Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
facebook.com/Garzanti
@garzantilibri
www.illibraio.it
Traduzione dall’inglese di
Roberto Merlini
ISBN 978-88-11-68976-8
Introduzione
1. Stelle e strisce
2. L’Unione e il Jack
3. La croce e i crociati
4. Colori d’Arabia
5. Bandiere di paura
6. A est dell’Eden
7. Bandiere di libertà
8. Bandiere di rivoluzione
9. Il buono, il brutto e il cattivo
Bibliografia
Ringraziamenti
Indice dei nomi
Tavole delle bandiere
LE 100 BANDIERE CHE RACCONTANO IL MONDO
INTRODUZIONE
«Non sono nient’altro che ciò che credete che sia, e sono tutto ciò che credete
che possa essere.»
La bandiera americana «in conversazione» con il segretario agli Interni degli
Stati Uniti Franklin K. Lane (Flag Day, 1914).
CERIMONIERE: «Siamo qui riuniti per distruggere queste bandiere che sono
state giudicate non più utilizzabili […]. Queste bandiere hanno ispirato
coloro che volevano assaporare il gusto della libertà e hanno dato speranza
a coloro che erano oppressi dalla tirannia e dal terrore […]. Sappiate che
queste bandiere hanno servito bene e con onore il nostro paese. Le loro
stelle e le loro strisce sono state esposte ai venti della libertà e si sono
riscaldate al sole della libertà».
«Avevo una bandiera con disegnati dei gigli […]. Era bianca, del tessuto
bianco denominato “boccassin”; c’era scritto, credo, “Gesù Maria”; ed era
bordata di seta.»
Poi le chiesero: «Le parole “Gesù Maria” erano scritte in alto, in basso o
lateralmente?».
«Mi sembra lateralmente.»
«A cosa tenevi di più, alla tua bandiera o alla tua spada?»
«Di più, quaranta volte di più, alla mia bandiera che alla mia spada!»
«Bianche sono le nostre azioni, nere le nostre battaglie, verdi i nostri campi e
rosse le nostre spade.»
Safi al-Din al-Hilli (1278-1349)
Dimostranti egiziani sventolano le bandiere delle nazioni arabe in
piazza Tahrir, al Cairo, nel maggio 2011. I manifestanti facevano
appello all’unità nazionale dopo gli attacchi alle chiese egiziane, nel
quadro dei tumulti che hanno fatto seguito al rovesciamento del
governo di Hosni Mubarak nel gennaio di quell’anno. Esprimevano
inoltre solidarietà ai palestinesi che commemoravano la «Naqba»
(«catastrofe»), ossia la costituzione dello stato di Israele nel 1948.
Se gli arabi formano una nazione, allora è una nazione che ha tante
bandiere diverse. Il fatto che tante di quelle bandiere abbiano gli
stessi colori suggerisce una parentela fra gli arabi, ma nello stesso
tempo la loro diversità ci dice che questa nazione concettuale è
divisa sotto molti aspetti. Alcuni stati nazionali di oggi non hanno
radici profonde, e nel prossimo decennio potremmo vedere nuove
bandiere ondeggiare sotto i forti venti che spazzano la regione
arabica.
Tra Medio Oriente e Nordafrica ci sono ventidue paesi che si
potrebbero definire arabi e che, nel loro insieme, hanno una
popolazione di oltre 300 milioni di persone. Si estendono dal
Marocco sulle coste dell’Oceano Atlantico, attraverso l’Egitto sul Mar
Mediterraneo, e a est e a sud in direzione del Kuwait, dell’Oman e
del Mare Arabico. All’interno di questa regione ci sono tante
comunità diverse sul piano etnico, religioso e linguistico, tra cui
curdi, berberi, drusi e caldei, ma i due fattori predominanti sono la
lingua e la religione. La stragrande maggioranza di questi 300 milioni
di persone parla una versione dell’arabo e appartiene a una branca
della fede islamica.
Ciò spiega perché per la bandiera del movimento panarabo, che
durante la prima guerra mondiale cercò di rovesciare il dominio turco
in Medio Oriente, erano stati scelti i colori bianco, nero, verde e
rosso, che hanno tutti una grande rilevanza nell’islam. Il
panarabismo è un’idea politica fallita, anche se ha ancora i suoi
sostenitori. Possiamo tuttora cogliere questo ideale nei colori di molti
stati nazionali arabi, come Siria, Giordania, Yemen, Oman, Emirati
Arabi Uniti, Kuwait, Iraq e l’aspirante stato palestinese. Questi colori
formano anche molte delle bandiere dei paesi non arabi situati più a
est che sono finiti sotto il dominio islamico, per esempio l’Iran e
l’Afghanistan.
Questi colori si combinavano nella bandiera disegnata e
sventolata dal leader della rivolta araba del 1916, al-Husayn ibn Ali
Himmat, che sperava di unire la miriade di tribù arabe sotto una sola
bandiera e di conquistare l’indipendenza dall’impero ottomano.
Alcuni storici affermano che a disegnare la bandiera sia stato in
realtà il diplomatico britannico Mark Sykes; in un caso o nell’altro, è
chiaro che vi fu il coinvolgimento del Regno Unito, e che all’epoca
l’unità araba serviva gli interessi britannici nella regione.
La bandiera doveva rappresentare una immensa regione araba in
cui, fino ad allora, c’erano solo le bandiere di tribù e dinastie
islamiche. La bandiera della rivolta araba ha tre strisce orizzontali:
partendo dall’alto, la prima è nera, la seconda è verde e la terza è
bianca. Il terzo di sinistra della bandiera contiene un triangolo rosso
con il vertice rivolto a destra. Poiché la stella e la mezzaluna
islamiche erano presenti nella bandiera ottomana, escludere questi
due simboli avrebbe suggerito una reale rottura col passato; il
tricolore europeo venne quindi scelto come struttura di base e
incorporò colori simbolici profondamente islamici e arabi.
Il bianco rappresenta la dinastia omayyade, che governò da
Damasco tra il 661 e il 750 d.C. ed estese l’impero islamico fino al
Portogallo a ovest e a Samarcanda a est. Pare che gli Omayyadi
avessero scelto il bianco per ricordare la prima grande battaglia
combattuta dal Profeta a Badr. Nel 750 gli Omayyadi furono
rovesciati dalla seconda grande dinastia sunnita, gli Abbasidi, che
scelsero il nero per distinguere la nuova era dalla vecchia, e in
segno di lutto per la morte di alcuni parenti del profeta Maometto
(570-632) nella battaglia di Karbala. Il nero simboleggia anche la
bandiera principale che sarebbe stata utilizzata dal Profeta; inoltre,
nell’era preislamica, il nero era probabilmente il colore di un
copricapo che le tribù indossavano in battaglia, il che gli conferisce
un ulteriore valore. Il verde rappresenta la dinastia sciita fatimide del
periodo 909-1171, che fu fondata in Nordafrica; ma il verde è
considerato più generalmente il colore dell’islam perché si dice che
fosse il preferito dal Profeta: secondo la tradizione indossava un
mantello verde, e i suoi seguaci sventolavano bandiere verdi durante
la conquista della Mecca. Ancora oggi si possono vedere in tutto il
mondo molti minareti che di notte si illuminano di verde. Il
simbolismo del rosso è meno evidente, ma molti studiosi sono
convinti che fosse stato incluso nella bandiera della rivolta araba
perché era il colore della tribù di al-Husayn, gli hashemiti.
Come in quasi tutti gli altri esempi nel mondo, le associazioni di
questi quattro colori assumono significato agli occhi di chi guarda, e
quindi sono valide anche se i dettagli delle loro origini sono
sconosciuti. Come mi ha detto Mina al-Oraibi, una grande giornalista
araba, in un’intervista che le ho fatto in preparazione di questo libro:
«La bandiera del 1916 è conosciuta da quasi tutti gli arabi, che si
identificano con essa. La storia dei colori è generalmente nota,
anche se non in tutti i particolari, ma nel pensiero più immediato
degli arabi, il collegamento è con il panarabismo».
Quando sviluppò l’idea della bandiera della rivolta, al-Husayn
aveva in mente anche altri disegni. Uno dei suoi figli divenne (per un
breve periodo) re dell’Hegiaz, un altro divenne re di Giordania e un
altro ancora re della Siria e dell’Iraq; l’idea originaria era che le
bandiere dovevano essere identiche, con la sola differenza che
quella giordana avrebbe avuto una stella, quella irachena due e
quella siriana tre.
Al-Husayn fu l’ultimo emiro hashemita della Mecca e re
dell’Hegiaz, una regione a ovest dell’attuale Arabia Saudita che
include la Mecca e Medina. Si autoproclamava discendente diretto
del profeta Maometto e la sua dinastia era rimasta ininterrottamente
al potere per settecento anni. Nella sua ambizione vedeva uno stato
arabo immenso che si estendeva da Aleppo, nel Nord della Siria,
fino al porto yemenita di Aden, sul Mare Arabico.
A questo scopo, si unì al mitico Lawrence d’Arabia ed ebbe la
meglio sui turchi ottomani. A quel punto sperava che gli inglesi si
schierassero dalla sua parte, ma la realpolitik bloccava regolarmente
tutti gli accordi che credeva di aver concluso con Lawrence: al-
Husayn aveva un’idea, gli inglesi e i francesi ne avevano un’altra.
Iniziò ad autoproclamarsi re dei paesi arabi; gli inglesi, tuttavia, lo
riconoscevano solo come re dell’Hegiaz. Sapevano, a differenza di
lui, che nel 1916 la Francia e il Regno Unito avevano siglato
l’accordo Sykes-Picot e che, invece di promuovere l’unità panaraba
e l’indipendenza araba, avevano deciso segretamente di spartirsi
quelle regioni, ma non prima di aver usato le tribù arabe per
sconfiggere l’impero ottomano. Il mondo di al-Husayn stava per
crollare intorno a lui, e con esso la prospettiva di una sola bandiera
per una sola nazione.
Prima il leader arabo si rifiutò di accettare il trattato di Versailles
del 1919, e poi di firmare il trattato anglo-hashemita sull’Iraq che
doveva essere ratificato nel 1924. Entrambi i trattati avrebbero
codificato vari elementi dell’accordo Sykes-Picot riguardo alle regioni
arabe, che era uno schiaffo per le ambizioni di al-Husayn e di quasi
tutti gli arabi. Se in quegli anni gli inglesi fossero rimasti al suo
fianco, oggi i confini del Medio Oriente potrebbero essere molto
diversi. Alla fine, i vicini di casa arabi, che avevano idee alternative
su chi doveva controllare cosa, percepirono la debolezza del re e
fecero la loro mossa.
Quei vicini erano i membri della tribù araba guidata da Abd al-Aziz
ibn Saud dell’Arabia Saudita, che comandava l’esercito wahabita
nella regione del Najd, a est della penisola. Abd al-Aziz non aveva
preso parte alla rivolta araba, aveva già conquistato quelle che si
sarebbero rivelate le regioni ricche di petrolio sulle coste del Golfo, e
adesso guardava a ovest. Finché gli inglesi appoggiavano al-
Husayn, Abd al-Aziz non avrebbe osato attaccarlo, ma nel 1924
Londra si era ormai stancata del leader hashemita e dei suoi sogni
panarabi. Il Regno Unito ritirò dunque il sostegno ad al-Husayn, e
per lui fu la fine. Tempo dopo Lawrence avrebbe scritto che al-
Husayn era «una figura tragica, a modo suo: audace, ostinato e del
tutto superato».
Abd al-Aziz inventò una sfilza di lamentele nei confronti di al-
Husayn, per esempio che impediva alle tribù del Najd di andare in
pellegrinaggio alla Mecca. Le sue forze invasero La Mecca e la
conquistarono nel giro di poche settimane. Con l’esercito di Abd al-
Aziz alle porte della città, al-Husayn abdicò, andò in esilio a Cipro, e
alla fine del 1925 Abd al-Aziz era padrone dell’intero Hegiaz. Alcuni
dei suoi sostenitori più ambiziosi volevano avanzare ancora, in
Transgiordania, Iraq e Kuwait, ma sullo scacchiere internazionale
Abd al-Aziz giocò le sue carte meglio di come aveva fatto al-Husayn,
e sapeva che quella linea d’azione lo avrebbe messo in diretta
competizione con gli inglesi. Nel 1927 strinse un patto con Londra e
proclamò il Regno dell’Hegiaz e del Najd. Solo cinque anni dopo, nel
1932, annunciò la nascita di un nuovo paese: i due regni si
sarebbero uniti nel Regno dell’Arabia Saudita.
Nuovo paese, nuova bandiera. Ma viste le «difficoltà» che si erano
create tra gli hashemiti e i sauditi, la casa che aveva costruito ibn
Saud non poteva usare nessun simbolo che assomigliasse alla
bandiera della rivolta; quello che le serviva era esattamente
l’opposto. Così i sauditi puntarono sul verde. Nel 1932 si pensava
che i wahabiti raffigurassero, da almeno cento anni, la shahāda, o
professione di fede, su bandiere verdi. Perciò lo schema di base era
un drappo verde con la scritta trasversale bianca Lā ilāha illā Allāh
Muh.ammad Rasūl Allāh, ovvero «Non c’è altro dio al di fuori di Allah
e Maometto è il suo profeta». Nel 1902 Abd al-Aziz aveva aggiunto
una spada alla bandiera del Najd per simboleggiare la casa saudita.
