei anche ringraziare Onodera Kōji, che mi ha aiutato nella


redazione di questo libro. La mia conoscenza tecnica della musica è
limitata, quindi i consigli di Onodera, per la terminologia e le
informazioni pratiche, mi sono stati molto utili. Gliene sono grato.
MURAKAMI HARUKI
Prima conversazione
Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Beethoven e qualche
altra opera
La nostra prima conversazione ha avuto luogo il 16 novembre
2010, a casa mia, nella prefettura di Kanagawa. Abbiamo
semplicemente scelto alcuni dischi dai miei scaffali, sia in vinile
che cd, e parlato della musica che stavamo ascoltando. Ad ogni
incontro, per evitare di perderci in troppi argomenti, ho proposto
un tema di riflessione. Quello del nostro primo dialogo è stato il
Concerto per piano in do minore n. 3 di Beethoven. Ci siamo
arrivati partendo dall’interpretazione del Concerto per piano n. 1 di
Brahms di Glenn Gould e Leonard Bernstein, di cui Ozawa mi
aveva già parlato in precedenza. Questo perché il mese
seguente, a New York, avrebbe dovuto dirigere quello stesso
Concerto n. 3 con la pianista Uchida Mitsuko.
In realtà, a causa di un forte mal di schiena cronico, aggravato
dalla lunghezza del volo e da una polmonite dovuta all’ondata di
freddo che aveva colpito New York quell’anno, purtroppo Ozawa
ha dovuto rinunciare; ad accompagnare Uchida Mitsuko è stato
un altro direttore d’orchestra. Quel pomeriggio, comunque,
abbiamo disquisito per tre ore intere del Concerto n. 3 di
Beethoven.
Ogni tanto facevamo delle pause perché lui si riposasse un po’ o
per permettergli di consumare piccoli pasti a orari stabiliti, come
gli prescriveva la sua terapia.

COME PRELUDIO, CONCERTO PER PIANOFORTE N. 1 DI BRAHMS

MURAKAMI Mi ricordo quello che lei mi ha detto un giorno, a


proposito del concerto del ’62 in cui Glenn Gould, Leonard
Bernstein e la New York Philharmonic suonarono il Concerto per
piano n. 1 di Brahms. Prima di iniziare, Bernstein si rivolse al
pubblico e fece un breve annuncio: «Questa esecuzione non sarà
nel mio stile, ma in quello voluto da Mr Gould». Come se volesse
scusarsi.
OZAWA Sí, ero in sala. All’epoca ero l’assistente di Lenny. Prima
che il concerto cominciasse, Lenny fece un’improvvisa comparsa
sul palcoscenico e iniziò a parlare al pubblico. Io non ci capivo
quasi niente, il mio inglese era pessimo, e continuavo a chiedere
alle persone sedute vicino a me: «Cos’ha detto, cos’ha detto?»
L’essenziale comunque l’avevo colto.
MURAKAMI Il breve discorso di Bernstein è incluso nella
registrazione live che ho qui.

[Non spaventatevi, Mr Gould è qui (il pubblico ridacchia). Fra


poco arriverà sul palco.
Come sapete, non ho l’abitudine di parlare in occasione dei miei
concerti, fatta eccezione per le Thursday Night Previews. Ma oggi si
tratta di una situazione che merita, credo, qualche parola. State per
ascoltare un’interpretazione del Concerto in re minore di Brahms...
diciamo poco ortodossa, un’interpretazione che si distingue
nettamente da tutte quelle che ho sentito, o anche solo sognato,
finora, per la dilatazione eccezionale dei tempi e le frequenti
deroghe alle indicazioni dinamiche di Brahms. Non posso dire di
essere del tutto d’accordo con la concezione di Mr Gould, e da qui
nasce una domanda interessante: «Perché, allora, ho accettato di
accompagnarlo?» (mormorii fra il pubblico) L’ho fatto perché Mr
Gould è un artista di un tale valore e di una tale sincerità, che reputo
doveroso prendere in seria considerazione tutto ciò che concepisce
in buona fede, e la sua concezione dell’opera è abbastanza
interessante da indurmi a credere che anche voi meritiate di
ascoltarla.
Rimane però l’eterna domanda: chi comanda, in un concerto? Il
solista (risa soffocate) o il direttore d’orchestra? (risa piú sonore) La
risposta, naturalmente, è «ora l’uno, ora l’altro», dipende dalle
persone in questione. Ma nella maggior parte dei casi, il solista e il
direttore si mettono d’accordo per giungere a un’interpretazione
coerente, ricorrendo ora alla persuasione, ora alla seduzione, ora
alle minacce (risate). Mi è successo solo una volta, nel corso della
vita, di dovermi inchinare alle idee totalmente innovative di un
solista, idee incompatibili con le mie, ed era la prima volta che
accompagnavo Mr Gould (fragorosa risata del pubblico). Questa
volta però il nostro disaccordo è tale che mi sono sentito in dovere di
farvi questa piccola introduzione.
Allora perché, ripeto, ho accettato di dirigere oggi? Perché non
provoco un piccolo scandalo, trovando un solista sostituto o
lasciando che un mio assistente diriga? Una ragione è che sono
affascinato, e sono felice di avere l’opportunità di un nuovo sguardo
su quest’opera tanto spesso interpretata. Seconda e piú importante
ragione, nella performance di Mr Gould ci sono momenti che
emergono con sorprendente freschezza e forza di persuasione.
Terza, perché possiamo tutti imparare da questo straordinario
artista, che è un esecutore pensante. Infine, perché nella musica c’è
quello che Dimitri Mitropoulos chiamava l’«elemento sportivo», quel
fattore di curiosità, avventura, sperimentazione... e posso assicurarvi
che è stata un’avventura collaborare questa settimana con Mr Gould
su questo concerto di Brahms, ed è in questo spirito di avventura
che ora lo presentiamo a voi (applausi calorosi)].

OZAWA Ecco, ecco (ascoltando la registrazione, ha letto sulla


copertina del disco il testo tradotto). Però sa, all’epoca, avevo
l’impressione che dire certe cose prima di un concerto non fosse
opportuno. E lo penso ancora adesso.
MURAKAMI Sí, ma Bernstein le dice con grande umorismo, e il
pubblico ride, anche se è spiazzato.
OZAWA Be’ sí, Lenny era un grande oratore.
MURAKAMI E il suo discorso non ha nulla di sgradevole. Voleva
solo precisare che non era stato lui a stabilire il tempo, ma Gould.
Tutto qui.
Dopo il discorso di Bernstein, la musica inizia.
MURAKAMI Mmh, davvero lento, non trova? È sorprendente.
Capisco perché Bernstein abbia voluto mettere sull’avviso il
pubblico.
OZAWA Questo passaggio è palesemente suonato su un ritmo
binario doppio, due battute che si scompongono cosí: «uno-due-
tre/quattro-cinque-sei». Lenny lo dirige come se ce ne fossero sei,
perché un ritmo binario semplice sarebbe troppo lento per
mantenere un intervallo coerente tra due pulsazioni. Non ha
scelta, deve dirigere con sei tempi. Di solito è «uno-e-e, due-e-e»,
diretto come «uno... due...» Naturalmente ci sono mille maniere di
farlo, ma quasi tutti i direttori d’orchestra lo fanno cosí. Qui, ripeto,
con un tempo cosí lento, Bernstein non poteva mantenere un
intervallo coerente tra le pulsazioni, allora non ha potuto fare altro
che dirigere in: «uno-due-tre/quattro-cinque-sei». Ecco perché
l’orchestra manca di scorrevolezza, tende a incepparsi.
MURAKAMI E il piano cosa farà?
OZAWA La stessa cosa, penso.
Entra il piano (4:29).
MURAKAMI In effetti, anche il piano è lento.
OZAWA Sí, ma qui ci sta bene, soprattutto per chi non ha mai
ascoltato questo passaggio interpretato da qualcun altro. Si ha
l’impressione che sia nato cosí. Quasi fosse un’aria campestre
suonata con una certa rilassatezza.
MURAKAMI Dev’essere difficile però, per il pianista, dilatarlo in
questo modo.
OZAWA Già, ma ascolti bene. Quando si arriva a questo
passaggio, si resta un po’ spiazzati, è inevitabile.
MURAKAMI Ecco (il volume aumenta, entrano i timpani [5:18]), è
qui che l’orchestra sembra cominciare a smembrarsi.
OZAWA È vero. Il concerto non è stato registrato al Manhattan
Center, ma alla Carnegie Hall, giusto?
MURAKAMI Sí. Alla Carnegie Hall.
OZAWA È quello che pensavo. Ecco perché il suono è cosí sordo.
In realtà, il giorno dopo ne hanno fatto una registrazione in piena
regola in studio, al Manhattan Center.
MURAKAMI Di questo stesso concerto di Brahms?
OZAWA Sí. Ma il disco non è mai uscito.
MURAKAMI Infatti non esiste.
OZAWA C’ero anch’io alla registrazione, sempre nel ruolo di
assistente. Sa, quando Lenny, nel suo discorso, ha detto che
avrebbe potuto lasciar dirigere l’orchestra a un suo assistente,
alludeva a me! (ride)
MURAKAMI Quindi, se il solista e il direttore non avessero raggiunto
un accordo, lei avrebbe preso il posto di Bernstein... Comunque il
concerto non manca di tensione, a modo suo.
OZAWA Non c’è dubbio. Anche se non è molto raffinato.
MURAKAMI Con questo tempo cosí lento, si ha l’impressione che
tutto potrebbe crollare da un momento all’altro.
OZAWA Sí, è sempre al limite.
MURAKAMI D’altronde, quando Gould ha suonato con la Cleveland
Orchestra − mi è tornato in mente adesso − non era riuscito a
intendersi con George Szell, e Szell si era fatto sostituire da un
assistente. L’ho letto da qualche parte.
Il pianoforte fa il suo ingresso nel primo movimento (5:56).
OZAWA È di una lentezza impressionante. Eppure, suonato da
Gould, funziona. Non abbiamo la sensazione che ci sia qualcosa
di sbagliato.
MURAKAMI Doveva avere un acuto senso del ritmo. Cioè, riuscire a
tenere un tempo cosí dilatato e intanto inserire il suono del piano
in quello dell’orchestra...
OZAWA Aveva una comprensione straordinaria del flusso musicale.
D’altra parte lo coglie bene anche Lenny, qui. Ce la mette davvero
tutta.
MURAKAMI Di solito, però, questo brano ha un impatto piú forte, piú
passionale, mi pare.
OZAWA È vero, viene suonato con molta piú passione. Ha ragione
lei, la passione non si sente, in questa esecuzione.
Il piano suona il bellissimo secondo tema del primo movimento
(7:35).
OZAWA Qui, il tempo è azzeccato. In questo secondo tema, cioè.
Ottimo, non trova?
MURAKAMI Sí, davvero.
OZAWA Prima, il passaggio forte era forse un po’ molle, un po’
grezzo. Ma qui è in grado di coinvolgerti.
MURAKAMI Ha appena detto che Lenny ce l’ha messa tutta, però
venire sul palco prima del concerto e fare un discorso non le è
parsa una bella cosa.
OZAWA E lo penso ancora. Ma la gente probabilmente era
disposta ad accettarlo da Lenny.
MURAKAMI Cioè... vuole dire che la musica, bisogna presentarla
cosí com’è, senza commenti, evitando che il pubblico sia
prevenuto? Ma Bernstein voleva solo precisare chi aveva
concepito quel modo di interpretare l’opera.
OZAWA Sí, credo che lei abbia ragione.
MURAKAMI In genere, quando si fa un concerto, chi comanda? Il
solista o il direttore d’orchestra?
OZAWA Di solito, nella preparazione di un concerto, è al solista che
tocca la parte piú pesante delle prove. Il direttore inizia a
confrontarsi con lo spartito solo un paio di settimane prima;
quando il solista ci lavora già da sei mesi o anche di piú, ed è già
totalmente immerso nell’opera.
MURAKAMI Capisco. Ma non capita mai che il direttore sia talmente
superiore al solista da decidere tutto di testa sua?
OZAWA Può succedere. Prendiamo la violinista Anne-Sophie
Mutter, ad esempio. Dopo averla scoperta, Herbert von Karajan
ha subito registrato con lei concerti di Mozart e di Beethoven.
Bene. Ascoltandoli, siamo nel mondo del Maestro Karajan,
totalmente. In seguito hanno pensato che per lei sarebbe stato
meglio cambiare, suonare in concerto con un altro direttore, e il
Maestro Karajan ha scelto me. Ha detto ad Anne-Sophie: «Il
prossimo, fallo con Seiji». All’epoca lei aveva solo vent’anni. Cosí
abbiamo registrato un’opera di Lalo, era... qualcosa con la parola
«spagnola» nel titolo.
MURAKAMI La Sinfonia spagnola. Sono sicuro di avere il disco da
qualche parte.
Si sente un brusio mentre mi metto a cercare il disco e alla fine lo
trovo.
OZAWA Eccolo, eccolo! Oh, non lo vedevo da anni! Con
l’Orchestre Nationale de France. Quindi lei ce l’aveva... Non ci
posso credere! Non ne ho piú una copia nemmeno io. Ne avevo
tantissime, devo averle seminate a destra e a manca. O prestate,
e non sono mai tornate indietro...

GOULD E KARAJAN.
CONCERTO PER PIANOFORTE N. 3 IN DO MINORE DI BEETHOVEN
MURAKAMI Oggi volevo soprattutto farle ascoltare il Concerto per
piano n. 3 di Beethoven, nell’interpretazione di Karajan e Gould.
Non è una registrazione in studio, è un concerto dato a Berlino nel
’57, con i Berliner Philharmoniker.
Terminata la lunga e imponente introduzione orchestrale, entra il
piano di Gould e inizia il suo dialogo con l’orchestra (3:10).
MURAKAMI Qui, l’orchestra e il piano non suonano insieme, non
trova?
OZAWA Ha ragione, non sono perfettamente insieme. E qui, non
attaccano insieme.
MURAKAMI Dobbiamo dedurne che non si erano preparati bene
durante le prove?
OZAWA No, no, non credo. Ma in certi passaggi, l’orchestra
dovrebbe adattarsi a quello che fa il solista.
MURAKAMI E immagino che all’epoca Karajan e Gould non
avessero lo stesso prestigio.
OZAWA Be’, no, certo. Era il ’57 e Gould era agli inizi, mi pare.
MURAKAMI Forse è solo una mia impressione, ma penso che
durante tutti i primi tre minuti, quando c’è solo l’orchestra, il suono
è davvero molto beethoveniano, molto tedesco. Mentre il giovane
Gould, appena entra, cerca di liberarsi di quest’impronta, di
ingentilirla, di proporre la propria musica... Il risultato è che il
solista e il direttore d’orchestra non sono mai insieme, e a poco a
poco finiscono per allontanarsi sempre piú l’uno dall’altro. Non
voglio dire che sia necessariamente sbagliato, ma...
OZAWA L’interpretazione di Gould è molto libera. E questo si
spiega forse col fatto che non è europeo, ma è un canadese che
vive in America del nord e non in un Paese germanofono, il che
potrebbe fare una grande differenza. Il Maestro Karajan invece
aveva la musica di Beethoven nel sangue, e non ammetteva
discussioni. Qui è tedesco dall’inizio alla fine, è come se dirigesse
una sinfonia. E non aveva certo intenzione di adattare il suo stile
a quello di Gould.
MURAKAMI Un po’ come se stesse dicendo: «Io farò la mia parte
nel modo in cui va fatta, lei suoni pure come le pare». Negli
assoli, nella cadenza, in tutto, Gould crea il suo mondo. Ma il
solista e l’orchestra non si incontrano quasi mai, danno la
sensazione di essere un po’ sfasati.
OZAWA Questo però non sembra dar fastidio al Maestro Karajan,
non pensa?
MURAKAMI Per niente, in effetti. È calato in un universo personale.
Mentre Gould va avanti col suo ritmo, quasi avesse rinunciato fin
dall’inizio ad ogni speranza di collaborazione. Come se Karajan
costruisse la musica in verticale, dalle fondamenta, e Gould
invece tendesse verso la dimensione orizzontale.
OZAWA Malgrado tutto è interessante, no, ascoltare questo
concerto suonato cosí? A mio parere, nessun altro potrebbe
dirigere un concerto con tanta sicurezza, come se si trattasse di
una sinfonia, senza mai preoccuparsi del solista.

GOULD E BERNSTEIN.
CONCERTO PER PIANOFORTE N. 3 IN DO MINORE DI BEETHOVEN

MURAKAMI Adesso le faccio ascoltare lo stesso concerto, ma


questa volta in una registrazione fatta da Gould e Bernstein nel
1959, due anni dopo quella con Karajan. Incisero con la Columbia
Symphony Orchestra, composta soprattutto da membri della New
York Philharmonic.
L’introduzione dell’orchestra ha qualcosa di brutale, come se
fosse argilla gettata contro un muro di pietra.
OZAWA Molto diversa dalla versione del Maestro Karajan, no? In
ogni caso, non ha niente a che fare con una sinfonia. Il suono
dell’orchestra è datato, però.
MURAKAMI Una riflessione del genere non mi era mai venuta in
mente, ma devo ammettere che dopo aver ascoltato Karajan, è
vero, il suono pare un po’ vecchio. Eppure è una registrazione piú
recente.
OZAWA È davvero fuori moda.
MURAKAMI Forse dipende dalla presa del suono?
OZAWA Può darsi, ma non è solo questo. Comunque i microfoni
sono troppo vicini agli strumenti, tanto per cominciare. Negli Stati
Uniti facevano tutti cosí. La registrazione del Maestro Karajan che
abbiamo ascoltato prima, invece, coglie globalmente il suono
dell’orchestra.
MURAKAMI Forse è quello che chiedono gli ascoltatori americani,
preferiscono un suono energico e sordo...
Entra il piano di Gould (3:31).
OZAWA Mi ha detto che questa registrazione è posteriore di due
anni all’altra?
MURAKAMI Sí. È stata fatta due anni dopo il concerto live di
Beethoven, con Karajan, e tre anni prima di quel famoso concerto
di Brahms. Un’atmosfera completamente diversa, a cosí breve
distanza di tempo, non trova?
OZAWA Sí. Qui lo stile è piú vicino a quello di Glenn. Piú rilassato.
Ma se devo essere sincero... be’, non so se valga la pena di
parlarne. Non dovrei fare paragoni tra il Maestro Karajan e
Bernstein, ma pensavo alla parola direction. La direzione che
prende la musica. Il Maestro aveva una capacità innata di fare
lunghi fraseggi. E l’ha trasmessa ai suoi allievi, me compreso. In
confronto, è vero che Lenny era un genio, che aveva anche lui la
capacità istintiva di dirigere i musicisti in lunghi passaggi, ma non
lo sapeva fare in modo consapevole, intenzionale. Il Maestro
Karajan invece aveva uno scopo e lo perseguiva con la forza
della sua volontà − dirigendo Beethoven, ad esempio, o anche
Brahms. Quando dirigeva Brahms, la sua volontà diventava
potente, irresistibile. Tirava dritto, a costo di sacrificare certi
dettagli dell’insieme. E chiedeva la stessa cosa a noi, i suoi allievi.
MURAKAMI A costo di sacrificare certi dettagli...
OZAWA Cioè... se certi dettagli non si accordavano bene tra loro,
non occorreva darvi troppa importanza. L’essenziale era tenere
saldamente questa linea lunga, solida. In inglese c’è la parola
direction − orientamento, insomma. Ma nel caso della musica vi
entrano anche gli elementi di collegamento. C’è la direction
dettagliata, e la direction lunga, tenuta.
L’orchestra suona in crescendo un tema di tre note,
accompagnando il piano.
OZAWA Anche queste tre note offrono un esempio di direzione.
Qui, ad esempio: Laa-laa-laa. Questi passaggi danno corpo alla
musica, alcuni musicisti li possono creare, altri no.
MURAKAMI Quindi, nel caso di Bernstein, quella che lei chiama
«direction» non viene tanto dall’intelletto, quanto dall’istinto, è
quasi qualcosa di fisico.
OZAWA Sí, credo che sia piú o meno cosí.
MURAKAMI Quando funziona, tutto va per il meglio, ma in caso
contrario, si rischia la disgregazione.
OZAWA Esatto. Il Maestro Karajan invece definiva tutto prima,
molto chiaramente, e spiegava altrettanto chiaramente le sue
esigenze all’orchestra.
MURAKAMI La musica aveva già preso forma in lui, prima ancora di
iniziare a suonarla.
OZAWA Grosso modo, sí.
MURAKAMI Bernstein invece era diverso.
OZAWA Sí... forse tendeva di piú a seguire l’istinto.
Gould attacca l’«assolo» al piano, molto rilassato (4:33-5:23).
OZAWA Qui Glenn si prende molta libertà con lo spartito.
MURAKAMI Vuole dire che rispetto a Karajan, che abbiamo appena
sentito, Bernstein lascia piú libertà al solista? Che in una certa
misura si adatta al piano? Ho capito bene?
OZAWA Sí, è un po’ cosí. Per lo meno in quest’opera. Ma è una
cosa che con Brahms risulta piú difficile, quindi si sono scontrati
con il problema che abbiamo visto. In particolare nel Concerto n.
1.
Nell’«assolo», Gould rallenta il fraseggio fino al massimo
allungamento (5:01-5:07).
OZAWA Ecco, quando ral-lenn-taa cosí, è proprio Glenn Gould.
MURAKAMI Incredibile la libertà che si prende nel ritmo! È il suo
stile. Accompagnarlo non doveva essere facile.
OZAWA No, certo.
MURAKAMI Quindi, durante le prove, bisognava capire il suo
respiro e cercare di adattarvisi?
OZAWA Be’, sí. Ma quando si ha a che fare con musicisti del suo
calibro, ci si riesce anche durante un concerto. Il direttore
d’orchestra e il solista devono calcolare come muoversi... anche
se in realtà, si tratta piú di fiducia che di calcolo. Per quanto mi
riguarda, spesso i solisti mi prendono troppo sul serio e sono
piuttosto loro ad affidarsi a me (ride). Mi lasciano fare quello che
voglio (ride di nuovo). E in concerto, quando funziona, è
formidabile. La musica dà un tale senso di libertà!
Il piano suona un passaggio discendente, al termine del quale
rientra l’orchestra (7:07-7:11).
OZAWA Ha notato? Verso la fine del passaggio discendente,
proprio prima che entri di nuovo l’orchestra, Glenn ha accentuato
la nota: pan! [7:10].
MURAKAMI Accentuato?
OZAWA Ha mandato un segnale al direttore, come a dirgli:
«Attacca adesso!» Nello spartito non c’è traccia, di
quest’accentuazione.
Il piano inizia la lunga e celebre cadenza della fine del primo
movimento (13:06).
OZAWA Suonando, si tiene molto basso sulla sedia, un po’ cosí (si
lascia sprofondare nella poltrona). Chissà perché. Non l’ho mai
capito.
MURAKAMI Gould era già famoso, all’epoca?
OZAWA Be’, sí. E naturalmente mi ha colpito, la prima volta che
l’ho incontrato. Ma non stringeva mai la mano a nessuno, portava
sempre i guanti.
MURAKAMI Un eccentrico, probabilmente.
OZAWA Ne ho sentite di tutti i colori su di lui quando ero direttore
musicale della Toronto Symphony Orchestra [dal ’65 al ’69]. Mi
aveva anche invitato a casa sua...
[Alcuni degli aneddoti che Ozawa Seiji mi ha raccontato durante
quest’intervista purtroppo non sono pubblicabili].
Fine della cadenza. Il ritmo delle note cambia in modo
travolgente.
MURAKAMI La sua interpretazione qui è assolutamente libera, è
d’accordo?
OZAWA È vero. Ed è geniale. Convince al cento per cento. In realtà
è molto lontana dallo spartito, ma questo non disturba.
MURAKAMI Quando dice che è lontana dallo spartito, non si
riferisce soltanto alla cadenza o ad altri assoli, vero?
OZAWA No. Ed è questa la cosa straordinaria.
Fine del primo movimento (17:11). Sollevo la puntina dal disco.
MURAKAMI Sa, la prima volta che ho ascoltato questa registrazione
di Gould e Bernstein ero ancora al liceo. Da allora, questa
versione del Concerto in do minore è rimasta una delle mie
preferite. Mi piace anche il primo movimento, è ovvio, ma nel
secondo, c’è questo passaggio meraviglioso in cui Gould sostiene
l’orchestra con i suoi arpeggi.
OZAWA Vuol dire il momento in cui suonano i fiati?
MURAKAMI Esatto. Un pianista meno bravo ne farebbe un semplice
accompagnamento, mentre Gould dà la sensazione di un vero e
proprio contrappunto rispetto all’orchestra. Ecco perché ho
sempre amato questo passaggio. È totalmente diverso
dall’interpretazione di altri pianisti.
OZAWA Per permettersi una cosa cosí, doveva avere una fiducia
assoluta in se stesso. Ascoltiamolo. Sa, per combinazione in
questo momento sto lavorando su quest’opera. Devo presentarla
in concerto fra poco, con Uchida Mitsuko e la Saitō Kinen
Orchestra. A New York.
MURAKAMI Magnifico, non vedo l’ora di sentirla.
Prima che io volti il disco per ascoltare il secondo movimento,
facciamo una breve pausa per bere un «hōjicha» caldo e
mangiare dei «mochi» 1.
MURAKAMI Non dev’essere facile, dirigere questo secondo
movimento.
OZAWA No, per niente!
MURAKAMI È talmente lento! Eppure è cosí bello.
Il piano suona un «assolo», poi entra discretamente l’orchestra
(1:19).
MURAKAMI Il suono dell’orchestra è molto meno duro che nel primo
movimento.
OZAWA Sí, è decisamente migliore.
MURAKAMI Forse i musicisti erano un po’ rigidi, all’inizio?
OZAWA Può darsi.
MURAKAMI In tutto il primo movimento si sente uno sforzo
continuo. Nelle prime battute si ha addirittura l’impressione di un
duello tra il solista e il direttore. A giudicare dalle diverse
interpretazioni, pare che siano possibili due approcci diversi: il
confronto o la collaborazione. Prenda la registrazione live di
Rubinstein e Toscanini, nel ’44. Anche lí, sembra che si battano in
duello. L’ha mai sentita?
OZAWA No, mai.
Gli arpeggi di Gould si sovrappongono al suono degli strumenti a
fiato (4:19-5:27).
OZAWA Eccolo, il passaggio di cui parlava.
MURAKAMI Sí, è questo. Il piano dovrebbe limitarsi ad
accompagnare l’orchestra, ma il tocco di Gould è talmente chiaro,
determinato...
OZAWA Già, non sembra davvero un accompagnamento. Non
nella testa di Glenn, per lo meno.
Gould termina una frase, fa una brevissima pausa e passa alla
frase seguente (5:40).
OZAWA Ecco, ha sentito? Quando segna una pausa, è Gould in
piena libertà. È il marchio del suo stile, questo modo di inserire
dei brevi silenzi.
Per un lungo momento il piano e l’orchestra si legano
meravigliosamente.
OZAWA Adesso siamo in pieno nel mondo di Gould. Si è preso la
responsabilità di tutto. Nella musica asiatica, si dà molta
importanza al ma − alle pause e agli spazi vuoti. Ma credo che
valga anche per la musica occidentale. Prenda un pianista come
Glenn Gould: fa esattamente la stessa cosa. Non che sia alla
portata di chiunque, non dei musicisti di medio livello, in ogni
caso. Lui invece lo fa benissimo.
MURAKAMI I musicisti meno bravi di lui non ci riescono?
OZAWA No, mai. O se lo fanno, le loro pause non si inseriscono
nell’insieme con altrettanta naturalezza. Non catturano, non
esercitano lo stesso fascino. Invece il solo interesse di introdurre
queste pause, questi ma, consiste nella loro capacità di catturare,
di trascinare l’ascoltatore, no? E se a farlo è un virtuoso, che sia
musica orientale o occidentale non ha alcuna importanza.
MURAKAMI Conosco una sola registrazione di questo concerto
diretto da lei, con Rudolf Serkin e la Boston Symphony Orchestra,
nel 1982.
OZAWA Sí, infatti, con Serkin ho registrato una sola volta. Tutti i
concerti per piano di Beethoven. Avremmo dovuto fare anche i
due concerti per pianoforte e orchestra di Brahms, ma Serkin si è
ammalato ed è morto poco tempo dopo.
MURAKAMI Una grave perdita.
L’orchestra suona una lunga frase pacata.
MURAKAMI Dev’essere difficile, per un’orchestra, tenere una
singola nota per tanto tempo.
OZAWA Sí, difficilissimo.
Il piano e l’orchestra si legano su un tempo lento.
OZAWA Oh, qui non suonano insieme!
MURAKAMI Ha ragione.
OZAWA Stavo battendo il tempo, penso che il solista si prenda un
po’ troppa libertà. Sí, decisamente troppa!
MURAKAMI Anche nella versione di Karajan e Gould che abbiamo
ascoltato prima c’erano dei passaggi in cui non suonavano
perfettamente insieme, vero?
«Assolo» del piano, straordinariamente lento.
MURAKAMI Non credo ci siano molti pianisti in grado di suonare
questo secondo movimento, senza renderlo troppo lento e noioso.
OZAWA Esatto.
Fine del secondo movimento (10:47).
OZAWA La prima volta che ho diretto questo concerto, il pianista
era Byron Janis. L’abbiamo dato nell’ambito del Ravinia Festival
di Chicago.
MURAKAMI Sí, ho sentito parlare di Byron Janis.
OZAWA Poi, questo stesso Concerto n. 3 di Beethoven, l’ho diretto
con Alfred Brendel, a Salisburgo. Dopo c’è stata di sicuro Uchida
Mitsuko. La registrazione con Serkin è venuta dopo.
SERKIN E BERNSTEIN.
CONCERTO PER PIANOFORTE N. 3 IN DO MINORE DI BEETHOVEN

MURAKAMI Vorrei farle ascoltare un’altra registrazione del Concerto


n. 3 di Beethoven.
OZAWA Sentiamo!
Inizio del primo movimento. Introduzione dell’orchestra a ritmo
veloce.
OZAWA Be’, non ha niente a che fare con quanto abbiamo
ascoltato finora. È molto veloce. Una vera corsa, altroché!
MURAKAMI Piuttosto aggressivo?
OZAWA Sí, aggressivo. Va a rotta di collo.
MURAKAMI E tutti quanti sembrano nervosi, non trova?
OZAWA Sí, molto nervosi.
Alla fine dell’introduzione orchestrale, il piano entra a tutta
velocità.
OZAWA L’orchestra e il solista suonano con un brio eccezionale, si
intendono alla perfezione.
MURAKAMI A velocità supersonica tutti e due. Eppure suonano con
scioltezza.
OZAWA È evidente che il direttore ha scelto di battere un doppio
tempo, 2/2 invece di 4/4. Se in 4/4 non è possibile, si è obbligati a
battere in 2/2, invece che in 4/4.
MURAKAMI Vuole dire che è la rapidità del tempo a obbligarlo a
battere in 2/2?
OZAWA Alcuni antichi spartiti indicano una misura 2/2, anche se
ormai si ritiene corretto il 4/4. Ma l’inizio di questa registrazione è
sicuramente in 2/2, per questo dà l’impressione di scorrere via.
MURAKAMI Cioè... il solista e il direttore d’orchestra scelgono tra
2/2 e 4/4, a seconda della rapidità che vogliono dare al
movimento?
OZAWA Esatto. Se si vuole rallentare, bisogna suonarlo in 4/4. Gli
studi piú recenti portano a pensare che sia il tempo giusto, ma
all’epoca in cui io ho studiato quest’opera, si poteva scegliere.
MURAKAMI Non lo sapevo. La versione che stiamo ascoltando è
quella di Rudolf Serkin con Leonard Bernstein, e la New York
Philharmonic. È stata registrata nel ‘64, cinque anni dopo quella
con Glenn Gould.
OZAWA Sí, una cosa inconcepibile.
MURAKAMI Come spiega tanta precipitazione?
OZAWA Non ne ho la minima idea.
MURAKAMI Non riesco a immaginare Rudolf Serkin come un
fanatico della velocità. Forse questo tipo di interpretazione era di
moda, in quegli anni?
OZAWA Mah... nel ’64, può darsi. In quel periodo si teneva in gran
conto l’influenza stilistica della musica antica, quindi le
interpretazioni tendevano ad avere un ritmo molto veloce. Con
poche note tenute, anche perché in passato i violini e le viole
avevano degli archetti piú corti. Potrebbe essere la spiegazione di
questa versione «a rotta di collo», che non ha niente di tedesco!
MURAKAMI O si potrebbe attribuire a una tendenza della New York
Philharmonic?
OZAWA Be’, se la paragona ai Berliner o ai Wiener Philharmoniker,
è vero che non ha un suono tedesco.
MURAKAMI La Boston Symphony Orchestra è ancora diversa,
giusto?
OZAWA Sí. Ha un suono piú dolce. Non suonano cosí, ai suoi
musicisti non piacerebbe.
MURAKAMI La Chicago Symphony è piú simile alla New York
Philharmonic?
OZAWA Sí. La Cleveland Orchestra invece non suonerebbe mai in
questo modo. Assomiglia piuttosto alla Boston Symphony, ma
ancora piú dolce. Quello che sentiamo adesso sarebbe troppo
violento per loro. Ma a prescindere dall’orchestra, non riesco a
credere che al piano ci sia Serkin. Che razza di galoppata!
MURAKAMI Bernstein era contrario alla concezione di Karajan del
mondo beethoveniano, vero? Non potrebbe essere questo il
motivo?
OZAWA È possibile. Ma Lenny nell’ultimo movimento della Nona
sinfonia era lento come una lumaca! Ho visto alla televisione un
concerto che forse non è mai stato inciso su disco. Un concerto
che aveva dato a Salisburgo, di sicuro con i Berliner o i Wiener
Philharmoniker. Una lentezza esasperante, stentavo a crederci!
Penso soprattutto al quartetto vocale, verso la fine. Quella parte lí.

VOLEVO A TUTTI I COSTI SUONARE MUSICA TEDESCA

MURAKAMI Prima parlava della sua collaborazione con la New York


Philharmonic. Dopo è andato a Berlino?
OZAWA Sí. Sono diventato l’assistente di Lenny alla New York
Philharmonic dopo il mio primo soggiorno a Berlino, poi il Maestro
Karajan mi ha richiamato lí. È a Berlino che ho fatto il mio debutto
e ho ricevuto i miei primi compensi da direttore. Ho diretto le
opere per orchestra di Ishii Maki e Boris Blacher, e anche una
sinfonia di Beethoven, la Prima o la Seconda, non ricordo.
MURAKAMI Quanto tempo è rimasto a New York?
OZAWA Due anni e mezzo, dal ’61 a parte del ’63. Poi nel ’64 ho
diretto i Berliner Philharmoniker.
MURAKAMI All’epoca, tra la New York Philharmonic e i Berliner,
c’era un abisso, quanto a suono.
OZAWA Questo è sicuro, erano il giorno e la notte. Lo sono ancora,
d’altronde. E non c’è niente da fare: lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione, la libertà di cui dispongono i direttori di passare
da un’orchestra all’altra, la globalizzazione culturale... niente,
quelle due orchestre restano agli antipodi.
MURAKAMI Ma nella prima metà degli anni Sessanta, il suono della
New York Philharmonic era particolarmente rude e aggressivo.
OZAWA Sí. Era l’epoca di Lenny. Prenda le sue registrazioni di
Mahler: hanno qualcosa di tagliente. Il concerto che abbiamo
appena ascoltato invece è talmente scorrevole... non l’avevo mai
sentito dirigere cosí.
MURAKAMI Nemmeno la performance di Glenn Gould che abbiamo
sentito poco fa era fluida, anzi, il suono era piuttosto duro. Pensa
che dipenda dal gusto del pubblico americano?
OZAWA No, in realtà no.
MURAKAMI Eppure è un suono totalmente diverso.
OZAWA Sa come si dice? Che il suono di un’orchestra cambia col
suo direttore. E questo è tanto piú vero con le orchestre
americane.
MURAKAMI Quindi le orchestre europee sarebbero meno malleabili,
meno concilianti?
OZAWA Qualunque direttore ci sia sul podio, i Berliner o i Wiener
Philharmoniker non accetteranno facilmente di rinunciare al loro
carattere.
MURAKAMI Eppure, dopo Bernstein, direttori molto diversi si sono
succeduti sul podio della New York Philharmonic: Zubin Mehta,
Kurt Masur...
OZAWA Anche Pierre Boulez...
MURAKAMI Ma non ho mai avuto l’impressione che il suono
dell’orchestra cambiasse molto.
OZAWA No, infatti.
MURAKAMI Ho sentito anche la New York Philharmonic con diversi
direttori, e non sono mai rimasto particolarmente colpito. A cosa è
dovuto, secondo lei?
OZAWA Be’, Lenny non era il tipo che sfruttava le prove per
formare gli elementi dell’orchestra.
MURAKAMI Era troppo concentrato sul proprio lavoro.
OZAWA Già, probabilmente. Era una specie di genio, ma la
preparazione dell’orchestra non era uno dei suoi cavalli di
battaglia. Aveva grandi capacità pedagogiche, su questo non c’è
dubbio, ma credo che non fosse in grado di affrontare
l’insegnamento nei suoi aspetti pratici, come imporre la disciplina.
MURAKAMI Ma non si potrebbe dire che un’orchestra ha uno stile,
come uno scrittore? E che per un direttore sia naturale cercare di
migliorarlo, come lo è per uno scrittore migliorare il proprio?
Lavorarci, cioè. Inoltre, Bernstein doveva esigere un certo livello
tecnico, dai suoi musicisti, no?
OZAWA Certamente.
MURAKAMI Sarebbe un problema di direction, come l’abbiamo
intesa poco fa?
OZAWA In una certa misura, sí. Ma Lenny non ha mai preparato i
suoi musicisti.
MURAKAMI Preparato i suoi musicisti?
OZAWA Insegnato loro a usare i loro strumenti. Non ha mai dato
molta importanza a un approccio d’insieme dell’orchestra. Mentre
per il Maestro Karajan era un’abitudine.
MURAKAMI Un «approccio d’insieme»? In pratica, cosa significa?
OZAWA Il problema è capire come ottenere dall’orchestra un suono
omogeneo. Lenny non ce l’ha insegnato. Non era nella sua
natura. Il suo genio era di un tipo diverso.
MURAKAMI Mi sta dicendo che non era capace di dare indicazioni
pratiche ai musicisti? «Fate questo», «Fate quello»...
OZAWA Un buon direttore di un’orchestra professionista dovrebbe
dare delle indicazioni concrete ai suoi musicisti. Ad esempio dirà:
«In questo passaggio, ascoltate questo strumento». «Qui, invece,
quest’altro». Cosí il suono globale diventa piú compatto.
MURAKAMI E ogni volta che il direttore lo suggerisce, i musicisti si
concentrano sull’ascolto di uno strumento, poi di un altro...
OZAWA Sí, esattamente. Fioccano ordini come: «Ascoltate i
violoncelli!», «Ascoltate l’oboe!» In questo, il Maestro Karajan era
un genio assoluto. Durante le prove dava spiegazioni chiarissime.
Lenny non ha mai saputo fare il direttore d’orchestra in questo
modo. O diciamo piuttosto che non gli interessava.
MURAKAMI Ma doveva avere un’idea del tipo di suono che voleva
dall’orchestra, no?
OZAWA Questo sí.
MURAKAMI Però non riusciva a ottenerlo con il suo modo di
dirigere.
OZAWA No. La cosa sorprendente è che Lenny, come insegnante,
era comunque straordinario. Quando ha tenuto le Norton
Lectures, a Harvard, si era preparato scrupolosamente e ha fatto
una serie di conferenze fantastiche. Sono rimaste celebri e sono
poi state pubblicate in un volume. Ma non sapeva fare questo
genere di cose di fronte a un’orchestra. Non aveva la minima idea
di cosa significhi «insegnare» a un’orchestra.
MURAKAMI Davvero strano.
OZAWA Con noi assistenti era la stessa cosa. Noi ci aspettavamo
che si comportasse da insegnante nei nostri confronti, che ci
istruisse, ma lui non intendeva il suo ruolo in questo modo. Diceva
che eravamo suoi colleghi. Che dovevamo segnalargli le cose che
non andavano, e che lui avrebbe fatto la stessa cosa con noi.
Provava quel buon vecchio desiderio di uguaglianza degli
americani. Nel sistema vigente a quei tempi nel mondo musicale
era lui il capo. Invece insisteva a dire che non era il nostro
professore.
MURAKAMI Non era di scuola europea, insomma.
OZAWA Per niente. E siccome aveva lo stesso atteggiamento
verso l’orchestra, non era in grado di formare veramente i
musicisti. O diciamo piuttosto che per ottenere un risultato anche
minimo, aveva bisogno di moltissimo tempo. Nella sua fissazione
egualitaria, non gli succedeva mai di fare una sfuriata, mentre gli
altri direttori ne facevano di continuo, all’epoca. Anzi, magari
erano i musicisti che rimproveravano Lenny! L’ho visto piú di una
volta. E guardi che non scherzavano, sa? Gli davano risposte
insolenti prendendosi molto sul serio. In altre orchestre non
sarebbe stato nemmeno concepibile.
Qualcosa di analogo mi è successo molto tempo dopo, quando
abbiamo costituito la Saitō Kinen Orchestra. Quasi tutti i suoi
membri erano miei vecchi amici. Adesso molti di loro non fanno
piú parte dell’orchestra, ma durante i primi dieci anni mi dicevano
in faccia tutto quello che pensavano, senza farsi problemi. Era
un’atmosfera cosí. Ad alcuni, soprattutto ai musicisti venuti da
altre orchestre, questo non andava giú. Non riuscivano a farci
l’abitudine. Si lamentavano che con questo metodo per definire
anche il piú piccolo dettaglio si perdeva un sacco di tempo.
Dopotutto il direttore ero io, non dovevo dare ascolto ad ogni
musicista su ogni cosa. Invece era proprio quello che volevo fare,
domandare il parere di ognuno di loro.
Lenny però non aveva a che fare con un’orchestra di amici, con
gente che si riuniva spontaneamente per suonare insieme, ma
con un’istituzione professionale consolidata. E dato che trattava i
musicisti da pari a pari, le prove duravano un’eternità perché
sorgevano sempre problemi inutili. Ho assistito a scene del
genere moltissime volte.
MURAKAMI I musicisti non si accontentavano di seguire le
indicazioni del direttore, insomma...
OZAWA Credo che lui cercasse di comportarsi da «buon
americano», e forse a volte esagerava.
MURAKAMI Questo era il volto che mostrava, d’accordo, ma non
era frustrato quando non riusciva a ottenere dall’orchestra il
suono che voleva?
OZAWA Ah, questo è sicuro! Tutti lo chiamavano Lenny, Lenny...
Chiamavano anche me per nome, Seiji, ma nel suo caso era
veramente un disastro. Alcuni musicisti fraintendevano e
credevano di essere autorizzati a dirgli cose tipo: «Ehi, Lenny,
guarda che sbagli!» In questo modo, le prove non portano a nulla.
E non finiscono mai in tempo.
MURAKAMI Sí, ma quando funziona, immagino che sia molto
eccitante, che ne nasca bella musica. Se invece gira male, si
creerà una confusione terribile.
OZAWA Esatto. La musica può perdere coerenza. A volte è
successo. Nella Saitō Kinen Orchestra, all’inizio, alcuni mi
chiamavano «Seiji», altri «Mr Ozawa», altri ancora «Maestro», era
spiazzante. E se lo era per me, mi sono detto che doveva esserlo
anche per Lenny.
MURAKAMI Immagino che col Maestro Karajan non funzionasse
cosí.
OZAWA No, figuriamoci! Lui non ascoltava nessuno. Se il suono
dell’orchestra non era quello che desiderava, la colpa era sempre
e solo dei musicisti. Quindi li faceva provare e riprovare, finché
non suonavano come voleva lui.
MURAKAMI Nessuna ambiguità, insomma.
OZAWA Con Lenny, i musicisti durante le prove parlavano fra loro.
Cosa che mi ha sempre dato fastidio. Cosí quando provavo con
l’orchestra di Boston, se dei musicisti si mettevano a bisbigliare, li
guardavo dritto negli occhi, e le chiacchiere cessavano
immediatamente. Lenny non l’avrebbe mai fatto.
MURAKAMI E Karajan?
OZAWA Ho sempre pensato che fosse molto severo, su questa
cosa. Poi però c’è stata quella volta, durante una tournée dei
Berliner Philharmoniker in Giappone, lui era già piuttosto anziano.
Gli faceva provare la Nona sinfonia di Mahler, che avrebbero
suonato in un concerto al loro ritorno in Germania. Insomma,
c’era ancora tempo, e i musicisti erano un po’ distratti. Io ero in
sala ad ascoltare, e tutti parlavano fra di loro. A un certo punto il
Maestro si è fermato per attirare la loro attenzione su un punto in
particolare, ma quelli continuavano a chiacchierare. Allora lui si è
voltato verso di me e mi ha urlato: «Di’, Seiji, hai mai sentito
un’orchestra fare cosí tanto baccano durante le prove?» (ride)
Cos’avrei dovuto rispondere?
MURAKAMI Forse in quel momento aveva perso un po’ della sua
autorità. Credo di ricordare che a quell’epoca aveva avuto dei
problemi con i Berliner.
OZAWA Sí, ma alla fine li aveva risolti, era acqua passata. Detto
ciò, i loro rapporti in precedenza erano stati piuttosto tesi.
MURAKAMI Guardandola durante le prove, signor Ozawa, ho notato
che spesso fa come dei segnali all’orchestra, con leggere
variazioni dell’espressione del viso. Un po’ come per dire: «Ecco,
ora vi mostro “questa” faccia».
OZAWA Non so... Non capisco bene cosa vuole dire.
MURAKAMI Ma è d’accordo con me, il suono della Boston
Symphony cambia molto a seconda di chi la dirige?
OZAWA Questo è vero.
MURAKAMI Il direttore è stato per molto tempo Charles Munch, poi
c’è stato Erich Leinsdorf, e dopo ancora lei, se non sbaglio.
OZAWA Dopo Leinsdorf è venuto William Steinberg.
MURAKAMI Ah, giusto.
OZAWA Circa due o tre anni dopo il mio arrivo, il suono
dell’orchestra è cambiato. Ha assunto quello stile tedesco chiaro
e concentrato che io chiamo alla corda. I musicisti che suonano
gli strumenti ad arco ci danno dentro con gli archetti. Viene fuori
un suono pesante. Fino a quel momento la Boston Symphony
aveva sempre avuto un suono leggero, piacevole. Perché il suo
repertorio era soprattutto francese. Aveva subito l’influenza
profonda di Munch e Pierre Monteux. D’altronde Monteux veniva
spesso, anche se non era piú il direttore musicale. Quanto a
Leinsdorf, non aveva niente di tedesco.
MURAKAMI Quando è arrivato lei, l’orchestra quindi ha cambiato
suono.
OZAWA Io volevo fare a tutti i costi musica tedesca. Volevo
interpretare Brahms e Beethoven, Bruckner e Mahler. Di
conseguenza ho chiesto di suonare alla corda. Il primo violino,
Joseph Silverstein, per un po’ ha fatto resistenza, poi ha dato le
dimissioni. Era anche il direttore sostituto, e detestava questo
modo di suonare. Diceva che rendeva confuso il suono. Mi ha
criticato pesantemente, ma in fin dei conti il direttore ero io, e ha
dovuto rassegnarsi. In seguito è diventato un libero professionista
ed è stato nominato direttore musicale della Utah Symphony.
MURAKAMI Ma lei ha anche diretto l’Orchestre Nationale de France
per un certo periodo. Quindi possiamo dire che si trova a suo agio
sia con la musica tedesca che con quella francese?
OZAWA Non esattamente. Ho studiato con il Maestro Karajan, e la
mia musica ha un’impronta fondamentalmente tedesca. Ma dopo
essere arrivato a Boston, ho apprezzato molto Munch, quindi ho
suonato molta musica francese. Ho diretto l’integrale delle opere
per orchestra di Ravel e Debussy, le ho anche registrate. Ma è
solo dopo essere andato a Boston che ho scoperto la musica
francese. Il Maestro non mi aveva mai fatto lavorare su questo
repertorio, con l’unica eccezione del Prélude à l’après-midi d’un
faune.
MURAKAMI Sul serio? Ero convinto che lei eccellesse soprattutto
nella musica francese.
OZAWA No, affatto. Non avevo mai diretto Berlioz, tranne la
Sinfonia fantastica. Sono piú o meno sicuro che tutto il resto di lui,
l’ho fatto su richiesta della mia casa discografica.
MURAKAMI È un compositore difficile, vero? A volte lo ascolto e
non capisco nulla.
OZAWA Difficile? La sua musica è folle. Anch’io a volte non ci
capisco nulla. Forse per questo è adatta a un direttore d’orchestra
asiatico. Posso farne quello che voglio. Un giorno, molto tempo
fa, ho diretto il Benvenuto Cellini a Roma. Ebbene, quella volta ho
seguito il mio impulso, mi sono lasciato andare. Il pubblico era in
visibilio.
MURAKAMI Immagino che con la musica tedesca sarebbe
impossibile.
OZAWA Escluso. E poi, in Berlioz, c’è quel requiem... come si
intitola? Ah, ecco, Grande messe des morts, con le sue otto paia
di timpani... Ho diretto quel requiem davvero come ho voluto. Per
la prima volta a Boston, poi un po’ ovunque. Dopo la morte di
Munch, l’ho diretto a Salisburgo in suo onore, con l’orchestra che
aveva costituito lui. L’Orchestre de Paris.
MURAKAMI In altre parole, non è per suo desiderio che ha
interpretato musica francese a Boston, ma su richiesta della sua
casa discografica?
OZAWA Esatto. Ma non dimentichiamo che ai musicisti questo
repertorio piaceva, che volevano sfruttarlo per farsi un nome.
Quindi mi sono ritrovato a dirigere diverse opere che per me
erano una novità.
MURAKAMI Durante il suo soggiorno in Germania, aveva lavorato
soprattutto sulla musica tedesca?
OZAWA Sí, il Maestro Karajan faceva quasi solo quella. Tutt’al piú
mi affidava qualcosa di Bartók, roba del genere.
MURAKAMI Dopo aver assunto la direzione della Boston
Symphony, ha dedicato molto tempo ad abituare i musicisti a
suonare alla corda? Per metterli nell’atmosfera giusta, quella che
ci vuole per la musica tedesca...
OZAWA Sí. Col risultato che molti direttori tedeschi, inclusi
Tennstedt e Masur, hanno cominciato ad apprezzare la Boston
Symphony e sono venuti a dirigerla quasi ogni anno, su invito
mio.

CINQUANT’ANNI FA, HO INIZIATO AD AMARE MAHLER ALLA FOLLIA

MURAKAMI Quando ha iniziato a dirigere Mahler?


OZAWA Ho cominciato ad apprezzare le sue opere grazie a Lenny.
Ha registrato l’integrale delle sinfonie nel periodo in cui ero suo
assistente. Cosí le ho studiate mentre lavoravo ancora con lui, e
poi, quando sono andato a Toronto e a San Francisco, ho voluto
lanciarmi anch’io. Dopo essermi stabilito a Boston, ho diretto tutte
le sinfonie di Mahler per due volte. Ma quando ero a Toronto e a
San Francisco, Lenny era l’unico direttore al mondo a fare Mahler.
MURAKAMI Karajan invece non l’aveva nel suo repertorio, dico
bene?
OZAWA Per molto tempo lo ha quasi ignorato. Ecco perché lo ha
spesso affidato a me, quando ero a Berlino. In seguito l’ho diretto
anche con i Wiener Philharmoniker. E quindi all’inizio della mia
carriera mi sono concentrato molto su Mahler. Sa, in questo
momento i Wiener stanno facendo una tournée in Giappone: avrei
dovuto dirigere io la Nona sinfonia di Mahler, ma la mia salute non
me lo permette. E anche la Nona di Bruckner.
MURAKAMI Non ci posso credere! È un lavoro enorme!
OZAWA Cosí hanno suonato solo la Nona sinfonia di Bruckner.
Quella di Mahler la tengono in serbo per quando sarò piú in
forma.
MURAKAMI Ma lei deve concentrare tutte le sue energie nel
guarire!
OZAWA L’ha detto! (ride) In ogni caso, è a quell’epoca che mi sono
innamorato di Mahler, ben cinquant’anni fa!
MURAKAMI Considerando questa sua esperienza passata, è
normale che oggi la musica tedesca occupi tanta parte del
repertorio della Saitō Kinen Orchestra.
OZAWA Infatti. La prima volta che abbiamo suonato musica
francese è stato tre anni fa, con la Sinfonia fantastica di Berlioz.
MURAKAMI Avete anche interpretato quest’opera di Poulenc [Les
mamelles de Tirésias].
OZAWA Giusto, giusto! Quindi le opere francesi sono due. Oltre a
Honegger. È svizzero, lo so, ma le sue composizioni ricordano
molto la musica francese. Resta il fatto che la Saitō Kinen
Orchestra dà il meglio di sé quando suona Brahms.
MURAKAMI Sí, è davvero eccellente.
OZAWA Essere stati allievi del professor Saitō ha il suo peso, e poi
molti dei musicisti hanno trascorso lunghi periodi in Germania o in
Austria. La maggior parte delle persone che si sono riunite a
Matsumoto per costituire la Saitō Kinen Orchestra, hanno lavorato
in città come Berlino, Vienna, Francoforte, Colonia, Düsseldorf…
Altre sono andate negli Stati Uniti, però.
MURAKAMI Non trova che il suono della Saitō Kinen Orchestra
assomigli molto a quello della Boston Symphony?
OZAWA Sí, ha ragione!
MURAKAMI Come lo definirebbe? Serico? Aperto? Flessibile? Ho
vissuto a Boston dal ’93 al ’95, e ho assistito ai concerti della
Boston Symphony verso la fine del periodo in cui la dirigeva lei.
Ho sempre avuto l’impressione che poco per volta il suono
prendesse consistenza. Che diventasse, come dire... piú denso.
Molto lontano in ogni caso da quello dell’orchestra ai suoi inizi,
l’atmosfera era cambiata.
OZAWA Può darsi che lei abbia ragione. A quell’epoca mi dedicavo
alla Boston Symphony con passione, mi impegnavo davvero
molto per raffinarla. Ero determinato a farla diventare una delle
dieci migliori orchestre al mondo. E volevo invitare sul podio i
direttori piú famosi. Ma sapevo che il livello globale andava alzato
per raggiungere lo scopo. E ce l’ho fatta, perché l’orchestra ha
conquistato il favore di molti direttori. Non pochi hanno accettato
di venire a dirigerla. Oltre a Tennstedt e Masur che ho nominato
prima, abbiamo avuto, fra i giovani, Simon Rattle e infine
Christopher Hogwood, che con gli strumenti d’epoca era
straordinario.
MURAKAMI Dopo il mio soggiorno a Boston, quando sono tornato in
Giappone e ho sentito la Saitō Kinen Orchestra diretta da lei,
sono rimasto colpito dalla maggiore apertura e vitalità. Riguardo
alla densità del suono non ricordo bene, ma ho avuto
l’impressione che risentisse ancora dell’influenza della Boston
Symphony dei vecchi tempi.

COS’È IL NUOVO STILE INTERPRETATIVO DI BEETHOVEN?

