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Clelia Bartoli – concentrare, segregare e assistere

Il razzismo è una strategia sociale praticata da progressisti e democratici per garantirsi un vantaggio nella
competizione di risorse materiali e simboliche. Rivendicare l’appartenenza ad una ipotetica “razza superiore”
sembra garantire la preferenza su risorse, privilegi e prestigio. In questo caso la violenza non è necessaria.
Piuttosto occorre ordine e un insieme di leggi che legittimino il divario. Tramite una nomenclatura
esclusivista si delinea il sistema razzista. Alla fine, però, il razzismo è una strategia perdente. Di fatto il
sistema di accoglienza italiano, spazi di confinamento per rom e migranti e le opportunità delle minoranze
colpiscono una vasta gamma di soggetti. Dunque il razzismo risulta essere una patologia sociale più estesa.
Con la caduta del fascismo e la fine della guerra, ci fu un boom economico negli anni Sessanta. In questo
periodo venne istituito il quartiere operaio Tor Sapienza a Roma. Questo si rivelò un quartiere popolato da
molti immigrati provenienti dal Sud, venuti per lavorare. Con la crisi petrolifera del ’73, Tor Sapienza si
spopola dei suoi antichi residenti. Gli abitanti vennero rimpiazzati da una miriade di diseredati. La ragione di
questa procedura è quella di edificare su pochi metri quadrati di terra molti appartamenti. Si sarebbe rivelato
un modo sbrigativo per risolvere il problema abitativo di molti. Inoltre, in questo modo, si sarebbe prodotta
un’illusione ottica che la città sia liberata dal degrado e dal pericolo. Anche se la “formula ghetto” ha fatto
sempre accrescere disuguaglianze. Successivamente milioni di metri cubi di cemento si sono sostituiti ai
terreni agricoli. In questo caso i poveri si ritrovavano emarginati mentre i ricchi avevano guadagnato con la
scusa di adoperarsi per i bisogni dei poveri. A causa degli effetti di queste politiche urbanistiche, nel 1994
vengono emanati i programmi Urban per rigenerare delle zone degradate di 120 città dell’UE. In Italia
vennero rigenerate zone in 18 comuni, tra cui Roma. Successivamente, negli anni Duemila, il progetto
urbanistico delle giunte di centrosinistra risulta accattivante sulla carta: la megalopoli romana va ripensata
come policentrica. L’idea era quella di tradurre le varie periferie in 18 centralità. Nel 2006 iniziano i
Programmi di recupero urbano. Di per sé i programmi Urban e dei Pru risulta buono e si vuole promuovere
la rete e la partecipazione. In ogni caso si tratta di riqualificare un grande territorio degradato ma che non
verrà rifatto di sana pianta bensì crescerà sempre con le stesse modalità. In base a questo si può provare ad
illustrare la discriminazione sociale e gli episodi di isteria razzista collettiva.
Esiste un altro sistema in collisione con il ghetto romano. Uno dei motti dell’Organizzazione internazionale
per le migrazioni afferma che le migrazioni non sono un problema da arginare ma da governare. In poche
parole la mobilità delle persone da un paese ad un altro può causare disagi se affrontata in modo maldestro,
ma governata può essere una grande opportunità di crescita materiale. Coloro che cercano di scappare da
guerre, dittature e persecuzioni, per esercitare il proprio diritto d’asilo, devono per forza rivolgersi ai tour
operator della criminalità organizzata transnazionale poiché un paese dell’UE non darebbe mai visto a chi
viaggia in aereo per lavoro. Il problema è che solo alcuni verranno salvati poiché intercettati in mare ed il
tanto ambito visto verrà concesso. Si sarebbe bellissimamente evitato la miriade di morti e l’arricchimento di
mafie che traggono profitto dal proibizionismo delle migrazioni. Inoltre una persona che arriva fisicamente e
psicologicamente stabile non necessita di assistenza e potrebbe anche investire la sua piccola somma di
denaro per affittare un appartamento o aprire un’attività. Alla disgregazione personale causata dal tragico
viaggio, si aggiunge la brutta esperienza del circuito di accoglienza in Italia. Esistono molte tipologie di
luoghi per immigrati: centri di primo soccorso (Cpsa); centri per coloro che hanno richiesto asilo e attendono
l’esame da una commissione (Cara); centri per richiedenti di asilo o persone che hanno già una forma di
protezione internazionale ma che necessitano una tutela particolare (Sprar); centri per minorenni senza
genitori; strutture ponte e centri di accoglienza straordinaria (Cas). L’elenco potrebbe continuare poiché
decreti e circolari inventano sempre nuove entità. A ogni centro corrisponde una prestazione che il gestore
deve fornire in cambio di un compenso (circa 35 euro pro capite al giorno). Ad esempio nei Cpsa non sono
richiesti corsi di italiano; mentre in un Cara ci sono più servizi da elargire. Quest’ultimo presenta tre cruciali
criticità: tempi, luoghi e controlli.