Gli piaceva così tanto che la tenne come bandiera del nuovo regno
unificato, anche se non conteneva alcun riferimento al Regno di
Hegiaz.
Un libro pubblicato nel 1934, National Flags di E.H. Baxter,
afferma che «questa bandiera sarebbe stata disegnata circa cento
anni fa dal nonno dell’attuale re»; stando al sito CRW Flags, «che
fosse in uso nel 1911 risulta evidente dalla fotografia contemporanea
riprodotta alle pp. 190-191 del libro di Robert Lacey The Kingdom».
Abd al-Aziz rimaneggiava in continuazione il disegno: a volte c’erano
due spade, a volte una striscia verticale bianca sul lato dell’asta, ma
nel 1938 la versione che vediamo oggi, e che divenne ufficiale nel
1973 era stata più o meno concordata. La differenza principale è che
adesso la spada è meno curva.
La bandiera saudita è strutturata in modo che la shahāda si legga
correttamente, da destra a sinistra, quando la si vede da entrambi i
lati, e la spada sia puntata sempre nella stessa direzione della
scritta. È una delle poche bandiere che non vengono mai esposte a
mezz’asta, perché sarebbe considerato un atto blasfemo. Allo stesso
modo, è raro vederla riprodotta su capi di vestiario, come magliette e
pantaloncini, e quando viene mostrata nella pubblicità possono
nascere parecchi problemi. Nel 1994 McDonald’s è riuscita a
offendere molti musulmani prima dei Mondiali di quell’anno
stampando tutte le bandiere dei paesi partecipanti sulle confezioni
da asporto. L’Arabia Saudita ha osservato che non era dignitoso che
uno dei suoi simboli più sacri fosse accartocciato e gettato nel
bidone della spazzatura. Di conseguenza sono state ritirate centinaia
di migliaia di confezioni da asporto.
In vista dei Mondiali del 2002, la FIFA voleva dare in licenza un
pallone su cui erano effigiate le bandiere di tutti i paesi partecipanti. I
sauditi hanno protestato, perché non volevano che l’immagine della
propria bandiera fosse presa a calci sui teleschermi di tutto il mondo,
siccome riportava la shahāda. Nel 2007, con le migliori intenzioni,
alcuni soldati americani hanno scaricato alcuni palloni da un
elicottero che sorvolava un villaggio della provincia afghana di
Khowst, per dare ai bambini qualcosa con cui giocare.
Sfortunatamente, alcuni di quei palloni riproducevano la bandiera
saudita. Il gioco è stato sospeso immediatamente per lasciare il
posto a una dimostrazione contro l’insensibilità degli americani. Qual
è stato il risultato? Le scuse formali delle forze armate americane, e
una lezione da portare a casa. Ci sono state anche proteste perché i
gestori dei pub inglesi esponevano la bandiera saudita durante gli
eventi sportivi: per evitarle, basterebbe usare l’emblema ufficiale del
paese, ovvero una palma con due spade incrociate.
Non rappresenta un problema, invece, farla sventolare. In effetti,
più grande è meglio è; anzi, più alta è e meglio è. L’asta
portabandiera più alta del mondo si trova nella seconda città
dell’Arabia Saudita, Gedda, in piazza Re Abdullah, che è più grande
di quanto non si riesca a immaginare. Pensate a quattro campi di
calcio disposti a quadrato, poi metteteci in mezzo un’asta
portabandiera alta 170 metri e appendeteci in cima una bandiera
lunga 49 metri e larga 33 metri. La bandiera pesa 570 chili, più o
meno come cinque cuccioli di elefante. L’asta portabandiera di
Gedda ha conquistato il record nel 2014, togliendolo alla sua
omologa di Dušanbe nel Tagikistan (165 metri), che l’aveva sottratto
a quella dell’Azerbaigian (162 metri), un po’ più alta di quella di 160
metri che si trova in Corea del Nord, torreggiante a sua volta sui 133
metri della consorella in Turkmenistan. E la corsa al rialzo non è
ancora finita.
La leadership saudita, che detiene il record mondiale per altezza e
dimensioni di una bandiera, si propone come pioniere dell’islam
globale. Ma già negli anni Trenta la casa saudita si preoccupava più
di rafforzare il potere dei sauditi e della loro versione fondamentalista
wahabita dell’islam, che del resto degli arabi. Ancora oggi il
risentimento è diffuso in altre parti del mondo arabo, perché il regime
saudita si autoproclama custode delle due moschee sacre della
Mecca e di Medina. La legittimazione di Riad viene dalla conquista,
e la versione ufficiale dell’islam supportata dall’Arabia Saudita non è
condivisa né dagli sciiti né dalla maggior parte dei sunniti. L’islam
wahabita rifiuta la tolleranza religiosa e insiste sull’applicazione
politica delle sue credenze religiose a tutti i livelli. Questa ideologia
ha influenzato sia al-Qaeda sia l’ISIS, e si è ritorta contro lo stato
saudita. A rigore, i wahabiti non accettano il principio dello stato
nazionale; ma l’Arabia Saudita si fonda su una struttura di potere
duale ripartito tra la casa regnante saudita e gli ecclesiastici
wahabiti. Nel XVIII secolo le due entità avevano stretto un patto di
non ingerenza nelle rispettive sfere di competenza, e questo accordo
è tuttora valido. Finché lo stato non proverà a limitare il potere degli
ecclesiastici, la maggior parte dell’élite wahabita non avrà interesse
a rovesciarlo. Ma i leader della casa saudita non avevano messo in
conto la possibilità che le loro idee sullo stato nazionale
contribuissero a plasmare rivoluzionari terroristi come Osama bin
Laden e molti altri.
Negli ultimi decenni del colonialismo europeo, pochi dei nuovi stati
nazionali a maggioranza musulmana seguirono l’esempio saudita di
mettere la shahāda sulle proprie bandiere, e solo pochissimi
optarono per il verde come colore dominante. I leader dei nuovi stati
arabi non erano noti per la loro pietà, e mentre alcuni erano
musulmani praticanti, quasi tutti erano influenzati dall’ideologia un
po’ contrastante del socialismo, specie quelli che militavano nel
Partito Ba’th che arrivò a governare la Siria e l’Iraq. Data la loro
inclinazione per uno stato forte, quei leader non potevano scegliere il
colore dominante dell’islam per la propria bandiera nazionale.
Quando fu proclamato il nuovo regno dell’Arabia Saudita, la
Giordania aveva già la sua bandiera, basata sul progetto panarabo
di al-Husayn, inclusa la stella al centro del triangolo rosso che
caratterizzava gli hashemiti. È una stella a sette punte; si associa
alle sette colline su cui è costruita la capitale Amman e ai primi sette
versi della sura di apertura del Corano, che parlano di Dio, umanità,
spirito nazionale, umiltà, giustizia sociale, virtù e aspirazioni. Quel
triangolo rosso continuerà a simboleggiare la dinastia hashemita,
perché i discendenti di al-Husayn siedono ancora sul trono giordano;
ma siccome oggi metà dei giordani è palestinese, la lealtà alla
corona è piuttosto incerta. La bandiera giordana, in origine, avrebbe
dovuto abbracciare anche il territorio della Palestina, perciò oggi la
bandiera palestinese è identica a quella giordana, ma non ha la
stella. Negli anni Trenta, anche Iraq e Siria, non ancora indipendenti
dai britannici e dai francesi, ispirarono le loro bandiere a quella della
rivolta.
Alcuni stati, tuttavia, seguirono gli ottomani e adottarono varianti
della stella e della mezzaluna su una varietà di sfondi, perché quei
disegni erano ormai associati all’islam, pur precedendolo di vari
decenni. Si sa che in una data imprecisata la città di Bisanzio (poi
Costantinopoli e oggi Istanbul) adottò come simbolo la mezzaluna.
Secondo la leggenda, sulla città splendeva una luna crescente
quella notte del 339 a.C. in cui il suo esercito vinse una battaglia
decisiva. All’epoca, la mezzaluna era il simbolo della dea Artemide. I
romani, che secoli dopo conquistarono Bisanzio, conoscevano
Artemide con il nome di Diana, e quindi mantennero la tradizione
della mezzaluna come simbolo della città, mettendola anche sulla
bandiera. Nel 1453, quando i popoli altaici conquistarono ciò che
restava di Costantinopoli, aggiunsero il simbolo della mezzaluna alle
proprie bandiere, facendone un emblema del mondo musulmano.
Stando alla tradizione, il fondatore dell’impero ottomano, Osman I,
vide in sogno la mezzaluna estendersi su tutto il mondo.
In origine, l’impero ottomano posizionò la mezzaluna su una
bandiera verde, che venne sostituita da una bandiera rossa nel
1793; la leggenda narra che nella bandiera della Turchia odierna la
mezzaluna e la stella si riflettano in una pozza di sangue dei soldati
turchi. Le punte della stella sono comunemente ritenute una
rappresentazione dei Cinque pilastri dell’islam – fede, preghiera,
carità, digiuno e pellegrinaggio – ma quasi certamente non era
l’intento originario perché la stella inizialmente aveva otto punte, che
furono ridotte a cinque solo nel 1844.
Nel XXI secolo, molti hanno l’impressione che la mezzaluna
islamica raffigurata sulla bandiera turca sia diventata, per così dire,
più evidente. Non si può sfuggire alla diatriba sull’appartenenza o
non appartenenza della Turchia all’Europa, e curiosamente, con la
progressiva laicizzazione dell’Europa, si fa più acceso il dibattito
sulla natura giudaico-cristiana dei suoi valori. Tutto ciò ha un certo
peso sulla crisi migratoria e sulla questione apparentemente
interminabile circa l’ammissione della Turchia all’Unione Europea. Si
può con piena ragione affermare che la religione e l’Unione Europea
sono due cose totalmente separate, e in effetti la religione di un
paese non fa parte dei criteri di ammissione all’UE; ciononostante, la
religione è entrata ugualmente nel discorso. Giusto o sbagliato che
sia, per alcuni europei la vista della mezzaluna evoca il ricordo
collettivo di antiche battaglie e dell’espansione dell’impero ottomano,
che nel 1683 arrivò alle porte di Vienna.
La bandiera turca con la mezzaluna e la stella sventola
orgogliosamente fuori dal quartier generale della NATO nella periferia
di Bruxelles, eppure c’è gente che non riesce a figurarsela insieme
con quelle degli stati UE situate a pochi chilometri di distanza.
Ovviamente la NATO è un’alleanza militare che copre metà del
pianeta, mentre l’UE è un raggruppamento politico e
(verosimilmente) anche culturale. Ma sia l’una sia l’altra si basano su
precisi valori. L’antico simbolo della Turchia, che si richiama all’islam,
fa parte, più di tre secoli dopo la battaglia di Vienna, di una battaglia
politica modernissima che si combatterà nei prossimi decenni.
La bandiera turca è stata abbondantemente esposta durante, e
subito dopo, il fallito colpo di stato di metà luglio 2016. Le autorità
hanno inviato un messaggio tramite i social media, invitando la
popolazione a scendere in piazza per opporsi al colpo di stato, e le
moschee diffondevano la sela dagli altoparlanti dei minareti. Di solito
questa preghiera viene recitata in occasione dei funerali, ma è intesa
anche come chiamata a raccolta. I fedeli hanno risposto in massa, e
molti tenevano in mano la bandiera turca mentre si dirigevano verso
le caserme delle unità che avevano tentato il golpe. La bandiera
rossa con la mezzaluna e la stella è stata usata anche per coprire i
cadaveri di coloro che sono rimasti uccisi nei successivi scontri, e ha
sventolato dopo la sconfitta dei rivoltosi, quando centinaia di migliaia
di persone hanno sfilato in favore del presidente Erdoğan e/o per
dimostrare la propria opposizione al tentato colpo di stato. Le
adunanze erano una distesa di rosso e bianco, perché uomini e
donne si avvolgevano nella bandiera nazionale o portavano bandiere
gigantesche, lunghe anche una trentina di metri, a mo’ di insegne.
Bengala rossi, simili a quelli lanciati dai tifosi di calcio, coloravano la
notte. Non tutti appoggiavano il presidente, ma l’uso della bandiera
nazionale come simbolo unificante indicava che la gente poteva
essere d’accordo almeno su una cosa: l’opposizione ai colpi di stato
militari che si ripetevano nel paese da molti anni. Il fallimento del
colpo di stato e il successivo giro di vite a carico dei dissidenti non
hanno fatto altro che indebolire le credenziali liberaldemocratiche
della Turchia e rafforzare i sostenitori islamisti di Erdoğan.