MURAKAMI Vorrei farle un’altra domanda riguardo al modo di


suonare Beethoven. Una volta esisteva una specie di stile
standard, rappresentato da gente come Wilhelm Furtwängler, ad
esempio. Karajan ha piú o meno mantenuto questa tradizione. Ma
a un certo punto, intorno agli anni Sessanta, ci si è cominciati a
stancare di questa interpretazione e a cercarne una nuova. Credo
che l’approccio di Gould sia legato a questa tendenza. Cioè
mantenere intatta la cornice, ma provare a inserire una certa
libertà di manovra all’interno. Come se si spostassero degli
elementi per metterli da parte e riunirli nuovamente... Diverse
correnti sono andate in questo senso, ma non si è mai arrivati a
definire uno stile nuovo, uno stile in grado di opporsi a quello
tedesco ortodosso.
OZAWA Proprio cosí.
MURAKAMI Di questi tempi, però, mi sembra che le cose stiano
cambiando. Innanzitutto, il suono delle orchestre sta diventando
piú trasparente, o sbaglio?
OZAWA Vero. Si tende meno a suonare Beethoven come Brahms,
con quella densità di archi che produrrà un suono spesso e
pesante. E questo ha un rapporto con il diffondersi dell’uso di
strumenti antichi.
MURAKAMI Ha ragione. Attualmente, sul palco ci sono meno archi.
E nei concerti i solisti non devono piú sforzarsi troppo per farsi
sentire. Anche quando non si usa un fortepiano, quando si usa un
piano moderno cioè, si può ottenere un suono piú vicino a quello
degli strumenti antichi. Se il suono nell’insieme è meno ampio, piú
fine, il solista ha piú libertà di muoversi in una gamma dinamica
ristretta. L’interpretazione di Beethoven sta prendendo uno stile
differente.
OZAWA Questo è verissimo per quel che riguarda le sinfonie.
Invece di concepire l’orchestra come un’enorme e potente
macchina da musica, è avvenuto un cambiamento stilistico che
rende piú udibili tutti gli strumenti.
MURAKAMI E questo permette di cogliere la voce mediana.
OZAWA Ecco, ecco.
MURAKAMI Le interpretazioni di Beethoven della Saitō Kinen
Orchestra ci vanno molto vicino.
OZAWA Perché per il professor Saitō era cosí. Quando ho diretto i
Berliner Philharmoniker, mi hanno spesso rimproverato di far
uscire un suono troppo striminzito. All’inizio anche il Maestro
Karajan me lo diceva, e spesso mi prendeva in giro per questo.
La prima volta che ho diretto la Prima sinfonia di Mahler, lui ha
assistito al concerto. Io indicavo l’attacco ad ogni leggio. Sa,
quando si fa cenno ai musicisti perché capiscano: «Lei entra qui».
«Lei entra lí». Ma è molto impegnativo.
MURAKAMI Lo credo!
OZAWA Finché il Maestro mi ha detto: «Seiji, non è necessario che
tu faccia questo con la mia orchestra. Tu occupati di dirigere
l’insieme, è sufficiente». Queste precise parole. Però col mio
metodo la musica diventava piú aperta. I singoli musicisti
suonavano in modo piú chiaro, se gli segnalavo quando entrare.
Certamente la direzione dell’insieme è importante, ma lo è anche
la cura di ogni dettaglio, uno per uno. Quel consiglio il Maestro me
l’ha dato il mattino dopo il concerto, a colazione. Mi ha sgridato,
insomma. «Smettila di segnalare a ognuno di loro quando iniziare!
Non è il compito del direttore!» Quella sera dovevo dirigere lo
stesso concerto, e in teoria non c’era da aspettarsi che lui venisse
di nuovo ad assistere. «Ma se viene», pensavo, «cosa faccio?»
Ricordo di aver diretto tremando dall’inizio alla fine. Poi però il
Maestro non si è visto (ride).
MURAKAMI In altri tempi, si dava per scontato che l’orchestra
avesse un suono ampio, grandioso.
OZAWA Sí, e la stessa cosa valeva per i luoghi dove si registrava.
Il Maestro aveva una predilezione per una chiesa di Berlino. E
quando era a Parigi, chiedeva sempre una sala in cui il riverbero
fosse ampio, come in una chiesa. La Salle Wagram, ad esempio,
che una volta era una grande sala da ballo.
MURAKAMI Una chiesa e una sala da ballo! (rido)
OZAWA All’epoca andava per la maggiore, registrare in luoghi dove
l’eco fosse forte. Il valore commerciale di un locale dipendeva
anche dalla durata del tempo di riverbero, calcolato in secondi. Si
cercava di cogliere il suono globalmente, come un tutt’uno. Anche
a New York, le registrazioni si facevano al Manhattan Center,
dove l’acustica era ottima. Invece quelle fatte dal vivo, durante i
concerti, non piacevano. Tutti preferivano i posti con un forte
riverbero.
MURAKAMI È una caratteristica anche della Symphony Hall di
Boston, vero?
OZAWA Sí. Vede, una volta, quando si registrava, si toglieva la
metà dei sedili riservati al pubblico per fare posto all’orchestra.
Per amplificare il suono. Quando ho iniziato a dirigere io, però, si
tendeva già a lasciare l’orchestra sul palcoscenico per ottenere un
suono piú autentico.
MURAKAMI In questo modo dev’essere piú facile cogliere la «voce
mediana».
OZAWA Sí, anche. Ma lo scopo principale è dare a chi ascolta
l’impressione di sentire una vera orchestra, dal vivo. Senza echi.
Con il piú breve riverbero possibile.
MURAKAMI Ora che me lo dice, la registrazione di Gould e Karajan
che abbiamo ascoltato prima aveva ricche profondità.
OZAWA Il Maestro Karajan dava sempre ai tecnici del suono
istruzioni dettagliate sul suono che voleva ottenere. Poi creava i
suoi fraseggi all’interno di questa cornice. Era bravissimo a fare in
modo che il riverbero mettesse in evidenza i crescendo e i
diminuendo.
MURAKAMI Come quando si canta sotto la doccia.
OZAWA Se vogliamo, in senso peggiorativo.
MURAKAMI E la Saitō Kinen? Dove registra, di solito?
OZAWA In un normalissimo teatro, il Matsumoto Bunka Kaikan,
nella prefettura di Nagano. Il riverbero è minimo. Zero.
MURAKAMI Ecco perché il suono si coglie nei minimi dettagli.
OZAWA Infatti. Fin troppo però, un po’ di riverbero non starebbe
male. Ma la sala ideale non esiste, in Giappone. Attualmente la
migliore è a Tōkyō, la Sumida Triphony Hall. Non ne troverà una
piú indicata per registrare musica.
MURAKAMI Tornando alle interpretazioni recenti di Beethoven, mi
chiedevo se comportino una riduzione del numero degli strumenti
ad arco, o per lo meno del volume del suono.
OZAWA Diciamo che si tratta piuttosto di separare i diversi
strumenti, perché gli ascoltatori possano distinguerli meglio,
all’interno del suono globale. Attualmente credo che sia la
tendenza dominante. Di sicuro è derivata dalle esecuzioni con gli
strumenti d’epoca.
MURAKAMI Probabilmente, ai tempi di Beethoven, le orchestre
avevano meno archi?
OZAWA È ovvio. Alcuni direttori, quando suonano la Terza sinfonia,
l’Eroica, riducono gli effettivi in modo da avere solo sei violini
primi, ad esempio. Io non arrivo a tanto.

IMMERSEEL AL FORTEPIANO,
BEETHOVEN SU STRUMENTI D’EPOCA

MURAKAMI Ora ascoltiamo il Concerto per pianoforte e orchestra n.


3 di Beethoven, su strumenti antichi.
Jos Van Immerseel è al fortepiano, accompagnato dalla
Tafelmusik Baroque Orchestra diretta da Bruno Weil, in una
registrazione del 1996.
OZAWA Il riverbero è fortissimo. Ascolti, qui! Entra una nota
quando si sente ancora la precedente. Normalmente, non
dovrebbe succedere.
MURAKAMI Sí, c’è un forte riverbero.
Arriva il tema a tre note dell’introduzione orchestrale.
OZAWA Questo passaggio, il Maestro Karajan lo avrebbe suonato
cosí: tan-taan-taaan. Avrebbe indicato una direction. Invece
questa orchestra lo suona semplicemente: tan-tan-tan. La
differenza è enorme. Interessante, però.
MURAKAMI Si distingue benissimo il suono di ogni strumento.
OZAWA È vero. Ecco, qui l’oboe si sente chiaramente. Funziona
cosí.
MURAKAMI Siamo vicini alla musica da camera.
OZAWA Esattamente. Questo genere di interpretazione ha una
forza di persuasione particolare.
MURAKAMI È anche la tendenza della Saitō Kinen, no?
OZAWA Sí. Tutti gli strumenti parlano.
MURAKAMI Il suono è molto differente da quello delle orchestre
precedenti, a causa di tanti dettagli.
OZAWA Sí, ma con l’orchestra che stiamo ascoltando, non si
sentono le consonanti sonore.
MURAKAMI Le consonanti sonore?
OZAWA L’avvio di ogni suono.
MURAKAMI ... continuo a non capire.
OZAWA Come spiegare...? Se lei canta a-a-a, sente solo vocali. Se
invece ci aggiunge delle consonanti, otterrà: ta-ka-ka... o ha-sa-
sa... Tutto dipende da quali consonanti abbina alle vocali. Il primo
ta, o il primo ha, sono facili. Le difficoltà vengono dopo. Se
restano solo consonanti, la melodia non regge. Ma le note
suonano diversamente a seconda che si pronunci ta-raa-raa o ta-
uaa-uaa. Avere un buon orecchio musicale significa
padroneggiare sia le vocali che le consonanti. In quest’orchestra,
gli strumenti dialogano, ma le consonanti non si sentono. Anche
se non è una cosa sgradevole.
MURAKAMI Sí, ora capisco. Senza il riverbero però, il suono
sarebbe stancante.
OZAWA È vero. E questo spiega forse la scelta della sala, per le
registrazioni.
MURAKAMI Le interpretazioni su strumenti d’epoca sono
interessanti e originali, ma a parte la musica barocca, non se ne
sentono molte. Soprattutto non Beethoven o Schubert. Però certe
orchestre moderne risentono dell’influenza indiretta di quelle che
usano strumenti antichi.
OZAWA Forse ha ragione. In questo senso, viviamo un periodo
musicale molto interessante.

SI PARLA DI NUOVO DI GLENN GOULD

MURAKAMI Quando ascolto Glenn Gould mi interessa il modo in cui


introduce degli elementi di contrappunto nelle sue interpretazioni
di Beethoven.
OZAWA È vero. Ma la cosa strana è che nessuno, da quando lui è
morto, ha raccolto e sviluppato questo suo approccio.
Assolutamente nessuno. Penso che Gould fosse un genio. Forse
ci sono dei musicisti che hanno subito il suo influsso, ma nessuno
è come lui.
MURAKAMI Anche quelli che si mostrano molto inventivi nelle loro
interpretazioni, di solito lo fanno senza capire la necessità
dell’opera, senza coglierne la sostanza.
OZAWA Uchida Mitsuko, in questo senso, ha molto coraggio. E
anche Martha Argerich.
MURAKAMI Pensa che le donne abbiano piú coraggio degli uomini?
OZAWA Sí, le donne sono piú determinate degli uomini.
MURAKAMI C’è questo pianista, Valerij Afanas´ev.
OZAWA Mai sentito nominare.
MURAKAMI È un pianista russo contemporaneo, ha uno spirito
molto inventivo. Ho sentito il suo Concerto n. 3 di Beethoven.
Davvero interessante. È intellettuale, ma anche appassionato.
Unico. Peccato che a un certo punto stanchi. Nel secondo
movimento è troppo lento. Verrebbe da dirgli: «Va bene, ma ora
basta, ho capito!» Perché pensa troppo. Con Gould questo non
succede mai. Anche quando va spaventosamente adagio, ti
obbliga ad ascoltarlo fino all’ultimo. Non te ne puoi stufare a metà
strada. È come se avesse un ritmo interiore di una forza
trascinante.
OZAWA Il suo modo di introdurre le pause − il ma − è incredibile.
Oggi, riascoltando Gould per la prima volta dopo molto tempo, ho
potuto riapprezzarlo. Il suo è puro... come dire?  È pura audacia.
Qualcosa di innato. Di sicuro non è una messa in scena.
MURAKAMI Sí, è assolutamente originale. Nei video, lo si vede
sollevare una mano dalla tastiera e fare un leggero movimento
delle dita come per aggiungere un vibrato al suono − anche se in
pratica non è possibile.
OZAWA Era un eccentrico, su questo non c’è dubbio. La prima
volta che l’ho visto, ero ancora all’inizio della mia carriera e
parlavo male l’inglese. Non ho mai smesso di rimpiangerlo. Se me
la fossi cavata un po’ meglio, avrei potuto parlare con lui di tante
cose. E avrei potuto conversare anche con Bruno Walter
all’epoca. Quando penso a tutto quello che avremmo potuto dirci,
con Glenn... che peccato! Con Lenny invece avevamo lunghe
conversazioni, perché lui era molto gentile e cercava di adattarsi
al mio inglese.

RUDOLF SERKIN E SEIJI OZAWA.


CONCERTO PER PIANOFORTE N. 3 DI BEETHOVEN

MURAKAMI Ora vorrei farle ascoltare la registrazione del Concerto


per piano che lei ha inciso con Rudolf Serkin nel 1982. Posso?
Non le dispiace?
OZAWA No, affatto!
MURAKAMI So che alcuni musicisti non amano ascoltare le proprie
registrazioni.
OZAWA Ma no, si figuri. Questa è da un bel po’ che non la sento e
non me la ricordo piú. Adesso magari troverò la mia direzione un
po’ pesante.
MURAKAMI No, no, non fa per niente quest’effetto.
OZAWA Davvero?
Abbasso la puntina sul disco. Comincia l’introduzione orchestrale.
OZAWA Un inizio molto tranquillo, non trova?
Il suono pacato poco per volta si arricchisce di modulazioni.
OZAWA Ecco, è quello che chiamo direction. Questo suono, queste
quattro note − tan-tan-tan-tan... − è il primo fortissimo di
quest’opera. Lo facevo intenzionalmente, concentrato.
L’orchestra suona in crescendo ed emerge in primo piano.
OZAWA Avrei dovuto osare di piú. Dare una direction piú chiara.
Qualcosa come ta-ta-taaan! Accentuare di piú. Bisogna osare.
Nello spartito non c’è alcuna indicazione del genere, ovviamente,
non c’è scritto «qui occorre avere coraggio». Bisogna capirlo da
soli.
L’orchestra dà una struttura piú chiara alla musica.
OZAWA Ecco, qui la direction prende forma, ma non è ancora
abbastanza coraggiosa.
Entra il piano (3:22).
MURAKAMI Serkin fa veramente avanzare il suono, vero? È molto
costruttivo nell’articolare.
OZAWA Infatti. Perché sa già che è l’ultima volta che suona questo
brano. Che non avrà piú altre occasioni di registrarlo. Quindi
decide di suonarlo come gli pare, liberamente.
MURAKAMI L’atmosfera è lontanissima dall’interpretazione tesa di
Bernstein.
OZAWA Il suono di Serkin è molto elegante.
MURAKAMI E lei dirige l’orchestra con estrema serietà.
OZAWA Lei trova? (ride).
MURAKAMI Serkin crea la musica nel modo che piú gli piace.
Accompagnando il piano, gli archi suonano in spiccato.
MURAKAMI Questo passaggio non è troppo lento?
OZAWA Sí. Siamo tutti e due troppo prudenti, sia Serkin che io.
Dovremmo essere piú vivaci, dialogare...
Inizia la cadenza (12:50).
MURAKAMI Mi piace il modo in cui Serkin affronta questa cadenza.
Sembra che stia andando su per una salita con un peso sulle
spalle, non è per niente scorrevole, eppure i suoi sforzi ti
conquistano. Ce la farà, arriverà fino in cima? Mentre ascolti
preoccupandoti di questa cosa, la musica ti pervade.
OZAWA Oggi, di solito, i pianisti la suonano a tutta velocità. Ma è
bello anche sentirla cosí.
Per un secondo, le dita di Serkin sembrano esitare (14:56).
MURAKAMI Ah, qui ha sfiorato un pericolo! Però è interessante
anche questo.
OZAWA Ah, ah, ah, sí, c’è mancato un pelo!
La cadenza finisce, l’orchestra ricomincia a suonare lentamente
(16:02).
MURAKAMI Qui l’orchestra entra con una tale delicatezza, che
ascoltandola sono sempre un po’ teso.
OZAWA Sí, capisco. Ma il timpano è davvero bravo. Si chiamava
Vic Firth e ha fatto parte della Saitō Kinen per una ventina d’anni,
dagli inizi dell’orchestra.
Il primo movimento finisce (16:53).
OZAWA Verso la fine era molto meglio.
MURAKAMI Lo penso anch’io. C’era un’intesa perfetta tra
l’orchestra e il solista.
OZAWA È una bellissima cadenza, aveva ragione.
MURAKAMI Ogni volta che l’ascolto, alla fine sono spossato.
Eppure è un’ottima registrazione. Si sente la personalità del
pianista.
OZAWA Quanti anni prima di morire l’ha incisa?
MURAKAMI Dunque... È del 1982, e Serkin è morto nel 1991.
Quindi nove anni prima. Quando aveva settantanove anni.
OZAWA Ed è morto a ottantotto.
MURAKAMI Chi ha scelto il tempo, per questa registrazione? Lei o
Serkin?
OZAWA In quella circostanza il Maestro era lui, quindi mi sono
adattato alle sue decisioni. Dall’inizio delle prove sino alla fine. Ho
fatto del mio meglio per conformarmi al suo modo di suonare dal
primo tutti. Mi sono limitato ad accompagnarlo.
MURAKAMI Avete fatto molte prove?
OZAWA Due giorni interi. Poi c’è stato il concerto, e infine la
registrazione.
MURAKAMI Quindi Serkin aveva deciso molte cose già da prima?
OZAWA L’essenziale è il carattere del brano. Toccava a lui
decidere. Ma a riascoltarlo adesso, penso di non aver avuto
abbastanza coraggio. Avrei dovuto essere piú spavaldo.
Quest’opera è talmente ben definita, che ci voleva un approccio
piú energico. Ma forse non ho osato, chissà...
MURAKAMI Da ascoltatore, un certo riserbo l’ho notato, anche se
mi è difficile dire dove.
OZAWA Sí, avevo paura di esagerare. Me ne sono reso conto
adesso, risentendo la registrazione. Visto che lui suonava in tutta
libertà, come gli pareva, avrei dovuto imitarlo e ritenermi piú libero
anch’io nel dirigere.
MURAKAMI Fa pensare a un vecchio artista del rakugo 2
tradizionale, che si affida all’istinto.
OZAWA Sí, si sente del tutto a suo agio, anche quando le mani
esitano un po’. Prima, quando ha detto che in quel passaggio ha
sfiorato un pericolo, aveva ragione... ma questo rende la
performance piú gustosa, se si è bravi come lui.
MURAKAMI Quando ho sentito questa registrazione per la prima
volta, mi è parso che l’interpretazione di Serkin, il suo tocco, fosse
un po’ piú lento che in altri tempi. Eppure, sembrerà strano, ma
piú lo ascoltavo, meno mi dava fastidio.
OZAWA È perché il sapore di un musicista viene fuori a poco a
poco. Forse il suo modo di suonare degli ultimi tempi era piú
interessante, rispetto a prima.
MURAKAMI Questo si può dire anche di Rubinstein, quando ha
registrato l’integrale dei Concerti per piano di Beethoven con
Daniel Barenboim e la London Philharmonic. Le sue dita erano un
po’ piú lente, ma creavano una musica cosí bella che nessuno ci
badava piú.
OZAWA A proposito di Rubinstein, teneva molto a me, lo sapeva?
MURAKAMI No, non ne avevo idea.
OZAWA Per tre anni l’ho accompagnato in concerto in giro per il
mondo. Io ero ancora a Toronto, quindi era molto tempo fa.
Ricordo che si era esibito in un recital alla Scala di Milano, e io
l’ho accompagnato. L’orchestra era quella della Scala.
Cos’abbiamo suonato, quella volta...? Un concerto di  Čajkovskij,
Mozart, e la Terza o la Quarta di Beethoven. Di solito a metà di un
concerto suonava Čajkovskij, a volte Rachmaninov. Anzi no, forse
era Chopin... Sí, siamo andati a fare concerti insieme in tanti
posti. Lui voleva sempre me a dirigere. Ci ritrovavamo a casa sua,
a Parigi, e partivamo insieme. I viaggi erano sempre lunghi, ma il
ritmo delle tournée non era frenetico... una settimana alla Scala,
ad esempio, tempi cosí. Siamo anche andati a San Francisco.
Andavamo nei posti che gli piacevano, facevamo due o tre prove
con l’orchestra locale e davamo un concerto. E intanto
mangiavamo cose buonissime.
MURAKAMI Dunque suonavate sempre con un’orchestra diversa.
Non era difficile?
OZAWA No, ci abbiamo fatto l’abitudine. Essere il direttore ospite
era divertente. L’ho fatto per tre anni, come le ho detto. Ricordo
bene un vermut italiano che si chiama Carpano... Punt e Mes. Me
l’ha fatto scoprire lui, Rubinstein.
MURAKAMI Gli piaceva fare la bella vita.
OZAWA Eccome! In viaggio portava sempre con sé la sua
segretaria privata, una donna alta e snella. La moglie non era
affatto contenta, ovviamente. Sí, era proprio un bel tipo,
Rubinstein... Ma con le donne aveva successo. E poi gli piaceva
mangiar bene. A Milano andava sempre in un ristorante
pluristellato, dove cucinavano apposta per lui. Noi eravamo suoi
ospiti e il menu non lo guardavamo neanche, gli lasciavamo
decidere tutto. Col risultato che ci portavano sempre qualcosa di
speciale. Io ero impressionato, pensavo: «Al mondo c’è gente che
vive proprio nel lusso!»
MURAKAMI In questo era molto diverso da Serkin.
OZAWA Il giorno e la notte. Agli estremi opposti. Serkin era un
uomo molto serio, e aveva gusti sobri. Era ebreo praticante.
MURAKAMI Lei è molto amico di suo figlio Peter, vero?
OZAWA Da ragazzo, Peter era un ribelle, ha combinato un sacco di
guai. Cosí suo padre mi ha chiesto di occuparmi di lui. Per questo
sono in confidenza con Peter da quando aveva piú o meno
diciott’anni. Suppongo che Rudolf mi considerasse degno di
fiducia. Sembrava pensare che, affidandosi a me, tutto sarebbe
andato bene. Quindi io e Peter abbiamo cominciato a fare tante
cose insieme. Siamo ancora amici, ma all’epoca avevamo
l’abitudine di andare ogni anno a Toronto, o al Ravinia Festival, e
dare concerti insieme. Abbiamo interpretato spesso
l’arrangiamento per piano del Concerto per violino di Beethoven.
MURAKAMI Esiste una registrazione, con la New Philharmonia
Orchestra.
OZAWA Sí, ora che mi ci fa pensare, ne hanno fatto un disco.
Un’opera strana, non l’ho mai piú diretta.
MURAKAMI Con Rubinstein non l’ha mai registrata, vero?
OZAWA No, mai. All’epoca ero ancora molto giovane, non avevo
contratti con delle case discografiche. Quindi non registravo quasi
niente.
MURAKAMI Sarebbe bello fare nuove versioni dei concerti di
Beethoven con la Saitō Kinen Orchestra. Però non mi viene in
mente nessun pianista. Chi potrebbe andar bene? Molti hanno già
interpretato l’integrale.
OZAWA Cosa ne pensa di Krystian Zimerman?
MURAKAMI Credo che li abbia già suonati tutti con Bernstein, forse
con i Wiener Philharmoniker. Anzi no, non tutti. Bernstein è morto
prima di terminare, cosí Zimerman ha registrato i concerti restanti
dirigendo dal piano. Comunque ha fatto l’integrale, esiste anche in
cd.
OZAWA Ora che ci penso, ricordo di averlo sentito a Vienna in un
concerto di Brahms, insieme a Lenny.
MURAKAMI Non conosco quell’interpretazione. Nei concerti di
Beethoven che hanno registrato insieme, comunque, è Bernstein
a definire il ritmo, dall’inizio alla fine. Zimerman al piano è perfetto,
meraviglioso; ma non è il tipo che si mette in evidenza, quindi si
ha l’impressione che l’orchestra abbia il controllo completo. E che
Zimerman sia in perfetta sintonia con Bernstein.
OZAWA Sono diventato amico di Zimerman quando ero a Boston.
Anche lui amava molto quella città, parlava addirittura di comprare
casa e trasferirsi lí. A me sembrava una buona idea e l’ho
fortemente incoraggiato. Lui ha cercato per due mesi, ma non ha
trovato nulla che facesse al caso suo, cosí ha finito per rinunciare.
Diceva che non voleva abitare né in Svizzera né a New York, ma
a Boston. Ma non era facile trovare un appartamento dove poter
suonare il piano senza dar fastidio ai vicini. Peccato, però.
MURAKAMI È un pianista dal gusto sicuro, piuttosto intellettuale.
Sono andato a sentirlo una volta, tanto tempo fa, quando è venuto
in Giappone. Era ancora cosí giovane! La sua interpretazione
delle sonate di Beethoven aveva qualcosa di fresco.
OZAWA Ha ragione. In ogni caso, non mi viene in mente nessun
pianista con il quale vorrei registrare l’integrale dei concerti di
Beethoven. A parte quelli che l’hanno già fatta.

UCHIDA MITSUKO E KURT SANDERLING.


BEETHOVEN, CONCERTO PER PIANOFORTE N. 3

MURAKAMI Per terminare, vorrei ascoltare con lei l’interpretazione


di Uchida Mitsuko del Concerto n. 3. Visto che mi piace
soprattutto il secondo movimento, e che non abbiamo molto
tempo, le propongo di cominciare da quello, per cambiare.
Il movimento inizia con un «assolo» dolce e pacato del piano.
OZAWA ( fin dall’inizio del brano) Che suono stupendo! Questa
donna ha veramente un orecchio straordinario.
Ben presto entra con discrezione l’orchestra (1:19).
OZAWA Riconosco l’Orchestra del Concertgebouw.
MURAKAMI Anche la sala è molto bella.
Il piano e l’orchestra dialogano (2:32).
OZAWA ( profondamente emozionato) Sí, anche il Giappone ha
prodotto una pianista di eccezionale bravura...
MURAKAMI Il suo tocco è limpido. E tutto è molto netto − i suoni
forte sono forte, i piano sono piano. Suona con una padronanza
perfetta, non lascia la minima ambiguità.
OZAWA Ed è decisa, questo è il bello.
L’«assolo» del piano riprende con lunghe pause (5:11).
OZAWA Ascolti questi momenti di perfetto silenzio. È quello che
faceva anche Gould, l’abbiamo appena sentito.
MURAKAMI Ora che me lo fa notare, è vero. Il suo modo di mettere
le pause, la libertà che si prende, ricorda molto Gould.
OZAWA Sí, assomiglia.
Termina l’«assolo» delicatissimo del piano, entra di nuovo
l’orchestra. Una musica squisita. I due ascoltatori sospirano nello
stesso momento.
OZAWA Ha un tale orecchio musicale, questa donna!
Per qualche minuto il piano e l’orchestra dialogano.
OZAWA Tre misure prima, il piano e l’orchestra non andavano
insieme. Sono sicuro che Mitsuko era molto seccata (ride).
Un «assolo» magnifico del piano si dispiega nello spazio come un
dipinto a inchiostro di china. In una sequenza perfetta e
coraggiosa, ogni nota ha il suo valore (8:39-9:33).
MURAKAMI Non mi stancherei mai di ascoltare questo passaggio.
La tensione non cede mai, neanche con un tempo cosí lento.
L’«assolo» del piano finisce, l’orchestra rientra (9:33).
MURAKAMI Quest’ingresso dev’essere difficilissimo.
OZAWA Avrebbero potuto suonarlo meglio.
MURAKAMI Davvero?
OZAWA Sí, si può fare di meglio.
Finisce il secondo movimento (10:27).
OZAWA ( profondamente commosso) Che meraviglia! Mitsuko è
una pianista sublime. Di quand’è, questa registrazione?
MURAKAMI Del ’94.
OZAWA Sedici anni fa, dunque.
MURAKAMI Sí. Ma non è per niente datata, l’ascolto spesso. Ha
una tale grazia, una tale freschezza...
OZAWA E questo secondo movimento è già di per sé un brano
particolare. Penso che Beethoven non abbia scritto altro di simile.
MURAKAMI Suonare un brano cosí lentamente, dall’inizio alla fine,
deve richiedere una grande forza. Sia da parte del pianista che
dell’orchestra. Soprattutto quando l’orchestra rientra. A chi
ascolta, sembrano momenti particolarmente difficili.
OZAWA E lo sono, in effetti. La difficoltà principale consiste
nell’ottenere che tutti respirino all’unisono: gli strumenti ad arco, i
fiati, il direttore d’orchestra... Non è una cosa semplice. E ha
appena sentito quel che succede quando non funziona molto
bene.
MURAKAMI Ma capita che durante le prove ci si accordi su
qualcosa − «Qui entriamo con questo tempo», ad esempio − e poi
la sera del concerto le cose non vadano come voluto?
OZAWA Certo. E in tal caso, l’orchestra può sbagliare
completamente il suo ingresso.
MURAKAMI Quando si crea un vuoto e ci si deve inserire, tutti i
musicisti guardano il direttore?
OZAWA Sí. In fin dei conti, sono io il responsabile della coesione,
tutti gli occhi sono rivolti verso di me. Nel passaggio di prima, ad
esempio, il piano fa tii... poi c’è un vuoto, e infine entra l’orchestra,
ricorda? A seconda che si suoni tii-yataa o tii-... yataa, l’effetto è
molto diverso. Tanto piú che alcuni musicisti ci mettono la loro
espressività, suonano tiiyantii, senza pausa. Quindi se lo si fa
come abbiamo appena sentito − in inglese si direbbe sneaking in
(entrando di soppiatto) − capita anche che non funzioni. È molto
difficile ottenere che tutti i membri dell’orchestra respirino insieme
in un dato momento. Visto che i leggii non sono posizionati tutti
allo stesso modo sul palco, il suono del piano non arriva uguale a
tutti. E questo fa sfasare il respiro. Per evitare questo genere di
errore, il direttore d’orchestra dovrebbe riuscire a esprimere col
viso qualcosa come tiiyantii.
MURAKAMI Lei dunque indica le pause col viso, e col corpo?
OZAWA Sí, sí. Il viso e il movimento delle mani fanno capire ai
musicisti se devono prendere un respiro lungo o corto. È un
dettaglio che fa tutta la differenza.
MURAKAMI Quindi il direttore deve prendere delle decisioni
improvvise, sul momento?
OZAWA Be’, sí, piú o meno. Non si tratta tanto della capacità del
direttore di decidere, quanto di capire, grazie alla sua esperienza,
come l’orchestra deve respirare. Ma lei sarebbe sorpreso se le
dicessi quanti direttori non lo sanno fare! E quelli, in genere non
migliorano mai.
MURAKAMI I musicisti e il direttore possono capirsi attraverso un
contatto visivo?
OZAWA . Certamente. I musicisti adorano i direttori che ne sono
capaci. Perché facilitano loro il compito. Prendiamo questo
secondo movimento del Concerto n. 3 di Beethoven. Il direttore
deve diventare il rappresentante di tutti, prendere una decisione
netta sul modo in cui devono intervenire: haa o ha, o in modo
ancora piú ambiguo, pensieroso: ha... Poi deve comunicare la sua
decisione a tutti. Be’, è un metodo un po’ pericoloso, in fin dei
conti. Ma se faccio intuire questo pericolo a tutti i musicisti, e se si
crea sincronia... insomma, c’è anche questo modo di dirigere.
MURAKAMI Piú l’ascolto, piú mi rendo conto di quanto sia difficile
dirigere un’orchestra! Mi sembra molto piú facile scrivere un
romanzo, senza nessuno intorno (rido).

1. L’hōjicha è un te verde tostato; i mochi sono focaccette di riso cotto al


vapore e pestato in un mortaio.
2. Il rakugo è un genere teatrale tradizionale in cui l’attore recita un monologo
comico.
Primo interludio
A proposito dei collezionisti maniacali
OZAWA Forse rischio di urtare la sua sensibilità dicendole questo,
ma io, i collezionisti maniacali, non li ho mai potuti sopportare.
Gente piena di soldi che ha impianti stereo fantastici e mette
insieme una montagna di dischi. Un tempo, quando di soldi ne
avevo pochi, mi succedeva di andare da persone di questo tipo.
Arrivi e ti vedi davanti l’intera collezione di Furtwängler o di non so
chi, ma i proprietari non li ascoltano mai perché hanno troppe
cose da fare e non sono mai a casa.
MURAKAMI Le persone ricche di solito sono indaffarate.
OZAWA Giusto. Ma parlando con lei, sono rimasto impressionato
dalla sua profonda conoscenza della musica. Da quanto posso
giudicare, almeno. Lei ha «una montagna di dischi», ma non si
comporta come tutti quei collezionisti maniacali.
MURAKAMI Il fatto è che ho parecchio tempo libero, e dato che sto
molto in casa, per mia fortuna posso ascoltare musica dal mattino
alla sera. Non mi limito a collezionarla.
OZAWA Quello che conta, per lei, non sono le copertine dei dischi,
ma quello che c’è dentro. L’ho capito, e l’ho trovato interessante,
da subito, appena abbiamo iniziato a parlare di Glenn. «Niente
male, questa conversazione», mi sono detto. Però l’altro giorno
sono andato in un grande negozio di dischi del centro, per un
impegno, e quando ho fatto un giro fra gli scaffali, giusto per dare
un’occhiata... be’, ho sentito rinascere l’antica avversione.
MURAKAMI Rinascere l’avversione... vuol dire verso i dischi in vinile
e i cd in quanto oggetti, beni di consumo?
OZAWA Sí. Avevo completamente dimenticato la loro esistenza.
Non mi riguardano piú. Ma la sensazione sgradevole che provavo
un tempo, stando lí dentro è tornata. Detto ciò, visto che lei non è
un musicista, la sua posizione è piuttosto vicina a quella dei
collezionisti maniacali, no?
MURAKAMI È vero. Mi limito a comprare dischi e ascoltarli.
Naturalmente vado spesso anche ai concerti, ma non suono
alcuno strumento, quindi la mia è piuttosto una passione da
dilettante.
OZAWA Fatto sta che parlare di musica con lei mi piace, perché su
piú cose la sua prospettiva è molto diversa dalla mia. Questa
differenza per me è interessante, in un certo senso mi fa crescere.
Cioè... diciamo che è un’esperienza nuova, un’esperienza che mi
porta a pensare: «Sí, c’è anche questo modo di vedere le cose».
MURAKAMI Le sue parole mi fanno davvero piacere. Per me,
ascoltare dischi è una grande gioia, lo è sempre stata, in tutta la
mia vita.
OZAWA Mentre giravo per quel negozio, mi sono detto che queste
nostre conversazioni non devono essere destinate ai collezionisti
maniacali. Vorrei che piacessero alle persone che amano
veramente la musica, dei collezionisti non mi importa nulla.
Teniamolo presente, mentre parliamo.
MURAKAMI Certamente. Quindi cerchiamo di essere meno
interessanti possibile per i collezionisti (rido).
[In seguito ho pensato e ripensato a questa discussione dal
significato profondo, e mi sono reso conto che ho sempre provato
un grande piacere nel comprare e collezionare dischi, il che fa
forse di me uno di quei «collezionisti maniacali» di cui parla
Ozawa. Da parte mia non mi considero tale, ma ammetto di
essere per carattere un po’ ossessivo e di avere piú o meno la
tendenza a fissarmi su certe cose. Quando ero adolescente, ad
esempio, andavo pazzo per il Quartetto per archi n. 15 in re
minore K421 di Mozart − uno dei sei quartetti dedicati a Haydn −,
interpretato dallo Juilliard String Quartet. Al punto che ancora
adesso, quando qualcuno mi nomina il K421, mi viene naturale
evocare la bell’esecuzione decisa dello Juilliard, e rivedo anche la
copertina dell’album. Quell’interpretazione ce l’ho talmente
impressa nella memoria, che tendo a servirmene come termine di
paragone con tutte le altre. All’epoca i dischi erano cari e tenevo
con molta cura quelli che compravo, li ascoltavo in raccoglimento.
Nella mia mente l’opera e il disco su cui era registrata erano una
cosa sola (una forma di feticismo). Forse non era un
atteggiamento molto naturale, ma dato che non suonavo
strumenti musicali, non avevo altro modo di avvicinarmi alla
musica. Quando ho avuto un po’ piú di soldi, mi sono messo a
comprare molti dischi, ad andare pieno di fervore ai concerti, e ho
scoperto la gioia di paragonare diverse interpretazioni... Di
relativizzare la musica, insomma. È cosí che nel corso degli anni
sono venuto a dare ad ogni opera, a modo mio, una sua forma.
Invece, quando il rapporto con la musica consiste principalmente
nel leggere gli spartiti, come nel caso del Maestro Ozawa, credo
che diventi qualcosa di piú puro e intimo. O per lo meno non si
riesce facilmente a identificarla con degli oggetti che hanno una
forma. È una differenza cruciale. Immagino che un tale rapporto
con la musica sia piú libero e di piú vasta portata. Una libertà
paragonabile a quella di chi riesce a leggere un’opera letteraria in
versione originale e non in traduzione. «La musica non è un
suono, ma un concetto», ha detto Arnold Schönberg, ma per la
gente comune è difficile intenderla cosí. Naturalmente invidio chi
ha la capacità di farlo. Quando l’ho spiegato a Ozawa, mi ha
suggerito di studiare e imparare a leggere uno spartito. «La
musica diventerebbe ancora piú interessante, per lei». Tanti anni
fa ho preso lezioni di piano, quindi so leggere uno spartito
semplice, ma una sinfonia di Brahms è fuori dalla mia portata.
«Se studia con un bravo maestro per qualche mese, sono sicuro
che ce la farà», mi ha incoraggiato lui, ma non credo proprio che
ci riuscirei. Forse un giorno mi sentirò di raccogliere la sfida, ma
non so quando.
Una volta, prima di iniziare una delle nostre interviste, stavamo
parlando proprio di questo, e mentre discorrevamo con la maggior
franchezza possibile ho capito in modo chiaro e concreto che la
mia posizione nei confronti della musica è radicalmente diversa
da quella di Ozawa. Riconoscerlo ha per me una grande
importanza. Se dovessi dire quanto sia alto il muro che separa il
professionista dal dilettante, chi la musica la fa da chi la ascolta...
be’, è quasi insormontabile. Tanto piú alto e massiccio, quanto piú
elevato il livello del musicista. Ammessa questa verità, sento però
che la cosa non mi ha impedito di avere con Ozawa conversazioni
oneste e franche, perché la musica ha grandezza e generosità.
Cercare la via piú efficace per superare quel muro è un lavoro
prezioso. Ed è una via che dovremmo essere in grado di trovare,
in qualsiasi campo artistico, quando c’è un comune sentire].
Seconda conversazione
Brahms alla Carnegie Hall
La nostra seconda conversazione, che è durata due ore, ha avuto
luogo nel mio studio di Tōkyō, il 13 gennaio 2011. Ozawa Seiji
doveva subire un intervento di chirurgia endoscopica alla zona
lombare la settimana seguente. Non riuscendo a stare seduto,
spesso si alzava e parlava andando su e giú per la stanza a passi
lenti. Inoltre doveva fare delle pause, a intervalli regolari, per
mangiare qualcosa. I suoi concerti del dicembre precedente con
la Saitō Kinen Orchestra alla Carnegie Hall di New York avevano
avuto un successo travolgente, ma lo avevano affaticato molto.

UN CONCERTO CON UNA FORTE CARICA EMOTIVA,


ALLA CARNEGIE HALL

MURAKAMI Di recente ho ascoltato il cd della Prima sinfonia di


Brahms che lei ha registrato a New York, alla Carnegie Hall, e
devo dire che ho trovato la sua direzione veramente magnifica.
Piena di energia, perfetta nei minimi dettagli. In realtà l’avevo già
sentita dirigere la stessa opera nel 1986, quando è venuto a
Tōkyō con la Boston Symphony Orchestra.
OZAWA Già, è vero.
MURAKAMI A distanza di venticinque anni, quello resta un concerto
prodigioso. Il suono era splendido, perfetto, la musica si creava
sotto i miei occhi come una cosa viva. Ce l’ho ancora nelle
orecchie. Ma devo ammettere che questa sua direzione piú
recente mi ha emozionato ancora di piú. Aveva qualcosa di
speciale, una sorta di tensione... una di quelle esperienze che si
fanno una volta nella vita. Per dirle tutta la verità, avevo temuto
che la malattia l’avesse indebolita, con ripercussioni sulla qualità
della musica...
OZAWA No, al contrario. Qualcosa si era accumulato poco per
volta dentro di me, ed è esploso all’improvviso. Prima di quel
concerto avevo molto tempo libero, ma purtroppo non mi era
possibile dedicarlo alla musica, per quanto lo desiderassi.
Durante l’estate avrei voluto partecipare al festival di Matsumoto,
peccato che le mie condizioni fisiche non me lo permettessero.
C’è da dire che nel frattempo l’orchestra era andata avanti, si era
preparata con impegno, anche senza di me. Prima del concerto
alla Carnegie Hall, abbiamo avuto quattro giorni di prove a
Boston, e l’orchestra, tenendo conto delle mie esigenze, si è
scrupolosamente adattata ai limiti di tempo che mi erano imposti.
Una cosa quasi inconcepibile, per dei professionisti. Ci capitava di
provare per venticinque minuti e riposarci un quarto d’ora, o di
lavorare venti minuti e fare una pausa di dieci. Preoccuparsi di me
fino a questo punto è stato estremamente premuroso, da parte
loro. E siccome non potevamo esercitarci alla Symphony Hall,
l’abbiamo fatto in una piccola sala del Conservatorio di Boston.
MURAKAMI Ha diretto la Prima sinfonia di Brahms anche al festival
di Matsumoto, sempre con la Saitō Kinen Orchestra, vero?
OZAWA Sí, giusto. Abbiamo fatto tutte e quattro le sinfonie di
Brahms, ma la Prima risale agli inizi della Saitō Kinen. Piú di dieci
anni fa.
MURAKAMI Quindi, alla Carnegie Hall, alcuni membri dell’orchestra
erano cambiati?
OZAWA Sí, molti di loro. Quasi tutti, direi. Ci devono essere ancora
alcuni archi. Quanto ai fiati... be’, forse ne restano uno o due.
MURAKAMI A proposito dei fiati, questa volta ho trovato il corno
davvero eccellente.
OZAWA Sí, è un musicista fantastico. Si chiama Radek Baborák, è
ceco. Un genio. Senza dubbio il migliore al mondo, in questo
momento. Quando l’ho conosciuto era ancora a Monaco. Dopo è
diventato primo corno dei Berliner Philharmoniker, ed è stato
spesso ospite della Saitō Kinen. Credo che abbia tenuto il suo
primo concerto in Giappone in occasione dei Giochi olimpici
invernali di Nagano... quando era? Nel ’98? Sempre durante i
Giochi, quando abbiamo suonato la Nona occupava il quarto
leggio, quello che ha piú assoli. Era la sua prima volta con noi, ma
in seguito ce ne sono state molte altre.
MURAKAMI Quell’assolo del corno non me lo dimenticherò mai.
OZAWA Sí, è straordinario. Quando viene in Giappone, Baborák
suona sia con la Saitō Kinen che con la Mito Chamber Orchestra.
Con lui mi intendo a meraviglia. Ho sentito dire che adesso ha
lasciato i Berliner ed è tornato nella Repubblica Ceca.
MURAKAMI Questo cd del concerto alla Carnegie Hall è una
registrazione live, naturalmente, ma è stato ripulito dai rumori
accidentali, vero? La prima volta che l’ho sentito sono rimasto
sorpreso dalla pulizia del suono. Non riuscivo a credere che fosse
una registrazione dal vivo.
OZAWA Ha ragione. Non sarebbe possibile ottenere un tale
silenzio, senza intervenire. Si cancellano i colpi di tosse degli
spettatori, gli schiarimenti di gola, quei rumori lí. E si riempiono i
vuoti con i suoni registrati durante le prove.
MURAKAMI Non vorrei aver l’aria di criticare, ma in sostanza questo
significa che in alcuni punti si aggiustano gli errori tecnici?
OZAWA È cosí.
MURAKAMI Mi ha detto che nell’introduzione del quarto movimento,
in due riprese, ci sono delle modifiche insolite dovute a esigenze
d’interpretazione, modifiche che non hanno niente a che vedere
con la semplice rimozione dei rumori accidentali. Lei però mi ha
anche prestato la registrazione originale e mi ha dato una specie
di compito: confrontarla con quella modificata. Ho passato una
serata intera ad ascoltare le due versioni (rido).
Mentre ascoltiamo l’inizio del quarto movimento della sinfonia sul
cd della prima edizione, Ozawa mangia dei cachi essiccati.
Intanto si arriva a una lunga performance dei timpani (2:28).
MURAKAMI Ecco, è qui. Inizia ora, vero?
OZAWA Sí, qui.
I corni suonano il tema della sezione introduttiva. È un suono
dolce e profondo.
OZAWA Questo è Baborák.
MURAKAMI Un suono bellissimo, resta impresso... I corni quanti
sono?
OZAWA Quattro. Ma qui sono soltanto in due a suonare. Non
insieme, però. Si alternano e, quando uno finisce un passaggio ed
entra l’altro, si sovrappongono leggermente [2:39-2:43]. Questo
permette di evitare le interruzioni quando fanno una pausa per
prendere fiato. È quello che dice di fare Brahms, lo indica sullo
spartito.
L’«assolo» dei corni termina, il flauto riprende lo stesso tema.
OZAWA Ora tocca al flauto. Quello di Jacques Zoon, in questo
caso. È stato primo flauto a Boston una decina di anni fa. Adesso
vive in Svizzera, insegna. Anche qui i due flauti si alternano. Ecco
il primo [3:13]. Ora il secondo [3:17]. Di nuovo il primo [3:21].
Brahms ha regolato tutti questi piccoli dettagli, in modo che il
pubblico non sentisse le pause per prender fiato.
MURAKAMI Arriviamo alla fine dell’assolo del flauto, e il tema viene
poi ripreso da un insieme di fiati [3:50].
OZAWA Sí. Tre tromboni, due fagotti, e anche un controfagotto.
È la prima volta che i tromboni suonano in questo movimento,
sembra quasi che abbiano atteso l’occasione buona. Poi,
nell’insieme tranquillo, solenne e maestoso dei fiati, si inserisce,
come in una schiarita fra le nuvole, un breve «assolo» dei corni
(4:13).
MURAKAMI Qui mi pare che le due edizioni differiscano.
OZAWA Quella che stiamo ascoltando adesso è la prima versione,
vero?
MURAKAMI Sí, la prima. I corni danno l’impressione di voler venire
in primo piano, con un suono forte e vivace.
OZAWA Infatti. Invece sul cd corretto sembrano...
MURAKAMI Indietreggiare in secondo piano.
OZAWA Ha capito tutto!
MURAKAMI Be’, mi sono impegnato, ho fatto i compiti! (rido) Si
ritirano in secondo piano, e il suono è come smorzato, piú incerto.
OZAWA È vero. Ma nella versione originale erano un po’ troppo
esuberanti, cosí questa parte è stata sostituita con un’altra
registrazione, che è quella che si sente nella seconda versione. E
c’è un secondo passaggio dove si è fatto ricorso a questo
sistema.
MURAKAMI Quello mi è sfuggito.
Dopo un momento di bellezza mozzafiato, i violini introducono
lentamente il celebre tema del quarto movimento (4:52).
L’introduzione basata sugli «assoli» dei corni ha svolto il suo ruolo
essenziale: portarci verso questo famoso passaggio.
MURAKAMI Benissimo. Adesso ascoltiamo la versione corretta, da
quando entrano i timpani.
Attacco del primo corno.
OZAWA Qui dunque abbiamo il primo corno, poi il secondo, poi il
primo, poi ancora il secondo. Cosa le dicevo? Le pause per
prendere fiato non si sentono!
MURAKAMI È vero.
OZAWA E adesso tocca ai flauti. Il primo, una misura, poi il
secondo. Poi il primo, di nuovo il secondo. In questo momento,
nella prima registrazione, si sentiva il musicista respirare. Come
sa, il flauto richiede piú fiato del corno. Quindi abbiamo sostituito
questo passaggio con un’altra registrazione.
MURAKAMI Ah, capisco... però un dilettante non lo sentirebbe, è
quasi impercettibile.
Dopo il brano suonato dai fiati, si innalza di nuovo l’«assolo» del
corno.
OZAWA Vede? Questa volta il suono del corno è piú morbido, non
trova?
MURAKAMI Sí, è piú morbido. Molto diverso. Nella prima versione
era molto rumoroso, questa volta è piú trattenuto, e anche piú
profondo.
Brahms usa i corni con grande abilità. Come se volesse portare il
pubblico in fondo a una foresta tedesca. Il loro suono veicola un
elemento importante del mondo spirituale del compositore. Dietro
ai corni, il pulsare dei timpani è leggero ma insistente. Questo
passaggio valeva l’estrema cura che si è dedicata a rimaneggiare
la registrazione.
OZAWA Gli altri strumenti si uniscono a poco a poco al solista.
MURAKAMI Si sentono nettamente gli archi.
OZAWA Infatti.
Terminata l’introduzione, inizia il bellissimo tema principale, una
melodia che invoglia a scrivere un testo di accompagnamento.
MURAKAMI Sento che sostituire un passaggio, in qualche modo, ha
migliorato l’equilibrio e la coerenza dell’esecuzione, rispetto alla
versione originale. Ma bisogna concentrarsi attentamente su ogni
dettaglio, per coglierlo... Anche la prima versione era splendida.
Sono sicuro che non avrei sentito la differenza, se lei non me
l’avesse fatta notare. In letteratura, corrisponderebbe a una
piccola sfumatura risultante da una variazione minima, su cui la
stragrande maggioranza dei lettori sorvolerebbe senza
accorgersene. In ogni caso la tecnica dell’editing è straordinaria. Il
suono non ha assolutamente nulla di innaturale.
OZAWA Grazie al lavoro di Dominic Fyfe, il tecnico del suono
incaricato della registrazione. Che comunque è fedele al 99 per
cento alla presa del suono fatta durante il concerto. Come le ho
detto, la parte principale del lavoro consiste nell’eliminare i rumori
accidentali del pubblico.