1. I tempi di permanenza previsti dalla legge sono disattesi: ad esempio in un Cara la sosta non
dovrebbe andare oltre a un mese, ma finisce per variare da quattro mesi a due anni. Dopo il viaggio il
richiedete vorrebbe capire cosa fare ma i tempi di attesa risultano lenti ed imprevedibili. Inoltre
l’immigrato vorrebbe subito guadagnare qualcosa per pagare il suo debito.
2. I controlli. Perfino gli standard minimali non vengono rispettati. Il pocket money di 2,50€ giornalieri
non viene erogato o viene caricato su una scheda spendibile solo presso lo spaccio del centro stesso.
Mancano anche la mediazione linguistica, corsi di italiano, assistenza sanitaria, psicologia e legale.
L’inadeguatezza di certi centri dipende anche dalla debolezza sociale.
3. I luoghi. I luoghi per ospitare richiedenti di asilo e rifugiati non vengono scelti sulla base di
condizioni o caratteristiche strategiche per garantire un percorso di integrazione con la comunità di
accoglienza. Succede il contrario, ovvero molte strutture hanno standard igienico-sanitari e di
sicurezza molto carenti. In questi centri non mancano casi di alcolismo, autolesionismo e rotture
psicotiche.
A causa di questi scarsi sistemi di accoglienza si produce un esercito di marginali. Ad esempio nel 2013 ci fu
un’ondata di profughi che hanno sostato all’interno di un limbo improduttivo con un senso di colpa verso i
famigliari e l’alienazione di un presente vuoto e isolato. Visto che l’obiettivo di molti centri non è quello di
agevolare autonomia delle persone ma di renderle indipendenti, non ci stupiamo se pochi migranti hanno
sviluppato la capacità di orientarsi e sostenersi in Italia. Così dopo la fine del programma di assistenza molti
immigrati sono divenuto schiavi delle agromafie, clochard e altri ancora sono finiti nel giro della tratta di
esseri umani e della microcriminalità. Bisogna far chiarezza sul fatto che per le amministrazioni pubbliche
non è facile trovare delle soluzioni che siano efficienti su un piano psicologico e sociologico e dunque è
comprensibile che con l’annuncio dell’arrivo di migliaia di diseredati genera sgomento e preoccupazione.
Dunque è ingiusto etichettare come razzista chi ha paura che possa diventare esplosivo il sommarsi del
disagio degli autoctoni a quello di chi viene da un altrove. Il ragionamento fatto da molti comuni cittadini e
governanti è questo: non possiamo permetterci di spendere molto denaro per alloggiare e assistere tutti gli
stranieri quando molti italiani sono in ansia, senza lavoro, senza casa e senza futuro. Questo ragionamento è
in parte corretto e in parte da rivalutare. La storia delle periferie urbane è popolata da imprenditori,
cooperative e consorzi no profit ma approfittatori; amministratori ignavi o corrotti che si propongono
risolutori a pagamento dei problemi di poveri. Ma questi potenti hanno dato benefici assai dubbi ai
destinatari. Di fatto se la ricchezza che ha sottratto alla comunità sarebbe potuta servire ad alleviare le
disuguaglianze e se le imprese oneste non avrebbero avuto competizione con quelle fraudolente ci sarebbe
più lavoro e diritti.
Frustrazioni e paure ingarbugliano il filo del ragionamento e i migranti vengono coinvolti nell’opinione
pubblica come causa del malaffare nelle gestioni dell’accoglienza. In sintesi quella che appare una guerra tra
poveri risulta essere una guerra ai poveri. Il problema è che negli ultimi decenni le disuguaglianze sono
cresciute in termini di reddito e diritti. Economisti e organismi internazionali sostengono che: equità e
coesione sono presupposti non solo per la giustizia sociale ma anche per la crescita economica.
Gli effetti dell’esclusione sociale non riguardano solo gli esclusi. Infatti se una parte resta indietro ne pagano
tutti le conseguenze. Se una minoranza non cresce economicamente il suo disagio si ripercuote sulla
maggioranza. Dunque i “vincitori” vivono in un mondo senza frontiere non disdegnando di fare accordi con
chicchessia senza guardare nazionalità, religione e colore della pelle. I “perdenti”, invece, attaccano e
scartano i loro possibili alleati negando di essere affetti di un male comune. Da qui si deduce che i
“vincitori” hanno compreso l’improduttività di essere razzista e traggono giovamento dal razzismo
orizzontale tra poveri. Quando ci si preoccupa che i migranti possano estinguere le risorse della terra in crisi
si sta guardando alle persone come se fossero delle cavallette intenzionate a devastare il raccolto. Non si
guardano gli immigrati come risorsa di un paese. In ogni caso se le persone non sono cavallette lo possono
diventare. Questo processo è detto deumanizzazione umanitaria e non fa distinzioni tra indigeni e allogeni.