Anche l’Algeria e la Tunisia fanno parte dei paesi le cui bandiere
sono state influenzate dall’era ottomana. Avrebbero potuto scegliere
qualche versione della bandiera della rivolta araba, ma in Nordafrica
l’attrazione gravitazionale della «Arabia» non è forte come nella
penisola arabica. Lì permane una forte identità e cultura
nordafricana, anche se le invasioni arabe hanno prodotto società
prevalentemente di religione musulmana e lingua araba. Nella
bandiera dell’Algeria i «corni» della mezzaluna sono molto più lunghi
del solito, perché gli algerini pensano che sia un portafortuna. La
bandiera tunisina è simile alla versione turca (una mezzaluna e una
stella rosse posizionate all’interno di un cerchio bianco su sfondo
rosso), al punto che in qualche occasione, nel 2014, i sostenitori del
governo egiziano che protestavano contro l’appoggio fornito dalla
Turchia alla Fratellanza musulmana hanno bruciato per errore la
bandiera tunisina.
Tutti questi colori e simboli arabo-musulmani si sono estesi di pari
passo con l’islam, e sono penetrati anche in culture non arabe. Un
tipico esempio è l’Iran. La sua bandiera reca addirittura una scritta in
arabo, pur essendo nello stesso tempo profondamente persiana e
rivoluzionaria. La bandiera iraniana è un semplice tricolore, con tre
bande orizzontali: verde in cima, bianca in mezzo e rossa in basso.
Risale al 1980, l’anno successivo alla rivoluzione islamica che fece
cadere lo scià e portò al potere i fondamentalisti religiosi guidati
dall’ayatollah Ruhollah Khomeyni. Il verde ha numerosi significati
nella cultura iraniana, tra cui felicità e vitalità. Come abbiamo già
osservato, il verde è anche il colore tradizionalmente associato
all’islam, e nella Repubblica Islamica dell’Iran, a maggioranza sciita,
si può considerare anche un tributo alla dinastia sciita dei Fatimidi. Il
bianco è il colore tradizionale della libertà, e in Iran il rosso è legato
al martirio, all’audacia, al fuoco e all’amore.
I colori, e ciò che rappresentano, sono già abbastanza
interessanti, ma il motivo al centro della bandiera iraniana è ciò che
la rende eccezionale. La Repubblica Islamica doveva dare un taglio
netto all’era dello scià, ma anche rassicurare un’antica cultura sul
fatto che non era all’anno zero. La cultura tradizionale dell’Iran è
sopravvissuta al regime di terrore che ha fatto seguito all’avvento dei
fondamentalisti (un regime che continua tuttora), ma sulle tematiche
che mettevano in discussione il potere assoluto degli ecclesiastici,
per esempio l’abbigliamento delle donne, il pugno di ferro
dell’islamismo nella versione di Khomeyni si è abbattuto senza pietà.
La soluzione adottata dalla Repubblica Islamica è stata usare i
colori della bandiera prerivoluzionaria, ma senza l’emblema centrale
del leone e del sole, un motivo ornamentale che risaliva come
minimo al XV secolo, e secondo alcuni studiosi a molto tempo prima.
In origine il leone e il sole erano simboli astrologici, ma erano ormai
associati alla monarchia, perciò dovevano sparire.
Il nuovo disegno è opera di Hamid Nadimi, professore associato di
architettura all’Università Shahid Beheshti di Teheran. Nadimi
sapeva quali tasti emotivi bisognava azionare, e l’ha fatto con una
costruzione brillantemente stilizzata. Conosceva bene la storia, la
cultura e la religione del proprio paese e ha avuto l’idea di mettere al
centro della bandiera un simbolo che attingesse a tutti e tre gli
elementi e potesse incontrare il favore dei nuovi leader. Per
l’osservatore estraneo, il motivo che si nota al centro della bandiera
iraniana costituisce un simbolo irriconoscibile. Agli occhi degli
iraniani richiama un laleh, un tulipano.
Quando ci si reca per la prima volta a Teheran, si impiega un po’
di tempo a rendersi conto di quanto sia diffusa questa forma nella
capitale. Una volta che la vedete, la riconoscerete dappertutto,
specie se fate i giornalisti, perché nove volte su dieci (nel mio caso,
quattro volte su quattro) le «autorità turistiche» vi piazzeranno al
Laleh Hotel, l’ex InterContinental così ribattezzato dopo la
rivoluzione. Si può dare per scontato che al Laleh i servizi di
intelligence siano particolarmente efficienti, molto superiori a quelli
disponibili in un qualsiasi altro albergo.
Il tulipano e la cultura iraniana sono strettamente interconnessi, e
a questo simbolo gli iraniani attribuiscono tutta una serie di
significati: morte, martirio, amore eterno e, da ultimo, anche
opposizione agli ayatollah. Il tulipano sboccia in primavera, che
annuncia anche il Nowruz, il capodanno persiano, e i due eventi
vengono associati da più di tremila anni. Ogni primavera, durante i
festeggiamenti, gli iraniani cantano: «Questa primavera ti porti
fortuna, e i campi di tulipani ti diano gioia».
Come avviene quasi sempre in queste correlazioni, la leggenda ha
il suo peso: in questo racconto un principe del VI secolo di nome
Farhad sentì dire che l’amore della sua vita, Shirin, era stata uccisa
e così si gettò da una rupe. Ma come nel caso dei Capuleti e dei
Montecchi vari secoli dopo, Shirin era viva e vegeta, ed era stata
oggetto dell’orrenda macchinazione di un rivale in amore di Farhad.
Nel luogo in cui precipitò Farhad cominciarono a crescere i tulipani,
nutriti dal suo sangue.
Nella stessa epoca, il grande eroe sciita Hussein, nipote del
profeta Maometto, fu ucciso in battaglia dagli uomini della dinastia
omayyade presso Karbala, nell’odierno Iraq. E quale fiore potrebbe
essere nato dal sangue di Hussein? Il tulipano, ovviamente, che oggi
simboleggia il martirio degli sciiti. Hussein avrebbe affrontato un
esercito di diverse migliaia di uomini pur avendo con sé appena
settantadue soldati tra seguaci e parenti. La morale potrebbe essere:
«Scegliete bene le vostre battaglie», ma il gruppo di Hussein era
convinto che solo la famiglia del profeta Maometto potesse guidare
la nuova religione dell’islam, e che fosse meglio morire per la
giustizia che vivere nell’ingiustizia. Questo principio della fede sciita
stava alla base del grande scisma tra sunniti e sciiti, e da allora il
martirio è sempre stato centrale per gli sciiti. Durante la guerra
iraniano-irachena del 1980-1988, quando il governo iraniano
esortava i suoi giovani ad affrontare coraggiosamente battaglie in cui
morirono centinaia di migliaia di uomini, il tulipano compariva su
manifesti e striscioni che celebravano i martiri, e uno degli urli di
guerra era: «Tutti i campi sono Karbala». Era questa, dunque,
l’atmosfera in cui Nadimi disegnò la nuova bandiera del paese.
Per tutta la lunghezza del bordo superiore della striscia rossa e del
bordo inferiore della striscia verde si legge la scritta stilizzata in
arabo Allahu Akbar (Dio è grande), che viene ripetuta ventidue volte
in onore del ventiduesimo giorno del mese di Bahman nel calendario
iraniano. Era il giorno del 1979 in cui, con il paese nel caos e milioni
di persone che dimostravano nelle strade, la radio nazionale di stato
iniziò le trasmissioni con le parole: «Qui Teheran, la voce della
Repubblica Islamica dell’Iran». Il tulipano rosso al centro della
striscia bianca è un simbolo complesso, o per meglio dire, un
insieme di simboli. È composto da quattro mezzelune e uno stelo
centrale che si possono leggere come una forma geometricamente
simmetrica della parola Allah, ma anche come una rappresentazione
simbolica dei Cinque pilastri dell’islam. Lo stelo è anche una spada
che rappresenta la forza della nazione. All’ayatollah Khomeyni
piaceva tutto questo simbolismo, perciò nessuno si è stupito quando,
dopo la sua morte nel 1989, i fedeli ne hanno decorato la tomba con
settantadue tulipani di vetro colorato: il loro numero evocava
naturalmente i martiri di Hussein a Karbala.
Ma il tulipano è evocativo per tutti gli iraniani, non solo per quelli
che appoggiano la rivoluzione, e quindi non è stata una sorpresa se
nel 2009, quando l’opposizione è scesa in piazza contro la rielezione
del presidente Mahmud Ahmadinejad, alcuni dimostranti agitavano il
tulipano in segno di sfida. Ricordo di essere uscito dal Laleh Hotel e
di essermi incamminato lungo la via omonima in una giornata di
scontri particolarmente violenti: dei giovani, alcuni dei quali
brandivano i laleh, venivano inseguiti sui marciapiedi e picchiati da
uomini della sicurezza in borghese sistemati sul sellino posteriore di
rombanti motociclette. Dopo un vivace «scambio di opinioni» con
alcuni poliziotti dei reparti antisommossa, sono stato medicato da un
dottore che, come ho scoperto in seguito facendo ricerche per
questo libro, era in servizio al Laleh Hospital.
È raro che un motivo religioso venga utilizzato così brillantemente
in tanti aspetti della vita di un popolo; e mettendo assieme la storia,
la religione, i miti, le leggende, e persino la poetica della nazione, il
tulipano caratterizza la bandiera iraniana in quanto straordinario
esempio di cosa un simbolo possa comunicare.
La maggior parte dei paesi non mette immagini religiose sulla
propria bandiera per svariate ragioni, tra le quali il fatto che lo stato
non si basa sulla fede o che la popolazione pratica più confessioni
religiose, dunque una bandiera religiosa potrebbe essere più divisiva
che unificante. Ed ecco spiegata la bandiera libanese. Il Libano è un
patchwork di etnie e religioni che di tanto in tanto si disfa. Se i
sunniti, gli sciiti, i drusi, gli alawiti, i cattolici, i maroniti e gli altri
membri di quella popolazione di 4,5 milioni di persone fossero tutti
rappresentati sulla bandiera, sarebbe anch’essa un patchwork. Molti
libanesi, scherzando solo fino a un certo punto, dicono di sentirsi più
fenici che arabi, perciò nessuno si è meravigliato quando, con
l’indipendenza del 1943, non hanno scelto i colori panarabi. Il nuovo
stato ha preso invece come simbolo il cedro, che è legato al Libano
fin dai tempi di re Salomone, ben tremila anni fa. Il Libro di Osea
(14,6) contiene uno dei numerosi riferimenti biblici che li connette:
«Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà
radici come un albero del Libano».
Gli iracheni e gli egiziani non avevano un tale genere di scrupoli
circa le proprie connessioni arabe e islamiche. Gli uni e gli altri
attinsero alla bandiera rossa, nera, verde e bianca usata nella rivolta
araba del 1916, e gli egiziani usarono la rivoluzione del 1952 per
rilanciarla come bandiera della liberazione araba. A quel punto il
nero iniziò a rappresentare l’esperienza dell’oppressione coloniale, il
rosso il sacrificio necessario per liberare gli arabi dai colonialisti, e il
bianco la libertà e il futuro luminoso di un Egitto indipendente. Il
sogno panarabo, tuttavia, non era ancora morto: nel 1958, quando
Egitto e Siria si unirono nel breve e sfortunato esperimento della
Repubblica Araba Unita, la loro bandiera era il tricolore rosso, bianco
e nero, ma con due stelle verdi a cinque punte che simboleggiavano
i due paesi e l’islam, oltre a richiamare la bandiera della rivolta
araba.
Nel 1972 l’Egitto ritentò l’esperimento, stavolta dando vita alla
Federazione delle Repubbliche Arabe con la Siria e la Libia. Adesso,
al posto delle stelle, c’era il falco di Quraish, che rappresenta la tribù
guidata dal profeta Maometto. Dopo il fallimento di questo tentativo,
nel 1984 l’Egitto passò alla bandiera che conosciamo oggi,
sostituendo al falco di Quraish un’aquila dorata stilizzata sulla
striscia bianca, «l’aquila di Saladino» (Salah al-Din), in onore del
grande guerriero islamico che arrivò fino al Cairo e vi costruì la
cittadella nel 1176. Il simbolo di un’aquila è stato scoperto sulla
parete occidentale della cittadella, perciò si ipotizza, anche se non è
mai stato dimostrato, che fosse l’emblema personale di Saladino. Si
può trovare sulle bandiere, sui sigilli e sui documenti ufficiali in tutto il
Medio Oriente, per esempio sullo stemma dell’Autorità nazionale
palestinese.
Ci sono tantissimi aspetti affascinanti nella vita di Saladino, tra cui
il fatto che il più grande guerriero arabo fosse, a detta di quasi tutti
gli esperti, un curdo. Ma la sua figura è molto più amata nella cultura
musulmana araba che in quella curda, perché per l’identità nazionale
curda fece ben poco. Ecco perché in quasi tutte le bandiere che
sventolano nelle regioni curde dell’Iran, dell’Iraq, della Turchia e
della Siria l’aquila non compare. È presente invece negli stemmi del
governo regionale curdo in Iraq e in altre regioni, ma non è più
considerata l’aquila di Saladino.