INTERPRETARE BRAHMS CON LA SAITŌ KINEN ORCHESTRA

MURAKAMI Ascoltando questo cd, mi sono chiesto se l’acustica


della Carnegie Hall sia cambiata negli anni.
OZAWA Sí, è cambiata. Era da tanto tempo che non ci tornavo, e
l’ho trovata molto migliorata.
MURAKAMI Ho sentito dire che l’hanno restaurata, la Carnegie.
OZAWA Non saprei. Ma credo di sí. Quando vi ho diretto la Boston
Symphony trent’anni fa, si sentiva il rombo della metropolitana.
Passa proprio sotto, durante una sinfonia intera la si sentiva
quattro o cinque volte (ride).
MURAKAMI A giudicare dai dischi che abbiamo appena ascoltato,
mi sembra che l’acustica sia nettamente migliore.
OZAWA Sí, sí. Molto. Anche la registrazione live è andata meglio di
quanto mi aspettassi. Dunque, quand’è che avevo diretto alla
Carnegie, in precedenza...? Sí, cinque anni prima, con i Wiener
Philharmoniker. Mi ricordo che già all’epoca mi ero detto che
l’acustica aveva fatto progressi. Di sicuro non era cosí quando
dirigevo la Boston Symphony.
MURAKAMI Come le ho detto, nel 1986 l’ho sentita dirigere la
Boston Symphony nella Prima di Brahms. In seguito ho scoperto il
dvd con la Saitō Kinen. Adesso che esiste anche questa nuova
registrazione alla Carnegie Hall, le ho ascoltate tutte e tre e ho
l’impressione che il suono cambi moltissimo, dall’una all’altra.
Secondo lei come si spiega?
OZAWA (dopo averci pensato su un bel po’) Allora. Prima di tutto la
differenza potrebbe essere dovuta al fatto che nella Saitō Kinen, il
suono degli archi è molto cambiato. Come dire...? Sono diventati
piú «chiacchieroni». Mettono in rilievo un’espressività cosí intensa
che qualcuno potrebbe anche dire che «strafanno».
MURAKAMI Cioè hanno un’espressività piú evidente?
OZAWA Sí. E la stessa cosa vale per i fiati. Prenda lo stesso
passaggio della Prima che abbiamo ascoltato poco fa, quella col
Maestro Karajan e i Berliner: ovviamente era splendido, ben
equilibrato, perfettamente proporzionato, nell’insieme. Ma i
musicisti della Saitō Kinen non si preoccupano molto
dell’equilibrio orchestrale. Basta ascoltare questa registrazione,
per rendersi conto che su questo punto non hanno la stessa
consapevolezza della maggior parte degli altri professionisti.
MURAKAMI Non hanno la stessa consapevolezza?
OZAWA Cercherò di spiegarglielo con altre parole. Dunque, quella
sezione dell’orchestra è composta da una dozzina di musicisti.
Ognuno di loro, che si trovi in prima fila o in fondo, penserà di se
stesso: «Qui sono io che conto», oppure: «Sono il numero uno»,
e tutti insieme faranno un pandemonio.
MURAKAMI Incredibile. Quindi, anche se c’è un cambiamento
nell’espressività, in sé la tendenza degli archi non è cambiata
molto, dalla fondazione dell’orchestra.
OZAWA Per niente. È sempre la stessa.
MURAKAMI Mi piacerebbe saperne di piú sulla formazione della
Saitō Kinen. Non è un’orchestra tradizionale, vero? Musicisti che
lavorano in posti diversi si riuniscono una volta all’anno per tenere
dei concerti, dico bene?
OZAWA Esattamente.
MURAKAMI Quindi prendono delle ferie, per riunirsi?
OZAWA Allora... consideriamo per esempio la sezione degli archi.
Un buon numero di loro non suonano in altre orchestre, anche se
non è cosí per tutti. Ci sono anche dei primi violini di orchestre
famose, ma sono sicuro che fra i nostri musicisti non sono molti
quelli che hanno un impiego fisso, la maggior parte si dedica
piuttosto alla musica da camera o all’insegnamento.
MURAKAMI Ah, ecco, ci deve’essere anche gente cosí.
OZAWA Ce n’è sempre di piú. Soprattutto negli ultimi tempi, molti
vogliono suonare, ma senza essere ingaggiati tutto l’anno in
un’orchestra.
MURAKAMI Cioè vogliono esercitare il loro mestiere con maggior
libertà. Non vogliono essere legati dagli obblighi che comporta
l’appartenenza a un’organizzazione stabile.
OZAWA Esatto. Prendiamo la Mahler Chamber, ad esempio.
L’orchestra fondata da Claudio Abbado. Fa esattamente la stessa
cosa. Mette insieme diversi musicisti di primo livello, venuti da
tutto il mondo. Tutta gente che fa carriera senza appartenere a
una determinata orchestra.
MURAKAMI Peraltro è una formazione magnifica, no?
OZAWA Sí, fantastica.
MURAKAMI Pare che di recente orchestre di questo tipo − di
altissimo livello, ma non famose formazioni tradizionali − siano
spuntate un po’ ovunque, nel mondo. Trattandosi di musicisti che
si associano liberamente, pensa che raggiungano una maggiore
spontaneità, nel suono?
OZAWA Potrebbe darsi, considerato che non appartengono a
un’orchestra e che non devono lavorare, una settimana dopo
l’altra, con gli stessi colleghi. Incontrano sempre facce nuove e
affrontano gli spartiti con uno spirito ogni volta diverso.
Naturalmente c’è chi le chiama «orchestre Tanabata» 1, queste
nuove formazioni, con intento un po’ denigratorio (ride).
MURAKAMI In conclusione, i musicisti della Saitō Kinen non sono
degli impiegati, e se non apprezzano il suo modo di condurre, la
volta seguente possono decidere di non partecipare. Non
essendo sotto contratto, nessuno è obbligato a venire se il lavoro
non gli va a genio.
OZAWA È cosí. Ma per contro c’è anche gente che viene da
lontano, per suonare con me. Fanno il viaggio fin qui anche
musicisti stranieri che durante l’anno suonano a Berlino, a Vienna
o in America. Per loro trovare il tempo è molto difficile. Tanto piú
che durante il soggiorno a Matsumoto non possono fare altri lavori
o prendere allievi.
MURAKAMI Mi sta dicendo che non ricevono un compenso molto
alto?
OZAWA Facciamo il possibile per pagarli adeguatamente, ma ad
essere sincero, abbiamo i nostri limiti.
MURAKAMI Eppure il numero di orchestre che funzionano in questo
modo, con musicisti che vanno e vengono liberamente, nel
mondo sta aumentando, vero? Sono molto diverse dalle orchestre
tradizionali, governate da un rigido sistema amministrativo. In
questo modo i musicisti possono godersi le loro spontanee
«chiacchierate».
OZAWA Infatti. Anche l’orchestra di Abbado, la Lucerne Festival
Orchestra, è organizzata cosí. E la Deutsche
Kammerphilharmonie.
MURAKAMI L’orchestra di Brema diretta da Paavo Järvi? L’ho
ascoltata l’altro giorno.
OZAWA Ognuna di queste è attiva per tre o quattro mesi all’anno,
per il resto del tempo gli artisti sono liberi di fare quello che
vogliono. «Spiacenti, ma non possiamo pagarvi ulteriori
compensi, quindi adesso cavatevela da soli». Funziona cosí,
insomma.
MURAKAMI Dirigere una di queste orchestre è diverso? Rispetto a
un’orchestra regolare come la Boston Symphony, ad esempio.
OZAWA Sí, molto diverso, è ovvio. Si è sempre un po’ tesi, e si è
coinvolti in un altro modo. Cioè, ci incontriamo in una sala, come
un gruppo di vecchi amici, una volta all’anno. Come nella
leggenda di Tanabata, appunto. Ogni volta devo mettercela tutta,
altrimenti rischio di attirarmi critiche. Roba tipo: «Quest’anno Seiji
non sembra molto in forma, ha meno energia del solito», oppure:
«Non si è esercitato abbastanza». Non fa piacere. È un problema,
cioè. Mi è successo di avere a che fare con musicisti che erano
delle vere malelingue, gente che non si fa scrupolo di dire le cose
peggiori (ride). In ogni caso, la maggior parte dei miei vecchi
compagni si sono ritirati dalla scena musicale, ne restano sempre
meno.
MURAKAMI Come stabilisce il programma dei concerti?
OZAWA All’inizio facevamo solo Brahms. Poi abbiamo aggiunto
cose come il Concerto per orchestra di Bartók e November Steps
di Takemitsu Tōru. Il grosso del repertorio sono sempre state le
sinfonie di Brahms, ma pur restando fedeli a lui, a poco a poco
abbiamo introdotto altro. Ogni anno abbiamo suonato una delle
quattro sinfonie, e poi abbiamo inaugurato il festival di
Matsumoto. Anche lí, prima di passare a Beethoven abbiamo
cominciato con Brahms.
MURAKAMI Dunque all’inizio c’era Brahms.
OZAWA Esatto.
MURAKAMI Ma perché? Perché proprio lui?
OZAWA Be’, ecco... avevamo la sensazione che fosse il
compositore che meglio permetteva di esprimere lo spirito del
professor Saitō. Cioè, lo pensavo io. Lei avrà certamente sentito
parlare del direttore d’orchestra Akiyama Kazuyoshi. Lui vedeva
le cose in un altro modo. Era convinto che avremmo fatto meglio
a cominciare con un repertorio un po’ piú leggero, Mozart o
Schumann. Lui stesso con la Saitō Kinen ha diretto Schumann. Io
invece pensavo che dovevamo dedicarci a Brahms. Ho consultato
gli altri, ma poi credo di aver deciso io. Avevo l’impressione che
Brahms fosse piú adatto di Beethoven per applicare l’idea del
professor Saitō che gli strumenti ad arco devono «chiacchierare»,
diventare piú espressivi. Cosí abbiamo organizzato una tournée in
Europa per rappresentare l’integrale delle opere di Brahms. Ormai
ne abbiamo già fatte quattro. La prima sinfonia che abbiamo
suonato era... sí, era la Prima, mi sembra.
MURAKAMI Se non sbaglio, il repertorio del professor Saitō
includeva soprattutto Brahms, Beethoven e Mozart.
OZAWA Sí, e Haydn.
MURAKAMI Musica tedesca, insomma.
OZAWA È vero, ma c’era anche Čajkovskij, naturalmente: le
Sinfonie e la Serenata per archi. Alla Tōhō Gakuen School of
Music, il brano su cui abbiamo lavorato piú tempo, e con piú
impegno, è stato proprio questa Serenata. E sa perché? Perché
la Tōhō Orchestra non aveva quasi strumenti a fiato! (ride)
Facevamo Mozart con un solo oboe e un solo flauto. Quanto ai
fiati mancanti, erano rimpiazzati da un organo. A volte io suonavo
il timpano, e il professor Saitō dirigeva l’orchestra. Ma se nello
spartito non c’erano timpani, dirigevo io. Era un momento cosí!
MURAKAMI Quando dice che la Saitō Kinen è adatta a Brahms,
pensa al suo timbro, al suo colore?
OZAWA No, non è tanto una questione di qualità sonora... Come
dire? Si tratta piuttosto del modo di suonare dei musicisti, di usare
gli archetti. Del fraseggio, dell’espressività che ci mettono. È piú
consono a Brahms, insomma. Il professor Saitō ci ha insegnato
che la musica è espressività, e io sono d’accordo con lui.
Sapesse come si infervorava quando ci faceva lavorare su una
sinfonia di Brahms! Ma doveva anche mostrare senso pratico e
tener conto di quanti strumenti aveva a disposizione, ecco perché
suonavamo spesso la Serenata per archi di Čajkovskij, un
Divertimento di Mozart, i Concerti grossi di Haendel, i Concerti
brandeburghesi di Bach, o Verklärte Nacht di Schönberg.
MURAKAMI E nonostante la penuria di strumenti, riusciva a
insegnare con entusiasmo come interpretare una sinfonia di
Brahms?
OZAWA Certamente! Si inventava qualcosa per sopperire alla
scarsità degli strumenti.
MURAKAMI Non mi intendo molto di questioni tecniche, ma credo
che le orchestrazioni di Brahms siano piú complesse di quelle di
Beethoven.
OZAWA No, richiedono quasi gli stessi strumenti. È vero che il
controfagotto all’epoca di Beethoven non era molto usato, ma per
il resto non c’è molta differenza. La distribuzione delle parti alle
varie sezioni, nei due compositori, è molto simile.
MURAKAMI Dunque Brahms e Beethoven, quando si tratta di
mettere insieme il suono dei diversi strumenti, lavorano allo
stesso modo?
OZAWA Sí. In Brahms il suono è piú ampio, piú forte, ma
l’orchestrazione in sé è grosso modo la stessa.
MURAKAMI Allora come si spiega che facciano un effetto molto
differente, a chi li ascolta?
OZAWA Già... (una pausa) Ma vede, Beethoven con la Nona
sinfonia ha introdotto dei cambiamenti. Prima della Nona, le sue
orchestrazioni erano piuttosto circoscritte.
MURAKAMI Da parte mia, ho l’impressione che pur usando piú o
meno gli stessi strumenti, Brahms e Beethoven ottengano un
risultato ogni volta diverso. In Brahms, è come se un suono nuovo
si introducesse sempre tra altri due, cosa che rende la musica piú
intensa. È forse per questo che è piú facile cogliere la struttura
musicale di un’opera di Beethoven.
OZAWA Sí, naturalmente. La si capisce molto meglio in Beethoven
che in Brahms. In Beethoven si sente il dialogo tra i fiati e gli
archi. Brahms invece crea la sua peculiare sonorità mischiando
tutto.
MURAKAMI Sí, ora la differenza tra i due mi è piú chiara.
OZAWA È evidente soprattutto nella sua Prima sinfonia. D’altronde
non dicono tutti che la Prima di Brahms è un po’ la Decima di
Beethoven? È lí che si crea un legame.
MURAKAMI Quindi, riguardo alla distribuzione delle parti ai vari
strumenti, Brahms avrebbe ripreso le riforme introdotte da
Beethoven nella Nona, la sua ultima sinfonia?
OZAWA Sí, è quello che è successo.
MURAKAMI Per la Saitō Kinen Orchestra, dunque, dopo Brahms,
che è il compositore principale, viene subito Beethoven.
OZAWA Esatto. E dopo Beethoven, abbiamo fatto Mahler. La
Seconda, la Nona, la Quinta e la Prima, credo. E tre anni fa la
nostra prima cosa francese, la Sinfonia fantastica di Berlioz,
seguita da Poulenc e Honegger nella lirica. Però l’agenda l’avevo
discussa e decisa con William Bernell, un americano specialista
nel preparare i programmi, ero andato a San Francisco per
consultarlo. Gli chiedevo consiglio già quando lavoravo a Boston,
e ho continuato con la Saitō Kinen, fin dall’inizio. Bernell è morto
l’anno scorso, all’età di ottantaquattro anni. Abbiamo lavorato
insieme per quasi cinquant’anni.
MURAKAMI Se mai le venisse voglia di interpretare Sibelius, mi
farebbe felice. Adoro le sue sinfonie. La sola opera di lui che ho
sentito nella sua conduzione, signor Ozawa, è il Concerto per
violino, che ha registrato con Viktoria Mullova.
OZAWA Quale sinfonia preferisce? La Quinta? La Terza?
MURAKAMI La Quinta.
OZAWA L’ultimo movimento è bellissimo, vero? Ho diretto quel
finale quando studiavo col Maestro Karajan, nel 1960-61. E anche
il Canto della Terra di Mahler. Il Maestro mi aveva chiesto di
lavorare su quei due pezzi perché voleva che mi esercitassi su
grandi opere romantiche.
MURAKAMI A Karajan la Quinta di Sibelius piaceva molto, vero?
Credo che l’abbia registrata quattro volte.
OZAWA Sí, l’adorava! L’interpretava magnificamente − be’, questo
è ovvio −, ma la usava anche per insegnare ai suoi allievi. Ci
diceva sempre che l’obiettivo del direttore d’orchestra è creare
lunghe frasi. «Leggete dietro lo spartito! Non accontentatevi di
seguire le battute una a una, considerate la musica in unità piú
lunghe». Ci insegnava a leggere dei fraseggi di quattro, otto
battute. Quanto a lui, concepiva la musica in unità ancora piú
lunghe − sedici, addirittura trentadue battute. È questo che
cercava di spiegarci. Nello spartito non c’era scritto, ma il ruolo
del direttore, secondo lui, era di leggere la musica in quel modo.
Quando il compositore aveva scritto lo spartito, ci diceva, l’idea di
un fraseggio piú lungo l’aveva già in testa, quindi era cosí che
dovevamo sforzarci di vederlo. Era la sua teoria personale,
insomma.
MURAKAMI Le interpretazioni di Karajan sono sempre
caratterizzate da una «narrazione» molto solida, che nasce da
questi lunghi fraseggi. Ogni volta che ascolto le vecchie
registrazioni, non posso fare a meno di ammirare questa sua
capacità di narrare, questa sua forza di persuasione che non
invecchia e funziona ancora. Ma ogni tanto, ammetto che mi
capita di pensare: «Be’, questo passaggio è un po’ datato».
OZAWA È vero, succede.
MURAKAMI Nella musica di Karajan, credo che questi momenti si
sentano in modo chiaro. Perché è molto risoluto, nello scegliere
una strada o l’altra.
OZAWA Può darsi, può darsi... A questo proposito, Furtwängler
aveva un lato simile.
MURAKAMI Sí, ma se parliamo di Furtwängler, facciamo riferimento
a un tesoro nazionale!
OZAWA È vero (ride). E poi c’è stato anche Karl Böhm, il direttore
viennese. L’ho sentito una volta nell’Elettra di Richard Strauss, a
Salisburgo. Mi era sembrato che... come dire? Che dirigesse solo
con piccoli movimenti delle mani. Eppure l’orchestra produceva
un suono talmente ampio (allarga la braccia)... era come una
magia. Sono sicuro che c’era qualcosa di speciale, un legame
storico, tra lui e quell’orchestra. Quando sono andato a sentirlo,
era già molto avanti negli anni. Per questo la direzione era
contenuta, non faceva grandi gesti, eppure il suono che emergeva
dall’orchestra era sorprendentemente grande.
MURAKAMI Secondo lei, quindi, Böhm non controllava veramente i
musicisti, li lasciava liberi di suonare come volevano.
OZAWA Mmh... non saprei dirglielo neanch’io. Può darsi che fosse
cosí, ma sarà poi vero? Anche a me piacerebbe capire meglio il
suo metodo. Nel caso del Maestro Karajan, lo vedevamo con i
nostri occhi. La maggior parte del tempo affidava l’interpretazione
ai musicisti, lasciava loro molta libertà. Solo nei punti critici
interveniva con fermezza. Ma per quanto riguarda Böhm... dava
solo indicazioni molto contenute, eppure ogni tanto venivano fuori
dei fraseggi grandiosi. Non riesco proprio a capire come facesse.
MURAKAMI Forse aveva un rapporto speciale con i Wiener
Philharmoniker?
OZAWA Forse. E loro probabilmente avevano per lui un immenso
rispetto. Oppure c’era fra loro una reciproca comprensione, un
tacito accordo riguardo al tipo di musica che volevano fare. Dà
molta soddisfazione, vedere e sentire far musica in quel modo.
BREVE INTERVISTA COMPLEMENTARE:
LA VERITÀ SULLA RESPIRAZIONE DEI SUONATORI DI CORNO

MURAKAMI Vorrei farle qualche domanda piú precisa su quel


passaggio della Prima sinfonia di Brahms che abbiamo ascoltato
l’altro giorno, quello dove gli assoli dei corni si sovrappongono,
nel quarto movimento. Dopo il nostro incontro, ho visto un video in
cui non mi pareva affatto che i corni si alternassero. Il video di un
concerto che lei ha dato a Ōsaka nel 1986, con la Boston
Symphony.
Guardiamo insieme il passaggio del video, solo quello in cui
suonano i corni.
OZAWA È vero, non si alternano... ha ragione lei! Già, sí, ora
ricordo. A suonare il corno qui è Chuck Kavalovski, un professore
universitario. Credo che sia un fisico o qualcosa del genere. Una
persona molto eccentrica, però. Possiamo rivedere ancora questo
passaggio?
Lo guardiamo di nuovo.
OZAWA Uno, due, tre... ecco, in questo punto il corno non si sente!
MURAKAMI Già, c’è un vuoto nel momento in cui il musicista
prende fiato.
OZAWA Esatto. In quel momento preciso, il suono si interrompe.
Questa è una vera scorrettezza nei confronti di Brahms! Non
dovrebbero esserci vuoti, in questo punto. Be’, Kavalovski ha
insistito per suonarlo cosí, è un uomo ostinato, quello. Ne è
risultato un grosso problema al momento della registrazione. Ora
guardiamo l’assolo del flauto che segue.
Il corno finisce, il flauto riprende lo stesso tema.
OZAWA Uno, due, tre... ecco, qui il suono si sente correttamente!
Mentre il primo flautista prende fiato, il secondo tiene la nota,
quindi non ci sono interruzioni. Ed è proprio quello che c’è scritto
nello spartito di Brahms. I corni dovrebbero fare la stessa cosa.
Il video mostra chiaramente che mentre il primo flauto stacca la
bocca dallo strumento per respirare, si continua a sentire la nota.
È una cosa di cui non ci si potrebbe rendere conto solo
ascoltando il disco.
MURAKAMI Quindi il secondo flautista suona «di rinforzo», mentre il
primo prende fiato. E questo spiega il fatto che suonino le battute
a turno, immagino.
OZAWA Esatto. Complimenti, è stato bravissimo a notarlo! Forse
quello che le ho detto l’altro giorno le è stato d’aiuto?
MURAKAMI Naturalmente. Da solo non me ne sarei mai accorto
(vado a prendere un dvd). Adesso mi piacerebbe mostrarle
questo, è il concerto che lei ha dato a Londra nel ’90 con la Saitō
Kinen.
OZAWA Uno, due, tre... bene! La nota è tenuta correttamente,
anche quando il primo corno prende fiato. Ha sentito? Non ci
sono vuoti sonori. E all’inizio della seconda e della quarta battuta i
due corni suonano insieme, come indica lo spartito. Questa è una
delle cose interessanti di Brahms.
MURAKAMI Ma il corno di Boston non ne ha tenuto conto, vero?
OZAWA Già. Ha fatto di testa sua, infischiandosene degli altri. Ha
rifiutato di usare quest’espediente tanto bello di Brahms.
MURAKAMI Come mai, secondo lei?
OZAWA Di sicuro non gli piaceva il cambiamento di timbro rispetto
al primo corno. Ricordo che questo era stato un grosso problema,
per noi. Adesso guardiamo lo spartito che lei ha comprato.
Ozawa traccia delle indicazioni a matita sullo spartito, e intanto mi
spiega tutto nei minimi dettagli, commenta diversi punti. Molte
cose che non avevo capito mi diventano chiare.
OZAWA Vede? Bisogna leggere questo passaggio con molta
attenzione, altrimenti si rischia di lasciarselo sfuggire. Il secondo
corno entra qui e suona fin qui. Nel frattempo, il primo corno
prende fiato. Lo spartito indica che il primo corno deve tenere la
nota per due misure, e il secondo per tutta la terza e la quarta.
Guardi, c’è persino segnato un punto, qui!
MURAKAMI Già, è vero. Ed è per questo che la nota è scritta due
volte, parallelamente. Mi chiedevo appunto cosa significasse.
OZAWA Brahms è stato il primo a fare questo genere di cose. Ma
perché funzioni, bisogna che i due corni abbiano lo stesso timbro.
MURAKAMI Sí, è ovvio.
OZAWA Brahms ha scritto lo spartito dando per scontata
l’uniformità dei corni. Prima di lui, però, non credo che un tale
sistema potesse funzionare. Perché tutti usavano il corno
francese, ed erano strumenti che avevano ognuno un timbro
diverso. Se si fosse usato quest’espediente, saltando da un
timbro all’altro, si sarebbe creata una gran confusione. Ma può
anche darsi che non sia venuto in mente a nessuno,
semplicemente. E dire che sembra una cosa banale, se ci
pensa...
MURAKAMI È vero. Quindi quel musicista di Boston era solo uno
stravagante? Non proponeva una lettura differente dello spartito?
OZAWA No, era solo uno stravagante. Il suo comportamento era
veramente scorretto, ma lui faceva di testa sua, senza ascoltare
nessuno. Non mi sarei mai ricordato di questa storia se non me
ne avesse parlato lei. Chuck comunque era molto intelligente,
quando vivevo a Boston eravamo buoni amici.

1. Il Tanabata è una festa di origine cinese che celebra il ricongiungimento


delle divinità Orihime e Hikoboshi, corrispondenti alle stelle Vega e Altair.
Secondo la leggenda i due amanti si possono incontrare solo una volta
all’anno, il settimo giorno del settimo mese lunare, che cade il 7 luglio.
Secondo interludio
Rapporto tra la scrittura e la musica
MURAKAMI Ascolto musica da quando ero adolescente, ma negli
ultimi anni mi sembra... di capirla meglio, direi. Riesco a percepire
anche differenze piccolissime. Chissà se il fatto di scrivere ha
reso piú sensibile il mio orecchio... O forse è il contrario, forse se
non si ha orecchio musicale, non si può diventare un bravo
scrittore. Ne consegue che uno scrittore, piú ascolta musica, piú
diventa bravo, e piú diventa bravo, meglio capisce la musica.
Un’influenza reciproca, insomma. Ecco come la penso.
OZAWA Interessante.
MURAKAMI Nessuno mi ha insegnato a scrivere, non ho mai
imparato tecniche di scrittura, e per dirla tutta non ho mai studiato
molto. Allora come ho fatto a imparare a scrivere? Ascoltando la
musica. Cosa conta di piú nella scrittura? Il ritmo. Se in un testo
non c’è ritmo, nessuno lo leggerà. Perché mancherà quel senso
del movimento che è come una pressione dall’interno, e porta il
lettore avanti, pagina dopo pagina... Prenda ad esempio i manuali
d’istruzione degli elettrodomestici: se sono tanto ostici, è perché
sono completamente privi di ritmo. Oppure uno scrittore
esordiente: di solito, dal fatto che i suoi libri abbiano ritmo o no, si
può capire se resterà sulla scena letteraria o se sparirà subito. Ma
ho l’impressione che la maggior parte dei critici letterari non
tengano in alcun conto questo fattore. Si limitano a commentare
la raffinatezza dello stile, l’originalità del vocabolario... la coerenza
della scrittura, il livello dei temi, le diverse tecniche narrative
usate... Secondo me, invece, chi non possiede ritmo non ha alcun
talento letterario. Ma è solo una mia teoria, naturalmente.
OZAWA Lei pensa che noi lettori, mentre leggiamo, percepiamo
questo ritmo?
MURAKAMI Certo. Il ritmo si crea dal modo in cui si mettono
insieme le parole, le frasi, i periodi. Dall’alternanza tra dolcezza e
durezza, leggerezza e intensità, equilibrio e squilibrio. Dall’uso
della punteggiatura, dal tono. Si potrebbe anche parlare di
«poliritmia». Come nella musica. Se non si ha un buon orecchio,
non lo si sa fare. E chi ci riesce ci riesce, chi non ci arriva, non ci
arriva. Però è qualcosa che con lo sforzo, con lo studio, può
migliorare, naturalmente.
Adoro il jazz, ed è dal jazz che ho acquisito un buon senso del
ritmo. Scrivo come si compone la musica: scelgo gli accordi e poi
comincio a improvvisare.
OZAWA Non sapevo che la scrittura potesse avere un ritmo. E non
riesco ancora a capire bene in cosa consista.
MURAKAMI Ecco... diciamo che il ritmo è un elemento importante
sia per chi legge, sia per chi scrive. Quando si scrive, se in una
frase non c’è ritmo, la frase seguente non viene. E la storia non
avanza. Il ritmo della frase è il ritmo della storia. Quando c’è, il
testo avanza da solo. Scrivendo, automaticamente pronuncio le
frasi nella mia testa e il ritmo si crea in modo spontaneo. Un po’
come nel jazz... si improvvisa su un motivo, e lo si lega
naturalmente a un altro motivo.
OZAWA Sa, abito nel quartiere di Seijō, e qualche giorno fa mi
hanno dato il volantino di uno dei candidati alle prossime elezioni.
Non sapendo se fosse un appello, o una sorta di manifesto, ho
cominciato a leggerlo. Tanto non avevo niente da fare. A quel
punto ho pensato: «Questo qui non ce la farà mai». Perché di
quel testo, per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad andare oltre la
terza riga. Impossibile. Di sicuro diceva qualcosa di molto
importante, ma era illeggibile.
MURAKAMI Già. È probabile che mancasse totalmente di ritmo, di
scorrevolezza.
OZAWA Ah, ecco... dunque crede che fosse questo. E cosa pensa
di uno scrittore come Natsume Sōseki?
MURAKAMI La sua scrittura ha una grande musicalità. È
estremamente scorrevole. Meravigliosa, ancora adesso, non è
invecchiata per niente. Nei suoi libri, ho l’impressione che si senta
piuttosto l’influenza del ritmo dei katarimono 1 di epoca Edo. In
ogni caso, Sōseki aveva un ottimo orecchio. Non so quanto
conoscesse la musica occidentale, ma di sicuro non era nuova
per lui, che aveva fatto un soggiorno di studi a Londra.
Controllerò.
OZAWA Era insegnante d’inglese, vero?
MURAKAMI Sí, e forse questo spiega il suo ottimo orecchio.
Probabilmente sapeva combinare con maestria l’elemento
giapponese e quello occidentale. Un altro scrittore che ha una
grande musicalità è Yoshida Hidekazu. Il suo giapponese è molto
fluido, facile da leggere, e ha uno stile suo originale.
OZAWA Sí, penso che abbia ragione.
MURAKAMI Parlando di docenti di letteratura, credo che il suo
insegnante d’inglese alla Tōhō Gakuen School of Music fosse lo
scrittore Maruya Saiichi.
OZAWA Sí! Ci ha fatto leggere Gente di Dublino di James Joyce.
Mi dica lei come potevamo capire un libro del genere! (ride) Ero
seduto di fianco a una ragazza che in inglese era bravissima, le
chiedevo spiegazioni ogni momento. Perché io non ero mai
preparato. Infatti sono andato in America senza saper dire una
parola di inglese! (ride)
MURAKAMI Quindi non è che Maruya Saiichi fosse un cattivo
professore, era lei che non studiava.
OZAWA Esatto. Non aprivo libro.

1. I katarimono sono brani di musica vocale tradizionale in cui la parte vocale,


in forma di declamazione, ha piú importanza della parte strumentale.
Terza conversazione
Quel che è successo negli anni Sessanta
La prima metà di questa conversazione ha avuto luogo il 13
gennaio 2011, e fa seguito a quella sul concerto alla Carnegie
Hall. Quel giorno non abbiamo avuto il tempo di terminare, cosí
abbiamo continuato il 10 febbraio seguente, sempre nel mio
studio a Tōkyō. «Ho dimenticato tante di quelle cose!» mi ha detto
il Maestro, ma in realtà i suoi ricordi erano molto vividi, e molto
interessanti.

PRIMO ASSISTENTE DI LEONARD BERNSTEIN

MURAKAMI Oggi pensavo di parlare con lei soprattutto della sua


attività negli anni Sessanta...
OZAWA Se me ne ricordo. Ho l’impressione di aver dimenticato
quasi tutto (ride).
MURAKAMI In una conversazione precedente, lei mi ha detto di
essere stato l’assistente di Leonard Bernstein a New York. Avrei
voluto farle altre domande in proposito, poi me ne sono
dimenticato. In cosa consiste esattamente il lavoro di un
assistente?
OZAWA Ogni orchestra ha un assistente del direttore, ma Bernstein
come al solito faceva a modo suo e ne aveva tre. Probabilmente
trovava finanziamenti supplementari. Ogni anno ingaggiava tre
nuovi assistenti, con un contratto annuale. Fra questi ci sono
anche stati, da giovani, Claudio Abbado, Edo de Waart, Lorin
Maazel, e tanti altri direttori d’orchestra poi diventati famosi. Ho
fatto un colloquio per quel posto quando ero ancora a Berlino, in
occasione di una tournée della New York Philharmonic in
Germania. Il colloquio era con Lenny e una decina di altri membri
dell’orchestra. Dopo un concerto ci siamo infilati in un paio di taxi
e siamo andati in un locale un po’ equivoco che si chiamava Rififi,
abbiamo parlato bevendo. Mi hanno chiesto di suonare al piano
del bar per valutare il mio orecchio. Quella sera Lenny aveva
diretto, dal pianoforte, il Concerto per piano n. 1 di Beethoven ed
era molto rilassato, la giornata di lavoro era finita. A quell’epoca il
mio inglese era disastroso, non capivo bene neanche quello che
mi dicevano, comunque me la sono cavata (ride) e sono diventato
assistente di Lenny. Per quell’anno gli altri due erano già stati
selezionati, quindi ero l’ultimo. Gli altri erano John Canarina e
Maurice Peress.
MURAKAMI Quindi da Berlino si è trasferito a New York.
OZAWA Il colloquio l’avevo fatto in autunno. Sei mesi piú tardi,
nella primavera del ’61, la New York Philharmonic doveva venire
in Giappone. A Tōkyō era in programma un grande evento −
L’Occidente incontra l’Oriente, o L’Oriente incontra l’Occidente,
non so piú… − e l’orchestra di Lenny era stata invitata a
partecipare. I musicisti hanno deciso che in quell’occasione io
avrei preso parte alla tournée, in qualità di assistente. Cadevo a
fagiolo, considerato che ero giapponese. Visto che eravamo tre
assistenti, ognuno di noi era incaricato di un terzo del repertorio.
Dovevamo preparare una delle opere che Lenny avrebbe diretto
in concerto, nel caso si fosse improvvisamente ammalato. Le
opere in repertorio erano tre in tutto, quindi me ne toccava una.
MURAKAMI Cioè se fosse successo qualcosa, lei sarebbe salito sul
podio e avrebbe diretto.
OZAWA Esatto. Tra l’altro all’epoca succedeva spesso che il
direttore non venisse alle prove. Mi chiedo perché. All’inizio della
preparazione Lenny non si è presentato diverse volte. Allora
eravamo noi a decidere chi dovesse dirigere.
MURAKAMI Al posto di Bernstein, cioè?
OZAWA Sí. Lenny mi aveva in grande simpatia, quindi di
preferenza sceglieva me. Molto prima di venire in Giappone, la
New York Philharmonic aveva commissionato un’opera a
Mayuzumi Toshirō, il quale per l’occasione aveva composto
Bacchanale. E naturalmente si aspettava che la dirigesse
Bernstein. Invece Lenny, alla Carnegie Hall, ha incaricato me,
nella mia qualità di assistente, di far esercitare l’orchestra su
quell’opera. «Falla tu!» mi ha detto. Cosí ho diretto le prove in
presenza sia di Bernstein che di Mayazumi. Io pensavo che fosse
soltanto per un giorno, che dall’indomani sul podio sarebbe salito
Lenny. Invece di nuovo mi ha detto: «Seiji, anche oggi tocca a te!»
Ed è finita che sono stato io a dirigere la prima a New York.
MURAKAMI Incredibile!
OZAWA Dopo il concerto di New York, siamo venuti in Giappone.
Davo per scontato che a dirigere sarebbe stato Lenny, ed ecco
che in aereo, all’andata, mi fa: «Dirigerai di nuovo tu. Sul
programma c’è già il tuo nome».
MURAKAMI Quindi era già tutto deciso fin dall’inizio?
OZAWA Sí, cosí anche in Giappone quell’opera l’ho diretta io.
MURAKAMI Erano le prime volte che dirigeva la New York
Philharmonic davanti a un pubblico?
OZAWA Forse sí. Anzi, in verità l’avevo già fatto. Durante una
tournée dell’orchestra negli Stati Uniti, avevo diretto un bis. Credo
a Detroit, alla fine di un concerto all’aperto. Quando gli
chiedevano un bis, a Lenny piaceva suonare il finale dell’Uccello
di fuoco di Stravinskij. Un brano corto, cinque o sei minuti. Quella
volta, quando il pubblico l’ha richiamato sul palco, mi ha preso per
mano, mi ha portato su con lui e ha dichiarato: «Ecco qui un
giovane direttore. Vorrei che l’ascoltaste». Non credo che il
pubblico fosse contento, comunque non ci sono state
rimostranze.
MURAKAMI Fra i tre, lei era davvero trattato in modo speciale,
vero?
OZAWA Sí, era favoritismo puro. Quella volta non ero affatto pronto
spiritualmente, lí su due piedi, a dirigere l’orchestra. Ero quasi nel
panico, ma ho fatto del mio meglio, e alla fine ho ricevuto applausi
fragorosi. È stato un grande successo. Qualcosa di simile è
accaduto altre due o tre volte.
MURAKAMI Non deve capitare spesso, che un direttore faccia solo i
bis.
OZAWA Già, è una cosa eccezionale. E mi pareva una scorrettezza
nei confronti degli altri due assistenti.
MURAKAMI Qual è il compenso di un assistente?
OZAWA Poca roba. Quando ho iniziato, non ero ancora sposato e
prendevo cento dollari alla settimana, non bastavano certo per
vivere. Dopo il matrimonio ho avuto un aumento di cinquanta
dollari, ma non erano sufficienti comunque. Per due anni, a New
York, ho abitato in appartamenti modestissimi. Il primo era un
seminterrato, pagavo centoventicinque dollari d’affitto. Il mattino,
quando mi alzavo, vedevo le gambe dei passanti. Una volta
sposato, grazie all’aumento, ho affittato un appartamento a un
piano piú alto. Ma le estati a New York erano talmente calde, che
la notte non chiudevamo occhio. Naturalmente non avevamo l’aria
condizionata. Cosí a volte andavamo in un cinema aperto tutta la
notte − sceglievamo il meno caro del quartiere − e dormivamo lí.
Abitando vicino a Broadway, i cinema non mancavano di certo.
Peccato che quando finiva un film, dovessimo alzarci e andare nel
foyer. Starci per qualche minuto ogni due ore.
MURAKAMI Non aveva il tempo di fare un secondo lavoro?
OZAWA Un secondo lavoro? Si figuri, assolutamente no! Ero
troppo occupato a studiare gli spartiti della settimana.
MURAKAMI Chissà quanti ne aveva! Da un momento all’altro
poteva essere chiamato sul palco a dirigere.
OZAWA Sí, ne avevo una montagna. E c’erano anche quelli degli
altri due assistenti. In teoria toccavano a loro, ma c’era sempre il
rischio che succedesse qualcosa e non potessero prepararsi.
Quindi in conclusione imparavo anche la loro parte, il tempo non
mi bastava mai.
MURAKAMI Sí, capisco.
OZAWA All’epoca, dato che facevo solo quello, ero sempre alla
Carnegie Hall. Tanto che mi accusavano di vivere praticamente lí.
Però gli altri due assistenti qualche altro lavoro lo facevano.
Dirigevano dei musical di Broadway, o magari dei gruppi corali. Sí,
credo proprio che le cose stessero cosí. A volte venivano chiamati
a sostituire qualcuno, allora venivano da me e mi dicevano: «Ehi,
Seiji, mi faresti il favore di prendere il mio posto?» Era davvero
assurdo. Comunque, è la ragione per cui dei tre, io sono quello
che ha studiato di piú. Se non avessi fatto anche la loro parte del
lavoro, in caso di emergenza sarebbe stato un bel disastro.
MURAKAMI In conclusione, lei faceva il lavoro di tre.
OZAWA Be’, supponga che Bernstein improvvisamente si fosse
ammalato, proprio mentre uno degli altri assistenti sostituiva
qualcuno a Broadway. Chi avrebbe diretto l’orchestra? Cosí
imparavo a memoria tutti gli spartiti. Mi aggiravo sempre dietro le
quinte, che la cosa piacesse o meno.
MURAKAMI Quando dice che studiava gli spartiti, significa che li
leggeva con estrema attenzione?
OZAWA Sí. Dato che non potevamo esercitarci concretamente, non
ci restava che leggere gli spartiti fino a ricordarli a memoria.
MURAKAMI E assisteva a tutte le prove di Bernstein?
OZAWA È ovvio! Guardavo e mi imprimevo bene in testa ogni suo
gesto. Nel teatro c’era uno spazio destinato proprio a questo
scopo. Sentivo tutto, ma il pubblico non mi vedeva. Ce n’è uno
simile al Lincoln Center. Alla Carnegie Hall non è altrettanto ben
concepito, ma comunque c’è. Si trova di lato rispetto al direttore
d’orchestra, un po’ sopraelevato, e ci si sta al massimo in quattro.
È da quello spazio che un giorno ho assistito a un concerto in
compagnia di Elizabeth Taylor e Richard Burton.
MURAKAMI Sul serio?
OZAWA Erano ospiti di Lenny, li aveva invitati lui. Ma a quell’epoca
erano talmente famosi, che non era immaginabile farli sedere in
sala con il pubblico. Sarebbe successo il finimondo. Allora Lenny
mi ha detto: «Senti, Seiji, portali con te nel tuo posto». Cosí ci
siamo stretti in tre in quell’angolino, e abbiamo ascoltato il
concerto gomito a gomito (ride).
MURAKAMI In ogni caso, vivendo in contatto costante con
l’orchestra, avrà imparato molte cose.
OZAWA Certo, ho imparato moltissimo! Peccato però che non
parlassi bene l’inglese, e questo lo rimpiango. Ad esempio,
Bernstein conduceva una trasmissione televisiva che si intitolava
Young People’s Concerts. Io assistevo ad ogni puntata, ma non
capivo assolutamente di cosa parlassero. A pensarci adesso,
credo di aver davvero perso una bella occasione.
MURAKAMI Se avesse capito, avrebbe potuto imparare ancora di
piú.
OZAWA Esatto. Però di opportunità di dirigere Lenny me ne ha
date tante. Ancora oggi penso che non fosse una bella cosa verso
gli altri due, poveracci.
MURAKAMI Adesso cosa fanno? Ne sa qualcosa?
OZAWA Maurice Peress ha lavorato molto per Broadway, anche
per grandi spettacoli. Ha diretto rappresentazioni a New York, ma
anche in Inghilterra, a Londra. Quanto a John, ha diretto una
piccola orchestra in Florida o da quelle parti. Se si fa l’assistente
per troppo tempo, si resta assistente per sempre, parecchia gente
è finita cosí. Per quel che mi riguarda, l’ho fatto per due anni e
mezzo. In realtà, come le ho detto, eravamo stati ingaggiati per un
anno, dopodiché avremmo dovuto essere sostituiti, ma siamo
rimasti tutti e tre perché non trovavamo un altro posto. Pure io,
naturalmente... È anche successo che facessi da custode per
Lenny, quando lui ha preso una specie di anno sabbatico.

LEGGERE ATTENTAMENTE UNO SPARTITO

MURAKAMI È stato dunque a quell’epoca, che ha iniziato a


prendere gusto alla lettura degli spartiti? O diciamo a farlo con
passione, piuttosto.
OZAWA Sí, a quell’epoca. Non avevo molta scelta. Passavo ore e
ore a studiare gli spartiti su un pianoforte del teatro, dietro le
quinte, perché a casa non ne avevo uno mio. D’altronde a Vienna,
fino a poco tempo fa, ero nella stessa situazione! Nel mio
appartamento un piano non c’era, quindi stavo fino a tarda sera
nel mio studio alla Staatsoper, poco distante da casa mia. Lí c’era
un grande pianoforte a coda. A volte pensavo: «Già, a New York
facevo la stessa cosa...», e provavo una forte emozione. Alla
Carnegie Hall, c’era un piano nello studio del direttore, quindi
andavo a studiare lí per ore, mi prendevo questa libertà. Era
un’epoca tranquilla e la gente entrava e usciva con facilità, non
c’erano tante misure di sicurezza.
MURAKAMI Non mi rendo ben conto di cosa significhi leggere uno
spartito, ma nel mio lavoro di traduttore leggo ogni giorno testi
inglesi che poi traspongo in giapponese, e ogni tanto mi imbatto in
passaggi di cui non capisco granché. Per quanto mi scervelli,
niente da fare. Mi capita di passare un sacco di tempo a braccia
conserte, a osservare quelle righe. A volte alla fine capisco, a
volte no. In questo caso lascio perdere e vado avanti, ma pur
continuando a tradurre, ogni tanto torno indietro a rileggere quel
passaggio. E dopo circa tre giorni, all’improvviso tutto mi diventa
chiaro. Ah, ecco cosa voleva dire! Il significato emerge da solo,
naturalmente, dalle pagine. A prima vista, il tempo che passo a
osservare in silenzio il passaggio problematico può sembrare
sprecato, ma ho l’impressione che sia in quel momento che
penetra profondamente nella mia coscienza. Per caso leggere
uno spartito è un processo piú o meno simile? È quello che mi
viene da pensare.
OZAWA Sí, è vero. Con uno spartito difficile, succede spesso
qualcosa del genere. Però... − be’, qui entriamo nel campo
professionale − non dimentichi che un pentagramma ha solo
cinque linee. E le note in sé non presentano particolari difficoltà,
ma piú ce ne sono, piú la lettura diventa complessa. Sono come
le sillabe dell’alfabeto katakana, o hiragana 1: una per una si
leggono facilmente, ma quando si combinano a formare frasi
complicate, si finisce per non capire piú niente. A meno di avere
le conoscenze necessarie. Nella musica succede la stessa cosa.
Con la differenza che le «conoscenze necessarie» sono una
quantità enorme. Perché nella musica, i simboli che si usano sono
piú semplici di quelli che compongono la scrittura, cosí quando
non si capisce, non si capisce sul serio.
MURAKAMI Questo perché sugli spartiti ci sono poche spiegazioni,
solo qualche indicazione codificata?
OZAWA Giusto. Perché non ci sono spiegazioni scritte. La prima
volta che mi sono trovato veramente in difficoltà, è stata con
Wozzek. Immagino che conosca quest’opera.
MURAKAMI Sí, è di Alban Berg.
OZAWA Esatto. All’inizio, leggendo lo spartito, avevo l’impressione
di capire piuttosto bene. Poi sono iniziate le prove con la New
Japan Philharmonic. Quella volta, sapendo che non avrei avuto
molto tempo prima del concerto, in via eccezionale avevo
predisposto di provare con l’orchestra tre o quattro mesi in
anticipo. Mi dicevo che sarebbero bastati due o tre giorni, in
occasione di un mio soggiorno in Giappone, prima di tornare in
America... di tornare a Boston, mi pare. Poi avrei fatto qualche
ulteriore, scrupolosa prova in prossimità del concerto. Be’, meno
male che mi ci ero messo con largo anticipo! Quei tre o quattro
mesi di intervallo mi hanno salvato! Perché appena ho iniziato a
provare con l’orchestra, sono venute fuori una dopo l’altra una
serie di cose che non capivo. Una serie di problemi.
MURAKAMI Vuole dire che quando studiava lo spartito, era convinto
che fosse tutto chiaro, ma in realtà non lo era?
OZAWA Esatto. Credevo di aver capito, e invece ero nel buio
totale.
MURAKAMI E se n’è reso conto quando l’orchestra ha trasformato
lo spartito in musica?
OZAWA Suonando sul mio pianoforte quello che vedevo sullo
spartito, mi era sembrato di averlo compreso. Ma ascoltando
l’orchestra interpretare la stessa musica, non potevo fare a meno
di pensare tutti i momenti: «Oh, no, non cosí!» In altre parole,
mentre ero sul podio, avevo l’impressione che il suono,
muovendosi nel tempo, si mettesse ad andare all’impazzata. Alla
fine mi sentivo perso.
MURAKAMI Oh...
OZAWA Quella volta per me è stato un bello shock. In preda al
panico, ho riletto lo spartito dall’inizio. E cosí mi sono reso conto
di tante cose. La prima volta, leggendo, avevo capito quello che lo
spartito esprimeva, quello che il compositore voleva dire,
insomma. E anche il ritmo. La cosa piú difficile era l’armonia. Ma
pure quella avevo finito col mettermela in testa. Peccato che
appena ha cominciato a svilupparsi nel tempo, mi sono sentito
disorientato. Perché la musica è l’arte del tempo, no?
MURAKAMI Ha ragione.
OZAWA Dirigevo l’opera seguendo per filo e per segno lo spartito di
Alban Berg, rispettando i tempi che aveva indicato, ma il mio
orecchio non era piú in grado di seguire il tempo. Anzi no, non era
l’orecchio. Era la mia capacità di comprensione. La mia mente
non riusciva a starci dietro. E dire che seguivamo fedelmente le
indicazioni di Berg. L’orchestra ne era perfettamente capace.
Ciononostante, c’erano diversi passaggi che non capivo. Non
tantissimi, ma c’erano. Era la prima volta che mi succedeva. Cosí
ho deciso di rimettermi di corsa a studiare ancora una volta lo
spartito. Per combinazione, avevo davanti alcuni mesi durante i
quali avrei trovato il tempo di farlo, e quella fu davvero una
fortuna.
MURAKAMI Insomma, in certi casi il flusso dell’armonia è qualcosa
che non si può capire, a meno che l’orchestra non lo trasformi in
suono?
OZAWA Sí. Prenda Brahms, ad esempio, del quale parlavamo
prima, o Richard Strauss. Basta un’occhiata allo spartito per farsi
grosso modo un’idea dell’armonia. È una questione di esperienza.
Ma quando ci si trova davanti a un compositore come Charles
Ives, mettiamo, succede spesso che dell’armonia non si riesca a
capire nulla finché non lo si suona. D’altronde Ives lo fa
intenzionalmente, con spirito distruttivo. Provare al piano quello
che dovrà suonare l’orchestra non serve a granché, perché dieci
dita non sono sufficienti. Bisogna sentire il suono reale. Anche
perché quando si fa l’orecchio al suono, si capisce il trucco, quali
note saltare per farsi bastare le dieci dita. O piuttosto, quali note
sono indispensabili.
MURAKAMI Di solito, quando legge gli spartiti?
OZAWA Vuole dire in che momento della giornata?
MURAKAMI Sí.
OZAWA Al mattino. Al mattino presto. Perché ho bisogno di
concentrarmi al massimo, e non posso permettermi di avere
nemmeno una goccia d’alcol nel sangue.
MURAKAMI Non ho la pretesa di paragonarmi a lei, ma anch’io
lavoro al mattino presto. È il momento in cui riesco a concentrarmi
meglio. Quando scrivo un romanzo lungo, mi sveglio sempre alle
quattro. Mi devo mettere in uno stato d’animo di totale
raccoglimento mentre fa ancora buio.
OZAWA E per quante ore lavora all’incirca?
MURAKAMI Piú o meno cinque.
OZAWA Io ormai non ce la faccio piú, a concentrarmi per cinque
ore. Mi alzo alle quattro, ma verso le otto mi viene fame e faccio
colazione (ride). A Boston le prove iniziavano verso le dieci e
mezzo, quindi dovevo mangiare qualcosa verso le nove al piú
tardi.
MURAKAMI È divertente, leggere uno spartito?
OZAWA Divertente? Mah, forse. Sí, lo è, quando tutto va bene, per
lo meno. Ma quando non funziona, è una sofferenza.
MURAKAMI Potrebbe farmi un esempio concreto di un caso in cui
non funziona?
OZAWA Sí, quando non riesco a mettermi la musica in testa. È la
cosa peggiore che possa capitare. Quando sono troppo stanco,
quando la capacità di concentrarmi e comprendere diminuisce.
Questo è un segreto professionale che non dovrei rivelare, ma
succede spesso che la musica che si deve interpretare la sera
non sia la stessa che si è studiata il mattino. A Boston, per
esempio, avevo quattro programmi diversi da interpretare in
quattro settimane. Quindi dopo la «prima» di un programma,
dovevo mettermi a studiare per la settimana seguente. A
ripensarci adesso, mi rendo conto che era una delle cose piú
faticose del mio lavoro.
MURAKAMI I programmi la incalzavano, insomma.
OZAWA L’ideale, dopo una serie di concerti, sarebbe avere un
intervallo di due settimane per studiare bene gli spartiti prima di
iniziare una nuova serie... Ma in realtà non ho mai avuto tanto
tempo.
MURAKAMI Immagino che, in quanto direttore musicale della
Boston Symphony, dovesse anche occuparsi di tante piccole
cose, avesse tante incombenze amministrative.
OZAWA Sí, certo, ce n’erano molte. Almeno due riunioni alla
settimana, e quando sul tappeto c’erano questioni complesse,
duravano molto. Ma avevano degli aspetti interessanti, soprattutto
la preparazione dei programmi. Era anche divertente scegliere
quali direttori e quali solisti invitare. Le riunioni che detestavo
invece erano quelle in cui si discuteva dei problemi dei musicisti.
Come regolarsi sul compenso di un tale, chi promuovere, chi
retrocedere... perché c’erano da prendere decisioni anche su
questioni del genere. Oltretutto, alla Boston Symphony non si
andava in pensione a un’età fissa. Quindi, se un musicista
invecchiando perdeva un po’ del suo talento, mi toccava
annunciargli che era «tempo di prendere in considerazione l’idea
di ritirarsi». A qualcuno piú anziano di me! Era la cosa piú difficile.
Mi è successo due o tre volte, quando lavoravo lí. E per rincarare
la dose, si trattava di buoni amici.

DA TELEMANN A BARTÓK

MURAKAMI Torniamo agli anni Sessanta. Nel primo disco che ha


registrato in America, lei dirigeva l’oboista Harold Gomberg. Sono
dei concerti di Vivaldi e di Georg Philipp Telemann, la data è il
maggio del 1965. Ho trovato l’album per caso negli Stati Uniti, in
un negozio di dischi usati.
OZAWA È incredibile. Quanti ricordi mi fa venire in mente...
MURAKAMI Suppongo che all’epoca non ci fosse un concetto
unanime, universalmente condiviso, di «musica barocca». È la
sensazione che ho avuto ascoltando l’interpretazione di Gomberg.
Il suo fraseggio mi è parso piú romantico che barocco.
OZAWA Ha ragione, all’epoca nessuno sapeva bene come si
dovesse suonare questa musica. Sapevamo che esisteva una
«musica barocca» e c’erano delle persone che la interpretavano,
tutto qui, ma era un repertorio che non consideravamo quasi.
Anche per me, quella con Gomberg era la prima volta.
MURAKAMI Però l’orchestra si avvicina al suono della musica
barocca piú di quanto faccia il solista. Che cos’era esattamente, la
Columbia Chamber Orchestra?
OZAWA Soltanto il nome scelto per quella registrazione da alcuni
musicisti della New York Philharmonic. I fiati per la precisione,
messi insieme da Gomberg per quel concerto. Nessuno aveva
mai fatto musica barocca. E hanno voluto me sul podio perché
dirigevo già la New York Philharmonic, come assistente.
MURAKAMI Alla luce di quello che so ora sulla sua carriera, mi
sembra che fosse un evento eccezionale, per lei, dirigere
Telemann.
OZAWA Sí, lo era. Quella volta dovetti studiare parecchio.
MURAKAMI Quindi Harold Gomberg volle proprio lei, per quella
registrazione?
OZAWA Sí, mi apprezzava molto.
MURAKAMI Dopo, ha registrato due concerti per piano di Bartók, il
n. 1 e il n. 3. È stato nel luglio dello stesso anno. Cioè due mesi
dopo il concerto di Telemann. Il solista era Peter Serkin.
Fantastico, una rivelazione.
OZAWA Sí, era con la Chicago Symphony. O forse l’orchestra di
Toronto?
MURAKAMI La Chicago Symphony. Ancora oggi
quell’interpretazione ha qualcosa di innovativo. Nei concerti di
Telemann e di Vivaldi c’era una sorta di riserbo, di smarrimento,
mentre in questi concerti di Bartók non si sente nulla del genere,
al contrario. C’è un’apertura quasi totale.
OZAWA Lei trova? Non ricordo granché di questa registrazione.
L’anno precedente, contro ogni aspettativa, ero diventato direttore
del Ravinia Festival, cosa che aveva fatto scalpore, ero persino
stato invitato a una trasmissione che si intitolava What’s My Line?
Una cosa sul genere del vecchio quiz della Nhk Il mio segreto. Poi
una casa discografica mi contattò, e ci mettemmo d’accordo per
una serie di registrazioni, ogni anno, dopo i concerti. All’indomani
di ogni concerto del festival, andavamo a registrare in studio. Ci
impiegavamo una mezz’ora in auto da Ravinia, dove aveva luogo
il festival.
MURAKAMI Per Chicago, il Ravinia Festival è un po’ quello che il
Tanglewood Music Festival è per Boston...
Poso sul piatto dello stereo il disco di Bartók. Concerto per piano
n. 1. Nell’aria prorompono acuti strepitosi, che danno
un’impressione sonora traboccante di vita. Il livello della
performance è alto.
OZAWA Ah, alla tromba c’è Herseth! Adolph Herseth.
Famosissimo, una leggenda della Chicago Symphony.
Entra il piano, da solo.
MURAKAMI Anche il piano è sorprendente. Non ha incertezze.
OZAWA Sí, anche Peter è ottimo. Non aveva ancora vent’anni.
MURAKAMI Un’interpretazione molto sensibile.
L’orchestra si unisce al piano.
OZAWA Oh, mi ricordo di questo passaggio! All’epoca gli ottoni
della Chicago Symphony erano i migliori del mondo. Herseth e gli
altri erano delle star.
MURAKAMI Il direttore principale era Fritz Reiner, vero?
OZAWA No, era Jean Martinon.
MURAKAMI In ogni caso, passare di colpo da Telemann a Bartók,
sarà stato un bel salto, per lei.
OZAWA Ah, ah, ah...! (si fa una bella risata)
MURAKAMI Nel dicembre dello stesso anno, ha registrato il
Concerto per violino di Mendelssohn e quello di Čajkovskij.
OZAWA Non mi ricordo il nome del solista, però. Un violinista.
MURAKAMI Erick Friedman.
OZAWA E l’orchestra era la London Symphony?
MURAKAMI Sí. Anche questo disco l’ho comprato di seconda mano,
in un negozio in America. Ad ascoltarlo adesso, però, il violinista è
un po’ fuori moda, ci mette un po’ troppa passione.
OZAWA Ricordo di averlo registrato, ma per il resto, ho dimenticato
tutto.
MURAKAMI E circa nello stesso periodo, sempre quando dirigeva la
London Symphony, ha inciso il Concerto per piano di Schumann e
la Burleske di Richard Strauss con Leonard Pennario. L’anno
dopo, sempre con la stessa orchestra, ha diretto il Concerto per
piano n. 1 di Čajkovskij con John Browning. Insomma, a Londra
ha diretto diversi concerti romantici con solisti americani. Non ho
avuto occasione di ascoltare il disco con Browning, ma ormai tutti
questi solisti non ci dicono piú granché.
OZAWA Credo che all’epoca la casa discografica avesse lanciato
una campagna di promozione di Pennario e di Friedman. Però mi
creda, John Browning era un pianista geniale.
MURAKAMI Di recente non se ne sente piú parlare.
OZAWA È vero. Chissà che fine ha fatto...
[Nato nel 1933, John Browning negli anni Sessanta era un
giovane pianista alla moda che vendeva molto, ma a partire dagli
anni Settanta ha ridotto notevolmente la sua attività. Per
«eccessiva stanchezza», sono le sue parole. Verso la metà degli
anni Novanta è riapparso con un repertorio di musica americana
contemporanea. È morto nel 2003].
MURAKAMI Quindi è passato direttamente da Telemann a Bartók,
per tornare poi indietro, a metà strada, con i romantici. Com’è
arrivato a registrare opere di genere tanto diverso? Tranne il disco
con Gomberg, tutti gli altri sono stati pubblicati dalla Rca Victor.
OZAWA Ammetto di non aver mai capito bene come siano andate
le cose. Avevo avuto un certo successo al Ravinia Festival e in
quel momento ero piú o meno sotto la luce dei riflettori. All’epoca
la Chicago Symphony aveva fama di essere l’orchestra migliore al
mondo, e quando hanno chiamato me a dirigerla, se n’è parlato.
Quindi la casa discografica avrà pensato di sfruttare il mio
successo per pubblicare dei dischi. Cosí mi ha invitato a Londra,
dove abbiamo fatto tutte quelle registrazioni.
MURAKAMI A giudicare dalla sua discografia, era oberato di lavoro!
L’estate seguente, nel ’66, con la London Symphony ha inciso
l’oratorio di Honegger Jeanne d’Arc au bûcher. Il suo repertorio è
di una vastità impressionante!
OZAWA Ah, ah, ah! (una risata davvero allegra)
MURAKAMI Qual era la sua linea di condotta, all’epoca? Accettare
tutte le proposte, da qualunque casa discografica arrivassero?
OZAWA Esatto. Non ero abbastanza affermato da potermi
permettere il lusso di scegliere.
MURAKAMI Anche l’opera di Honegger le era stata suggerita dalla
casa discografica?
OZAWA Credo che sia andata proprio cosí. Non mi vedo a proporre
un’opera del genere.
MURAKAMI In ogni caso, sempre considerando la sua discografia,
non riesco a immaginare che cosa avesse in mente per lei il
produttore.
OZAWA Ah, questo non glielo saprei dire!
MURAKAMI Davanti alla lista delle opere, anche un osservatore
esterno come me non può fare a meno di sentirsi un po’ confuso.
E subito dopo Honegger, ha registrato la Sinfonia fantastica di
Berlioz con la Toronto Symphony. In quel momento ne era già il
direttore?
OZAWA Sí. Dunque... quell’anno, appena sono diventato direttore
musicale della Toronto Symphony, ho inciso due dischi: November
Steps di Takamitsu e la Turangalîla-Symphonie di Messiaen. In
tutto sono rimasto quattro anni.
MURAKAMI Vedo che queste due registrazioni sono del ‘67. Le
opere le aveva scelte lei?
OZAWA Certo. Anzi no, non quella di Messiaen! È stata un’idea
sua, del compositore. L’avevo interpretata per lui quando era
venuto in Giappone. Prima di essere boicottato dalla Nhk
Symphony. A lui il mio modo di dirigere piaceva molto... si può
dire che l’entusiasmasse, mi confidò che sperava di farmi dirigere
tutte le sue opere. Da parte mia, ero pronto ad accontentarlo, ma
a Toronto non erano d’accordo, sostenevano che non era
redditizio, che i biglietti non si sarebbero venduti. Comunque sono
riuscito a registrare la Turangalîla-Symphonie e Oiseaux
exotiques.

LA SAGRA DELLA PRIMAVERA:


UNA STORIA VISTA DALL’INTERNO

MURAKAMI Per preparare quest’incontro, ho ascoltato quasi tutti i


dischi che lei ha inciso negli anni Sessanta, per lo meno i migliori.
Se dovessi selezionare quelli che preferisco, direi: i concerti di
Bartók di cui abbiamo parlato prima, la Sinfonia fantastica con la
Toronto Symphony e la Sagra della primavera di Stravinskij. Li
trovo magnifici. Ancora adesso non hanno perso freschezza.
OZAWA Lo Stravinskij, è quello in cui dirigevo la Chicago
Symphony?
MURAKAMI Esatto.
OZAWA Riguardo a quella registrazione della Sagra della
primavera, circola una storia. Sembra una follia, ma Stravinskij,
poco prima che registrassimo, aveva riscritto lo spartito. In questa
versione «rivista e corretta» aveva modificato le stanghette delle
battute. Da non credersi. Rispetto alla versione che avevamo
studiato, aveva cambiato tutto. Fu un fulmine a ciel sereno, sia
per me che per i musicisti. Ero convinto che non ce l’avremmo
mai fatta.
MURAKAMI Cosa significa «modificare le stanghette delle battute»?
OZAWA Dunque, come spiegarle... (riflette a lungo) Ecco, significa
cambiare radicalmente il modo di contare i tempi. Ad esempio 1-
2-3, 1-2, 1-2, 1-2, 1-2, 1-2-3... diventa 1-2, 1-2, 1-2, 1-2...
Qualcosa del genere, insomma.
MURAKAMI Quindi ha trasformato delle misure irregolari in misure
regolari.
OZAWA Stravinskij diceva che le aveva rese «piú semplici». Aveva
un assistente, Robert Craft, compositore e direttore d’orchestra
anche lui. Lo spartito era stato modificato in modo che anche
un’orchestra di studenti potesse suonarlo sotto la direzione di
Craft.
MURAKAMI In altre parole, non era piú un’opera tanto difficile, da
interpretare.
OZAWA Già, e Stravinskij mi chiese di dirigere quella seconda
versione. È quel che feci.
MURAKAMI Quindi il disco che ho io è la seconda versione?
OZAWA Dunque... prima ho diretto la Sagra in concerto, in
presenza di Stravinskij e di Craft, poi l’ho registrata per la Rca.
Comunque con la Chicago Symphony ho registrato entrambe le
versioni.
MURAKAMI Lo ignoravo. L’unico disco che ho trovato della Sagra
della primavera diretta da lei, con la Chicago Symphony, è questo.
E ho sempre dato per scontato che fosse la stessa Sagra che
conoscevo, che ho sempre ascoltato.
OZAWA Non ci metterei la mano sul fuoco, ma credo che la
seconda versione non sia mai stata pubblicata.
MURAKAMI Vuol dire che è stata accantonata?
OZAWA Mentre dirigevo, sapevo che non funzionava, e lo
sapevano anche i musicisti... Secondo Lenny, in questa storia la
vittima principale sono stato io. Era convinto che Stravinskij
avesse fatto una seconda versione per ottenere un
prolungamento dei diritti d’autore, ed era furibondo. Avevo
studiato la prima versione spasmodicamente, l’avevo diretta un
sacco di volte, e la conoscevo a memoria. Ed ecco che mi viene a
mancare la terra sotto i piedi. L’interpretazione della versione
corretta implicava un approccio molto diverso. Ma il disco che ha
lei è quello della versione originale.
MURAKAMI Ho letto attentamente il testo sulla copertina, ma non
dice una parola in proposito. Spiega che nel 1967 il compositore
aveva riscritto l’opera, ma non precisa quale delle due versioni sia
stata registrata. Ho l’impressione che il testo sia volutamente
vago. Ma se fosse la «nuova versione», l’avrebbero di sicuro
scritto, per far salire le vendite...
[Secondo la testimonianza di Robert Craft, che aveva collaborato
alla revisione dello spartito, Stravinskij stesso trovava molto
difficile dirigere i passaggi dove le misure erano irregolari, e
questo era il principale motivo che l’aveva indotto alla modifica].
Poso il disco sul piatto.
OZAWA Posso mangiare questi onigiri?
MURAKAMI Prego, prego! Le porto del tè.
Preparo il tè.
OZAWA Nel ’68, quando ho fatto quella registrazione, ero ancora a
Londra. Sí, era l’anno in cui è stato assassinato Robert Kennedy.
MURAKAMI È lei che ha deciso di registrare questa Sagra della
primavera?
OZAWA Sí, ci tenevo moltissimo. Perché l’avevo già interpretata in
tanti posti.
MURAKAMI Quindi, a quell’epoca, poteva già scegliere le opere che
voleva registrare, non si limitava ad accettare quelle che le
proponevano le case discografiche.
OZAWA Infatti. Mi capitava sempre piú spesso.
L’introduzione finisce pacatamente, e inizia il celebre «bam-bam-
bam-bam» della prima scena − «Gli auguri primaverili – danze
delle adolescenti».
MURAKAMI Che suono incisivo, però!
OZAWA Sí, la Chicago Symphony era al culmine della sua bravura,
e io ero giovane e pieno di energia.
MURAKAMI Adesso ascoltiamo questo stesso passaggio, registrato
da lei con la Boston Symphony una decina di anni piú tardi.
Cambio il disco sul piatto. Riascoltiamo l’inizio dell’introduzione.
MURAKAMI Tutta un’altra atmosfera...
OZAWA Sí, il suono è piú morbido.
Il fagotto suona il tema del brano.
OZAWA Questo musicista è morto, sa? Investito da una macchina.
Si chiamava Sherman Walt e suonava anche lui con la Saitō
Kinen.
Ascoltiamo il disco bevendo tè e mangiando «onigiri».
MURAKAMI Se posso esprimere il mio parere personale, da
semplice melomane, quando ascolto le sue registrazioni degli
anni Sessanta, con l’orchestra di Chicago o quella di Toronto, ho
la sensazione che lei faccia danzare la musica con il palmo delle
mani, con generosità. Senza alcun timore.
OZAWA A volte essere temerari è un bene.
MURAKAMI In seguito, arrivando agli anni Settanta, quando registra
con la Boston Symphony, lei sembra richiudere un po’ le mani
intorno alla musica, come per avvolgerla. È una cosa che si
percepisce facilmente paragonando le registrazioni.
OZAWA Sí, capisco cosa vuole dire... può darsi che le seconde
siano piú prudenti.
MURAKAMI Forse questo modo di esprimermi semplifica un po’
troppo le cose, ma si può dire che fossero musicalmente piú... piú
mature?
OZAWA Sa, quando si diventa direttori musicali, si comincia a
tenere molto alla qualità dell’orchestra.
MURAKAMI Dopo quest’incisione del ’73 con la Boston Symphony,
non ha piú registrato la Sagra della primavera in studio, vero?
OZAWA No. Anche se me l’hanno chiesto spesso.
Si sente di nuovo il «bam-bam-bam-bam» degli «Auguri
primaverili – danze delle adolescenti».
OZAWA Non altrettanto viscerale, non trova? Interessante, però.
MURAKAMI Sí, inoltre il suo modo di sentire la musica è un poco
diverso dalle interpretazioni correnti.