Questo processo ha diverse fasi:
a. Perimetrare. Descrivendo la storia della periferia di Roma che il sistema di accoglienza dei migranti
in Italia, vi è una logica di intervento umanitaria. Un insieme di individui viene concentrato in un
unico luogo. In questo modo si enfatizza l’appartenenza a una determinata categoria e dall’altro si
appiattiscono tutte le differenze tra le persone che sono collocate in quello spazio. Questi soggetti
sono visti come pericolosi o sgradevoli per la cittadinanza. L’idea del dominante modella lo spazio
che plasma le menti e il linguaggio dei suoi abitanti.
b. Assistere e infantilizzare. L’umanitarismo degenere trova l’elemento chiave nel paternalismo. Ma
chi interpreta la missione dei centri come assistenzialismo vero nei confronti dei migranti sbaglia di
grosso. L’obiettivo dell’accoglienza sarebbe quello di sostenere le persone nell’intraprendere un
percorso di autonomia e inclusione sociale. Se il denaro conduce all’autonomia, sarà stato un
investimento che nel futuro tornerà indietro. Occuparsi dell’accoglienza dei migranti, dunque, risulta
essere un’opportunità di lavoro e un servizio per il benessere della collettività. Ma questa, purtroppo,
non è la tendenza prevalente. Ad esempio l’approccio assistenzialista che ha caratterizzato le
politiche verso il Mezzogiorno viene riprodotto nella gestione dei rifugiati. Emblematico è il divieto
per i migranti di cucinare i propri pasti. Così gli immigrati sono costretti a fare file lunghissime,
mangiare cibo standardizzato e a volte rimanere senza cibo. Nessuno mette in conto che il cibo è una
dimensione identitaria importante, un modo di esprimersi con gli altri. Inoltre se lasciassero le
persone a gestire il loro pasti, il denaro per comprare gli alimenti sarebbe più diffuso tra i negozianti.
c. Premiare i colpevoli e colpevolizzare le vittime. Nelle favelas, banlieues, suburbs e slums ci sono
criticità similari. In questo caso se nei ghetti ci sono situazioni simili si pensa che la causa non stia
nei soggetti che ci vivono ma nel contesto che li contiene. Infatti in tutti i ghetti prevalgono: degrado
abitativo, disoccupazione e lavoro irregolare. In queste aree la povertà e l’ignoranza coabitano e
quando un figlio commette un errore si trova da solo al banco degli imputati poiché il diritto penale
considera la colpa un fatto individuale. Piuttosto andrebbero caricati delle loro colpe coloro che
hanno progettato, finanziato, edificato e abbandonato i quartieri. Stesso ragionamento si dovrebbe
applicare ai centri di accoglienza italiani.
Sembra che la guerra tra poveri sia inevitabile e la solidarietà deve per forza essere accompagnata da un
collasso finanziario. Alcuni sono dell’idea che cacciando gli stranieri dall’Italia si libererebbero i posti di
lavoro degli italiani. Dimenticando però che i migranti sono anche contribuenti e lavoratori autonomi.
Dunque molti esercizi commerciali vedrebbero venir meno una parte della loro clientela. Però bisogna
puntualizzare che il lavoro inteso e svolto come “posto” è disponibile in quantità limitata. Qui il termine
posto è riferito alla posizione ricevuta come benedizione per la fedeltà a un potente e questo pseuodolavoro
consuma piuttosto che rigenerare il bene collettivo. Se il lavoro viene visto come forza lavoro che produce
spostamento allora può essere che moltiplica le opportunità di impiego. Ad esempio un bravo intenditore che
espande le opportunità non solo perché assume ma perché diventa committente di altre aziende. Anche un
dipendente può avere una funzione espansiva del diritto al lavoro. Si pensi all’impiegato pubblico o a chi fa
ricerca. Inoltre bisogna pensare che gli immigrati hanno i più alti tassi di imprenditorialità e maggiore tenuta
alla crisi e grazie ai legami con altri paesi potrebbero contribuire ad espandere il mercato nazionale. Il
contributo dei nuovi cittadini non guarda solo l’economia ma, molti immigrati, si sono anche esposti alla
denuncia si soggetti criminali di calibro. Anche dal punto di vista politico potrebbero beneficiare. Di fatto la
partecipazione alle urne della popolazione di origine straniera ha superato il 95%. Infine bisogna dare merito
ai soccorsi italiani che hanno creato una sorta di collaborazioni tra associazioni spesso di carattere
antimilitaristico e militari che hanno guardato queste persone come persone e non come cittadini di una
nazione. Dunque i migranti sono un problema se sono visti come un problema e possono sprigionare energia
se viene riconosciuto il loro potenziale. Ovviamente ci devono essere le occasioni per mettere a frutto
capacità e talento di tutti. Dunque per prevenire il razzismo e sopravvivere alla crisi materiale e spirituale,
occorre coltivare l’umanità edificando sistemi che fanno fiorire anziché marcire le persone senza
disumanizzare i malcapitati riducendoli in condizioni miserabili.

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