Durante la rivolta egiziana del 2011, che ha aiutato l’esercito a
rovesciare il presidente Mubarak, la bandiera dell’Egitto sventolava
ovunque perché entrambe le parti affermavano di agire per il bene
del paese. Nei moti di piazza e nelle dimostrazioni, innumerevoli
bandiere sono state agitate dalle varie fazioni, ma non c’è stata
alcuna minaccia alla bandiera nazionale. In effetti, non c’è stata
nemmeno una vera rivoluzione, perché l’Egitto è tornato a essere
quello che era sempre stato: un ibrido tra dittatura militare e
democrazia. È una delle tante ragioni per cui l’espressione
«primavera araba» è sempre stata fuorviante per chi voleva cercare
di capire cosa stava accadendo effettivamente in Egitto e in tutto il
resto della regione.
Come abbiamo visto, l’Iraq aveva optato in origine per una
bandiera nera, bianca e verde con due stelle che rappresentavano
gli arabi e i curdi, e una versione del triangolo rosso che
campeggiava sulla bandiera della rivolta, perché il paese era
governato da alcuni membri della famiglia reale hashemita. Ma dopo
il colpo di stato del 1958 che detronizzò gli hashemiti, l’Iraq divenne
una repubblica e il triangolo rosso che simboleggiava la famiglia
regnante fu eliminato. Nel 1963 salì al potere il partito Ba’th di
ispirazione socialista, che sostituì la bandiera con un tricolore
orizzontale rosso, bianco e nero e inserì tre stelle nella striscia
bianca in previsione di un’unione sempre più stretta con l’Egitto e la
Siria. L’unione non si materializzò mai, e nel 1991 le due nazioni
arabe appoggiarono la guerra scatenata dagli americani contro l’Iraq
di Saddam Hussein in risposta all’invasione del Kuwait. A quel punto
il partito Ba’th della Siria aveva sostanzialmente abbandonato la
linea del suo omologo iracheno e gli egiziani erano fedeli alleati degli
Stati Uniti. Le rivalità tra stati nazionali hanno prevalso sul
nazionalismo panarabo, e tutti i paesi arabi erano estremamente
preoccupati dal fatto che l’Iraq avesse violato il confine di un altro
stato arabo.
Saddam usò quei giorni cruciali per aggiungere alla bandiera le
parole Allahu Akbar, forse vergate a mano da lui stesso. Dopo la
caduta del regime, nel 2003, quella scritta fu rimossa (e pochi anni
dopo furono rimosse pure le stelle); ma le parole rimangono, anche
se oggi sono scritte nel tipico stile decorativo kufico. La già citata
scrittrice irachena Mina al-Oraibi lo trova problematico:
Negli ultimi decenni la bandiera irachena è stata politicizzata. L’aggiunta
delle parole Allahu Akbar rientrava nel tentativo di Saddam di fare apparire
la guerra del 1991 un conflitto «in difesa dell’islam». Molti iracheni presero
male quella aggiunta, perché sapevano che era una forma di manipolazione
della religione per i fini politici di Saddam. Sorprendentemente, dopo la
guerra del 2003, la classe politica irachena ha deciso di rimuovere dalla
bandiera le tre stelle e di mantenere la scritta Allahu Akbar. Quella scelta ha
irritato molti iracheni, perché a quel punto la loro identità si basava su uno
stato nazionale anziché su una religione. La bandiera irachena significa
molto per me, in quanto simbolo del mio paese, ma è più un simbolo delle
sofferenze che l’Iraq ha subito e della manipolazione politica della religione,
anziché il simbolo unificante che dovrebbe essere.
Una bandiera è una necessità per tutte le nazioni. Per essa sono morti
milioni di persone. È senza dubbio una forma di idolatria che sarebbe un
peccato distruggere. Perché la bandiera rappresenta un ideale. Lo
spiegamento della Union Jack evoca nel cuore degli inglesi sentimenti di cui
è difficile misurare la forza. Le stelle e le strisce vogliono dire tantissimo per
gli americani. La stella e la mezzaluna suscitano il massimo dell’audacia
nell’islam. Sarà necessario per noi indiani, per i musulmani, i cristiani, gli
ebrei, i parsi e tutti gli altri che si sentono a casa propria in India,
riconoscere una bandiera comune per cui vivere e per cui morire.
«Il modo migliore per imparare a essere uno stato sovrano indipendente è
essere uno stato sovrano indipendente.»
Kwame Nkrumah, primo capo di governo del Ghana
Tifosi della nazionale di calcio del Ghana si radunano a Yeoville,
presso Johannesburg, in Sudafrica, per veder giocare la propria
squadra in una partita della Coppa d’Africa, nel gennaio 2012. La
nazionale del Ghana è detta anche «Stelle nere»; la stella nera che
sta al centro della bandiera e lo schema dei colori rosso, oro e verde
erano ispirati dagli ideali panafricani di coloro che lottavano contro il
colonialismo e sognavano un’Africa più autonoma e moderna.
Nel corso dei secoli l’Africa ha esportato tante cose, non sempre per
libera scelta. Coloro che hanno perseguito il benessere del
continente sono accomunati da un’ideale basato su alcuni colori
simbolici: rosso, oro, verde e nero. Questo ideale comune è
l’indipendenza, o per meglio dire, la libertà.
Le radici di questi colori risalgono come minimo al XIX secolo, ma
probabilmente sono molto più antiche, e vengono dalla bandiera
dell’Etiopia, l’unico paese del continente a non essere stato
colonizzato, nonostante i tenaci sforzi dell’Italia. L’attuale bandiera
dell’Etiopia porta avanti orgogliosamente la tradizione del rosso,
dell’oro e del verde, ma a partire dal 1996 ha anche un cerchio
azzurro al centro, con una stella gialla e cinque raggi. I raggi
rappresentano i vari popoli del paese, mentre la stella simboleggia
l’uguaglianza e l’unità. Viene considerata il sigillo di re Salomone e la
stella di Davide, perché il primo imperatore Menelik sarebbe stato il
figlio di Salomone e della regina di Saba.
L’Italia arrivò tra gli ultimi nella «corsa all’Africa». Nei primi anni
Novanta dell’Ottocento, gli inglesi, i francesi, i tedeschi e i belgi
avevano ormai conquistato la maggior parte del territorio che si
considerava più prezioso, e all’Italia era rimasta l’odierna Eritrea; la
usò come trampolino di lancio per invadere la regione che all’epoca
si chiamava Abissinia, ovvero l’Etiopia di oggi. Nel 1895 iniziarono
duri combattimenti e, con grande sorpresa degli italiani, l’anno dopo
vennero ricacciati in Eritrea, con almeno 7000 vittime. A quel punto
l’Africa aveva un paladino, e un esempio suggestivo di ciò che
avrebbe potuto realizzare.
Gagliardetti con i singoli colori rosso, oro o verde venivano
sventolati in Etiopia già decenni prima della vittoria militare, spesso
contemporaneamente; in un paese a maggioranza cristiana, la
tradizione identificava questi colori con l’arcobaleno che Dio aveva
mostrato al mondo dopo il Diluvio, come si legge nel Libro della
Genesi. Furono perciò una scelta naturale nel 1897, quando, dopo la
sconfitta degli italiani, l’imperatore Menelik II commissionò la prima
bandiera di uno stato nazionale africano. Vi fu aggiunto lo stemma
imperiale con il Leone conquistatore di Giuda che regge un drappo
con i colori nazionali, a indicare la stirpe reale del primo imperatore
Menelik. Quel simbolo, da sempre associato alla regalità, rimase
sulla bandiera fino alla rivoluzione marxista del 1974, dopo la quale
fu rimosso, ma si staglia ancora sulla bandiera del movimento
rastafariano, come vedremo più avanti.
Gli italiani tornarono in Etiopia negli anni Trenta, sotto il regime
fascista di Mussolini. Stavolta la loro macchina da guerra includeva il
gas mostarda o iprite; l’invasione ebbe successo e il paese fu
occupato. Ma l’Abissinia/Etiopia, fino ad allora uno stato sovrano,
era anche membro della Società delle nazioni, l’antesignano
dell’ONU. Poiché la maggioranza degli stati membri, tra cui gli USA, si
rifiutò di riconoscere l’annessione del paese, la sua occupazione per
cinque anni da parte di forze straniere si è considerata
un’aberrazione e non un periodo di colonizzazione com’è avvenuto
altrove.
Gli inglesi e i francesi, entrambi membri della Società delle
nazioni, concordarono in segreto con il governo italiano che la sua
aggressione armata non sarebbe stata oggetto di ritorsioni. La
mancata reazione della Società delle nazioni è una delle ragioni che
ne spiegano il fallimento come organo di mantenimento della pace
nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della seconda
guerra mondiale. Nel 1935 la rivista britannica «Punch» pubblicò una
famosa vignetta satirica ispirata al ritornello di una canzone popolare
inglese dell’Ottocento. Il testo originale recita:
Non ho mai letto e udito che una tal simile quantità d’acqua dolce si
trovasse tanto addentro e sì vicina alla salata. Tal veduta è corroborata dal
soavissimo clima di questi luoghi. Se però quest’acqua non proviene dal
paradiso, allora cresce vieppiù la meraviglia perché non credo che si trovi
nel mondo un fiume tanto grande e tanto profondo.
Gli spagnoli fantasticarono molto su questa descrizione, e sulla
prospettiva del resto del continente come una seconda casa; e di lì a
un paio di decenni arrivarono a frotte. Nel 1717, l’intera regione
circostante a dove Colombo era sbarcato faceva parte dell’impero
spagnolo e si chiamava Nueva Granada. Corrispondeva più o meno
agli odierni Venezuela, Colombia, Panama ed Ecuador.
Quasi un secolo dopo entrò in scena Simón Bolívar, nato nella
provincia del Venezuela, furibondo e deciso a mettere fine al
colonialismo spagnolo e alla Nueva Granada. Nel 1810, alla testa di
una giunta militare, espulse il governatore spagnolo dalla provincia,
e l’anno successivo proclamò l’indipendenza del Venezuela.
Seguirono un paio di decenni tumultuosi che ebbero sempre al
centro Bolívar; nel 1819, dopo alcune sanguinose battaglie, entrò a
Bogotá e proclamò la Repubblica di Colombia, che comprendeva
l’odierna Colombia, il Panama, l’Ecuador, il Venezuela e un pezzetto
del Perù e del Brasile.
Senza mai concedersi una pausa, El Libertador, come veniva
chiamato, decise di cacciare gli spagnoli non solo dalla Colombia ma
dall’intera regione. Nel 1822 la sua Repubblica di Colombia era
ormai una realtà. Per non creare confusione con la Colombia
odierna, gli storici definiscono questo stato Grande Colombia.
Bolívar scelse come bandiera un tricolore giallo, blu e rosso a
strisce orizzontali. Secondo la tradizione, la striscia gialla che sta in
alto rappresenta la ricchezza del paese, la banda blu al centro
l’oceano che adesso separava la Repubblica di Colombia dalla
Spagna, e il rosso il coraggio e il sangue di coloro che avevano
combattuto per abbattere la dominazione spagnola. La bandiera era
stata disegnata già nel 1806 da uno dei compagni di avventura di
Bolívar, Francisco de Miranda, che si era ispirato a due cose.
Ricordava un affresco che aveva visto in Italia, in cui Cristoforo
Colombo dispiegava una bandiera gialla, blu e rossa mentre
sbarcava in Venezuela; ricordava anche una conversazione che
aveva avuto con il grande scrittore tedesco Johann Wolfgang von
Goethe alcuni decenni prima.
De Miranda dichiarò che, dopo aver sentito il racconto delle
imprese che aveva compiuto in America, Goethe gli aveva detto: «Il
suo destino è creare nella vostra terra un posto in cui i colori primari
non vengano distorti». Goethe aveva riflettuto a lungo e
approfonditamente sui colori, perciò aveva spiegato a de Miranda
«perché il giallo è il più nobile, il più caldo e il più vicino alla luce,
perché il blu offre quella combinazione di eccitazione e serenità, una
distanza che evoca le ombre; e perché il rosso è l’esaltazione del
giallo e del blu, la sintesi, l’evanescenza della luce nell’ombra». E
aveva proseguito: «Un paese nasce da un nome e da una bandiera,
e poi si identifica totalmente in essi, così come un uomo realizza il
proprio destino».
I popoli della Grande Colombia provarono a essere fieri della loro
bandiera, ma presto emersero le differenze tra le regioni e
l’ambizione dei leader, e senza il vincolo di solide e antiche istituzioni
statali, le regioni iniziarono ad andare ognuna per conto proprio.
Mentre Bolívar era in Perù a fare la rivoluzione, uno dei suoi colleghi
venezuelani si mise alla testa di una rivolta contro di lui. Ci furono
sollevazioni analoghe anche in Ecuador e nel 1830, dopo essere
scampato a un tentato omicidio, un Bolívar esausto e sempre più
malato decise di smetterla e di trasferirsi in Europa. Ma arrivò
soltanto alla costa atlantica della Colombia, dove morì di tubercolosi.