TRE REGISTRAZIONI DELLA SINFONIA FANTASTICA


DIRETTA DA OZAWA SEIJI

MURAKAMI Adesso le farò ascoltare la versione della Sinfonia


fantastica di Berlioz che lei ha registrato con la Toronto
Symphony, nel ’66.
Comincio dal quarto movimento, «Marche au supplice».
MURAKAMI Quando ha assunto la direzione della Toronto
Symphony, qual era il livello dell’orchestra?
OZAWA A dire la verità, mediocre. Ho cambiato diversi musicisti.
Attirandomi naturalmente molti risentimenti. Ho addirittura
sostituito il primo violino, che è venuto da me a lamentarsi. Sí, si è
presentato alla porta di casa mia. In compenso, i nuovi membri
che ho inserito sono lí ancora adesso.
MURAKAMI Non trova che il suono sia un po’ duro?
OZAWA Sí, lo è. La registrazione l’avevamo fatta alla Massey Hall
di Toronto. L’acustica lí era pessima, al punto che l’avevamo
soprannominata la «Messy Hall» 2.
MURAKAMI Charlie Parker aveva fatto un’incisione live di un disco
celebre, in quella sala. Basta il nome, Massey Hall, e tutti i patiti
del jazz sapranno di cosa si parla. Comunque, in questa versione
della Sinfonia Fantastica la musica è molto vitale. Una musica che
danza.
OZAWA Sí, è molto libera. Sembra di vederla. È molto migliore di
quanto mi aspettassi. Anche se la presa del suono non è granché.
Il movimento finisce, sollevo la puntina.
MURAKAMI Sono d’accordo, è un’esecuzione eccellente. Verrebbe
da pensare che non ne sono necessarie altre, dopo aver sentito
questa, ma se poi si ascolta la Sinfonia Fantastica che lei ha
registrato con la Boston Symphony, si finisce per cambiare idea,
per lo meno per quanto mi riguarda. È qualcosa di completamente
diverso.
OZAWA Be’, sono state registrate in due epoche molto differenti. A
quindici anni di distanza, se non sbaglio.
MURAKAMI No, non cosí tanti. Vediamo... La versione di Boston è
del ’73, quindi erano passati sette anni.
Ora faccio ascoltare la versione della Boston Symphony. Lo
stesso brano, la «Marche au supplice». Il tempo è molto piú
pesante, la differenza è sorprendente.
OZAWA L’orchestra qui è molto, ma molto migliore.
MURAKAMI E il suono vibra in maniera diversa, no?
OZAWA Senta questo passaggio del fagotto! L’orchestra di Boston
era al massimo della sua bravura. Da quella di Toronto non avrei
mai potuto ottenere qualcosa del genere. Anche i timpani sono
tutta un’altra cosa. D’altronde, i musicisti della Toronto Symphony
erano troppo giovani, dal primo all’ultimo.
MURAKAMI Però ce la mettevano tutta.
OZAWA Sí, il sacro fuoco c’era.
Per un po’ ascoltiamo in silenzio la musica.
MURAKAMI È sorprendente come a soli sette anni di distanza, la
stessa musica possa essere suonata in modo tanto diverso.
OZAWA Sí, ma in quei sette anni io mi ero evoluto, e molto. Dopo
Toronto, ero diventato direttore musicale della San Francisco
Symphony, e poi della Boston Symphony.
MURAKAMI Visto che il suono delle due orchestre non è lo stesso,
è piú che naturale che cambi anche la musica.
OZAWA Per non parlare della Fantastica che ho appena fatto con
la Saitō Kinen [nel dicembre 2010], che è ancora diversa. Prima di
tutto perché sono cambiato un po’ anch’io. Ho fatto passare
intenzionalmente molto tempo prima di interpretare di nuovo
quest’opera. Per lasciare una pausa. L’ultima versione forse è un
po’ troppo focosa.
MURAKAMI Focosa?
OZAWA Ah, ah, ah! (sembra molto divertito)
MURAKAMI Adesso le faccio vedere il dvd della Fantastica che ha
fatto con la Saitō Kinen nel 2007, a Matsumoto. È una
registrazione live.
Ancora una volta partono le note della «Marche au supplice». Di
nuovo notiamo piccole differenze rispetto alle due interpretazioni
precedenti. Si ha sempre l’impressione di vedere la musica, di
vederla danzare, ma il «lamento» non ha la stessa qualità. In
termini jazz, si direbbe che non c’è lo stesso groove.
OZAWA Guardi lí, quell’uomo sulla sinistra. È la prima tromba dei
Berliner... E quell’altro, è il terzo trombone dei Wiener
Philharmoniker.
Si alza e si muove al ritmo della musica.
OZAWA (sospira vedendosi dirigere sullo schermo). È in questo
modo che mi sono rovinato le anche. Dopo che mi sono rotto una
spalla, non potevo usare liberamente il braccio, cosí ho iniziato a
muovermi in modo forzato, ad assumere posture innaturali, col
risultato che le anche ne hanno risentito. Vede cosa sono
costretto a fare? È una cosa senza senso.
MURAKAMI La sua direzione è talmente dinamica, che deve
richiedere un grande sforzo fisico. Lei ondeggia insieme alla
musica.
OZAWA A forza di ascoltare esecuzioni differenti, di confrontarle, mi
rendo conto di quanto siano diverse l’una dall’altra. È la prima
volta che lo faccio. Sono sorpreso io stesso da tanta differenza!
MURAKAMI Sí, le differenze fra queste tre versioni della Fantastica
sono lampanti anche per me. Lei aveva trentun anni quando ha
diretto l’opera a Toronto, un’interpretazione potente, incalzante.
Come le ho detto poco fa a proposito della Sagra della primavera,
lei fa saltare e danzare la musica sulle mani. Poi è andato a
Boston, è diventato direttore di un’orchestra di altissimo livello, e lí
dà l’impressione di tenere la musica fra le mani, di farla crescere
con tutta la cura. Nell’interpretazione del 2007 con la Saitō Kinen,
infine, sembra allargare un po’ le mani, dare aria alla musica,
lasciarle piú libertà. Un po’ come se volesse darle la possibilità di
essere piú spontanea. «Se devi uscire, bene, esci pure!» In altre
parole, possiamo parlare di un approccio piú naturale?
OZAWA Mmh, sí, forse ha ragione. In questo senso, nella recente
interpretazione della Fantastica alla Carnegie Hall (quella di
dicembre) siamo andati ancora oltre. La tendenza a dare
spontaneità alla musica era ancora piú forte.
MURAKAMI La sonorità della Saitō Kinen è piú adatta a questo tipo
di approccio?
OZAWA Sí. Inoltre ormai non mi preoccupo di controllare ogni
dettaglio, me ne rendo conto adesso guardando il dvd.
MURAKAMI A Boston invece faceva il contrario, vero? Stringeva le
viti una per una.
OZAWA Esatto. Come le ho già detto, mi sono sempre impegnato a
migliorare il livello e la qualità delle orchestre che ho diretto.
MURAKAMI Nella versione con la Boston Symphony che abbiamo
ascoltato prima, non fa altro che mettere a posto
scrupolosamente piccoli dettagli. Da un movimento all’altro il
tempo cambia, e il colore dell’orchestra anche. Non dico che si
possa parlare di «limatura», ma si ha la sensazione di guardare
una miniatura in movimento. È prodigioso. Mentre a Toronto e a
Chicago, la musica si scatena prima che si possa capire quanto
lei badi ai dettagli.
OZAWA Quelle due versioni erano piú ruspanti. Ero pieno di
energia, all’epoca.
MURAKAMI Ascoltando queste tre versioni della Sinfonia fantastica,
riesco a sentire le tre fasi della sua vita musicale.
OZAWA Sa, sono cose che si modificano con l’età, ovviamente.
Man mano che si avanza negli anni, l’atteggiamento verso
l’orchestra cambia. Inoltre nel mio caso, come le ho appena detto,
è intervenuto un problema tecnico, mi sono rotto una spalla,
quindi non sono piú stato in grado di usare il braccio come negli
anni Sessanta o Settanta, con la stessa energia.
MURAKAMI E poi a Boston, in quanto direttore musicale, aveva a
che fare con le stesse persone per tutta la durata della stagione.
Questo ha reso i suoi rapporti con l’orchestra piú stretti? Ha
provato il desiderio di plasmarli un po’, i musicisti?
OZAWA Certo, è inevitabile.
MURAKAMI Invece la Saitō Kinen non è un’orchestra permanente,
quindi immagino che non possa apportare molte variazioni, che
debba lasciare una certa libertà. Dico bene?
OZAWA Sí, ha ragione. Dato che ci incontriamo una volta all’anno,
conserviamo la nostra spontaneità. C’è anche una certa sorpresa.
Come per gli amanti di Tanabata (ride).
MURAKAMI Vuole parlarmi del suo periodo di Vienna?
OZAWA A Vienna, è stato come ritrovarmi fra vecchi amici. Per fare
musica. Tutto era cosí facile, lí, per me!
MURAKAMI Lei era direttore della Staatsoper, ma l’orchestra era
composta soprattutto da membri dei Wiener Philharmoniker,
vero?
OZAWA Sí, al cento per cento. Però non ero direttore dei Wiener
Philharmoniker, ma della Staatsoper. Perché i Wiener non ne
hanno uno. E tutti i musicisti devono passare prima dalla
Staatsoper, non possono entrare direttamente nei Wiener
Philharmoniker.
MURAKAMI Ah, non lo sapevo.
OZAWA Sí, dopo due o tre anni alla Staatsoper, passano nei
Wiener. Alcuni musicisti però suonano sia nell’una che negli altri
fin dall’inizio.
MURAKAMI Quindi, contrariamente a quanto avveniva a Boston,
non doveva occuparsi della gestione dell’orchestra?
OZAWA No. Naturalmente ero presente a tutti i provini, ma il mio
parere non valeva piú di quello degli altri membri. Non era come a
Boston, la gestione e la scelta dei musicisti non era compito mio,
non c’entravo niente. Quando si dovevano scegliere i cantanti
però era diverso, nei provini la mia opinione contava molto.
MURAKAMI Invece l’orchestra, doveva prenderla cosí com’era...
OZAWA Esatto.
MURAKAMI In altre parole, l’orchestra è percepita come una
componente di quella forma d’arte che è il teatro d’opera?
OZAWA Proprio cosí. Quindi il problema è sapere qual è il ruolo
esatto del direttore musicale della Staatsoper. Mi sarebbe piaciuto
occupare quel posto piú a lungo e dirigere altre opere, ma
purtroppo la mia salute è molto peggiorata e non mi è piú stato
possibile. In ogni caso, lavorare alla Staatsoper mi è piaciuto
immensamente. Sono felice di aver fatto quell’esperienza nel
corso della mia vita, è stata una straordinaria occasione che mi ha
offerto il Cielo. Prima non sapevo in cosa consistesse il lavoro nel
contesto di un teatro d’opera, non ne avevo la minima idea.
Impararlo è stato fantastico. Interessante, divertente... Adoro
l’opera, e quando desideravo interpretarne una, ero libero di
scegliere quella che volevo, senza restrizione alcuna.
MURAKAMI Ci sono stato due anni fa, alla Staatsoper, l’ho vista
dirigere l’Evgenij Onegin di Čajkovskij. Naturalmente la messa in
scena era magnifica, ma quello che mi ha davvero fatto venire i
brividi era la perfezione dell’orchestra. Vista dall’alto, sembrava un
corpo unico che si muoveva e suonava all’unisono con la musica.
Anche l’Evgenij Onegin che ha diretto all’Opera di Tōkyō mi è
piaciuto, ma a Vienna aveva qualcosa di speciale. Quella volta
sono andato a vedere anche altre opere − pura beatitudine.
Ma torniamo agli anni Sessanta. La Rca le faceva incidere un
gran numero di dischi, vero? Innanzitutto Quadri di un’esposizione
di Musorgskij, nel ’67; la Quinta sinfonia di Čajkovskij, sempre nel
’67; nel ’69 la Haffner di Mozart, il Concerto per orchestra di
Bartók, i Carmina Burana di Carl Orff, L’uccello di fuoco e
Petruška di Stravinskij; oltre all’accoppiata classica della Quinta di
Beethoven e dell’Incompiuta di Schubert. Un repertorio
straordinariamente vario.
OZAWA Ha ragione, ah, ah, ah! La Haffner era con l’orchestra di
Chicago?
MURAKAMI No, era con la New Philharmonia Orchestra. Ma la
maggior parte degli altri dischi in effetti li ha incisi con la Chicago
Symphony. Anche il Concerto per piano di Beethoven op. 61a con
Peter Serkin, di cui abbiamo già parlato, era con la New
Philharmonia Orchestra, se non sbaglio...
OZAWA È vero, è vero. Che strano brano. Come le ho detto, è
stata la prima e ultima volta che l’ho suonato.
MURAKAMI Quel concerto Beethoven l’aveva scritto per il violino, e
poi adattato per il piano. Per questo il piano fa fatica.
OZAWA Sí, faticava. Non era un brano per pianoforte. Ma a
quell’epoca Peter era cosí. Voleva assolutamente differenziare il
suo repertorio da quello del padre. Era un peccato, perché questo
lo obbligava a rinunciare alle opere piú famose di Beethoven.
Oppure, se voleva a tutti i costi fare Beethoven, doveva scegliere
qualcosa che suo padre non avesse suonato. Dopo la morte di
Rudolf però ha iniziato a interpretare le sue stesse cose. Ad
esempio la Fantasia per pianoforte, soli, coro e orchestra.
MURAKAMI Fra quello che lei ha registrato in quel periodo, signor
Ozawa, mi piacciono molto i Carmina Burana di Orff. Sono pura
meraviglia. Sono vivi, pieni di calore...
OZAWA Con la Boston Symphony, vero?
MURAKAMI Sí.
OZAWA Quella registrazione risale a prima che io ne diventassi il
direttore. Piú tardi ho di nuovo interpretato quell’opera con i
Berliner Philharmoniker, quando c’era ancora il Maestro Karajan.
È stato nel 1989, l’ultimo giorno dell’anno, per il famoso concerto
di San Silvestro. Avevo fatto venire dal Giappone tutto il coro del
Shinyūkai. In realtà anche la Saitō Kinen potrebbe fare i Carmina
Burana, abbiamo un ottimo coro.
MURAKAMI Quanto mi piacerebbe ascoltarvi!

COME HA FATTO UN GIOVANE SCONOSCIUTO


A COMPIERE UNA TALE IMPRESA?

MURAKAMI Ascoltandola parlare di tutti i dischi che ha inciso da


giovane, c’è una cosa che mi stupisce. Quando ha fatto i primi
passi negli Stati Uniti, verso la metà degli anni Sessanta, lei non
aveva ancora trent’anni. Ma a giudicare dalle sue registrazioni di
quell’epoca, era già un musicista completo. Il suo mondo
musicale era già formato, pieno di vita e di energia. Fa palpitare il
cuore. Naturalmente dal punto di vista della maturazione artistica,
poteva ancora progredire, ma a parte questo, in quel momento il
suo era un mondo già completo. Aveva un... un suo fascino
autonomo, insostituibile. Senza... come dire? Senza
tentennamenti. La sua bravura variava da un’opera all’altra, è
ovvio, ma esitazioni non ne aveva. Com’era possibile? È andato
all’estero, senza conoscere nessuno, ed ecco che in poco tempo
dirige la New York Philharmonic e la Chicago Symphony, crea il
suo mondo musicale e conquista il pubblico! Come ha fatto un
giovane sconosciuto a compiere una tale impresa?
OZAWA Ebbene, credo che sia perché il professor Saitō mi ha
inculcato le sue idee fin da quando ero molto giovane.
MURAKAMI Sí, ma non dev’essere la sola ragione. Non tutti gli
allievi del professor Saitō hanno fatto la sua carriera.
OZAWA ... d’accordo, ma io non ne vedo altre.
MURAKAMI Quello che io penso, è che lei sia dotato di una
straordinaria capacità di unificare, di comporre diverse parti in un
tutto coerente. È un elemento costante in lei, lo fa sempre. Senza
esitare. Vede in questo una sua qualità personale?
OZAWA Vorrei solo dirle che fin da giovane ho profondamente,
fisicamente assimilato una tecnica. Quella che mi ha insegnato il
professor Saitō. Ce l’ho dentro di me, è nel mio corpo, mentre la
maggior parte dei giovani direttori d’orchestra, nei primi anni,
devono fare una fatica tremenda.
MURAKAMI Con «tecnica», intende la bacchetta del direttore?
OZAWA Ecco, ecco. L’uso della bacchetta nel preparare
l’orchestra. Poi, la sera del concerto, non ha piú la minima
importanza. Be’, forse esagero. Diciamo che non è piú molto
importante. Ma a parte questo, ciò che conta davvero sono le
indicazioni che si danno con la bacchetta durante le prove. È
l’essenziale. A me l’ha insegnato il professor Saitō. Quindi fin
dall’inizio, non mi sono mai allontanato da questo metodo. Cioè,
col passare degli anni un poco sono cambiato, è vero, ma credo
che fondamentalmente la mia tecnica sia rimasta invariata.
MURAKAMI Sí, ma ci sono molte cose che un musicista può
imparare solo sul campo, con la pratica, accumulando
esperienza. La stessa cosa si può dire di uno scrittore. Lei invece
aveva già in sé tutto questo fin da giovane, signor Ozawa?
OZAWA Diciamo che sotto questo aspetto, non ho mai dovuto
faticare molto, fin dai primi tempi. Raramente ho avuto
l’impressione di non essere all’altezza. Sono convinto di doverlo
alla bravura del mio professore. Mi ha permesso di capire il
metodo di Lenny, e del Maestro Karajan, quando ho poi avuto
modo di osservarli. «Ah, ecco, lui questa cosa la fa cosí...» Ero in
grado di analizzare il loro modo di dirigere. Ragion per cui non ero
tentato di imitarli pedestremente. Mentre i direttori che non
posseggono una tecnica personale, finiscono per imitare i gesti di
qualcun altro. In modo superficiale, solo nella forma. A me non è
successo.
MURAKAMI Maneggiare una bacchetta da direttore d’orchestra è
difficile?
OZAWA Difficile? Mah, probabilmente sí. Ma è una tecnica che ho
interiorizzato già verso la fine dell’adolescenza. In questo senso,
forse è vero che ho qualcosa di speciale. Sa, ho iniziato a dirigere
fin dal terzo anno delle scuole medie 3, verso i quindici anni. Sono
passati alcuni decenni, quindi. Prima di trovarmi a capo di
un’orchestra di professionisti, avevo già diretto dei dilettanti per
sette anni.
MURAKAMI Ha studiato per diventare direttore d’orchestra fin dalla
scuola media?
OZAWA Sí, dirigevo l’orchestra della mia scuola.
MURAKAMI La Tōhō Gakuen?
OZAWA Esatto. Ho frequentato il liceo per quattro anni e
l’università per tre. Per la precisione, il primo anno di liceo l’ho
fatto al liceo Seijō, poi l’ho ripetuto alla Tōhō Gakuen. Perché alla
Tōhō non c’era ancora una sezione musicale, quindi ho dovuto
aspettare un anno prima che la istituissero. Dopo il liceo ho
frequentato l’università per due anni e mezzo... per tutti questi
sette anni ho diretto delle orchestre di ragazzi delle medie, di
liceali o di studenti universitari. Di conseguenza, prima di dirigere i
Berliner Philharmoniker o la New York Philharmonic, avevo già
accumulato un bel po’ di esperienza. A ripensarci ora, è qualcosa
di insolito, per un direttore d’orchestra. Il professor Saitō pensava
che per me fosse un’ottima cosa.
MURAKAMI Molti ragazzi imparano a suonare uno strumento fin da
piccoli, ma pochi sognano di diventare direttori d’orchestra.
OZAWA È vero. Non ho mai conosciuto nessuno che lo
desiderasse. C’ero solo io. E se sono riuscito a comunicare con i
membri di tante orchestre e a spiegare quello che mi aspettavo da
loro − anche se non parlavo inglese − è perché avevo la
padronanza della tecnica fondamentale che mi aveva insegnato il
professor Saitō.
MURAKAMI Sí, ma per ottenere quel risultato, doveva anche avere
un’idea precisa di quello che voleva fare e del modo in cui lo
voleva fare. Prendiamo la scrittura di un romanzo, per esempio.
Naturalmente è necessario saper scrivere, ma prima ancora
bisogna pensare: «Voglio raccontare a tutti i costi questa cosa
qui», averne il forte desiderio. E da quanto posso capire
ascoltando le sue registrazioni, lei ha sempre avuto un’immagine
molto chiara della musica che voleva fare, fin da giovane. La sua
musica è sempre stata molto chiara, ben focalizzata. Ci sono
moltissimi musicisti al mondo di cui non si può dire la stessa cosa.
Forse non ci riescono. Sicuramente non dovrei generalizzare, ma
ho l’impressione che molti musicisti giapponesi abbiano una
tecnica eccellente, impeccabile, siano dei veri virtuosi, ma non
riescano a trasmettere una chiara visione del mondo. Non hanno
un forte desiderio di creare un loro mondo indipendente e
trasmetterlo cosí com’è al pubblico.
OZAWA Per un musicista, è la cosa peggiore che ci possa essere.
Quando si prende quella strada, la musica stessa perde di senso.
Nei casi piú disperati, si arriva alla musica da ascensore. Quella
che sentiamo quando prendiamo un ascensore, che arriva da non
si sa dove. Per me, è la musica peggiore che ci sia.
BREVE INTERLUDIO COMPLEMENTARE
MAURICE PERESS E HAROLD GOMBERG

MURAKAMI L’altro giorno abbiamo accennato a Maurice Peress,


uno dei due assistenti che lavoravano insieme a lei sotto Leonard
Bernstein.
OZAWA Sí, è vero. Per combinazione, poco dopo averne parlato
con lei, ho avuto sue notizie. Maurice ha mandato al mio agente a
New York una vecchia foto dei tempi della Carnegie Hall. Nella
foto ci siamo noi tre assistenti uno accanto all’altro, in piedi
davanti alla Carnegie. Ha accluso un biglietto in cui chiedeva
notizie della mia salute. Aveva sentito che avevo dovuto annullare
un concerto a New York, ed era preoccupato. Il suo messaggio mi
è arrivato ieri o l’altro ieri. Una bella coincidenza davvero.
MURAKAMI Be’, è stato molto gentile, Peress. Dopo la nostra
conversazione, ho fatto qualche ricerca su di lui su Internet. È di
origine portoricana, ma ha ottenuto la nazionalità americana ed è
ancora attivo come direttore d’orchestra. Ha diretto la Kansas City
Philharmonic dal 1974 al 1980, poi altre orchestre in tutto il
mondo. Suo figlio, Paul Peress, è un batterista jazz piuttosto
famoso. Fa fusion.
Ozawa legge i fogli che gli passo.
OZAWA Vedo che Maurice ha diretto molto in Cina. Oh, anche
l’Orchestra dell’Opera di Shanghai!
MURAKAMI Ha persino pubblicato un libro: Dvořák to Duke
Ellington («Da Dvořák a Duke Ellington»).
OZAWA Sí, era un grande amico di Duke Ellington. Be’,
complimenti, è stato bravo a trovare tutte queste informazioni!
MURAKAMI Si figuri, sono su Wikipedia. Ma non so fino a che punto
siano affidabili. Ho anche fatto delle ricerche su Harold Gomberg.
Ho scoperto che suo fratello minore suona l’oboe, come lui, ed è
stato primo oboe presso la Boston Symphony.
OZAWA Esatto. Ralph è stato primo oboe della Boston per molto
tempo. È andato in pensione poco prima che io lasciassi
l’America. Il maggiore era primo oboe a New York, il minore a
Boston!
MURAKAMI Che cosa rara, due fratelli che suonano lo stesso
strumento, entrambi dotati di vero talento.
OZAWA Sí, succede raramente. Bravissimi tutti e due. La moglie di
Ralph, del minore, era direttrice della Boston Ballet School. Una
donna molto famosa. In confronto a Ralph, Harold era una testa
matta. Aveva una figlia bellissima, e sperava di accasarla con
Claudio Abbado.
MURAKAMI Abbado è stato direttore della New York Philharmonic
subito dopo di lei, giusto?
OZAWA Sí. E all’epoca non era sposato. Hanno coinvolto anche
me in quella storia, è stato un vero stress! (ride)
MURAKAMI Se ho ben capito, Harold Gomberg l’aveva sentita
dirigere qualcosa, la sua interpretazione gli era piaciuta, cosí le ha
chiesto di accompagnarlo quando ha inciso uno dei suoi dischi.
OZAWA Sí. Mi aveva sentito nel Bacchanale di Mayuzumi Toshirō,
e in un brano dell’Uccello di fuoco. Il famoso bis in cui sostituivo
Lenny. Cosí mi ha proposto di registrare con lui il disco di cui
abbiamo parlato l’altro giorno.
MURAKAMI È stato primo oboe della New York Philharmonic per
molto tempo, vero? Trentatre anni, in tutto.
OZAWA Esatto. Ma è morto molti anni fa. Anche il fratello Ralph è
morto, da poco. La moglie di Harold suonava l’arpa, ha anche
composto alcuni pezzi. Era piuttosto famosa, pure lei. Marito e
moglie amavano molto l’Italia e avevano una bellissima villa a
Capri. Una vecchia casa restaurata dove passavano l’estate. Ci
sono stato anch’io una volta. Ero in Francia per dirigere non
ricordo piú quale orchestra, e avevo del tempo libero, cosí quando
mi hanno detto: «Dài, vieni!», ho accettato con gioia. Sono andato
in treno fino a Napoli, e da lí ho preso il battello per Capri. La
moglie si chiamava Margret, avevano l’abitudine di dipingere
insieme (legge i fogli scaricati da Wikipedia che gli ho dato). Eh sí,
quanti ricordi...
MURAKAMI Il testo dice che Harold è morto a Capri, di infarto.
OZAWA Oh, davvero? Aveva circa vent’anni piú di me.
1. L’hiragana è l’alfabeto fonetico che, combinato agli ideogrammi di origine
cinese, forma la scrittura giapponese. Il katakana è un alfabeto che si
compone delle stesse sillabe dell’hiragana, ma piú stilizzate, che si usa per
scrivere i termini stranieri o mettere in evidenza una parola.
2. Gioco di parole tra il nome Massey e messy, che significa «caotico,
confuso».
3. La scolarità obbligatoria in Giappone comprende sei anni di scuola
elementare, tre di scuola media e tre di liceo.
Terzo interludio
Le bacchette di Eugene Ormandy
OZAWA Eugene Ormandy era un uomo estremamente gentile.
Aveva molta simpatia per me e mi ha invitato diverse volte a
dirigere la sua orchestra, quella di Filadelfia. Cosa che mi è stata
di grande aiuto. A Toronto i compensi erano magri, invece a
Filadelfia pagavano bene. Ormandy si fidava di me, e ogni volta
che mi invitava a dirigere, mi lasciava usare il suo studio in teatro.
Un giorno mi ha anche prestato una delle sue amate bacchette.
Per me è stata un’esperienza straordinaria. Erano bacchette fatte
a mano, su ordinazione, e molto facili da usare. All’epoca non
avevo abbastanza soldi per concedermi un lusso del genere. Poi
è successo che una volta ho aperto un cassetto nel suo studio e
ne ho trovate diverse in fila, tutte uguali a quella che usava lui.
Cosí mi sono detto che non se ne sarebbe accorto se ne fosse
mancata qualcuna, e zitto zitto ne ho prese tre. Peccato che mi
sia fatto beccare! (ride) Ormandy aveva una segretaria, una
signora che mi incuteva un sacro terrore, doveva contarle
regolarmente, perché poco tempo dopo mi ha chiesto in tono
accusatorio: «Le ha prese lei, vero?» Ho dovuto confessare: «Sí,
sono stato io, mi perdoni». Ero cosí mortificato... (ride)
MURAKAMI In tutto quante ce ne saranno state, nel cassetto?
OZAWA Forse una decina.
MURAKAMI È ovvio che si è fatto beccare! Ne ha prese tre su dieci!
(rido) Ma erano tanto maneggevoli che valeva la pena di rubarle,
quelle bacchette?
OZAWA Sí, erano davvero fantastiche. Somigliavano alla punta di
una canna da pesca, con un pezzo di sughero come impugnatura.
Molto flessibili, fabbricate apposta per Ormandy. Lui dopo mi ha
spiegato dove avrei potuto ordinarne di simili.
MURAKAMI Chissà quante volte Ormandy avrà poi raccontato
questa storia, facendosi un sacco di risate: «Ozawa una volta ha
rubato tre bacchette da un cassetto della mia scrivania!» (rido)
Quarta conversazione
Sulla musica di Gustav Mahler
Questa conversazione ha avuto luogo il 22 febbraio 2011, nel mio
ufficio di Tōkyō. È seguita da una corta intervista complementare,
alla quale ho aggiunto qualche nota. C’erano tante cose di cui ci
premeva parlare a proposito di Gustav Mahler, e man mano che
ne discutevamo, mi sono reso conto di quale importanza avesse
questo musicista nel repertorio del Maestro Ozawa. Da parte mia,
per molto tempo non sono riuscito ad apprezzare la musica di
Mahler, finché a un certo punto della mia vita ne sono rimasto
conquistato. Mi ha molto sorpreso, quindi, sapere che Ozawa si
emozionava già solo a leggere uno spartito di Mahler, prima
ancora di sentirlo suonare. Com’era possibile?

IL RUOLO PIONIERISTICO DELLA SAITŌ KINEN

MURAKAMI L’ultima volta che ci siamo visti, avevo una domanda da


farle, ma poi me ne sono dimenticato. La Saitō Kinen Orchestra
non è una formazione permanente, si riunisce solo una volta
all’anno, e i suoi membri variano da un anno all’altro. Eppure il
suono complessivo sembra avere una coerenza costante,
immutabile, non trova?
OZAWA È vero, ce l’ha. E finché sarò io a dirigerla, credo che la
conserverà. D’altronde, è un’orchestra che dà un’estrema
importanza agli strumenti ad arco, che li sa usare magnificamente
mettendoli in primo piano. E scegliamo delle opere che si
prestano a questo tipo di suono. Di Mahler, ad esempio, la Prima
e la Nona... e anche la Seconda.
MURAKAMI Ma il suono di un’orchestra può restare invariato, anche
se i suoi membri non suonano insieme regolarmente?
OZAWA Be’, se dovessi dire cos’è cambiato... sí, è soprattutto
l’oboe. Miyamoto Fumiaki ha lavorato con noi molto a lungo,
finché è andato in pensione, qualche anno fa. Per un certo
periodo ha fatto da guida al suo successore, ma dopo il suo ritiro,
non siamo piú riusciti a trovare qualcuno che suonasse con noi in
maniera costante. Alla fine abbiamo trovato un ottimo oboista
francese e di recente abbiamo interpretato con lui la Sinfonia
fantastica di Berlioz. Grazie a lui, ci stiamo riavvicinando al nostro
suono originario.
MURAKAMI Il suono dell’orchestra è molto diverso, quando a
dirigerla non è lei?
OZAWA Pare di sí. È quello che mi dicono tutti, sostengono che
non è lo stesso. In ogni caso, la Saitō Kinen per tradizione si basa
sugli archi. A porre questa regola fondamentale sono stati i primi
studenti del professor Saitō. Nel mondo ci sono diverse orchestre
che funzionano allo stesso modo della Saitō Kinen, ma il nostro
tratto distintivo è l’importanza data agli archi. I musicisti di questa
sezione ricevono un addestramento rigorosissimo.
MURAKAMI Ma la Saitō Kinen è stata anche la prima orchestra
stagionale, no?
OZAWA Be’, sí. All’epoca della sua fondazione, non credo che se
ne trovasse una simile al mondo. La Mahler Chamber Orchestra,
la Lucerne Festival Orchestra e la Deutsches Kammerorchester
sono state tutte costituite dopo la Saitō Kinen. Però sa, quando
l’abbiamo creata, ci siamo attirati molte critiche. In tanti ci
dicevano che dei musicisti messi insieme a caso non avrebbero
fatto della buona musica. Naturalmente c’erano anche commenti
positivi, incoraggianti.
MURAKAMI All’inizio, l’idea era di dare solo una serie di concerti?
OZAWA Esatto. Nel 1984, con alcuni allievi del professor Saitō,
abbiamo costituito l’orchestra per celebrare il decimo anniversario
della sua morte. Abbiamo suonato al Bunka Kaikan di Tōkyō e
all’Ōsaka Symphony Hall, che era nuova di zecca. Poi ci siamo
detti: «Ehi, non siamo affatto male, possiamo andare avanti! La
nostra è un’orchestra degna di suonare in tutto il mondo!»
MURAKAMI Quindi, all’inizio, non pensavate di riunirvi ogni anno e
fare delle tournée all’estero?
OZAWA Assolutamente no. Non ci passava nemmeno per la testa.
MURAKAMI E invece il vostro sistema ha preso piede, è diventato
una tendenza musicale in tutto il mondo.

QUANDO BERNSTEIN AFFRONTAVA MAHLER

MURAKAMI A proposito, lei non aveva mai fatto esercitare la Saitō


Kinen su Mahler, vero?
OZAWA No, mai.
MURAKAMI Per una questione di periodo storico?
OZAWA Sa, pochi musicisti suonavano Mahler prima che lo
affrontasse Bernstein negli anni Sessanta, mettendoci anima e
corpo. Nessun altro direttore d’orchestra l’aveva mai apprezzato.
A parte Bruno Walter, naturalmente, ma era piú o meno l’unico.
MURAKAMI Per quel che mi riguarda, ho iniziato ad ascoltare
musica classica verso la metà degli anni Sessanta, e a quel
tempo le sinfonie di Mahler non riscuotevano alcun successo. Nei
cataloghi delle edizioni musicali si trovava quasi solo Titano,
Resurrezione e Il Canto della Terra, ma non credo che
interessassero a qualcuno. Se lo racconto adesso a dei giovani
melomani, non ci credono quasi.
OZAWA È vero, Mahler non godeva di alcuna popolarità. Il Maestro
Karajan aveva messo Il Canto della Terra nel suo repertorio e se
ne serviva per insegnare, ma a quell’epoca non dirigeva mai le
sinfonie.
MURAKAMI Non lo faceva nemmeno Böhm.
OZAWA No, nemmeno Böhm, ha ragione.
MURAKAMI E neanche Furtwängler.
OZAWA Neanche Furtwängler, Furtwängler si fermava a Bruckner...
Purtroppo non ho mai sentito Bruno Walter dirigere Mahler.
MURAKAMI L’altro giorno ho ascoltato una registrazione del 1939,
con Willem Mengelberg alla testa della Royal Concertgebouw
Orchestra.
OZAWA Davvero? Non sapevo nemmeno che esistesse.
MURAKAMI La Quarta sinfonia. Ma a sentirla oggi, si direbbe una
cosa antidiluviana... Conosco anche la versione della Nona che
Bruno Walter registrò a Vienna nel ’38, poco prima di fuggire
dall’Europa. Ma anche lui, come Mengelberg, mi ha dato
l’impressione di un suono obsoleto. Non solo perché l’incisione
era molto vecchia, no, sto parlando della sonorità in sé. Questi
due direttori erano stati allievi di Mahler, e le loro interpretazioni
hanno forse un grande valore storico, ma ad ascoltarle adesso,
stancano un po’. I tempi però sono poi cambiati, Walter fece in
tempo a incidere nuovamente Mahler in stereofonia e porre le
basi di una sua rivalutazione, e Bernstein, con le sue
appassionate interpretazioni, l’ha poi riportato all’onor del mondo.
OZAWA Giusto. E io ero l’assistente di Bernstein proprio quando
registrava l’integrale di Mahler con la New York Philharmonic e la
London Symphony.
MURAKAMI Eppure all’epoca, anche in America, la maggior parte
dei melomani lo ignorava.
OZAWA Già, non l’ascoltava quasi nessuno. Ma Lenny non si è
dato per vinto, ha insistito a interpretare Mahler, faceva cicli di
concerti e li registrava uno dopo l’altro. Forse non ha diretto
davanti al pubblico la totalità delle sue opere, ma ha organizzato
due cicli. Poi è andato a Vienna e ha fatto la stessa cosa con i
Wiener Philharmoniker, verso la fine degli anni Sessanta.
MURAKAMI Dopodiché ha lasciato la New York Philharmonic?
OZAWA Sí. Ma anche prima, era andato a Vienna per fare Mahler
con i Wiener durante il suo anno sabbatico.
MURAKAMI A proposito, una volta ha detto che durante l’anno
sabbatico di Bernstein, gli ha «fatto da custode». Voleva dire che
abitava a casa sua?
OZAWA Ma no, si figuri! Mi occupavo dell’orchestra in sua assenza.
MURAKAMI Si occupava dell’orchestra? Cioè?
OZAWA Ogni tanto la dirigevo, ma non spesso. Svolgevo mansioni
di routine. E invitavo direttori ospiti, molti. Ad esempio Josef Krips,
William Steinberg, e anche... com’è che si chiamava? Un
americano, un bell’uomo, morto ancora giovane...
MURAKAMI Un direttore d’orchestra americano, giovane e bello?
OZAWA Sí, sí... Thomas...
MURAKAMI Schippers.
OZAWA Esatto. Thomas Schippers. Era un amico di Lenny,
un’ottima persona. E aveva sposato una bella ereditiera della
Florida. È poi stato uno dei fondatori del Festival di Spoleto in
Italia, ma è morto giovane, credo che non avesse nemmeno
cinquant’anni. Krips, Steinberg, Schippers... ce n’era anche un
altro... come diavolo si chiamava? In ogni caso, ho invitato quattro
direttori d’orchestra, mi sono occupato di tutto io. Ad esempio,
quando Steinberg ha diretto la Nona di Beethoven, io ho diretto il
coro, facevo anche questo genere di cose. Quell’anno, sul podio
c’ero io durante le due stagioni regolari, mentre ognuno dei
direttori ospiti è rimasto sei settimane. Dunque ero al tempo
stesso assistente e uomo tuttofare. Be’, ho imparato moltissimo
da quell’esperienza! Sono diventato amico di Thomas Schippers,
e Steinberg mi invitava sempre a cena. Quanto a Krips, credo che
sia grazie al tempo che abbiamo passato insieme quell’anno, se
poi, quando la San Francisco Symphony cercava un nuovo
direttore d’orchestra, ha fatto il mio nome. Sa che dopo New York
sono andato a Toronto, no? All’epoca Krips era direttore della San
Francisco Symphony, lo è stato per circa cinque anni. E quando
ha lasciato, ha suggerito me come successore. Cosí da Toronto
mi sono trasferito a San Francisco.
MURAKAMI Ma Lenny aveva preso un intero anno sabbatico?
OZAWA Sí, è stato assente per un anno intero.
MURAKAMI Nel frattempo, quindi, era lei a... diciamo... a gestire
l’orchestra.
OZAWA Sí. Ero una specie di direttore musicale supplente. Ma non
dovevo occuparmi della gestione del personale, ho rifiutato. E
neanche i provini erano compito mio. Però avevo un sacco di
impegni, ed era una bella fatica, mi creda!
MURAKAMI Questo succedeva prima della sua partenza per
Toronto, quindi.
OZAWA Sí, mi sembra che fosse l’anno precedente. Appena finito
quel lavoro, sono andato direttamente a Toronto.
MURAKAMI E per tutto quel tempo Bernstein è rimasto a Vienna?
OZAWA Sí. In realtà aveva preso quell’anno di pausa per staccare
un po’ e dedicarsi alla composizione, ma poi a Vienna ha diretto
molto. Ricordo che a New York ne parlavano tutti. I musicisti si
lamentavano, borbottavano che l’anno sabbatico l’aveva preso
per comporre... Ma all’improvviso gli è arrivata una proposta dei
Wiener, e lui ha subito accettato. Doveva dirigere il Fidelio di
Beethoven. Nel vecchio Theater an der Wien dove l’opera era
stata rappresentata per la prima volta. Quella volta c’ero anch’io,
a Vienna, ero lí per non so piú quale lavoro, e sono andato a
sentirlo. Pensi che ero seduto di fianco a Karl Böhm!
MURAKAMI Non ci posso credere!
OZAWA Anzi, ricordo che è stato lui a offrirmi il biglietto. Mi ha
passato quello destinato a sua moglie. All’epoca io ero sempre in
bolletta, mi avevano invitato a dirigere qualcosa a Vienna, ma
pagavano poco, e le spese di viaggio dagli Stati Uniti erano molto
alte. Per questo Böhm mi ha dato quel biglietto. Alla fine della
rappresentazione, siamo andati tutti e due nel camerino di Lenny,
io ero curioso di sapere cosa si sarebbero detti lui e Böhm sul
Fidelio, ero tutt’orecchi. Ma non vi hanno nemmeno accennato. E
pensare che Böhm era considerato il piú grande, nel Fidelio.
MURAKAMI Sí, è vero.
OZAWA Ero stato suo assistente in Giappone, quando era venuto
al Teatro Nissei a dirigere appunto il Fidelio. Quindi ero sicuro che
ne avrebbero discusso, che si sarebbero infervorati... invece
niente (ride). Non ricordo esattamente, ma credo che abbiano
parlato di cibo, o di alcune caratteristiche del Theater an der
Wien... cose del genere, senza alcuna importanza.
MURAKAMI Può darsi che nessuno dei due osasse abbordare
l’argomento.
OZAWA Forse, ma è strano. A pensarci adesso.
MURAKAMI Ha detto che a Vienna Bernstein ha diretto anche
Mahler, vero?
OZAWA Sí. Non quella volta lí, ma ha registrato la Seconda di
Mahler, c’ero anch’io. In quel periodo dirigevo i concerti dei
Wiener Philharmoniker durante la stagione, mentre Lenny con la
stessa orchestra incideva un disco in studio. Per la Columbia, ne
sono sicuro, perché il produttore era John McClure, un mio
grande amico, ed era venuto a Vienna dagli Stati Uniti per le
registrazioni. Insomma, i Wiener Philharmoniker suonavano in
teatro sotto la mia direzione, e nei momenti liberi registravano con
dei direttori ospiti, dischi e anche video per la televisione.
MURAKAMI Questo quando succedeva?
OZAWA Vediamo... agli inizi degli anni Settanta, subito dopo la
nascita di mia figlia Seira, la maggiore. Lenny era sceso all’Hotel
Sacher, io e mia moglie all’Imperial. Andavamo sempre lí, perché
facevano degli sconti per chi lavorava con i Wiener
Philharmoniker. Lenny è venuto a trovarci, per vedere la bambina.
È entrato nella nostra stanza, ha preso in braccio Seira e l’ha
lanciata per aria. Dicendo che era bravissimo in quel genere di
cose. Che aveva il talento di comunicare con i neonati. Vera, mia
moglie, è andata su tutte le furie: «Dopo tutta la fatica che ho fatto
per metterla al mondo!» (ride)
MURAKAMI In ogni caso, mi sembra che la cosa non abbia lasciato
conseguenze, su Seira! (rido) Non ho visto il video con i Wiener
Philharmoniker. Piú o meno nello stesso periodo Bernstein ne ha
fatto un altro, sempre della Seconda di Mahler, Resurrezione, ma
con la London Symphony, l’ha registrato in Inghilterra. Live, in una
grande chiesa, davanti a un pubblico. Anche quel video è prodotto
da John McClure, ne sono quasi sicuro. Nel catalogo Cbs però il
disco non esiste.
OZAWA Forse il video di Vienna era destinato alla televisione e non
è mai stato inciso su disco. Comunque sia, quella volta Bernstein
ha registrato la Seconda di Mahler con i Wiener Philharmoniker.
Questo è sicuro. Era presente anche la moglie, Felicia. Una
donna stupenda, una cilena dalla pelle candida. Era stata attrice,
una vera bellezza. Con Vera sono diventate molto amiche. A
quell’epoca la nostra condizione economica era molto modesta, e
Felicia regalava spesso degli abiti a Vera. «Dài, figurati se non hai
voglia di mettere dei bei vestiti!» le diceva. E il bello era che
avevano la stessa taglia.
MURAKAMI Com’è stata, quell’interpretazione di Bernstein?
OZAWA Io l’ho trovata eccellente. Lui però era estremamente
nervoso. Di solito, la sera prima mangiavamo insieme e
bevevamo qualche bicchiere di vino, in un’atmosfera rilassata, ma
quella volta, stranamente, non l’abbiamo fatto. Siamo andati a
cena insieme dopo la registrazione, però, finalmente tranquilli.
MURAKAMI Torniamo agli anni Sessanta. Il pubblico come
accoglieva le appassionate interpretazioni di Mahler proposte da
Bernstein?
OZAWA Ah, a Vienna era entusiasta! In seguito ho proposto anch’io
la Seconda a Tanglewood, e di nuovo fu un successo. All’epoca,
trovavo incredibile suscitare reazioni tanto positive facendo
Mahler. Probabilmente era la prima volta in assoluto che la
Seconda sinfonia veniva suonata a Tanglewood.
MURAKAMI E con la New York Philharmonic? Come venivate
accolti?
OZAWA Non è che mi ricordi tanto bene... (riflette un momento) Mi
sembra che la stampa fosse molto divisa, chi era favorevole e chi
contrario. Povero Bernstein, c’era un critico musicale del «New
York Times», un certo Schonberg, che lo detestava, era il suo
nemico numero uno.
MURAKAMI Harold Schonberg. Era molto famoso. Ho letto un suo
libro.
OZAWA Adesso gliene racconto una bella. Nel 1960, mentre
facevo un seminario al Berkshire Music Center di Tanglewood, ho
diretto l’orchestra di noi studenti in un concerto. L’opera era La
Mer di Debussy, e avevamo deciso che l’avremmo diretta in tre, a
me sarebbe toccato il finale. A meno che non fosse la Quarta di
Čajkovskij, divisa in quattro parti, sempre con me alla fine...
Comunque sia, il giorno dopo Schonberg ha pubblicato un articolo
sul «New York Times». Era venuto per la Boston Symphony, ma
aveva scritto qualcosa anche sul concerto degli studenti. E a
proposito di me, diceva: «Ricordate bene il nome di questo
direttore d’orchestra».
MURAKAMI Fantastico!
OZAWA Sí, ero stupefatto, ma aspetti, il bello deve ancora venire.
Ha chiamato il responsabile dell’orchestra di studenti, ha voluto
incontrarmi e mi ha detto di passare a trovarlo se fossi andato a
New York. E non era il tipo da fare spesso inviti del genere, al
contrario! Poco tempo dopo, sono andato a New York per la prima
volta in vita mia perché avevo delle cose da fare, e ne ho
approfittato per andare a trovare Schonberg nel suo ufficio al
«New York Times». Be’, mi ha fatto fare il giro dei locali del
giornale − «Questa è la tipografia, qui c’è la redazione della
rubrica musicale, qui la redazione delle pagine culturali...» − Tra
una cosa e l’altra, mi ha portato a spasso per due o tre ore, e mi
ha anche offerto una tazza di tè.
MURAKAMI Incredibile! Evidentemente gli andava a genio.
OZAWA Sí, in effetti c’è da non crederci. Lenny ce l’aveva un po’
con me, per questo, quando poi sono diventato suo assistente.
«Quel tipo mi stronca sempre, mentre per te ha solo parole
d’elogio». Ed era vero che Schonberg criticava Bernstein
sistematicamente. Ogni volta che leggevo un suo articolo, mi
dicevo che esagerava, era davvero pesante. Invece nei miei
confronti aveva... come dire? Aveva una grande simpatia. Forse
pensava di aver scoperto in me una nuova stella.
MURAKAMI Il critico musicale e il critico letterario del «New York
Times» avevano un’influenza pazzesca.
OZAWA È vero. Al giorno d’oggi non so come stiano le cose, ma
all’epoca erano delle vere potenze.
MURAKAMI A New York, Bernstein era stato fatto a pezzi dai media,
ma quando arrivò a Vienna, riscosse un enorme successo sia con
il pubblico che con i critici. Naturalmente ne era felice, ma al
tempo stesso continuava a chiedersi cosa non avesse funzionato
a New York. Ed è per questo che in seguito decise di lavorare in
Europa. L’ho letto nella sua biografia.
OZAWA Sa, neanch’io capivo bene certe dinamiche. Il mio inglese
era pessimo e non riuscivo ad afferrare bene il senso di quanto
accadeva. Comunque il pubblico di New York lo adorava, i suoi
concerti facevano sempre il tutto esaurito, la Columbia sfornava i
suoi dischi uno dopo l’altro, West Side Story era un successo
planetario... le sole cose di cui mi rendevo conto erano queste.
Però fino all’ultimo ha conservato un rapporto privilegiato con i
Wiener Philharmoniker.
MURAKAMI Dopo la New York Philharmonic, Bernstein non mai piú
diretto un’orchestra in pianta stabile, vero?
OZAWA No.
MURAKAMI Ne aveva avuto abbastanza.
OZAWA Ah, ah, ah, può darsi...
MURAKAMI D’altronde, a giudicare da quello che mi ha raccontato,
non era fatto per il comando, dire «no» dall’alto della sua
posizione non era nel suo carattere.
OZAWA Non lo era. Aveva difficoltà a guardare qualcuno in faccia e
dargli un ordine, o fargli delle critiche. Evitava questo genere di
situazione. Al contrario, gli interessava conoscere l’opinione altrui.
Quando ero suo assistente, dopo i concerti mi domandava
sempre un sacco di cose. «Di’, Seiji, come ti è parso il tempo
nella Seconda di Brahms? Era giusto?» «E lo chiede a me?»
pensavo io mentre cercavo disperatamente una risposta da dargli.
Quindi, durante i suoi concerti, dovevo ascoltare sempre con
grande attenzione. Mica potevo sedermi in fondo alla sala e
rilassarmi! C’era il rischio che dopo mi chiedesse il mio parere, e
mi sarei trovato nei guai (ride).
MURAKAMI Ma era sincero? Voleva davvero sapere cosa
pensassero gli altri del suo lavoro?
OZAWA Sí, era il suo atteggiamento costante. Anche con un
principiante come me. Dal momento che facevamo musica
insieme, per lui eravamo uguali. La pensava cosí.
MURAKAMI Comunque, riguardo alle sue interpretazioni di Mahler,
l’opinione pubblica di New York era divisa, no?
OZAWA È quello che ricordo. Ma l’orchestra si impegnava al
massimo. Perché Mahler è difficile da eseguire, e tutti studiavano
come pazzi. A quell’epoca facevamo anche tre sue sinfonie
all’anno, e io che assistevo alle prove mi rendevo conto di quanto
i musicisti si sforzassero. Davano un concerto, e subito dopo
andavano a registrare al Manhattan Center.
MURAKAMI Quindi ogni anno uscivano due o tre dischi delle
sinfonie di Mahler?
OZAWA Sí, piú o meno.

NON SAPEVO NEANCHE CHE UNA MUSICA COSÍ ESISTESSE

MURAKAMI Prima di lavorare con Bernstein, conosceva già la


musica di Mahler?
OZAWA No, non l’avevo mai sentita. Quando facevo lo stage a
Tanglewood, il mio compagno di stanza, José Serebrier, un
uruguaiano, anche lui direttore d’orchestra, studiava la Prima e la
Quinta. Serebrier era un allievo bravissimo. Ogni tanto lo incontro,
gli capita di farmi visita nel mio camerino. L’ho rivisto a Londra e a
Berlino. In ogni caso, quella volta a Tanglewood gli chiesi se
potevo dare un’occhiata ai suoi spartiti, ed è cosí che ho scoperto
l’esistenza di Mahler. Subito dopo mi sono procurato anch’io gli
spartiti di due sue opere e le ho studiate. La nostra orchestra non
avrebbe mai potuto interpretarle, ma mi sono sforzato lo stesso di
capirle.
MURAKAMI E non ha pensato ad ascoltare dei dischi? Si è limitato
a leggere gli spartiti?
OZAWA No, dischi non ne ho ascoltati. All’epoca non avevo
abbastanza soldi per comprarne, e non possedevo nemmeno un
giradischi.
MURAKAMI Che effetto le ha fatto, leggere per la prima volta la
musica di Mahler?
OZAWA È stato uno shock tremendo. Fino a quel momento non
sapevo neanche che una musica cosí esistesse, ero sconcertato.
E dire che mentre ce ne stavamo tranquilli, lí a Tanglewood, a
suonare Čajkovskij e Debussy, c’era questo ragazzo che metteva
tutta la sua energia a studiare Mahler! A quel pensiero mi sono
vergognato moltissimo e ho pensato che dovevo procurarmi
subito qualche suo spartito, a tutti i costi. Dopodiché mi sono
buttato anima e corpo sulla Prima, la Seconda e la Quinta.
MURAKAMI E studiare quegli spartiti le è piaciuto, era interessante?
OZAWA Sí, mi è piaciuto moltissimo. È naturale, era la prima volta
che vedevo qualcosa del genere. Non ci potevo credere, al
mondo esisteva una musica cosí!
MURAKAMI Quindi era molto diversa da quella che lei aveva
suonato fino ad allora...
OZAWA La cosa che trovavo stupefacente, era che esistesse un
compositore talmente bravo nell’orchestrazione. Mahler
possedeva un talento immenso per la distribuzione delle parti ai
vari strumenti. Di conseguenza, per un’orchestra suonare la sua
musica costituiva una sfida formidabile.
MURAKAMI Quand’è che l’ha sentita suonare dal vivo per la prima
volta? Con Bernstein?
OZAWA Esatto, quando ero assistente di Lenny, a New York.
MURAKAMI E cos’ha provato?
OZAWA Be’, ecco, è stato sconvolgente. Al tempo stesso ero felice
di essere lí, insieme a Bernstein che presentava quella musica
svolgendo un ruolo di vero pioniere. Di conseguenza, appena ho
iniziato a lavorare a Toronto, ho interpretato Mahler in concerto.
Finalmente potevo dirigerlo io! E con la San Francisco Symphony
abbiamo poi suonato quasi tutte le sue opere.
MURAKAMI Il pubblico come ha reagito?
OZAWA Piuttosto bene. Non si può dire che all’epoca Mahler fosse
già diventato di moda, ma cominciava ad attirare l’attenzione di
chi veniva ai concerti.
MURAKAMI Eppure la musica di Mahler è impegnativa non solo per
chi la suona, ma anche per chi l’ascolta.
OZAWA Sí, ma a quel punto era già abbastanza conosciuta.
Soprattutto grazie agli sforzi di Bernstein. Si era speso molto
perché il pubblico del mondo intero facesse l’orecchio alla musica
di Mahler.
MURAKAMI Ciononostante, non erano in tanti ad amarla, e questa
situazione è durata a lungo. Come lo spiega?
OZAWA (assume un’aria perplessa) Mah, chi lo sa...
MURAKAMI Prima è venuto Wagner, poi Brahms, Richard Strauss...
che grosso modo hanno condotto il romanticismo tedesco fino a
un punto finale. Dopo, si va direttamente dalla dodecafonia di
Schönberg a compositori come Stravinskij, Bartók, Prokof´ev o
Šostakovič. Difficile inserire Mahler o Bruckner in
quest’evoluzione generale del panorama musicale! Mancava lo
spazio, ed è stato cosí per molto tempo.
OZAWA È vero.
MURAKAMI Nel caso di Mahler, però, mezzo secolo dopo c’è stato
un miracoloso revival. Secondo lei perché, cosa l’ha provocato?
OZAWA A mio parere, a un certo punto le orchestre, quando hanno
avuto l’occasione di suonarlo, hanno cominciato a trovarlo molto
interessante. Credo che il motivo sia questo. E a partire da quel
momento, da quel risveglio, le orchestre si sono messe a
rivaleggiare per interpretarlo. Dopo Bernstein, tutte quante l’hanno
amato e l’hanno inserito nel loro programma. Soprattutto negli
Stati Uniti, un’orchestra non veniva considerata valida se non era
in grado di fare Mahler. E non era una tendenza soltanto
americana, anche a Vienna hanno cominciato ad amarlo alla
follia. D’altronde Vienna era la città adottiva di Bernstein.
MURAKAMI Eppure, città adottiva o meno, i Wiener Philharmoniker
per anni Mahler l’hanno ignorato.
OZAWA Ha ragione.
MURAKAMI Secondo lei questo succedeva perché direttori
d’orchestra come Böhm, o Karajan, non lo inserivano nei loro
programmi?
OZAWA Sicuramente. Soprattutto Böhm, mai una volta.
MURAKAMI Böhm e Karajan suonavano magari Bruckner, o
Richard Strauss, ma non si sono mai avvicinati a Mahler. E dire
che era stato a lungo direttore principale dei Wiener
Philharmoniker. Ma i musicisti stessi, ho l’impressione che la sua
musica li abbia lasciati a lungo indifferenti.
OZAWA Sí, eppure adesso lo suonano meravigliosamente.
Un’intesa perfetta. I Wiener Philharmoniker sono in grado di far
emergere la sua essenza profonda.
MURAKAMI L’ultima volta che abbiamo parlato di Karajan, mi ha
detto che quando era in programma Mahler, faceva un passo
indietro e affidava a lei la direzione dell’orchestra.
OZAWA Sí, mi ha fatto dirigere l’Ottava a Berlino. Era la prima volta
che i Berliner l’interpretavano, credo. Il maestro mi ha detto:
«Seiji, questa la fai tu!», e io ho obbedito. Anche se di solito è
un’opera che fa solo il direttore principale.
MURAKAMI Lo credo, è un’opera monumentale, un evento
importantissimo.
OZAWA Sí, ma per qualche ragione il compito è toccato a me.
Ricordo che mi ci sono dedicato con fervore. Hanno chiamato per
l’occasione i solisti piú bravi, e anche il coro non era quello solito
dei Berliner, sono venuti dei professionisti prestigiosi come il Chor
des Norddeutschen Rundfunks di Amburgo e il Wdr Rundfunkchor
di Colonia. Un’operazione su vasta scala. Un evento straordinario.
MURAKAMI Be’, non è il genere d’opera che si può dare tutti i
momenti.
OZAWA L’ho diretta a Tanglewood, poi a Parigi, con l’Orchestre
Nationale de France, al festival di Saint-Denis.

EVOLUZIONE STORICA DELL’INTERPRETAZIONE DI MAHLER

MURAKAMI L’interpretazione di Mahler ha veramente cambiato


stile, dagli anni Sessanta, vero?
OZAWA Diciamo piuttosto che si sono susseguiti diversi stili. Io ho
sempre preferito quello di Lenny.
MURAKAMI I dischi che Bernstein ha registrato con la New York
Philharmonic hanno conservato tutto la loro freschezza. Li ascolto
spesso, ancora adesso.
OZAWA E la versione della Nona del Maestro Karajan è
meravigliosa. L’ha affrontata nell’ultimo periodo della sua carriera,
ma è prodigiosa. Soprattutto il finale. Quella volta, mi sono detto
che era un’opera in cui poteva esprimere tutto il suo talento.
MURAKAMI Per questa sinfonia, l’orchestra deve produrre un suono
bellissimo ed estremamente preciso, non si scappa.
OZAWA Soprattutto il finale. Sia il finale della Nona di Mahler che
quello della Nona di Bruckner sono difficilissimi, perché hanno un
modo particolare di terminare, dissolvendosi a poco a poco.
MURAKAMI È necessario creare lunghe unità, altrimenti non si
riesce a cogliere tutto quello che la musica contiene. Per tornare a
quello che abbiamo detto l’altra volta a proposito di direction.
OZAWA Giusto, giusto. Un’orchestra che non abbia un respiro
abbastanza lungo non potrebbe suonare questa sinfonia. La
stessa cosa vale per Bruckner.
MURAKAMI Anche l’ultima interpretazione che lei ha fatto della
Nona di Mahler, con la Boston Symphony, era di una bellezza da
togliere il fiato. Quella che è stata registrata in dvd.
OZAWA È perché ci siamo infervorati. Tutto sommato, la musica di
Mahler sembra scritta in maniera molto complessa − e lo è, in
realtà, per l’orchestra. Ma è di natura tale che piú ci si lascia
portare, suonandola, piú sembra semplice. Cioè... Temo che le
mie parole possano essere fraintese: con semplice, intendo dire
quella musicalità delle canzoni popolari, che tutti possono
canticchiare. Ultimamente sono giunto a pensare che quando si
ha una tecnica eccellente, un buon colore orchestrale e ci si
lascia portare, tutto fila liscio.
MURAKAMI Sí... ma credo che sia piú facile a dirsi che a farsi.
OZAWA Be’, non è una passeggiata, è ovvio... Quello che voglio
dire, è che la musica di Mahler a prima vista sembra difficile, e in
effetti lo è, ma se si legge lo spartito con grande concentrazione,
entrando in profondità, e ci si abbandona al flusso, si smetterà di
trovarla troppo intricata e astrusa. A renderla tanto complessa è
l’accumulazione di strati diversi e la presenza simultanea di tanti
elementi.
MURAKAMI È vero che è piena di motivi senza apparente legame
tra loro, motivi che a volte si sviluppano contemporaneamente in
direzioni opposte.
OZAWA E si avvicinano molto l’uno all’altro, prima di riprendere
ognuno la propria strada. Quindi chi ascolta ha l’impressione che
la musica sia complicata. Anche studiandola a fondo, a volte si
resta disorientati.
MURAKAMI Sí, non è facile per l’ascoltatore comprendere bene la
struttura globale dell’opera. C’è una specie di scissione.
OZAWA È cosí. La stessa cosa succede con compositori piú
recenti, ad esempio Messiaen. Riesce a mettere insieme tre
melodie semplici senza rapporto alcuno l’una con l’altra, e a
svilupparle contemporaneamente. Basta lasciarsi portare e tutto
andrà bene, perché prese una per una sono facili. In altre parole, i
musicisti che suonano le tre parti devono concentrarsi ognuno
sulla propria, mettendoci l’anima, senza badare agli altri. Quando
poi suoneranno insieme, otterranno quel suono lí che abbiamo
detto. È cosí che funziona.
MURAKAMI Capisco. L’altro giorno ho ascoltato una registrazione
del Titano diretto da Bruno Walter − era da molto che non la
sentivo −, ma la struttura della musica di Mahler, quella
separazione tra le parti che lei descrive, non l’ho quasi sentita. Al
contrario, ho provato... come dire? Ho provato il forte desiderio di
far entrare tutta la sinfonia in una cornice imponente. Ad esempio,
di avvicinarla alla costruzione di una sinfonia di Beethoven. Ma
cosí facendo, la musica si allontana da quello che adesso
comunemente si intende per «suono mahleriano». Ascoltando il
primo movimento del Titano, ho avuto la sensazione di
ascoltare... di ascoltare la Pastorale di Beethoven. Era questo il
tipo di suono che otteneva Bruno Walter. Invece la sua versione
del Titano, signor Ozawa, ha un suono molto diverso. Insomma,
nel caso di Walter, la forma tradizionale della musica tedesca −
qualcosa di analogo alla forma-sonata − sembra essere troppo
radicata in lui.
OZAWA Già, proprio cosí, potrebbe essere un tipo di approccio
poco adatto a Mahler.
MURAKAMI La musica è comunque bellissima, di altissimo livello, è
ovvio. Riesce a emozionare profondamente l’ascoltatore. Bruno
Walter aveva la sua concezione del mondo di Mahler, e nel Titano
lo costruisce in maniera molto solida. Ma a mio parere, ripeto, il
suono che ottiene dall’orchestra è un po’ diverso da quello che noi
oggi cerchiamo nella musica di Mahler, che noi consideriamo
«mahleriano».
OZAWA In questo senso, credo che Lenny sia riuscito a ottenere
risultati grandiosi. Visto che era lui stesso un compositore, poteva
dire ai musicisti: «Suonate questo passaggio cosí. Non
preoccupatevi delle altre parti. Concentratevi sulla vostra, ognuno
per sé». Quando si suona Mahler in questo modo, il risultato è
molto convincente per chi ascolta. Mette in evidenza il flusso
dell’orchestra. Queste caratteristiche sono già presenti nella
Prima sinfonia, ma ancora piú evidenti a partire dalla Seconda.
MURAKAMI Quando ascolto delle registrazioni di Mahler fatte negli
anni Sessanta, però, ho l’impressione che non si fosse ancora
capito il modo giusto di affrontarlo, quello che lei descrive − curare
le parti per far emergere l’insieme. C’era piuttosto una forte
tendenza a interpretarlo in chiave emotiva, a portarlo verso uno
stile tradizionale viennese di fine secolo, in cui il caos veniva
accettato cosí com’era. L’approccio che mi ha spiegato ora non è
una tendenza relativamente nuova?
OZAWA Be’, sí, può darsi. Resta il fatto che Mahler scriveva i suoi
spartiti come le ho detto. Prima di lui, se un tema A e un tema B
erano suonati contemporaneamente, uno dei due doveva essere
quello principale, prevalere sull’altro. La differenza era netta.
Mahler, invece, li mette sullo stesso piano. I musicisti che
suonano il tema A si devono concentrare al massimo, metterci
tutte le loro energie, e la stessa cosa devono fare quelli che
suonano il tema B. Non deve mancare niente, né sentimento né
colore. Sarà poi compito del direttore d’orchestra comporre il tutto
in modo che i due temi si sviluppino insieme. È questo che si
deve fare con la musica di Mahler. Perché è questo che c’è scritto
negli spartiti.
MURAKAMI Parliamo adesso della Prima sinfonia, del Titano.
Finora lei l’ha registrata tre volte. Nel 1977 con la Boston
Symphony, nel 1987 di nuovo con la Boston, nel 2000 con la Saitō
Kinen. Bene, queste tre versioni a me sembrano molto diverse
l’una dall’altra.
OZAWA Veramente?
MURAKAMI Sí, è addirittura sorprendente.
OZAWA Ah.
MURAKAMI Per dirla in parole semplici, la prima versione, quella
con la Boston Symphony, nel complesso dà un’impressione di
freschezza. È la musica di un uomo giovane che va dritto al cuore
delle cose. La seconda registrazione è magnifica, ha acquisito
una qualità, un’intensità che solo quell’orchestra poteva
raggiungere. L’ultima però, quella con la Saitō Kinen, mi è parsa
piú limpida, mi ha dato l’impressione che ogni parte fosse piú
facilmente percepibile. Le voci interne emergono, vengono in
superficie. Paragonare queste tre interpretazioni, coglierne le
differenze, mi è piaciuto molto.
OZAWA Io stesso, in tutti questi anni, sono cambiato. Non ho mai
avuto il tempo di confrontare queste tre versioni, quindi non saprei
giudicare, ma quello che mi ha appena detto è convincente.
MURAKAMI Ascoltando le ultime interpretazioni di Abbado, credo di
capire il modo di procedere di Mahler, quello che lei mi ha appena
spiegato. Sembrano nascere dalla lettura approfondita e
meticolosa degli spartiti, come se Abbado fosse giunto alla
conclusione che piú lo si studia, Mahler, piú si riesce a far fluire la
sua musica con naturalezza. D’altronde Gustavo Dudamel mi dà
la stessa impressione. È ovvio che il coinvolgimento emotivo del
direttore d’orchestra è importante, ma credo che venga dopo, al
termine dello studio attento dello spartito.
OZAWA Sí, può darsi.
MURAKAMI Invece, ascoltando le registrazioni degli anni Sessanta,
per esempio quelle dirette da Rafael Kubelík, si ha l’impressione
di una sorta di compromesso, come se non riuscissero a staccarsi
del tutto dal territorio romantico.
OZAWA Be’, sí, a quell’epoca anche i musicisti avevano quel tipo di
sensibilità, probabilmente. Adesso però sono molto cambiati.
Davvero. È il loro modo di pensare che si è evoluto. Ormai sono
in grado di considerare il proprio ruolo in relazione al gruppo.
D’altra parte, anche le tecniche di incisione oggi sono diverse. Un
tempo si tendeva a captare il suono nel suo insieme. Si dava
grande importanza alla sonorità globale dell’orchestra. Si
privilegiava il tutto, sacrificando i dettagli. La maggior parte delle
registrazioni degli anni Sessanta e Settanta sono cosí.
MURAKAMI Con l’avvento del digitale, le cose sono cambiate.
D’altronde ascoltare Mahler senza poter distinguere il suono dei
diversi strumenti, dei diversi settori, non è molto interessante.
OZAWA Ha assolutamente ragione. Con la registrazione digitale si
può sentire chiaramente ogni dettaglio, e questo a poco a poco
potrebbe aver indotto i musicisti ad assumere un atteggiamento
diverso. Prima, ad esempio, la durata del riverbero era
considerata essenziale, mentre adesso nessuno ne parla piú.
Perché tutti siano soddisfatti, si devono sentire i dettagli.
MURAKAMI Può darsi che sia una questione di tecnologia, ma nei
dischi incisi da Bernstein negli anni Sessanta, i dettagli non si
sentono. Invece è forte l’effetto sonoro dell’orchestra in quanto
massa. Il fattore emotivo tende a prevalere sull’accumulo dei
dettagli.
OZAWA Al Manhattan Center, quando ha fatto quelle incisioni,
l’acustica era cosí. Al giorno d’oggi si preferiscono le sale da
concerto, con l’orchestra sul palco. Questo permette di sentire sul
disco il riverbero identico a quello della sala da concerto.

DIVENTARE FOLLE A VIENNA

MURAKAMI Tra gli interpreti di Mahler − e forse anche tra i suoi


ascoltatori − molti si interrogano sulla sua vita, sulla sua visione
del mondo, sulla sua epoca, sull’introspezione che ha
caratterizzato la fine del secolo. Che idea si è fatto lei, signor
Ozawa, di questa cosa?
OZAWA Oh, non ci penso molto! In compenso, leggo attentamente
gli spartiti. Sa, quando ho cominciato a lavorare a Vienna, piú di
trent’anni fa, mi sono fatto degli amici e ho iniziato a frequentare i
musei. Le opere di Klimt e di Schiele per me sono state una
rivelazione. Da quando le ho scoperte, ho preso l’abitudine di
visitare i musei. Perché osservando la produzione artistica di
un’epoca, se ne capisce meglio lo spirito. Cioè... prenda l’opera di
Mahler: nasce dalla rottura con la tradizione musicale tedesca.
Be’, questa rottura nella pittura la si capisce molto bene. E non si
tratta di un fenomeno superficiale.
MURAKAMI Anch’io, l’ultima volta che sono stato a Vienna, ho visto
una mostra di Klimt. È vero che le sue opere fanno quest’effetto,
ambientate nel contesto viennese.
OZAWA L’arte di Klimt è splendida, e molto curata anche nei
dettagli. Ma guardando i suoi quadri, non ha l’impressione che
abbiano qualcosa di folle?
MURAKAMI È vero, sono singolari.
OZAWA C’è qualcosa in quei quadri che esalta la follia, la
mancanza di razionalità... qualcosa che va al di là della morale.
D’altronde all’epoca si era in pieno declino della morale ed erano
molto diffuse certe malattie.
MURAKAMI La sifilide imperversava. In quel periodo, in gran parte
della società viennese quest’impressione di declino morale e
fisico si respirava nell’aria. Durante il mio ultimo viaggio in Austria,
dato che avevo un po’ di tempo libero, ho noleggiato una
macchina e ho passato quattro o cinque giorni a visitare il sud
della Repubblica Ceca − la Boemia, dove si trova il paese natale
di Mahler, Kalischt, che oggi si chiama Kaliště. Non è che volessi
andare proprio lí, ci sono passato per caso. Be’, è ancora piena
campagna. Campi a perdita d’occhio. Non è molto lontano da
Vienna, ma il contrasto è stupefacente. Mi sono detto: «Ah,
dunque Mahler veniva da un ambiente cosí? Per lui il ribaltamento
dei valori sarà stato travolgente». Vienna, all’epoca, non era
soltanto la capitale dell’Impero austro-ungarico, era il centro
sfolgorante della cultura europea, al suo apogeo. È possibile che
agli occhi dei viennesi, una persona come Mahler sembrasse un
provincialotto.
OZAWA Già, può darsi.
MURAKAMI In piú era ebreo. Ma a pensarci bene, inglobare la
cultura delle zone periferiche ha infuso energia vitale alla città di
Vienna. Se legge le biografie di Rubinstein e di Rudolf Serkin,
capirà cosa voglio dire. Considerato tutto questo, si spiega perché
tutt’a un tratto nella musica di Mahler facciano capolino canzoni
popolari, affiorino melodie klezmer 1. Sembrano delle intruse in
una musicalità e un’estetica serie. Una promiscuità che
costituisce il fascino di Mahler. Se fosse nato e cresciuto a
Vienna, forse non avrebbe composto quel tipo di musica.
OZAWA Mmh...
MURAKAMI Tutti i grandi creatori di quell’epoca − Kafka, Mahler,
Proust − erano ebrei. Hanno scosso le istituzioni culturali dalle
zone periferiche. In questo senso, il fatto che Mahler fosse un
ebreo di provincia ha la sua importanza, quando sono stato in
Boemia l’ho sentito intensamente.

QUALCOSA DI SOSPETTO A PROPOSITO


DELLA TERZA E DELLA SETTIMA SINFONIA

MURAKAMI Per tornare alle interpretazioni di Mahler degli anni


Sessanta − quelle di Bernstein −, il coinvolgimento emotivo è un
elemento essenziale. Ho anche l’impressione che Bernstein si
identifichi col compositore.
OZAWA Sí, su questo non c’è dubbio.
MURAKAMI Sento in lui un’empatia, verso la musica di Mahler, che
lo porta a condividerne con forza le emozioni. E c’è anche
dedizione. Doveva avere una profonda consapevolezza del fatto
che Mahler era ebreo.
OZAWA Certo, l’aveva eccome!
MURAKAMI Credo però che questa dimensione... come chiamarla?
Questa dimensione etnica tenda a ridursi, nelle interpretazioni piú
recenti di Mahler. Nelle sue signor Ozawa, ad esempio, o in quelle
di Abbado, è relativamente smorzata.
OZAWA È vero. Per quel che mi riguarda, non è qualcosa cui dia
molta importanza, ma per Lenny era fondamentale, ne era
profondamente conscio.
MURAKAMI E non dipende solo dal fatto che la musica di Mahler
contiene molti elementi ebraici, vero?
OZAWA No, non penso che sia l’unico motivo. Nel caso di Lenny,
c’era un legame molto forte con Mahler. Questo si può dire anche
di alcuni violinisti come Isaac Stern o Itzhak Perlman − intendo
Perlman soprattutto da giovane, adesso ha smussato
notevolmente gli angoli. La stessa cosa vale per Daniel
Barenboim. Sono tutti miei buoni amici.
MURAKAMI I musicisti ebrei sono molti, vero? Soprattutto negli Stati
Uniti.
OZAWA Ho rapporti molto stretti con tutti, ma c’è in loro qualcosa,
nel profondo, che non sono in grado di cogliere, che non mi
permette di capire quello che hanno in testa, o nel cuore.
D’altronde sono sicuro che loro provano la stessa cosa nei miei
confronti: mio padre è buddista, mia madre cristiana, io
agnostico... non capiranno bene che genere di persona sono.
MURAKAMI Sí, ma tra un ebreo e un cristiano, non sorgono frizioni
di natura culturale, vero?
OZAWA No, certo.
MURAKAMI Dunque mi diceva che Bernstein aveva una forte
consapevolezza della sua identità ebraica, e la percepiva come
un legame con Mahler e la sua musica, giusto? Inoltre, doveva
dare molta importanza anche al fatto che sia lui che Mahler erano
al tempo stesso direttori d’orchestra e compositori.
OZAWA Sa, a ripensarci adesso, ho l’impressione di aver vissuto a
New York nel periodo piú interessante in assoluto. Ho avuto la
possibilità di lavorare con Bernstein negli anni in cui si dedicava
con passione a Mahler, era straordinario vederlo immergersi a tal
punto nella sua musica. So che gliel’ho già detto, ma all’epoca il
mio inglese era pessimo, e lo rimpiango. Perché durante le prove
ci spiegava un’infinità di cose, ma spesso io non capivo niente di
quello che diceva.
MURAKAMI Però quando dirigeva, il suono dell’orchestra cambiava,
e questo lei lo sentiva e lo comprendeva, no?
OZAWA Certo, ero lí, e man mano che provavamo, me ne rendevo
conto. Lenny però spesso si interrompeva per parlare ai musicisti.
E io non capivo. Comunque i membri dell’orchestra non
apprezzavano affatto i suoi discorsi. Perché il tempo che avevamo
a disposizione era fisso, e piú lui parlava, meno ce n’era per
provare. Cosa che irritava molto alcuni musicisti. Si sforavano
spesso i tempi e tutti protestavano.
MURAKAMI Di cosa parlava? Del significato della musica,
esprimeva la sua opinione?
OZAWA Sí, soprattutto del significato della musica. Ma a poco a
poco si allontanava dall’argomento e si lanciava in lunghe
digressioni: «A proposito, mi ricordo che quando sono andato...»
Alla fine tutti lo trovavano noiosissimo.
MURAKAMI Parlare gli piaceva.
OZAWA Gli piaceva molto, e parlava bene. Poteva essere cosí
convincente, a volte... Per questo mi rincresce di non essere stato
in grado di capirlo, all’epoca. Chissà cosa raccontava...
MURAKAMI Immagino che lei seguisse le sue prove da vicino, che
prendesse appunti.
OZAWA Sí, certo, ma quando parlava a lungo mi sentivo perso.
MURAKAMI Le è mai successo, dopo aver letto lo spartito e
immaginato mentalmente la musica, di sentirla poi interpretare in
modo del tutto diverso dall’orchestra diretta da Bernstein?
OZAWA Molto spesso. Perché leggevo gli spartiti di Mahler con lo
stesso spirito di quelli di Brahms. Cosí poi, quando sentivo il
suono reale, restavo sconcertato. Mi è capitato sovente.
MURAKAMI Ogni volta che ascolto una di quelle lunghe sinfonie di
Mahler, penso che se fossero di Beethoven o di Brahms, capirei
piú o meno come sono strutturate, e non mi risulterebbe tanto
difficile ricordare la successione dei movimenti. Ma è possibile,
per un direttore d’orchestra, imparare a memoria la complessa
struttura globale di un’opera di Mahler?
OZAWA Nel caso di Mahler, l’importante non è tanto memorizzare
l’opera, quanto entrarvi dentro. Se non si è in grado di farlo, non si
può suonare Mahler. Imparare a memoria uno spartito non è tanto
difficile. La vera impresa è immergersi profondamente nella
musica.
MURAKAMI A me succede molto spesso di non ricordare la
successione. Prenda ad esempio il quinto movimento della
Seconda sinfonia. I temi vanno in tutte le direzioni, in molti punti
non capisco cosa stia facendo... e finisco col fare una confusione
tremenda.
OZAWA Perché nella musica di Mahler non c’è alcuna logica.
MURAKAMI Infatti. Mozart o Beethoven sono un’altra cosa.
OZAWA Le loro opere hanno una forma definita. Mahler però quella
forma la voleva distruggere, intenzionalmente. In una sonata,
quindi, nel punto dove la regola dice: «Qui si deve tornare alla
melodia iniziale», lui ne introduce una del tutto diversa. Per forza
è difficile imparare le sue opere! Ma se le si studia nel modo
giusto e ci si lascia andare al flusso, non sono poi cosí ostiche.
Però ci vuole tempo, per raggiungere questo livello. Molto piú
tempo che per Beethoven o Bruckner.
MURAKAMI Le prime volte che ascoltavo Mahler, sospettavo che
facesse qualche errore di base nel modo di comporre musica. E
ancora oggi ogni tanto mi capita di pensarlo. Di chiedermi:
«Perché mai ha fatto questa cosa in questo punto?» Con gli anni,
però, molti di questi passaggi sono diventati per me una fonte di
piacere. Alla fine arriva sempre, immancabilmente, una sorta di
«catarsi».
OZAWA Soprattutto nella Settima e nella Terza. Chi le suona, se
non si concentra al massimo, con estrema attenzione, a un certo
punto annega. Con le altre − la Prima, la Seconda, la Quarta, la
Quinta − questo non succede. La Sesta è un po’ ambigua. Ma
lasciamo perdere. In ogni caso la Settima presenta delle difficoltà.
E anche la Terza. Quando poi si arriva all’Ottava, visto che si
tratta ormai di un’opera colossale, in qualche modo uno si
barcamena.
MURAKAMI Anche nella Nona ci sono delle parti incomprensibili,
ma è di un livello diverso.
OZAWA Sa, ho portato la Terza e la Sesta in tournée in Europa.
Con la Boston Symphony.
MURAKAMI Che programma ricercato!
OZAWA All’epoca l’interpretazione di Mahler della Boston
Symphony era molto apprezzata, quindi dall’Europa fioccavano
inviti. Ormai sono passati una ventina d’anni.
MURAKAMI Era il periodo in cui Bernstein, Solti e Kubelík erano
considerati i grandi interpreti di Mahler. Ma quando sul podio della
Boston Symphony è arrivato lei, con la sua conduzione nuova,
anche il suo approccio diverso ha cominciato ad essere stimato.
OZAWA Siamo stati una delle prime orchestre a farci una
reputazione grazie alle interpretazioni di Mahler (mangia un pezzo
di frutta). Mmh, che buono! È mango?
MURAKAMI No, è papaia.

OZAWA SUONA IL «TITANO»


CON LA SAITŌ KINEN ORCHESTRA
MURAKAMI Adesso vorrei farle ascoltare la Saitō Kinen Orchestra
nel terzo movimento della Prima sinfonia di Mahler, con la sua
direzione, signor Ozawa. Si tratta del dvd che è stato registrato al
festival di Matsumoto.
Quando la marcia funebre dall’atmosfera misteriosa (solenne, ma
non austera) finisce, ecco che attacca una canzone popolare
ebraica (2:29).
MURAKAMI Ho sempre trovato questo improvviso cambio
d’atmosfera... come dire? Inedito, molto originale.
OZAWA Ha ragione. Questa melodia ebraica che salta fuori subito
dopo una marcia funebre. È un’associazione un po’ pazza.
MURAKAMI Quando sul podio c’è un direttore ebreo, la qualità
ebraica dell’opera ne risulta esaltata, ma se lo stesso passaggio
lo dirige lei, questa sfumatura non c’è. L’effetto è piú leggero, piú
neutro... chissà che shock dev’essere stato, per i viennesi
dell’epoca.
OZAWA Sí, di sicuro, uno shock immenso. Inoltre, dal punto di vista
tecnico, per i passaggi come questo tema tradizionale ebraico i
violini suonano «col legno». Non toccano le corde con i crini
dell’archetto, cioè, ma con la parte in legno. Le colpiscono,
producendo un suono piú rozzo.
MURAKAMI Ci sono altri compositori che hanno usato questa
tecnica, prima di Mahler?
OZAWA Mah, non saprei. Di sicuro né Beethoven, né Brahms, né
Bruckner. Forse Bartók, o Šostakovič.
MURAKAMI In Mahler, questi passaggi che ti spiazzano e ti
obbligano a chiederti: «Ma come fa a produrre un suono cosí?» li
si incontra sempre. Però anche nella musica contemporanea, se
si ascolta bene, e soprattutto nelle colonne sonore dei film, si
ritrova ogni tanto questo tipo di suono − ad esempio nella musica
composta da John Williams per Star Wars.
OZAWA Sono convinto che sia dovuto all’influenza di Mahler.
Questo terzo movimento della Prima sinfonia è pieno zeppo di
elementi cosí. Riuscire a fare una cosa del genere è veramente
straordinario. Il pubblico della sua epoca sarà rimasto stupefatto.
Dopo la ripresa della marcia funebre (4:30), inizia una melodia di
un lirismo stupendo. È la stessa che conclude i «Canti di un
viandante».
MURAKAMI Anche qui, l’atmosfera cambia drammaticamente.
OZAWA Sí, alla fine c’è questo canto bucolico, paradisiaco.
MURAKAMI Però è improvviso, senza alcun nesso con quello che
c’è prima. Non c’è alcun criterio di necessità.
OZAWA No, è vero. Ah, senta quest’arpa! È quasi una chitarra.
MURAKAMI Già, in effetti...
OZAWA I musicisti devono dimenticare quello che hanno fatto fino
a quel momento, cambiare del tutto stato d’animo. Immergersi
completamente, di punto in bianco, nella nuova melodia.
MURAKAMI Vuole dire che gli interpreti devono ignorare il
significato o l’inevitabilità della musica? Devono limitarsi a
suonare, obbedienti, quello che leggono sullo spartito?
OZAWA Be’, ecco... Vediamo di considerare le cose in questo
modo: prima c’è la solenne marcia funebre, poi viene la parte che
sembra un rozzo canto popolare, infine la musica bucolica. La
bella melodia campestre. Dopodiché, con un’altra svolta
drammatica, si torna alla solenne marcia funebre.
MURAKAMI Quindi basta che concepiamo questo brano secondo
questa sequenza?
OZAWA Mmh... direi piuttosto di accettarlo cosí com’è.
MURAKAMI Insomma, non pensare alla musica come a una
narrazione, ma solo accoglierla in blocco.
OZAWA (riflette un momento) Sa, a forza di parlare di musica, sono
arrivato a pensare che non la concepisco come lei. Quando studio
un’opera, mi concentro sullo spartito. E il fatto di concentrarmi mi
fa dimenticare tutto il resto. Penso solo alla musica in sé. Come
dire...? Confido soltanto in ciò che intercorre fra me e la musica.
MURAKAMI In altre parole, lei non cerca il significato dell’opera né
nel suo insieme, né nelle singole parti, semplicemente l’accoglie
per quello che è.
OZAWA Proprio cosí. Ed è il motivo per cui è tanto difficile da
spiegare. Si direbbe che io abbia qualcosa che mi permette di
assimilare completamente la musica, a modo mio.
MURAKAMI Forse è esagerato parlare di superpoteri, ma pare che
esistano persone in grado di cogliere simultaneamente tutte le
parti di un oggetto, o tutti gli aspetti di un concetto complesso,
come se scattassero una fotografia ad alta definizione. Può darsi
che lei possieda questa facoltà nei confronti della musica, il che le
permette di fare a meno di un’analisi razionale.
OZAWA No, non è cosí. Voglio solo dire che quando studio uno
spartito, riesco ad assimilare la musica naturalmente.
MURAKAMI A questo scopo, deve concentrarsi e dedicarci del
tempo.
OZAWA Questo sí. Il professor Saitō ci raccomandava sempre di
concentrarci nella lettura dello spartito come se l’avessimo scritto
noi. Tanto per farle un esempio: una volta ha invitato a casa sua
me e il compositore Yamamoto Naozumi, che era mio compagno
di corso. Quando siamo arrivati, ci ha dato della carta
pentagrammata e ci ha chiesto di scrivere, a memoria, lo spartito
della Seconda sinfonia di Beethoven, che stavamo provando in
quel periodo.
MURAKAMI Di riscriverla tutta?
OZAWA Sí, l’intera sinfonia. Voleva vedere fino a che punto
arrivavamo in un’ora. Noi due, che un po’ ce l’aspettavamo, ci
eravamo preparati e avevamo studiato bene lo spartito, ma era
comunque al di sopra delle nostre capacità. Mi capitava di non
riuscire a scrivere venti battute di fila e allora mi perdevo d’animo.
E come se non bastasse, ho sbagliato completamente le parti dei
corni francesi e delle trombe. Anche nelle parti delle viole e dei
violini secondi ho fatto confusione.
MURAKAMI Non ci dev’essere una grande differenza, nell’imparare
a memoria una musica relativamente facile come quella di
Mozart, mettiamo, o molto complessa come quella di Mahler...
OZAWA È vero, in effetti non c’è. D’altronde l’obiettivo non è
ricordare un’opera a memoria, ma capirla. Quando si riesce
veramente a capire un brano, è davvero una grande
soddisfazione. Per un direttore d’orchestra, la capacità di
comprendere è molto piú importante che non la facilità di
memorizzare. Tanto è sempre possibile dirigere guardando lo
spartito.
MURAKAMI Quindi, per un direttore d’orchestra, la memorizzazione
di uno spartito è solo uno dei risultati. Non ha una grande
importanza.
OZAWA Esatto, non ne ha. Nessuno pensa che per essere bravi
occorra avere una buona memoria. Ma il vantaggio di ricordare
bene lo spartito, è che permette di avere un contatto visivo con i
musicisti. Soprattutto nel caso dell’opera lirica, si dirige guardando
negli occhi i cantanti e scambiando segnali.
MURAKAMI Capisco.
OZAWA Il Maestro Karajan però, anche se conosceva le opere a
memoria nota per nota, quando dirigeva teneva sempre gli occhi
chiusi. L’ultima volta che ha diretto Il cavaliere della rosa, li ha
tenuti chiusi dall’inizio alla fine, lo so perché da dove mi trovavo
io, potevo vederlo da vicino. Alla fine c’è una scena con un trio di
soprani, no? Be’, tutte e tre le cantanti cercavano
spasmodicamente lo sguardo del Maestro, ma niente da fare, lui
non ha mai aperto gli occhi.
MURAKAMI Riusciva a stabilire un contatto anche cosí?
OZAWA Mah, chi lo sa! In ogni caso, le tre cantanti non hanno mai
staccato lo sguardo da lui. Lo fissavano come se fossero legate a
lui da tre corde. Era una cosa davvero strana.
La melodia bucolica finisce, riprende la marcia funebre (7:00-
7:14).
OZAWA Ecco, questa transizione è di nuovo un passaggio difficile.
Interviene il gong, i tre flauti attaccano un motivo pacato e ritorna
la melodia semplice e triste della marcia funebre.
MURAKAMI Il cambiamento da una tonalità maggiore a una minore
avviene in un attimo.
OZAWA Esatto. Adesso ascolti questo breve passaggio suonato
dal clarinetto. È un brano molto semplice, ma per l’appunto, la
semplicità con la quale è associato al resto cambia tutto. Taa-ra-
ra-ra… uit, uit... (è un suono sorprendente, come il canto profetico
di un uccello nel folto di un bosco. La melodia prende un tono
ineffabilmente minaccioso). Anche questi effetti, nella musica
precedente a Mahler erano inconcepibili. Ma è quello che c’è
scritto nello spartito e bisogna suonarlo cosí com’è.
MURAKAMI Mahler ha dato delle indicazioni molto precise, vero?
OZAWA Sí. Sapeva bene come funziona un’orchestra, lo sapeva
dall’interno, conosceva le caratteristiche di ogni strumento.
Riusciva a farne emergere tutta la potenzialità, ma non alla
maniera di Richard Strauss.
MURAKAMI Cioè? Potrebbe spiegarmi in che modo l’orchestrazione
di Mahler è diversa da quella di Strauss? In parole molto
semplici...
OZAWA La principale differenza consiste nel fatto che in Mahler è...
come dire? Piú scabra.
MURAKAMI Piú scabra?
OZAWA Sí, tira fuori dall’orchestra qualcosa di scabro. In Strauss,
invece, tutto è scritto nello spartito, dalla prima all’ultima pagina.
Basta suonarlo cosí com’è, senza pensare a niente, e la musica si
crea da sola. Funziona cosí. La musica di Mahler invece è
diversa, è molto piú scabra. Prenda per esempio le Metamorfosi
di Strauss, un brano di una finezza estrema per orchestra di soli
archi: persegue una forma ben determinata. A Mahler non è mai
neanche venuta l’idea di andare in questa direzione.
MURAKAMI Cioè l’orchestrazione di Strauss, da un punto di vista
tecnico, in molte parti è piú esigente, è questo che vuole dire? È
vero che ascoltando un’opera come Cosí parlò Zarathustra, si ha
l’impressione di osservare uno splendido quadro appeso al muro.
OZAWA Immagino che faccia quest’effetto. Invece in Mahler i suoni
si alzano e vengono verso di noi. Per usare un’espressione molto
rozza, ci getta in faccia un suono nudo, disadorno. A volte può
essere provocatorio, nel mettere in evidenza la peculiarità e la
personalità di ogni strumento. In confronto, Strauss usa i suoni
dopo averli mescolati. Anche se non dovrei dare dei giudizi cosí
semplicistici.
MURAKAMI Sbaglio, o il talento di direttore d’orchestra ha svolto un
ruolo molto importante, sia per Strauss che per Mahler, nella
distribuzione delle parti agli strumenti?
OZAWA Sí, certo, importantissimo. Ecco perché avevano bisogno
di orchestre tanto grandi.
MURAKAMI Nel finale della Prima sinfonia di Mahler, a un certo
punto i corni si alzano in piedi, vero? Nello spartito è indicato?
OZAWA Sí. In una nota allo spartito c’è proprio scritto: «Suonando,
i corni si alzano tutti quanti».
MURAKAMI E questo influisce veramente sulla musica?
OZAWA Be’... (riflette un momento) Immagino che tenere gli
strumenti piú in alto influenzi in qualche modo il suono.
MURAKAMI Quindi non è solo per fare scena.
OZAWA Mah, forse anche un po’ quello. Però è vero che se gli
strumenti sono in posizione piú elevata, il suono arriva meglio.
MURAKAMI Comunque sia, l’effetto è talmente impressionante, che
anche se fosse solo per fare scena, per me andrebbe benissimo.
Di recente ho ascoltato la Prima sinfonia di Mahler, in un concerto
con la London Symphony Orchestra e Valerij Gergiev. C’erano
dieci corni, e quando si sono alzati come un sol uomo, l’effetto è
stato potente. Non crede che la musica di Mahler abbia un lato
appariscente, decorativo, da intrattenitore?
OZAWA Sí, forse è vero, ha ragione (ride).
MURAKAMI A proposito, anche nel finale della Seconda sinfonia i
cornisti devono sollevare i loro strumenti, giusto?
OZAWA Sí, è esatto. Devono alzarli in modo che le campane siano
rivolte verso l’alto.

INDICAZIONI ESTREMAMENTE PRECISE SULLO SPARTITO

MURAKAMI Queste cose sono indicate da Mahler con grande


precisione...
OZAWA Sí, in modo molto dettagliato. Dettagli anche minimi.
MURAKAMI Ad esempio, spiega persino come usare l’archetto?
OZAWA Sí, certo.
MURAKAMI Quindi immagino che quando si suona Mahler, non ci
siano momenti di esitazione, nessun passaggio sulla cui
interpretazione si è incerti...
OZAWA È cosí. I musicisti non hanno motivo di preoccuparsi.
Mentre in Bruckner, o Beethoven, i passaggi problematici sono
tanti, in Mahler ci sono migliaia di annotazioni per ogni strumento.
Guardi un attimo qui (mi mostra la grande pagina di uno spartito
che deve aver usato molto). I musicisti chiamano questi segni
«aghi di pino» o «mollette per capelli». Questi < > indicano un
crescendo e un decrescendo, un aumento o una diminuzione
progressivi del volume. Ci sono centinaia di segni come questi.
Qui, ad esempio, bisogna leggere: taa-ra-ra, taritara, raaa-ra
(canta la linea ad alta voce).
MURAKAMI Capisco.
OZAWA Beethoven non darebbe mai tante indicazioni. Per un
passaggio come questo, si limiterebbe a scrivere: espressivo.
Adesso guardi quest’altra linea. Questo segno non corrisponde a
un semplice legato. Significa che bisogna leggere le note cosí:
taa-ri, ra-ri-ra-ri, raa-ba (canta in modo molto espressivo). Una
tale quantità di indicazioni implica una riduzione delle possibilità di
scelta per noi esecutori.
MURAKAMI Sí, ma non ci sono dei passaggi in cui le indicazioni
non la convincono, in cui lei farebbe diversamente?
OZAWA Certo che ci sono. A volte i musicisti stessi, soprattutto i
cornisti, dicono che non è possibile suonare cosí, che non è
fattibile.
MURAKAMI Sí, ma se le indicazioni sono tanto precise, i musicisti le
devono seguire, no?
OZAWA È quello che facciamo tutti, siamo obbligati.
MURAKAMI Si riferisce a passaggi particolarmente difficili dal punto
di vista tecnico?
OZAWA Anche difficoltà tecniche ce ne sono moltissime. A volte i
musicisti hanno l’impressione di non potercela fare. Sí, la difficoltà
può arrivare a questo punto.
MURAKAMI Ma allora, che sia possibile o meno seguirle, se le
indicazioni sono tanto dettagliate da non lasciare scelta, come si
spiega che ci sia una tale differenza tra due interpretazioni della
stessa opera, tra due direttori d’orchestra?
OZAWA ( fa una lunga pausa di riflessione) Già, è una domanda
interessante. Non ci avevo mai riflettuto, però. Come le ho
appena detto, gli spartiti di Mahler danno molte piú spiegazioni di
quelli di Bruckner o di Beethoven. Quindi verrebbe da pensare
che lasci meno libertà agli interpreti. In realtà però le cose non
stanno cosí.
MURAKAMI A forza di ascoltare tutte queste versioni delle sinfonie
di Mahler, me ne sono convinto anch’io. Anche il suono è
differente da un’interpretazione all’altra.
OZAWA Sí, ma è una questione su cui devo riflettere seriamente.
Perché piú numerose sono le indicazioni, piú il direttore
d’orchestra si arrovella su come conciliarle, come usarle. Come
tenerle tutte in equilibrio fra loro.
MURAKAMI Ad esempio, quando si riferiscono a due strumenti
diversi che suonano contemporaneamente?
OZAWA Esatto. In quei casi, a quale dei due dare la priorità... il che
non significa che non sia necessario tirar fuori il meglio da tutti e
due. Mahler ha questo di speciale, che obbliga ogni strumento a
dare il massimo. Ma durante le prove, ascoltando l’orchestra
suonare, si ha l’impressione che non sia possibile portare al
meglio i due strumenti contemporaneamente, e in quei casi
occorre trovare un compromesso. È forse questo il motivo per cui
in Mahler il suono varia tanto da una direzione all’altra, anche se
nessun altro compositore annota gli spartiti quanto fa lui.
MURAKAMI Un bel paradosso! Sembrerebbe che maggiori sono le
informazioni che il direttore d’orchestra riceve, maggiori sono le
scelte inconsce che deve fare. Ma lei non sente quelle indicazioni
come una forma di restrizione, vero?
OZAWA No, affatto.
MURAKAMI Forse le preferisce addirittura, alcune restrizioni?
OZAWA Sí, fanno comodo. Aiutano a capire la musica.
MURAKAMI E la presenza di limiti non le impedisce di sentirsi
libero?
OZAWA No, non credo. Un direttore d’orchestra ha il compito di
trasformare la musica scritta in un suono reale. Dunque deve
prendere atto di ogni restrizione. Ma la libertà si situa al di là di
quanto è scritto.
MURAKAMI Se pensa che la libertà trascenda la trasformazione
dello spartito in suono, allora non ci sarà differenza nemmeno
nell’atteggiamento dell’orchestra: si sentirà ugualmente libera sia
nei confronti di Beethoven, che di indicazioni ne dà poche, sia di
Mahler, che ne dà un’infinità.
OZAWA È vero. Però Strauss, ad esempio, dà indicazioni molto
coerenti e lascia andare la sua musica solo in una direzione.
Mentre Mahler fa il contrario. Le sue indicazioni a volte sono
incoerenti, contraddittorie. Si ha addirittura l’impressione che
fossero chiare solo a lui. Si tratta sempre di restrizioni, ma con
caratteristiche molto diverse.
MURAKAMI Capisco quello che vuole dire. Mahler annota tutto in
modo tanto pignolo, invece sul tempo, sull’uso del metronomo,
non scrive granché.
OZAWA Infatti. Non scrive nulla.
MURAKAMI Perché, secondo lei?
OZAWA Ci sono diverse teorie, a questo proposito. Secondo alcuni,
era probabilmente convinto di aver dato indicazioni sufficienti,
perché il tempo si definisse da solo. Secondo altri invece voleva
lasciare agli interpreti almeno la libertà di decidere questo.
MURAKAMI Comunque, da una direzione all’altra delle sue sinfonie,
non si notano grosse differenze di tempo.
OZAWA È probabile che lei abbia ragione.
MURAKAMI Non ricordo di essere mai rimasto impressionato da
un’interpretazione perché troppo veloce, o troppo lenta.
OZAWA Di recente, però, negli ultimi cinque o sei anni, a volte è
successo. Quando ero a Vienna, nel 2006, un herpes zoster per
un certo periodo mi ha impedito di dirigere. Cosí, appena sono
stato in grado di farlo, ho iniziato ad ascoltare le interpretazioni di
altri direttori d’orchestra, ed è a quell’epoca che mi è capitato, per
la prima volta, di sentire quel genere di versione estrema di cui
parla lei. Alcuni forse lo facevano solo per distinguersi, per non
usare un tempo già usato in precedenza da Bernstein o da
Abbado, ad esempio... Per fare qualcosa di diverso.
MURAKAMI Ma se sullo spartito non è indicato, il direttore
d’orchestra è libero di scegliere il tempo che vuole?
OZAWA Certo.
MURAKAMI Mahler nel ruolo di compositore dava le indicazioni, e in
quello di direttore d’orchestra le interpretava. Non si sentiva
combattuto tra due esigenze contrarie? A proposito di
interpretazione… il suono della marcia funebre all’inizio del terzo
movimento della Prima sinfonia cambia completamente da un
direttore all’altro. A volte è pesantemente sentimentale, a volte piú
accademico, a volte ha addirittura qualcosa di comico. Nella sua
conduzione, signor Ozawa, sento una certa neutralità, una scelta
piú raffinata, dal punto di vista puramente musicale. Poi viene il
motivo tradizionale ebraico: gli interpreti ebrei, come ho già detto,
tendono a dargli un’atmosfera tipicamente klezmer, è una
sensazione epidermica, mentre gli altri hanno un approccio piú
distaccato. Immagino che tutti questi problemi di interpretazione
rientrino in quello della libertà di scelta dei musicisti?
OZAWA Sa, il tema di cui mi parla riprende un’antica melodia
klezmer. È normale che alcuni direttori d’orchestra insistano su
questo aspetto, mentre altri trattano quel passaggio per quello
che è, un semplice motivo inserito in un lungo movimento che ne
contiene diversi. I direttori del secondo tipo daranno al tema un
carattere etnico quando appare per la prima volta, ma poi, quando
ritorna, non insisteranno piú su quella caratteristica, lo legheranno
piuttosto a quel che segue. Si può fare anche cosí. Lo spartito
non dice assolutamente nulla riguardo al modo di interpretare.
MURAKAMI Credo di ricordare che quando si arriva alla marcia
funebre, c’è scritto: «Solenne e misurato, senza strascicare».
OZAWA (controlla sullo spartito) È vero. C’è scritto proprio cosí.
MURAKAMI A pensarci bene, però, è un’indicazione difficile da
seguire.
OZAWA Sí! Molto difficile! (ride)
MURAKAMI Il movimento inizia con un assolo del contrabbasso. Ma
chi definisce il suono? Il direttore d’orchestra? «Qui è troppo
pesante, alleggerisca un po’...»
OZAWA Be’, sí, ma tutto dipende dal carattere del contrabbasso,
dalla personalità di chi lo suona. Non è qualcosa che il direttore
possa imporre. D’altra parte, a pensarci bene, non si era mai
visto, prima di Mahler, che un movimento iniziasse con un lungo
assolo del contrabbasso. Già un assolo del genere era piuttosto
anomalo, immagini un po’ piazzarne uno all’inizio! Era davvero un
eccentrico, Mahler!
MURAKAMI A me questo passaggio, personalmente, piace. Però
penso che il modo di suonarlo definisca già l’atmosfera del brano,
in una certa misura, quindi il direttore non avrà un compito facile,
con un assolo del contrabbasso tanto lungo.
OZAWA Infatti è un passaggio cruciale. Di solito preferisco parlarne
a quattr’occhi con il contrabbassista, dietro le quinte, che non
davanti a tutti durante le prove. «Qui cerchi di essere un po’ piú
morbido, qui invece provi ad aumentare l’intensità, o a ridurla...»
MURAKAMI Per un contrabbassista, dev’essere l’occasione di una
vita. Immagino la tensione!
OZAWA Sí, è una grossa responsabilità. Infatti è un brano che
chiediamo sempre ai candidati di suonare, quando facciamo
un’audizione. Dalla loro interpretazione può dipendere
l’assunzione nell’orchestra o meno.
MURAKAMI Addirittura...
OZAWA Dietro si sentono i timpani, ton-ton-ton...
MURAKAMI Questo ritmo monotono in quarti continua fino alla fine.
OZAWA Sí. Re-la-re-la. Per cosí dire, è il ritmo del battito cardiaco.
Dà una cornice solida, una struttura alla musica. I timpani non
aspettano − cosí come non aspetterebbe il battito di un cuore
umano −, quindi il contrabbasso non deve restare indietro.
Prendere le pause per respirare, arrangiarsi, far stare tutto
all’interno della cornice. Guardi, qui c’è una virgola!
MURAKAMI Sí, ma cosa vuol dire?
OZAWA Rii-rari-ra, raa (canta la melodia suonata dal
contrabbasso). La virgola significa: qui, prendere fiato. È tutto
scritto. Naturalmente un contrabbassista non deve «fare una
pausa per respirare» in senso letterale, non suona uno strumento
a fiato. Quindi l’indicazione significa che deve interrompere un
attimo, come per prendere fiato, e non mantenere un suono
continuo. Mahler era molto pignolo in queste cose.
MURAKAMI Incredibile!
OZAWA E qui, vede, quando l’oboe attacca il suo ryat-tarari-ran,
ran (canta su un ritmo saltellante), il fraseggio si anima. Piú avanti
Mahler segna questi accenti per l’arpa, perché l’arpa è piú difficile
da sentire per il pubblico. Quindi precisa che tutte le note seguenti
devono essere suonate in staccato.
MURAKAMI In effetti, quanti dettagli! Scrivere uno spartito con tutte
queste indicazioni dev’essere stata una vera impresa!
OZAWA Ecco perché tutti sono sempre molto nervosi, quando
interpretano il Titano.
MURAKAMI Immagino, saranno tesissimi. Devono sempre
mantenere la concentrazione a un livello altissimo.
OZAWA Esatto. Cosa molto stressante. Prenda questo passaggio,
ad esempio. Non lo si può suonare come si farebbe normalmente
− tori-raa-yaa-tataan − ma piuttosto cosí: toriiraya-tta-tan. Le
indicazioni sono molto precise, non danno un momento di tregua.
MURAKAMI E quest’indicazione − mit Parodie − significa che
bisogna interpretare lo spartito in modo caricaturale?
OZAWA Sí.
MURAKAMI Anche questo dev’essere difficile.
OZAWA Certo. A quel punto bisogna mettersi in uno stato d’animo
parodistico.
MURAKAMI Se si esagera, però, la dignità della musica viene
meno.
OZAWA Ha ragione. Basta un nonnulla, e tutto può cambiare
drammaticamente. Ma è questo che affascina.
MURAKAMI Nonostante Mahler dia molte indicazioni, credo che ci
siano comunque dei passaggi in cui i musicisti finiscono col
produrre un suono molto diverso da quello che lei si attendeva da
loro.
OZAWA Naturalmente succede anche questo. Quando un
musicista produce un suono lontano da quello che mi ero
immaginato io studiando lo spartito, mi sforzo di farlo avvicinare.
Sia parlando che a gesti.
MURAKAMI Ma succede, a volte, che i musicisti non la
comprendano?
OZAWA Certo, tutti i momenti. Il compito del direttore, durante le
prove, è proprio di trovare dei compromessi o insistere fino a
convincere i musicisti ad accettare la sua visione.

CHE DIRE DEL COSMOPOLITISMO


DELLA MUSICA DI MAHLER?

MURAKAMI Sa cosa penso quando ascolto questo terzo movimento


della Prima sinfonia? Che la musica di Mahler è piena di elementi
diversi che lui non si preoccupa di amalgamare, che usa senza
nesso logico, a volte lasciandoli in conflitto fa loro. È per questo
che nelle sue opere troviamo musica tradizionale tedesca, musica
ebraica, decadenza fin de siècle, canzoni popolari boeme,
caricature, elementi comici subculturali, seri assiomi filosofici,
dogma cristiano e visione orientale del mondo... insomma, un
miscuglio di componenti eterogenee. E nessuna di queste svolge
un ruolo centrale, non se ne può isolare nemmeno una. Però in
questo guazzabuglio − mi perdoni il termine peggiorativo − ci
sono molti spazi in cui un direttore d’orchestra non occidentale
come lei può aprirsi un varco e trovare la sua via, non pensa? In
questo senso, la musica di Mahler non ha una dimensione
universale, o cosmopolita, molto forte?
OZAWA Ecco, vede... è una questione complicata, ma sí, credo
che quegli spazi di cui parla lei esistano.
MURAKAMI L’altra volta, quando abbiamo parlato di Berlioz, mi ha
detto che la sua musica ha degli spunti da cui un direttore
d’orchestra giapponese può trarre vantaggio. Perché ha qualcosa
di folle. Si può dire la stessa cosa di Mahler?
OZAWA La grande differenza tra Mahler e Berlioz, è che
quest’ultimo non riempie gli spartiti di indicazioni fitte fitte.
MURAKAMI Ah, ecco...
OZAWA Berlioz lascia molta piú libertà a noi interpreti. In confronto,
Mahler ce ne dà pochissima, ma alla fin fine, penso che
raggiunga davvero la dimensione universale di cui ha parlato lei
adesso. Noi giapponesi, ma anche altri popoli orientali, abbiamo
un senso del dolore molto particolare. Ha origine in qualcosa di
diverso rispetto a quel che accade nella cultura occidentale, o
ebraica. Se si cerca di cogliere, di capire profondamente queste
differenze, e poi si prendono le decisioni con cognizione di causa,
allora si aprirà naturalmente una via. La musica scritta da un
occidentale, quando è interpretata da un orientale, può assumere
un significato originale. E sono convinto che valga la pena di
esplorare questa possibilità.
MURAKAMI Vuole dire che bisogna comprendere e incorporare
l’emotività dei giapponesi andando oltre la superficie, scavando
nel profondo?
OZAWA Sí, esatto. Penso che l’interpretazione di un’opera
occidentale che faccia appello alla sensibilità giapponese, a
condizione di essere di livello altissimo, abbia la sua ragione di
esistere.
MURAKAMI Durante uno dei nostri incontri, abbiamo ascoltato
Uchida Mitsuko nel Concerto per piano n. 3 di Beethoven, e dalla
trasparenza del suono, dal modo di inserire degli istanti di
silenzio, abbiamo dedotto che la sua interpretazione era molto
giapponese. Un’affermazione corretta, credo. Non penso che
questo in lei sia intenzionale, voluto, ma credo sia qualcosa di
naturale, il risultato del suo modo di esplorare la musica in quanto
tale. Che è tutto il contrario della superficialità.
OZAWA Forse ha ragione. Forse c’è un modo di interpretare la
musica occidentale possibile solo a un orientale. Vorrei continuare
a credere in questa possibilità.
MURAKAMI Suppongo che si possa affermare che Mahler, un po’
consciamente e un po’ no, si è allontanato dalla cosiddetta
musica tedesca ortodossa.
OZAWA È vero. Ed è per questo che sono convinto che ci sia uno
spazio dove noi possiamo inserirci e trovare la nostra via. Il
professor Saitō a suo tempo ci ha detto parole preziose, a questo
proposito: «Voi giovani adesso siete come un foglio bianco.
Quando soggiornerete in altri Paesi, sarà facile per voi
assimilarne le tradizioni. Attenti però perché ci sono tradizioni
buone e tradizioni cattive. Ce ne sono in Germania, in Francia, in
Italia. Gli americani hanno dovuto affrontare gli stessi nostri
problemi. Dovrete quindi fare molta attenzione a selezionare le
tradizioni buone e assimilare, di ogni Paese, solo quelle. Se ne
sarete capaci, scoprirete che voi in quanto giapponesi, asiatici,
avete un ruolo da svolgere».
MURAKAMI Se posso esprimere il mio pensiero, sono convinto che
i direttori d’orchestra come Karajan abbiano provato una
repulsione quasi viscerale per il carattere confusionario, distorto e
incoerente della musica di Mahler.
OZAWA Sí, capisco. La sua osservazione è giusta.
MURAKAMI Prima abbiamo parlato della registrazione fatta da
Karajan della Nona sinfonia di Mahler, e sono d’accordo con lei, è
davvero stupenda. Un suono meraviglioso che sembra stillare
goccia a goccia. Ma se la si ascolta attentamente... come dire?
Be’, ci si rende conto che non è molto «mahleriana». Karajan la
dirige come se interpretasse Schönberg, Berg o una delle prime
opere della Seconda scuola di Vienna. In altri termini, mi sembra
che tiri Mahler verso un terreno che lui, Karajan, conosce alla
perfezione. È l’impressione che ho avuto ascoltandolo.
OZAWA Verissimo, soprattutto nell’ultimo movimento. Fin dalle
prime prove, ha dato all’orchestra le indicazioni abituali, e ha fatto
suonare il solito tipo di musica che faceva sempre.
MURAKAMI Invece di produrre un suono mahleriano, si è servito di
Mahler come di un contenitore nel quale riversare la propria idea
di musica.
OZAWA Motivo per cui non ha mai diretto nient’altro, di Mahler,
tranne la Quarta, la Quinta e la Nona.
MURAKAMI Sono sicuro che ha diretto anche la Sesta. E Il Canto
della Terra.
OZAWA Veramente? Anche la Sesta? Quelle che non ha diretto,
quindi, sono la Prima, la Seconda, la Terza, la Settima e l’Ottava.
MURAKAMI Insomma, ha scelto di registrare le opere − i contenitori
− che meglio si adattavano alla sua musicalità. Forse Karajan non
poteva accettare la parte piú genuina di Mahler, quella
incompatibile con la musica tedesca tradizionale. Quanto a Böhm,
è probabile che provasse la stessa antipatia. Diciamo che in
Germania per dodici lunghi anni − dalla presa del potere dei
nazisti nel ’33 sino alla fine della guerra nel ’45 − la musica di
Mahler è stata soffocata, alla lettera. E questo vuoto ha causato
un forte handicap. Ma non è qualcosa che si possa definire in
modo riduttivo una «cattiva tradizione».
OZAWA Già...
MURAKAMI In conclusione, il terreno dov’è risorto l’interesse per
Mahler non è l’Europa, ma gli Stati Uniti. Il che ha dato un
vantaggio agli interpreti non appartenenti all’area geografica dove
la sua musica è nata. O per lo meno, per loro la musica di
qualcuno come Mahler non presentava ostacoli.
OZAWA Non «qualcuno come Mahler», ma Mahler stesso. Perché
lui è speciale.
MURAKAMI A proposito di «essere speciale», quando ascolto
Mahler, penso sempre che nella sua musica l’inconscio, la
profondità dell’animo umano, svolga un ruolo determinante. Ha
qualcosa di freudiano. Con Bach, Beethoven, Brahms, questo non
succede, la musica è piuttosto filosofica, concettuale, in modo
molto tedesco. A emergere sono la razionalità e la
consapevolezza. In confronto, Mahler sembra portare in superficie
correnti che circolano nell’oscurità dell’inconscio. Vi si trovano
mischiate pulsioni contraddittorie, che si oppongono l’una all’altra,
senza conciliarsi e nemmeno separarsi nettamente, come nei
sogni. La sua musica è piena di motivi cosí, intrecciati l’uno
all’altro senza un confine netto. Onirica. Non so se lo faccia
intenzionalmente o no, ma per lo meno è sincero e onesto.
OZAWA Mahler e Freud hanno vissuto piú o meno nella stessa
epoca, vero?
MURAKAMI Sí. Erano tutti e due ebrei, e sono nati in luoghi molti
vicini, mi sembra. Freud era un po’ piú vecchio, e Mahler lo
consultò quando sua moglie Alma ebbe un legame
extraconiugale. Si dice che Freud avesse un grande rispetto per
lui. La sincera ricerca delle fonti dell’inconscio, da parte di Mahler,
può anche irritarci, ma forse è proprio quello che al giorno d’oggi
rende la sua musica cosí universale.
OZAWA In questo senso, Mahler si è ribellato contro la corrente
dominante, molto forte, della musica tedesca, quella che va da
Bach a Haydn, Mozart, Beethoven e Brahms. Prima che
nascesse la musica dodecafonica, cioè.
MURAKAMI A pensarci bene, la musica dodecafonica è molto
logica. Come lo è Il clavicembalo ben temperato di Bach.
OZAWA È vero.
MURAKAMI Della dodecafonia non resta quasi nulla, si è divisa in
diverse correnti, ma conteneva un elemento che ha influito sulla
musica venuta dopo, non trova?
OZAWA Sí, certo.
MURAKAMI Però non ha avuto lo stesso influsso di Mahler, sulle
generazioni seguenti.
OZAWA Non lo ha avuto.
MURAKAMI Perché Mahler era davvero unico.