La Grande Colombia si sciolse e nacquero i nuovi stati sovrani
della Colombia, del Venezuela e dell’Ecuador. Adottarono tutti e tre
delle bandiere che erano la copia quasi identica del tricolore scelto a
suo tempo dalla Grande Colombia, con la banda gialla in cima,
quella blu in mezzo e la rossa in basso. Oggi sono paesi molto
diversi, ma resta l’impronta di una storia regionale condivisa.
Fino al 2006, la bandiera del Venezuela aveva sette stelle bianche
sulla striscia blu intermedia, per rappresentare le sette province che
presero parte alla lotta armata contro la Spagna. Bolívar è ancora
così amato che negli anni Novanta il presidente Hugo Chávez
ribattezzò il suo paese Repubblica bolivariana del Venezuela. Nel
2006 Chávez aggiunse un’altra stella alla bandiera nazionale e
introdusse addirittura una nuova bandiera in cui apparivano un arco
e una freccia, per simboleggiare la minuscola minoranza indigena
del paese. Questa bandiera non ebbe successo ma certamente
rifletteva il fatto che, nonostante l’atteggiamento paternalistico di
Bolívar nei confronti della popolazione indigena, questo secolo ha
visto crescere la consapevolezza del posto che occupano i nativi
nelle società moderne dell’America Latina.
La bandiera dell’Ecuador ha al centro un grosso stemma
sormontato da un condor, l’emblema nazionale. Nel 1860 vi furono
aggiunti quattro segni dello zodiaco, Ariete, Toro, Gemelli e Cancro,
per commemorare i mesi della rivoluzione del 1845 – marzo, aprile,
maggio e giugno – che rovesciò il regime del generale Juan José
Flores. Un evento, questo, che esemplifica la storia delle
repubbliche, che nacquero nella violenza e furono costantemente
saccheggiate da predoni della politica.
Sostituire una tirannia con un’altra non era certo l’intento originario
di Simón Bolívar, anche se sviluppò egli stesso tendenze dittatoriali,
insieme con il vizietto di imprigionare gli amici di un tempo e
attribuire a sé stesso il potere assoluto. Insieme con Cristoforo
Colombo, Bolívar è uno dei pochissimi personaggi storici che hanno
il privilegio di dare il proprio nome a un paese, un onore che non fu
concesso neppure al celebre rivoluzionario messicano degli inizi del
Novecento Emiliano Zapata. Fuori dal Messico, Zapata è più famoso
per i suoi baffi che per aver cambiato il corso della storia. Gli andò
appena un po’ meglio che all’eroe dei due mondi, l’italiano Giuseppe
Garibaldi, il cui nome [nel mondo anglosassone] ha finito per
identificare un tipo di biscotto.
La bandiera della Bolivia è un classico tricolore orizzontale rosso,
giallo e verde, sottratto alla banalità unicamente grazie a uno
splendido stemma che orna la striscia centrale gialla: uno scudo
circondato da bandiere, moschetti e rami di alloro sormontato da un
condor; al centro c’è un animale che a un occhio inesperto potrebbe
apparire un lama, mentre in realtà è un alpaca, che come tutti sanno
è molto più piccolo del lama.
Più interessanti, al di là dell’alpaca, sono altre due bandiere
utilizzate in Bolivia. La prima è la bandiera della marina boliviana,
degna di nota non tanto per il suo disegno, ma perché la marina
opera sulle Ande a 4000 metri di altitudine, in un paese interno, e la
maggior parte dei suoi effettivi non ha mai visto il mare. Ciò è dovuto
al trattato sottoscritto dopo la fine della guerra del Pacifico, nel 1884,
in cui la Bolivia cedette circa 380 chilometri di costa al Cile,
perdendo così l’accesso all’oceano.
La Bolivia quell’accesso lo rivuole, non solo per mettere fine alle
battute dei cileni che invitano scherzosamente i loro vicini di casa al
mare per il fine settimana, ma anche per l’incremento degli introiti
commerciali che ne deriverebbe, e per il ritrovato orgoglio nazionale.
Di conseguenza, i suoi presidenti tengono spesso discorsi di fronte
ad antiche mappe che mostrano i confini originari, e sulla bandiera
della marina spicca una grossa stella gialla che simboleggia la
posizione diplomatica del paese: ovvero che la Bolivia ha un diritto
assoluto di accesso al mare, al di là del passaggio che le viene
attualmente concesso grazie alla generosità del Cile. Saper
trattenere il respiro è sempre utile in marina, ma i 5000 marinai
boliviani non devono preoccuparsi, poiché è improbabile che i confini
vengano modificati nel prossimo futuro. Inoltre, sono già abbastanza
occupati a pattugliare il lago Titicaca e oltre 8000 chilometri di fiumi
navigabili.
L’altra bandiera suggestiva è la Wiphala, che è ormai un secondo
emblema nazionale e anche un simbolo dei popoli indigeni che
vivono al di là delle Ande, in Ecuador, Perù, Bolivia e Cile. È una
bandiera quadrata che contiene quarantanove quadrati nei sette
colori dell’arcobaleno. La parola wiphala viene dalla lingua locale,
l’aymara, e significa semplicemente «bandiera». C’è un acceso
dibattito sull’origine della bandiera e sulla sua possibile relazione con
l’impero inca, ma in ogni caso oggi le sue varianti rappresentano i
popoli nativi, e negli ultimi decenni è diventata sempre più popolare
perché quei popoli si sono organizzati meglio sul piano politico.
Nel 2009 il presidente boliviano Evo Morales, che appartiene a
una famiglia di lingua aymara, ha stabilito che la Wiphala,
unitamente al tricolore nazionale rosso, giallo e verde, fosse esposta
in tutti gli edifici pubblici, comprese le scuole. Il decreto non è stato
accolto bene in alcune zone della Bolivia orientale, dove la
maggioranza della popolazione non è indigena e la disposizione è
stata sostanzialmente ignorata. Gli oppositori della Wiphala temono
che alla fine possa sostituire il tricolore come bandiera nazionale, e/o
che incoraggi la divisione tra gruppi etnici e classi sociali. I critici
affermano inoltre che rappresenta solo una minoranza delle decine
di sottoculture del paese, e che quelle sottoculture sono state
riconosciute ufficialmente quando Morales ha ribattezzato il paese
Stato Plurinazionale della Bolivia.
Per gli aymari la bandiera, oltre a riconoscere la loro travagliata
storia, ha anche colori simbolici: il giallo rappresenta l’energia, il
bianco il tempo, il verde la natura, l’azzurro il cielo, l’arancione la
società e la cultura, il violetto la regione panandina e il rosso il
pianeta Terra. Gli archeologi ipotizzano che la bandiera multicolore
di oggi derivi da simboli antichi, ma non ci sono prove concrete in tal
senso. In un modo o nell’altro, la Wiphala è ormai diffusa in tutta la
regione.
L’unica bandiera nazionale che attinge all’iconografia dei popoli
indigeni si trova più a nord, in Messico. Si dice spesso che la
bandiera messicana assomiglia al tricolore italiano, ma semmai è
vero il contrario, visto che le strisce verticali verde, bianca e rossa
del Messico precedono di vari decenni la formazione dell’Italia. In
ogni caso, la versione attuale della bandiera fu introdotta nel 1968
perché quell’anno il Messico doveva ospitare i Giochi olimpici, e per
evitare qualunque confusione tra i due tricolori, il suo governo
impose – anziché consentire, com’era sempre avvenuto in
precedenza – l’effigie di un’aquila nella striscia bianca centrale.
L’aquila poggia con una zampa su una pianta di cactus in prossimità
di un lago, e tiene un serpente nel becco. Dietro questo simbolo c’è
una di quelle leggende che raccontano la «nascita di una nazione».
Il nome Messico viene probabilmente dalla parola azteca o nahua
metztlixictlico. Gli aztechi, che si chiamavano anche mexica, si
insediarono nell’odierna Valle del Messico nel XIII secolo. Secondo la
leggenda, i sacerdoti aztechi dicevano che il loro dio aveva ordinato
loro di cercare un nuovo posto in cui andare a vivere. L’avrebbero
riconosciuto una volta arrivati perché avrebbero visto un’aquila
gigantesca, appoggiata su un cactus. E guarda caso, l’aquila era
proprio lì, su un cactus, in cima a un masso che stava su un’isola, in
mezzo a un lago.
Qui la storia si complica un po’: gli abitanti della zona chiamavano
il lago Metztli iapan, ossia «Lago della luna», perciò secondo gli
etimologi, l’isola si sarebbe dovuta chiamare Metztli iapan ixic, un
nome che, per farla breve, sarebbe stato contratto in «Mexic-co». È
solo un’ipotesi, naturalmente, ma in ogni caso era inimmaginabile
che gli spagnoli, arrivati trecento anni dopo, optassero per la
versione originaria.
Di sicuro non apprezzarono la leggenda dell’aquila e del cactus,
che contrastava con la loro fede cattolica, al punto che decisero di
distruggere gran parte dell’iconografia azteca basata su quelle
immagini. Gli archivi del viceré di Spagna, Juan de Palafox y
Mendoza, rivelano che nel 1642 scrisse lettere infuocate ai potenti di
Città del Messico, ordinando la rimozione delle effigi dell’aquila e la
loro immediata sostituzione con immagini cattoliche. Ma il fatto che
l’aquila campeggiasse ancora su alcune bandiere rivoluzionarie del
primo Ottocento dimostra quanto la leggenda e il suo simbolo
fossero radicati nello spirito dei messicani. Il posto che occupano
nell’iconografia nazionale attesta la solidità della nuova cultura ibrida
formatasi in questa parte del Nuovo Mondo, anche perché i
messicani si richiamavano alla storia della regione per legittimare la
separazione dagli spagnoli. La popolazione che l’antico simbolo
degli aztechi rappresentava in origine si è estinta da tempo (anche
se in Messico c’è ancora gente che parla il nahuatl), ma lì, al centro
della bandiera nazionale, quel simbolo c’è ancora. È indiscutibile che
le culture indigene siano state soppresse e annacquate, ma i
colonialisti non possono evitare di recepire elementi delle culture
locali.
La guerra di indipendenza del Messico contro la Spagna (1810-
1821) fu combattuta da vari gruppi, ognuno con la propria bandiera,
che confluirono nell’Esercito delle tre garanzie sotto un tricolore
verde, bianco e rosso. Era la base della bandiera nazionale,
disegnata nel 1821, che l’anno dopo, quando fu sventolata per la
prima volta, recava il simbolo dell’aquila. La giunta suprema
provvisoria aveva emesso un proclama in cui dichiarava che la
bandiera «dev’essere un tricolore che adotta in permanenza i colori
verde, bianco e rosso a strisce verticali e presenta nella striscia
bianca un’aquila incoronata». Il capo della giunta militare, Agustín de
Iturbide, prese così seriamente l’idea dell’«incoronazione» che nel
1822 si autoproclamò imperatore del Messico con il nome di Agustín
I, e decise appunto di costruire un impero.
Ma in quei tempi difficili e turbolenti, l’impero durò solo dieci mesi,
alla fine dei quali Agustín fuggì in Europa, e anche la corona
dell’aquila fu costretta a sparire. Nel 1824, quando Agustín tornò
dall’Inghilterra, l’aquila era calva, ma teneva un serpente nella
zampa destra. Disgraziatamente, l’ex imperatore non aveva saputo
di essere stato condannato a morte in contumacia, per cui venne
prontamente messo al muro e fucilato da un plotone di esecuzione.
La bandiera, tuttavia, sopravvisse nei tre colori originari, ma subì
varie modifiche: per esempio, vi si aggiunsero una corona d’alloro e
dei nastri dei colori nazionali, e l’immagine dell’aquila assunse una
connotazione vagamente imperiale o neoimperiale, secondo i gusti
del leader di turno. In ogni caso, non diede quasi mai l’impressione
di rappresentare una repubblica democratica, come avrebbe dovuto
diventare il Messico. La situazione cambiò nel 1916 allorché, dopo
l’ennesima rivoluzione, il presidente Venustiano Carranza chiese una
bandiera che assomigliasse di meno al vessillo di una centuria
imperiale romana. Scelse così «l’aquila azteca», raffigurata di profilo,
con la testa bassa, mentre attacca il serpente che tiene tra gli artigli:
un simbolo che avrebbe dovuto proteggere il paese dal male. Il
rapace era ancora minaccioso, ma andava benissimo perché non
aveva più quell’atteggiamento sprezzante che sembrava dire: «Qui
comando io».
Quanto ai colori della «bandera de México», nel tempo si sono
succedute varie interpretazioni di ciò che rappresentano, ma il già
citato decano mondiale dei vessillologi, Whitney Smith, scrisse nel
1975 che «il verde simboleggia tradizionalmente l’indipendenza, il
bianco la purezza della religione, e il rosso (il colore nazionale della
Spagna) l’unità».