OZAWA SEIJI DIRIGE LA BOSTON SYMPHONY


ORCHESTRA NEL «TITANO»

MURAKAMI Adesso mi piacerebbe ascoltare con lei questo stesso


terzo movimento della Prima sinfonia, nella versione che ha
registrato nel 1987 con la Boston Symphony.
Dopo l’«assolo» del contrabbasso, la marcia funebre prosegue
con l’«assolo» dell’oboe.
MURAKAMI Il suono di quest’oboe è talmente diverso da quello
della Saitō Kinen che abbiamo appena ascoltato! È stupefacente.
OZAWA Sí, perché l’oboista della Boston Symphony non suona
«alla Miyamoto» (ride). È molto piú dolce.
Non è solo il suono dell’oboe ad essere piú dolce, ma quello di
tutta l’orchestra, in confronto alla Saitō Kinen.
OZAWA Anche questa parte è molto dolce.
MURAKAMI Un suono omogeneo, di altissima qualità.
OZAWA Sí, ma potrebbe avere un po’ piú di sapore.
MURAKAMI Be’, a me pare espressivo, sembra cantare.
OZAWA Però manca di determinazione. E anche di una certa
atmosfera rurale...
MURAKAMI Vuole dire che è troppo preciso, ordinato?
OZAWA La Boston Symphony ha tendenza a rendere il suono
troppo «bello», è un suo vizio.
MURAKAMI Prima ha parlato di «mettere in evidenza tutti i dettagli».
È a questa sua concezione che si ispira la Saitō Kinen Orchestra?
OZAWA Sí, è cosí. I musicisti, dal primo all’ultimo, lo fanno
consapevolmente. Invece i musicisti della Boston si preoccupano
piuttosto del suono globale dell’orchestra.
MURAKAMI Ascoltandoli, capisco cosa vuole dire. È un lavoro di
squadra di ottima qualità, di ottimo livello.
OZAWA Sí, e nessuno cerca di distinguersi dall’insieme. Ma non è
necessariamente il miglior modo di suonare Mahler. Sono due
approcci diversi, è difficile trovare il giusto equilibrio.
MURAKAMI Ed è per questo, forse, che trovo molto interessante,
addirittura eccitante, ascoltare Mahler quando è suonato da
orchestre non permanenti, come la Saitō Kinen, la Mahler
Chamber Orchestra di Abbado o la Lucerne Festival Orchestra.
OZAWA Il fatto è che queste orchestre osano piú delle altre.
Ognuno vuole far valere se stesso. Prenda i musicisti della Saitō
Kinen: quando suonano insieme, tutti vogliono mostrare il loro
talento musicale. Far capire quanto sono bravi.
MURAKAMI Quindi, ognuno per sé.
OZAWA Cosa che presenta lati positivi e lati negativi, naturalmente.
Con Mahler, però, funziona.
MURAKAMI Immagino che arrivino molto determinati: «Bene,
quest’anno si fa la Nona di Mahler!» Decisi a dare il meglio di sé.
OZAWA Esatto. E hanno tutto ben chiaro in testa. La maggior parte
di loro ha già studiato a fondo lo spartito.
MURAKAMI Mentre per un’orchestra regolare, un’orchestra che
cambi programma ogni settimana, è molto diverso.
OZAWA Sí, le performance della Saitō Kinen sono sempre molto
spontanee, fresche. In compenso, forse mancano della coesione
delle orchestre regolari, i cui musicisti formano un unico corpo e
hanno fra loro... hanno una specie di telepatia.
MURAKAMI In conclusione, l’orchestra riesce a trovare un relativo
accordo, mettendo insieme tanti elementi diversi.
OZAWA Proprio cosí. Quel genere di problemi molto spesso si
risolvono lasciando i musicisti liberi di suonare. Soprattutto con
gente di talento. Un bravo musicista ha mille risorse. Guarderà il
direttore d’orchestra, penserà: «Ah, ecco, vuole fare in questo
modo», e tirerà fuori la cosa giusta: «D’accordo, ecco qua!»
Naturalmente è qualcosa che a un giovane musicista potrebbe
non riuscire molto bene.
MURAKAMI Ci sono orchestre piú adatte di altre a suonare Mahler?
OZAWA Credo di sí. Molte, ovunque nel mondo, non hanno
semplicemente il livello tecnico sufficiente, perché non tutti i loro
musicisti sono bravi. Comunque le orchestre in grado di suonare
tutto − Mahler, Stravinskij, Beethoven... − a poco a poco sono
aumentate. Un tempo non era cosí. Quando Bernstein ha iniziato
a dirigere Mahler, negli anni Sessanta, erano in tanti a stupirsi:
«Veramente, interpreta Mahler? Be’, buona fortuna!»
MURAKAMI Si riferivano alla difficoltà tecnica?
OZAWA Certo. Prenda gli archi, ad esempio. Mahler li spinge al
limite della loro capacità. Perché componeva le sue opere
pensando al futuro, le scriveva in un’epoca in cui le orchestre non
avevano la qualità attuale. Era un po’ come se lanciasse una sfida
alle orchestre. Come se volesse dire: «Allora, siete in grado di
suonare questo?» Quindi tutti si sentivano messi alla prova, e si
impegnavano al massimo. Al giorno d’oggi, invece, un’orchestra
di professionisti le risponderà: «Mahler? Certo che siamo in grado
di suonarlo».
MURAKAMI In confronto agli anni Sessanta, il livello tecnico è
dunque tanto migliorato?
OZAWA Sí. In cinquant’anni si sono fatti progressi enormi. Dal
punto di vista tecnico.
MURAKAMI Ma a parte la tecnica, i musicisti studiano attentamente
gli spartiti? Fanno lo sforzo necessario?
OZAWA Penso di sí. Prenda me, ad esempio. La mia tecnica ha
fatto un salto di qualità dagli anni Sessanta, dopo che ho iniziato a
studiare Mahler.
MURAKAMI Quindi, per lei, era diverso studiare uno spartito di
Mahler rispetto a quello di un altro compositore?
OZAWA Sí, certo.

LA MUSICA DI MAHLER SI PUÒ DEFINIRE D’AVANGUARDIA?

MURAKAMI Che differenza c’è, ad esempio, tra leggere uno spartito


di Strauss e uno spartito di Mahler?
OZAWA So che rischio di semplificare molto, ma se seguiamo lo
sviluppo che ha compiuto la musica tedesca da Bach a
Beethoven, a Wagner, a Bruckner, a Brahms, possiamo
considerare Richard Strauss come il suo prolungamento.
Naturalmente vi ha inserito molti elementi nuovi, ma è comunque
sulla stessa linea. Mahler invece no, occorre considerarlo da un
punto di vista molto diverso. In questo consiste la sua importanza.
Nessuno dei compositori della sua epoca ha fatto la stessa cosa,
né Schönberg né Berg.
MURAKAMI Come ha appena detto, ha aperto prospettive differenti
dalla dodecafonia.
OZAWA Gli ingredienti erano quelli di Beethoven o Bruckner, ma li
usava in modo diverso, per creare musica del tutto diversa.
MURAKAMI Combatteva le sue battaglie preservando la tonalità?
OZAWA Certo. Al tempo stesso guardava verso la musica atonale.
Chiaramente.
MURAKAMI Si può dire che a forza di spingere la tonalità al limite
estremo del possibile, finiva col perderne il senso complessivo?
OZAWA Sí. Ha portato una specie di dimensione multipla.
MURAKAMI Quando cambia tonalità piú volte all’interno dello stesso
movimento, ad esempio?
OZAWA Esatto. Cambia tutti i momenti. E gli capita di usare due
tonalità contemporaneamente.
MURAKAMI Non elimina la tonalità, la scompiglia dall’interno. La
sconvolge completamente. In questo senso, diceva che va verso
la musica atonale? Forse però, quello che voleva ottenere non
era l’atonalità dodecafonica.
OZAWA No, infatti, lo credo anch’io. Forse, riferendosi a Mahler,
sarebbe piú corretto parlare di politonalità, piuttosto che di
atonalità. La politonalità precede immediatamente l’atonalità. Vi
sono presenti simultaneamente piú tonalità. Oppure la tonalità
cambia di continuo col fluire della musica. In ogni caso, l’atonalità
che cercava Mahler era di una forma diversa dalla serie
dodecafonica messa a punto da Schönberg e Berg. La politonalità
è stata approfondita in seguito da compositori come Charles Ives.
MURAKAMI Crede che Mahler fosse consapevole di essere un
musicista d’avanguardia?
OZAWA No, non credo.
MURAKAMI Invece Schönberg e Berg sí.
OZAWA Pienamente. Avevano un «metodo». Mentre Mahler non
ne aveva.
MURAKAMI Insomma, l’attrazione di Mahler per il disordine non era
frutto di una metodologia, ma un risultato naturale, istintivo... È
questo che vuole dire?
OZAWA Sí, e non era un genio proprio per questo?
MURAKAMI Anche nel jazz c’è stato questo tipo di movimento.
Negli anni Sessanta, John Coltrane si è avvicinato sempre piú al
free jazz, faceva la sua ricerca musicale muovendosi
fondamentalmente all’interno di quell’armonia molto permissiva
cosiddetta modale. Coltrane è ancora molto ascoltato. Invece il
free jazz ormai non lo sente piú nessuno, tutt’al piú vi si fa
riferimento in nota a un manuale di storia della musica.
OZAWA Ah, veramente c’è stato questo movimento nel jazz? Non
lo sapevo.
MURAKAMI Se ci pensa, però, Mahler non ha avuto successori.
Compositori nella sua linea, cioè.
OZAWA Già, non ne sono emersi.
MURAKAMI Dopo di lui, a comporre sinfonie non sono stati musicisti
tedeschi, ma soprattutto russi, sovietici, come Šostakovič e Prokof
´ev. E le sinfonie di Šostakovič non ricordano quelle di Mahler.
OZAWA Sono completamente d’accordo con lei. La musica di
Šostakovič è molto coerente. Non vi si sente affatto quella follia
che caratterizza Mahler.
MURAKAMI Già, ma forse questo era dovuto a ragioni politiche.
Non poteva permettersi di lasciar trapelare elementi di follia. La
musica di Mahler invece ha qualcosa di profondamente anormale,
schizofrenico.
OZAWA Verissimo. Anche la pittura di Egon Schiele è cosí. Quando
ho scoperto i suoi quadri, ho sentito quanto fosse importante che
lui e Mahler fossero vissuti nello stesso posto alla stessa epoca.
Credo che il mio lungo soggiorno a Vienna mi abbia permesso di
sviluppare un certo fiuto, una comprensione immediata di questo
genere di cose. Essere vissuto in quella città è stata
un’esperienza molto interessante.
MURAKAMI Nella biografia di Mahler, si dice che considerava la sua
posizione di direttore della Wiener Staatsoper la piú prestigiosa
del mondo musicale. Per ottenerla, è arrivato addirittura ad
abbandonare la religione ebraica e convertirsi al cristianesimo. Il
podio della Staatsoper per lui valeva un tale sacrificio.
Pensandoci, però, fino a poco tempo fa quel posto l’occupava lei,
signor Ozawa.
OZAWA Veramente Mahler aveva questa opinione della
Staatsoper? Quanti anni pensa che ne sia stato direttore?
MURAKAMI Piú o meno undici anni, credo.
OZAWA In un periodo cosí lungo, non ha composto nessuna opera,
solo dei Lieder. Mi chiedo perché. Era molto consapevole
dell’unione tra parole e musica.
MURAKAMI Sí, è vero. Che peccato. Ma visto il genere di persona
che era, forse avrebbe avuto difficoltà a scegliere un libretto.
La Boston Symphony continua a suonare.
MURAKAMI Ascoltandoli, mi dico che la qualità della Boston
Symphony è incontestabilmente altissima.
OZAWA Per forza è alta, ho passato anni a sforzarmi di farne
un’orchestra di primo livello! La Boston Symphony, la Cleveland
Orchestra... sono musicisti di un livello tecnico incredibile.
Gli archi suonano eleganti il canto della melodia «bucolica».
MURAKAMI La Saitō Kinen sarebbe capace di fare altrettanto?
OZAWA Mah... non saprei.
MURAKAMI Adesso il suono è di nuovo cambiato.
OZAWA Tutto dipende dalle aspettative di chi ascolta.
Un’interpretazione bellissima, perfetta dall’inizio alla fine, oppure
un’interpretazione con un senso del pericolo. Con Mahler questo
genere di dilemma si presenta spesso. Soprattutto in questo
movimento.
Ozawa si concentra nella lettura dello spartito.
OZAWA Quest’opera è stata rappresentata per la prima volta a
Budapest.
MURAKAMI Sí, e ha avuto un’accoglienza molto sfavorevole.
OZAWA Be’, suppongo che l’interpretazione non fosse delle
migliori.
MURAKAMI Magari l’orchestra non capiva bene cosa le si
chiedesse, come dovesse suonare.
OZAWA Sa che la prima della Sagra della primavera di Stravinskij,
a Parigi, fu un fiasco? Forse non era piaciuta l’opera in sé, ma
credo che il motivo principale fosse un altro, l’orchestra non aveva
potuto prepararsi adeguatamente. Perché è un’opera piena di
passaggi acrobatici. Avrei voluto chiederlo a Pierre Monteux, per
un periodo siamo stati molto amici.
MURAKAMI Era lui, vero, a dirigere quella prima della Sagra?
Il disco arriva al passaggio in cui gli archi si urtano e si mescolano
con i fiati, producendo un suono che ricorda gli strati di un sogno
confuso.
OZAWA Questa parte è un po’ folle, non trova?
MURAKAMI Sí, ha qualcosa di delirante.
OZAWA La Boston Symphony, però, è in grado di conciliare tutto
questo nel modo piú coerente.
MURAKAMI Si direbbe che sia nel dna dell’orchestra, mettere
ordine nella confusione e colmare le lacune.
OZAWA I musicisti si ascoltano gli uni con gli altri, e armonizzare i
rispettivi suoni viene loro naturale. È una delle loro qualità piú
straordinarie.
MURAKAMI Credo che sia importante, per l’orchestra, riuscire a
cogliere l’analogia tra le dissociazioni presenti nella musica di
Mahler e quelle inerenti alla realtà in cui viviamo. Se lei dovesse
dirigere questa stessa opera oggi, con la Boston Symphony, lo
farebbe in modo diverso? Il suono sarebbe diverso?
OZAWA Sí, certo che sarebbe diverso. Sono cambiato anch’io...
Fine del terzo movimento suonato dalla Boston Symphony
Orchestra.
MURAKAMI Sa, trovo che l’atmosfera di questa interpretazione
evochi un giro tranquillo su una magnifica Mercedes con tanto di
autista.
OZAWA Ah, ah, ah!
MURAKAMI In confronto, con la Saitō Kinen si ha l’impressione di
percorrere una strada tutta tornanti su una macchina sportiva,
cambiando marcia tutti i momenti.
OZAWA Sí, messa in questo modo, sono d’accordo: la Boston
Symphony è un’orchestra che dà un senso di stabilità.

OZAWA SEIJI CONTINUA A EVOLVERSI

OZAWA Parlando cosí con lei di musica, mi sono reso conto di


quanto anch’io sia cambiato, con gli anni. Vede, di recente ho
diretto una serie di concerti con la Saitō Kinen Orchestra alla
Carnegie Hall: la Prima di Brahms, la Fantastica di Berlioz e il War
Requiem di Britten. Be’, è stata un’esperienza che mi ha
trasformato.
MURAKAMI Credo che ancora adesso lei continui a evolversi.
OZAWA Sí, si evolve sempre, anche alla mia età. Grazie
all’esperienza pratica. Forse è una delle caratteristiche del mio
mestiere, il cambiamento si verifica mentre si lavora. Noi direttori
d’orchestra dobbiamo tirar fuori dei suoni da un gruppo di
musicisti, quello è il punto di partenza. Leggiamo uno spartito e
immaginiamo un suono nella nostra mente, poi, insieme ai
membri dell’orchestra, lo trasformiamo in suono reale. E da lí
nascono tante cose. Le relazioni interpersonali, l’importanza che
si dà a certi aspetti della musica... c’è da tener conto di tutto. Ci
sono volte in cui, leggendo la musica, ci si concentra su lunghi
passaggi, altre in cui ci si intestardisce invece su poche battute.
Inoltre bisogna definire delle priorità fra le diverse cose da fare.
Attraverso tutte queste esperienze, noi direttori cambiamo.
Prenda me: mi sono ammalato, sono stato ricoverato, sono
rimasto a lungo lontano dal podio, ma adesso sono stato a New
York e ho dato una serie di concerti, uno dopo l’altro. Quando
sono tornato in Giappone, era Capodanno, e non avendo altro da
fare, ho ascoltato e riascoltato vecchie registrazioni con la Saitō
Kinen. Be’, mi hanno fatto capire molte cose.
MURAKAMI Ad esempio?
OZAWA Non avevo mai ascoltato con tanta concentrazione dei
concerti diretti da me.
MURAKAMI È la prima volta che lo fa in vita sua? Non ascolta mai
con attenzione le registrazioni?
OZAWA No. Di solito, quando un disco è pronto, sto già preparando
qualcos’altro. Naturalmente il disco l’ascolto, prima che esca, ma
non riesco mai a concentrarmi piú di tanto perché spesso la sera
stessa devo dirigere qualcos’altro. Questa volta però non avevo
nulla in programma, e ho potuto ascoltare le registrazioni col
suono dei concerti ancora nelle orecchie. Mi è stato utilissimo.
MURAKAMI Che cosa ha imparato, in pratica?
OZAWA Be’, è stato un po’ come guardarmi allo specchio. Vedevo i
minimi dettagli con una chiarezza spaventosa. Questo era
possibile perché avevo ancora nella mente, o profondamente
dentro di me, il suono vivo della musica.
MURAKAMI Quindi, una volta passato a un’altra opera, ha solo
quella in testa e non riesce piú a farsi assorbire dalla musica che
si è lasciato alle spalle. Anche se si sforza di ascoltarla...
OZAWA Esatto. Noi direttori passiamo di continuo da un’opera
all’altra. Lavoriamo con orchestre diverse, e spesso, nei casi
peggiori, siamo obbligati a fare lunghe prove estenuanti. Questa è
la nostra vita. Ascoltare una registrazione in una pausa tra due
prove è molto diverso dal farlo quando si ha tutto il tempo a
disposizione e il concerto ancora in mente. Non si riesce a
immergersi nella musica allo stesso modo.
MURAKAMI Vuole dire che le capita di riconsiderare, di ammettere:
«Ecco, qui ho sbagliato, avrei dovuto fare diversamente»?
OZAWA I ripensamenti ci sono. È ovvio. Succede anche però di
dirsi: «Be’, qui siamo andati bene», oppure: «Qui gli strumenti
suonavano con una coesione perfetta».
MURAKAMI E cosa mi dice degli ultimi concerti con la Saitō Kinen?
In cosa l’orchestra le è sembrata migliore?
OZAWA Ecco... in parole semplici, la musica ha piú profondità che
in passato. L’ho percepito molto intensamente. O diciamo che le
caratteristiche di ogni sezione si sono accentuate, hanno nuove
potenzialità. E quando questo si verifica, tutti i musicisti
desiderano dare il meglio di sé, perché sono dei professionisti
straordinari. Col risultato che l’interpretazione, nel suo complesso,
diventa piú profonda.
MURAKAMI Quindi, se ho capito bene, i concerti alla Carnegie Hall
sono stati diversi da quelli precedenti?
OZAWA Sí, lo posso affermare. C’erano diverse restrizioni:
avevamo poco tempo, io ero ancora convalescente, e come se
non bastasse mi ero anche preso un’influenza. Eppure abbiamo
offerto un’interpretazione potente. Sono cose che normalmente
non succedono. Che meraviglia quella sinfonia di Brahms, e
quella di Berlioz! E tutti − i musicisti, i solisti, il coro − hanno
messo l’anima nel War Requiem, una cosa fantastica!
MURAKAMI L’interpretazione del War Requiem di Britten che ho
sentito a Matsumoto era stupenda, un prodigio.
OZAWA Be’, alla Carnegie Hall era ancora migliore. Abbiamo
portato tutto il coro, anche quello dei bambini, ed è stato ancora
piú emozionante. Sa, il Giappone possiede brass band e cori tra i
migliori al mondo, e quel concerto ha dato al pubblico un’idea del
loro livello. L’orchestra comprendeva perfettamente l’opera senza
lasciarne trasparire la difficoltà, nonostante sia tanto complessa.
Mentre io sul podio, in preda alla febbre, dirigevo come
trasognato, senza quasi capire cosa stessi facendo. Continuavo a
tossire, per le persone piú vicine dev’essere stato terribile! (ride)
Ma sa, quando l’orchestra ce la mette tutta, anima e corpo, il
direttore non deve fare molto. Basta che diriga il traffico, senza
ostruire il flusso musicale. A volte capita. Sia in concerto che
all’opera. In quei casi, il direttore non ha bisogno di far schioccare
la frusta. Deve solo mantenere lo slancio. Quella sera, tutti i
musicisti sapevano che io ero malato, e tutti volevano impegnarsi
al massimo per aiutarmi. È stato quello a salvarmi.
MURAKAMI Ma lei aveva la polmonite! E ha tenuto duro per ottanta
minuti!
OZAWA Di sicuro avevo la febbre alta, ma per scaramanzia non
volevo misurarla (ride). Però non avrei potuto dirigere tutto di fila,
ho dovuto fare una pausa a metà.
MURAKAMI Lo spartito dell’opera ne prevede?
OZAWA No, sono io che ho chiesto di introdurne una. Mi era già
capitato una volta, ne ho un vago ricordo. Vede? C’è ancora
scritto «pausa» sul mio spartito. Ma non so bene quando è stato.
Può darsi che fosse a Tanglewood. L’opera era molto lunga, la
suonavamo all’aperto, c’era anche chi doveva andare alla toilette,
insomma, questo genere di cose... E poi era estate e faceva
molto caldo.
MURAKAMI Per il momento, delle opere che ha diretto alla
Carnegie Hall, ho ascoltato solo una registrazione di Brahms, e
devo dire che ho trovato l’interpretazione molto serrata.
OZAWA Mmh, forse perché c’era una bella tensione, dietro. Sa, mi
ha fatto tornare in mente dei bei ricordi!
MURAKAMI Tutt’a un tratto mi è venuto in mente che nella sua
lunga carriera, signor Ozawa, non ha mai registrato Il Canto della
Terra.
OZAWA È vero.
MURAKAMI Non è strano? Posso chiederle perché? Della Prima
sinfonia ha fatto tre incisioni...
OZAWA Mah, non saprei neanch’io... Forse è dovuto solo al fatto
che non ho mai avuto sotto mano due cantanti veramente bravi.
Per quell’opera, ci vogliono un tenore e un contralto. O un mezzo
soprano. A volte sono due uomini a cantare. In concerto, l’ho fatta
con Jessye Norman.
MURAKAMI Ho sempre pensato che un direttore asiatico fosse
particolarmente adatto a dare un carattere speciale al Canto della
Terra, fra tutte le opere di Mahler.
OZAWA Ha perfettamente ragione. Per inciso, una volta, molti anni
fa, dirigendo Il Canto della Terra mi sono rotto un dito. Questo,
guardi! (mi mostra il dito mignolo)
MURAKAMI Può succedere di rompersi un dito, dirigendo
un’orchestra?
OZAWA Allora... Be’, lei conosce Ben Heppner, il tenore canadese,
vero? È uno grande e grosso e cantava giusto di fianco a me, da
questa parte (mostra la destra). Jessye Norman invece stava da
questa (a sinistra). Avevamo provato per due giorni, e Ben per
tutto il tempo non aveva mai mollato lo spartito. Ma la sera del
concerto ha dichiarato che aveva bisogno di avere le mani libere
e ha chiesto che gli portassero un leggio. E questo di solito è
pericoloso. Non fare in concerto quello che si era stabilito durante
le prove. Dato che Ben è un uomo imponente, sapevo che il
leggio sarebbe stato molto alto, e se fosse caduto sul pubblico
avrebbe potuto ferire qualcuno. Sarebbe stato un bel disastro.
Comunque, al posto di un leggio normale, abbiamo fatto portare
una specie di pulpito. Sa, quelle tribune che usano i preti per fare
la predica. Io però avevo un brutto presentimento. Infatti a un
certo punto, come c’era da aspettarsi, in un passaggio forte ho
fatto un brusco movimento col braccio e il mio dito mignolo si è
trovato incastrato sotto quel pulpito, si è spezzato di netto.
MURAKAMI Chissà che male!
OZAWA Non se lo può nemmeno immaginare! Malgrado il dolore
ho continuato a dirigere per mezz’ora o poco piú, sono riuscito ad
arrivare alla fine del concerto, ma a quel punto il mio dito era
talmente gonfio che mi sono dovuto precipitare all’ospedale. Lí mi
hanno operato...
MURAKAMI Be’, è rischioso il mestiere di direttore d’orchestra! Il
pericolo si nasconde dove uno meno se l’aspetta (Ozawa
ridacchia). In ogni caso, è un peccato che lei non abbia mai
registrato Il Canto della Terra. Mi piacerebbe tanto ascoltarne
l’interpretazione piú recente di Ozawa Seiji, il Maestro che si
evolve di continuo!

1. Il klezmer è il genere musicale tradizionale delle comunità ebraiche


dell’Europa orientale.
Quarto interludio
Dal blues a Mori Shinichi
MURAKAMI A parte la musica classica, ascolta altro?
OZAWA Mi piace molto il jazz. Anche il blues. Al Ravinia Festival di
Chicago, andavo ad ascoltare musica blues tre o quattro volte alla
settimana. In realtà avrei dovuto studiare i miei spartiti, andare a
letto presto e alzarmi all’alba, ma avevo voglia di ascoltare del
blues e passavo un sacco di tempo nei club. All’inizio facevo la
fila, poi i buttafuori, a forza di vedermi lí, mi riconoscevano e mi
facevano passare prima degli altri.
MURAKAMI I club di blues, a Chicago, non si trovano certo nei
quartieri «in».
OZAWA È vero, sono in zone malfamate. Ma non ricordo che mi sia
mai successo qualcosa di brutto, o di aver avuto paura. Pare che
tutti sapessero che dirigevo dei concerti al Ravinia Festival. Ci
andavo in macchina, da solo, mezz’ora fra andata e ritorno.
Ascoltavo tutto il blues che volevo, e tornavo a casa,
nell’appartamento che affittavo a Ravinia. Sí, guidavo in stato di
ebbrezza! (ride) A Chicago lavoravo molto con Peter Serkin, e
quando voleva venire anche lui, lo portavo con me. Ma all’epoca
non era maggiorenne e nei club non lo lasciavano entrare. In
America sono inflessibili, su queste cose. Se non mostri la carta
d’identità, non entri. Quindi lui restava fuori, vicino alla finestra,
tendendo spasmodicamente l’orecchio alla musica che io,
all’interno del locale, potevo godermi in santa pace.
MURAKAMI Ma povero!
OZAWA È successo un sacco di volte.
MURAKAMI Il blues di Chicago è quello che suonano i neri, vero?
Una musica molto profonda.
OZAWA Sí. Ma c’era anche Corky Siegel, che era bianco. Solo lui,
tutti i suoi compagni erano neri. Piú tardi ho registrato un disco
con lui. Comunque, il blues di Chicago, a quell’epoca, era
straordinario! Di un’intensità incredibile. C’erano molti bravi
musicisti e ogni sorta di band. Per me è stata un’esperienza
bellissima.
MURAKAMI Anche gli spettatori dovevano essere per lo piú neri,
vero?
OZAWA Infatti. Pure i Beatles sono venuti a Chicago per un
concerto. Ci sono andato, qualcuno mi aveva dato un biglietto. E
avevo un posto magnifico, ma non ho sentito quasi niente. Il
concerto aveva luogo in una sala, e le grida del pubblico
coprivano ogni altro suono. Quindi i Beatles li ho soltanto visti.
MURAKAMI Peccato, non aveva molto senso.
OZAWA Non ne aveva affatto. Perciò non mi hanno impressionato
piú di tanto. All’inizio, quando sul palco c’era un altro gruppo, mi
sono divertito, ma non appena sono apparsi i Beatles non si
sentiva piú niente.
MURAKAMI Frequentava dei jazz club?
OZAWA Non proprio. Ma a New York, quando ero assistente alla
New York Philharmonic, c’era un violinista nero. Solo lui, tutti gli
altri nell’orchestra erano bianchi. Aveva sentito dire che mi
piaceva il jazz, e mi ha portato un sacco di volte in un jazz club di
Harlem. Era un posto dove potevano entrare solo i neri. La
segretaria di Bernstein, Helen Coates, che si comportava come
fosse la mia mamma americana, mi diceva sempre: «Seiji, non ci
devi andare, è pericoloso!» Invece era un locale molto simpatico.
All’interno l’odore era molto forte, ma avevo l’impressione che per
gustare veramente quella musica, quell’odore fosse necessario.
MURAKAMI L’odore di soul food che arrivava dalle cucine. Di sicuro
non aleggia nei jazz club di Midtown.
OZAWA Inoltre abbiamo invitato al Ravinia Festival Louis
Armstrong − che tutti chiamavano Satchmo − e Ella Fitzgerald.
Sono stato io a insistere. Perché adoravo Satchmo. Fino ad
allora, il Ravinia Festival ospitava esclusivamente musica bianca.
Era la prima volta che dei musicisti jazz comparivano su quel
palcoscenico. È stato un concerto magnifico. Ero talmente
eccitato che sono andato a trovarli nei loro camerini. Ci siamo
molto divertiti. Lo stile di Satchmo era indescrivibile. Ha presente
il concetto di shibumi, nell’arte giapponese? Sobrio ma ricco di
espressione? Be’, ci andava molto vicino. All’epoca era già avanti
negli anni, ma la sua voce e la sua tromba erano sublimi.
MURAKAMI Però... come dire? Ho l’impressione che conoscere il
blues l’abbia segnata di piú.
OZAWA È vero. Quando ero a New York non sapevo nulla del
blues. La prima volta che ho ricevuto un compenso consono, è
stato quando ho iniziato a lavorare a Ravinia. Finalmente
potevamo fare pasti adeguati, permetterci di andare al ristorante e
vivere in una casa come si deve. Per caso, ho incontrato il blues
in un periodo della mia vita in cui avevo i mezzi per offrirmi certe
cose. Penso che questo abbia avuto una grande importanza.
Prima, non potevo permettermi di spendere per andare in un club
o a un concerto. A proposito, a Chicago suonano ancora il blues?
MURAKAMI Naturalmente! Non conosco la situazione in dettaglio,
ma penso che sia ancora in piena effervescenza. Comunque,
l’epoca d’oro del blues di Chicago è stata l’inizio degli anni
Sessanta. Al tempo, ha avuto una forte influenza anche sui
Rolling Stones.
OZAWA Secondo me, c’erano tre ottimi club di blues, in città. Tutti
nello stesso quartiere. Ogni due o tre giorni arrivava una nuova
band, e io ci passavo tutto il mio tempo libero.
MURAKAMI Mi viene in mente che siamo andati due volte insieme
in un jazz club di Tōkyō.
OZAWA È vero.
MURAKAMI La prima volta abbiamo ascoltato Onishi Junko al
piano, la seconda Cedar Walton.
OZAWA Sí, è stato molto bello. Sono contento che ci siano posti
cosí anche in Giappone.
MURAKAMI Sono un fan di Onishi Junko. Di recente, la qualità dei
giovani jazzisti giapponesi, Onishi inclusa, è altissima. Ben
superiore a una ventina di anni fa.
OZAWA Cosí pare. Ma ora che mi ci fa pensare, ho avuto anche
l’occasione di ascoltare Akiyoshi Toshiko a New York, verso la fine
degli anni Sessanta. Aveva molto talento.
MURAKAMI Sí, un tocco molto chiaro, preciso. Determinato.
OZAWA Come quello di un uomo.
MURAKAMI È nata in Manciuria, come lei. Ma credo che abbia
qualche anno in piú.
OZAWA Suona ancora?
MURAKAMI Credo proprio di sí. Per molto tempo era alla testa di
una big band.
OZAWA Una big band? Che brava! Un poco piú tardi, quando ero a
Boston, ascoltavo Mori Shinichi e Fuji Keiko.
MURAKAMI Veramente? Ascoltava musica enka 1?
OZAWA Erano bravissimi.
MURAKAMI La figlia di Fuji Keiko è una cantante di successo.
OZAWA Oh, davvero?
MURAKAMI Sí. Si chiama Utada Hikaru.
OZAWA Non è che canta in inglese, per caso? Una donna dai tratti
del viso un po’ forti?
MURAKAMI Sí, può darsi che canti in inglese. Quanto ai suoi tratti...
be’, non direi che sono forti, non mi pare.
OZAWA Mmh.
MURAKAMI (voltandomi verso la mia assistente che sta passando)
Ti sembra che Utada Hikaru abbia un viso dai tratti forti?
ASSISTENTE No... non particolarmente.
MURAKAMI Vede?
OZAWA Be’, ora non saprei dire. L’ho sentita una volta, mi è
sembrata molto brava.
MURAKAMI Quando ero studente, lavoravo in un piccolo negozio di
dischi, e un giorno è entrata Fuji Keiko. Piccolina, vestita molto
semplicemente, passava del tutto inosservata. Si è presentata e
ci ha ringraziato di vendere i suoi dischi, sorridendo. Ha fatto un
breve inchino con la testa, ed è uscita. Ricordo di essere rimasto
a bocca aperta − una star della sua fama che faceva lo sforzo di
fare il giro dei negozi, anche un negozietto come il nostro! Doveva
essere intorno al 1970.
OZAWA Sí, sí, era proprio a quell’epoca che io ascoltavo Minato-
machi burusu («Blues del porto») di Mori Shinichi, Yume wa yoru
hiraku («I sogni si aprono di notte») e roba del genere. Avevo la
cassetta e la mettevo ogni volta che andavo in macchina da
Boston a Tanglewood. In quel periodo vivevo solo − Vera era
tornata in Giappone con i bambini −, e sentivo una gran nostalgia
di casa. Per passare il tempo ascoltavo spesso anche del rakugo.
Gente come Shinsho, ad esempio.
MURAKAMI Quando si vive a lungo all’estero, si sente il bisogno di
ascoltare la lingua giapponese, non trova?
OZAWA Una volta, Yamamoto Naozumi mi ha invitato a partecipare
al suo programma televisivo Ōkesutora ga yatte kita («L’orchestra
è qui»)! Io gli ho risposto: «Accetto, se con me viene anche Mori
Shinichi», e lui è venuto. Ha cantato una canzone mentre io
dirigevo l’orchestra. Una canzone sola, e credo che il risultato non
sia stato dei migliori. Tanto che mi sono beccato critiche da uno
scrittore famoso. Me ne ha dette di tutti i colori.
MURAKAMI Cos’era che non gli piaceva?
OZAWA Mi ha detto che capire la musica classica, non significava
necessariamente capire l’enka.
MURAKAMI Ah.
OZAWA Ovviamente non gli ho neanche risposto, ma saprei come
smontare questo tipo di critiche. Tutti sostengono che l’enka è un
genere di musica tipicamente giapponese, che solo i giapponesi
possono cantare e comprendere canzoni enka. Io però non sono
d’accordo. L’enka deriva dalla musica occidentale, lo si può
spiegare usando il pentagramma della musica occidentale.
MURAKAMI Ah.
OZAWA Il kobushi, l’ornato vocale dell’enka, nelle indicazioni degli
spartiti potrebbe diventare un vibrato.
MURAKAMI Quindi chiunque, qualunque cantante, può cantare
musica enka, se è trascritta correttamente su uno spartito? Anche
se non l’ha mai sentita in vita sua?
OZAWA Sí, esatto.
MURAKAMI È una confutazione molto originale. In termini di teoria
musicale, anche l’enka meriterebbe di diventare una forma
universale. Perché no?

1. Il termine enka si riferisce a un tipo di musica popolare che unisce la scala


pentatonica giapponese alle armonie occidentali. Nata nel diciannovesimo
secolo per esprimere dissenso politico, ha perso questa caratteristica per
concentrarsi su temi quali le pene d’amore, il rimpianto del passato, la
solitudine.
Quinta conversazione
Le gioie dell’opera
Questa conversazione ha avuto luogo a Honolulu, dove per
combinazione ci trovavamo tutti e due, il 29 marzo 2011. Solo
diciotto giorni dopo che la regione del Tōhoku era stata devastata
da un terremoto e dal conseguente tsunami. In quel periodo mi
trovavo alle Hawaii per lavorare. Visto che tornare in Giappone
era impossibile, passavo il mio tempo davanti allo schermo del
televisore, a seguire lo sviluppo della situazione sulla Cnn. Le
notizie erano terribili, una peggiore dell’altra. In quelle circostanze,
parlare delle gioie dell’opera mi sembrava del tutto fuori luogo. Ma
ero riuscito a trovare un momento libero nella fittissima agenda
del Maestro Ozawa, e non sapendo quando si sarebbe
ripresentata un’occasione cosí bella di avere con lui un vero
scambio di idee, non potevo perderla. Di conseguenza, mentre
parlavamo di opera lirica, ci interrompevamo tutti i momenti per
chiederci cosa sarebbe successo ora, dopo l’incidente nucleare,
dove sarebbe andato a finire il Giappone...

IN REALTÀ, NESSUNO ERA PIÚ LONTANO DI ME


DALL’OPERA LIRICA

OZAWA La prima volta che ho diretto un’opera lirica, è stato a


Toronto, dopo essere diventato direttore della Symphony
Orchestra nel ’65. Era una versione da concerto del Rigoletto,
quindi senza messa in scena. Io ero felicissimo di avere
finalmente un’orchestra mia. Appagato, direi. Potevo suonare
Mahler, Bruckner... quello che volevo. Persino l’opera lirica.
MURAKAMI Dirigere un’orchestra in un’opera lirica dev’essere
diverso da dirigerla in un normale concerto, immagino. Lei aveva
fatto degli studi specifici, per prepararsi?
OZAWA Il Maestro Karajan insisteva molto per indirizzarmi verso
l’opera, e mi chiese di assisterlo quando fece il Don Giovanni a
Salisburgo, nel ’68. L’avevo talmente studiato, che ero in grado di
suonarlo al piano dall’inizio alla fine. Sempre grazie al Maestro
Karajan, che mi pungolava, un paio di anni dopo ho diretto Cosí
fan tutte. Era la mia prima volta sul podio in un’opera allestita a
teatro.
MURAKAMI E dov’era?
OZAWA Sempre a Salisburgo. Prima, in America, era stato George
Shirley, un ottimo tenore nero che mi apprezzava molto, a
pregarmi: «Dài, Seiji, facciamo un’opera lirica!» Si trattava del
Rigoletto, per l’appunto. È per questo che l’ho diretto a Toronto.
Mi sono divertito moltissimo. Tornato in Giappone, ho di nuovo
fatto il Rigoletto al Tōkyō Bunka Kaikan con la Japan
Philharmonic Orchestra, ma anche quella era una versione da
concerto. A dire la verità, il Rigoletto in versione scenica non l’ho
mai interpretato. Nella primavera del 2013, fra due anni, ho in
programma di dirigerlo alla Seiji Ozawa Music Academy, con la
regia di David Kneuss. Sono piú di trent’anni che lavoro con
David. Ha messo in scena tutte le opere che ho diretto a
Tanglewood.
MURAKAMI Non vedo l’ora di ascoltarla.
OZAWA Insomma, la prima opera che ho diretto in versione
scenica è stata Cosí fan tutte. Il regista era Jean-Pierre Ponnelle.
Un regista straordinario. Purtroppo però diversi anni dopo è
caduto dal palco nella fossa dell’orchestra − un incidente terribile
−, la sua salute ne ha risentito a tal punto che poco dopo è morto.
In realtà Cosí fan tutte avrebbe dovuto dirigerla Karl Böhm, ma in
quel periodo aveva un problema agli occhi, cosí l’ho sostituito io.
Mi pare che avesse subito un’operazione.
MURAKAMI La grande occasione!
OZAWA Sí. Credo che fossero tutti molto preoccupati! (ride) Be’, è
comprensibile, era la prima volta che dirigevo un’opera lirica.
Quella volta sia il Maestro Karajan che Karl Böhm sono venuti a
sentirmi a teatro. Probabilmente si chiedevano se me la sarei
cavata. Avevano anche assistito alle prove. Ora che ci penso,
nello stesso anno Claudio Abbado ha diretto Il barbiere di Siviglia
in quello stesso teatro di Salisburgo. Il suo debutto in quella città.
Anche se aveva già diretto diverse opere liriche in Italia,
naturalmente.
MURAKAMI Abbado è un poco piú vecchio di lei, se non sbaglio.
OZAWA Sí, di un anno o due. È stato assistente di Lenny subito
dopo di me.
MURAKAMI E che accoglienza ha avuto, Cosí fan tutte?
OZAWA Ah, non saprei dirglielo! Poco dopo però i Wiener
Philharmoniker mi hanno invitato sul podio, e anche la Wiener
Staatsoper ha iniziato a chiamarmi ogni tanto. Quindi non devo
essere andato tanto male.
MURAKAMI Le è piaciuto dirigere per la prima volta un’opera lirica
in versione scenica?
OZAWA Certo, mi è piaciuto da morire! E sono stati tutti bravissimi,
a cominciare dal tenore Luigi Alva. Abbiamo lavorato molto bene
insieme, in perfetta armonia. Anche l’anno seguente ho diretto
Cosí fan tutte al festival di Salisburgo. Lí è consuetudine dare la
stessa opera due o tre anni di fila. Poi il festival mi ha chiesto di
dirigere anche Idomeneo. Cosí abbiamo allestito due opere di
Mozart, Cosí fan tutte nel teatro piccolo, il Kleines Festspielhaus,
e Idomeneo nella Felsenreitschule, la sala scavata nella roccia
della montagna. Comunque, l’opera lirica l’ho diretta soprattutto al
Palais Garnier di Parigi e alla Scala di Milano. E alla Wiener
Staatsoper, naturalmente. Sí, questi tre teatri. Mai a Berlino.
MURAKAMI Dunque era direttore della Boston Symphony
Orchestra, e in piú veniva invitato a dirigere opere liriche?
OZAWA Esatto. Ogni tanto, a Boston, prendevo una pausa dal
lavoro e andavo in Europa. Preparare un’opera lirica richiede
almeno un mese. Non potevo assentarmi piú a lungo, di
conseguenza pensare a nuove rappresentazioni era escluso. Ci
sarebbe voluto troppo tempo. Tuttavia ne ho fatta qualcuna a
Parigi. Falstaff e Fidelio. E Turandot, ma non era una produzione
nuova. Piú tardi a Parigi ho anche diretto la Tosca con Domingo.
E la prima mondiale del San Francesco d’Assisi di Messiaen.
MURAKAMI Quindi l’opera lirica, per molti anni, ha avuto un ruolo
importante nel suo repertorio?
OZAWA Vede... a dire la verità, in origine io ero molto lontano dalla
lirica! (ride) Cioè, il professor Saitō non mi aveva insegnato nulla,
al riguardo. Finché sono rimasto in Giappone, non mi ci sono mai
avvicinato. Solo una volta, quando ero studente, ho assistito
Watanabe Akeo nell’Enfant et les sortilèges di Ravel. Nel ‘58,
credo.
MURAKAMI È un’opera corta, vero?
OZAWA Sí, molto corta. Poco piú di un’ora. Ricordo che era una
versione da concerto, senza messa in scena. Qualche volta
sostituivo il Maestro Watanabe durante le prove, perché le sue
funzioni di direttore musicale gli portavano via molto tempo. È
stata la mia prima esperienza nel campo della lirica.
MURAKAMI Dov’è stata rappresentata?
OZAWA Mi lasci pensare... alla Sankei Hall? Il Maestro Watanabe
dirigeva un’opera lirica piú o meno ogni due anni. Dopo che io ho
lasciato il Giappone, ha ancora diretto Pelléas et Mélisande di
Debussy. Sceglieva sempre opere piuttosto rare.
MURAKAMI Dunque è stato con Karajan, che per la prima volta ha
affrontato veramente la lirica...
OZAWA Sí. Il Maestro Karajan mi ha dato consigli preziosi. Mi
diceva: «Il repertorio sinfonico e l’opera lirica per un direttore
d’orchestra sono come le due ruote dello stesso carro. Se ne
manca una, il carro non va avanti. Il repertorio sinfonico è
composto di concerti, poemi sinfonici e via dicendo, ma l’opera è
qualcosa di completamente diverso. Morire senza aver diretto
un’opera, non è come morire senza aver conosciuto Wagner?
Proprio cosí. Ecco perché devi assolutamente studiare, Seiji. Non
è possibile conoscere Puccini o Verdi se ignori le loro opere
liriche. La stessa cosa vale per Mozart, che vi ha speso la metà
delle sue energie». Questo mi diceva. Cosí mi sono convinto che
dovevo dirigere anche la lirica.
MURAKAMI È per questo che ha deciso di fare Rigoletto a Toronto?
OZAWA Sí. Il Maestro Karajan mi ha molto incoraggiato. E quando
ho deciso di lasciare il podio della San Francisco Symphony per
trasferirmi a Boston, il Maestro mi ha suggerito di non farlo subito.
Di prendermi un periodo di congedo e andare a lavorare con lui.
«Ti voglio dare qualche seria lezione sulla direzione di un’opera
lirica», mi ha detto.
MURAKAMI È stato molto gentile.
OZAWA Sí, certo. Sembrava considerarmi uno dei suoi discepoli.
Quell’estate avrei dovuto lasciare il posto di direttore al Ravinia
Festival per passare al Tanglewood Music Festival. Invece ho
pregato la Boston Symphony di aspettare un anno per poter
trascorrere l’estate in Austria a studiare col Maestro Karajan. È
stato quella volta che l’ho assistito nel Don Giovanni, a
Salisburgo. Quanto a lui, non si limitava a dirigere l’orchestra.
Diceva la sua anche sulla messa in scena, sulle luci... su tutto.
MURAKAMI Incredibile!
OZAWA Non dico che abbia scelto anche i costumi, ma si
occupava di ogni sorta di cose, non aveva un attimo di pace. È
per questo che di molte prove mi sono fatto carico io.

LA MIMÍ DI MIRELLA FRENI

OZAWA Quella volta il ruolo del titolo lo interpretava Nicolaj


Ghiaurov, un basso di origine bulgara. Mirella Freni era Zerlina. Li
accompagnavo al piano ogni giorno quando provavano. È stato in
quel periodo che si sono messi insieme e hanno deciso di
sposarsi. Quindi per me erano come la mia famiglia (ride). In
seguito li ho invitati a Tanglewood. Abbiamo fatto il Requiem di
Verdi. Nicolaj Ghiaurov ha anche accettato il mio invito a cantare
nel Boris Godunov di Musorgskij e nell’Evgenij Onegin di
Čajkovskij. Con Mirella Freni nel ruolo di Tatiana, naturalmente.
Per anni abbiamo cenato noi tre insieme dopo la
rappresentazione. Ghiaurov è morto sette anni fa.
MURAKAMI Mirella Freni sapeva cantare in russo?
OZAWA Sí. Ha interpretato spesso La dama di picche. Perché il
repertorio di Ghiaurov comprendeva molte opere russe. Quindi lei,
per potersi spostare con il marito, ha imparato diversi libretti nella
sua lingua. Andavano molto d’accordo e volevano sempre
lavorare insieme, quei due.
MURAKAMI D’altronde l’opera russa è diventata uno dei cavalli di
battaglia della Freni.
OZAWA Se ho potuto dirigere diverse opere liriche, è grazie al fatto
che l’ho incontrata a Salisburgo. Abbiamo lavorato insieme su
cinque o sei opere, ma quella che lei teneva a fare assolutamente
con me, era La Bohème.
MURAKAMI Già, Mimí. Un ruolo che sembrava fatto apposta per lei.
OZAWA Per molti anni mi ha ripetuto: «Dài, Seiji, facciamo La
Bohème insieme». Ma alla fine, non so perché, non è mai
successo. Ah, forse non dovrei rivelare certe cose, ma proprio a
quell’epoca Carlos Kleiber è venuto in tournée in Giappone con
l’orchestra della Scala, davano La Bohème. Quando sono andato
a sentirlo, ho pensato: «Non ci riuscirò mai. È troppo bravo, non
potrò mai superarlo!»
MURAKAMI Era la tournée del 1981, vero? Col tenore Peter
Dvorský.
OZAWA E Mirella Freni nel ruolo di Mimí. Ho poi diretto La Bohème
qualche anno piú tardi, ma Mirella si era già ritirata dalle scene.
Adesso vive a Modena, la sua città natale, e dà lezioni di canto.
Non siamo mai riusciti a far coincidere i nostri impegni.
MURAKAMI Che peccato.
OZAWA Era prodigiosa. Chi ascoltava la sua Mimí una volta, non
voleva piú sentire nessun altro soprano, in quel ruolo. Ha
presente quando a teatro si ha l’impressione che l’attore non stia
recitando? Ma se poi glielo si fa notare, la risposta è: «In realtà
recito, ci metto tutta la mia energia». Dall’esterno però non si
vede nulla. Tutto sembra facile, naturale. Senza artifici. Be’, era la
sensazione che dava Mirella quando interpretava Mimí.
MURAKAMI La Bohème non funziona, se Mimí non fa piangere il
pubblico, non crede?
OZAWA Sono d’accordo.
MURAKAMI E la Freni ci riusciva con grande facilità.
OZAWA Ogni volta giuravo a me stesso: «Oggi non piangerò», e
ogni volta mi ritrovavo in lacrime. La prossima volta che vado a
Firenze, vorrei passare a trovarla a Modena.
Beve un sorso di tè.
OZAWA C’è lo zucchero, vero?
MURAKAMI Sí.

RIGUARDO A CARLOS KLEIBER

MURAKAMI La Bohème di Carlos Kleiber era davvero tanto


strepitosa?
OZAWA Be’, era come se il direttore d’orchestra facesse parte della
messa in scena. Ogni questione tecnica era superata. Dopo la
rappresentazione, quando gli ho chiesto come gli riuscisse un tale
exploit, mi ha risposto: «Dài, Seiji. Lo sai che potrei dirigere La
Bohème a occhi chiusi!»
MURAKAMI Ah, ah, ah, fantastico!
OZAWA Quella volta di fianco a me c’era Vera, quindi ho pensato:
«Vuoi vedere che sta cercando di fare colpo!» (ride) Ma era vero
che dirigeva La Bohème dall’inizio della sua carriera, ormai
doveva essergli venuta a noia.
MURAKAMI Probabilmente la conosceva a memoria. Credo però
che il suo repertorio fosse piuttosto limitato.
OZAWA È vero. Di opere liriche in repertorio ne aveva poche, e
anche di opere sinfoniche.
MURAKAMI Di recente ho letto in un libro una cosa piuttosto strana
che racconta Riccardo Muti: una volta che dirigeva L’anello del
Nibelungo di Wagner, Kleiber era andato a trovarlo in camerino.
Avevano parlato un po’, e Muti era rimasto stupefatto nel
constatare che conosceva l’intero ciclo per filo e per segno
dall’inizio alla fine. E pensare che non l’aveva mai diretto! Però
aveva scrupolosamente studiato lo spartito.
OZAWA Kleiber era un direttore che studiava gli spartiti e
conosceva le opere a menadito. Ma era anche uno che creava
sempre problemi. A Berlino, quando ha diretto la Quarta di
Beethoven, litigava di continuo, ogni giorno minacciava di mollare
tutto. Eravamo amici e ho seguito da vicino gli sviluppi della
situazione, ma per me era chiaro che cercava un pretesto per non
dirigere la Quarta.
MURAKAMI Le è mai capitato di annullare un impegno?
OZAWA Di recente sí, a causa della mia malattia. Ma prima, non
facevo tante storie per un po’ di febbre, tenevo duro.
MURAKAMI Non le è mai successo di litigare e andarsene
mandando tutto all’aria?
OZAWA Solo una volta. Ero stato invitato dai Berliner
Philharmoniker, per... sí, per il secondo anno. Conosce il
compositore argentino Alberto Ginastera?
MURAKAMI No, mai sentito.
OZAWA Comunque, io dirigevo Estancia, un’opera per grande
orchestra che Ginastera ha composto nel 1941. Per qualche
ragione, il Maestro Karajan l’aveva scelta ma aveva deciso di non
dirigerla lui, di affidarla a me. «Studiatela bene!» mi aveva detto.
Non so perché, voleva assolutamente che l’orchestra suonasse
un’opera argentina. Cosa ci potevo fare? Mi sono messo a
studiare con fervore. La seconda metà del programma prevedeva
una sinfonia di Brahms, credo. Non ricordo piú quale. Durante le
prove, mi sono reso conto che nell’Estancia la parte delle
percussioni era di una difficoltà spaventosa, ci volevano sette
musicisti. La difficoltà era tale che mentre facevo esercitare solo
le percussioni, gli altri musicisti dovevano aspettare. Ma a un
certo punto siamo rimasti bloccati. I ritmi erano troppo complicati,
e come se non bastasse, uno dei percussionisti, un giovane, si è
messo a ridere. Non ci ho piú visto! «Cosa c’è di tanto
divertente?» gli ho chiesto seccato. Lui però non si è neanche
scusato, è rimasto seduto come se niente fosse. Ero furibondo.
«Sarete anche i magnifici Berliner, ma dopodomani, in concerto,
come pensate di cavarvela con questa roba?» ho urlato. Al che la
situazione è ancora peggiorata, non si riusciva piú a combinare
nulla. Ero talmente adirato, che a un certo punto ho sbattuto lo
spartito sul leggio annunciando: «Pausa!» e sono uscito dalla
sala.
MURAKAMI Oh!
OZAWA Ho chiamato Ronald Wilford, il mio agente a New York. Gli
ho detto: «Sto tornando. Mi dispiace, ma non ce la faccio piú a
lavorare qui. Faccia le mie scuse al Maestro Karajan». Poi ho
informato l’orchestra che rientravo negli Stati Uniti e sono tornato
all’Hotel Kempinski. A quel tempo c’era ancora il muro di Berlino,
e non esistevano voli diretti da Berlino Ovest a New York,
bisognava per forza fare scalo. Comunque ho chiesto al portiere
di prenotarmi un biglietto e sono salito a fare i bagagli.
MURAKAMI Era veramente in collera.
OZAWA Stavo già facendo il check-out in albergo, pronto a partire,
quando è arrivato il capo dell’orchestra, Rainer Zepperitz − un
controbassista nel quale il Maestro Karajan riponeva molta fiducia
−, con alcuni membri dei Berliner Philharmoniker. Mi ha
presentato le scuse a nome di tutti. «La preghiamo di perdonarci.
Da quando ha lasciato la sala, i percussionisti hanno continuato a
esercitarsi sui passaggi che non riuscivano a fare, quindi potrebbe
venire alla prova di domani, anche solo per vedere come se la
cavano?» A quelle parole, pronunciate con tono contrito, non
potevo rifiutare.
MURAKAMI Be’, no, in effetti.
OZAWA Quindi ho chiamato Wilford per dirgli che restavo ancora
un giorno e ho fatto annullare il mio volo per New York... È stata la
sola volta in cui mi sono veramente arrabbiato. Un incidente di cui
si è parlato molto.
MURAKAMI E in conclusione Estancia l’ha diretta?
OZAWA Sí. Sono tornato e l’ho diretta.
MURAKAMI Kleiber di sicuro non l’avrebbe fatto.
OZAWA No, ha ragione (ride). Nel mio caso, però, la mancanza di
un volo diretto per New York è stata determinante.
MURAKAMI Sono riusciti a convincerla grazie all’orario dei voli
(rido).
OZAWA Rainer Zepperitz è stato il primo contrabbasso della Saitō
Kinen, quando l’orchestra è stata costituita, ed è rimasto piú di
vent’anni. Purtroppo poco tempo fa è morto.
[«Estancia» op. 8, del ’41, è il secondo balletto composto
dall’argentino Alberto Ginastera. Il primo è «Panambí» op. 1
(1934-37). «Estancia» è una delle sue opere piú rappresentative
e descrive con grande vivacità la vita dei gauchos nella pampa
sudamericana. Piú tardi, Ginastera ne trarrà una suite piú breve
(op. 8a), che in genere corrisponde all’opera messa in scena].
MURAKAMI Torniamo a Kleiber, alla Bohème che ha portato in
Giappone.
OZAWA Sí, sí.
MURAKAMI Ho l’impressione che Carlos Kleiber sia in grado di
mettere in luce, nelle opere, uno schema nuovo. Anche in quelle
che ci sono piú familiari, come la Seconda di Brahms o la Settima
di Beethoven. Chi ascolta ha l’impressione di riscoprire l’opera, e
finisce col dirsi: «Ma guarda cosa si celava lí dentro...» Esistono
molti direttori d’orchestra di talento, bravissimi, ma questa
capacità di Kleiber ce l’hanno in pochi.
OZAWA Sí, capisco.
MURAKAMI Immagino che debba studiare scrupolosamente gli
spartiti, per ottenere questo risultato.
OZAWA Esatto. Li legge con estrema concentrazione. Il problema
per lui, poveraccio, è che suo padre era un direttore d’orchestra
celeberrimo.
MURAKAMI Erich Kleiber.
OZAWA È per questo che Carlos era sempre cosí nervoso, credo.
Estremamente teso. Però mi apprezzava molto, mi trattava con
affetto. Mi chiedo perché. Aveva molta simpatia anche per Vera,
sono diventati amici. È venuto diverse volte ad assistere ai miei
concerti e ogni volta ci invitava a cena. Quando sono diventato
direttore della Staatsoper di Vienna, è stato il primo a
congratularsi, mi ha mandato un telegramma. Un telegramma
lunghissimo.
MURAKAMI Pare che avesse un carattere piuttosto... difficile.
OZAWA Sí, un caratteraccio. Era famoso per la facilità con cui, al
minimo contrattempo, annullava le rappresentazioni. Dopo il
telegramma mi ha anche telefonato, e io ne ho approfittato per
dirgli: «Ora che qui a Vienna ci sono io, verrai qualche volta a
dirigere?» Perché era raro che lui accettasse gli inviti. Mi ha
risposto: «Ehi, guarda che non ti ho mandato un telegramma per
farmi invitare!» (ride)
MURAKAMI Voleva mettere in chiaro che erano due cose diverse.
OZAWA L’ho anche chiamato a dirigere la Saitō Kinen. Sapevo che
l’orchestra gli piaceva, era venuto ad ascoltarci durante una
nostra tournée in Germania. Ma non c’è stato verso. Nemmeno il
Maestro Karajan è mai venuto, l’avevo invitato nell’ultimo periodo
della sua carriera. Ha solo accettato di dirigere la Boston
Symphony Orchestra, una volta. Perché a Salisburgo aveva
diretto la Chicago Symphony, chiamato da Solti. Però mi ha detto
che non poteva venire fino a Boston, ma avrebbe diretto la Boston
Symphony quando fosse andata in tournée in Europa. Purtroppo
non ha fatto in tempo.
MURAKAMI Che peccato.
OZAWA Quanto al mio invito a dirigere la Saitō Kinen, il Maestro
Karajan non l’ha mai veramente accettato, però ci ha invitati a
Salisburgo. Quella volta, gli avevo detto che io avrei diretto
un’opera e gli proponevo di dirigerne un’altra, ma non ha mai dato
una risposta chiara. Credo che fosse già molto debole, perché è
morto l’anno dopo.
MURAKAMI Mi sarebbe tanto piaciuto ascoltare Kleiber o Karajan
dirigere la Saitō Kinen Orchestra!
OZAWA Sí, l’orchestra piaceva molto al Maestro Karajan, per
questo l’aveva invitata a Salisburgo. E pensare che non era
un’impresa facile, far venire un’intera orchestra al festival di
Salisburgo!

OPERA LIRICA E REGISTI

MURAKAMI A proposito, mi diceva che una volta aveva in progetto


di fare un’opera con il regista Ken Russell, vero?
OZAWA Sí. Con Russell alla regia, dovevo dirigere Evgenij Onegin
a Vienna. Il soprano era Mirella Freni. Questo succedeva quando
il direttore dei Wiener era ancora Lorin Maazel, prima che lo
diventassi io. Ho incontrato Ken diverse volte per parlare del
progetto. Ma poi non so cosa sia successo, fatto sta che lui ha
litigato di brutto col teatro e ha annullato tutto. Io non avevo nulla
a che fare con quella storia.
MURAKAMI Se la cosa fosse andata in porto, sarebbe stata di
sicuro una rappresentazione fantastica.
OZAWA Ne sono convinto. In precedenza, nella regia di Madama
Butterfly, Russell aveva creato problemi perché voleva mettere la
foto di un’esplosione nucleare sullo sfondo e una gigantesca
bottiglia di Coca-Cola nel bel mezzo della scena, per simbolizzare
gli Stati Uniti... Quando l’ho conosciuto, mi ha dato davvero
l’impressione di una persona molto radicale.
MURAKAMI La perdizione, il suo film su Mahler, era davvero strana.
OZAWA Sí, quella volta me l’ha fatto vedere. Siamo andati in un
club nel centro di Londra, un posto piuttosto buio, un po’ sinistro,
dov’erano ammessi solo gli uomini. Lí abbiamo discusso di varie
cose. Mi ha spiegato che nell’originale di Puškin il protagonista,
Onegin, è molto piú odioso, mentre nell’opera di Čajkovskij, pur
essendo un debole, un uomo inaffidabile, non è un cinico
donnaiolo. Russell però, nella messa in scena, voleva sottolineare
il suo vero carattere, il lato torbido di dongiovanni.
MURAKAMI Immagino che avrebbe sollevato un putiferio! (rido)
Comunque, alla fine non se n’è fatto niente.
OZAWA No.
MURAKAMI Non dev’essere facile scegliere un regista.
OZAWA Jean-Pierre Ponnelle, con cui ho diretto Cosí fan tutte, la
mia prima opera lirica, era bravissimo. Ancora oggi sono convinto
che fosse un genio. Capiva profondamente la musica. Quando si
allestisce un’opera a teatro, all’inizio si prova solo con la musica,
con un accompagnamento al piano, senza messa in scena né
nulla. Be’, Ponnelle mi ha spiegato che fin dall’inizio la musica
sarebbe stata piú naturale se i cantanti si fossero mossi come
avrebbero poi fatto sulla scena. Era la prima volta che dirigevo
un’opera e per me era tutto nuovo. Quindi gli ho chiesto come
riuscisse a fare una cosa del genere. Mi ha risposto che ci
riusciva ascoltando con estrema concentrazione la musica, fino
ad assimilarla completamente. Una cosa è sicura: la capiva
davvero.
MURAKAMI Non era uno di quei registi che decidono la messa in
scena prima ancora di conoscere la musica, insomma.
OZAWA No, affatto. Eravamo davvero in sintonia, lui e io. Poco
prima che morisse, ci siamo visti a Parigi e abbiamo progettato di
fare insieme Les contes d’Hoffmann. Stava già lavorando a una
nuova messa in scena di Offenbach con l’Opéra-Comique, ma
sperava di farlo con me in un teatro piú grande. Anch’io lo volevo
assolutamente. Purtroppo però è morto poco dopo. Che peccato.
A mio parere, era un regista meraviglioso.
MURAKAMI Di recente, ho visto alla televisione la Manon Lescaut
diretta da lei nel 2005, a Vienna. La trasmetteva la Nhk.
L’ambientazione era molto moderna.
OZAWA Sí, il regista era Robert Carsen. Di tutte le opere che ha
messo in scena, la piú bella è stata Elettra di Richard Strauss.
Estremamente moderna, magnifica. Poi ha anche fatto Jenůfa di
Janáček. Perfetta. E Tannhäuser. In Tannhäuser c’è un concorso
di canto, come saprà. Ebbene, lui ne ha fatto un concorso di
pittura.
MURAKAMI Com’è possibile?
OZAWA Sí, un concorso di pittura. Io l’ho diretto due volte, il suo
Tannhäuser, prima all’Opera Nomori di Tōkyō, poi a Parigi. In
Giappone l’accoglienza è stata tiepida, ma a Parigi ha avuto un
gran successo. Ai francesi la pittura piace.
MURAKAMI Ma per ammortizzare tutto il denaro investito
nell’allestimento di un’opera lirica, non è necessario darne molte
rappresentazioni?
OZAWA Se dipendesse solo dal teatro, metterebbero in cartellone
la stessa opera per dieci o vent’anni. In modo da avere bei profitti.
Ad esempio, la Staatsoper di Vienna dà sempre La Bohème
messa in scena da Zeffirelli. Saranno trent’anni che è in
cartellone. In genere, una produzione resta in programma almeno
tre anni nel teatro che l’ha allestita. Visto che va in scena una
dozzina di volte all’anno, in tre anni sono quasi quaranta
rappresentazioni. Cosí si rientra delle spese. Superato questo
numero, il teatro può fare dei profitti noleggiando le scene a teatri
meno prestigiosi.
MURAKAMI Quindi è cosí che i teatri lirici guadagnano?
OZAWA Sí.
MURAKAMI Qualche anno fa ha diretto il Fidelio di Beethoven in
Giappone. Le scene erano prese in prestito?
OZAWA È ovvio. Sono state trasportate per mare. Ma era un caso
un po’ particolare, perché si trattava di una tournée della
Staatsoper di Vienna, quindi il teatro che ci ospitava non doveva
noleggiare nulla. La prossima volta la Staatsoper farà La dama di
picche di Čajkovskij, e di nuovo tutte le scene saranno spedite da
Vienna.
MURAKAMI Quindi le scene, la produzione, sono uno dei beni
patrimoniali del teatro?
OZAWA Esatto. In Giappone però, anche se si volessero
conservare delle scene, non ci sarebbe posto. La Staatsoper di
Vienna invece ha enormi depositi per riporre i materiali in
periferia. Sono spazi attribuiti dallo Stato, ed è lí che sono
conservate tutte le scene. Vengono trasportate con dei camion.
Dato che la Staatsoper può ospitare al massimo le scene di due
opere per volta, i camion fanno di continuo avanti e indietro fra il
teatro e i depositi.

FISCHI A MILANO

MURAKAMI Sono convinto che l’opera lirica sia l’essenza stessa


della cultura europea moderna. Dai tempi in cui era promossa da
sovrani e aristocratici, a quando venne poi sostenuta dalla
borghesia, fino ai nostri tempi in cui gli sponsor sono le imprese,
ha sempre veicolato la parte piú brillante e vivace della cultura.
Ha notato una certa resistenza al fatto che un direttore
giapponese si inserisse in questo contesto?
OZAWA Certamente. Nel 1980, la prima volta che sono salito sul
podio della Scala, a Milano, mi hanno fischiato. Dirigevo la Tosca,
con Pavarotti. Era stato lui a invitarmi, andavamo d’accordo. «Dài,
Seiji, lavoriamo insieme», mi diceva sempre, ci teneva davvero, e
dato che mi era simpatico, ho accettato (ride). Il Maestro Karajan
era assolutamente contrario. «È un suicidio», mi ha avvertito, «ti
faranno a pezzi».
MURAKAMI Chi l’avrebbe fatta a pezzi?
OZAWA Il pubblico. Il pubblico di Milano è molto esigente,
severissimo. Com’era prevedibile, all’inizio mi ha coperto di fischi
e di buuu. Comunque, in tutto ho dato sette rappresentazioni, e
verso il terzo giorno, tutt’a un tratto mi sono reso conto che non
c’erano piú proteste... insomma, me la sono cavata, ho potuto
completare il programma sano e salvo.
MURAKAMI Il pubblico europeo fischia facilmente, vero?
OZAWA Sí, soprattutto in Italia. In Giappone non succede.
MURAKAMI No, mai?
OZAWA A volte un pochino, ma niente a che vedere con le
rimostranze collettive cui ho assistito in Italia.
MURAKAMI Quando vivevo in Italia, spesso sui giornali notavo titoli
come Ricciarelli fischiata ieri sera a Milano. Ero molto sorpreso di
vedere che l’accoglienza ricevuta da qualcuno all’opera facesse
notizia.
OZAWA Ah, ah, ah! (una risata molto allegra)
MURAKAMI Ma fischiare gli artisti fa parte della cultura. Io, in
quanto scrittore, vengo criticato in continuazione per le mie opere,
ma se non ho voglia di saperlo, basta non leggere il giornale. Cosí
evito di arrabbiarmi. O di deprimermi. Un musicista però si
esibisce davanti a un pubblico, e se viene fischiato non ha modo
di sottrarsi. Credo sia dura da sopportare. Mi dico sempre che
dev’essere una cosa molto umiliante.
OZAWA La prima volta che mi è successo, appunto in occasione di
quella Tosca alla Scala, mia madre era venuta con me a Milano,
al posto di Vera, che non aveva potuto perché i bambini erano
ancora piccoli. Mi cucinava dei piatti giapponesi. Ha anche voluto
assistere alla prima, naturalmente, e quando ha sentito tutti quei
buuu ha pensato che gridassero: «Bravo!» (ride) Era felice di
vedere tutta quella gente fare tanto baccano per me. Tornando in
albergo, mi ha detto: «Che successo, tutti a gridare: “Bravo,
bravo!”»
MURAKAMI Ah, ah, ah!
OZAWA Le ho spiegato che non erano applausi ma proteste. Lei
però non ha capito bene, era la prima volta in vita sua che
assisteva a una cosa del genere.
MURAKAMI Mi fa pensare al giorno in cui sono andato a vedere una
partita dei Red Sox a Fenway Park: ogni volta che la terza base
Kevin Youkilis rientrava in campo, la folla urlava: «Youuu!» Ho
pensato che ce l’avessero con lui, che urlassero: «Bouuu!», e non
capivo perché. Mi sembrava molto strano.
OZAWA Sí, in effetti il suono è molto simile. Comunque, dopo
quella prima disastrosa alla Scala, Pavarotti ha cercato di
tranquillizzarmi. «Seiji, se ti fai fischiare in questo teatro, vuol dire
che sei tra i primi direttori d’orchestra al mondo!» E i membri
dell’orchestra mi assicuravano che non avevano mai visto un
direttore che all’inizio non si facesse fischiare. Era successo
persino a Toscanini. Io però non è che le trovassi tanto
consolatorie, le loro parole (ride).
MURAKAMI Però tutti si preoccupavano per lei.
OZAWA Sí, anche il mio agente mi ha detto che non mi dovevo
angustiare. «Maestro, l’orchestra è tutta con lei. È dalla sua parte.
E questo è importantissimo. Se un direttore si fa fischiare, e non è
sostenuto dall’orchestra, per lui è la fine. Nel suo caso però non è
cosí. Quindi non c’è motivo di preoccuparsi. Basta portare
pazienza per qualche tempo. Vedrà che andrà tutto bene». Ed è
vero che l’orchestra mi sosteneva. Alcuni musicisti hanno
addirittura risposto ai fischi degli spettatori. Li ho visti con i miei
occhi.
MURAKAMI E alla fine tutto è andato bene.
OZAWA Sí, dopo qualche giorno le proteste sono cessate. Poco
per volta, il pubblico si è calmato, e alla fine non fischiava piú
nessuno. Se il malcontento fosse continuato come all’inizio,
probabilmente sarei crollato. Ma una situazione del genere non si
è mai verificata, quindi non so...
MURAKAMI Da allora, ha ancora diretto diverse opere al teatro della
Scala, vero?
OZAWA Sí. Oberon di Weber, La dannazione di Faust di Berlioz,
Evgenij Onegin e La dama di picche di Čajkovskij, e qualcun’altra
che non ricordo.
MURAKAMI E come è stato accolto? L’hanno ancora fischiata?
OZAWA No, non mi sembra. Qualche critica l’ho avuta, ma non mi
è mai piú successo di avere tutti contro.
MURAKAMI Crede che il pubblico della Scala non fosse contento di
vedere un asiatico dirigere un’opera italiana?
OZAWA No, non è questo. Penso che si siano trovati davanti a
un’interpretazione diversa da quella che si aspettavano. La mia
Tosca non era quella che loro avevano in mente. Ecco qual era il
problema. Ma può anche darsi che qualcuno che mal sopportava
di vedere un asiatico dirigere la Tosca ci fosse, fra il pubblico.
MURAKAMI All’epoca, lei era l’unico asiatico a salire sul podio di un
grande teatro europeo, giusto?
OZAWA È vero. Non credo ce ne fossero altri. Però, come le ho
detto, quella volta alla Scala sia l’orchestra che il coro mi hanno
difeso strenuamente. A loro è andata tutta la mia gratitudine. La
stessa cosa è successa a Chicago. L’anno in cui sono stato
nominato direttore musicale del Ravinia Festival, i giornalisti si
sono accaniti contro di me. Il critico musicale di un giornale molto
influente mi detestava, o chissà cos’altro c’era dietro, fatto sta che
nei suoi articoli mi ha massacrato. Era lo stesso periodo in cui
Schonberg, il critico musicale del «New York Times», attaccava
Lenny. Ma l’orchestra mi ha sempre sostenuto, e alla fine della
prima stagione mi hanno fatto avere quella che lí chiamano «a
shower».
MURAKAMI A shower, una doccia?
OZAWA Sí. Neanch’io conoscevo questa tradizione. Sa, quando il
direttore, alla fine, se ne va dietro le quinte, e tutti i musicisti
insieme si mettono a battere sui loro strumenti per farlo tornare
sul palco. Le trombe, i tromboni, gli archi, i timpani... tutti fanno un
gran baccano, un whaaan, o goaaan... piú o meno, ha presente?
MURAKAMI Sí, sí, certo.
OZAWA Be’, è quello che hanno fatto quella volta. Per me era una
novità, ero stupefatto, mi chiedevo cosa stesse accadendo. A
quel punto il secondo violino, che era anche il capo dell’orchestra,
è venuto da me e mi ha spiegato cosa significava: «Si chiama
“shower”, se lo ricordi d’ora in poi». Insomma, era il modo che
avevano scelto i membri dell’orchestra di rispondere tutti insieme
alle critiche dei giornalisti.
MURAKAMI Ah, ecco…
OZAWA È stata la prima e l’ultima volta che un’orchestra mi ha
fatto quest’onore. I giornali di Chicago mi attaccavano, decisi a
farmi a pezzi, a distruggermi. E invece l’anno seguente sono stato
di nuovo chiamato a dirigere il festival, in tutto l’ho fatto per... per
cinque anni. Non mi sono lasciato abbattere.
MURAKAMI Non sarà stato facile sopravvivere a una tale pressione.
OZAWA Be’, no... Però all’epoca in una certa misura ci ero
abituato. A Vienna, a Salisburgo, a Berlino... all’inizio ricevevo
solo critiche spietate, ovunque. Quindi ci avevo fatto il callo, agli
attacchi.
MURAKAMI Critiche spietate... cioè, cosa dicevano?
OZAWA Non glielo saprei dire, non riuscivo a leggere i giornali.
Però le recensioni erano negative, questo è sicuro. È quello che
mi riferivano le persone intorno a me.
MURAKAMI Ma all’inizio, forse tutti i direttori d’orchestra esordienti
ricevono quest’accoglienza ostile, no?
OZAWA Non credo affatto. Ci sono molti direttori a cui non è mai
successo. Prenda Claudio (Abbado), ad esempio, non è mai stato
criticato, non una sola volta. È stato acclamato, considerato
geniale, fin dagli esordi.
MURAKAMI Forse all’epoca, a differenza di adesso, non c’erano
quasi musicisti asiatici nelle orchestre europee. Pensa che questo
abbia creato maggiori difficoltà, per lei?
OZAWA Ricordo che nel ’59, l’arrivo della viola Tsuchiya Kunio nei
Berliner Philharmoniker fece notizia. Fu una pietra miliare. Al
giorno d’oggi, invece, una grande orchestra senza qualche
musicista asiatico, che suoni uno strumento ad arco, non è
immaginabile. Un cambiamento incredibile.
MURAKAMI Magari gli europei pensavano che un asiatico non
potesse comprendere la musica occidentale.
OZAWA Sí, è probabile. Non ricordo bene cosa si dicesse su di me.
In compenso, le orchestre mi accoglievano con calore.
Probabilmente ai musicisti facevo pena. Dovevano dirsi: «Povero
ragazzo, arriva solo soletto dal Giappone e viene attaccato da
tutti. Cerchiamo di sostenerlo!»
MURAKAMI Be’, sarà stato incoraggiante ricevere sostegno dalle
persone che lavoravano con lei, quando tutti i giornali le davano
contro.

PIÚ GIOIE CHE SOFFERENZE

OZAWA In ogni caso, il Maestro Karajan era determinato a farmi


imparare a dirigere un’opera lirica.
MURAKAMI Dirigere un’opera lirica, significa lavorare con i cantanti,
oltre che con i musicisti. Controllare entrambi. Dev’essere molto
difficile, se non se ne ha l’abitudine.
OZAWA Be’, l’essenziale è creare un contatto. Con gli uni e con gli
altri, contemporaneamente.
MURAKAMI I cantanti, diversamente dai membri dell’orchestra,
fanno una carriera personale, sono delle star... Interagire con loro
non crea problemi?
OZAWA Alcuni hanno un carattere difficile, non lo nego. Quando
iniziamo a lavorare su un brano, però, se domando di cantarlo in
un certo modo, nessuno si permette mai di sollevare obiezioni su
questo e su quello. Perché tutti vogliono ottenere un buon
risultato.
MURAKAMI Quindi non si è mai trovato in difficoltà, con loro.
OZAWA Quando ho diretto Cosí fan tutte a Salisburgo, non ho
nascosto a nessuno che era la mia prima opera in versione
scenica. L’ho dichiarato prima di iniziare le prove: «Questa per me
è la prima volta». E tutti sono stati gentilissimi, mi hanno dato tanti
consigli. Dai cantanti agli assistenti. Anche il Maestro Karajan mi
ha spiegato diverse cose, ovviamente, e persino Claudio è venuto
a darmi qualche suggerimento. Sul modo di legare il suono
dell’orchestra alla voce dei cantanti, ad esempio.
MURAKAMI Nessuno si è comportato con cattiveria, verso di lei?
OZAWA Con cattiveria? Può darsi che sia successo, ma io non
l’avrò capito (ride). Andavamo piuttosto d’accordo, nel complesso.
L’atmosfera era quella di una grande famiglia. A volte invitavo tutti
a casa per un gyōza 1 party.
MURAKAMI Quindi, piú che raccogliere la sfida di preparare
un’opera, contava il piacere di farlo.
OZAWA Esatto, l’atmosfera era quella. Naturalmente ero ben
conscio di dover studiare con impegno, ma innanzitutto mi
piaceva. Per me l’opera lirica è arrivata tardi, come un tesoro di
cui mi sono impossessato dopo molto tempo. Ancora adesso,
spero di avere l’occasione di dirigere opere, opere, sempre piú
opere. Ce ne sono molte che non ho ancora potuto fare, pur
avendole studiate.
MURAKAMI La proposta di diventare direttore della Staatsoper di
Vienna è arrivata inattesa, vero?
OZAWA Sí, non me l’aspettavo. Fino ad allora ero andato a Vienna
ogni anno, per dirigere l’orchestra della Staatsoper, ma anche
qualche opera lirica. Ed ecco che un giorno mi offrono il posto di
direttore musicale fisso! In quel momento erano già ventisette
anni che dirigevo la Boston Symphony. Cominciavo a dirmi che
trent’anni con la stessa orchestra erano troppi, che avrei fatto
meglio a lasciare. Lavorare in un teatro lirico sarebbe stato un po’
meno impegnativo. Avrei avuto piú tempo libero, e forse avrei
potuto concedermi soggiorni piú lunghi in Giappone. In realtà poi
non è andata cosí. Per allestire una nuova opera ci vuole un
sacco di tempo. Soprattutto a Vienna. Si viaggiava anche di piú.
Con la Staatsoper siamo andati dappertutto. Non davamo molte
versioni sceniche, però, solo concerti.
MURAKAMI In conclusione, a Vienna non aveva piú tempo libero
che a Boston...
OZAWA No, avevo un’infinità di cose da fare. Ma non era poi cosí
pesante. Tutti si preoccupavano per me, si immaginavano che
fossi stremato, ma in realtà reggevo bene. Mi piaceva, mi
divertivo. E ho imparato moltissimo. Avrei voluto fare ancora
molto, molto di piú... Se non mi fossi ammalato, purtroppo.
MURAKAMI Per me, che sono un semplice appassionato di musica,
la Staatsoper di Vienna è un luogo carico del peso della storia, un
covo di intrighi e di cospirazioni.
OZAWA Ah, ah, ah, è quello che pensano tutti! In realtà però non
succede nulla del genere. Per lo meno, io non ne ho avuto
sentore.
MURAKAMI Non c’erano neanche giochi politici?
OZAWA Be’, quanto a questo... se c’erano, io me ne tenevo fuori,
fingevo di non capire. Anche quando ero a Boston, cercavo di
starne alla larga. Ho sempre fatto cosí, ovunque. Anche in
Giappone. A maggior ragione a Vienna, visto che non parlavo
tedesco. In questo senso ero avvantaggiato. Non parlare la lingua
del posto è limitante, certo, ma in alcuni casi torna utile. Ho
passato a Vienna otto anni bellissimi. Potevo fare tutte le opere
che volevo, e andare a vedere tutte quelle che venivano
rappresentate negli altri teatri...
MURAKAMI Era totalmente immerso nell’opera lirica, insomma.
OZAWA Sí, ma purtroppo − mi spiace doverlo dire − non riuscivo
mai a vedere un’opera intera, dall’inizio alla fine. In ogni opera ci
sono dei passaggi piú toccanti, dei brani celebri, e io andavo a
sentire quelli, poi di solito me ne andavo (ride). Non ho scuse per
quello che ho fatto, veramente.
MURAKAMI Sí, penso anch’io che sia un peccato... ma è anche
vero che un’opera lirica è molto lunga.
OZAWA Assistevo a quei passaggi celebri, poi tornavo a lavorare
nel mio studio a teatro. So che avrei dovuto vedere l’opera intera,
ma avevo davvero troppe cose da fare e non riuscivo a liberarmi
se non per breve tempo. Durante le giornate c’erano le prove con
i Wiener Philharmoniker, poi le prove in studio per l’opera
seguente. «Prove in studio» significa che si prova solo con
l’accompagnamento al piano. Tre ore il mattino, tre ore il
pomeriggio. Alla fine ero esausto e non me la sentivo di dedicare
altre tre ore a un’opera intera. Dovevo pur mangiare! (ride)
MURAKAMI D’altronde, l’opera lirica è nata come forma di
divertimento per gente che aveva tempo da perdere. Alcuni anni
fa, quando lei era ancora direttore musicale a Vienna, ne ho viste
diverse, una dopo l’altra. Un’opera, un concerto dei Wiener
Philharmoniker, un’altra opera... C’era tanto da ascoltare, io avevo
tempo... per me è stata pura felicità! La prego, guarisca in fretta e
torni a dirigere la Staatsoper.

1. I gyōza sono ravioli di origine cinese, a forma di mezzaluna.


Una piccola città svizzera
Dal 27 giugno al 6 luglio 2011, ho potuto seguire le esercitazioni
della Seiji Ozawa International Academy Switzerland. Si tratta di un
seminario per strumenti ad arco che Ozawa Seiji tiene nella cittadina
di Rolle, sulla riva del lago Lemano, vicino a Montreux. Ha luogo in
estate e dura dieci giorni. Quella cui ho assistito io era la settima
edizione.
Musicisti di talento, tra i venti e i trent’anni, accorrono da tutta
Europa per riunirsi in una specie di ritiro e ricevere una formazione.
Alloggiano tutti insieme e si esercitano in un Centro culturale gestito
dalla municipalità. Considerato che si trova in una città cosí piccola,
la struttura è magnifica. L’edificio, costruito sulla riva del lago in un
vasto parco lussureggiante, è piuttosto antico e ha la patina della
storia. Dalle sue finestre si vedono i traghetti che attraversano il
lago, avanti e indietro tra i due Paesi costieri − la Francia e la
Svizzera − con le bandiere che sventolano dolcemente a poppa e a
prua.
Alcuni grandi violinisti − Pamela Frank (violino), Imai Nobuko
(viola), Harada Sadao (violoncello) − tengono dei corsi sotto la
supervisione di Ozawa Seiji e guidano gli studenti. Robert Mann, una
leggenda della musica, primo violino del Juilliard String Quartet per
un quarto di secolo, viene apposta dall’America per dare il suo
contributo. Com’è ovvio, i candidati al seminario sono moltissimi,
quindi la selezione a monte è estremamente severa. Solo quelli
veramente bravi sono ammessi. Insomma, si tratta di un gruppo di
altissimo livello, scelto tra i giovani musicisti piú dotati d’Europa.
L’insegnamento è focalizzato sul quartetto d’archi. Tre membri del
corpo insegnante circolano da un quartetto all’altro, assistono ad
ogni prova e danno consigli su delicate questioni di tempo, sonorità
o equilibrio. Non si tratta però di vere e proprie «lezioni», quanto
piuttosto di preziosi suggerimenti dati da colleghi professionisti piú
anziani. I quali non sono lí per dire: «Fai cosí!», ma: «Non credi che
sarebbe meglio suonare in questo modo?» Questo è lo spirito.
Riguardo alla formazione, i giovani musicisti lí riuniti hanno
sicuramente già studiato piú che a sufficienza. Quello di cui hanno
bisogno, è qualcosa di un livello piú alto. È la consapevolezza di un
comune sentire, ed è questo l’obiettivo cui mira il seminario: il bel
cameratismo che si crea fra musicisti che lavorano insieme. Ozawa
Seiji a volte assiste alle prove e interviene anche lui con qualche
consiglio.
Robert Mann, che tiene speciali master class, dà al gruppo un
altro tipo di orientamento. Ogni volta la grande aula è affollata. In
questo corso non si può dire che venga impartito un insegnamento
democratico, si tratta piuttosto della condivisione di segreti sull’arte
musicale. Quasi tutti i professori e gli allievi seguono queste lezioni e
ascoltano con estrema attenzione le parole di questo grande
interprete della musica da camera. Sono stato autorizzato ad
assistervi anch’io, e anche se non capisco granché di strumenti ad
arco, ho trovato gli scambi di grande interesse. Consigli preziosi per
la comprensione della musica.
Durante la giornata gli allievi si esercitano con i rispettivi quartetti
al Centro culturale, e la sera raggiungono a piedi, camminando
lungo il lago per una decina di minuti con i loro strumenti in mano, un
vecchio edificio in pietra con una torre. È quello che viene chiamato
«il castello». Antica residenza di qualche signore locale, adesso
appartiene alla municipalità. Al primo piano di quest’edificio c’è una
vasta sala dove si esercita l’orchestra al completo. In altri tempi era
probabilmente destinata a ospitare feste sontuose, perché il soffitto è
molto alto, le decorazioni magnifiche, e alle pareti sono appesi
diversi ritratti. Le grandi finestre della sala restano aperte per far
entrare la luce estiva.
Gli abitanti di Rolle hanno libero accesso alle prove dell’orchestra,
quindi ogni sera una piccola folla prende posto sulle sedie pieghevoli
a disposizione del pubblico e si gode la musica. Fuori, nella luce
serale, innumerevoli rondini intrecciano voli garrendo, e facendo un
baccano tale da coprire i pianissimo delle partiture. Dopo circa
un’ora, il pubblico ringrazia i musicisti applaudendoli calorosamente.
Tra l’Accademia e gli abitanti della città si è creato cosí un legame
confidenziale, la musica ha messo radici nell’animo della
popolazione ed è diventata parte della vita quotidiana.
L’orchestra è diretta da Ozawa Seiji e Robert Mann. Nel 2011 in
programma c’era il Divertimento K136 di Mozart, diretto da Ozawa, e
una versione per orchestra d’archi del terzo movimento del Quartetto
per archi n. 16 di Beethoven, diretta da Mann. Era anche previsto,
per un eventuale bis ai concerti finali, il primo movimento della
Serenata per archi di Čajkovskij. A dirigere quest’ultimo brano
sarebbe stato Ozawa.

Gli allievi del seminario possono perfezionare la loro arte dal


mattino alla sera, senza quasi fermarsi. Sono giornate interamente
dedicate alla musica, letteralmente. Ma trattandosi di ragazzi e
ragazze intorno ai vent’anni (le donne sono in numero leggermente
superiore), per quanto occupati con lo studio, trovano comunque il
tempo di godersi la loro giovinezza. Durante i pasti in comune
chiacchierano e ridono, e dopo gli esercizi sciamano nei bar della
città a bere qualcosa e fare un po’ di baldoria. Naturalmente succede
anche che nascano delle storie d’amore.
Sono stato invitato a Rolle come «ospite speciale». Il Maestro
Ozawa mi aveva detto: «Deve assolutamente venire alla nostra
Accademia per vedere quello che facciamo. Vedrà che cambierà il
suo modo di ascoltare la musica». Convinto solo a metà, sono
dunque partito per la Svizzera. Arrivato a Ginevra, ho noleggiato una
macchina per andare a Rolle, dove ho assistito al seminario del
secondo giorno. Non trovando un hotel dove dormire in città (gli
alberghi a Rolle non sono molti), mi sono sistemato a Nyon, un
borgo in riva al lago a quindici chilometri da lí. Vicino all’albergo molti
ottimi ristoranti servivano pesce appena pescato. Avevo il lago
davanti, e sulla sponda opposta la Francia. Sullo sfondo, a destra, le
cime innevate delle Alpi.
L’estate è piacevole in Svizzera. Durante il giorno può fare molto
caldo, ma grazie all’altitudine, all’ombra degli alberi si sta bene, dal
lago soffia un gradevole venticello, e la sera è meglio portarsi una
giacca leggera. Anche senza aria condizionata la temperatura è
piacevole e i musicisti riescono a concentrarsi nei loro esercizi. Ogni
mattina andavo a correre un’ora in riva al lago e tornavo in albergo
attraverso un sentiero tranquillo nel bosco. Dopo una bella sudata,
mi sentivo bene. Lavoravo un po’ seduto alla scrivania, poi prendevo
la macchina e andavo a Rolle. Ai due lati della strada c’erano campi
di girasole e vigneti. Niente cartelli pubblicitari, supermercati o
Starbucks in vista. All’una raggiungevo gli altri nel cortile e pranzavo
al buffet. Un menu sano, composto soprattutto di verdura fresca del
luogo.
Dopo pranzo passavo da una sala all’altra, ascoltavo le diverse
prove e a volte parlavo un po’ con gli allievi. La maggior parte erano
francesi o cittadini dell’Europa orientale, ma nel mondo della musica
la lingua comune è l’inglese, quindi non avevamo problemi a capirci.
All’inizio tutti erano piuttosto intimiditi, ma neanche troppo. Dovevano
chiedersi cosa ci facessi lí io, uno scrittore, ma quando spiegavo loro
che stavo scrivendo un libro sulle conversazioni intrattenute con
Ozawa Seiji sulla musica, trovavano naturale la mia presenza in
quanto «ospite speciale». A volte mi chiedevano cosa pensassi delle
esercitazioni che avevo appena ascoltato. Quanto a me, ero
contento di sapere che molti di loro, non so perché, avevano letto
alcuni dei miei libri.
Ho potuto inoltre assistere a diverse conferenze interessanti
tenute da membri del corpo insegnante − Harada Sadao, Imai
Nobuko, Pamela Frank e soprattutto Robert Mann. Per dieci giorni, i
partecipanti all’Accademia, me incluso, hanno formato una comunità
all’interno della quale era possibile scambiare liberamente le proprie
impressioni, cosa per la quale mi reputavo davvero fortunato.
Ciò che piú mi interessava, riguardo a questo seminario, era il
percorso che conduce alla creazione di «buona musica». Quando la
musica è bella ci emozioniamo, se non vale granché restiamo delusi,
è qualcosa di molto naturale. Ma a dire la verità, sul processo che
conduce a un risultato valido, non sappiamo quasi niente. Nel caso
di una Sonata per pianoforte solo, possiamo immaginare quali doti
personali siano necessarie per una buona esecuzione, ma riguardo
a un’orchestra, è difficile farsene un’idea. Quali sono le regole da
seguire? Quali le linee suggerite dall’esperienza? Per i professionisti
della musica le risposte sono evidenti, ma per me, un semplice
ascoltatore, non lo erano affatto.
I giovani riuniti in quel posto si conoscevano appena e per
un’intera settimana venivano guidati con estrema cura da musicisti di
fama mondiale, quindi il compito che mi ero dato consisteva
nell’osservare come si evolveva nel tempo la musica che creavano.
A tal fine, ho assistito al maggior numero possibile di prove. Mentre
gli allievi suonavano, Ozawa e gli altri insegnanti seguivano
attentamente sugli spartiti, ma io che non so leggere uno spartito mi
accontentavo di ascoltarli tendendo bene le orecchie. Prima di allora,
non mi era mai successo di passare tutta una giornata immerso nella
musica. Motivo per cui ancora oggi quei pezzi sono presenti nella
mia mente.

Qui sotto i lettori troveranno la lista delle opere su cui gli allievi si
sono esercitati. Cosí potranno farsi un’idea del tipo di musica che
ancora sento nelle orecchie:

Haydn: Quartetto per archi n. 75, op. 76, n. 1


Smetana: Quartetto per archi n. 1, Dalla mia vita
Ravel: Quartetto in fa maggiore
Janáček: Quartetto per archi n. 1, La sonata a Kreutzer
Schubert: Quartetto per archi n. 13, Rosamunde
Beethoven: Quartetto per archi n. 6
Beethoven: Quartetto per archi n. 13

In genere, gli allievi si esercitavano sulle opere intere, ma durante


i concerti che hanno tenuto alla fine della settimana, considerati i
limiti di tempo, ne hanno suonato solo un movimento. Gli insegnanti
sceglievano quale. Il primo e il secondo violino si sono scambiati il
posto a seconda dei pezzi in programma. I concerti hanno avuto
luogo a Ginevra e a Parigi, ma i movimenti scelti non erano gli stessi
per le due città, cosí come cambiava il primo violino. Il Quartetto n.
13 di Beethoven non è mai stato suonato.
Ai concerti, inoltre, i tre insegnanti, accompagnati da cinque allievi
tra i migliori (quattro di loro si erano esercitati sul Quartetto n. 13 di
Beethoven) hanno interpretato l’Ottetto per archi in mi bemolle
maggiore di Mendelssohn (una delle mie opere preferite), composto
a soli sedici anni. Le prove per quest’opera hanno avuto luogo
contemporaneamente a quelle dei quartetti.
All’inizio, non ero a mio agio mentre ascoltavo le esecuzioni degli
allievi. Per dirla tutta, le trovavo confuse e maldestre. Ma erano solo
due giorni che avevano iniziato a esercitarsi insieme, e non sarebbe
stato logico aspettarsi da loro performance raffinate. Me ne rendevo
conto perfettamente. Nutrivo molti dubbi però sul fatto che in una
settimana sarebbero riusciti a ottenere dei risultati tali da non
sfigurare in un concerto. Erano ancora molto lontani da quella che si
può chiamare «buona musica». Anche sotto la guida di Ozawa Seiji,
non era un periodo di tempo troppo breve per arrivare a
un’interpretazione apprezzabile? Dopotutto, i musicisti non erano dei
professionisti esperti, ma degli studenti.
«Non si preoccupi, miglioreranno giorno per giorno», mi rassicurò
con un sorriso divertito il Maestro, ma io non ne ero del tutto
convinto. Quello che sentivo, sia nei quartetti che nell’orchestra,
erano solo i difetti e le imperfezioni. Haydn non sembrava Haydn,
Schubert non sembrava Schubert, Ravel non sembrava Ravel. Le
esecuzioni rispettavano gli spartiti, ma alla musica mancava
qualcosa.
Ciononostante, ogni mattina ho continuato ad andare a Rolle al
volante di una Ford Focus che aveva problemi di alimentazione.
Assistevo alle prove, spostandomi nelle diverse sale dell’edificio
dove avevano luogo, e ascoltavo attentamente i giovani musicisti.
Alla fine, conoscevo tutti i movimenti delle sette opere per archi sulle
quali si esercitavano. Constatavo i loro progressi quotidiani,
ricordavo i nomi e le facce di ognuno di loro e anche il loro stile.
Miglioravano molto lentamente, come se fossero trattenuti da una
barriera invisibile. Convinto che non ce l’avrebbero fatta per il giorno
del concerto, ero in ansia.
Ed ecco che un giorno, nella vivida luce estiva, una sorta di
silenziosa scintilla è sembrata accendersi fra loro. I quartetti, e poi
l’orchestra serale, hanno iniziato a suonare in sintonia. Era come se
l’aria si fosse all’improvviso condensata. Tutti si sono messi a
respirare all’unisono, creando una musica che si riverberava
nobilmente nello spazio. Haydn tornava ad essere Haydn, e lo
stesso succedeva con Schubert e Ravel. I musicisti non suonavano
piú ognuno per conto proprio, si ascoltavano l’un l’altro. Niente male,
mi sono detto. Sta nascendo qualcosa.
Eppure non era ancora «buona musica» nel vero senso della
parola. Restavano uno o due veli sottili che impedivano ai musicisti
di far vibrare il cuore di chi ascoltava. Purtroppo era un fenomeno
che conoscevo bene, l’avevo visto in numerose occasioni. Nella
musica, nella scrittura, come in tanti altri campi artistici, eliminare
quell’ultima barriera a volte è estremamente difficile. Ma se non lo si
fa, l’arte perde il suo significato. O quasi.
È stato a questo punto che al seminario è arrivato Robert Mann.
Durante le sue lezioni seguiva e commentava il lavoro di ogni
quartetto. A volte poteva essere davvero caustico.
Un giorno ad esempio, dopo aver ascoltato un gruppo suonare il
primo movimento del Quartetto di Ravel, ha detto: «Grazie. È stata
un’esecuzione molto bella. Bravissimi». Poi, sorridendo: «Peccato
che non mi sia piaciuta affatto». Nella sala tutti sono scoppiati a
ridere, ma i musicisti non l’avranno trovato per nulla divertente. Io
però capivo benissimo cosa voleva dire Mann. La musica che avevo
appena ascoltato non era ancora Ravel. Il quartetto non era riuscito
a creare una vera empatia musicale. Per me era chiaro, e
probabilmente anche per tutti i presenti. Mann si era limitato a
esporre un fatto. In modo diretto, senza andare per vie traverse. E
questo era molto importante, necessario, perché non c’era il tempo
per complimenti inutili. Non ne aveva lui e non ne avevano gli allievi.
Robert Mann, in quel seminario, svolgeva il ruolo dello specchietto
del dentista. Uno strumento preciso, funzionale, che si concentra
sulla zona malata mettendo in luce il problema. A mio parere,
soltanto lui era in grado di svolgere questo ruolo.
Dava indicazioni dettagliate agli allievi di ogni gruppo, come se
stringesse le viti di ogni parte di un meccanismo. I suoi consigli
erano concreti, le sue intenzioni chiare a tutti. Per sfruttare il tempo
al meglio, evitava la minima ambiguità. Gli allievi, da parte loro,
ascoltavano spasmodicamente le indicazioni che lui dava una dopo
l’altra, a tutta velocità. Era capace di parlare anche mezz’ora. Una
mezz’ora di tensione che toglieva il fiato. Alla fine gli allievi dovevano
essere esausti e probabilmente lo era anche Mann, che allora aveva
novantadue anni. Quando parlava di musica, però, i suoi occhi
brillavano di una luce vivace e giovanile.
Quattro giorni dopo, al concerto che ha avuto luogo a Ginevra,
quel Quartetto era diventato un’altra cosa, era bellissimo. Vi sentivo
quella bellezza particolare che appartiene solo alla musica di Ravel.
Tutte le viti erano ben strette. I ragazzi avevano chiaramente vinto la
corsa contro il tempo. Naturalmente l’esecuzione non era perfetta.
C’era margine per ulteriori miglioramenti. Ma la tensione che deve
assolutamente percorrere la «buona musica» la si sentiva. E
soprattutto, la musica era carica di un’appassionata gioia giovanile.
L’ultimo sottile velo si era dissolto.
In poche parole, una settimana era stata sufficiente a quei ragazzi
per imparare moltissimo e crescere. Essendo stato testimone della
loro rapidissima evoluzione, avevo l’impressione di avere imparato
qualcosa anch’io, di essere cresciuto anch’io. Questo non valeva
soltanto per il gruppo che suonava Ravel. Quella sera ho assistito
alle esecuzioni di sei gruppi diversi, e tutti, dal primo all’ultimo, mi
hanno fatto piú o meno lo stesso effetto. Avevano qualcosa di
toccante che scaldava veramente il cuore.

Lo stesso posso dire dell’orchestra, diretta da Ozawa Seiji. Giorno


per giorno ha acquisito letteralmente forza centripeta. Finché a un
certo punto è diventata un corpo solo, e il motore che faticava ad
accendersi, di colpo, spontaneamente, si è messo in moto. È stato
come assistere alla nascita di una nuova specie animale in un
mondo senza luce. Un animale la cui mobilità e sensibilità
miglioravano di giorno in giorno. Stava imparando a muovere le mani
e i piedi, la coda, le orecchie. I suoi movimenti, all’inizio maldestri,
sono diventati sempre piú belli, naturali ed efficaci. Aveva iniziato a
capire, istintivamente, che tipo di suono aveva in mente Ozawa Seiji,
che ritmo voleva. Invece di impartire consigli, lui usava un genere
particolare di comunicazione basato sull’empatia. Nello scambio
stesso di quei messaggi, i ragazzi hanno iniziato a trovare la
ricchezza di significato e la gioia spontanea della musica.
Ovviamente Ozawa dava all’orchestra disposizioni precise su ogni
aspetto dell’opera − il tempo, le dinamiche, il timbro, le arcate.
Faceva ripetere i musicisti piú e piú volte, fino ad essere del tutto
convinto, come se regolasse nei minimi dettagli uno strumento di
precisione. Non dava ordini, ma proponeva soluzioni: «Questo
perché non lo facciamo cosí?» Poi scherzava, diceva qualcosa che
faceva ridere tutti. La tensione si allentava. Ma l’immagine della
musica che aveva in testa restava sempre coerentemente la stessa.
Non lasciava spazio al compromesso. Uno scherzo restava solo uno
scherzo.
Per me non era difficile comprendere le singole indicazioni che
Ozawa dava agli allievi. Invece non riuscivo veramente a capire
come quelle poche parole concrete potessero formare un’immagine
vivida della musica, come quei consigli dettagliati potessero
nell’insieme dare una direzione all’orchestra e creare un comune
sentire. Mi sfuggiva il nesso. Era un mistero, una specie di scatola
nera. Come diavolo faceva?
Senza dubbio si trattava di uno dei «segreti professionali» di
Ozawa Seiji, uno dei piú grandi direttori d’orchestra da piú di mezzo
secolo. O forse no, forse non era un segreto, non era una scatola
nera né nulla di tutto questo. Forse era soltanto qualcosa che tutti i
musicisti capivano, ma solo lui riusciva a fare. In ogni caso, per me
restava un prodigio, una magia. Per creare la «buona musica»,
innanzitutto era necessaria una scintilla, poi la magia. In mancanza
di una delle due, niente «buona musica».
Ecco una delle cose che ho imparato quella volta in Svizzera.

Il primo concerto ha avuto luogo il 3 luglio, alla Victoria Hall di


Ginevra, e il secondo (e ultimo) il 6 luglio alla Salle Gaveau di Parigi.
Nonostante in programma ci fosse solo musica da camera e
l’orchestra fosse formata da studenti, in entrambi i concerti c’era il
«tutto esaurito». Naturalmente la maggior parte degli spettatori
erano lí per Ozawa. Piú che naturale: erano sei mesi, da quando era
salito sul podio della Carnegie Hall, che non dirigeva piú in pubblico.
Durante la prima metà del concerto, i sei quartetti hanno
interpretato un solo movimento, uno ciascuno, delle opere studiate.
La seconda parte è iniziata con l’Ottetto per archi di Mendelssohn,
poi l’orchestra al completo è salita sul palco. Robert Mann ha diretto
la versione orchestrale del Quartetto per archi di Beethoven,
un’interpretazione bellissima. A quel punto Ozawa Seiji è stato
richiamato in scena, e ha diretto Mozart e Čajkovskij.
Sono stati due concerti memorabili. Una musica di qualità
altissima, davvero toccante. Piena di tensione, spontanea e
genuinamente gioiosa. Sul palco, i giovani hanno dato tutto, e il
risultato è stato magnifico. Emozionante, bellissima nella sua
freschezza, è stata in particolare l’interpretazione del brano di
Čajkovskij, la Serenata. Il pubblico era entusiasta e non finiva piú di
applaudire, soprattutto a Parigi, dove c’è stata una standing ovation.
Quegli applausi, naturalmente, erano un incoraggiamento a
Ozawa Seiji, tornato a dirigere. Nella capitale francese i suoi fan
sono tanti. Ma quell’accoglienza era anche un riconoscimento del
talento dei ragazzi, il cui livello superava di gran lunga quello che ci
si può aspettare da un’orchestra di studenti. E non finiva lí.
Quell’ovazione, generosa, sincera, sentita, andava alla «buona
musica». A prescindere da chi dirigeva e chi eseguiva. Perché c’era
stata la «scintilla», si era creata la magia.
Dopo il concerto, quando ho parlato con gli allievi ancora eccitati,
esaltati, alcuni mi hanno detto: «Mentre suonavo, le lacrime mi
scorrevano sul viso», oppure: «Un’esperienza cosí, credo che capiti
una sola volta nella vita». Osservando la loro reazione emozionata,
e l’accoglienza calorosa del pubblico, ho compreso perché Ozawa
Seiji si dedica anima e corpo a questo seminario. Per lui è qualcosa
di molto prezioso. Trasmettere «buona musica», e il sentimento che
infonde, alla generazione seguente. Toccare profondamente il cuore
dei giovani musicisti. Per lui è sicuramente una gioia piú grande, piú
profonda, che non dirigere grandi orchestre prestigiose come la
Boston Symphony o i Wiener Philharmoniker.
Al tempo stesso, tuttavia, guardandolo sfruttare all’inverosimile il
suo corpo, letteralmente impegnarsi allo stremo per formare, a titolo
del tutto gratuito, dei giovani musicisti − quando non si era ancora
del tutto ripreso dalla grave operazione subita −, mi sono detto con
un sospiro che anche se avesse avuto piú di un corpo, non gli
sarebbe mai bastato. Ad essere sincero, per me è stato doloroso
vederlo sfinirsi cosí. Se potessi, vorrei regalargli uno o due corpi di
riserva.
Sesta conversazione
«Non c’è un modo stabilito di insegnare. Il metodo si crea
insegnando, in base alla situazione»
Questa conversazione ha avuto luogo in parte il 4 luglio 2011, a
bordo del treno ad alta velocità Ginevra-Parigi. A causa di un
contrattempo però − contrattempo dovuto alla mia sbadataggine −
ho dovuto intervistare una seconda volta Ozawa Seiji
nell’appartamento dove alloggiava a Parigi, nei due giorni
precedenti il concerto. La stanchezza di Ozawa quella volta era
evidente. L’eccitazione per il trionfo di Ginevra gliela si leggeva
ancora in faccia, ma le energie che aveva usato sul podio senza
risparmiarsi non gli erano ancora tornate. Recuperava le forze
poco per volta, dormendo spesso, facendo pasti brevi e frequenti,
e cercando di tirarsi su. Ci sarebbe voluto del tempo.
Ciononostante il Maestro è venuto a trovarmi al posto dov’ero
seduto in treno e mi ha detto: «Perché non parliamo un po’?»
Quando si tratta della formazione dei giovani, non si fa certo
pregare. Ne discute molto piú volentieri che non della propria
musica.