Per molti aspetti tutto questo non conta più, perché con l’aggiunta
dello stemma il tricolore è diventato il simbolo di un Messico nuovo,
un paese in crescita con 125 milioni di abitanti che domina l’America
Latina insieme con il Brasile, dove si parla il portoghese. Lo stato
rimane debole e la povertà è diffusa, ma da anni l’economia è in
ripresa, alimentata in parte da una manodopera a basso costo che
può competere persino con quella della Cina. Nonostante i problemi
che lo affliggono, tra cui l’infiltrazione di bande criminali nella
pubblica amministrazione, il Messico è un paese sempre più sicuro
di sé, con una popolazione molto fiera delle sue origini e delle sue
tradizioni. In Messico, e in tutta l’America Latina, l’indipendenza
coloniale è una matrice storica fondamentale e la guerra contro la
Spagna costituisce una grandissima fonte di orgoglio nazionale,
come attesta il numero dei tricolori esposti nel Giorno
dell’indipendenza.
A sud del Messico si trovano i sette paesi più piccoli dell’America
centrale, e qui incontriamo un’altra serie di colori panregionali.
L’azzurro e il bianco erano i colori dell’effimera Repubblica Federale
dell’America Centrale, composta dagli attuali Guatemala, Honduras,
El Salvador, Costa Rica e Nicaragua. Avendo dichiarato
l’indipendenza dalla Spagna nel 1821, la regione non ci teneva
particolarmente a far parte del Primo impero messicano, che era
stato fondato nello stesso anno, perciò alcuni stati imbracciarono le
armi.
Dopo la tragica fine di Agustín de Iturbide, l’impero non reagì e il
Messico concesse alla regione di andarsene per la sua strada. Nel
1823 fu dunque costituito uno stato sovrano, denominato Province
Unite dell’America Centrale, che adottò una bandiera con tre strisce
orizzontali: la striscia superiore e quella inferiore erano azzurre,
mentre la banda centrale era bianca e al centro recava uno stemma
composto da un cerchio con le parole «Provincias Unidas del Centro
de América». All’interno del cerchio erano raffigurate cinque
montagne, in rappresentanza delle cinque regioni che formavano il
nuovo stato. L’anno dopo, con la proclamazione della repubblica, la
denominazione fu mutata in «República Federal de Centro
América».
Pare che l’ispirazione della bandiera azzurra e bianca venisse
dall’Argentina, dove fin dal 1810 i rivoluzionari usavano quei colori; si
dice che alcuni di questi avessero offerto una delle loro bandiere alla
milizia della regione di El Salvador, che si stava organizzando per
combattere i messicani. Con il tempo, però, la banda bianca sulla
bandiera sarebbe diventata la rappresentazione di quella regione,
fiancheggiata dall’azzurro degli oceani Atlantico e Pacifico.
L’unica causa comune che univa le cinque regioni era
l’opposizione, prima alla dominazione spagnola e poi a quella
messicana. Una volta soddisfatta quell’esigenza di unità a fini
strettamente militari, iniziarono a emergere le differenze politiche e
geografiche tra gli stati, e tra fazioni interne a ogni stato. Nel 1838,
dopo anni di instabilità, il Nicaragua fu il primo a uscire dalla
federazione, e nel 1840 la Repubblica Federale dell’America
Centrale si era ormai sciolta, lasciando il posto a cinque stati sovrani
indipendenti ma traballanti e poverissimi, ognuno dei quali aveva
bisogno di una bandiera. Scelsero tutti di attingere a una storia
condivisa, tenendo la porta aperta a una possibile riunione.
La bandiera del Nicaragua, per esempio, è quasi identica alla
bandiera della Repubblica Federale dell’America Centrale, tranne
per il fatto che le due strisce orizzontali azzurre (quella in mezzo è
bianca) sono un po’ più scure. Lo stemma al centro della striscia
bianca raffigura le cinque montagne ed è circondato dalle parole
«República de Nicaragua América Central». La bandiera di El
Salvador è simile ma il suo stemma è un triangolo che contiene le
cinque montagne, dietro le quali ci sono cinque bandiere bianche e
azzurre. L’Honduras ha una bandiera con tre bande orizzontali che
seguono lo schema azzurro-bianco-azzurro, ma sulla striscia bianca
sono effigiate cinque stelle anziché le cinque montagne delle altre.
Anche la bandiera del Guatemala è azzurra e bianca, ma qui le
strisce sono verticali e al centro della banda bianca intermedia ci
sono spade incrociate e fucili. Inizialmente, per la sua bandiera, pure
il Costa Rica adottò lo schema azzurro-bianco-azzurro, ma nel 1848,
ispirato dalle rivoluzioni repubblicane della Francia e di tanti altri
paesi europei, ridisegnò il simbolo nazionale, aggiungendovi una
banda orizzontale rossa e aumentando a cinque il numero delle
strisce per richiamare le cinque province della ex federazione. In
cima allo stemma si leggono le parole «América Central», ulteriore
segnale della speranza che un giorno quelle regioni si possano
riunire.
Vari tentativi in questo senso furono effettuati nel XIX secolo e
all’inizio del Novecento. Furono tutti vani, e in alcuni casi i loro
promotori finirono davanti al plotone di esecuzione. In due secoli di
indipendenza, gli stati dell’America centrale hanno avuto dittature,
guerre, rivoluzioni, colpi di stato, democrazie illiberali e una
corruzione senza uguali. Da questo punto di vista, specie per quanto
riguarda la corruzione, le loro vicende sono le stesse di tutta
l’America Latina. Molti dei 626 milioni di abitanti hanno chiuso gli
occhi finché la corruzione non è arrivata a livelli insostenibili. In
Brasile c’è addirittura uno slogan che recita: «Rouba, mas faz»
ovvero: «Ruba, ma perlomeno agisce».
Ciononostante, in questo secolo alcuni ideali dell’era rivoluzionaria
si sono rafforzati nell’America centrale e nei paesi immediatamente a
nord e a sud. I generali stanno al loro posto, e i giudici sono
costantemente impegnati nel tentativo di contenere l’«esuberanza»
dei politici. La relativa stabilità di oggi ha consentito la formazione di
vari organismi multinazionali regionali: per esempio, ci sono una
zona di libero scambio, un sistema di «integrazione» economica, un
parlamento dell’America centrale (con una bandiera simile a tutte le
altre della regione), e persino una zona di libero transito senza
barriere di confine, che coinvolgono in tutto o in parte i membri della
ex Repubblica Federale e in alcuni casi anche i loro vicini. Non
sembra esserci alcun bisogno di rispolverare le vecchie bandiere del
1823 e del 1824: l’idea di unità è ancora viva e sta sotto gli occhi di
tutti nelle bandiere degli ex stati membri.
Immediatamente a sud dei cinque paesi centro-americani
incontriamo una bandiera popolare in tutto il mondo, la quale è
vantaggiosa per svariate ragioni, quantomeno per i proprietari di
grosse navi, per i quali dev’essere stata coniata l’azzeccatissima
espressione «bandiera di comodo». Pur avendo una popolazione di
poco inferiore ai 4 milioni di abitanti, Panama vanta la flotta
commerciale più grande del mondo. Il suo governo è il primo a
riconoscere che «il 23 per cento della flotta mondiale batte bandiera
panamense». Lo si deve anche alla presenza del celebre canale,
lungo 81,6 chilometri, che è una scorciatoia ideale per il passaggio
dall’Atlantico al Pacifico; nel 2016 le autorità locali hanno annunciato
un investimento di 5 miliardi di dollari per l’ampliamento delle chiuse,
in modo da consentire il passaggio di navi più grandi e più pesanti.
L’obiettivo era soddisfare le nuove esigenze della marina
commerciale, ma anche bloccare sul nascere il progetto cinese di
costruire un canale concorrente in Nicaragua. E il vecchio canale
rimodernato continua a essere molto attraente per l’armatore medio
perché è ancora regolamentato da una delle normative più indulgenti
del mondo.
Il governo panamense ci informa che «la legislazione del paese
non obbliga l’armatore, persona fisica o giuridica, a prendere la
residenza a Panama». Non ci sono vincoli giuridici nemmeno per la
registrazione o l’armamento della nave, a prescindere dalle
dimensioni e dal tonnellaggio. Per giunta, chi registra da cinque a
quindici navi ottiene uno sconto del 20 per cento. E non finisce qui:
oltre a poter registrare la propria nave in sole otto ore, «i ricavi
generati dal commercio marittimo internazionale delle navi registrate
a Panama sono esenti da imposte […]. Inoltre, i proventi della
vendita o del trasferimento di un natante registrato a Panama non
sono soggetti all’imposta sulle plusvalenze neanche quando la
transazione avviene a Panama». Come se non bastasse, Panama
approva l’impiego di guardie private a bordo e (ciliegina sulla torta),
in base alla legge n. 57 del 6 agosto 2008, i comandanti possono
celebrare matrimoni civili tra persone di qualunque nazionalità
durante la navigazione.
Ci sono anche altri privilegi; e per sbrigare le pratiche non ci si
deve neppure recare in loco. Non c’è dunque da stupirsi se più di
8000 navi in tutto il mondo sventolano orgogliosamente il rosso, il
bianco e il blu di Panama. Sono più di quelle registrate, in totale,
negli Stati Uniti e in Cina e apportano ogni anno centinaia di milioni
di dollari all’economia del paese. Il mondo sa che in alto mare
questa condiscendenza può coprire un gran numero di peccati, ma
le grandi imprese e i governi sono i primi a riconoscere che questo
sistema agevola i flussi commerciali.
Tale sistema è noto con il nome di «registrazione aperta» o, in
senso peggiorativo, «bandiera di comodo». Le navi cominciarono a
registrarsi a Panama sei anni dopo l’apertura del canale, avvenuta
nel 1914, quando alcuni americani particolarmente intraprendenti si
resero conto di poter eludere le leggi sul proibizionismo.
Gli americani erano presenti da tempo nel paese. Dal 1821 al
1903 Panama aveva fatto parte della Colombia nelle sue varie
declinazioni, ma nel 1903 fu anche la componente della Colombia
che in buona sostanza disse agli USA: «Un canale? Che bella idea!».
Il governo colombiano, però, aveva negato l’autorizzazione, così gli
americani orchestrarono una rivoluzione a Panama, che di lì a poco
ottenne l’indipendenza. La costruzione del canale iniziò quasi subito
grazie ai finanziamenti degli Stati Uniti, che avrebbero tratto grandi
benefici dalla scorciatoia per il Pacifico.
Panama aveva cercato di affrancarsi dalla Colombia per quasi
tutto il secolo precedente, perciò era in buoni rapporti con gli USA.
Non è certo che il vago richiamo alla bandiera a stelle e strisce
dell’emblema nazionale panamense dipenda proprio da questo, ma
non mi sentirei di escluderlo. Con i suoi quattro rettangoli e le due
stelle, si differenzia da tutte le altre bandiere nazionali dell’America
Latina. Fu disegnata dal leader rivoluzionario Manuel Amador
Guerrero, che nel 1904 sarebbe diventato il primo presidente del
nuovo stato indipendente, e fu cucita in segreto da sua moglie María
Ossa de Amador quando Panama era ancora parte della Colombia.
In alto a sinistra c’è un rettangolo bianco con una stella blu a
cinque punte. Accanto a esso è posizionato un rettangolo rosso,
sotto il quale c’è un rettangolo bianco con una stella rossa; in basso
a sinistra infine c’è un rettangolo blu. Il blu e il rosso corrispondono
ai due partiti politici tradizionali, conservatori e progressisti. Il bianco
rappresenta i rapporti pacifici che intercorrono tra di loro. Il blu
simboleggia anche gli oceani che fiancheggiano il paese e il rosso
incarna il sangue dei patrioti. La bandiera panamense fu disegnata e
adottata nel 1903; fu addirittura battezzata in una cerimonia religiosa
che si svolse il 20 dicembre di quell’anno e da allora è rimasta
immutata.
Adesso Panama era uno stato sovrano, ma il canale e i terreni
circostanti per una profondità di 8 chilometri erano «territorio
protetto» degli Stati Uniti, che li controllavano senza però farne
parte. Panama garantì «in perpetuo» quella condizione giuridica. Ma
negli anni Cinquanta gli imperialisti statunitensi erano molto meno
popolari e le bandiere, in quanto simboli di sovranità, assunsero un
ruolo di primaria importanza in una regione che era ormai diventata
un campo di battaglia.
Nel maggio 1958 nove persone persero la vita nel corso di
manifestazioni antiamericane. L’anno dopo i nazionalisti
minacciarono un’«invasione pacifica» della zona del canale per
esporre accanto alla bandiera a stelle e strisce la bandiera di
Panama, in modo da proclamarne la sovranità sul territorio. Alcune
centinaia di persone superarono le barriere di filo spinato e si
scontrarono con le forze di sicurezza. Un secondo tentativo di
invasione fu respinto dalla Guardia nazionale e dalle truppe
americane. Poi alcuni edifici del governo americano furono attaccati
e la bandiera degli Stati Uniti fu strappata dalla residenza
dell’ambasciatore.