MURAKAMI Ieri, tra una prova e l’altra, ho avuto modo di scambiare


due parole con Robert Mann. Mi ha detto che da quando
partecipa al seminario − da sette anni − non aveva mai avuto
studenti bravi come questi.
OZAWA Sí, ha ragione. Lo penso anch’io. Ma occorre capirne il
motivo. L’anno scorso, come sa, non sono potuto venire a causa
delle mie condizioni di salute, eppure sembra che proprio questo
abbia avuto un effetto positivo. Per lo meno, è la mia impressione.
Sono il principale organizzatore di questo seminario e torno ogni
anno, ma la mia assenza un anno fa ha spinto insegnanti e allievi
a fare del loro meglio, a impegnarsi a fondo. In precedenza io ero
lí dal mattino alla sera. Seguivo tutte le prove, avevo tutto sotto
controllo. La volta scorsa però non mi è stato possibile venire, e
quest’anno ho assistito solo a qualche corso, mi sono fatto vedere
qua e là. L’essenziale del lavoro l’ho affidato agli insegnanti.
MURAKAMI Gli insegnanti sono gli stessi dell’anno scorso?
OZAWA Sí. Non sono mai cambiati, dalla prima edizione del
seminario. Però alcuni di loro − Harada Sadao, ad esempio, e
Imai Nobuko − hanno fatto un’importante evoluzione. Pamela
Frank è sempre stata bravissima. Comunque tutti, in quanto
insegnanti, sono molto migliorati. Inoltre il livello dei nostri allievi è
altissimo. Molti tornano diversi anni di seguito.
MURAKAMI E questo rende l’insegnamento piú interessante.
OZAWA Esatto.
MURAKAMI Tutti i giovani che seguono il seminario sono studenti?
OZAWA In genere sí, ma non proprio tutti. Tra loro ci sono alcuni
professionisti che hanno già suonato su un palco. All’inizio la
regola stabiliva che non si potesse partecipare piú di tre anni di
seguito, ma abbiamo finito per abbandonarla e adesso non ci
sono piú limiti. Se si passa la prova d’ammissione, si può venire
quante volte si vuole. Di conseguenza il numero delle prove è
aumentato, e anche la qualità globale tende a migliorare. C’è
ancora un limite d’età, ma sto pensando di eliminarlo dall’anno
prossimo. Chi vorrà tornare potrà farlo, a qualunque età.
MURAKAMI Questa volta, il piú vecchio ha ventotto anni, il piú
giovane diciannove. Con un’età media sotto i venticinque.
OZAWA Sí, ma io sto pensando di aprire l’Accademia anche ai
trentenni e ai quarantenni. Basterà che passino l’audizione. Ad
alcuni musicisti particolarmente dotati, però, è anche possibile
entrare senza audizione. Se vuole i nomi, sono Alena, Sasha e
Agata. Tutti violinisti. Questi tre possono venire quando vogliono.
L’anno prossimo forse concederemo questo privilegio a una
quarta persona.
MURAKAMI Quindi si sta formando un nucleo. Ma c’è un limite al
numero massimo dei partecipanti?
OZAWA In realtà il seminario è destinato a sei quartetti d’archi,
quindi ventiquattro persone. Quest’anno, per varie ragioni, ne
abbiamo avuti sette. C’è da dire però che in un concerto il limite è
di sei quartetti, ragion per cui quest’anno abbiamo aggiunto al
programma l’Ottetto di Mendelssohn, alternando i professori. Cosí
i quattro allievi supplementari hanno potuto suonare anche loro.
Se anche quest’anno non fossi potuto venire, si sarebbe
rinunciato all’orchestra e supplito con l’Ottetto. Però come vede
sono qui, e anche Mann, che sembrava dovesse annullare, è
arrivato...
MURAKAMI Cosí vi siete ritrovati con un programma musicalmente
molto ricco. E un concerto interessante da mettere in piedi. Ho
parlato un po’ con la signora Mann, la quale mi ha detto che suo
marito adora insegnare.
OZAWA È vero. E andiamo anche molto d’accordo. Sa, lui riceve
inviti da diverse orchestre famose. Da Vienna, da Berlino. Ma per
dare la precedenza a me rifiuta qualunque offerta. Viene sia a
Rolle che a Matsumoto. Quindi tutti non fanno che ripetermi: «Che
invidia, Seiji, Robert Mann accetta sempre di venire da te!»
MURAKAMI Se posso parlare francamente, però, alla sua età, a
novantadue anni, non sappiamo per quanto tempo potrà ancora
farlo. Se lui non fosse piú in grado, sarebbe una grave perdita per
il seminario. La presenza di Mann è essenziale per l’Accademia.
OZAWA Infatti. Ma se lui non potrà piú venire, non pensiamo di
sostituirlo, abbiamo deciso che continueremo con gli insegnanti
attuali − Pamela, Sadao e Nobuko. Perché nessuno potrebbe
prendere il suo posto. Ci abbiamo pensato a lungo, ma non ci è
venuto in mente un solo musicista, tra quelli in attività, che sia alla
sua altezza. Per inciso, se Mann è diventato direttore d’orchestra,
è perché l’ho fortemente incoraggiato io. All’inizio resisteva,
diceva che non ne era capace, ma ho talmente insistito che alla
fine ha provato. Ha iniziato in Giappone. Adesso sembra essere
piuttosto sicuro di sé.
MURAKAMI Ma suona ancora il violino?
OZAWA Raramente, in realtà. Suonerà per noi a Matsumoto. Un
quartetto di Bartók con Harada Sadao e gli altri. In origine doveva
suonare anche l’Ottetto di Mendelssohn, ma poi ha rinunciato. Lo
dirigerà soltanto. Fare entrambe le cose sarebbe troppo faticoso,
per lui. Noi gli siamo molto grati della sua partecipazione.
[In realtà Robert Mann ha poi annullato].
MURAKAMI Peccato che non suoni l’Ottetto, però. Mi sarebbe
piaciuto ascoltarlo. Sono un fan del Juilliard String Quartet da
quando ero ragazzo. Comunque, ho osservato questi studenti e
ho l’impressione che ognuno di loro abbia una sua personalità
musicale ben definita. Forse perché vengono da Paesi diversi. Un
loro «colore», per usare una parola alla moda.
OZAWA Esatto. Cosa che rende il nostro lavoro di insegnanti tanto
piú interessante. Ne vale davvero la pena.
MURAKAMI È una cosa che colpisce, nei quartetti d’archi. Le
personalità si sovrappongono, e il risultato è esaltante. Questo
quando le cose vanno bene, ovviamente, ma succederà anche il
contrario, immagino.
OZAWA Infatti.
MURAKAMI Torniamo all’orchestra. Quest’anno lei ha diretto il
Divertimento K136 di Mozart, e per il bis il primo movimento della
Serenata per archi di  Čajkovskij. I pezzi che sceglie cambiano
ogni volta?
OZAWA Sí, ogni anno. Dunque, finora cos’abbiamo fatto...?
Ricordo di aver diretto l’intera Serenata per archi, ma è un po’
troppo lunga. Ah, c’è stata anche la Holberg Suite di Grieg. E il
Divertimento per orchestra d’archi di Bartók. Ho diretto i concerti
dell’Accademia per sei anni, e ogni volta abbiamo fatto un’opera
differente. Mi piacerebbe fare Verklärte Nacht di Schönberg, ma di
nuovo è troppo lunga. Comunque per quest’anno sarebbe stato
impossibile, sfortunatamente.
MURAKAMI Sentendo il titolo di queste opere, mi sembra che
corrispondano voce per voce al repertorio su cui la faceva
esercitare il professor Saitō, quando lei era studente.
OZAWA Già, è vero. Ogni opera che ho citato faceva parte del
programma di studio col professor Saitō. Anche Verklärte Nacht.
Voglio assolutamente dirigerla l’anno prossimo. Peccato che
quest’anno la mia salute non me l’abbia permesso. Il professor
Saitō mi ha anche fatto studiare la Serenata per archi di Dvořák,
pure quella mi piacerebbe dirigerla, un giorno. E poi c’è la
Italienische Serenade di Hugo Wolf. Un’opera per archi.
MURAKAMI Questa non la conosco.
OZAWA Non la conoscono nemmeno i professionisti. È molto bella,
però.
MURAKAMI Credo che anche Rossini abbia scritto qualche brano
per orchestra d’archi.
OZAWA Sí, esatto. Il professor Saitō ce ne faceva studiare uno,
che è molto leggero. Anche troppo, mi pare.
MURAKAMI Insomma, ho l’impressione che lei voglia trasmettere
alla nuova generazione, nella maniera che ritiene migliore, tutto
quello che ha imparato dal professor Saitō.
OZAWA È cosí. Il professor Saitō insisteva molto su Bartók, e sulla
Serenata per archi di Čajkovskij.
MURAKAMI La Tōhō Gakuen Orchestra non si componeva solo di
archi, vero? C’erano anche dei fiati.
OZAWA Sí, a volte ce n’era qualcuno. Ma suonavamo soprattutto
musica per archi, perché i fiati erano pochissimi. Ricordo di aver
fatto Il barbiere di Siviglia di Rossini con solo un oboe e un flauto.
Abbiamo dovuto inventarci un adattamento. Una faticaccia! Alcuni
passaggi dell’oboe li facevamo suonare alla viola.
MURAKAMI Vi siete arrangiati, insomma. A questo proposito, il
Čajkovskij che avete fatto l’altra sera era bellissimo, ma ho
pensato che, se aveste avuto due o tre contrabbassi, il suono
sarebbe stato piú potente. Solo uno... be’, metteva un po’
tristezza.
OZAWA Può darsi, ma lo spartito originale ne prevede uno solo.
MURAKAMI In ogni caso, ascoltandovi, mi sono detto che sarebbe
potuta essere un’orchestra di professionisti. C’era una tensione
ben superiore a quella che ci si aspetta da un’orchestra di giovani.
OZAWA È vero. L’interpretazione era di un livello tale, che non
avrebbe sfigurato in nessuna sala del mondo. Alcuni di quei
ragazzi, se ampliassero il loro repertorio, potrebbero essere dei
solisti. Potrei portarli come solisti in concerto a Vienna, a Berlino,
a New York... se la caverebbero benone, non mi farebbero certo
sfigurare.
MURAKAMI Un livello generale molto alto. Conosce l’espressione
«non un pelo fuori posto»? Be’, si attaglia perfettamente
all’orchestra dell’Accademia.
OZAWA Sí, non ci sono scarti, se mi permette l’espressione. Non ci
sono falle. Quest’anno sono tutti bravissimi. Ma non è un caso,
piú lavoriamo sul gruppo, migliore diventa. Le selezioni sono ogni
anno piú rigide, e l’insegnamento piú efficace.
MURAKAMI Ad essere sincero, all’inizio, ascoltandoli suonare − il
secondo giorno, credo − ho avuto dei forti dubbi. Ravel non
sembrava Ravel, Schubert non sembrava Schubert... non ce la
faranno mai, mi sono detto. Non avrei mai immaginato che in una
settimana sarebbero arrivati a un tale risultato.
OZAWA Ma si erano appena conosciuti!
MURAKAMI Sí, ma il loro suono mi sembrava cosí acerbo! È la
sensazione piú intensa che ho avuto in quel momento. I passaggi
forte erano rozzi, i piano esitanti... giorno per giorno, però, i forte
hanno preso forma armonica, i piano hanno iniziato a seguire
linee melodiche. Ero davvero impressionato! «Ecco in che modo i
musicisti diventano bravi!» ho pensato.
OZAWA A volte ci capitano degli allievi veramente bravi, in grado di
produrre coi loro strumenti, in modo naturale, suoni bellissimi.
Però non hanno ancora capito bene cosa sia la musica. Hanno
talento, ma mancano di profondità. Si concentrano solo su se
stessi. Quando i professori, durante le audizioni, si trovano
davanti a questo genere di allievi... be’, il loro compito non è
facile. Perché devono decidere se tenerli o no, altrimenti c’è il
rischio di turbare l’armonia generale. Io però sono propenso ad
accettarli. Se sono capaci di produrre senza sforzo suoni tanto
belli, bisogna portarli al seminario e formarli rigorosamente. Se
tutto va come deve andare, quei ragazzi possono diventare dei
musicisti fantastici. Perché sono davvero rare le persone cosí
dotate per natura.
MURAKAMI Vuole dire che il talento non si può inculcare, ma a chi
ce l’ha si può insegnare il modo di trattare la musica,
l’atteggiamento da prendere?
OZAWA Esattamente.
MURAKAMI Dei quartetti che ho sentito, il migliore era quello che ha
suonato Janáček. Bravissimi. Non avevo mai sentito quell’opera.
OZAWA Sí, anch’io li ho trovati magnifici. Strepitosi. È stato il primo
violino del quartetto, Sasha, a chiederci di suonare quel brano di
Janáček, ci teneva assolutamente. Di solito sono gli insegnanti a
scegliere le opere, ma questa volta la richiesta è venuta da un
allievo.
MURAKAMI Quei quattro, con un po’ piú d’esperienza, potrebbero
diventare un quartetto d’archi professionista, non crede?
OZAWA Sí, e potrebbero vivere di quello. Il problema è che tutti i
partecipanti al seminario desiderano diventare solisti.
MURAKAMI Invece i giovani che vogliono fare musica da camera
non sono molti?
OZAWA No. In effetti di gente disposta a impegnarsi tanto, per
suonare musica da camera, ce n’è poca. Chi si forma con noi,
però, se poi diventa professionista, farà una carriera piú lunga.
Per lo meno è la mia opinione.
MURAKAMI Robert Mann ha fatto musica da camera tutta la vita,
credo. È qualcosa che dipende dalla personalità, secondo lei? C’è
chi si interessa alla musica da camera, chi vuole diventare a tutti i
costi solista... Ma forse guadagnarsi da vivere solo con la musica
da camera non è possibile?
OZAWA Può darsi che sia cosí. Per questo tutti mirano a diventare
solisti, e se non ce la fanno, entrano a far parte di un’orchestra.
MURAKAMI E una volta integrati in un’orchestra, tendono a formare
dei quartetti con gli altri archi per fare musica da camera. Prenda i
Wiener Philharmoniker, ad esempio, i Berliner...
OZAWA Verissimo. L’orchestra permette loro di ricevere uno
stipendio fisso, e di suonare musica da camera nel tempo libero.
Solo per il piacere di farlo, perché come quartetti non
riuscirebbero a campare. Non è tanto facile.
MURAKAMI Il pubblico non ama molto la musica da camera, vero?
OZAWA Probabilmente no. Ad ascoltarla sono le persone
veramente appassionate, ma sono rare. Anche se negli ultimi
tempi pare che stiano aumentando.
MURAKAMI A Tōkyō, aprono molte piccole sale adatte alla musica
da camera, è una tendenza che si sta rafforzando. Posti come la
Kioi Hall, o la Casals Hall, che però ora ha chiuso.
OZAWA È vero. Un tempo non esisteva nulla del genere. Per la
musica da camera c’era solo il vecchio teatro Mitsukoshi. A
suonare erano il professor Saitō, o la violinista Iwamoto Mari. Poi
c’era la Dai-ichi Seimei Hall.
MURAKAMI L’Accademia dà un’enorme importanza ai quartetti per
archi, basa tutti i suoi programmi sui quartetti. Posso chiederle il
motivo?
OZAWA Be’, il programma di quest’anno non includeva nessun
quartetto di Mozart, né di Bartók o di Šostakovič, per citare dei
compositori moderni. Ma tutti i grandi, da Haydn ai
contemporanei, hanno composto musica per quartetto d’archi.
Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms, Čajkovskij, Debussy... E
tutti ci hanno messo ogni loro energia. Quindi interpretare queste
loro opere permette di comprenderli meglio. Soprattutto
Beethoven. Non si capisce davvero Beethoven se non si
conoscono i suoi ultimi quartetti. È questo il motivo per cui
insistiamo tanto sui quartetti per archi. Sono uno dei fondamenti
della musica.
MURAKAMI Sí, ma credo che gli ultimi quartetti di Beethoven siano
molto difficili, per dei musicisti di una ventina d’anni. Eppure uno
dei gruppi di quest’anno, quello migliore, ha interpretato il n. 13.
OZAWA Sí, sono in molti a pensare che occorre avere una grande
esperienza di vita, per suonare le ultime opere di Beethoven.
Perché sono molto complesse. Ma gli studenti le vogliono
suonare, sono loro a chiederlo, e io penso che sia un’ottima cosa.
MURAKAMI Sicuramente ci hanno messo l’anima. Ma non sceglie
mai altre opere, oltre ai quartetti per archi? Ad esempio un
quintetto di Mozart, con una viola in piú? Non le interessa?
OZAWA Sí che mi interessa. L’anno prossimo infatti pensiamo di
fare un sestetto di Brahms. Inoltre abbiamo fatto quel quintetto di
Dvořák con una parte per il contrabbasso. Sarebbe troppo triste,
per il contrabbassista, partecipare solo alle prove dell’orchestra.
MURAKAMI È vero. Gli ho parlato, gli ho chiesto: «Cosa fai, mentre
i quartetti provano?» Mi ha risposto che si esercita da solo, senza
protestare (rido). Ah, ci sarebbe anche il Quintetto di Schubert
con due violoncelli!
OZAWA Perché no? Facciamo anche delle variazioni. Il quartetto
per archi però resta il nostro principale interesse. La nostra base.
MURAKAMI È un metodo che ha ideato lei, vero? Metà seminario
dedicato ai quartetti, metà all’intera orchestra?
OZAWA Be’, sí, l’ho messo in piedi io. Ma è cosí che facciamo da
anni anche alla scuola estiva che ho creato in montagna, nella
stazione sciistica di Okushiga Kōgen. Una scuola specializzata
nella musica da camera. Poi abbiamo portato il modello in
Svizzera. Anche a Okushiga, la mia intenzione iniziale era di
lavorare solo sui quartetti per archi, ma visto il gran numero di
partecipanti, dopo cena per divertirci ci mettevamo a suonare
altro. Era bello. Visto che ero lí, a dirigere ero io. Credo che la
prima opera per orchestra che abbiamo suonato fosse il
Divertimento di Mozart. Poi l’abbiamo inserito nel programma.
Ogni anno suoniamo un’opera differente.
MURAKAMI Quindi il metodo è nato in modo spontaneo. Quando è
stata fondata, la scuola di Okushiga?
OZAWA Dunque, il seminario in Svizzera esiste da sette anni,
quindi la scuola di Okushiga da... da circa quindici.
MURAKAMI Insomma, ha importato in Europa il metodo di Okushiga
tale e quale.
OZAWA Sí. A Okushiga è venuto anche Robert Mann, e si è messo
a dire: «Sarebbe bello che riusciste a fare qualcosa di simile in
Europa». Cosí è iniziato tutto.
MURAKAMI Lei però è un direttore d’orchestra, non è strano che
abbia ideato un metodo per quartetto d’archi?
OZAWA È quello che dicono tutti. Ma quando studiavo col
professor Saitō, ho imparato piú o meno tutto il repertorio per
quartetto d’archi, il che mi è tornato estremamente utile. Quando
al seminario facciamo opere che non conosco, però, come questa
volta − Janáček, Smetana − devo studiare molto. Ci sono anche
diverse cose di Haydn che devo imparare. Comunque, il mio
compito piú importante all’Accademia è scegliere dei bravi
insegnanti. Se ci riesco, tutto il resto va a posto. Sia in Giappone
che in Europa, è la stessa cosa.
MURAKAMI Quindi lei gira di sala in sala, osserva professori e
allievi, dà qualche buon consiglio ogni tanto... il suo lavoro
consiste in questo?
OZAWA Sí. Se penso che sia necessario, intervengo, ma spesso
mi limito ad ascoltare in silenzio, do un parere solo se me lo
chiedono. A fare il lavoro vero, a insegnare, sono i professori.
MURAKAMI Okushiga dunque è riservata agli strumenti ad arco?
OZAWA L’idea di partenza era di concentrarci sul quartetto d’archi.
In seguito ho pensato di aggiungere degli strumenti a fiato, ho
anche parlato con degli insegnanti di flauto e di oboe. Ma se si
inizia ad allargarsi, le cose si complicano. Prendono una
dimensione troppo grande.
MURAKAMI E niente piano?
OZAWA No, niente piano. Se c’è anche il piano, l’effetto generale
cambia. Prenda un trio con pianoforte: sono tre solisti che
suonano insieme. In un quartetto d’archi, è il gruppo che conta, il
suono globale.
MURAKAMI Quando ascoltavo le prove a Okushiga, ho notato una
cosa interessante: il primo e il secondo violino si scambiavano le
parti da un movimento all’altro. Di solito, credo che la parte del
primo violino tocchi al musicista piú bravo, piú esperto. Invece lí
non funzionava cosí.
OZAWA Già, ed è un metodo ottimo. Abbiamo iniziato a Okushiga,
e abbiamo continuato a Okushiga. Tutti i nostri violinisti,
indipendentemente dalle loro capacità, a turno provano le parti di
primo violino e di secondo violino.
MURAKAMI E per quel che la riguarda, dirigere dei quartetti d’archi
ha qualche effetto positivo sulla sua attività musicale?
OZAWA Sí, credo. Mi sembra, per lo meno. Ad esempio, ho
imparato a studiare uno spartito nei minimi dettagli. Perché
dopotutto gli strumenti sono solo quattro. Non sto dicendo che la
musica per quartetto sia piú semplice. Al contrario, c’è una grande
concentrazione di elementi musicali.
MURAKAMI Assistendo alle lezioni di Robert Mann, ho notato che
nei suoi consigli c’era molta coerenza. Erano diversi nei dettagli
per ogni musicista, ma fondamentalmente trasmettevano la
stessa idea: innanzitutto, far emergere la voce interna. In un
quartetto d’archi, raggiungere l’equilibrio d’insieme credo che sia
molto difficile.
OZAWA È vero. Ma nella musica occidentale, la voce mediana è un
elemento importantissimo.
MURAKAMI Questo si può dire anche per le orchestre, non crede?
Di recente la tendenza a far emergere la voce mediana sta
diventando sempre piú forte. La musica orchestrale si sta
avvicinando a quella da camera.
OZAWA Ha ragione. È quello che fanno tutte le buone formazioni.
È necessario, se si vuole mettere in evidenza il senso della
musica.
MURAKAMI Ma lei ha detto che tutti gli studenti vogliono diventare
solisti. Per questo si concentrano sulla melodia principale, senza
preoccuparsi di far sentire la voce mediana. Quindi in un
quartetto, suonare la parte del secondo violino acquisisce un
grande significato.
OZAWA Lo penso anch’io. Dando risalto alla voce mediana, si vede
la musica dall’interno. Non è la cosa piú importante? Cosí
facendo, l’orecchio si educa. Questo vale anche per le viole, per i
violoncelli. Benché i loro strumenti siano concepiti per far parte di
un’orchestra, quando sono qui imparano a considerare questi
aspetti della musica piú profondamente.
MURAKAMI Un’altra cosa su cui insisteva Robert Mann, è che
suonare piano non significa suonare debolmente. L’ho piú volte
sentito rimproverare gli allievi: «Piano significa forte solo a metà.
Quindi suonate meno forte, ma con forza».
OZAWA E diceva bene. Quando leggiamo piano, tendiamo a
addolcire. Mann invece spiega che, anche se il volume sonoro è
basso, bisogna far sentire chiaramente quelle note. Che anche un
suono piú basso deve avere ritmo, e forza emotiva. Insomma, si
tratta di bilanciare tensione e distensione. Ha raggiunto questa
convinzione dopo aver suonato quartetti per circa cinquant’anni.
MURAKAMI Il suono del Juilliard String Quartet corrisponde
esattamente alla sua descrizione. È nitido, con fasi alterne di
tensione. Può darsi che al pubblico europeo non piaccia, però.
OZAWA È vero. Gli europei le diranno che preferiscono
un’atmosfera un po’ vaga, un po’ ambigua. Mann però pensa che
occorra suonare la musica esattamente come il compositore l’ha
concepita. In modo da farne arrivare fedelmente il suono alle
orecchie di chi ascolta. È questo il suo obiettivo.
Un’interpretazione senza imprecisioni.
MURAKAMI Un’altra cosa che diceva spesso era: «Non vi sento!»
Ad esempio alla fine di un diminuendo, quando il volume poco per
volta si abbassa. Insisteva molto su questo punto: suonare note
tenui, ma chiare.
OZAWA Sí, mi rendo conto. Mann sostiene che per rendere ben
udibili le note piú tenui, bisogna suonare un po’ piú forte quelle
che vengono prima. Se si comincia già piano, non si va da
nessuna parte. Sono tutte cose che lui sa calcolare bene.
MURAKAMI Diceva anche: «In questa sala io ti sento, ma in un
grande auditorium non ti sentirà nessuno».
OZAWA Be’, parlava per esperienza. Conosce le sale del mondo
intero. Anche quando si suona in un luogo piccolo, bisogna
immaginare di farlo in un teatro.
MURAKAMI Ne ho parlato poi con Harada Sadao. Che la sala sia
grande o piccola, il suono giusto è quello che si sente
chiaramente.
OZAWA Sí, mi sembra una definizione corretta. La migliore che si
possa trovare, anche se in pratica non è certo una cosa facile.
MURAKAMI Il concerto di Ginevra si è tenuto alla Victoria Hall e
quello di Parigi sarà alla Salle Gaveau. Le due sale hanno
un’acustica completamente diversa. Questo sembra disorientare
molto gli allievi.
OZAWA È vero. Devono esercitarsi molto, per riuscire a sentirsi gli
uni con gli altri.
MURAKAMI E poi Mann li incoraggiava a comunicare fra loro:
«Parlate!» diceva. Non nel senso di «cantate», ma piuttosto di
«dialogate».
OZAWA Sí, lui cerca qualcosa di piú ampio che non degli strumenti
che cantino. Il canto non gli basta. Cantare praticamente significa
fare: Uaaaaaa... (allarga le braccia) È ovvio che i musicisti devono
cantare, ma non è tutto. Devono scambiarsi dei segnali, dirsi
quando si inizia a cantare e quando si finisce. Penso che Mann
volesse dire che bisogna essere consapevoli di ogni fase.
MURAKAMI Ripeteva anche che ogni compositore ha un suo
linguaggio personale, e gli interpreti devono parlare in quel
linguaggio.
OZAWA Sí, nello stile del compositore. Occorre interiorizzare il suo
linguaggio caratteristico.
MURAKAMI Al tempo stesso, sosteneva che Smetana ha un modo
di esprimersi tipicamente ceco, Ravel tipicamente francese... e i
musicisti ci devono riflettere. Una concezione molto interessante.
Insomma, mi pare che Robert Mann abbia delle idee molto chiare,
e le ribadisca di continuo. Non adatta il suo metodo
d’insegnamento agli allievi. Ha una sua filosofia coerente, dalla
quale non si discosta.
OZAWA Di nuovo, è qualcosa che nasce dalla sua lunga
esperienza. Mann ha il suo modo di vedere le cose. Dopotutto si è
dedicato alla musica da camera piú a lungo di chiunque altro, e
quanto a esperienza, non c’è nessuno che gli possa stare alla
pari.
MURAKAMI È possibile che alcune delle sue teorie contrastino con i
metodi d’insegnamento di Pamela, di Nobuko, o di Sadao?
OZAWA Be’, è naturale. È quello che ho sempre detto agli allievi. I
professori hanno tutti idee differenti gli uni dagli altri, è ovvio. Lo
riconoscono sia Mann sia gli altri insegnanti. Il fatto che ci siano
pareri discordi è l’essenza stessa della musica. È per questo
d’altronde che l’amiamo. Ma anche se si sostengono cose
diverse, poi si arriva tutti allo stesso punto. Be’, non sempre, però.
MURAKAMI Può farmi degli esempi concreti?
OZAWA Ecco, le racconterò una cosa successa qualche giorno fa,
mentre Robert Mann dava indicazioni sul Quartetto di Ravel. La
partitura indicava una lunga legatura. La maggior parte dei
violinisti e violoncellisti pensavano di dover suonare quelle note
una dopo l’altra, senza cambiare la direzione dell’archetto.
Prendevano l’indicazione per un consiglio sul modo di usare
l’archetto, insomma. Per alcuni compositori, invece, è solo un
modo per indicare una frase musicale. Mann, che l’interpretava
cosí, ha detto di fermare l’archetto.
MURAKAMI Cioè, potevano cambiarne la direzione nel bel mezzo
del legato.
OZAWA Sí. Peccato che poco prima Pamela avesse chiesto loro di
fare il contrario. Per lei, visto che il compositore aveva scritto
legato, dovevano mantenere la direzione dell’archetto. Due pareri
opposti. Ma Pamela si è subito allineata alla posizione di Mann.
Avevo dato istruzioni in quel senso.
MURAKAMI Ah, ecco cos’è successo! Non avevo capito che si
trattava di una questione tecnica.
OZAWA Per gli allievi era veramente difficile seguire le indicazioni
di Pamela, ma il compositore aveva scritto legato, e lei voleva
attenersi all’indicazione.
MURAKAMI Insomma, lei voleva che spingessero l’archetto dalla
punta all’estremità, in un gesto solo, anche se era quasi
impossibile. Perché lo spartito diceva cosí. Per Mann invece non
era necessario.
OZAWA No. Se il suono che si produce è quello voluto dal
compositore, invertire la direzione dell’archetto per lui non è un
problema. Un archetto ha una lunghezza fissa, non ha senso
usarlo in modo forzato. Lui la pensa cosí. In realtà hanno
entrambi ragione. Gli studenti possono provare l’una e l’altra
maniera, poi scegliere quella che gli riesce meglio.
MURAKAMI Persone diverse arrivano a conclusioni diverse,
insomma.
OZAWA Sí, come ogni cantante canta a modo suo, a seconda della
capacità dei suoi polmoni. Alcuni dovranno riprendere fiato piú
spesso, altri no. Ci sono violinisti che possono suonare una frase
intera in una sola arcata, altri no.
MURAKAMI A proposito, Mann ha parlato spesso di fiato. Quando
qualcuno canta, diceva, deve per forza, prima o poi, prendere
fiato. Ma disgraziatamente gli archi non hanno bisogno di
prendere fiato, quindi bisogna suonare tenendo a mente i respiri.
È interessante che abbia detto «disgraziatamente». Poi ha anche
parlato a lungo del silenzio. Il silenzio non è soltanto l’assenza di
suono: c’è un suono che è il silenzio stesso.
OZAWA Sí, è equivalente al ma giapponese. È un concetto che si
trova nel gagaku, e anche nella musica per il biwa e lo
shakuhachi 1. Ci si avvicina moltissimo. Questo tipo di ma lo si
trova segnato anche sugli spartiti occidentali. Non sempre, però.
Sono cose che Mann comprende benissimo.
MURAKAMI Invece ha parlato molto poco del modo di usare
l’archetto e le dita. Questo mi ha sorpreso. Pensavo che in quanto
specialista, desse indicazioni piú dettagliate.
OZAWA Gli allievi che vengono qui, hanno già le idee abbastanza
chiare su questo argomento. Quindi i corsi di Mann sono a un
livello superiore. L’uso dell’archetto e la diteggiatura non sono un
problema. Non credo, per lo meno.
MURAKAMI Sí, ma dava anche consigli tipo: «Questo lo dovresti
suonare piú vicino al ponticello», oppure: «Questo fallo sulla
tastiera». Indicazioni tecniche, insomma.
OZAWA Sí. Perché cosí si modifica il suono. È piú morbido quando
si suona al di sopra della tastiera, piú deciso vicino al ponticello. È
vero che Mann dà spesso consigli tecnici.
MURAKAMI Non sono un musicista, ma ascoltandolo ho imparato
molto, mi creda.
OZAWA Non ne dubito. Assistere alle sue lezioni è un’opportunità
rara, un vero privilegio. Una cosa che arricchisce. Le abbiamo
filmate tutte in modo da poterle rivedere.
MURAKAMI Robert Mann ha un metodo chiaro, preciso. Lei invece,
signor Ozawa, segue una via diversa, mi sembra. Poco per volta
adatta il suo insegnamento alle circostanze.
OZAWA È vero. Il mio maestro, il professor Saitō, assomigliava
molto a Mann. Anche lui aveva un metodo molto preciso. Io però
sono sempre stato contrario. Contrario a un insegnamento deciso
fin dall’inizio. Già bell’e pronto. Penso che la musica non sia solo
quello, l’ho sempre pensato. E mi sforzo di agire in accordo con
quest’idea.
MURAKAMI Cioè di fare il contrario di quello che aveva imparato da
giovane?
OZAWA Esatto. Nel mio modo di dirigere un’orchestra, e anche di
insegnare. Che si tratti dell’una o dell’altra cosa, non ho idee
preconcette, non preparo niente in anticipo. Decido quando mi
trovo di fronte ai musicisti, o agli allievi. Osservo come si
comportano, e reagisco di conseguenza, caso per caso. Non
potrei mai scrivere un manuale. Non ho mai niente da dire, prima
di trovarmi davanti alle persone.
MURAKAMI E parla loro nel modo che giudica opportuno in quel
momento. È una fortuna per gli allievi poter seguire al tempo
stesso i suoi corsi e quelli di Robert Mann, con la sua filosofia
rigorosa. Credo che la combinazione funzioni.
OZAWA Sí, infatti.
MURAKAMI Quando ha iniziato a provare interesse per la
formazione dei giovani?
OZAWA Dunque... ero appena stato a Tanglewood, quindi circa
dieci anni dopo essere diventato direttore della Boston Symphony
Orchestra. Avevo già ricevuto degli inviti a insegnare, in
precedenza, ma nulla che mi attraesse. Ero arrivato a Boston da
poco, quando il professor Saitō ha iniziato a insistere perché
andassi a insegnare alla Tōhō Gakuen, ma ho rifiutato piú volte.
«Non ne ho nessuna voglia», gli dicevo. Finché ho ceduto e ho
accettato, ma poco dopo il professor Saitō è morto. Di
conseguenza ho sentito tutta la responsabilità del ruolo che avevo
assunto, e ho preso l’insegnamento molto sul serio. Per questo
motivo ho poi iniziato a formare gli allievi anche a Tanglewood.
MURAKAMI Formarli per diventare direttori d’orchestra?
OZAWA No, non direttori. Facevo solo esercitare l’orchestra. E
anche a Tanglewood, nell’ultimo periodo, ho iniziato a occuparmi
di quartetti d’archi. Perché sono convinto che se non si è capaci di
suonare in un quartetto, non si riuscirà a suonare da nessuna
parte. Non lo facevo scrupolosamente come qui all’Accademia,
ma ci andavo vicino.
MURAKAMI Io scrivo romanzi, e piú o meno è l’unica cosa che
faccio. Però mi è capitato due volte di insegnare. In America,
tenevo un corso sulla letteratura giapponese all’Università di
Princeton e uno alla Tufts. Ma preparare le lezioni mi portava via
un sacco di tempo, ed era talmente faticoso, che mi sono subito
reso conto di non essere tagliato per quel mestiere. Stare con i
giovani mi piaceva, era stimolante, ma non era quello che
veramente desideravo: io sono uno scrittore e voglio scrivere. A
lei è mai successo di provare una sensazione del genere?
OZAWA Sí, a Tanglewood, e non ero affatto contento. Dovevo dare
un concerto alla settimana, e in piú insegnare. Una fatica
tremenda. A Matsumoto, all’inizio, è stata la stessa cosa, perché
al tempo stesso dirigevo il Saitō Kinen Festival. Alla fine ho
spostato l’insegnamento a Okushiga, per poter tenere separate le
due attività. Col risultato che non ho un attimo di riposo.
MURAKAMI Per forza. Se d’estate, durante le vacanze, si dedica
all’insegnamento, dove troverebbe il tempo di riposare?
OZAWA Infatti. La Saitō Kinen occupa tutto il periodo estivo, e si è
aggiunto anche Okushiga. Pazienza, perché in realtà a me
insegnare piace. Ma sono soprattutto un direttore d’orchestra, fare
entrambe le cose contemporaneamente è quasi impossibile.
MURAKAMI Ci sono altri famosi direttori d’orchestra interessati a
formare i giovani?
OZAWA Non ne ho idea. Non credo.
MURAKAMI Scusi la domanda indiscreta, ma lei insegna a titolo
gratuito? Senza compenso?
OZAWA Sí, per principio. Gli altri professori sono pagati, ma io non
prendo un soldo, né a Okushiga né in Svizzera. Quest’anno però
è andata diversamente, perché a causa della mia malattia non ho
potuto dirigere in altri posti, ho fatto un’eccezione solo per
l’Accademia. Sono venuto apposta, quindi ho ricevuto un
compenso. Ma a parte questa volta, non ho mai chiesto nulla.
MURAKAMI Forse per lei già il fatto di insegnare costituisce un
compenso in sé. Comunque il suo metodo è del tutto diverso da
quello che usava il professor Saitō. Anche tutti gli altri professori,
a Rolle, erano molto rilassati. Non c’era nessuno che alzasse la
voce.
OZAWA Oh, a volte lo fanno! Un giorno Harada Sadao, durante
una prova, ha urlato contro un allievo. Tutti sono rimasti di sasso,
è calato un silenzio di tomba. Succede, sa? Il professor Saitō si
arrabbiava di continuo (ride).
MURAKAMI In questo seminario gli allievi sono tutti bravissimi.
Saranno abituati a considerarsi i migliori. Succede che qualcuno
di loro non accetti volentieri di seguire le indicazioni?
OZAWA Certo, a volte capita. Per questo dobbiamo avere dei
professori molto competenti. Gente sicura di sé.
MURAKAMI D’altronde, se non fossero fortemente competitivi, non
potrebbero diventare dei professionisti.
OZAWA È vero.
MURAKAMI Non dev’essere facile dividere gli allievi in sei o sette
gruppi e assegnare a ognuno un brano diverso.
OZAWA Sí, ma fa tutto Sadao. È un lavoraccio. Prima lo aiutavo un
po’, ma era uno sforzo troppo grande. Adesso affido tutto a lui.
Perché è uno specialista di musica da camera, dopotutto.
MURAKAMI Lei mi ha detto che l’anno scorso, a causa
dell’operazione che ha subito, non ha potuto partecipare al
seminario. Pensa che questo abbia avuto un effetto
sull’Accademia?
OZAWA Mi è spiaciuto molto non esserci. Ma il direttore d’orchestra
Yamada Kazuki mi ha in parte sostituito, e la mia assenza, come
le ho già spiegato, ha avuto degli effetti positivi. È solo una mia
congettura, ma immagino che il fatto di doversela cavare da soli
abbia dato un bello scossone a insegnanti e allievi, che si saranno
detti: «Qui dobbiamo inventarci qualcosa!», e si sono assunti la
responsabilità dei corsi. È il motivo per cui quest’anno alcuni
gruppi non erano contenti di vedersi assegnare le opere su cui
esercitarsi, avrebbero voluto sceglierle loro, l’hanno detto
chiaramente. Anch’io penso che sarebbe meglio. Lasciar fare a
loro, cioè.
MURAKAMI Il gruppo che ha lavorato su Ravel era formato da due
musicisti polacchi, un russo e un francese. Ho chiesto ad Agata,
la violinista, perché un gruppo cosí composto desiderasse
suonare Ravel. Lei mi ha risposto: «Cercavo una sfida. Non
volevo suonare Szymanowski solo perché sono polacca, volevo
provare l’opera di un francese».
OZAWA Ah, veramente? Solo lei, Haruki, poteva farle una
domanda del genere. Se gliel’avessi chiesto io, non credo che mi
avrebbe risposto sinceramente. Per lei parlarle con franchezza
era piú facile, non essendo professore, in piú esterno
all’Accademia.
MURAKAMI Il gruppo ha ricreato splendidamente il suono di Ravel.
Ero talmente stupito che non ho potuto trattenermi dal farle quella
domanda.
OZAWA Io non avrei mai potuto, e sarebbe stato inutile.
MURAKAMI Realizzare quel desiderio, per Agata, è stata una cosa
positiva, però, vero? Considerata la difficoltà del brano.
OZAWA Sa, insegnare non è il mio vero mestiere. Né a Rolle né a
Okushiga. Anche adesso, dopo aver portato avanti il programma
per quindici anni, avanziamo a tentoni. Ci esercitiamo
regolarmente ogni giorno, ma non sappiamo quale sia il modo
giusto di insegnare, non c’è. Come trasmettere ai giovani la
nostra concezione della musica, lo capiamo di volta in volta. E fa
bene anche a noi. Perché torniamo alle nozioni basilari.
MURAKAMI Quindi anche dei professionisti di fama mondiale, come
lei, possono imparare insegnando?
OZAWA Certo. Lei però cosa ne pensa? Dopo aver assistito al
seminario. Sinceramente, pensa che abbia senso, tutto questo?
MURAKAMI Sí, ha senso ed è molto importante. Giovani con
personalità diverse, che vengono da Paesi diversi, si riuniscono
per suonare e imparare tante cose sotto la guida di insegnanti con
molta esperienza, i migliori che ci siano. Dopodiché tutti insieme
danno un concerto pubblico, su un palcoscenico, prima di
separarsi e tornare ognuno al proprio Paese. È emozionante
pensare che alcuni fra i piú grandi musicisti futuri avranno seguito
questo seminario, si saranno formati all’Accademia di Rolle. E mi
piace immaginare che un giorno si ritroveranno tutti insieme, una
specie di rimpatriata, e decideranno di costituire una grande
orchestra come la Saitō Kinen. Un’orchestra che non terrà conto
né della nazionalità né delle opinioni politiche. Sí, credo che prima
o poi nascerà.
OZAWA In realtà, molti di loro mi hanno già chiesto di dirigere
l’orchestra in una grande tournée. Anche il direttore
amministrativo e altri pensano che varrebbe la pena di farli
conoscere, questi ragazzi, dopo aver fatto tanti sforzi per portarli a
questo livello. Al momento diamo solo due concerti, a Ginevra e a
Parigi, ed è un po’ uno spreco. Dicono che sarebbe bello andare
anche a Vienna, a Berlino, a Tōkyō, a New York... Ma finora ho
rifiutato. Per il momento, non penso che sia necessario. Ma non
escludo la possibilità, in futuro potremmo anche farlo.
MURAKAMI Non dev’essere facile. Se l’orchestra diventa stabile,
può darsi che l’insegnamento perda di significato... Penso che lei
la faccia provare in modo diverso da quello che usa con la Boston
Symphony, ad esempio, o i Wiener Philharmoniker.
OZAWA Sí, molto diverso. Sia nell’atteggiamento che nella tecnica.
Tanto per cominciare, quando si lavora con un’orchestra di
professionisti, si hanno a disposizione tre giorni per preparare un
intero concerto. I programmi sono stabiliti senza possibilità di
variazioni. In quest’orchestra dell’Accademia invece il numero
delle opere è molto piú limitato, e si può dedicare tutto il tempo
necessario a studiare ogni brano. Nelle nostre prove studiamo la
musica veramente in profondità. Quando si inizia a esercitarsi sul
serio, le difficoltà emergono una dopo l’altra.
MURAKAMI Vuole dire che piú si prova, piú diventa difficile
sciogliere i nodi piú complicati?
OZAWA Esattamente. Anche se si riesce a portare i musicisti a
respirare all’unisono, ci saranno sempre dei passaggi che non
sono in sintonia. Passaggi in cui note e sfumature, e anche il
ritmo, sono un po’ sfasati. In questo caso, occorre impiegare tutto
il tempo necessario per far andare a posto ogni dettaglio. Quindi il
concerto che daremo domani sarà di un livello un poco superiore
al precedente. Perché ogni volta esigiamo dagli studenti un po’ di
piú. In questo processo, apprendo molto anch’io.
MURAKAMI Che cosa impara, esattamente?
OZAWA Vengono fuori i miei punti deboli.
MURAKAMI I suoi punti deboli?
OZAWA Be’... è il risultato stesso che li mette in evidenza (riflette
per un momento, ma non mi dà un esempio concreto).
MURAKAMI Naturalmente non so quali possano essere le sue
debolezze, ma una cosa è sicura: giorno dopo giorno, il suono
che produce l’orchestra diventa il suo, quello che vuole lei. Lo
trovo straordinario. Che lei riesca a ottenere questo risultato, cioè.
OZAWA Ma è solo perché tutti sono di un livello molto alto.
MURAKAMI Assistendo ai corsi, mi sono reso conto per la prima
volta di quanto lavoro richieda la creazione di un suono che
coniughi le diverse personalità con l’intento comune. Ma lei prima
ha detto che i musicisti diventano piú bravi, dopo aver suonato in
un quartetto d’archi. Potrebbe farmi un esempio pratico?
OZAWA Per spiegarlo in modo molto semplice, quando lei suona
con altre persone, le sue orecchie sono aperte in tutte le direzioni,
ben piú che se suonasse da solo. È fondamentale. Naturalmente
questo succede anche quando si fa parte di un’orchestra. Bisogna
ascoltare bene la musica degli altri. Ma in un quartetto d’archi la
comunicazione tra gli strumenti può diventare ancora piú intima.
Mentre si suona, si tende l’udito: «Ah, il violoncello sta facendo
qualcosa di molto bello», oppure: «Il mio suono non si accorda
per niente con quello degli altri». Inoltre i musicisti possono
parlare e scambiarsi pareri. In un’orchestra non è possibile. Ci
sono troppe persone. In quattro invece si può discutere. C’è
questa facilità di comunicazione. Quindi è naturale che si ascolti
attentamente il suono degli altri. Cosí la musica diventa sempre
piú bella, sempre piú profonda, lo si percepisce chiaramente.
Perché si lavora in modo efficace.
MURAKAMI Capisco quello che vuole dire. Tuttavia, mentre
assistevo alle prove, mi sembrava che tutti suonassero con una
certa supponenza, quasi volessero dire: «Sono io il migliore!»
OZAWA Ah, ah, ah! È vero, c’è anche questo tipo di allievo.
Soprattutto qui. In Giappone è diverso.
MURAKAMI Perché i giapponesi non amano mostrarsi troppo sicuri
di sé. I programmi che lei svolge a Okushiga e in Svizzera sono
simili, signor Ozawa, ma immagino che il suo metodo di
insegnamento vari un po’ da un posto all’altro.
OZAWA Sí, certamente. Anche i giapponesi hanno le loro qualità:
studiano con impegno e lavorano bene in gruppo. A Okushiga,
questo ha sia aspetti positivi che negativi. In Giappone, mostrare
un ego troppo forte, be’... come si dice, già? C’è un proverbio, no?
MURAKAMI «Il chiodo che sporge si becca la martellata»?
OZAWA Sí, quello. O qualcosa di simile. In ogni caso, i giapponesi
non amano farsi notare, parlare piú del necessario. Occuparsi
degli affari altrui... Non vogliono creare attriti. Portano pazienza,
sempre. Ad esempio, il mattino in treno stanno schiacciati come
sardine, ma nessuno protesta. Tutti sopportano in silenzio.
Quando si tratta di realizzare un programma come il nostro, però,
la tolleranza ha un lato buono, ma anche qualche svantaggio. Se
adesso portassi questi ragazzi che studiano qui in Europa a
Tōkyō, e gli facessi prendere la linea Odakyū alle otto del mattino,
esploderebbero (ride). Nessuno sopporterebbe di essere
schiacciato.
MURAKAMI Lo posso immaginare (rido).
OZAWA Comunque sia, qui (in Europa) mostrarsi sicuri di sé è
normale. È necessario. In Giappone la gente, prima di agire, ci
pensa su mille volte. E poi magari rinuncia. Questa differenza è
importante. Se mi chiede quale sarebbe il giusto mezzo, non lo
so. Nel caso di un quartetto d’archi, però, il modo europeo
funziona meglio. Discutendo e scontrandosi, si arriva a un ottimo
risultato. È per questo che in Giappone grido sempre agli allievi:
«Forza, non abbiate paura di parlare!»
MURAKAMI Non osano, vero?
OZAWA Lei ha assistito a questo seminario in Svizzera, no? Se
volesse assistere anche a quello di Okushiga, si renderebbe
conto subito che la differenza è abissale. Le basterebbe un
giorno. Quest’anno però, purtroppo, a Okushiga non c’è stato
nessun seminario, anche a causa del terremoto. Avrei tanto voluto
invitarla, Haruki.
MURAKAMI È solo rimandato, la prossima volta verrò con grande
piacere. Ma torniamo agli studenti europei. Se non sono convinti
delle critiche dei professori, lo dicono, reagiscono. Rispondono:
«No, per me non è cosí...» Lo fanno anche con una star di fama
mondiale come Robert Mann, quando non capiscono. Per un
giapponese sarebbe impossibile. Se un giovane studente si
permettesse di discutere le indicazioni di un maestro famoso, tutti
lo guarderebbero sconcertati. Penserebbero: «Che maleducato,
ma chi si crede di essere!»
OZAWA Sí, andrebbe esattamente cosí.
MURAKAMI La stessa cosa succede in tutti i campi, in Giappone.
Anche nel mondo degli scrittori, piú o meno è uguale. Prima di
intervenire, la gente cerca di capire cosa ne pensino gli altri. Si
guarda attorno, fiuta l’aria, e solo a quel punto alza la mano per
dire qualcosa che non dia fastidio a nessuno. Di conseguenza
non è possibile fare alcun progresso importante, non si muove
nulla.
OZAWA Sa, di recente in Giappone, tra i giovani musicisti, si è
creato un baratro tra quelli che scelgono di andare subito
all’estero, e quelli che, pur avendone l’occasione, decidono di
restare. Un tempo, molti volevano partire, ma rinunciavano perché
non avevano i soldi. Al giorno d’oggi, se uno vuole studiare fuori
dal Paese, i mezzi per farlo li trova facilmente, ma sono sempre
piú numerosi quelli che non ci tengono. La tendenza è questa.
MURAKAMI Quando lei ha lasciato il Giappone, le restrizioni erano
ancora tante, ma lei è partito, ha spiccato il volo, con o senza
denaro.
OZAWA È vero. Ero una testa matta. In Giappone alla radio davano
spesso dei concerti di un’orchestra che si chiamava Symphony of
the Air. Ascoltandoli, ho capito che restare in Giappone non mi
avrebbe portato da nessuna parte. Che dovevo assolutamente
andare all’estero, a qualunque costo. Ed è quello che ho fatto.
MURAKAMI E adesso che il cerchio è chiuso, prova il forte desiderio
di tornare in Giappone e formare i giovani musicisti...
OZAWA Sí, ma è un desiderio che ho cominciato a provare molto
tardi.
MURAKAMI Ora che è qui, e che insegna agli allievi seguendo le
sue idee, molti esperti nel campo dell’educazione musicale la
criticano, dicono che il suo non è un vero metodo
d’insegnamento.
OZAWA Pare che sia cosí. Ogni tanto mi vengono riferiti commenti
del genere.
MURAKAMI E gli studenti? Non restano spiazzati, davanti a un
atteggiamento tanto lontano da quello cui sono abituati?
OZAWA Sa, vivendo gomito a gomito per diversi giorni, si finisce
per conoscersi bene. Trattandosi di persone che suonano insieme
− di colleghi, in fondo − si diventa amici senza rendersene conto.
È questo il senso di un seminario musicale. A forza di esercitarsi
insieme, ci si capisce l’un l’altro.
MURAKAMI Sono veramente rimasto affascinato nel constatare
quanti progressi facevano gli allievi, quanto profonda diventava la
loro musica. Non vivevo con loro, ma incontrandoli ogni giorno ho
imparato i loro nomi e capito il loro stile musicale. E ho percepito
la loro trasformazione con un’intensità incredibile. «È dunque cosí
che si crea una musica splendida?» ho pensato. Ero in
ammirazione, anzi, ero commosso.
OZAWA Sí, è davvero una cosa fantastica. È questa la forza dei
giovani. Ogni anno, resto senza parole davanti alla velocità con
cui, in pochi giorni, fanno progressi straordinari. È stupefacente.
Bisogna vederlo per crederci.
MURAKAMI Sí, è un’esperienza rara. Essendo uno scrittore, lavoro
sempre da solo, e assistere alla creazione di un’opera artistica da
parte di un gruppo, mi ha dato molte emozioni. Mi è davvero
piaciuto tanto.

1. Il ma è un concetto estetico, filosofico e artistico, spesso applicato anche


nella vita quotidiana. Il termine si potrebbe tradurre con «spazio»,
«intervallo», «spazio vuoto tra due elementi»; il gagaku è un tipo di musica
classica accompagnata da danza d’origine cino-coreana, che veniva
eseguita alla corte imperiale di Kyōto in epoca Heian (794-1185); il biwa è
un liuto piriforme giapponese a manico corto; il termine shakuhachi indica i
flauti dritti giapponesi.
Postfazione
di Ozawa Seiji
Molti dei miei amici sono dei melomani, ma nessuno ama la
musica quanto Haruki. Sia la musica classica che il jazz. Non solo la
ama, ma la conosce benissimo. Sa tutto: storia, personaggi,
aneddoti... ogni aspetto, fin nei minimi dettagli. È impressionante. Va
ad assistere ai concerti, frequenta le sale jazz e credo che a casa
ascolti sempre dei dischi. Sa tante cose che io ignoro, al punto che
sono rimasto sbalordito.

Se ho potuto conoscere Haruki, è grazie al fatto che mia figlia


Seira − l’unica della famiglia ad avere qualche talento letterario − e
Yōko, la moglie di Haruki, sono amiche.
Haruki è venuto a sentire le prove del seminario musicale che
tengo ogni anno a Kyōto, un evento che mi sta molto a cuore. Sotto
lo sguardo curioso dei miei colleghi insegnanti e degli allievi, una
sera siamo usciti insieme, siamo andati in centro a goderci la vita
notturna della città. Era la prima volta che lo facevamo, sia lui che io.
La nostra prima conversazione l’abbiamo dunque avuta nel
quartiere di Ponto-chō, in un piccolo bar dove non eravamo mai stati
(e dove si poteva mangiare qualcosa). Ricordo che abbiamo parlato
soprattutto del seminario, ma anche di musica in generale.

Il giorno dopo, di ritorno a Tōkyō, ho parlato a Seira di questa


serata. «Se la vostra conversazione è stata cosí interessante,
perché non vi incontrate di nuovo e non registrate quello che vi
dite?» mi ha suggerito lei. Sul momento non mi è parso un progetto
realizzabile, ma dopo l’operazione che ho subito per rimuovere un
tumore all’esofago, mi sono ritrovato con molto tempo libero. Cosí,
quando sono stato invitato, con tutta la mia famiglia, a casa di Haruki
nella prefettura di Kanagawa, mentre gli altri chiacchieravano in
cucina, sono andato con lui in un’altra stanza ad ascoltare dei dischi
che aveva già selezionato per me.
Erano delle registrazioni di Glenn Gould e Uchida Mitsuko. Di
colpo, tanti ricordi di Gould mi sono tornati in mente, malgrado
risalissero a mezzo secolo prima.

Prima dell’operazione, avevo troppo lavoro per pensare al


passato, ma ora i ricordi tornavano, uno dopo l’altro, in un’ondata di
nostalgia. Un’esperienza nuova, per me. L’operazione non mi aveva
portato solo guai. Grazie a Haruki, ritrovavo il Maestro Karajan,
Lenny, la Carnegie Hall, il Manhattan Center (c’era ancora?)... tutto
sfilava nella mia mente. E ho continuato a pensarci nei tre o quattro
giorni seguenti.

Alla Carnegie Hall, avevo in programma di dirigere la Saitō Kinen


Orchestra e accompagnare Uchida Mitsuko nel Concerto per piano
n. 3 di Beethoven, ma ho dovuto rinunciare a causa di un grave mal
di schiena. Ho chiesto a Shimono Tatsuya di sostituirmi. Credimi,
Mitsuko, mi dispiace molto. Ma la cosa è solo rimandata.
No, non tutto il male vien per nuocere, nemmeno una grave
malattia. Perché lascia molto tempo libero. Grazie Seira. Se ho
potuto conoscere Haruki, lo devo a te.
Grazie Haruki. Perché lei ha riportato in vita un’infinità di ricordi.
Inoltre, non so come, è riuscito a farmi parlare con sincerità di tante
cose. E grazie anche a Yōko, per tutti i deliziosi stuzzichini che ci
faceva trovare pronti sul tavolo.
E ancora grazie a entrambi, Haruki e Yōko, per essere venuti in
Svizzera. Ho sempre pensato che per capire il significato del nostro
lavoro a Rolle bisogna vederlo con i propri occhi.
Purtroppo quest’anno Haruki non è potuto venire a Okushiga. Che
non manchi l’anno prossimo!
Discuteremo delle differenze fra i giovani musicisti europei e quelli
asiatici.
novembre 2011.
Il libro

T RADUZIONE DI ANTONIETTA PASTORE

Murakami Haruki, Ozawa Seiji, la musica.


Lo scrittore di fama mondiale e il celebre direttore d’orchestra
si incontrano per parlare della loro piú grande passione: il risultato
di questo scambio non può che essere eccezionale.
E queste conversazioni lo dimostrano. Come in una sonata a
quattro mani, i due artisti intessono un dialogo sulla musica, la
sua storia, i suoi protagonisti, il significato che assume nelle
nostre vite.
Insieme ascoltano e analizzano, scompongono, confrontano, si
emozionano. Insieme, danno voce a un amore, quello per la
musica, assoluto.

Il ritmo è una successione di forme di movimento, di suoni e di


pause, di luce e di buio, di frenesia e di quiete. Il ritmo è un
concetto che accomuna i libri e la musica: i romanzi piú belli ne
hanno sempre uno, e leggerli è piacevole quanto ascoltare una
canzone a occhi chiusi.
«Se in un testo non c’è ritmo, nessuno lo leggerà», afferma
Murakami Haruki, che ha imparato a scrivere ascoltando musica.
La sua passione è nota a tutti i lettori: non solo i suoi romanzi
sono percorsi da una costante colonna sonora formata dalle
canzoni che ascoltano i personaggi, o in cui si imbattono per
caso, ma l’autore giapponese ha anche gestito un jazz club a
Tōkyō, il famoso Peter Cat. E può vantare un amico d’eccezione:
il grande maestro Ozawa Seiji, che ha diretto le orchestre piú
importanti del mondo, tra cui la Boston Symphony Orchestra per
ventinove anni, dal 1973 al 2002.
Uniti da una sincera amicizia e spinti dal profondo amore per la
musica, l’appassionato e il professionista hanno deciso di scrivere
insieme Assolutamente musica: sei conversazioni e quattro
interludi che spaziano da Beethoven ai collezionisti maniacali di
dischi, da Brahms al rapporto tra musica e scrittura, da Mahler al
blues, fino alla formazione dei giovani musicisti piú talentuosi.
Murakami e Ozawa ci raccontano la loro passione attraverso
questa insolita guida all’ascolto, capace di farci rivivere l’armonia
di un pomeriggio tra amici che parlano di ricordi. E capace di farci
emozionare.

«Una raccolta di dialoghi tra due artisti appassionati: lo scrittore


immerso nella musica, nella vita e nei romanzi e il talentuoso
maestro d’orchestra. Queste pagine compongono una melodia
incantevole».
«The New York Times»
L’autore

MURAKAMI HARUKI è nato a Kyōto nel 1949. Romanziere,


saggista, traduttore (ha tradotto in giapponese autori come
Fitzgerald, Capote e Carver), ha vinto numerosi premi, tra cui il
Tanizaki e il Jerusalem Prize. Tutte le sue opere sono pubblicate
da Einaudi. Tra queste ricordiamo Norwegian Wood, A sud del
confine, a ovest del sole, Kafka sulla spiaggia, 1Q84, L’incolore
Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, i racconti di Uomini
senza donne, e i saggi L’arte di correre e Il mestiere dello
scrittore. Il suo ultimo romanzo apparso in italiano è L’assassinio
del commendatore.

OZAWA SEIJI è stato direttore della Boston Symphony


Orchestra per circa trent’anni. Ha inoltre diretto la Toronto
Symphony Orchestra, la San Francisco Symphony, il Ravinia
Festival e la Wiener Staatsoper. Fondatore e direttore artistico del
festival di Matsumoto e della Saitō Kinen Orchestra, è impegnato
anche nella formazione di giovani musicisti in Giappone e in
Europa.

ANTONIETTA PASTORE è nata a Torino. Ha studiato a Ginevra


e a Parigi e dal ‘77 al ‘93 è stata visiting professor all’Università di
Osaka. Nel 1993 è tornata a vivere in Italia: da allora si dedica
alla traduzione letteraria e alla scrittura. Oltre a gran parte della
produzione di Murakami Haruki, ha tradotto le opere di numerosi
autori, tra i quali Natsume Sōseki, Inoue Yasushi, Kawakami
Hiromi. Con Einaudi ha pubblicato il saggio Nel Giappone delle
donne, la raccolta di racconti Leggero il passo sui tatami, e il
romanzo Mia amata Yuriko.
Dello stesso autore

La ragazza dello Sputnik


Underground
Dance Dance Dance
Tutti i figli di Dio danzano
Norwegian Wood. Tokyo blues
L’uccello che girava le Viti del Mondo
La fine del mondo e il paese delle meraviglie
Kafka sulla spiaggia
After Dark
L’elefante scomparso e altri racconti
L’arte di correre
I salici ciechi e la donna addormentata
Nel segno della pecora
1Q84. Libro 1 e 2
1Q84. Libro 3
A sud del confine, a ovest del sole
Ritratti in jazz
L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio
Sonno
Uomini senza donne
La strana biblioteca
Vento & Flipper
Gli assalti alle panetterie
Il mestiere dello scrittore
Ranocchio salva Tokyo
L’assassinio del Commendatore. Libro primo. Idee che affiorano
L’assassinio del Commendatore. Libro secondo. Metafore che si
trasformano
Titolo originale

(Ozawa Seiji san to, ongaku ni tsuite hanashi o suru)


© 2011 Ozawa Seiji e Murakami Haruki. All rights reserved.
© 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: artwork by Chipp Kidd, illustrazione di Eric Hanson.

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www.einaudi.it
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Il blog della Narrativa Straniera e delle Frontiere.

Ebook ISBN 9788858432235


Indice

Copertina
Frontespizio
Assolutamente musica
Introduzione. I miei pomeriggi con Ozawa Seiji
Prima conversazione. Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Beethoven
e qualche altra opera
Primo interludio. A proposito dei collezionisti maniacali
Seconda conversazione. Brahms alla Carnegie Hall
Secondo interludio. Rapporto tra la scrittura e la musica
Terza conversazione. Quel che è successo negli anni Sessanta
Terzo interludio. Le bacchette di Eugene Ormandy
Quarta conversazione. Sulla musica di Gustav Mahler
Quarto interludio. Dal blues a Mori Shinichi
Quinta conversazione. Le gioie dell’opera
Una piccola città svizzera
Sesta conversazione. «Non c’è un modo stabilito di insegnare. Il metodo si
crea insegnando, in base alla situazione»
Postfazione. di Ozawa Seiji
Il libro
L’autore
Dello stesso autore
Copyright

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