A Washington si scatenò un acceso dibattito quando il
Dipartimento di Stato si dichiarò disposto a fare concessioni e a
consentire l’esposizione della bandiera panamense. In una lettera
privata inviata al presidente Eisenhower nel dicembre 1959, il
deputato della Pennsylvania Daniel J. Flood inquadrò l’argomento in
toni apocalittici:
Per giunta, se la bandiera di Panama dovesse mai essere esposta
ufficialmente sulla zona del canale, si aprirebbe un vero e proprio vaso di
Pandora, con discussioni, conflitti e caos. Gli estremisti che hanno incitato i
panamensi alla violenza, condizionando così la politica estera del paese,
hanno come obiettivo immediato una dualità di controllo che all’inizio del
secolo i grandi leader pensavano di aver prevenuto per sempre. L’obiettivo
finale è la nazionalizzazione panamense.
Le prime due bandiere, di dieci metri per venti con otto strisce
orizzontali, furono realizzate da un team di trenta volontari presso il
Gay Community Center di San Francisco. Nel giugno 1978 furono
dispiegate nella United Nations Plaza durante la Gay Parade.
Cinque mesi dopo Harvey Milk venne assassinato insieme con il
sindaco della città, George Moscone, da un ex politico, ossessionato
dalla sempre maggiore tolleranza nei confronti dell’omosessualità.
Milk era morto, ma la bandiera è sopravvissuta, anzi, la domanda
è cresciuta enormemente perché la gente voleva esprimere
apprezzamento per il suo impegno civile e solidarietà alle comunità
gay. Poi la bandiera arcobaleno si è diffusa rapidamente in tutto il
mondo, a simboleggiare una grande tribù transnazionale.
Il disegno originario aveva otto colori. Il rosa rappresentava la
sessualità e voleva richiamare espressamente il triangolo rosa che
dovevano indossare gli omosessuali sotto il nazismo. Il rosso
rappresentava la vita, l’arancione la guarigione, il giallo la luce del
sole, il verde la natura, il turchese l’arte, il blu l’armonia e il viola lo
spirito umano. Il rosa fu subito eliminato perché era inusuale per una
bandiera e ne rendeva troppo costosa la fabbricazione; nel 1979 fu
tolto anche il turchese, così le strisce si ridussero a sei.
Adesso quelle sei strisce, in svariate forme, trasmettono molti
messaggi. I gay che viaggiano per il mondo vedono la bandiera e
sanno che il negozio, l’albergo, il ristorante o l’edificio che la espone
sono luoghi inclusivi a cui possono accedere liberamente e senza
preclusioni. È stata esposta sulla facciata dell’ambasciata canadese
a Tunisi e del Cabinet Office di Whitehall, la sede londinese del
governo britannico. L’immagine delle sei strisce è stata proiettata
sulla Torre Eiffel e sulla Casa Bianca.
Nell’estate del 2016, dopo il massacro dei gay che frequentavano
il night club Pulse di Orlando, in Florida, la bandiera è apparsa
immediatamente dappertutto. I social media sono stati letteralmente
invasi dall’icona arcobaleno, allegata a milioni di account di Twitter e
ad altri. Migliaia di simboli arcobaleno punteggiavano raduni e veglie.
Le bandiere venivano appese alle finestre di città e cittadine, in tutte
le parti del mondo abbastanza progredite da consentire ai cittadini di
esprimere la propria sessualità e/o la propria solidarietà con le
vittime. Il messaggio andava oltre la politica identitaria. La bandiera
arcobaleno veniva usata non solo per identificare una persona come
LGBT, ma anche per schierarsi con il movimento. È una sorta di
stendardo culturale, ma stiamo parlando di una lotta continua. Il
movimento LGBT ha fatto enormi progressi, specie nelle zone urbane
del mondo occidentale, ma anche lì esporre la bandiera arcobaleno
vuol dire correre rischi. E in tante altre parti del mondo, soprattutto
l’Africa e il Medio Oriente, si rischia il carcere o anche peggio.
Nel 2016 la bandiera arcobaleno è finita addirittura nel quartier
generale dei servizi segreti britannici MI6. Il loro capo, «C», voleva
far capire inequivocabilmente che oltre a tutelare i diritti dei gay,
l’MI6 accoglie senza preclusioni collaboratori di tutti gli orientamenti
sessuali. Era una bandiera a sei strisce, i cui significati erano
molteplici. Al contrario del suo Martini, James Bond non si sarebbe
agitato per l’avvenimento.
Passiamo ora alla bandiera delle Nazioni Unite. È un simbolo
globale: vorrebbe essere la bandiera del mondo, ma l’obiettivo
sembra ancora molto lontano. Forse è colpa delle politiche bizantine
dell’ONU, o forse è perché rappresenta stati nazionali e, come
abbiamo visto, al loro interno c’è ancora tanta gente che non si
identifica con la bandiera del paese in cui vive. Forse la bandiera
delle Nazioni Unite manca il suo obiettivo perché, semplicemente,
non è abbastanza ispiratrice ed è datata, anche se naturalmente si
tratta di un giudizio soggettivo.
C’è persino una «bandiera internazionale del pianeta Terra»,
progettata con l’idea che se dovessimo progredire ulteriormente
nell’esplorazione del cosmo, potremmo piantarla sul suolo di pianeti
lontanissimi, o quantomeno mostrarla ai loro abitanti – i quali, se
sanno qualcosa della nostra storia, potrebbero attribuirci cattive
intenzioni. È stata disegnata da Oskar Pernefeldt del Beckmans
College of Design di Stoccolma e ha destato una grandissima
attenzione, pur senza ottenere alcun riconoscimento ufficiale.
La bandiera ha uno sfondo blu mare con sette cerchi bianchi
intrecciati che, stando al sito web dedicatole, «formano un fiore,
simbolo della vita sulla Terra. Gli anelli sono legati l’uno all’altro, per
sottolineare come tutto, sul nostro pianeta, sia direttamente o
indirettamente interconnesso». Lo scopo della bandiera è «ricordare
alla gente che condividiamo il pianeta, al di là di quelli che sono i
confini nazionali. E dovremmo prenderci cura l’uno dell’altro, e del
pianeta su cui viviamo». Giusto, ma si potrebbe dirlo dell’ONU, cosa
che in effetti è stata fatta con un milione di comunicati in decine di
lingue diverse per stampare i quali sono stati abbattuti migliaia di
alberi.
La bandiera dell’ONU venne issata per la prima volta
all’Assemblea generale dell’ottobre 1947. Riprendeva il disegno
presentato nel 1945 da Donal McLaughlin per un simbolo da usare
alla conferenza costitutiva di San Francisco. Era un bozzetto
approssimativo descritto da McLaughlin nel suo Origin of the
Emblem and Order Recollections of the 1945 UN Conference,
pubblicato nel 1995. Sotto pressione per l’urgenza di buttare giù uno
schizzo in tempi brevissimi, McLaughlin fece una serie di disegni. Li
scartò uno dopo l’altro, e alla fine scelse un emblema tondo che
mostrava i continenti sullo sfondo di linee circolari di latitudine e linee
verticali di longitudine, semicircondato da due rami d’ulivo
sovrapposti. Questo simbolo, con lievi modifiche, divenne l’emblema
ufficiale delle Nazioni Unite.
Nel 1947 fu ulteriormente adattato dal cartografo Leo Drozdoff per
la bandiera dell’ONU: una mappa del mondo con i cinque continenti e
il Polo Nord al centro, su sfondo azzurro. Sopra i cinque continenti vi
sono cinque cerchi concentrici. All’epoca si pensava che ci fossero
solo cinque continenti, che poi sono diventati sei o sette, a seconda
dei punti di vista. In un modo o nell’altro, i cinque continenti effigiati
sulla bandiera ci ricordano che la struttura dell’ONU, e in particolare il
Consiglio di sicurezza, riflette il mondo com’era nel 1945 e non
com’è oggi. Il numero cinque ci ricorda anche i paesi che hanno
vinto la seconda guerra mondiale (Russia, Stati Uniti, Regno Unito,
Francia e Cina) e poi hanno costruito l’ordine mondiale a loro
immagine e somiglianza, autonominandosi membri permanenti del
Consiglio di sicurezza, gli unici che hanno il diritto di veto. Brasile,
Messico, Indonesia, India, Germania e altri paesi potrebbero
richiedere – e l’hanno anche fatto – una ristrutturazione del Consiglio
di sicurezza che rifletta il nuovo ordine mondiale del XXI secolo. Ma
è una diatriba che dura da oltre cent’anni, e nel prevedibile futuro la
bandiera, e la struttura, dovrebbero rimanere immutate.
Agli occhi di qualcuno, i cerchi concentrici possono apparire
inquietanti, come se il mondo fosse nel mirino di una razza aliena.
Per chi non indossa il cappello di alluminio [che secondo una
credenza popolare dovrebbe proteggerci dalle radiazioni, n.d.t.] non
è così, ma naturalmente il disegno della bandiera ha scatenato le più
fantasiose teorie dei cospirazionisti. È palese, per esempio, che in
quella rappresentazione il mondo è piatto! Per giunta, in questi
ambienti si sa per certo che i rettiliani/i massoni/gli illuminati
inseriscono regolarmente messaggi cifrati nei loro simboli. Le
spiegazioni sulla difficoltà di disegnare un oggetto tridimensionale su
una superficie piatta non intaccano minimamente le loro convinzioni,
perché è molto più divertente vedere trentatré segmenti nei cerchi
concentrici, ricordare che trentatré è un numero ricco di significati
per gli illuminati e voilà, il gioco è fatto. Fortunatamente per noi,
questi teorici del complotto dedicano la maggior parte del tempo a
litigare tra di loro su quale delle loro verità debba essere la verità,
perciò lasciano in pace i comuni mortali.
Nei weekend l’unica bandiera che sventola sul palazzo delle
Nazioni Unite a New York è la bandiera dell’organizzazione, salvo
che non sia in corso una riunione importante. Il fatto che vi si
tengano di rado riunioni nei fine settimana non dovrebbe essere una
sorpresa per chiunque abbia tentato di contattare l’ONU in quei
giorni. Anche lì si lavora dal lunedì al venerdì.
Le bandiere degli stati nazionali vengono alzate ogni giorno alle
8.00 (tranne nei weekend) e ammainate alle 16.00 da uno staff di
una decina di persone. L’operazione dura mezz’ora. Ogni bandiera,
per regolamento, misura 1,20 metri per 1,80, con un rapporto
altezza-larghezza di 2:3. Questa uniformità dovrebbe evitare la
sindrome del «la mia bandiera è più grande della tua», ma anche il
rispetto della regola ha creato qualche problema. Molte bandiere
hanno altri rapporti altezza-larghezza, il che ha indotto vari
ambasciatori, dignitari e persino capi di governo a lamentare il fatto
che la propria bandiera sembra allungata o un po’ alterata.
La linea delle bandiere, che segue l’ordine alfabetico inglese, si
snoda da nord a sud lungo la First Avenue di New York. Quando c’è
vento, cosa che sul fiume Hudson avviene abbastanza spesso,
offrono un bello spettacolo. Ma il messaggio insito in quello
spettacolo è complicato. Il vessillologo più autorevole della Gran
Bretagna, Graham Bartram, è ottimista: «In questi ultimi anni mi
sono convinto che in realtà quello che c’è sulla bandiera non conta
affatto. Uno degli errori che commettiamo è assumere che sia
l’immagine a conferire alla bandiera il suo potere evocativo… Ma è
ciò che significa per qualcuno, e il fatto di appartenergli, insieme con
decine di milioni di altre persone, a creare quel potere».
La bandiera dell’ONU dovrebbe rappresentare tutti i 7 miliardi di
persone che popolano la Terra, visto che dopotutto le nazioni siamo
noi, e la U sta per «unite». Inevitabilmente, essendo formata da
esseri umani, anche l’ONU ha opinioni variegate al suo interno, e
suscita sentimenti multiformi e complessi. I suoi innumerevoli
comitati sono divisi non solo dalle rivalità tra gli stati membri, ma
anche da quelle tra blocchi regionali e religiosi. È difficile amare la
sua bandiera, ma è l’unica che abbiamo. E se non avessimo già una
bandiera e un’organizzazione che in teoria rappresentano l’intera
umanità, qualcuno dovrebbe inventarle. È ciò che facciamo.
La «bandiera internazionale del pianeta Terra» è una bella idea e
ha un disegno più che decoroso, ma se venisse adottata
ufficialmente come la «nostra» bandiera, verrebbe immediatamente
politicizzata. Dopotutto, chi la dovrebbe scegliere, e chi gestirebbe il
comitato? Chi parlerebbe per suo conto, e perciò per tutti noi? A
livello del pianeta, non siamo uniti. Quando vediamo persone o
gruppi con cui non siamo d’accordo ricoprire una certa carica, non
simpatizziamo con la loro bandiera. È così e basta.
Di solito le bandiere sono sinonimo di identità; identificano ciò che
le persone sono, ma identificano in parallelo anche ciò che non
sono. Ecco perché una bandiera nazionale o religiosa può fare tanta
presa sulla nostra immaginazione e sulla nostra passione. Tuttavia,
la bandiera dell’ONU non si pone in contrapposizione con un nemico
esterno, il che rende più difficile unirsi sotto di essa. Forse ci manca
l’immaginazione per vederci come un’entità unita con uno scopo
comune, e forse dovremo attendere un attacco da Marte per
rendercene veramente conto.
Ma concludiamo con una prospettiva più ottimistica. Ciò che
abbiamo, in attesa che i nostri cugini del pianeta rosso vengano a
trovarci, sono le bandiere degli stati nazionali che sventolano davanti
al palazzo delle Nazioni Unite. Sono allineate una dopo l’altra e
rappresentano i raggruppamenti interni ai singoli stati nazionali. La
linea delle bandiere è una chiara e audace affermazione della nostra
diversità di colori, lingua e cultura, politica e tanto altro, e al tempo
stesso costituisce un promemoria del fatto che possiamo trovare
l’unità. Con tutti i nostri limiti, e tutte le nostre bandiere, siamo una
sola famiglia.
BIBLIOGRAFIA
Riferimenti generali
Le seguenti fonti sono le più preziose tra quelle che ho consultato
per la stesura di questo libro.
Introduzione
Guns, Drones and Burning Flags: The Real Story of Serbia vs
Albania, video pubblicato su YouTube il 17 ottobre 2015:
https://www.youtube.com/watch?v=WuUUGIn8QuE.
1. Stelle e strisce
Every race has a flag but the coon, Jos. W. Stern & Co., New York
1900: https://www.loc.gov/item/ihas.100005733/.
Hughes, Robert, American Visions: The Epic History of Art in
America, Knopf Publishing Group, New York 1999.
Luckey, John R., The United States Flag: Federal Law Relating to
Display and Associated Questions, rapporto del CRS per il
Congresso degli Stati Uniti, 14 aprile 2008:
https://www.senate.gov/reference/resources/pdf/RL30243.pdf.
Per la bandiera nazista gettata nel fiume Hudson: «Sunday
Spartanburg Herald», 4 agosto 1935.
The American Flag Project: http://www.theamericanflagproject.org/.
2. L’Unione e il Jack
Bartram, Graham, Flying flags In the United Kingdom, Flag Institute
Guide 2010.
Groom, Nick, The Union Jack: The Story of the British Flag, Atlantic
Books, London 2006.
Lister, David, Union Flag or Union Jack?, Flag Institute Guide 2014.
3. La croce e i crociati
A Democracia Portuguesa:
https://www.portugal.gov.pt/pt/gc21/portugal/democracia.
Buckley, Richard, Flags of Europe: Understanding Global Issues,
European Schoolbooks, Cheltenham 2001.
Lettera di Napoleone Bonaparte al Direttorio esecutivo di Parigi, 11
ottobre 1976:
http://www.radiomarconi.com/marconi/carducci/napoleone.html.
Schulberg, Jessica, Video: The Ridiculous Meaning of Europe’s
Flag, Explained, in «New Republic», 29 settembre 2014.
The European Flag, a cura del Consiglio d’Europa:
https://www.coe.int/en/web/about-us/the-european-flag.
Walton, Charles, Policing Public Opinion in the French Revolution,
Oxford University Press, Oxford 2009.
4. Colori d’Arabia
Guinness World Records 2015, MacMillan, Vancouver 2014.
Leithead, Alastair, Anger over «blasphemous» balls, BBC News, 26
agosto 2007.
5. Bandiere di paura
McCants, William, How ISIS Got Its Flag, in «Atlantic Magazine», 22
settembre 2015.
SITE Intelligence Group: http://ent.siteintelgroup.com.
6. A est dell’Eden
Bruaset, Marit, The legalization of Hinomaru and Kimigayo as
Japan’s national flag and anthem and its connections to the
political campaign of «healthy nationalism and internationalism»,
University of Oslo: Institutt for østeuropeiske og orientalske
studier, Oslo 2003.
Chinese National Flag: Five-starred Red Flag:
http://cn.hujiang.com/new/p478857/.
Constitution of the Peoples Republic of China [1982]:
http://www.npc.gov.cn/englishnpc/Constitution/node_2825.htm.
Kim Tu Bong and the Flag of Great Extremes, DailyNK.com, 20
giugno 2014.
Sun Tzu, The Art of War, Penguin Classic, London 2002 (tr. it., L’arte
della guerra, a cura di M. Conti, Feltrinelli, Milano 2013).
7. Bandiere di libertà
Barrett, A. Igoni, I remember the day… I designed the Nigerian Flag,
Al Jazeera, 3 settembre 2015.
Hill, Robert A. (a cura di), The Marcus Garvey and Universal Negro
Improvement Association Papers, vol. IX, Africa for the Africans
1921-1922, University of California Press, Berkeley 1995.
Shepperson, George, Notes on Negro American Influences on the
Emergence of African Nationalism, in «The Journal of African
History», 1(1960), n. 2, pp. 299-312.
Taiwo Akinkunmi: An Hero Without Honour, Online Nigeria, 15
gennaio 2007.
Universal Negro Improvement Association and African Communities
League: http://www.theunia-acl.com/.
8. Bandiere di rivoluzione
Advantages of the Panamanian Registry:
http://www.panamaembassy.co.uk/?page_id=115.
Carrasco, David – Sessions, Scott, Daily Life of the Aztecs: people
of the Sun and Earth, Greenwood Publishing Group, Westport
1998.
Corrispondenza ufficiale di Daniel J. Flood [1959]:
https://www.cia.gov/library/readingroom/docs/CIA-
RDP80B01676R000900030089-5.pdf.
Goethe, Johann Wolfgang von, Goethe’s Theory of Colours:
Translated from the German, with Notes, Cambridge University
Press, Cambridge 2014.
Jensen, Anthony K., Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), in
«Internet Encyclopedia of Philosophy»:
http://www.iep.utm.edu/goethe/.
Latin America Has Achieved Progress in Health, Education and
Political Participation of Indigenous Peoples in the Last Decade,
comunicato stampa a cura della Economic Commission for Latin
America and the Caribbean, 22 ottobre 2014.
Macaulay, Neill, Dom Pedro: The Struggle for Liberty in Brazil and
Portugal, 1798-1834, Duke University Press, Durham 1986.
Panama Canal Riots – 9-12 January 1964:
http://www.globalsecurity.org/military/ops/panama-riots.htm.
Abbasidi, dinastia
Abe, Shinzō
Agustín I, vedi Iturbide, Agustín de
Ahmadinejad, Mahmud
Akinkunmi, Michael Taiwo
al-Assad, Bashar
al-Din al-Hilli, Safi
al-Din, Salah (Saladino)
Aldrin, Buzz
Alessandro II di Russia
Alessandro Magno
Alfonso I del Portogallo
al-Husayn ibn Ali Himmat
al-Oraibi, Mina
al-Qassam, Izz al-Din
Amador Guerrero, Manuel
Américo, Pedro
Andrea, santo
Angus, re di Scozia
Anna di Gran Bretagna
Arafat, Yasser
Ariel, Richard
Armstrong, Neil
Asburgo, casato
Ashoka, imperatore
Bainimarama, Frank
Baker, Gilbert
Barbanera (Edward Teach)
Bartram, Graham
Bashir, Tahsin
Baxter, E.H.
Belgrano, Manuel
Bismarck, Otto von
Black Bart (Bartholomew Roberts)
Blair, Tony
Bolívar, Simón
Bonaparte, Napoleone
Braganza, casato
Brownell, Fred
Bullivant, Duncan
Bush, George W.
Camus, Albert
Carlo I d’Inghilterra
Carlo Magno
Carlotta Gioacchina del Portogallo
Carranza, Venustiano
Carter, Jimmy
Cash, Johnny
Chávez, Hugo
Chiang Kai-shek
Christie, Linford
Churchill, Winston
Clodoveo I
Colombo, Cristoforo
Comte, Auguste
Coubertin, Pierre de
Cranby, John
Crewe, conte di
Cromwell, Oliver
Custer, George Armstrong
Dačić, Ivica
de Gaulle, Charles
de Klerk, Frederik Willem
Decatur, Stephen
Defoe, Daniel
Depp, Johnny
Diem, Carl
Długosz, Jan
Dreyfus, René
Driver, William
Drozdoff, Leo
Duarte, Paulo Araújo
Dyreson, Mark
Egloff, Fred R.
Eisenhower, Dwight
Enrico VI di Svevia
Enrico VIII d’Inghilterra
Erdoğan, Recep Tayyip
Eriksson, Olof
Farah, Mohamed «Mo»
Fatimidi, dinastia
Ferdinando II d’Aragona
Filippo II di Macedonia
Flood, Daniel J.
Flores, Juan José
Flynn, Errol
Franklin, Tom
Fukuyama, Francis
Gadsden, Christopher
Gandhi, Mahatma
Garibaldi, Giuseppe
Garvey, Marcus Mosiah
Gheddafi, Muammar
Giacomo I d’Inghilterra
Giacomo II d’Inghilterra
Giacomo VI di Scozia, vedi Giacomo I d’Inghilterra
Gilmour, John
Giorgio, santo
Giovanna d’Arco
Giovanni VI di Braganza
Goethe, Johann Wolfgang von
Goffredo di Monmouth
Griffith, D.W.
Grynevickij, Ignatij
Guardia, Ernesto de la
Guglielmo I d’Orange
Guglielmo I il Conquistatore
Guglielmo III di Orange-Nassau
Hadi, Mahdi F. Abdul
Hailé Selassié I
Haslund, Henning
Hefford, colonnello
Heitz, Arsène
Herzl, Theodor
Hirohito
Hitler, Adolf
Hopkinson, Francis
Hughes, Charles Evans
Huntington, Samuel P.
Hussein, nipote di Maometto
Hussein, Saddam
Isabella di Castiglia
Ishikawa, Toshihiro
Ismay, Hastings Lionel
Iturbide, Agustín de
James, Jesse
Jindal, Naveen
Jinnah, Muhammad Ali
Johns, Jasper
Johnson, Charles
Johnson, Gregory Lee
Jonathan, Goodluck
Kamehameha I delle Hawaii
Kamehameha II delle Hawaii
Kamehameha III delle Hawaii
Kassig, Peter
Kennedy, Anthony
Kenyatta, Jomo
Key, Francis Scott
Khomeyni, Ruhollah
Kim Il-sung
Kim Jong-il
Kim Jong-un
Kim Tu-bong
Kim, famiglia
King, Martin Luther Jr.
Kperogi, Farooq A.
Lacey, Robert
Laden, Osama bin
Lane, Franklin K.
Lawrence d’Arabia (Thomas Edward Lawrence)
Lebedev, Nikolai
Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov)
Leopoldo V
Lévy, Paul M.G.
MacArthur, Douglas
Macaulay, Neill
Madison, James
Mandela, Nelson
Mao Tse-tung
Maometto
Map, Walter
Mar, conte di
Marley, Bob
Martino, santo
Marx, Karl
Mazzini, Giuseppe
McLaughlin, Donald
Meagher, Thomas Francis
Mencken, H.L.
Menelik I
Menelik II
Milk, Harvey
Mirabeau, Honoré-Gabriel Riqueti conte di
Miranda, Francisco de
Mitrović, Stefan
Morales, Evo
Morinaj, Ismail
Moscone, George
Mubarak, Hosni
Mussolini, Benito
Nadimi, Hamid
Nasrallah, Hassan
Nennio
Newton, Robert
Nkrumah, Kwame
Obama, Barack
Okoh, Theodosia
Olaniran, Sunday Olawale
Oliveira, Belchior Pinheiro de
Orwell, George
Osman I
Ossa de Amador, María
Owens, Jesse
Palafox y Mendoza, Juan de
Paulet, George
Pernefeldt, Oskar
Pétain, Philippe
Pietro I del Brasile
Pietro I il Grande
Poole Johnson, Gray
Poole, Lynn
Prieste, Harry
Puig, Manuel
Putin, Vladimir
Ramaphosa, Cyril
Rascal, Dizzee
Reagan, Ronald
Roof, Dylann
Ross, Betsy
Sagan, Carl
Salomone, re
Saud, Abd al-Aziz ibn
Savoia, dinastia
Senussi, dinastia
Shakespeare, William
Shepperson, George
Smith, Whitney
Springsteen, Bruce
Suárez, Leysi
Sun Tzu
Sykes, Mark
Tafari Maconnen, vedi Hailé Selassié I
Taft, William Howard
Tamerlano
Teixeira Mendes, Raimundo
Tennyson, Alfred
Tertitskiy, Fyodor
Thomas, Richard Darton
Thompson, Emma
Thomson, Charles
Tongzhi
Topelius, Zacharias
Trump, Donald
Valdemar II di Danimarca
Verdi, Giuseppe
Vittorio Emanuele II
Walden, Sidney
Warhol, Andy
Washington, George
Westendorp, Carlos
White, Charles Mowbray
Xi Jinping
Yousafzai, Malala
Zapata, Emiliano
Zeng Liansong
TAVOLE DELLE BANDIERE
Ti è piaciuto questo libro?
Vuoi scoprire nuovi autori?